Il teatro italiano nel Rinascimento - Dipartimento di Arti e Scienze

Il teatro italiano nel Rinascimento
a cura di
Fabrizio Cruciali e Daniele Seragnoli
Società editrice il Mulino, 1987
Introduzione
Comedia-comer
Tra i sapienti e divertiti dialoghi filosofici di cui si compongono i Colloqui di Erasmo
da Rotterdam, ce n’è uno piuttosto breve intitolato Il cenone. I due personaggi, Spudo e
Apicio, si incontrano e l’uno chiede all’altro consigli sul come sì debba fare una cena ben
riuscita: il dialogo si svolge su un significativo doppio binario. Spudo vuole invitare molta
gente senza scontentare nessuno e Apicio fa notare che più gente si invita e più
malcontento si crea: «C’è mai stata una commedia, per quanto ben scritta e ben recitata,
che sia piaciuta a tutto il pubblico?». E siccome ci saranno molte persone, e di paesi e di
lingue diverse, è meglio che i posti siano assegnati a sorte e che ci siano piatti con cibi
diversi ogni tre o quattro commensali. E per decidere quanti piatti cambiare Apicio fa
ricordare come Orazio chieda che l’opera teatrale non si prolunghi oltre il quinto atto; il
pranzo avrà dunque cinque portate, badando bene a che «il prologo sia brodoso e
l’epilogo, o conclusione, abbondi di leccornie». Il pranzo, come il discorso, dovrà avere un
proemio non complicato e un epilogo «apprezzabile piè per la varietà che non per
l’apparato»; e parte importante sarà il saper parlare a tutti nel modo giusto, secondo le
particolarità di ogni carattere: Apicio elenca alcuni tipi, con una classificazione di caratteri
che viene certo, seppur genericamente, da Teofrasto. E quando il banchetto langue o
eccede, c’è un trucco dagli ottimi risultati: far intervenire due mimi o tre comici che recitino
una bella farsa, ma senza parole, solo a gesti, affinché siano capiti da tutti. Ma quale
farsa? «Ce n’è un’infinità. Immagina una donna che litiga col marito perché vuole
comandar lei o un’altra scena analoga presa dalla vita quotidiana. Piè la pantomima sarà
sciocca e piè divertirà. Questi tuoi comici han da essere stupidi a metà, perché quelli che
lo sono del tutto è facile che si lascino sfuggire involontariamente qualcosa d’offensivo».
I Colloquia familiaria furono scritti da Erasmo in un lungo arco di tempo, tra il 1497 e il
1533. Negli stessi anni si viene definendo la forma teatrale in senso moderno. Nell’usare il
teatro come elemento di paragone e di misura, Erasmo lo qualifica come un ordine del
tempo (i 5 atti), un intrattenimento che aiuta l’armonia di una situazione (per evitare che il
banchetto fallisca); e colloca gli esecutori a un certo livello della gerarchia sociale e
culturale. Eppure c’è distanza tra il ricordo oraziano e la farsa per il banchetto, tra una
commedia in cinque atti retoricamente definita e l’azione mimica degli attori: quest’ultima
fa pensare alle coeve farse francesi o alle incisioni per le edizioni terenziane, non certo
alle recitazioni in latino di Plauto o alla commedia «erudita» o alla scena prospettica di
città. Anche Bartolomé de Torres Naharro, nel prologo alla Propalladia, edita a Napoli nel
1517, istituisce una derivazione analogica di «comedia» da «comer» (mangiare).
Il banchetto è forse la situazione culturale, antropologica e sociale, di più lunga durata e di
più ampia diffusione, che ha in se stesso sensi di relazioni sociali organizzate e insieme è
luogo privilegiato per le arti dell’intrattenimento. Vi si possono rintracciare le funzioni
costanti; o vedere le storicità delle torme culturali. La commedia, in senso moderno, di
imitazione dall’antico, vi entra — nell’Italia del Rinascimento — con una sua qualità
autonoma, di pertinenza diremmo categoriale: è qualificante che ci sia, come citazione di
cultura, e meno importante che cosa sia.
