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Capitolo
2
Dopo l’esilio nell’art. 2043 c.c. il danno
biologico torna a casa
Sommario
2.1 La Corte costituzionale crea il danno morale. - 2.2 Con la sentenza n. 372/1994 la Corte costituzionale ripudia se
stessa. - 2.3 Il nuovo diritto vivente dopo le sentenze-gemelle del 2003. - 2.4 La tipicità del danno non patrimoniale
cancella il danno esistenziale.
2.1La Corte costituzionale crea il danno morale
La vicenda del danno biologico ha inizio nel 1986, quando la Corte costituzionale (1),
pronunciandosi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c.,
nella parte in cui prevede la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante
dalla lesione di un diritto costituzionalmente tutelato (salute) soltanto nei casi di
danno non patrimoniale derivante da reato (art. 185 c.p.), esaminò la nozione di
danno non patrimoniale contenuta nell’art. 2059 c.c. per stabilire se tale disposizione fosse applicabile anche al danno biologico.
Alla luce della normativa, dei lavori preparatori, della giurispru- Corte cost. 184/1986
denza e della dottrina, la Corte affermò che nella nozione di
danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. deve ricomprendersi
soltanto il «danno morale».
A queste conclusioni la Corte giunse sottolineando i precedenti legislativi del risarcimento del danno non patrimoniale e l’esplicita dichiarazione, contenuta nella
relazione ministeriale al codice penale del 1930, in ordine al mutamento della
locuzione «danno morale» in quella di «danno non patrimoniale».
In primo luogo, la Corte ricordò che l’immediato «precedente» legislativo del risarcimento del danno non patrimoniale era costituito dall’art. 38 del codice penale
(1) Corte cost. 14-7-1986, n. 184.
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del 1889 e dall’art. 7 del codice di procedura penale del 1913. Questi articoli, nel
prevedere la riparazione pecuniaria per alcuni reati, prescindevano dalla causazione del danno.
L’art. 38 del codice penale Zanardelli prevedeva che «oltre alle restituzioni
e al risarcimento dei danni, il giudice, per ogni delitto che offenda l’onore
della persona e della famiglia, ancorché non abbia cagionato danno, può assegnare alla parte offesa, che ne faccia domanda, una somma determinata a
titolo di riparazione». L’art. 7 del codice di procedura penale del 1913,
allargando l’ambito dei delitti per i quali era consentita la riparazione pecuniaria,
stabiliva che «Il reato può produrre azione civile per il risarcimento del danno
e per le restituzioni. I delitti contro la persona e quelli che offendono la libertà individuale, l’onore della persona o della famiglia, l’inviolabilità del domicilio o dei segreti, anche se non abbiano cagionato danno, possono produrre
azione civile per riparazione pecuniaria».
L’art. 185 c.p., seguendo l’orientamento accolto dal codice di procedura penale del 1913, finalizzato all’allargamento delle ipotesi di riparazione pecuniaria, ha
esteso a tutti i reati (e non soltanto ad alcuni delitti) la citata riparazione, includendola nella generale nozione di risarcimento e definendo «non patrimoniale» il
danno morale.
Il secondo aspetto evidenziato dalla Corte costituzionale riguarda le ragioni del cambiamento dell’espressione «danno
morale» con quella di «danno non patrimoniale».
Tali ragioni sono state chiarite dalla relazione ministeriale al progetto definitivo del
codice penale del 1930, dove si fa riferimento alla scelta operata in sede di risarcimento di danni morali («Il carattere generale di tale principio, incompatibile con
una enunciazione di casi tassativi di applicabilità, mi ha indotto a non limitare la
risarcibilità del danno morale a casi particolari, come taluno aveva suggerito») e si
offre la ragione della nuova locuzione usata per indicare il danno morale: «Quanto
alla designazione del concetto, … la locuzione “danno non patrimoniale” è
preferibile a quella di “danno morale” tenuto conto che, spesso, nella terminologia corrente la locuzione di “danno morale” ha un valore equivoco e
non riesce a differenziare il danno morale puro da quei danni che, sebbene abbiano radice in offese alla personalità morale, direttamente od
indirettamente menomano il patrimonio».
Da ciò si ricava che, almeno nelle intenzioni del legislatore penale del 1930, il
danno non patrimoniale di cui all’art. 185 c.p. costituisce l’equivalente del danno
morale e che i danni incidenti sul patrimonio, direttamente o indirettamente, non
possono essere compresi nei danni non patrimoniali ex art. 185 c.p.
Se a tutto ciò si aggiunge che già la dottrina precedente al 1930, contraria alla
risarcibilità dei danni morali, era partita da una nozione ristretta dei medesimi e
aveva sottolineato che l’ansia, l’angoscia, le sofferenze fisiche o psichiche etc.,
appunto perché effimere e non durature, non sono compensabili con equivalenti
Perché l’art. 2059 parla di
danno non patrimoniale e
non di danno morale?
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Dopo l’esilio nell’art. 2043 c.c. il danno biologico torna a casa
monetari e non possono, pertanto, costituire oggetto di risarcimento; e se si aggiunge ancora che la giurisprudenza precedente al 1930 aveva finito con il ritenere esclusa, in via di principio, la risarcibilità dei danni morali, sempre partendo da
una nozione ristretta di questi ultimi, s’intende appieno, secondo la Corte costituzionale, l’ambito della nozione di «danno non patrimoniale» ex art. 185 c.p.
I lavori preparatori al codice civile vigente confermano quanto Lavori preparatori al codice
sopra precisato: la relazione della commissione reale al proget- civile
to del libro «Obbligazioni e contratti» definisce il danno morale «quello che in nessun modo tocca il patrimonio ma arreca solo un
dolore morale alla vittima» e la relazione ministeriale al vigente codice civile
così si esprime: «circa il risarcimento dei danni morali, ossia circa la riparazione o
la compensazione indiretta di quegli effetti dell’illecito che non hanno natura patrimoniale, si è ritenuto di non estendere a tutti la risarcibilità o la compensabilità
che l’art. 185 del codice penale pone soltanto per i reati».
Il legislatore chiarisce, poi, le ragioni della scelta contraria all’ulteriore (rispetto a
quella già operata dal codice penale del 1930) estensione della risarcibilità dei
danni morali, con queste parole: «La resistenza della giurisprudenza a tale estensione può considerarsi limpida espressione della nostra coscienza giuridica. Questa
avverte che soltanto nel caso di reato è più intensa l’offesa all’ordine giuridico e
maggiormente sentito il bisogno di una più energica repressione con carattere
anche preventivo». Da tali dichiarazioni emerge che il danno non patrimoniale è
un altro effetto dell’illecito (è, cioè, un danno-conseguenza, al pari di quello patrimoniale) e che il risarcimento dei danni non patrimoniali persegue scopi di più
intensa repressione e prevenzione estranei al risarcimento degli altri tipi di danno.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 184/1986, ricorda inoltre che la giurisprudenza successiva all’emanazione del vigente codice civile identificava quasi
sempre il danno morale (o non patrimoniale) con l’ingiusto perturbamento dello
stato d’animo del soggetto offeso e che la prevalente dottrina riconduceva il danno
non patrimoniale alla sofferenza fisica (sensazione dolorosa) o psichica.
Se, dunque, secondo il diritto vivente all’epoca della sentenza della Corte costituzionale n. 184/1986, l’art. 2059 c.c. era riferito al solo danno morale, lo stesso
articolo si riteneva applicabile soltanto quando dall’illecito civile, costituente anche
reato, derivasse, appunto, un danno morale.
Per distinguere il danno biologico dai danni morali e dai danni Distinzione tra dannopatrimoniali in senso stretto, la Corte costituzionale, con la ci- evento e danno-conseguenza
tata sentenza 184/1986, ha chiarito la struttura del fatto realizzativo della menomazione dell’integrità psicofisica del soggetto offeso; a tal fine,
ha premesso la distinzione tra danno-evento, al quale appartiene il danno biologico, e danno-conseguenza, al quale appartengono il danno morale e il danno patrimoniale.
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Capitolo 2
A questo proposito, la Corte ha distinto, da un lato, il fatto costitutivo dell’illecito
civile extracontrattuale e, dall’altro, le conseguenze dannose del fatto illecito.
Quest’ultimo si compone, oltre che del comportamento, anche dell’evento e del
nesso di causalità che lega il comportamento all’evento.
Ogni danno è, in senso ampio, una conseguenza: anche l’evento dannoso o pericoloso è, infatti, conseguenza del comportamento illecito. Tuttavia, è possibile
distinguere l’evento naturalistico che, pur essendo conseguenza del comportamento, è un aspetto costitutivo del fatto, dalle conseguenze dannose di quest’ultimo, legate all’intero fatto illecito (e quindi anche all’evento) da un ulteriore nesso
di causalità. Non esiste comportamento senza evento: il primo è il momento
dinamico e il secondo il momento statico del fatto costitutivo dell’illecito. Da
quest’ultimo, vanno nettamente distinte le conseguenze dell’intero fatto illecito,
causalmente connesse al medesimo da un secondo nesso di causalità.
Il danno biologico costituisce l’evento del fatto lesivo della salute, mentre il danno morale e il danno patrimoniale
appartengono, come detto, alla categoria del danno-conseguenza in senso stretto.
La menomazione dell’integrità psicofisica dell’offeso, che non è equiparabile al momentaneo turbamento psicologico del danno morale, costituisce l’evento
interno al fatto illecito, legato al comportamento da un nesso di causalità e al
danno morale da un ulteriore rapporto di causalità.
In senso ampio, dunque, anche l’evento-menomazione dell’integrità psicofisica del
soggetto offeso è una conseguenza, ma lo è rispetto al comportamento, mentre a
sua volta è causa delle ulteriori conseguenze dell’intero fatto illecito, conseguenze
morali o patrimoniali.
Danno biologico come danno-evento
Il danno morale, che si sostanzia nel transitorio turbamento
psicologico del soggetto offeso, è invece un danno-conseguenza del fatto illecito lesivo della salute e costituisce, quando
esiste, condizione di risarcibilità del medesimo.
Il danno biologico è un danno specifico, identificandosi con un tipo di evento; il
danno morale, invece, è un genere di danno-conseguenza, che può derivare da
una serie numerosa di eventi, così come un genere di danno-conseguenza, condizione obiettiva di risarcibilità, è il danno patrimoniale, che, a sua volta, può derivare da diversi eventi tipici.
