Etica della Comunicazione - Appunti di Scienze della Comunicazione

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Etica della Comunicazione
Adriano Fabris
Capitolo 1° - Etica e comunicazione
L’atto filosofico per eccellenza, è la riflessione sull’agire. La riflessione è ciò che può interrompere
lo svolgimento di altri atti, che può produrre una presa di distanze da ciò che stiamo facendo, allo
scopo di comprendere meglio una certa situazione e di trarre indicazioni per i comportamenti
futuri.
In occidente, fin dall’antichità, questa riflessione filosofica si rivolge ai nostri atti, al nostro agire, ai
nostri atteggiamenti, viene chiamata etica; si tratta di una riflessione sull’agire che risulta essere
l’agire proprio della filosofia.
Ma “etica” nomina anche il complesso dei criteri che guidano l’azione, i principi e le consuetudini
che regolano i comportamenti del singolo o di una comunità, sia in generale che in un determinato
periodo storico. Tali principi non sono assunti o scelti consapevolmente, ma costituiscono lo sfondo
condiviso dei nostri comportamenti quotidiani.
La parola “etica “ deriva dal greco ethos che significa “comportamento”, “costume”, ma anche
l’intimo legame di ogni comportamento alla dimensione della dimora e della comunità.
Infatti, l’agire può consolidarsi in un’abitudine, in un costume e questo è il costume condiviso dalla
comunità, quello capace di identificarla nei suoi specifici caratteri.
“Ethos” trova un unico corrispondente nel latino con il sostantivo mos, moris.
Infatti nelle lingue in cui il flusso del latino risulta determinante, si riscontrano due vocaboli: “etica”
e “morale” usati indistintamente per cogliere tanto l’ambito delle nostre azioni quanto la riflessione
su di esse; tanto la prassi individuale quanto la dimensione delle regole comuni.
In filosofia si è cercato di evitare ambiguità tra questi termini: così per indicare la riflessione
filosofica che ha per oggetto l’ambito della prassi umana si usano le espressioni filosofia
morale/etica filosofica. Mentre la ricerca che vuole stabilire la natura dell’etica e definire i metodi di
prova e dimostrazione in essa viene indicata con le espressioni meta-etica/meta-morale.
Infine la morale indica la sfera delle azioni umane nella loro concreta storicità; mentre l’etica
descrive la disciplina che le prende in esame e che ne fa il suo oggetto specifico.
Fin dal mondo greco, l’attività filosofica è sempre iniziata da un’interrogazione: le domande sono
sempre le stesse e servono ad individuare ciò che qualcosa è, e a descrivere i vari modi di questo
suo essere, per inserire ciò su cui ci si interroga in una più ampia rete di relazioni ricercandone gli
scopi.
Domande analoghe si ritrovano nell’etica, e riguardo all’agire ci si può chiedere che cos’è quello
che stiamo facendo e come un certo atto si configura.
DOMANDE DELL’ETICA:
Che cosa sto facendo? Come lo sto facendo? Spinto da quale istanza? E per quale scopo? Che cosa
debbo fare? Perché lo faccio o lo debbo fare? Che senso ha il mio agire?
Queste domande vengono estese a un’attitudine che si ritiene condivisa da ogni uomo.
Infatti la mossa filosofica intende condurre un discorso che valga non solo per il singolo uomo, ma
per tutti gli uomini.
Le questioni relative alla definizione dell’agire –cosa è e come si configura- risultano dominanti
nell’ambito dell’etica antica; mentre le tematiche relative al dovere contraddistinguono la tradizione
ebraico-cristiana e sono il riflesso di quella scissione fra ciò che l’uomo è portato a compiere e ciò
che invece gli viene richiesto da un’istanza superiore.
Il problema del senso dell’agire (perché io faccio o debbo fare qualcosa), emerge come problema
filosofico nel momento in cui viene meno la risposta religiosa.
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La definizione dei modi dell’agire mira ad individuarne le cause. Conoscendo tali cause, è possibile
ricavare previsioni su comportamenti futuri e fornire indicazioni su ciò che nell’agire stesso deve
essere perseguito.
ARISTOTELE: il suo tentativo di definire l’agire e di descriverne i processi si ricollega alla
concezione che egli sviluppa del bene in generale e del rapporto che l’agire ha con il bene. Il bene
è fine, scopo dell’azione umana. Raggiungere il bene, per Aristotele è un tendere naturale
dell’uomo. Ogni uomo persegue bene particolari: qualcosa che è bene per lui poiché corrisponde ai
sui desideri. Il bene da perseguire è il bene supremo, al quale ogni essere razionale per natura
tende. Per garantire il raggiungimento di questo bene, viene stabilito un ordine tra le facoltà
proprie dell’uomo: tra quelle che possono allontanare dal suo perseguimento, e quelle grazie alle
quali è possibile ottenerlo.
Ne consegue una gerarchia fra i beni, che vede i beni particolari subordinati alla prospettiva di una
più generale felicità (eudaimonia), concepita come bene supremo dell’uomo. La felicità è data dal
conseguimento della nostra autentica vocazione: dal raggiungimento di quell’equilibrio di vita che
trova il suo modello più alto nella figura del filosofo.
All’etica del bene, come fine a cui l’agire dell’uomo mira, si lega un’etica della virtù, come modo in
cui viene perseguito il bene (la parte razionale dell’uomo deve dominare le inclinazioni che possono
allontanarci dal nostro scopo).
ETICA DI ARISTOTELE: si cerca di instaurare un doppio equilibrio: l’equilibrio interno al singolo
uomo reso possibile dalla prospettiva di una vita buona nell’ottica del raggiungimento del bene;
l’equilibrio fra tutti gli uomini in cui l’individuazione del bene e il suo raggiungimento mirano
all’eliminazione di ogni conflitto.
La proposta aristotelica ha presupposti di base:
-la spiegazione dei processi dell’agire faccia comprendere anche le loro motivazioni, il loro senso.
-è possibile definire la natura umana in maniera fissa e univoca.
-non sussiste alcuna scissione tra ciò che faccio e ciò che debbo fare: il dovere non appare in
contrasto con la mia natura, ma ne rappresenta un’esplicazione.
Tali presupposti sono messi in discussione all’interno della TRADIZIONE EBRAICOCRISTIANA: emerge un’altra idea di etica che fa una distinzione tra ciò che io sono, ciò che
posso o voglio fare e ciò che debbo fare. La riflessione sul nostro agire deve assumere il problema
del male, nel rapporto tra la volontà di Dio e la volontà dell’uomo.
Mentre per Aristotele l’etica poggia sulla natura dell’uomo, nel contesto biblico essa viene fondata
sulla religione, ossia su un particolare legame che l’uomo può instaurare con il divino.
Ciò che Dio richiede all’uomo appare in contrasto con quello che l’uomo sarebbe portato per natura
a perseguire. Si delinea una scissione interna all’uomo stesso, fra ciò che egli è spinto di per se a
realizzare e ciò che, indotto da Dio, ritiene invece di dover fare. Dio stabilisce che cosa è bene fare
e cosa si deve fare per realizzare il bene (es. 10 Comandamenti).