Ci introduciamo cosi ai problema centrale nella nuova storiografia sul teatro del
Rinascimento.
Per lungo tempo Io si è studiato per trovarvi modalità e consistenze del definirsi di
un genere, il teatro, nella forma culturale che diventerà nei secoli una forma mentis: una
drammaturgia definita all’interno di una estetica sistematica che si precisa attraverso
Aristotele; una visione, la scenografia prospettica, che vuole essere il modo naturale e
necessario di rappresentare e conoscere lo spazio; un ambiente, sala e palco, che indica il
luogo della finzione e quello socialmente strutturato della realtà. E gli strumenti per
mettere in collegamento i due mondi che vi si rispecchiano e vi si rivelano, come
l’arcoscenico ad esempio, o anche agli attori. Ci sono stati eccessi e malformazioni, ad
esempio nel privilegiare in modi separati il testo drammatico come letteratura e ancor più
nel costituire un corpus assai ristretto e omogeneo di testi importanti che poi sono diventati
il repertorio più o meno fisso degli studiosi.
Si è arrivati poi a vedere il teatro del Rinascimento sia attraverso una dilatazione
verso io spettacolo del concetto di teatro, sia soprattutto considerandolo come un dato
della cultura di cui era parte.
Così si sono messe in risalto le complessità e le compresenze, le differenze e le
ampie pertinenze; si è vista, ad esempio, la necessità del Cortegiano per leggere la
Calandria, o del Palazzo di Urbino per la scenografia del Genga. In questa prospettiva, in
cui il teatro del Rinascimento non è studiato in quanto origine del teatro moderno, un
momento della storia del teatro, ma è indagato nella sua specificità culturale e sociale, gli
studi hanno evidenziato il ruolo della Festa e della Corte; e comunque hanno collocato il
teatro nello spettacolo della cultura di cui è parte e hanno indagato la globalità dello
spettacolo e della cerimonia in un ambiente. Anche qui con eccessi, quali il proliferare di
studi su singole feste in modi non sempre consapevoli della scelta storiografica che vi
inerisce o delle definizioni di campo; o ancora con lo spingere il discorso sulla
celebrazione del Potere a livelli metaforici ben aldilà della valutazione delle specifiche
progettualità.
Ci troviamo di fronte, in realtà, alla necessità di conoscere nella sua globale
complessità un fenomeno culturale: sappiamo che sezionandolo in statuti ne analizziamo il
cadavere (il che, ricorda Bachtin, fanno anche i medici per conoscere meglio e curare i
vivi); sappiamo che vedendo il macrocosmo nel punctum possiamo perdere il senso
diacronico del fare storia. E inoltre, negli studi sul teatro rinascimentale, il materiale
documentario è disperso e molto differente per motivazioni, orizzonti di attesa,
informazioni e silenzi. La situazione degli studi ci consente solo poche e piccole certezze:
il teatro del Rinascimento è l’«origine» del teatro moderno, il che significa che vi si
coagulano elementi preesistenti e sperimentazioni e tensioni verso possibilità, ma con un
qualcosa che chiameremo ancora salto di qualità; nel Rinascimento si «inventa» il teatro in
senso moderno, e quindi il Teatro non è qui ancora definito. Il teatro del Rinascimento non
nasce dal teatro ma dall’incontro dialettico e complesso tra una idea-forma che è stata
elaborata e delle pratiche; ed è teatro epifita, che si nutre della cultura di cui è parte e che
esprime. Oggetto di una storia del teatro rinascimentale è forse, più che la ricostruzione
dell’evento, la complessità culturale di cui esso è coagulo e portatore. In altre parole, se
Torres Naharro ci dice che <comedia» deriva da «comer» non ne deriviamo la
conoscenza di un errore di etimologia, ma il problema e l’indicazione della contiguità e
delle intersezioni tra banchetto e commedia.