Danno morale come dannoconseguenza
Equivalenza, per la Corte
cost., delle espressioni
«danno biologico», «danno
fisiologico» e «danno alla
salute»
Nell’effettuare la distinzione tra danno biologico e danno morale, la Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 184/1986,
ha posto le premesse per l’individuazione dei contenuti semantici delle varie espressioni usate successivamente da dottrina e
giurisprudenza.
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Dopo l’esilio nell’art. 2043 c.c. il danno biologico torna a casa
Secondo la Corte, possono essere indifferentemente usate le espressioni «danno
biologico» e «danno fisiologico», poiché entrambe pongono l’accento sull’evento
naturalistico interno alla struttura del fatto lesivo della salute. Se si intende anche
quest’ultima come la condizione di integrità psicofisica del soggetto offeso, la locuzione «danno alla salute» è equivalente alle precedenti espressioni.
Sennonché, il termine «salute» evoca prima di tutto il bene giuridico, costituzionalmente tutelato dall’art. 32 Cost. e offeso dal fatto realizzativo della menomazione dell’integrità psicofisica del soggetto passivo. In questo senso, la lesione
della salute è l’intrinseca antigiuridicità obiettiva del danno biologico o fisiologico
e appartiene a una dimensione valutativa distinta da quella naturalistica, alla quale
invece fanno riferimento le locuzioni «danno biologico» e «danno fisiologico». È,
pertanto, più corretto parlare di «lesione della salute» (e cioè del bene giuridico
salute, costituzionalmente garantito) e non di «danno alla salute», lasciando al termine «danno» l’accezione naturalistica che di regola assume in sede privatistica.
Tenuto conto di ciò, la Corte costituzionale precisa che può applicarsi l’art. 2059
c.c. se dalla lesione alla salute deriva, come conseguenza ulteriore rispetto all’evento della menomazione delle condizioni psicofisiche del soggetto offeso, un danno
morale, purché il fatto realizzativo del danno biologico costituisca anche reato.
A questo punto, però, nel ragionamento della Corte si inserisce L’«altra strada» indicata
il punto di svolta: «se nell’ordinamento non esistessero altre dalla Corte costituzionale
norme o non fossero rinvenibili altri principi relativi al danno
biologico e, pertanto, quest’ultimo fosse risarcibile solo ai sensi dell’art. 2059 c.c.
e cioè, salve pochissime altre ipotesi, soltanto nel caso che il fatto costituisca (anche) reato e relativamente ai soli (conseguenti) danni morali subiettivi, si porrebbe
certamente il problema della costituzionalità dell’art. 2059 c.c. Come lo stesso
problema si porrebbe se … si ritenesse che il risarcimento del danno alla salute
fosse riconducibile esclusivamente al combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e
185, secondo comma, c.p. L’art. 32 Cost., come si preciserà meglio oltre, verrebbe vanificato da una normativa ordinaria che ricondurrebbe il danno alla salute
ai soli artt. 2059 c.c. e 185 c.p. Esiste, tuttavia, un’altra strada per soddisfare
adeguatamente le esigenze poste dalla giurisprudenza in ordine al danno biologico».
Qual è questa «altra strada» indicata dalla Corte?
Una parte della dottrina fa rientrare il danno biologico nella Danno biologico: è un danno
categoria dei danni economici ex art. 2043 c.c., caratterizzati patrimoniale?
dall’obiettiva e diretta valutabilità in danaro, affermando che lo
stesso danno consiste nell’effetto dannoso della lesione dell’integrità psicofisica del
soggetto offeso, che rende il medesimo incapace, anche solo in parte, di ricevere
utilità dalla propria attività o dal mondo esterno.
Questa tesi, però, è stata respinta da Corte cost. 184/1986, nella quale si è chiarito che «soltanto il collegamento tra l’art. 32 Cost. e l’art. 2043 c.c., im-
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ponendo una lettura costituzionale di quest’ultimo articolo, consente di interpretarlo come comprendente il risarcimento del danno biologico: è la lettura costituzionale dello stesso articolo, correlato con l’art. 32 Cost., che soddisfa le esigenze
sottostanti a tutte le tesi proposte in materia».
In questa prospettiva, la Corte costituzionale ha precisato che l’art. 2043 c.c. è
una «norma in bianco», che indica espressamente l’obbligazione risarcitoria che
consegue al fatto doloso o colposo ma non individua i beni giuridici la cui lesione
è vietata. L’illiceità oggettiva del fatto che condiziona il sorgere dell’obbligazione
risarcitoria viene indicata unicamente attraverso l’«ingiustizia» del danno prodotto
dall’illecito. L’art. 2043 c.c. contiene quindi una norma giuridica secondaria
la cui applicazione presuppone l’esistenza di una norma giuridica primaria, perché non fa che stabilire le conseguenze dell’iniuria, dell’atto contra
ius, cioè della violazione della norma di diritto obiettivo.
Il riconoscimento del diritto alla salute come fondamentale diritto della persona comporta, allora, che l’art. 32 Cost. integra l’art. 2043 c.c., completandone il precetto primario,
imponendo il risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla lesione
della salute. L’ingiustizia del danno biologico e la sua risarcibilità discendono, quindi, direttamente dal collegamento tra gli artt. 32, co. 1, Cost. e 2043 c.c.
Il combinato disposto degli artt. 32 Cost. e 2043 c.c. ha avviato una rilettura
costituzionale di tutto il sistema codicistico dell’illecito civile. Dall’esperienza giudiziaria sono nati il danno alla vita di relazione, il danno alla sfera sessuale, il danno estetico non concretamente incidente sulla capacità di guadagno etc.,
e sono state prese in considerazione, ad esempio, le ipotesi di piccole invalidità
permanenti non influenti sul reddito del soggetto nonché quelle relative a periodi
di malattia temporanea durante la quale il lavoratore ha continuato a percepire
l’intera retribuzione.
È l’art. 32 Cost. che, collegato all’art. 2043 c.c., fa sì che quest’ultimo non possa
essere riferito esclusivamente al danno patrimoniale o al danno economico derivanti dalla menomazione psicofisica: questi danni sono soltanto ulteriori ed eventuali conseguenze della lesione del bene «salute» prodotta dall’intero fatto lesivo,
compreso, ovviamente, l’evento della menomazione biopsichica.
Nozze dell’art. 2043 c.c. con
l’art. 32 Cost.
Se il legislatore rifiutasse la tutela risarcitoria (minima) a seguito
della violazione del diritto costituzionalmente dichiarato fondamentale, non lo tutelerebbe affatto, almeno nei casi esclusi
dalla predetta tutela. La solenne dichiarazione della Costituzione si ridurrebbe a
zero e il legislatore ordinario sarebbe arbitro dell’effettività della tutela.
Risarcimento ex art. 2043
c.c.: è la tutela minima necessaria
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Dopo l’esilio nell’art. 2043 c.c. il danno biologico torna a casa
2.2Con la sentenza n. 372/1994 la Corte costituzionale ripudia se
stessa
L’affermazione della risarcibilità del danno alla salute contenuta nella sentenza n. 184/1986 della Corte costituzionale rappresenta il primo punto
di riferimento di ogni discussione sul tema.
In tale decisione, come sopra evidenziato, si opta per la risarcibilità del danno
alla salute sulla base degli artt. 2043 c.c. e 32 Cost., senza ricorrere all’art.
2059 c.c., affermandosi che «oltre al risanamento, per sé, del danno biologico»,
qualificato danno-evento, laddove «si verifichino, a seguito del fatto lesivo, anche
danni-conseguenze di carattere patrimoniale (esempio lucro cessante), anch’essi
vanno risarciti, con altra autonoma voce, ex artt. 32 Cost. e 2043 c.c. Così, ove
dal fatto in discussione derivino danni morali subiettivi, i medesimi, in presenza,
nel fatto, anche del carattere di reato, vanno risarciti ex art. 2059 c.c.».
L’impianto giuridico sotteso alla sentenza del 1986 ha trovato sostanziale
adesione da parte della dottrina e della giurisprudenza successive.
Su tale impianto, che pareva aver raggiunto una sua stabilità, Corte cost. n. 372/1994
la Corte costituzionale è tornata con una sentenza del 1994 (2),
la quale ha rivisto i principali aspetti attinenti al danno biologico in generale.
La sentenza del 1994 rappresenta un vero e proprio ripudio della sentenza del
1986 e, con essa, del faticoso cammino della giurisprudenza degli anni ’80.
Le principali affermazioni della Corte costituzionale contenute nella sentenza del 1994, dalle quali non si può prescindere per fare il punto sul danno
biologico, possono ricapitolarsi come segue:
—il danno biologico, quale menomazione dell’integrità psicofisica della persona,
da valutarsi indipendentemente dai suoi riflessi sulla capacità produttiva di reddito, è un danno-evento e non un danno-conseguenza; si chiarisce, tuttavia, rispetto al precedente orientamento, che detto danno non si identifica con
la lesione, ma con il pregiudizio conseguente alla lesione dell’integrità
psicofisica (primo tipo di danno biologico risarcibile);
—la prova della lesione dimostra ex se l’esistenza del danno, salvo che
la lesione sia perfettamente guarita, in quanto sembra esclusa la configurabilità
di un danno biologico «temporaneo»;
—è pur sempre necessaria la prova del «quantum» del danno quale diminuzione o privazione del valore salute; il risarcimento deve essere commisurato
all’entità del pregiudizio con criterio equitativo;
—la norma da cui discende la risarcibilità del danno biologico è l’art.
2043 c.c., applicabile per analogia iuris; è quindi necessaria almeno la colpa
per fondare la responsabilità del danneggiante;
(2) Corte cost. 27-10-1994, n. 372.