Il comandamento fondamentale è quello dell’amore non solo nei confronti di Dio, ma anche del
“prossimo”; quindi deve essere contrastato l’egoismo, l’amor proprio (tendenze ben radicate nella
natura umana), a favore dell’apertura verso l’altro (atteggiamenti a loro volta insiti nell’uomo
stesso).
Nella tradizione ebraico-cristiana emerge una concezione non più statica, bensì dinamica
dell’essere umano. Al centro di questa etica viene posta una particolare idea di libertà: la libertà
dell’uomo di decidere di ubbidire o meno ai comandi divini. Tale libertà si trasforma dunque in
responsabilità. S’annuncia l’etica del dovere: l’azione è pensata come risposta libera a un comando
che viene considerato vincolante per le azioni di volta in volta compiute.
Questo modello di etica non viene abbandonato a dispetto della secolarizzazione dell’età moderna,
ma viene proposto a più riprese individuando altri criteri di giustificazione sia del principio del
dovere che dei suoi contenuti. Come accade alla fine del 700 con Immanuel Kant.
KANT: il dovere non è giustificato a partire da una rivelazione divina. Esso stesso si presenta alla
coscienza morale come principio dell’agire. Il dovere trova espressione nei modi di un comando, di
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un imperativo che si impone assolutamente alla coscienza dell’uomo. Questo comando non
prescrive qualcosa di determinato, ma risulta una funzione di riconoscimento: il criterio che
consente di riconoscere la moralità o meno di ciò che induce a compiere un’azione. In Kant il
principio del dovere non poggia su una rivelazione divina, ma al contrario Kant cercherà di
motivare l’ammissione dell’esistenza di Dio movendo da una tale assunzione da parte dell’uomo, di
quel principio della moralità che risulta insito in lui stesso. È la morale a diventare il fondamento
della religione.
NIETSCHE: nella seconda metà dell’800 ripensa la morale in un’epoca nella quale non si da più
per scontato il riferimento a Dio della tradizione ebraico-cristiana. Nietsche avanza il problema del
senso che un principio morale deve avere e mostra che tale senso non è giustificato a partire da
qualcosa che s’impone, come la rivelazione divina. Il senso delle nostre azioni risiede nel nostro
stesso volere.
PENSIERO DEL 900: si presenta il problema dell’agire, ossia dell’individuazione delle motivazioni
che mi spingono a fare qualcosa. La riflessione contemporanea segue due strade:
1) Filosofia continentale (Europa): giustificare la possibilità che un senso si possa dare non più nei
modi dell’imposizione ma in quelli del coinvolgimento (finiamo col muoverci nel nostro agire e nel
nostro pensare).
2) Filosofia analitica (ambito culturale anglo-americano): si rinuncia alla ricerca di un senso
complessivo e si dedica a un’analisi dei diversi modi in cui l’agire trova la propria esplicazione.
L’etica contemporanea deve fare i conti con il problema del senso, del “perché”, della motivazione.
Oggi interviene la TECNICA attraverso cui il senso dell’agire viene a risolversi nell’efficacia di una
prestazione. Gli sviluppi tecnologici hanno trasformato i modi in cui le azioni vengono compiute e i
criteri in base a cui possono essere pensate.
Viviamo nell’età della tecnica in cui gli strumenti tecnologici facilitano la vita, e grazie ai quali
siamo in grado di abitare io mondo e di sentirci ovunque a “casa”. Per questo siamo in grado di
sorprenderci sempre meno, dato che per ogni cosa c’è o ci può essere una spiegazione, e tutto o
quasi tutto si può prevedere.
Insomma lo scopo della tecnica è rendere il mondo ancora più comodo. Le procedure della
tecnica, elaborate per essere al servizio dell’uomo nel suo rapporto con il mondo, finiscono per
rendere l’uomo e il mondo stesso, qualcosa di funzionale a tali procedure.
La tecnica mostra un duplice volto: da un lato ci fa abitare il mondo in maniera sempre più
comoda, dall’altro è in grado di modificare, distruggere e annientare questo mondo stesso (2
guerre mondiali, attuale emergenza ecologica).
Oggi la tecnica è ciò che tende a riassorbire ogni comportamento nelle proprie procedure; quindi
non c’è più spazio per un’assunzione di responsabilità da parte dei soggetti individuali o collettivi.
Questo scenario ha sollecitato il riproporsi delle tradizionali domande etiche – sul che cosa, sul
come, sul perché facciamo o dobbiamo fare qualcosa- riguardo all’agire che si compie nell’età della
tecnica. Di fronte a tali problemi specifici e all’allargamento dell’etica generale sono nate le ETICHE
APPLICATE.
L’imporsi di una sempre più comprensiva immagine tecnica del mondo ha rotto quei limiti a partire
dai quali erano stati elaborati i precedenti modelli di etica.
Tre sono i limiti messi in discussione:
1)Limite relativo al potere dell’uomo di incidere sul mondo, sull’ambiente, sull’esistenza o meno
degli altri e di se stesso. Grazie all’uso delle tecnologie siamo in grado di trasformare, distruggere
la vita sulla terra; al contrario con le scienze biomediche siamo in grado dimodificare i processi che
riguardano la vita.
2)Limite che distingueva ciò che è “naturale” e ciò che è “artificiale”; limite oggi scomparso.
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3)Limite che poteva essere imposto all’agire dell’uomo da un comando superiore: dalla voce della
coscienza o da un ordine divino. L’agire, liberato da ogni costrizione, scopre di dover rispondere
solo a se stesso.
Il venire meno di questi limiti fa sorgere il problema della responsabilità che contraddistingue ogni
azione. È vero che grazie alla tecnica è possibile controllare gli effetti di ogni azione, ma controllarli
non significa esserne responsabili; inoltre effetti collaterali e imprevedibili scaturiscono dall’agire
illimitato della tecnica.
Di fronte a questa situazione, i modelli di etica del passato non bastano più. Non c’è più spazio per
un’etica fondata sull’essere o sulla “natura” dell’uomo; ma va elaborata una morale che sia
davvero all’altezza della mutata condizione dell’agire umano nell’epoca della tecnica. Vanno
ripensate le nozioni fondamentali dell’etica. Questo è ciò che hanno iniziato a fare le ETICHE
APPLICATE partendo dai vari campi dell’azione che in epoca recente hanno visto cambiare i loro
tradizionali punti di riferimento. Sono nate nuove discipline allo scopo di approfondire e valutare
l’impatto delle nuove tecnologie sui vari ambiti della nostra vita: la bioetica, l’etica sociale, l’etica
della comunicazione.
In tutti questi casi il concetto di “applicazione” indica il terreno concreto da cui nascono le
domande relative ai nostri comportamenti.