L’invenzione del teatro e i suoi percorsi
Il teatro del Rinascimento si è venuto storiograficamente configurando con precise
caratteristiche. Fondato sull’imitazione degli antichi, coagula linguaggi e oggetti culturali
provenienti da tempi diversi e da livelli differenti di cultura e li costruisce in unità formali
all’interno soprattutto di quel progetto culturale che è la Corte italiana del Rinascimento; o,
più precisamente, in quel crogiuolo di culture che è la Roma del primo Cinquecento di
stampo romano-fiorentino. Vi «inventa» (riscopre e crea) la commedia «regolare» o
«erudita», una forma culturale definita ancor prima delle sue specifiche realizzazioni, che
nasce da e si propone come modello, sostanziato di regole, per agire una narrazione.
«Inventa» la scenografia, in particolare a prospettiva urbana, come tipologia della visione
scenica. Determina un luogo separato e speciale, apparato prima e attrezzato poi, per lo
spettacolo, sia nelle forme della sala teatrale che in quelle dell’edificio architettonico. E
inoltre rende possibile una teoria del teatro usando Orazio e i commenti a Terenzio,
Cicerone-Quintiliano e soprattutto Vitruvio e Aristotele. «Teatro» diventa un luogo dei
possibili espressivi, un teatrale con qui implicite forti valenze metaforiche, che si esprime
in una molteplicità di forme e funzioni, ben oltre la recitazione drammatica. I linguaggi che
vi confluiscono sono diversi e provengono da problematiche in sc. autonome, che qui si
intersecano, aggregano o giustappongono.
Un ambiente culturale sostanzialmente omogeneo esprime il progetto che ha di se
stesso; la Festa (il teatro) ne è i1 momento di celebrazione. E questo sia nelle grandi
forme (le entrare, le f5te solenni), sia nelle realtà più piccole o quotidiane (gli
intrattenimenti, che tanta parte danno, nel Rinascimento, alla cultura orale). Non
dimenticando la necessità di un atteggiamento globale verso questi fenomeni che vivono
della loro complessità, ha una qualche utilità conoscerli anche nelle problematiche
settoriali.
La problematica dello spazio del teatro è di pertinenza, nel Rinascimento, degli
architetti. In prima istanza è bene quindi rispettare e riconoscere l’organizzazione del
discorso secondo l’ottica stessa della cultura rinascimentale: l’edificio del teatro è una
funzione della città (città ideale, secondo il progetto dell’Alberti) e lo spazio delle
rappresentazioni è una funzione della corte. L’urbanistica e l’ambiente, nel discorso degli
studiosi di architettura, con le valenze dei progetti utopici e quelle simboliche della
decorazione, hanno modificato gli approcci epistemologici; e così, per gli studiosi di teatro,
ha fatto il concetto di «luogo teatrale», elaborato alla fine degli anni Sessanta, soprattutto
per l’opera promozionale di Jean Jacquot, concetto che indica come spazi funzionali alla
vita quotidiana assumano la possibilità di venire trasformati nello spazio e nel tempo
extraquotidiano dell’evento festivo. Teoria l’uno e prassi l’altro, che interagiscono
nell’esperienza concreta e nella cultura. Si può seguire, su questi due binari, come di
autore in autore e di evento in evento si delinei in modi sempre più articolati una idea e
una funzione dello spazio per gli spettacoli; e come si specifichi lo spazio della festa, degli
spettacoli, dei giochi, delle recitazioni. O meglio: lo sguardo da lontano e astratto della
diacronia costruisce in sequenze e sviluppi fenomeni e forme che vivono nella organicità e
nelle intersezioni della sincronia; si costituiscono «oggetti culturali» e si trovano soluzioni
concrete, in un ambito non molto ampio di persone spesso tra loro legate (si pensi a
Bramante Genga-Peruzzi-Serlio Raffaello, i Sangallo, ma anche Bramante e Ce- sanano;