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Capitolo 2
—fa parte del danno biologico la «parte riconducibile alla mera attitudine a produrre reddito»;
—la distinzione tra danno prevedibile e imprevedibile attiene solo ai
danni-conseguenza, per cui non si applica al danno biologico che è un
danno-evento. Questo passo della sentenza è assai poco chiaro: sembrerebbe,
infatti, che l’autore dell’illecito debba rispondere non solo del danno imprevedibile, ciò che si giustifica alla luce dell’art. 2056 c.c., ma anche dei danni imprevedibili, in contrasto con l’art. 1223 c.c., richiamato dall’art. 2056 c.c.;
—accanto al «danno biologico evento» è configurabile un «danno biologico
conseguenza» (secondo tipo di danno biologico risarcibile), quale momento
terminale di un processo patogeno, originato dal turbamento psichico integrante il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. Detto danno-conseguenza
rientra, per applicazione diretta, nello schema dell’art. 2059 c.c., quindi va ristorato indipendentemente dal giudizio di colpevolezza dell’autore;
—va distinta la lesione del diritto alla salute dalla lesione al diritto alla
vita (diritto personalissimo), non potendosi ritenere quest’ultima quale lesione
al massimo grado del bene salute; ne deriva che solo se tra la lesione e la
morte vi è una fase intermedia di malattia si realizza un danno alla
persona del leso, trasmissibile iure hereditatis in quanto il relativo
diritto al risarcimento è entrato nel patrimonio del de cuius (primo tipo
di danno risarcibile da morte di congiunto); in caso contrario, poiché la persona
del leso cessa istantaneamente di esistere, non sorge il diritto al risanamento di
un danno non sofferto;
—il pregiudizio patito dal deceduto (perdita della vita) è diverso da danno biologico patito dal familiare iure proprio a seguito dell’uccisione; la risarcibilità di tale
danno, che va qualificato quale danno-conseguenza e rientra nel campo di
applicabilità dell’art. 2043 c.c., viene esclusa non sotto il profilo sostanziale,
ma sotto il profilo probatorio ed empirico, in quanto è ritenuta impossibile in
concreto la prova della prevedibilità dell’evento della produzione di un danno
biologico in capo a un familiare (da ciò pare potersi, però, dedurre che, nei rari
casi in cui tale prova fosse possibile —- viene fatto l’esempio delle c.d. vendette trasversali, dove l’evento è addirittura voluto —, ci si troverebbe di fronte
al secondo tipo di danno risarcibile da morte di congiunto);
—è invece sicuramente configurabile un danno biologico da morte del congiunto, riconducibile nello schema di cui all’art. 2059 c.c. quale danno-conseguenza, con le caratteristiche e i limiti del danno non patrimoniale, se il danno
morale soggettivo, anziché esaurirsi nel patema d’animo, degenera in un trauma fisico o psichico permanente (terzo tipo di danno risarcibile per morte di
congiunto).
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Dopo l’esilio nell’art. 2043 c.c. il danno biologico torna a casa
2.3Il nuovo diritto vivente dopo le sentenze-gemelle del 2003
La vicenda del danno biologico, come sopra evidenziato, è iniziata sotto
l’egida dell’art. 2043 c.c.
Nel corso del tempo, però, si è affermata un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., secondo la quale la riserva di legge contenuta nell’art. 2059 c.c., che prevede la risarcibilità del danno non patrimoniale
«nei soli casi determinati dalla legge», non riguarda soltanto le ipotesi tassativamente previste da singole disposizioni normative, ma è una clausola aperta a un processo evolutivo affidato all’interprete attraverso la mediazione dei principi costituzionali.
È stato così superato il dogma che restringeva l’ambito applicativo dell’art. 2059
c.c. ai soli illeciti derivanti da reato. Come già evidenziato, infatti, all’epoca dell’emanazione del codice civile l’unica previsione espressa del risarcimento del danno non
patrimoniale era racchiusa nell’art. 185 c.p. del 1930. La giurisprudenza, nel dare
applicazione all’art. 2059 c.c., si consolidò nel ritenere che il danno non patrimoniale era risarcibile solo in presenza di un reato e ne individuò il contenuto nel
danno morale soggettivo, inteso come sofferenza contingente, turbamento dell’animo transeunte.
L’insostenibilità di questa lettura restrittiva è stata rilevata da Cass. 8827 e 8828 del 2003:
due importanti sentenze della Cassazione del 2003 (3), accoglimento di una noziogemelle nelle motivazioni, cui ha fatto seguito una sentenza ne ampia di danno non padella Corte costituzionale (4), nelle quali si è affermato che, nel trimoniale
vigente assetto dell’ordinamento, dove assume posizione preminente la Costituzione - che, all’art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo - il danno
non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da
rilevanza economica.
Sorreggono l’affermazione i seguenti argomenti:
—il cospicuo incremento, nella legislazione ordinaria, dei casi di riconoscimento
del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell’ipotesi di
reato, in relazione alla compromissione di valori personali (art. 2, L. 117/1998,
art. 2, L. 89/2001), con conseguente ampliamento del rinvio effettuato dall’art.
2059 c.c. ai casi determinati dalla legge;
—il riconoscimento, nella giurisprudenza della Cassazione (5), di quella peculiare
figura di danno non patrimoniale, diverso dal danno morale soggettivo, che è
il danno biologico, formula con la quale si designa la lesione dell’integrità psichica e fisica della persona;
(3) Cass. 31-5-2003, n. 8827 e 8828.
(4) Cass. 11-7-2003, n. 233.
(5) Cass. 6-6-1981, n. 3675.
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Capitolo 2
—l’estensione giurisprudenziale del risarcimento del danno non patrimoniale,
evidentemente inteso come pregiudizio diverso dal danno morale soggettivo,
anche in favore delle persone giuridiche (6);
—l’esigenza di assicurare il risarcimento del danno non patrimoniale, anche in
assenza di reato, nel caso di lesione di interessi di rango costituzionale, sia
perché in tal caso il risarcimento costituisce la forma minima di tutela, e una
tutela minima non è assoggettabile a limiti specifici, poiché ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi, sia perché il rinvio ai casi in cui la legge consente
il risarcimento del danno non patrimoniale può essere riferito, dopo l’entrata
in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale,
atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti la
persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne
esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al
massimo livello, di risarcimento del danno non patrimoniale.
La Cassazione ha abbracciato questa lettura costituzionalmente orientata
affermando che il danno non patrimoniale di cui parla l’art. 2059 c.c. si identifica, come detto, con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.
Il suo risarcimento richiede la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l’illecito civile extracontrattuale definito dall’art. 2043 c.c.
L’art. 2059 c.c. non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno
non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali,
nei casi determinati dalla legge, in presenza di tutti gli elementi costitutivi della
struttura dell’illecito civile, che si ricavano dall’art. 2043 c.c. (e da altre norme,
quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno,
connotato quest’ultimo dall’ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata,
di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza,
secondo l’opinione ormai consolidata) (7).
L’art. 2059 c.c. è una norma di rinvio alle leggi che determinano i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale. L’ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale si ricava dall’individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela.
Si tratta, in primo luogo, dell’art. 185 c.p., che, come visto, prevede la risarcibilità del danno patrimoniale conseguente a reato.
Altri casi di risarcimento anche dei danni non patrimoniali sono previsti, come
sopra evidenziato, da leggi ordinarie in relazione alla compromissione di valori
personali.
Regola della «tutela risarcitoria minima»
Al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio
della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti co-
(6) Cass. 3-3-2000, n. 2367.
(7) Corte cost. 27-10-1994, n. 372.
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Dopo l’esilio nell’art. 2043 c.c. il danno biologico torna a casa
stituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale
prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.
Per effetto di tale estensione, va ricondotto nell’ambito dell’art. 2059 c.c. il danno
da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno biologico, del quale, come già visto, è data, dagli artt. 138 e 139 D.Lgs. 209/2005,
una specifica definizione normativa (8).
In precedenza, come è noto, la tutela del danno biologico era apprestata grazie al
collegamento tra l’art. 32 Cost e l’art. 2043 c.c., per sottrarla al limite
posto dall’art. 2059 c.c., norma nella quale avrebbe ben potuto sin dall’origine
trovare collocazione.
Trova adeguata collocazione nella norma anche la tutela riconosciuta ai soggetti
che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (9),
concernenti la fattispecie del danno da perdita o compromissione del rapporto
parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto.
Eguale sorte spetta al danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all’immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona incisa
nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost. (10).
La rilettura costituzionalmente orientata dell’art. 2959 c.c., come Sistema bipolare del danno
norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimo- e tipicità del danno non
niale inteso nella sua più ampia accezione, ha riportato il siste- patrimoniale
ma della responsabilità aquiliana nell’ambito della bipolarità tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.).
Sul piano della struttura dell’illecito, articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l’evento dannoso, e dal danno che da quello
consegue (danno-conseguenza), le due ipotesi risarcitorie si differenziano in punto
di evento dannoso, e cioè di lesione dell’interesse protetto.
Sotto tale aspetto, il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato dall’atipicità, richiedendo l’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c. la
lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante, mentre il risarcimento del
danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perché è risarcibile solo nei casi
determinati dalla legge e nei casi in cui sia causato da un evento consistente nella
lesione di specifici diritti inviolabili della persona (11).
La risarcibilità del danno non patrimoniale postula, sul piano dell’ingiustizia, la
selezione degli interessi dalla cui lesione consegue il danno, selezione che
avviene a livello normativo, negli specifici casi determinati dalla legge, o in via di
interpretazione da parte del giudice, chiamato a individuare la sussistenza, alla luce
(8) Cass. 9-11-2006, n. 23918; Cass. 15-7-2005, n. 15022.
(9) Cass. 31-5-2003, n. 8827 e 8828.
(10) Cass. 14-10-2008, n. 25157.
(11) Cass. 9-11-2006 cit.
37
Capitolo 2
della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona necessariamente presidiato dalla minima tutela risarcitoria.
In ragione dell’ampia accezione del danno non patrimoniale, in
presenza di un reato è risarcibile:
—il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti costituzionalmente
inviolabili (come avverrà, nel caso del reato di lesioni colpose, ove si configuri
danno biologico per la vittima, o nel caso di uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione del rapporto parentale);
– il danno conseguente alla lesione di altri interessi inerenti la persona meritevoli
di tutela in base all’ordinamento (secondo il criterio dell’ingiustizia ex art. 2043
c.c.), poiché la tipicità, in questo caso, non è determinata dal rango dell’interesse
protetto, ma dalla scelta del legislatore di ritenere risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato (scelta che, comunque, implica la considerazione della rilevanza dell’interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale).