Nel campo delle etiche applicate non si ha a che fare con il meccanico utilizzo di criteri generali di
comportamento; ma al contrario si opera essendo costantemente consapevoli che solo su un
terreno particolare possono emergere questioni capaci di mettere in crisi anche i principi
universalmente validi.
Emerge un circolo virtuoso fra il livello sempre circoscritto delle etiche applicate e quello ben più
ampio dell’etica generale; le etiche applicate, che all’etica generale richiedono una giustificazione
ultima, consentono di mettere alla prova tali paradigmi e ne forniscono un’adeguata
contestualizzazione.
Capitolo 2° - Che cos’è l’etica della comunicazione?
Nell’ambito delle etiche applicate rientra anche l’etica della comunicazione, una disciplina nata nella
seconda metà del 900, sebbene l’attenzione per gli aspetti etici del linguaggio sia antica quanto la
filosofia.
Nella riflessione contemporanea l’etica della comunicazione ha trovato importanti sviluppi nell’area
culturale anglo-americana. In Italia, queste tematiche sono arrivate in ritardo, ma negli ultimi
decenni si è recuperato il tempo perduto, anche grazie a indagini provenienti dal campo dagli studi
della comunicazione di massa.
Perché sembra oggi indispensabile sottoporre i processi comunicativi ad un vaglio etico? Oggi, nel
mondo dominato dai mezzi di comunicazione di massa, vige una disattenzione per le regole e i
principi e sembra che nell’ambito comunicativo domini uno scarso rispetto per l’ascoltatore
(considerato come un bersaglio da colpire), un’insufficiente attenzione per le esigenze che
provengono dalle varie fasce di utenti (tutti subordinati indistintamente ai meccanismi della
pubblicità) e un abuso dei mezzi d’informazione. Emerge quindi un bisogno di etica.
Diviene urgente mostrare che nei processi comunicativi è necessario riferirsi ad alcuni principi di
comportamento e che tali principi devono risultare universalmente condivisibili: debbono
configurarsi come validi in generale.
Molti sono i principi condivisi ai quali è fatto riferimento nell’esercizio della prassi comunicativa: dal
criterio dell’utilità (dominante nelle comunicazioni di massa), al criterio della condivisione
(dominante nelle relazioni interumane che mirano al raggiungimento di un’intesa).
Il COMPITO DELL’ETICA DELLA COMUNICAZIONE consiste nel fondare in termini filosofici ciò
che può essere detto “buono” in un senso morale e di motivare all’adozione dei comportamenti
comunicativi che lo promuovono.
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Vi è la consapevolezza che tali principi non sono scelti da nessuno ma che vengono subiti sia dagli
operatori che dagli utenti; essi risultano interni ad una logica che finisce per autoalimentare i
processi della comunicazione e che è caratterizzata dall’intreccio di una certa idea di comunicare.
La condizione in cui si trovano ad agire gli operatori della comunicazione, ma nella quale anche noi
stessi viviamo, sembra essere quella di una diffusa irresponsabilità. Si ha la consapevolezza che
facendo comunicazione rischiamo di non essere più soggetti morali. Questo ci impedisce di
adeguarci ai principi di comportamento che sono impliciti nei meccanismi della comunicazione.
Questo ci motiva a elaborare un’etica della comunicazione come disciplina filosofica autonoma: il
fine è di riappropriarci delle nostre responsabilità.
Che cos’è IN GENERALE L’ETICA DELLA COMUNICAZIONE?
L’etica della comunicazione è la disciplina che individua, approfondisce e giustifica quelle nozioni
morali e quei principi di comportamento che sono all’opera nell’agire comunicativo, e che motiva
all’assunzione dei comportamenti da essa stabiliti.
Da un lato l’etica della comunicazione si configura al pari delle altre etiche applicate come la messa
in opera di quei principi morali che l’etica generale è deputata a fissare ed elaborare. Dall’altro lato
nel corso del 900 la nozione di “agire comunicativo” ha acquisito un ruolo emblematico e
determinante. Ciò è avvenuto in 2 modi:
1)E’ emerso che quando si parla di comunicazione si ha a che fare con un atto, con qualcosa di
dinamico e non già con un fatto che si compie seguendo una forma standard, fissa. Il comunicare
non appartiene all’ambito della natura, ma alla sfera della possibilità. Si apre una prospettiva di
ricerca che considera la comunicazione come un agire e ne analizza processi e scopi.
2)La consapevolezza di tale autonomia all’interno della comunicazione, ha comportato la “svolta
comunicativa” della filosofia contemporanea: il riconoscimento della funzione paradigmatica che gli
studi sulla comunicazione assumono nei confronti delle altre discipline che si occupano del
linguaggio, ma soprattutto l’assunzione del ruolo fondamentale che l’attività del comunicare gioca
all’interno del pensiero umano.
L’etica della comunicazione, in quanto etica applicata, fornisce le condizioni che consentono di
giustificare comportamenti universalmente riconosciuti come morali.
Che cosa significa comunicare?
La definizione classica del termine “comunicazione” dice che: “comunicare significa trasmettere
pensieri, idee, notizie, informazioni, dati (messaggi) ad altri”.
“Comunicare” significa “trasmettere”.
TERIA STANDARD: la comunicazione viene vista come un rapporto unilaterale fra un emittente
ed un destinatario, il quale è colui che riceve un messaggio. Tale messaggio è a sua volta
trasmesso in virtù di un contatto (canale) fra emittente e ricevente, che si configura secondo un
codice (lingua) e si riferisce ad un contesto. Roman Jakobson è stato il primo a riferirsi a questa
concezione, facendo riferimento alla teoria dell’informazione sviluppata nel secondo dopoguerra da
Claude Shannon. Lo scopo di Shannon era di ricercare il modo più efficiente per trasmettere i
segnali, evitando ambiguità, disturbi e rumori di fondo. Jakobson applica questa teoria all’ambito
della linguistica e la trasforma in un modello suscettibile di essere esteso ad ogni dimensione
comunicativa.
Fare “buona” comunicazione significa trasmettere in maniera efficiente, ottenere il massimo
risultato con il minimo sforzo, eliminare tutto ciò che provoca rallentamenti, disturbi, ridondanze,
ambiguità.
La comunicazione pubblicitaria è divenuta un esempio paradigmatico della comunicazione in
essa un messaggio formulato in maniera allettante viene trasmesso da un emittente a un ambito di
potenziali riceventi. Il messaggio è reso persuasivo facendo intervenire un testimonial. Chi è
destinato a ricevere il messaggio viene definito target. Una pubblicità è buona quando risulta
efficace, quando raggiunge il proprio bersaglio con il minor numero di errori e con il minor spreco
di risorse. La comunicazione pubblicitaria costituisce un’esemplificazione del modello standard.
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Comunicare bene significa comunicare in maniera efficace ed efficiente. Tale consapevolezza cioè
la presenza di altri paradigmi oltre a quello della trasmissione di un messaggio da un emittente ad
un destinatario, induce a ridimensionare la convinzione dell’universale applicabilità del modello
standard a ogni ambito della nostra esperienza.