o la mediazione di Battista da Sangallo tra lo sviluppo romano e quello fiorentino fino al
Vasari e oltre). Il percorso dello spazio dl teatro nasce da una idea e da un modello (di cui
danno alto esempio i trattati intorno a Vitruvio), si verifica nella prassi dei cortili e delle
sale, si sperimenta negli apparati della sala e della città. E un percor5 dialettico di
riflessione e prassi, di sperimentazioni concrete e di possibilità costruite che fa incontrare
l’idea-modello dell’edificio teatro Cori le pratiche degli spazi per le rappresentazioni
Per la scenografia il discorso è storiograficamente più difficile perché la sequenza
delle visioni scenografiche si è sviluppata negli studi in termini meno problematici. La
storia individuata appare semplice dalla scena «umanistica» di struttura medievale alla
meraviglia della. prospettiva di città. con l’«a parte» teorico e accademico della
scenafronte architettonica Ma, a guardarli da vicino, i fatti sono più complessi e meno
sicuri: così la scena «umanistica» è comunque legata a illustrazioni di libri, la prospettiva
urbana è anteriore al suo uso scenografico, la scenafronte architettonica non è poi cosi
separata. Sono problemi che verranno più volte affrontati nei saggi di questa antologia.
Qui ci limitiamo a riproporre di non separare lo sviluppo teleologico di un genere dalla
realtà materiale e specifica che lo sostanzia. I cosiddetti «scenografi» del Rinascimento
sono pittori-architetti che svolgono attività più ampie e coinvolgenti di «apparatori», il che
comportava almeno una progettazione unitaria della scena e della sala. ll percorso critico
è qui veramente riduttivo se limitato all’astratta tematica della scenografia: e per di più
fondato su pochissimi nomi e su ben scarse documentazioni, a confronto con le molte
notizie di spettacoli In questa zona è ancora molto da precisare l’apporto storiografico, nel
rilevamento dei nuclei operativi e nella connessione con il discorso globale dello spazio e
della sua figurazione. Si è appena cominciato a riflettere sulla diversità tra il mondo
fiorentino legato alle botteghe e alle artes e quello romano (o meglio cortigiano) in cui le
botteghe hanno livello imprenditoriale e statuto intellettuale (vedi i Sangallo).
Non si sono tratte conoscenze e conclusioni dal riconoscere la diversità della
cultura curtense (tra tutte, quella ferrarese o quella napoletana, molto meno nota) di
tradizione romanza e quella umanistica romano- fiorentina. E così anche per il rapporto tra
scena architettonica e prospettiva di città, di cui si è cominciato a intravedere la stretta
interconnessione a livello di simboli culturali; e qualche suggestione di più concrete
relazioni. Ma il nodo centrale resta certo l’indagine sulle persone, sui loro lavori e i loro
rapporti. Si pensi a quanto poco sappiamo sul lavoro teatrale di maggior rilievo e
significato, quello del Peruzzi! Oppure ai modi della discussione intorno a quel disegno di
Raffaello agli Uffizi che il Frommel ha dichiarato di recente scenografia per Villa Madama
(e il Borcherdt aveva pubblicato nel ‘35 attribuendolo al Bramante); o ancora al disegno di
prospettiva urbana del Peruzzi (Uffiizi) che nella cultura è diventato tipico del modello
rinascimentale ma che, dopo l’ingiustificata attribuzione alla Calandra romana del ‘14,
sappiamo cosa sia. Gli studi sulla scenografia del Rinascimento hanno pesantemente
subito i condizionamenti di una visione teleologica e sono ancora in realtà campo aperto di
ricerca; occorre ridefinire Io stesso materiale documentario, in una unità che si muove tra
pittura e architettura e che, crediamo, dovrà fondarsi sulla storia della cultura e degli
uomini che concretamente hanno «inventato» la scena.