La coincidenza tra offesa criminale e danno civile riporta al concetto di dannoevento. In questo caso, l’ingiustizia è autoreferenziale: ogni disvalore discendente
da reato è ritenuto, per definizione, ingiusto. Il reato, allora, innesta una risarcibilità illimitata che non trova riscontro altrove.
Anche negli «altri casi determinati dalla legge» la selezione degli interessi è
compiuta dal legislatore.
Danno da reato
Fuori dai casi derivanti da reato e dagli altri casi determinati
dalla legge, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale è
consentita soltanto se è accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere, cioè, un’ingiustizia costituzionalmente qualificata. In
tali ipotesi, si concretizzano specifici casi di riparazione del danno non patrimoniale determinati dalle norme costituzionali.
È solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, come avviene, ad esempio, nel caso
di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di
«danno biologico». Ci si riferisce, in tal modo, a una figura che ha avuto espresso
riconoscimento normativo negli artt. 138 e 139 D.Lgs. 209/2005, che individuano il danno biologico nella «lesione temporanea o permanente all’integrità
psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito», e ne danno una definizione suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti
di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.
Ed è ancora a fini descrittivi che, nel caso di lesione dei diritti della famiglia (artt.
2, 29 e 30 Cost.), si utilizza la sintetica definizione di «danno da perdita del rapporto parentale».
Beni costituzionali inviolabili
38
Dopo l’esilio nell’art. 2043 c.c. il danno biologico torna a casa
In tal senso, e cioè come mera sintesi descrittiva, vanno intese le distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale)
adottate dalle sentenze gemelle del 2003, e recepite dalla sentenza 233/2003
della Corte costituzionale.
Le menzionate sentenze, d’altra parte, avevano avuto cura di precisare che non
era proficuo ritagliare, all’interno della generale categoria del danno non patrimoniale, specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo, e di rilevare che la
lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. doveva essere considerata
non come occasione di incremento delle poste di danno (e mai come strumento
di duplicazione del risarcimento degli stessi pregiudizi) ma come mezzo per colmare le lacune della tutela risarcitoria della persona.
Il catalogo dei casi in tal modo determinati non costituisce un numero chiuso, la
tutela cioè non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente
riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico ma, in virtù dell’apertura dell’art. 2 Cost. a un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete valutare, nel complessivo sistema costituzionale, se nuovi interessi emersi nella
realtà sociale siano non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango
costituzionale, attenendo a posizioni inviolabili della persona umana.
2.4La tipicità del danno non patrimoniale cancella il danno
esistenziale
La lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. com- Lettura costituzionalmente
porta che, non potendo il legislatore ordinario, per il principio orientata dell’art. 2059 c.c.
della gerarchia delle fonti, porre limiti alla risarcibilità dei valori
costituzionali della persona, anche a tali valori va riconosciuta la tutela minima,
ovvero quella risarcitoria.
Così interpretando l’art. 2059 c.c., si è rimasti nella tipicità del danno non
patrimoniale, in quanto si è ritenuto che esso è risarcibile non solo nei casi
espressamente previsti dalla legge ordinaria, ma anche nel caso di lesioni di specifici valori costituzionalmente garantiti della persona.
La conseguenza di ciò è che, ai fini dell’art. 2059 c.c., non può farsi riferimento
a una generica categoria di «danno esistenziale» (dagli incerti e non definiti confini), poiché, attraverso questa via, si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione dell’apparente tipica
figura categoriale del «danno esistenziale», nella quale confluiscono fattispecie non
necessariamente previste dal legislatore e tale situazione non è necessitata dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona, ritenuti inviolabili dalla norma costituzionale (12).
(12) Cass. 15-7-2005, n. 15022.
39
Capitolo 2
Pertanto, il risarcimento del danno non patrimoniale, fuori dall’ipotesi di cui all’art.
185 c.p. e dalle altre ipotesi legislativamente previste, attiene solo alle ipotesi
specifiche di valori costituzionalmente garantiti (la salute, la famiglia, la reputazione, la libertà di pensiero etc.), ma in questo caso non vi è un generico danno non
patrimoniale «esistenziale», ma un danno da lesione di quello specifico valore di cui
al referente costituzionale.
Non è sufficiente, quindi, come per il danno patrimoniale, che sussista una lesione
di una posizione giuridica considerata meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, sia pure a fini diversi da quelli risarcitori, ma è necessario, ai fini della risarcibilità ex art. 2059 c.c., che tale lesione attenga a valori della persona che la Costituzione dichiari inviolabili, e, come tali, oggetto almeno della tutela minima, che è
quella risarcitoria.
Ne consegue che la lettura, costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. va
tendenzialmente considerata non come occasione di incremento generalizzato
della poste di danno e nemmeno come strumento di duplicazione di risarcimento
degli stessi pregiudizi, bensì come mezzo per colmare una lacuna nella tutela risarcitoria della persona.
Pertanto, nell’art. 2059 c.c. trovano tutela solo le violazioni gravi di
diritti inviolabili della persona non altrimenti rimediabili.
Anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha riconosciuto che, sulla scorta
della rilettura dell’art. 2059 c.c., il danno non patrimoniale risarcibile deve essere
inteso come categoria nella quale trovano collocazione giuridica tutte le ipotesi in
cui si verifichi la lesione di beni o valori inerenti alla persona, ovvero sia il danno
morale soggettivo (o danno da reato, concretantesi nel turbamento dell’animo
della vittima), sia il danno biologico in senso stretto (o danno all’integrità fisica e
psichica, coperto dalla garanzia dell’art. 32 Cost.), sia il c.d. danno esistenziale
(recte, danno conseguente alla lesione di altri beni non patrimoniali di rango costituzionale) (13).
Alla luce di quanto sopra, l’art. 2059 c.c. giustifica il risarcimento del danno non
patrimoniale, al di fuori dei casi di illecito penale qualora si verifichi l’incisione
grave di diritti della persona garantiti dalla Costituzione, sulla base della categoria
dei diritti inviolabili ex art. 2 Cost. (14).
(13) Cons. Stato, sez. VI, 16-3-2005, n. 1096.
(14) Cons. Stato, sez. VI, 15-12-2005, n. 6960.
40
Capitolo
3
Danno biologico terminale
e danno morale catastrofale
Sommario
3.1 Il danno biologico terminale. - 3.2 Il danno morale catastrofale (o tanatologico). - 3.3 La legitimatio ad causam. - 3.4 Il rapporto tra giudizio risarcitorio e giudizio penale. - 3.5 Il danno biologico iure proprio degli eredi della
vittima. - 3.6 La compromissione della sfera familiare.
3.1Il danno biologico terminale
Il danno biologico terminale è il danno subito dalla vittima Nozione
nell’intervallo di tempo tra la lesione e la morte conseguente a tale lesione.
Con una sentenza del 2007 (1) la Cassazione ha riconosciuto il danno biologico
terminale subìto dalla vittima, ponendo in rilievo che la quantificazione in via equitativa va operata in relazione al pregiudizio sofferto, le cui caratteristiche peculiari
consistono nel fatto che si tratta di un danno alla salute che, sebbene temporaneo,
è massimo nella sua intensità.
In questi anni la giurisprudenza ha continuato a mantenersi sulla scia della configurazione del danno biologico come danno procurato alla salute della vittima e non
come danno consistente nella privazione della sua vita. Infatti, il bene «salute» e il
bene «vita» costituiscono beni autonomi e tutelati in forma diversa: il primo ammette una forma di tutela risarcitori e il secondo no, in quanto, essendo strettamente connesso alla persona del suo titolare, non se ne può concepire un’autonoma risarcibilità quando la persona abbia cessato di esistere.
Ne consegue che, in caso di morte di un individuo causata dall’altrui atto illecito,
(1) Cass. 28-8-2007, n. 18163.
Capitolo 3
se la morte è contestuale all’azione dannosa nulla è dovuto agli eredi a titolo di
risarcimento iure successionis del danno biologico sofferto dal loro dante causa,
in quanto questi non ha mai subito alcun danno biologico rigorosamente inteso.
In questa prospettiva si è precisato che il danno biologico terminale rientra
nel danno da inabilità temporanea, la cui quantificazione equitativa va operata tenendo conto delle caratteristiche peculiari del pregiudizio, consistenti nel
fatto che si tratta di un danno alla salute che, sebbene temporaneo, è massimo
nella sua entità e intensità (2).
In quanto danno da inabilità permanente, il danno biologico
terminale si verifica sempre quando intercorra uno
spazio temporale fra la lesione e la morte.
In questa prospettiva, l’apprezzabilità dello spazio temporale, richiesta dalla giurisprudenza consiste in una netta separazione temporale fra i due eventi che valga
a distinguere la loro verificazione nel tempo (3). Se sussiste questo requisito, il
danno biologico terminale è sempre esistente per effetto della percezione, anche
non cosciente, della gravissima lesione dell’integrità personale della vittima nella
fase terminale della sua vita (4).
Nel caso preso in esame da una pronuncia del 2012 (5) la vittima aveva perso la
vita dopo 12 ore di agonia. Il giudice di merito aveva ritenuto brevissima la sopravvivenza della vittima e, sulla base della gravità delle lesioni personali riportate,
aveva escluso una cosciente percezione da parte della vittima del proprio stato di
malattia durante la sopravvivenza. Di qui la determinazione equitativa di 1.000
euro, ritenuta dalla Cassazione palesemente irrisoria e incongrua dal punto di vista
logico-giuridico, poiché il danno va pur sempre quantificato in riferimento al situazione concreta, al fine di non rivelarsi meramente simbolica.
In altri termini, la quantificazione equitativa, come già precisato dalla giurisprudenza in casi analoghi (6), va operata avendo presenti sia il criterio equitativo puro
sia il criterio di liquidazione tabellare, purché tali criteri siano adeguatamente personalizzati dal giudice, ovvero adeguati al caso concreto.
Per il danno morale, invece, con la sentenza n. 26972/2008, le Sezioni Unite
hanno avuto modo di stabilire che, quando il fatto illecito integra gli estremi di un
reato, spetta alla vittima il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua più
ampia accezione, compreso il danno morale inteso quale sofferenza fisica causata
dal reato, che si trasmette agli eredi. Tale pregiudizio può essere permanente o
temporaneo (circostanze delle quali occorre tenere conto in sede di liquidazione,
ma irrilevante ai fini della risarcibilità) e può sussistere sia da solo sia unitamente
Scarto temporale fra lesione e morte
(2) Cass. 16-5-2003, n. 7632.