Bisogna identificare una specifica forma di comunicazione che stia alla base della teoria standard e
a cui vadano riferiti i vari processi comunicativi sia per quanto riguarda il loro senso, sia per quel
che concerne i loro principi etici di riferimento.
Questo MODELLO BASILARE è quello per cui comunicare significa dischiudere uno spazio
comune di relazione fra interlocutori.
Comunicare non è fornire informazioni; “informare” significa trasmettere contenuti, recapitare
messaggi. Ma nell’ambito comunicativo avviene qualcosa di più,, che va oltre il mero scambio di
notizie.
Nell’informare il passaggio di notizie da un emittente ad un destinatario non risulta mai diretto:
l’emittente per colpire il suo target, deve tener conto della reattività del destinatario. Il destinatario
interviene su quanto gli è stato trasmesso dall’emittente, interpreta il messaggio che gli viene
inviato, si relaziona ad un contesto che può diventare sempre più condiviso  il ricevente ha
sempre diritto di risposta. Qui sta la differenza tra il modello dell’informazione e quello della
comunicazione:
-Infomazione: iniziativa sempre dell’emittente, feedback considerato successivo all’impulso
prodotto e conseguente ad esso.
-Comunicazione: interazione possibile sempre e in ogni momento, caratterizzata da una
simultaneità. Il feedback è previsto fin dall’inizio. È presente un coinvolgimento nel quale ogni
parlante è considerato interlocutore che coopera.
Il termine “comunicazione” deriva dal latino “communicatio” che indica il mettere a parte, il far
partecipe altri di ciò che si possiede.
“Comunicazione” non è linguaggio. Il linguaggio da un lato permette di mettere in relazione e
dall’altro costringe a separare coloro che sono coinvolti nei suoi processi. Il linguaggio si rivela al
tempo stesso “organo” e “ostacolo” della comunicazione. Mentre il linguaggio è occasione sia di
collegamento che di separazione, nella dinamica del comunicare c’è sempre l’intenzione di
raggiungere un’intesa.
Nel comunicare è racchiuso il compito etico di riconfermare la possibilità d’intesa già implicita nella
dinamica della linguistica. L’esigenza di un’etica della comunicazione nasce proprio in virtù di
questo collegamento rispetto alla separazione che ha nel comunicare la sua effettiva condizione di
possibilità.
Ci sono vari modi di creare uno spazio comune tra gli interlocutori e ci sono vari modi per gestire ,
con l’ausilio del linguaggio, questo spazio. I modi principali sono 3, e sono articolazioni dell’etica
della comunicazione:
1)APPROCCIO DEONTOLOGICO: riguarda le varie categorie professionali di comunicatori. Il
termine “deontologia” rimanda alla sfera del dovere nella misura in cui è prescritto da un’istanza
riconosciuta come normativa. Con l’emergere dell’aspetto deontologico si delinea l’esigenza di una
regolamentazione dei processi comunicativi. Storicamente questa esigenza era stata avvertita da
categorie professionali quali giornalisti, comunicatori…che aveva bisogno che venissero stabiliti
limiti precisi per l’attività che essi erano chiamati a compiere. Tali limiti debbono risultare da
un’autoregolamentazione che viene compiuta all’interno degli ambiti professionali coinvolti.
Nascono i vari codici deontologici, ossia quelle indicazioni di comportamento per gli operatori della
comunicazione nelle quali viene stabilito ciò che è lecito e ciò che non è lecito fare nell’esercizio di
tale professione; vengono anche indicate le sanzioni previste per i trasgressori.
Tuttavia l’applicazione di questi codici deontologici con relative sanzioni non costituiscono un valido
deterrente per evitare i comportamenti scorretti.
L’approccio deontologico risulta circoscritto a coloro che si riconoscono in una particolare
categoria. Il limite dei codici è inerente alla loro stessa natura. Con il riferimento ad essi si ritiene
di poter fornire una risposta giuridica a questioni di carattere etico. Le questioni etiche che
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concernono la libertà e la responsabilità dell’uomo non possono ricevere risposte provenienti da un
ambito diverso. Ecco perché bisogna elaborare una etica della comunicazione capace d’interessare
non solo gli addetti ai lavori, ma tutti coloro che sono coinvolti nei processi comunicativi.
Ciascun interlocutore risulta caricato di una responsabilità, nel senso che si riconosce vincolato a
prescrizioni provenienti dall’area professionale a cui appartiene e trova in se stesso la motivazione
del proprio agire. Introducendo la nozione di “responsabilità” arriviamo al terreno dell’etica.
Il termine “responsabilità” è legato al verbo “rispondere” in particolare “rispondere a” qualcosa o
qualcuno e “rispondere di” qualcosa o qualcuno.
Nel caso del “rispondere di”, non replico ad un’iniziativa altrui, ma sono io che mi faccio carico di
un potere nei confronti di qualcuno/qualcosa. Sono io che con la mia iniziativa mi rapporto a
qualcosa d’altro su cui sono in grado di incidere.
Storicamente tale atteggiamento è stato pensato nei termini dell’agire secondo cause. Il vocabolo
greco “aitia” esprime questa forma di responsabilità nei confronti di uno stato di cose.
Dal 600 viene considerata decisiva la “causa efficiente” per cui qualcosa provoca effetti su
qualcos’altro. Ciò che conta è il nostro potere d’agire su una situazione, dando il via ad uno
specifico processo. Noi siamo responsabili in quanto siamo in grado di dare inizio a qualcosa.
Emerge il nesso tra responsabilità e libertà. Un soggetto libero è responsabile moralmente oltre
che tecnicamente. Il legame tra responsabilità e libertà viene approfondito da KANT con il
concetto di “imputabilità”; infatti c’è una differenza d’intenzione tra l’essere responsabili di
qualcosa e l’aspetto giuridico e morale di questa responsabilità. C’è l’idea di una causalità non solo
meccanica che deve accompagnarsi con la libertà. Negli anni Kant arriva a questo con la “Critica
della ragion pratica”. Io sono capace di dare avvio, in maniera autonoma a un processo che io ho
in carico, perché posso determinare le conseguenze delle mie azioni.
Il significato che assume l’essere imputabile è dato dalla presenza di un’istanza superiore, e solo se
le mie scelte vengono sottoposte al vaglio di una tale istanza che le giudica, posso comprendere la
mia responsabilità morale.
Questa istanza può assumere varie forme: può essere connotata religiosamente, oppure
identificarsi con un complesso di principi socialmente e culturalmente assunti; può trovare
sanzione giuridica o essere riconosciuta dalla coscienza morale.
Si è responsabili perché si accetta di rispondere con i propri atti a ciò che si riconosce come
vincolante. Questo elemento vincolante è ritenuto capace di annunciarsi e d’interpellarmi
richiedendo da me una risposta. Si è responsabili perché si accetta di sottoporsi a un vincolo.