Gli studi sulla drammaturgia del Rinascimento italiano hanno sto ria più lunga e
tradizione più solida. Si è costituito un pantheon degli autori e delle opere su cui validissimi
critici hanno operato in modo ampio e approfondito; si è costruita anche una storia
attraverso la geografia culturale, dando spazio agli specifici delle diverse realtà. Eppure
sappiamo poco dell’interrelazione tra testo e pratica teatrale ma anche tra testo e cultura
di teatro): non sono certo soddisfacenti, ad esempio, gli studi sul teatro dell’Ariosto. Ma
anche al di là di questi problemi di fondo, è difficile non ammettere che l’attuale
conoscenza della produzione comica cinquecentesca è, generalmente, molto limitata.
Siamo evidentemente di fronte a una pura tautologia, perché la limitazione di fondo è stata
posta proprio dalla creazione cli un modello a posteriori, dalla concezione di una
commedia «erudita» che fa da spartiacque e da discrimine condizionante: sia qualitativo
(al suo interno, «salvando» i pochi esemplari validi in quanto conformi), sia quantitativo
(l’esclusione del numeroso «diverso»). A margine si può aggiungere, schematicamente e
nel chiuso di una nuova impasse tautologica, che in ciò hanno agito almeno due ulteriori
elementi di giudizio: quello istituzional-letterario (la presenza dei soli autori riconosciuti) e
quello di taglio filologico (l’assenza di uno sguardo sulle edizioni originali invece che sulle
edizioni dal secolo scorso in poi, e sull’editoria). Ma non si tratta chiaramente di un
semplice problema di quantità della conoscenza documentaria. L’elemento costante che
caratterizza la produzione drammatica, soprattutto all’inizio del ‘500, appare invece essere
da un lato la scarsa pertinenza letteraria, dall’altro l’enorme «confusione» tra i «generi».
Se non sovrapponiamo categorie idealistiche o comunque posteriori e guardiamo invece
ciò che i contemporanei vedevano, abbiamo qualche sorpresa. Innanzi tutto quando ci si
imbatte in un elenco di testi «teatrali» rileviamo subito che non sono per noi omogenei ma
raggruppano testi tra loro diversi anche nella forma, unificati invece secondo l’ottica della
loro funzione: sono messi insieme «generi» disparati perché tutti creati per essere recitati.
Ogni testo a struttura dialogica che si prestasse ad essere recitato tendeva a essere
chiamato «commedia» — e pi di una volta troviamo che furono recitate «comedie o
scene»>, egloghe e commedie Anche nei frontespizi dei testi sotto la generica e consueta
definizione di «commedia» tendono a essere omologate opere tra loro diverse, con nomi
che cambiano perfino nelle diverse e successive edizioni e che assimilano termini quali
dialogo, commedia, egloga, tragicommedia e anche novella. Neppure è omogeneo il modo
di stamparle nella divisione degli atti e delle scene: a volte troviamo semplici «didascalie»
E’ quindi da rivedere il significato tradizionalmente letterario di una edizione teatrale e
introdurvi almeno quello di stampa d’uso, tangenziale si potrebbe dire, alla
rappresentazione. E va introdotto un diverso rapporto drammaturgia-novellistica uscendo
fuori dal nesso tematico a favore di una relazione di scrittura tra la trascrizione dell’oralità
e l’oralizzazione della scrittura. Per di più l’unità commedia è complessa, legata agli
intermezzi (musica e allegorie) e all’insieme Festa: si dovrebbe quindi aprire il discorso sul
rapporto tra la drammaturgia e la situazione complessa della fruizione Si torna così di
nuovo dal percorso di una funzione del teatro — il testo drammatico all’istanza di una
globalità culturale e antropologica.