(3) Cass. 28-4-2006, n. 9959; Cass. 22-3-2007, n. 6946.
(4) Cass. 10-9-1998, n. 8970.
(5) Cass. 14-5-2012, n. 7499.
(6) Cass. 8-3-2006, n. 4980.
42
Danno biologico terminale e danno morale catastrofale
ad altri tipi di pregiudizi non patrimoniali (come quelli derivanti da lesioni personali e, come in questo caso, dalla morte di un congiunto).
Si tratta, infatti, di un danno che si configura nella sua più ampia accezione di
danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da
rilevanza economica, per cui nella categoria generale del danno non patrimoniale
la formula «danno morale» non individua un’autonoma sottocategoria di danno,
ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio,
costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata, sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini dell’esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.
3.2Il danno morale catastrofale (o tanatologico)
Il danno catastrofale, etichettato anche come «danno tanatologico» o «danno da
agonia», è il danno sofferto dal soggetto mentre attende lucidamente
l’estinzione della propria vita.
Tale danno può essere riconosciuto qualora la vittima abbia Esclusione del danno catasofferto un dolore di natura psichica, mentre, nel caso in strofale in caso di coma
cui, a seguito del fatto illecito, la vittima entri in stato di
coma e rimanga in tale condizione fino al decesso, non ha avvertito
lucidamente l’avvicinarsi della morte e, quindi, questo tipo di danno non
può essere riconosciuto.
Sotto tale profilo, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 26972/2008, hanno affermato che, in caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo, la sofferenza patita
dalla vittima durante l’agonia è autonomamente risarcibile non come danno biologico,
ma come danno morale, inteso come sofferenza della vittima che lucidamente assiste
allo spegnersi della propria vita, sempre che «sofferenza psichica vi sia stata e, dunque,
che la vittima sia stata in condizioni tali da percepire il proprio stato (il che va escluso
in caso di coma immediatamente conseguito all’evento dannoso)» (7).
Tale orientamento è stato ribadito recentemente dalla Cassazione, laddove ha stabilito che «in caso di morte della vittima a poche ore di distanza dal verificarsi di un
sinistro stradale (nella specie, sei o sette ore), il risarcimento del c.d. danno catastrofale — ossia del danno conseguente alla sofferenza patita dalla persona che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita — può essere riconosciuto agli
eredi, a titolo di danno morale, solo a condizione che sia entrato a far
parte del patrimonio della vittima al momento della morte. Pertanto, in
assenza di prova della sussistenza di uno stato di coscienza della persona nel breve
intervallo tra il sinistro e la morte, la lesione del diritto alla vita non è suscettibile di
risarcimento, neppure sotto il profilo del danno biologico, a favore del soggetto che
è morto, essendo inconcepibile l’acquisizione in capo a lui di un diritto che deriva
(7) Cass. 28-11-2008, n. 28423.
43
Capitolo 3
dal fatto stesso della morte; e, d’altra parte, in considerazione della natura non sanzionatoria, ma solo riparatoria o consolatoria del risarcimento del danno civile, ai
congiunti spetta in questo caso il solo risarcimento conseguente alla lesione della
possibilità di godere del rapporto parentale con la persona defunta» (8).
Va invece riconosciuto, come evidenziato nel paragrafo precedente, il danno
biologico consistente nella lesione dell’integrità psicofisica nel tempo
compreso tra l’insorgenza delle lesioni e il decesso.
Costituiscono massime consolidate nella giurisprudenza quelle secondo cui, in caso
di lesione dell’integrità fisica con esito letale, un danno biologico risarcibile in capo
al danneggiato, trasmissibile agli eredi, è configurabile qualora la morte sia intervenuta dopo un apprezzabile lasso di tempo, sì da potersi concretamente
configurare un’effettiva compromissione dell’integrità psicofisica del soggetto leso,
mentre non è configurabile quando la morte sia sopraggiunta immediatamente o
comunque a breve distanza dall’evento, giacché essa non costituisce la massima
lesione possibile del diritto alla salute, ma lesione di un bene giuridico diverso, e
cioè del bene della vita (9).
Anche qualche giorno di sopravvivenza alle lesioni è tale da consentire l’apprezzabilità, ai fini risarcitori, del deterioramento della qualità della vita in ragione
del pregiudizio della salute e consente, pertanto, la configurabilità del danno non
patrimoniale sotto il profilo biologico, il quale, come sopra evidenziato, deriva
dalla lesione del diritto alla salute e non dalla lesione del diritto alla vita. Ne consegue che, ai fini risarcitori, si deve prendere in considerazione l’intervallo di
tempo tra il momento in cui è iniziata la compromissione dell’integrità
psicofisica, gradualmente crescente, e quello in cui essa si è evoluta determinando il decesso della vittima (10).
Tornando al danno catastrofale, la consapevolezza in capo alla vittima
dell’imminenza della morte o della gravissima entità delle lesioni subite
consente che il danno dovuto alla sofferenza patita («morale» nell’accezione del
termine precedente a Cass. S.U. 26972/2008) possa essere fatto valere iure
hereditario, essendo già entrato a far parte del patrimonio della vittima al momento della sua morte (11).
Il danno, infatti, non è risarcibile (salvo che per il tempo di sopravvivenza) sotto il
profilo delle conseguenze negative della lesione sulla qualità della vita del soggetto
direttamente inciso, che connota il danno biologico, il quale, come s’è più volte
chiarito, consegue alla lesione dell’integrità psicofisica e, dunque, alla lesione del
diritto alla salute e non alla lesione del diritto alla vita.
Diritto alla vita
Il diritto alla vita, in una virtuale scala gerarchica, è sicuramente il primo tra tutti i diritti inviolabili dell’uomo ed è senza
(8) Cass. 24-3-2011, n. 6754.
(9) Cass. 9-5-2011, n. 10107.
(10) Cass. 20-4-2012, n. 6273.
(11) Cass. 13-1-2009, n. 458; Cass. 6-8-2007, n. 17177.
44
Danno biologico terminale e danno morale catastrofale
dubbio, in ogni contesto e con le più variegate modalità, ampiamente garantito,
ma non è suscettibile di essere tutelato, quando è leso da terzi che provochino la
morte di chi ne è titolare, a favore dello stesso soggetto che lo ha perso morendo.
Del tutto improduttive sono le disquisizioni sul se la morte faccia parte della vita o
se, contrassegnando la sua fine, sia estranea alla vita, così come è puramente retorico il rilievo secondo il quale, essendo il risarcimento del danno da lesioni gravissime assai oneroso per l’autore dell’illecito ed escludendosi, invece, la risarcibilità del danno da soppressione della vita a favore dello stesso soggetto di cui sia
provocata la morte, allora dovrebbe paradossalmente concludersi che sia economicamente più «conveniente» uccidere che ferire. Ed è del pari improprio affermare che, poiché la tutela minima di ogni diritto è quella risarcitoria, negare la risarcibilità del danno da lesione del diritto alla vita a favore del soggetto la cui vita si è
spenta per fatto imputabile ad altri, significherebbe incorrere in un’intima contraddizione proprio in ordine alla tutela del primo tra tutti i diritti dell’uomo.
La questione è un’altra: il risarcimento costituisce solo una forma di tutela conseguente alla lesione di un diritto (o di una posizione giuridica soggettiva qualificata,
pur se non assurgente al rango di diritto soggettivo) e consiste nel diritto, diverso
dal diritto inciso, a essere tenuto indenne, per quanto possibile, dalle conseguenze
negative che derivano dalla lesione del diritto stesso, mediante il ripristino del
bene perduto, la riparazione, l’eliminazione della perdita o la stessa compensazione, se la riparazione non è possibile. Ora, non solo non è giuridicamente concepibile che venga acquisito dal soggetto che muore un diritto che deriva dal
fatto stesso della morte (chi non è più non può acquistare un diritto che gli
deriva dal non essere più), ma è logicamente inconfigurabile la stessa funzione
del risarcimento che, in campo civile, non è sanzionatoria (funzione garantita invece dal diritto penale), ma riparatoria o consolatoria.
E in caso di morte, esclusa ovviamente la funzione riparatoria, neppure la tutela
con funzione consolatoria può essere attuata a favore del defunto.
Tale funzione va riconosciuta, invece, ai suoi congiunti, che hanno perso, in conseguenza della morte di una persona, la possibilità di godere del rapporto parentale con la persona stessa in tutte le sue possibili modalità attuative (12).
3.3La legitimatio ad causam
Secondo un consolidato principio giurisprudenziale, la legitima- Nozione
tio ad causam, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante l’indicazione di fatti in astratto idonei fondare il
diritto azionato, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa;
invece, la titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, attiene al
(12) Cass. 24-3-2011, n. 6754.
45
Capitolo 5
stente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile»; si tratterà, in tal caso, di un dannoconseguenza la cui ingiustizia è attestata dalla norma penale (che di per sé
marca la meritevolezza dell’interesse tutelato, dalla cui lesione discende il pregiudizio sofferto);
—in assenza di un reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purché conseguenti alla lesione di un
diritto inviolabile della persona, diverso da quello all’integrità psicofisica (altrimenti si parlerebbe tout court di danno biologico); esempi ne sono il pregiudizio, di tipo esistenziale, ma più comunemente descritto come «danno da perdita del rapporto parentale», conseguente alla lesione dei diritti inviolabili della
famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) provocata dalla perdita del congiunto; il pregiudizio conseguente alla violazione dei diritti inviolabili della famiglia spettanti al
coniuge del soggetto leso nella sua integrità psico-fisica (ipotesi dell’illecito che
cagionando a una persona coniugata l’impossibilità di rapporti sessuali è immediatamente e direttamente lesivo del diritto dell’altro coniuge a tali rapporti).
Anche la giurisprudenza più recente ha confermato che
non è ammissibile l’autonoma categoria del danno esistenziale, in quanto, se in essa si ricomprendono i pregiudizi
scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell’art.
2059 c.c., con la conseguenza che la liquidazione di un’ulteriore posta di danno
comporterebbe una non consentita duplicazione risarcitoria; qualora, invece, si
intendesse includere nella categoria i pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della
persona, la stessa sarebbe illegittima, poiché simili pregiudizi sono irrisarcibili alla
stregua dell’art. 2059 c.c. (3).