Emergono 2 tipi di responsabilità:
A)la responsabilità del soggetto che da inizio ad un processo
B)la responsabilità di colui che liberamente assume qualcosa che non dipende da lui.
Da un lato spesso ci sentiamo deresponsabilizzati di fronte a ciò che non dipende da noi e dall’altro
rivendichiamo la nostra responsabilità per tutto ciò che ancora riteniamo di poter fare.
Una soluzione può essere data facendo leva sui sensi di responsabilità. Infatti da un lato possiamo
ritenere di essere responsabili solo di ciò che è in nostro potere e dall’altro possiamo rispondere
anche di ciò che non lo è decidendo di ritenerci vincolati a quanto s’impone come orizzonte morale,
sia assumendo in prima persona un insieme di eventi che non siamo noi a provocare.
Questo vale se il concetto di responsabilità viene assunto come indice del fatto che non tutti i
problemi concernenti l’agire dell’uomo possono essere risolti mantenendosi nekl rispetto della
semplice legalità, vi è in fatti un livello morale.
2)ETICA DELLA COMUNICAZIONE: l’inserimento di ciascun interlocutore nei processi
comunicativi non rappresenta una scusante per esimersi dall’adottare un comportamento morale. È
vero che non possiamo essere ritenuti responsabili di tutto ciò che facciamo, ovvero ne siamo
responsabili in un senso causale ma non ci riteniamo tali in un senso morale, dal momento che
non è da noi ce dipendono né quella situazione comunicativa né quel complesso stato di cose che
abbiamo di fronte.
Tale idea sarebbe giustificata se la responsabilità causale coincidesse con quella morale ovvero se
valesse solo l’aspetto della condizione e non quello della libera scelta.
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Tutti gli interlocutori non possono essere considerati ingranaggi del meccanismo comunicativo;
infatti che è all’interno di una dimensione comunicativa agisce in maniera eticamente responsabile
e deve avere idea di cosa sia “buono”. Deve sapere il significato che assumono le nozioni morali
più frequentemente utilizzate come “buono” “giusto” “virtuoso”.
Emerge la domanda al perché si debba seguire criteri morali di un certo tipo; si delinea la
questione del senso, della motivazione, del coinvolgimento morale.
Se si deve giustificare la scelta tra i modelli etici di fondo, sulla cui base ogni comportamento
morale può essere regolamentato, allora bisogna muoversi a livello dell’etica generale.
3)ETICA NELLA COMUNICAZIONE: forma elaborata di recente da Apel e Habermas. Il loro
progetto è caratterizzato dall’intenzione di rinvenire all’interno dello stesso ambito comunicativo,
criteri e principi etici che pretendono di avere una validità universale. L’analisi del discorso infatti è
capace di evidenziare, al suo interno, specifici vincoli normativi. Vi sono aspetti decisivi che
assumono il carattere di obbligo morale, dato che tali obblighi sono riconosciuti da ogni soggetto
razionale e che quindi è possibile elaborare un’etica generale.
APEL: il primo a sostenere che vi è una normatività morale all’interno dell’atto comunicativo. Tali
principi sono quelli della giustizia (uguale diritto a tutti i possibili partner del discorso all’impiego di
ogni atto linguistico utile all’articolazione di pretese di validità in grado di ottenere consenso), della
solidarietà (valida per tutti i componenti della comunità attuale riguardante il reciproco appoggio e
dipendenza nel quadro di un comune intento di una soluzione argomentativa dei problemi), e della
corresponsabilità (che vincola i partner della comunicazione allo sforzo solidale per l’articolazione e
la soluzione di problemi).
Ciascun interlocutore è considerato agente razionale ed emerge un a possibilità di comportamento
conforme ai criteri che regolano l’interazione comunicativa e che ne decretano la riuscita.
HABERMAS: parte da una trattazione dei concetti di “azione” e di “razionalità” all’interno della
quale l’agire comunicativo si configura per la sua aspirazione all’intesa e per l’identificazione del
linguaggio come luogo in cui una tale intesa si può realizzare.
Habermas perviene all’elaborazione di una sua etica del discorso in cui sono indicati i principi che
consentono di effettuare un accordo razionalmente motivato quando devono essere affrontate
questioni pratico-morali controverse.
Il principio di universalizzazione (U) prevede che ogni norma valida deve conformarsi alla
condizione che le conseguenze e gli effetti collaterali che risultano dalla sua osservanza universale,
possano essere accettati senza imposizione di tutti gli interessati.
A ciò si ricollega la formula essenziale (D) dell’etica del discorso per cui ogni norma valida
dovrebbe poter trovare il consenso di tutti gli interessati purchè questi partecipino ad un discorso
pratico.
Il problema che emerge riguarda l’individuazione da parte di un soggetto razionale del legame che
dovrebbe istituirsi fra i vincoli etici insiti nel discorso e il loro effettivo riconoscimento da parte dei
vari parlanti.
Per il funzionamento di un’etica nella comunicazione il momento dell’elaborazione delle norme
morali messe in opera nel discorso quotidiano non può essere disgiunto dalla percezione di esse,
dal loro riconoscimento.
Di fronte a tali problemi rischia di restare senza risposta la domanda relativa al senso del nostro
agire morale, ossia il nostro volerci conformare a ciò che risulta già inscritto nel funzionamento
dell’argomentare comunicativo.
La condizione di possibilità che è stata identificata nel funzionamento del linguaggio va
concretamente attivata. Si delinea quello spazio di libertà all’interno del quale ciascuno di noi è in
grado di essere fedele o meno alle possibilità etiche del linguaggio e di ricercare le motivazioni e il
senso che giustificano una tale fedeltà.
Sia Apel che Habermas non sembrano in grado di dare la motivazioni che stanno alla base
dell’utilizzo concreto dei principi dell’etica della comunicazione e dell’etica del discorso.
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Capitolo 3° - Modelli di etica della comunicazione
Bisogna capire quale, fra i modelli etici individuabili, è in grado più degli altri di giustificare il
concreto agire comunicativo.
I modelli in questione sono 5; ogni modello troverà negli altri la condizione del suo
approfondimento e tutti, potranno avere nell’idea di una comunità della comunicazione lo sfondo
generale che è in grado di legittimarli. La tesi per cui, comunicare significa creare uno spazio
comune, sarà l’idea-guida.
I CINQUE MODELLI DELL’ETICA DELLA COMUNICAZIONE:
1)IL COLLEGAMENTO PRIVILEGIATO ALLA “NATURA” DELL’UOMO
Esempio dell’uomo politico: il mentire è considerato insito nelle strategie di comunicazione
dell’uomo politico, se vuole avere successo. L’ottimo uomo politico sarà quello che dice bugie con
più naturalezza. In ogni caso la menzogna risulta qualcosa di connaturato all’uomo in quanto
l’uomo risulta per natura “malvagio” e portato a dire bugie.
La tesi che l’uomo è per natura mentitore in quanto malvagio (es. politico), è il rovesciamento di
un assunto altrettanto diffuso in filosofia: per il quale l’essere umano è “buono” per natura ed è
portato a realizzare il bene per sé e insieme per gli altri uomini.