In questa direzione si pone più esplicitamente l’ultimo «percorso» indicato quello
che si muove lungo l’intersezione di figurazione pittorica e figurazione teatrale. Il teatro
italiano del Rinascimento, dicevamo, è espressione organica di una cultura e in quanto
tale è anche una forma di organizzazione del conoscere: i modi della visione e della
narrazione del comunicare e dell’esprimere simbolico, Dopo lo studio del Badt sulla
poetica aristotelica nell’incendio del Borgo di Raffaello, l’analisi che lo Schefer ha fatto
delle implicazioni teatrali in Paris Bordone, i rapporti tra pittura e documentazione teatrale
in Carpaccio di Michelangelo Muraro e di Zorzi; o dopo le indicazioni del Phllippot
sull’introduzione nella Pittura «manierista» della presenza dello spettatore; ma soprattutto
dopo la feconda opera di Francastel, si è venuta costituendo la fascinosa possibilità di
leggere teatro e pittura anche in quanto insieme culturale. Se i pericoli della
generalizzazione arbitraria sono evidenti, lo sono ancor di più sia le possibilità delle
suggestioni sia l’istanza di cogliere le modalità culturali, le logiche e gli usi, in cui una
società esprime il proprio rapporto con il tempo e con lo spazio. E con la loro
rappresentazione. E una possibilità, dialettica e contraddittoria, di accostare l’aggregato
interdisciplinare in cui si riconosce ormai lo studio del teatro italiano del Rinascimento.
Dai singoli percorsi e dal loro insieme non si ottiene tanto una più precisa
ricostruzione del nostro oggetto di studio; quanto invece la necessità di sguardi ravvicinati
e non settoriali che restituiscano il teatro come insieme di relazioni, una più avvolgente e
organica e complessa dimensione storiografica Perché il teatro del Rinascimento ci
appare luogo culturale in cui si esprime un progetto del mondo e come tensione della
società, in cui cioè la cultura degli intellettuali e le culture delle corti proiettano e creano
valori, quasi che il teatro sia un luogo metaforico concretizzato.
Il teatro del Rinascimento, di cui parliamo, non è il teatro del Cinquecento, è una
categoria culturale piuttosto che un’etichetta per un arco cronologico. Vi si può cercare il
definirsi di un genere (il Teatro) oppure restituirlo nelle complessità, differenze, situazioni
espressive che in parte hanno fatto il teatro, in parte sono diventate altro, in parte si sono
perse.
La cultura e la civiltà di teatro
I modi dello spettacolo nel Rinascimento italiano sono un organismo molteplice,
espressione di una complessità culturale che agglomera tradizioni e invenzioni, abilità e
arti, simboli e divertimenti. Il teatro nasce qui dalle relazioni culturali (in senso tecnico e
antropologico) che si concretano negli uomini che lo fanno e lo fruiscono: e committenza e
fruizione sono due poli dello stesso unitario progetto. Il teatro italiano nel Cinquecento, e a
maggior ragione il teatro del Rinascimento che ne è evento ideologicamente egemonico, è
un organismo ricco della molteplicità intellettuale e sociale in cui confluiscono le speciali
culture del tardogotico delle corti padane e di quella aragonese, dell’umanesimo toscano e
dell’Italia centrale, delle ricche presenze spagnole e fiamminghe, catalane e francesi e
tedesche, delle soluzioni particolari di Venezia o di Siena. E quindi ha bisogno, per essere
dialetticamente conosciuto, di essere visto nella molteplicità delle arti dell’intrattenimento e
della celebrazione, pubbliche e private, civili e religiose; e nelle specificità e differenze
delle diverse situazioni culturali delle corti e delle città italiane. Le danze e i banchetti, le
entrate solenni e i carnevali, le feste religiose e quelle private, le trasformazioni effimere
delle città, le celebrazioni e i rituali degli intellettuali, il raccontare e il conversare, i tornei e
le serenate, i giochi, le immagini, gli oggetti: sono elementi e situazioni che articolano e
scandiscono i modi dello spettacolo. E che acquistano pieno senso quando vengano
inserite nello specifico ambiente in cui accadono. La festa rinascimentale si costituisce per
agglomerazione di oggetti e di eventi, ma con teleologia di progetto (la prospettiva, la
visione del principe, la società ideale); e quindi la festa, grande o piccola, religiosa o
privata, è una organizzazione extraquotidiana del tempo che non è intrattenimento o
distrazione soltanto, ma sempre esibisce il suo senso sociale e culturale. Per questo,
come il teatro, non la si vede, non ha un pubblico: se ne è parte (o se ne è esclusi).