Cass. 3290/2013: ribadita
l’assenza di autonomia del
danno esistenziale
5.3Il «contenuto» del danno esistenziale
Secondo una tesi elaborata in dottrina nei primi anni ‘90, il
danno esistenziale è un pregiudizio non patrimoniale che
non attiene alla sfera interiore del sentire (pati) ma alla sfera del fare areddituale del soggetto.
Tale figura di danno è stata elaborata con il dichiarato intento di ampliare la tutela
risarcitoria per i pregiudizi di natura non patrimoniale incidenti sulla persona,
svincolandola dai limiti dell’art. 2059 c.c., seguendo la via, già percorsa per il
danno biologico, di operare nell’ambito dell’art. 2043 c.c., inteso come norma
regolatrice del risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello
non patrimoniale riguardante la persona.
Il «non poter più fare»
(3) Cass. 12-2-2013, n. 3290.
66
Il danno esistenziale è l’aspetto dinamico-relazionale del danno biologico?
Si affermava, quindi, che nel caso in cui il fatto illecito limiti le attività realizzatrici della persona, obbligandola ad adottare, nella vita di tutti i giorni, comportamenti diversi da quelli passati, si realizza un nuovo tipo di danno (rispetto al
danno morale soggettivo e al danno biologico) definito, appunto, danno esistenziale.
Il pregiudizio era individuato nell’alterazione della vita di relazione, nella
perdita della qualità della vita, nella compromissione della dimensione
esistenziale della persona, tutti pregiudizi diversi dal patimento intimo, costituente il danno morale soggettivo, perché consistenti non in una sofferenza, ma
nel non poter più fare secondo i modi precedentemente adottati, e non
integranti un danno biologico, in assenza di lesione all’integrità psicofisica.
Va rilevato che, nel quadro dell’art. 2043 c.c., nel quale veniva inserita la nuova
figura di danno, si risolveva nella descrizione di un pregiudizio di tipo esistenziale
(il peggioramento della qualità della vita, l’alterazione del fare non reddituale) non accompagnata dalla necessaria individuazione, ai fini del requisito dell’ingiustizia del danno, dell’interesse giuridicamente rilevante
leso dal fatto illecito.
Di questa carenza, non percepita dalla giurisprudenza di merito, Il danno esistenziale nella
favorevole a erogare tutela risarcitoria al danno esistenziale giurisprudenza meno recente
senza svolgere indagini sull’ingiustizia del danno, si era già accorta la Cassazione in varie pronunce precedenti alle sentenze n. 8827 e 8828
del 2003.
Con una sentenza del 2000 (4), pur discorrendo di danno esistenziale e impiegando il collegamento tra l’art. 2043 c.c. e le norme della Costituzione (nella specie,
gli artt. 29 e 30), analogamente a quanto all’epoca avveniva per il danno biologico, ravvisò il fondamento della tutela nella lesione del diritto costituzionalmente
protetto del figlio all’educazione e all’istruzione, integrante un danno-evento. La
decisione non abbracciava, quindi, la tesi che vede il danno esistenziale come categoria generale e lo considera risarcibile indipendentemente dalla lesione di un
interesse rilevante.
La menzione del danno esistenziale si rinviene anche in una sentenza del 2001 (5),
che ha definito esistenziale la sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche (e quindi in presenza di reato) alle quali segua, dopo breve tempo, la morte,
e sia rimasta lucida durante l’agonia, e ha riconosciuto il risarcimento del danno agli
eredi della vittima. Non si tratta, però, di danno esistenziale vero e proprio. Infatti,
nel quadro di una costante giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte
immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita e lo ammette per la perdita della salute solo se
(4) Cass. 7-6-2000, n. 7713.
(5) Cass. 2-4-2001, n. 4783.
67
Capitolo 5
il soggetto è rimasto in vita per un tempo apprezzabile (6), la sentenza del 2001
aveva inteso riconoscere il risarcimento delle sofferenze coscientemente patite in
quel breve intervallo. Viene in considerazione, quindi, il tema della risarcibilità della
sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di
morte che segua le lesioni dopo breve tempo, sofferenza che, non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico (a causa del limitato intervallo di tempo tra
lesioni e morte), non può che essere risarcita come danno morale.
Altre decisioni hanno riconosciuto, nell’ambito del rapporto di lavoro (e, quindi, in
tema di responsabilità contrattuale, ponendo questione sulla quale si tornerà più
avanti), il danno esistenziale da mancato godimento del riposo settimanale (7) e da
demansionamento (8), ravvisando in tali casi la lesione di diritti fondamentali del
lavoratore, e quindi ricollegando la risarcibilità ad un’ingiustizia costituzionalmente
qualificata.
Al danno esistenziale è stato dato ampio spazio dai giudici di
pace in relazione alle più fantasiose, e a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettibili di alterare il modo di esistere
delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l’errato taglio
di capelli, l’attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio
pubblico, l’invio di contravvenzioni illegittime, il mancato godimento
della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico. In tal
modo si sono risarciti pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall’individuazione
dell’interesse leso e, quindi, del requisito dell’ingiustizia.
Dopo le sentenze della Cassazione n. 8827 e 8828 del 2003, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., la tutela risarcitoria
di questo danno è consentita, oltre che nei casi determinati dalla legge, solo nel
caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona e, cioè, in presenza di
un’ingiustizia costituzionalmente qualificata.
La previsione della tutela penale costituisce un sicuro indice della rilevanza dell’interesse leso.
In assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, i pregiudizi di tipo
esistenziale sono risarcibili purché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile
della persona, ipotesi che si realizza, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento
della vita familiare provocato dalla perdita di un congiunto (danno da perdita
del rapporto parentale), poiché il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla
lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.). In questo caso,
vengono in considerazione pregiudizi che, in quanto attengono all’esistenza della
persona, per comodità di sintesi, possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che, tuttavia, possa configurarsi una autonoma categoria di danno.
I giudici di pace ampliano a
dismisura la fattispecie…
(6) Cass. 22-2-2012, n. 2564; Cass. 24-2-2003, n. 2775.
(7) Cass. 3-7-2001, n. 9009.
(8) Cass. 4-6-2003, n. 8904.
68
Il danno esistenziale è l’aspetto dinamico-relazionale del danno biologico?
Altri pregiudizi di tipo esistenziale attinenti alla sfera relazionale della persona, ma
non conseguenti a una lesione psicofisica e, quindi, non rientranti nell’ambito del
danno biologico (comprensivo, secondo giurisprudenza ormai consolidata, sia del
«danno estetico» sia del «danno alla vita di relazione»), saranno risarcibili purché
siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto all’integrità psicofisica, ipotesi che si verifica, ad esempio, nel caso dell’illecito
che, causando a una persona coniugata l’impossibilità di rapporti sessuali, è immediatamente e direttamente lesivo del diritto dell’altro coniuge a tali rapporti (9).
5.4La relazione turbolenta tra danno biologico e danno esistenziale
Per sciogliere il nodo dei rapporti tra danno biologico e danno esistenziale occorre, effettuare un’analisi critica del danno biologico, species strutturalmente autonoma del danno non patrimoniale, verificandone l’esatto contenuto in relazione al
danno esistenziale.
Occorre ricostruire brevemente l’evoluzione giurisprudenziale Evoluzione giurisprudenziadel danno biologico per ripulirlo dalle incrostazioni del passato. le del danno biologico
Dagli anni ‘80 e fino al maggio 2003, per risarcire il danno
biologico in tutte le ipotesi di lesione della salute (anche laddove non fosse stato
accertato l’elemento soggettivo della fattispecie criminosa, all’epoca ritenuto necessario ex artt. 2059 c.c. e 185 c.p., e in seguito definitivamente espunto con la
sentenza della Corte cost. n. 233/2003), la giurisprudenza e la dottrina prevalente
ne avevano radicato il presupposto normativo direttamente nell’art. 2043
c.c. Inoltre, la dottrina «esistenzialista» aveva ancorato a questa norma la risarcibilità di ulteriori pregiudizi conseguenti alla lesione di altri interessi tutelati dall’ordinamento.
Con questa impostazione era facile confondere il danno-conseguenza con l’interesse tutelato: ogni illecito contrattuale o extracontrattuale può causare nel creditore sofferenza, ansia, stress (talora angoscia) e mutamenti occasionali o temporanei (talora permanenti) delle abitudini di vita e degli assetti relazionali. Il risultato
comportava un’interpretazione abrogativa dell’art. 2059 c.c., che veniva relegato
alle sole ipotesi di danno morale.
Questa stagione deve ritenersi tramontata. Le più volte citate sentenze della Cassazione n. 8827 e 8828 del 2003 hanno imposto una rilettura non solo dell’art.
2059 c.c., ma anche dell’art. 2043 c.c., sulla scia di Cass. S.U. n. 500/1999.
L’art. 2043 c.c. disciplina una fattispecie atipica di responsabilità completa di
tutti i suoi elementi: il «danno ingiusto» non è riferito soltanto alla lesione di interessi patrimoniali, ma garantisce il risarcimento conseguente alla lesione di tutti gli
interessi meritevoli di tutela.
(9) Cass. 11-11-1986, n. 6607.
69
Capitolo 5
Con estrema chiarezza, Cass. 8827/2003 ha ribadito che il risarcimento del
danno non patrimoniale presuppone la sussistenza degli elementi nei
quali si articola l’illecito civile extracontrattuale definito dall’art. 2043
c.c. e ha aggiunto: «l’art. 2059 non delinea una distinta figura di illecito produttiva di danno non patrimoniale ma, nel presupposto della sussistenza di tutti gli
elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, consente, nei casi determinati
dalla legge, anche la riparazione dei danni non patrimoniali». L’art. 2059 c.c.,
dunque, non è il pendant dell’art. 2043 c.c., ma dell’art. 1223 c.c., poiché le
conseguenze dannose dell’illecito (contrattuale ed extracontrattuale) restano riconducibili all’art. 1223 cc, se aventi natura patrimoniale, ovvero all’art. 2059 c.c.,
se aventi natura non patrimoniale.