Queste due tesi fanno riferimento alla natura dell’uomo, da questo punto di vista l’uomo è
considerato in possesso per sua natura, di alcuni caratteri che possono favorire una comunicazione
che si svolge da un lato, secondo i principi morali di un certo tipo, e dall’altro secondo criteri del
tutto differenti.
Si può fondare un’etica della comunicazione sull’assunto della bontà della natura umana oppure si
può rinunciare a farlo movendo da una concezione egoistica dell’uomo stesso. Tutto dipende da
come viene considerata la natura dell’uomo.
Chi sostiene che l’etica della comunicazione si radica nella “buona” natura dell’uomo, può intendere
l’impulso al bene come una tendenza naturale. Quindi qualcosa non solo è buono perché
appartiene alla natura umana, ma viene concepito come tale perché questa natura stessa è buona.
Si può dire che qualcosa è “buono” o meno solo a partire da una valutazione previa dell’essere. Se
questo essere questa natura sono ritenuti “buoni”, ne discende la bontà di tutti gli atti che vi si
conformano; se sono assunti come malvagi, compito dell’uomo è quello di contrastarli.
L’essenza, la natura, l’essere di qualcuno o di qualcosa, lo si considera caricato di valore e si
giudica di conseguenza “buono” o “cattivo” tutto ciò che si conforma o meno ad esso. In tal
mondo il giudizio di valore finisce per legarsi a una ben precisa concezione dell’essere.
Questo modello è stato elaborato dal pensiero antico in particolar modo da Platone e da Aristotele.
In questo modello non viene affrontata una delle questioni fondamentali concernenti l’agire
morale, quella del rapporto fra l’azione concreta e l’orizzonte motivazionale.
2)IL DIALOGO QUALE MODELLO ETICO DI COMUNICAZIONE/MODELLO DIALOGICO
il dialogo costituisce il paradigma di ogni rapporto comunicativo, nella misura in cui, dialogando,
l’interlocuzione viene a realizzarsi nella maniera più adeguata.
Affinché possa esserci dialogo, ogni dialogante sa che la sua posizione non è mai assoluta,
immodificabile. Deve esserci la capacità di aprirsi a ciò che l’altro mi può dire. Se non c’è questa
apertura, non si ha vero dialogo. Per dialogare dobbiamo essere disposti all’ascolto. Il modello
dialogico diviene il paradigma di ogni comunicazione eticamente connotata.
Dialogando ognuno si espone all’altro: solo così è in grado di diventare se stesso e non per sua
volontà, ma perché nel suo dire qualcosa di vero accade sul serio.
Questo modello ha riscosso molto successo fra gli autori del 900, per i quali pensare significa
comunicare e comunicare vuol dire dialogare. Nel dialogo si attua nel modo migliore quella
relazione che unisce gli uomini fra di loro e nel caso degli autori che assumono una prospettiva
religiosa, il rapporto dell’uomo con Dio.
Dalla riflessione, sul versante teologico, di Buber emerge che il Dio della Bibbia è colui che crea sia
le cose che l’uomo con la parola e che sempre con la parola rivela all’uomo chi è e cosa vuole che
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l’uomo faccia. Il dialogo fra Dio e l’uomo diviene il modello di ogni rapporto: sia quello che può
legare gli uomini fra di loro, che quello che unisce l’uomo al mondo in generale.
Comunicare bene significa rivolgersi a un tu, promuovere un rapporto fra tutti coloro che sono
capaci di parola, trasformare ogni relazione fra un io e un esso (una relazione a senso unico), in un
legame fra interlocutori.
Nella struttura del dialogo sono racchiusi alcuni principi di comportamento: l’attenzione e il rispetto
per l’interlocutore, l’ascolto delle sue ragioni, la costruttiva intenzione trovare un accordo.
Tuttavia, all’interno di questo modello non viene giustificata la motivazione che mi spinge,
nell’interazione comunicativa, a optare per il dialogo.
Perché debbo dialogare?? I teorici del dialogo danno 2 risposte a questa domanda:
-Bisogna dialogare perché è Dio, che per primo si rivolge all’uomo adottando forme dialogiche
-La natura dell’uomo risulta capace di dialogo e nel dialogo trova la sua piena realizzazione
entrambi gli esiti sono difficilmente sostenibili sul piano filosofico.
3)IL PARADIGMA RETORICO DEL RIFERIMENTO ALL’AUDIENCE
La buona comunicazione è quella che viene incontro all’interlocutore, quella che tiene conto in
primo luogo dell’audience. Comunicare bene significa conformarsi alle esigenze dell’interlocutore.
Se finora l’etica della comunicazione era soprattutto caratterizzata da una fedeltà e se stessi in
quanto soggetti comunicativi e dalla disponibilità ad andare davvero oltre se stessi, con questo
modello s’impone il criterio di fedeltà all’interlocutore: si salvaguarda il diritto non solo di chi parla,
ma soprattutto di chi ascolta.
Nel nostro rivolgerci agli altri, è insita la tendenza a uniformare ciò che diciamo a quelle che sono
le categorie di comprensione.
Bisogna ripesare alla nozione di “retorica”: la “buona” retorica è quella in cui si ha l’intenzione di
regolare il proprio discorso a partire dalle esigenze dell’audience che devono essere subordinate
all’idea di dire la verità; “cattiva” retorica è quella in cui l’interesse per l’interlocutore risulta
prioritario indipendentemente dal contenuto del comunicato  scopo del comunicare rischia essere
solo quello di persuadere, che rende inutile ogni attenzione ai contenuti.
Nel testo “La Retorica” di Aristotele, viene evidenziato il rapporto tra retorica ed etica infatti nel
misura in cui l’ascoltatore è un interlocutore capace di decidere, compito del discorso retorico è
quello di mettere in opera l’adeguato modello di persuasione conforme a ciascun argomento.
4)IL CRITERIO DELL’UTILITÀ
Il principio supremo dell’agire morale promuove la diffusione di una prospettiva che può diventare
universalmente condivisa. Questa ricerca di principio universale, è oggi criticata perché tale
principio sarebbe incapace di dar voce alle istanze specifiche che provengono da mondi e realtà
differenti. Al posto di una dimensione condivisa, proliferano concezioni che rivendicano la loro
particolarità. L’imporsi di tale scenario, oggi spaventa. Tali istanze infatti hanno iniziato a
manifestarsi in modo violento.
Sembra venir meno ogni possibilità di comunicazione e restare spazio solo per la forza.
Qual è il criterio morale cui si richiamano tutte queste posizioni? Il principio dell’utile individuale.
Ciò che si ritiene utile per se può risultare in conflitto con altre istanze, anch’esse volte a
perseguire un utile particolare.
In ogni caso, l’utile di cui si fa portavoce una parte o un gruppo non potrà mai essere realmente
partecipato da tutti i soggetti morali, non potrà mai diventare patrimonio comune, perché qualcuno
ne verrà escluso.
La mediazione dei vari interessi parziali non viene giustificata da un punto di vista etico, ma è
demandata a un piano giuridico; quindi la mediazione è regolata sulla base di sanzioni che possono
colpire chi trasgredisce norme imposte dall’esterno.
Il principio dell’utile richiede di essere giustificato da un punto di vista teorico, per poi assumere
forma universale. Sorge così la DOTTRINA DELL’UTILITARISMO, per la quale tutti gli uomini sono
indotti ad agire spinti dal perseguimento dell’utile. “Utile” significa ciò in cui si realizza la felicità
individuale, l’appagamento di se.
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Nell’utilitarismo questa tendenza alla felicità è considerata l’elemento che contraddistingue ogni
soggetto morale. Compito dell’utilitarismo è individuare il modo in cui la ricerca della felicità del
singolo può condurre all’affermazione dell’utile collettivo. Tale scopo viene raggiunto analizzando
cosa fa felice ciascun individuo all’interno di una società, sommando poi i diversi desideri che egli
esprime e scoprendo il meccanismo che consente di rendere felici oltre a lui, il maggior numero
possibile di persone.
L’utilitarismo sostiene che l’universale tendenza dell’uomo a perseguire il proprio utile viene
identificato con la propria felicità.
La storia dell’utilitarismo classico ci mostra come il principio dell’utile può anche essere interpretato
non solo in una prospettiva egoistica, ma anche e soprattutto tenendo conto fin dall’inizio dell’idea
di “utile collettivo”.
Il compito dell’utilitarismo nell’etica della comunicazione, è quello di promuovere il bene più grande
per il maggior numero di persone e per il tempo più lungo possibile.
5)IL PRINCIPIO DELLA COMUNITA’ DELLA COMUNICAZIONE
Questo modello è in grado di motivare e giustificare il concreto agire comunicativo, partendo dal
fatto che comunicare significa aprire uno spazio comune fra gli interlocutori.
Questo modello si rifà al principio della comunità della comunicazione, e il primo ha elaborato
questa dottrina è Apel.
TESI DI APEL: all’interno dell’ambito comunicativo, nell’esercizio stesso della comunicazione, è
possibile vedere all’opera principi morali precisi. Essi sono, la norma fondamentale della giustizia,
della solidarietà e della corresponsabilità. Tutte e tre si annunciano ogni qualvolta viene fatta
esperienza di una relazione nella quale gli interlocutori sono in grado di argomentare e di
presentare il proprio discorso in forme condivisibili da tutti. Per Apel ogni parlante è membro di
una comunità illimitata della comunicazione, e ciascun interlocutore non può aggirare i principi che
sono all’opera nell’esercizio del comunicare. Così come risulta inaggirabile la comunicazione, lo
sono anche i criteri morali che intervengono di volta in volta a regolarla.
Le norme fondamentali della comunità della comunicazione da un lato sono già sempre state
riconosciute e dall’altro, noi in quanto argomentanti, le imponiamo a noi stessi, come a tutti i
partner del discorso, in un atto di autonoma autolegislazione.
Apel non sembra dare una risposta univoca al problema del senso del comportamento morale di
ciascun interlocutore, e non sembra stabilire perché il singolo individuo, in quanto comunica, può
assumere decisioni etiche.
In ogni caso, a differenza di quanto accade in Apel, la conferma della prospettiva possibile di
un’etica della comunicazione non deriva dall’inaggirabilità di un principio astratto come quello della
comunità illimitata della comunicazione.
L’etica nella comunicazione propone un modello di ricostruzione e di fondazione dell’etica generale
e offre anche la giustificazione di questi criteri che consentono di definire che cosa significa
“buono”, sia di promuovere e praticare il bene.
Apel e Habermas ci aiutano a elaborare un’etica della comunicazione fondata, un’etica
comunicativa.
Ciò che Apel considera un compito che ciascun parlante deve assumersi, è opportuno che venga
trasformato in una possibilità, in un’occasione nella quale i principi insiti nell’agire comunicativo
sono applicati alle situazioni vissute di volta in volta dagli interlocutori; questi ultimi hanno la
libertà di scegliere se realizzare o meno ciò che risulta già insito nella capacità di comunicare.
La scelta etica fondamentale davanti cui è posto chiunque comunica, concerne la possibilità di
essere fedeli o meno ai principi etici che sono propri dell’atto comunicativo.
Gli altri modelli di etica della comunicazione pretendono:
-una fedeltà a se, ovvero alla propria “natura”;
-la disponibilità, nel dialogo a rischiare se stessi per cercare l’intesa con l’altro;
-l’intenzione di adeguarsi a ciò che l’interlocutore si attende da noi;
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-la sollecitazione a conformarsi a quel principio dell’utile che è valido nel caso singolo ma che
insieme ripropone anche in una dimensione sociale.
Questi modelli non riescono a risolvere il problema del senso.
Qual è il senso, la motivazione che mi spinge a comunicare “bene”? la risposta viene data partendo
dall’idea di un comunicare inteso come creazione di uno spazio comune.
È possibile identificare un paradigma generale di etica della comunicazione capace di fornire a ogni
interlocutore un orientamento. Siamo portati a riconoscere una serie di implicazioni etiche che
spingono a privilegiare il legame rispetto alla separazione, e che tendono a trasformare il
linguaggio in occasione di intesa piuttosto che di fraintendimento.
I criteri del comunicare non dipendono da una qualche essenza previamente fissata, ma dalla
strutture stessa della comunicazione, concepita nel suo aspetto funzionale, dinamico, tra le da
richiedere qualcuno che lo realizzi.
Siamo posti di fronte ad una scelta precisa: dobbiamo decidere da un lato fra la possibilità di
compartire con gli altri ciò che dico e ciò che posso argomentare, e dall’altro l’ipotesi di rifugiarsi in
uno spazio d’incomprensione che risulta voluta. Rispetto a questa scelta si presenta la questione
del senso. L’ambito della motivazione, è l’ambito dell’etica, nella misura in cui in essa e sempre in
gioco la libertà dell’uomo. Nella sfera comunicativa, la decisione per l’intesa non è una scelta
arbitraria, ma è fondata sulla struttura stessa del linguaggio.
Capitolo 4° - L’etica della comunicazione oggi
Non possiamo non comunicare. Ma possiamo comunicare bene o male. All’interno del contesto
comunicativo si apre un ambito di scelte e nasce l’esigenza di un’etica della comunicazione.
Bisogna approfondire i modi differenti in cui l’impegno etico si può presentare, da un lato nell’agire
comunicativo quotidiano, dall’altro nell’attività di coloro che fanno della comunicazione il loro
mestiere. Bisogna mettere in luce le indicazioni morali con cui si confrontano per un verso gli
operatori della comunicazione, e per l’altro ogni potenziale interlocutore.