La rilettura critica degli artt. 2043 e 2059 c.c. consente di superare la nozione
di danno biologico come sinonimo di danno alla salute, poiché anche in
questo caso:
—deve essere individuata la lesione della salute, tutelata dall’art. 32 Cost.;
—si deve accertare la sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi ex artt. 2043
ss. c.c.;
—si devono accertare le conseguenze dannose patrimoniali (art. 1223 c.c.) e non
patrimoniali (art. 2059 c.c.), che solo in parte sono riconducibili al «danno
biologico», poiché quest’ultimo certamente non ricomprende anche il danno
morale soggettivo.
La medesima operazione logico-giuridica deve essere compiuta qualora vengano
lesi altri interessi della persona di rango costituzionale, come ad esempio l’onore
e il decoro, la libertà personale, il diritto ai rapporti parentali, il diritto di autodeterminazione nei trattamenti sanitari etc.
A differenza dell’art. 2043 c.c. (che consacra l’atipicità dell’illecito aquiliano), l’art. 2059 c.c., nel nuovo indirizzo giurisprudenziale, ha assunto «una funzione non più sanzionatoria, ma
soltanto tipizzante dei singoli casi di risarcibilità del danno non patrimoniale» (Corte cost. 233/2003).
Dunque, premessa indefettibile per la liquidazione del danno non patrimoniale è
che la fattispecie rientri in un caso specificamente previsto dalla legge ordinaria o
che sia stato leso un interesse di rango costituzionale inerente alla persona.
Il danno morale soggettivo va sempre riconosciuto in tutte le ipotesi in cui venga
applicato l’art. 2059 c.c.
La Cassazione evidenzia che «l’interesse all’integrità morale, la cui tutela, agevolmente ricollegabile all’art. 2 Cost., ove sia determinata un’ingiusta sofferenza
contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo» (10).
Art. 2059 c.c.: funzione tipizzante del danno non patrimoniale
(10) Cass. 31-5-2008, n. 8827.
70
Il danno esistenziale è l’aspetto dinamico-relazionale del danno biologico?
Ma in tutti i casi in cui si applica l’art. 2059 c.c., qual è l’effettivo contenuto del
danno non patrimoniale risarcibile?
Da una ricognizione dell’evoluzione giurisprudenziale sul danno Essenza del danno non panon patrimoniale si ricava che tutti i pregiudizi riconducibili al trimoniale
genus del danno non patrimoniale possono essere ricompresi
in due species:
—un patema d’animo (danno morale soggettivo), che attiene alla sfera interiore del soggetto;
—un danno che attiene alla sfera esteriore del soggetto, che può anche definirsi «esistenziale», in quanto pregiudizio che l’illecito «provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali
che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per l’espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno».
Conferme implicite di questa distinzione si ricavano da tutte le sentenze della Cassazione. Il danno morale soggettivo, dunque, inteso come il pretium doloris,
si identifica con la reazione emotiva immediata che cagiona l’illecito: un
misto di fastidio, spavento, angoscia e dolore. Il danno esistenziale,
invece, si fonda sulla natura non meramente emotiva e interiore (propria
del danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si
fosse verificato l’evento dannoso». Dunque il danno esistenziale non consiste in
meri dolori e sofferenze (11).
Può sostenersi, allora, che il danno biologico non sia altro che Danno biologico e danno
l’alterazione delle condizioni esistenziali di vita del soggetto e esistenziale: distinzione o
che, quindi, quando il giudice liquida il danno biologico, in de- coincidenza?
finitiva liquida il danno esistenziale? Oppure residuano pregiudizi ulteriori e diversi, meritevoli di tutela risarcitoria, dopo che siano stati liquidati il danno biologico
e il danno morale?
Per rispondere è opportuno l’esame della disciplina del danno biologico nel
D.Lgs. 209/2005 (Codice delle assicurazioni). Come già evidenziato, ai sensi
degli artt. 138 e 139 del Codice, «Per danno biologico si intende la lesione
temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile
di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività
quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre
reddito».
Dunque, il danno biologico non è la lesione del bene salute ma la conseguenza della lesione di tale bene, che deve essere considerato in relazione
all’integralità dei suoi riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività, le situazioni
(11) Cass. S.U. 24-3-2006, n. 6572.
71
Capitolo 5
e i rapporti in cui la persona esplica se stessa nella propria vita: non soltanto,
quindi, con riferimento alla sfera produttiva, ma anche con riferimento alla sfera
spirituale, culturale, affettiva, sociale, sportiva, e a ogni altro ambito e modo in cui
il soggetto svolge la sua personalità e, cioè, a tutte le attività realizzatrici della persona umana.
I valori tabellari, normativi e giurisprudenziali, liquidano uniformemente il danno biologico non personalizzato da particolari
situazioni soggettive e, quindi, le conseguenze della lesione
all’integrità psico-fisica sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali
della vita del danneggiato.
Il danno biologico non personalizzato va valutato dal medico-legale, sotto il
profilo anatomico-funzionale, in relazione alle possibili sfere di manifestazione
della personalità del danneggiato (produttiva, sportiva, relazionale etc.), ma queste
ultime sono considerate in astratto, perché il danno è, in concreto, tipizzato solo
per il grado della menomazione psicofisica, per l’età e il sesso del soggetto. Si
tratta, in definitiva, della compromissione della possibilità di svolgere gli
atti ordinari del vivere quotidiano.
Alcune generiche attività come lavarsi, vestirsi, camminare, leggere, andare al cinema etc. sono proprie di ogni essere umano di una certa età e sesso e possono,
quindi, ritenersi lese in presenza della menomazione psicofisica, senza la necessità
di uno specifico onere di allegazione e di prova, attraverso il ricorso alle nozioni di
fatto che rientrano nella comune esperienza (art. 115 c.p.c.).
Danno biologico non personalizzato
…. e danno biologico personalizzato
Il danno alla salute deve essere liquidato dal giudice con criteri
di elasticità e flessibilità, per adeguare la liquidazione all’effettiva
incidenza dell’accertata menomazione sulle attività della vita
quotidiana (12).
Il danno biologico personalizzato attiene, dunque, al danno biologico dinamicorelazionale ed è disciplinato con diverse modalità se conseguente a lesioni di lieve
entità (1-9%) ex art. 139, co. 3, D.Lgs. 209/2005, ovvero se conseguente a lesioni di non leve entità (10-100%) ex art. 138, co. 3, D.Lgs. 209/2005, tenendo
conto, rispettivamente, delle «condizioni soggettive del danneggiato» e della
incidenza della menomazione «su specifici aspetti dinamico relazionali
personali».
Il legislatore ha correttamente avuto riguardo, ad esempio, all’amputazione del dito
di una persona che pratichi l’hobby di suonare uno strumento musicale, o alla
menomazione permanente che provochi una maggiore usura lavorativa, a prescindere dall’eventuale prova della diminuzione della capacità di produrre reddito.
(12) Corte cost. 14-7-1986, n. 184.
72
Il danno esistenziale è l’aspetto dinamico-relazionale del danno biologico?
Pertanto, incombe sul danneggiato l’onere di allegare e, se contestate, di provare
le circostanze di fatto da cui possa dimostrarsi la sussistenza di tali ulteriori pregiudizi.
Come potrebbe negarsi che, procedendo nel modo delineato, il Il danno biologico personalizgiudice abbia in effetti liquidato il danno esistenziale? In definiti- zato esaurisce il risarcimenva, con la liquidazione del danno biologico personaliz- to del danno esistenziale?
zato il giudice ha liquidato al danneggiato esattamente il pregiudizio che
l’illecito provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita
e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per l’espressione e la realizzazione della sua personalità.
Pertanto, l’opzione tra «danno esistenziale», da un lato, e «danno biologico» (unitariamente inteso, nella componente non personalizzata e personalizzata), dall’altro, è meramente terminologica e non è ancorata ad alcuna differenza né sul
piano fattuale, né su quello giuridico.
Con la liquidazione del danno biologico e del danno morale soggettivo si esaurisce
l’area del risarcimento del danno non patrimoniale.
In conclusione, c’è duplicazione risarcitoria del medesimo pregiudizio se, sventolando acriticamente la bandiera del danno esistenziale, dopo aver liquidato il danno morale soggettivo e il danno biologico, si procede alla ulteriore liquidazione di
altre (asserite) voci di danno, quali ad esempio il danno alla capacità lavorativa
generica, la perdita (totale o parziale) della possibilità di praticare particolari hobbies
o altre specifiche attività non reddituali, il danno alla sfera sessuale, il danno estetico, il danno alla vita di relazione ed il danno alla qualità della vita.
Vale ancora oggi la rigorosa statuizione che conclude la sentenza n. 8827/2003:
il criterio interpretativo adottato non deve essere inteso come «occasione di incremento generalizzato delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione
di risarcimento degli stessi pregiudizi), ma soprattutto come mezzo per colmare le
lacune secondo l’interpretazione ora superata».
Per evitare il rischio di duplicazioni risarcitorie del medesimo pregiudizio, allorché venga accertata la lesione del bene salute, oltre al danno
morale soggettivo deve essere liquidato solo il danno che si potrebbe
definire «esistenziale-biologico».
Questa soluzione appare coerente con la disciplina positiva del danno biologico e
consente di valorizzare le peculiarità del danno non patrimoniale:
—l’accertamento medico-legale e dunque l’obiettiva verificabilità del pregiudizio
subito;
—la prova presuntiva della correlazione tra la menomazione psicofisica e le conseguenze sulle condizioni di vita del soggetto;
—il criterio risarcitorio standardizzato (sia dal legislatore, sia dalle tabelle degli
uffici giudiziari per il danno biologico non personalizzato), anch’esso ancorato
a elementi univoci e oggettivi (grado dell’invalidità ed età del soggetto).
73
Capitolo 7
giudizio diagnostico sulle infermità e sulle lesioni riscontrate. La commissione medico-ospedaliera esprime il proprio parere sul nesso causale
tra le infermità o le lesioni e la vaccinazione, la trasfusione, la
somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attività di servizio».
Al di fuori del procedimento amministrativo per la concessione dell’indennizzo, tali
verbali hanno lo stesso valore di qualunque altro verbale redatto da un pubblico
ufficiale fuori dal giudizio civile e in questo prodotto. Pertanto fanno prova, ex art.
2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o
essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenute costituiscono materiale indiziario
soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutarne l’importanza
ai fini della prova, ma non può attribuire a essi il valore di vero e proprio accertamento (50).
7.11 La responsabilità medica nel «decreto Balduzzi» (D.L.
158/2012, conv. dalla L. 189/2012)
Il D.L. 158/2012 (c.d. decreto Balduzzi), conv. dalla L. 189/2012, stabilisce
che il medico che si attiene alle linee giuda e alle buone pratiche accreditate dalla
comunità scientifica non è penalmente responsabile in caso di colpa lieve, fermo
restando l’obbligo risarcitorio ex art. 2043 c.c. (art. 3, co. 1).
L’intento del D.L. in esame è quello di determinare i casi di esclusione dalla
responsabilità per i danni derivanti dall’esercizio della professione sanitaria stabilendo che il giudice, nell’accertamento della colpa lieve, tiene
conto dell’osservanza, da parte di medici e infermieri, delle linee-guida
e delle buone pratiche della comunità scientifica nazionale e internazionale.
L’art. 3 cit. intende contenere la degenerazione del contenzioso giudiziario in
materia di malpractice medica e il conseguente innalzamento dei premi assicurativi, che rende sempre più difficile reperire sul mercato coperture assicurative
adeguate alle peculiarità dei rischi sanitari e alle disponibilità finanziarie dei singoli operatori sanitari.
A questo proposito, occorre ricordare che l’art. 3, co. 5, D.L.
138/2011, conv. dalla L. 148/2011, prevede che «a tutela del cliente, il professionista è tenuto a stipulare idonea
assicurazione per i rischi derivanti dall’esercizio dell’attività professionale».
Obbligo di copertura assicurativa
(50) Cass. 20-7-2004, n. 13449; Cass. 25-6-2003, n. 10128; Cass. 12-5-2003, n. 7201.
132
Il danno da malpractice medica
Nel settore sanitario, interessato da un forte incremento del contenzioso giudiziario e da un conseguente innalzamento dei premi delle polizze assicurative, basate
sul calcolo dei rischi derivanti dall’esercizio dell’attività professionale, l’obbligo
assicurativo potrebbe penalizzare alcune categorie di professionisti,
particolarmente esposte a tali rischi in ragione dell’occupazione e dell’attività svolta. Si tratta, in particolare, dei giovani medici che operano nel sistema
emergenza-urgenza, oppure titolari di specializzazioni più rischiose dal
punto di vista della responsabilità professionale, come la chirurgia, la ginecologia,
l’ostetricia, l’ortopedia, l’anestesia etc.
Analoghe problematiche si pongono per talune categorie di operatori sanitari, le
cui mansioni si configurano particolarmente delicate sotto il profilo della responsabilità: si pensi, a mero titolo di esempio, al caso dei tecnici di radiologia, alle
ostetriche etc.
Per tali soggetti la difficoltà di accesso alla polizze assicurative, Rischio di un incremento
determinata dai motivi sopra illustrati, è suscettibile di causare della medicina difensiva
notevoli criticità, che potrebbero sfociare in un ulteriore ampliamento delle pratiche di «medicina difensiva», cioè l’insieme di atti e
comportamenti posti in essere al fine di evitare i possibili contenziosi, determinando l’incremento dei costi a carico del Servizio sanitario nazionale.
A tale riguardo occorre considerare che la disciplina contrattuale relativa all’area
della dirigenza dei ruoli sanitario, professionale, tecnico e amministrativo, prevede
a carico delle Asl soltanto la copertura assicurativa della responsabilità civile derivante da colpa lieve, con esclusione delle ipotesi di dolo o colpa grave. In questi
casi gli oneri per la copertura assicurativa gravano sui professionisti interessati,
determinando le criticità evidenziate.
La questione è espressione di un tema più generale: non sempre il rischio inerente a una data attività può essere eliminato del tutto per effetto di condotte appropriate. Si parla, allora, di rischio consentito.
Esistono, in effetti, differenti categorie di rischio: rischi total- Categorie di rischio
mente illeciti, come per esempio accendere il fuoco accanto
a un deposito di esplosivi, e rischi totalmente leciti, come viaggiare in aereo,
fare una passeggiata nel bosco, gestire una società autostradale anche nel periodo
estivo che vede traffico e incidenti: si tratta di attività di cui l’ordinamento non si
interessa in un dato momento storico, perché si reputa che i rischi connessi siano
accettabili e non abbiano bisogno di governo.
Esiste, poi, un’ampia categoria più sfumata nella quale il rischio Rischio consentito
è consentito entro determinati limiti. Si tratta di attività che
comportano una misura di pericolosità in tutto o in parte ineliminabile
e che, tuttavia, si accetta che vengano esercitate perché riguardanti importanti ambiti produttivi, scientifici o medici. Il rischio non può essere
evitato ma deve essere governato, mantenuto entro determinati limiti.
133
Capitolo 7
Talvolta è difficile stabilire quale sia il punto di equilibrio che segna il passaggio dal
lecito all’illecito. Qualche volta vi provvede direttamente il legislatore o l’autorità
amministrativa, indicando le modalità dell’attività, ma nella maggior parte dei casi
questi vincoli di carattere normativo non si riscontrano e, anche quando si rinvengono, spesso non sono esaustivi. Infatti, le normative di prevenzione sono spesso
datate o inadeguate e, quindi, l’operatore è costretto a dover acquisire gli strumenti necessari per governare e cautelare al meglio il rischio di cui è gestore.
Questa incertezza conduce a un risultato assai impegnativo: l’arbitro che stabilisce
il punto di confine tra il lecito e l’illecito finisce per essere il giudice, con l’aiuto,
nella maggior parte dei casi, degli esperti. Ciò lascia intendere che l’apprezzamento in ordine al superamento dell’ideale linea di confine tra lecito e illecito va compiuto con prudenza.
Occorre, dunque, stabilire a quali condizioni il rischio possa essere accettato, anche
a tutela del sanitario cui è demandato il difficile compito di governare quel rischio.
È evidente che le linee-guida e i protocolli sono in grado di offrire indicazioni e punti di riferimento. Tuttavia, anche in questa
materia vi sono rilevanti problemi, perché occorre comprendere la logica nella
quale si è formata una prassi di comportamento. Spesso, infatti, le linee-guida
sono frutto di scelte totalmente economicistiche, e dunque non è detto che
una linea-guida sia un punto di approdo definitivo. Altre volte le linee-guida sono
obsolete o inefficaci; insomma, le linee-guida non sono, da sole, la soluzione
dei problemi.
Del resto, in dottrina si è manifestato il timore che le prassi applicative possano
fornire indebiti cappelli protettivi a comportamenti sciatti e disattenti: un comportamento non è lecito perché è consentito, ma è consentito perché è
diligente. Pertanto, il nucleo del problema è quello della valutazione della diligenza, ossia della violazione delle regole di prudenza che l’ordinamento impone, filtrata attraverso il raffronto con le prassi virtuose.
Limiti delle linee-guida
La giurisprudenza più antica in tema di colpa nell’esercizio della professione medica si caratterizzava per particolare larghezza,
affermando che la responsabilità può configurarsi solo nei casi
di colpa grave, cioè di macroscopica violazione delle più elementari regole dell’arte.
La motivazione di tale indirizzo è presto riassunta: la malattia può manifestarsi
talvolta in modo non chiaro, con sintomi equivoci, che possono determinare errori di apprezzamento e spesso non esistono criteri diagnostici sicuri.
Limitazione tradizionale
della responsabilità medica
ai soli casi di colpa grave
La colpa grave rilevante nell’ambito della professione medica si
riscontra nell’errore plateale, che trova origine:
—nella mancata applicazione delle cognizioni fondamentali attinenti alla
professione;
Errore plateale
134
Il danno da malpractice medica
—nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell’uso dei mezzi
manuali o strumentali adoperati nell’atto operatorio che il medico deve essere
sicuro di poter adoperare correttamente;
—nella mancanza di prudenza o di diligenza, che non devono mai difettare
in chi esercita la professione sanitaria.
Pertanto, dovendo la colpa del medico essere valutata dal giu- Il giudice «comprensivo»
dice con larghezza di vedute e comprensione — sia perché
la scienza medica non prevede, per la stessa malattia, un unico criterio tassativo
di cure, sia perché nell’arte medica l’errore diagnostico è sempre possibile —,
l’esclusione della colpa professionale trova un limite nella condotta del professionista incompatibile con quel minimo di cultura e di esperienza che deve pretendersi da chi è abilitato all’esercizio della professione medica (51). Insomma, l’esclusione della colpa è la regola e l’imputazione colposa è l’eccezione, che
si configura solo nelle situazioni più plateali ed estreme.
7.11.1 L’art. 2236 c.c.: norma «taglia-risarcimenti»
Il supporto normativo della tesi restrittiva suindicata, secondo la quale la responsabilità del medico scatta soltanto nei casi più gravi, è l’art. 2236 c.c., per il quale
se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà il
prestatore d’opera risponde dei danni soltanto in caso di dolo o colpa grave.
Per evitare che la norma diventi un salvacondotto per qualunque Art. 2236 c.c.: si applica
condotta negligente, la limitazione di responsabilità professionale soltanto in caso di imperizia
del medico chirurgo ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi
dell’art. 2236 c.c., è stata circoscritta dalla giurisprudenza esclusivamente alla perizia,
con esclusione dell’imprudenza e della negligenza. Infatti, anche nei casi di speciale
difficoltà, tale limitazione non sussiste con riferimento ai danni causati per
negligenza o imprudenza, dei quali il medico risponde in ogni caso (52).
Pertanto, il professionista risponde anche per colpa lieve quando per
omissione di diligenza e inadeguata preparazione provochi un danno
nell’esecuzione di un intervento operatorio o di una terapia medica.
In altri termini la limitazione della responsabilità del medico alle sole ipotesi di dolo o
colpa grave si applica unicamente ai casi che trascendono la preparazione media (53),
ovvero perché la particolare complessità discende dal fatto che il caso non è stato
ancora studiato a sufficienza, o non è stato ancora dibattuto con riferimento ai
metodi da adottare.
(51) Cass. pen. 1-2-2012, n. 4391.
(52) Cass. 18-11-1997, n. 11440; Corte cost. 22-11-1973, n. 166.
(53) Cass. 11-4-1995, n. 4152.
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