Possiamo considerare i nostri comportamenti secondo due aspetti:
-mettendoci alla ricerca di un’etica che viene elaborata rispetto alla sfera della comunicazione 
tutti quelli che si rapportano in maniera professionale o no all’agire comunicativo
-tentando di identificare regole e criteri atti a orientarci nell’ambito della comunicazione stessa 
coloro che operano nell’ambito dei media.
Etica della parola, etica della scrittura, etica delle professioni comunicative:
Chi parla, chi scrive vuole essere creduto. Chi ascolta, chi legge ha una disposizione a credere. Chi
parla e chi ascolta risultano entrambi legati da un rapporto di fiducia. Chi parla si presenta come
credibile e dev’essere in grado di esibire le credenziali di questa sua credibilità  fenomeno della
testimonianza.
SCRITTO: con l’esercizio della scrittura viene meno il coinvolgimento diretto che lega parlante ed
ascoltatore. Nel rapporto fra gli interlocutori si intromettono le parole scritte. Di fronte allo scritto
viene meno la responsabilità di chi si esprime.
Allo stesso modo in cui c’è un’etica della parola, c’è un’etica della scrittura, che ha la capacità di
individuare i modi in cui il legame della comunità della comunicazione si ripropone a vari livelli di
mediazione, messi in opera dalla presenza del segno scritto che fa da intermediario fra gli
interlocutori.
La dimensione della fiducia e della credibilità è ciò che è chiamato a custodire chiunque comunica,
nei vari modi in cui lo fa e in conformità con le competenze che ha acquisito.
QUESTIONE DELLA VERITA’: rappresenta un problema per chiunque voglia elaborare un’etica della
comunicazione.
A livello filosofico, appare il dibattito sulla questione della verità, avvenuto alla fine del 700 tra
Constant e Kant; Constant presta attenzione alle conseguenze di cui è responsabile chi dice la
verità mentre Kant considera il dire la verità come un principio incondizionato.
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Bisogna distinguere tra “verità” e “veridicità”. La verità è definita in termini di una corrispondenza
tra ciò che dico e ciò che è; mentre la veridicità chiama in causa un altro tipo di corrispondenza,
quella fra ciò che penso e ciò che dico.
GIORNALISTA: si dice che la comunicazione sia un fattore di democrazie e di umanità. I giornalisti
contribuiscono con la loro attività a salvaguardare questa sfera pubblica.
Oggi alcune società democratiche pur di proteggere questo legame comunitario, sacrificano
l’obiettività, la correttezza, la verità; lo fanno anche i giornalisti che dovrebbero invece rispondere
all’opinione pubblica. Così l’informazione rischia di essere subordinata alle esigenze della
propaganda.
In molti altri casi l’esigenza di coesione ha preso il sopravvento sulla correttezza dell’informazione.
Il giornalista non può essere obiettivo in quanto le notizie le da all’interno di una determinata
ottica. Il giornalista non rispecchia il mondo ma lo interpreta. Anche in campo giornalistico il
riferimento alla deontologia professionale risulta indispensabile; ma non è sufficiente in quanto
solo in Italia esistono molti codici deontologici, ma ci sono problemi che investono la nostra
informazione: manipolazione della realtà, sovrabbondanza delle informazioni, mercificazione delle
notizie..
TELEVISIONE: la televisione ha la capacità di creare verosimiglianze, di moltiplicare immagini, di
ampliare le possibilità di pensare. Nella tv realtà e irrealtà si confondono: tutto è finzione e tutto
risulta “vero”. Ciò che si vede si offre nella sua immediatezza e si crede che corrisponda a qualcosa
di reale. Quindi si insinua il giudizio morale per il quale ciò che non si vede, allora non esiste.
Nulla sfugge alla spettacolarizzaione e se tutto è spettacolo viene meno la distinzione fra realtà e
apparenza.
Anche per quanto riguarda la televisione sono stati elaborati codici deontologici, ma non bastano
perché bisogna lavorare sul senso di responsabilità del giornalista.
INTERNET: le tecniche della comunicazione hanno modificato il rapporto con gli altri uomini e con
il mondo. Le domande etiche devono quindi riguardare anche la configurazione dei nuovi media, i
cambiamenti che possono esercitare sull’uomo e sul mondo. Si viene a creare uno spazio virtuale.
“Virtuale” è il potenziamento della realtà: esprime quella possibilità dell’uomo che le nuove
tecnologie danno il potere di realizzare. “buono” sarebbe ogni mezzo che consente la realizzazione
di se e dei propri desideri. Ma s’annuncia il problema che il virtuale, sta creando una crescente
virtualizzazione del reale, ossia portando ad una perdita di consistenza dell’esistente. La realtà
viene decostruita e si trasforma in apparenza.
Nasce l’etica in Internet” ossia quell’insieme di comportamenti che possono essere adottati quando
si utilizzano le possibilità del web e quando si naviga in rete. Nascono i codici di regolamentazione,
ma questo insieme di criteri richiede la presenza di un moderatore in grado di sanzionare le
trasgressioni. Nel web non è possibile dal momento in cui Internet non è gestito da un supervisore
unico e quindi ogni utente è chiamato ad assumersi le proprie responsabilità e trova in se stesso le
motivazioni che lo inducono a seguire un comportamento corretto.
Anche per regolamentare l’agire all’interno della rete non bastano i codici. Bisogna fornire le
motivazioni e stabilire perché bisogna compiere determinati atti piuttosto che altri  compito
dell’etica in Internet.
Le tendenze in atto sono di tale portata che è difficile pensare che si possa incidere su di esse.
L’etica in ambito comunicativo risulta disattesa.
TESI QUESTO LIBRO: lo steso atto comunicativo può risultare, nelle sua varie forme, un atto etico.
Perché scegliere il modello di etica elaborato da Apel e Habermas?
Perchè vede la comunicazione come un’apertura di spazio comune condivisibile, volto alla
creazione di un legame capace di espandersi indefinitamente, fino a configurarsi come
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virtualmente universale. Questa possibilità è insita nella struttura del com’unire, è data dalla stessa
prospettiva che esso apre. Non è inerente alla natura dell’uomo o delle cose, ma è implicita nel
concetto stesso di comunicazione.
Perché promuovere lo spazio comune della comunicazione e non il fraintendimento?
Il legame va promosso e riconosciuto come “buono” perché attraverso di esso viene salvaguardato
non solo il sé, ma anche l’altro; in tal modo si apre e si mantiene lo spazio dell’interlocuzione, nel
quale ognuno ha diritto di parola; perché così si realizza l’universale.
Perché scegliere l’essere, la partecipazione, il collegamento piuttosto che la scissione?
Scegliere l’essere piuttosto che il nulla significa fare in modo che i nostri gesti, i nostri atti, i nostri
comportamenti, i nostri pensieri, risultino permeati di senso. Infatti etica è rapportarsi al senso di
ciò che può avere senso. Il senso è ciò che mira ad un legame e di volta in volta lo realizza. Non
già eliminando le differenze, ma accogliendole in una dimensione relazionale, riconosciuta e messa
in opera nel comunicare.
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