In molti sensi, fisici e metaforici, il teatro è, nel Rinascimento, un interno dall’arredo
unitario nel senso ma composto di elementi disparati. Appunto per questo la storiografia
che cerca di comprenderlo ha bisogno non solo di una storia ma anche di una geografia
dello spettacolo. La storia dà conto, anche, del costituirsi di una classe di intellettuali che
circola per dislocazioni reali e per trasmissione di opere in una unità che è un progetto di
cultura e che tendenzialmente si omogeneizza in una funzione dell’intellettuale che tende,
nelle diversità delle circostanze, a riconoscere le proprie identità. La geografia dà conto
degli ambienti specifici e diversi, di una trasmissione e continuità fatta di agglomerazioni e
compresenze, in sensi più antropologici che strutturali. C’è bisogno quindi di analisi
puntuali e che aggrediscano la cultura teatrale su aspetti e da problematiche e
metodologie diverse.
Una città come Firenze può essere un campo di verifica molto significativo,
soprattutto se presa in considerazione attraverso uno sguardo che la collochi sullo sfondo
della diversità ferrarese e di quella romana, in un crogiuolo quindi che si muove tra le
pratiche «romanze» della cultura curtense di orientamento cortigiano-cavalleresco, e le
istanze «alte» del filone accademico-umanistico. Nelle sue diverse vicende storiche e
politiche di questi anni tra Quattrocento e Cinquecento Firenze offre a uno sguardo
ravvicinato segnali di realtà diverse tra i due poli che si è detto, e può farci comprendere
un terreno delle possibilità nel teatro prima delle scelte definitive e definitorie. L’opzione
«moderna» di un teatro che viene formalizzato, dedotto da un’idea di teatro e proiettato ad
ancorarsi nel progetto che appartiene all’universo immobile dei libri, questa opzione non
viene compiuta a Firenze che a ‘500 inoltrato. Il teatro qui si prolunga invece in «spettacoli
di relazione» e la cultura teatrale che i fiorentini disseminano fuori di Firenze è in definitiva
la cultura delle botteghe, che è legata alle «artes mechanichae» e non si modella su quelle
del Trivio e del Quadrivio; fanno cioè un teatro che si fonda, prima che sul valore e sulla
gerarchia culturale, sulla contiguità e sulle relazioni materiali. La privatizzazione dello
spettacolo che è stata messa in luce per la civiltà teatrale fiorentina del primo ‘500 è
privatizzazione organica di ambienti e non privatizzazione meccanica di corpi separati
(attori/pubblico); e lo spettacolo, privato e circoscritto, è definito dal valore di relazione
mentre ne resta imprecisato il va1t culturale, pubblico. Tra Quattrocento e Cinquecento
Firenze è lo spettacolo del disordine se paragonato all’ordine dell’ideologia teatrale E la
dimensione «ordinata» dello spettacolo fiorentino sembra avere il suo polo di realizzazione
nella Roma medicea.
C’è una dimensione dello spettacolo che appartiene alla diffusione nelle diverse
città dei fiorentini come «festaioli» (e artefici di «ingegni», di macchine) o all’ampia
richiesta che dalle città italiane giungeva ai «mascherari» ferraresi. E c’è una dimensione
dello spettacolo che appartiene alla Corte; e un’altra ancora che appartiene alla Cultura.
Ma ancora prima conviene guardare al come collocare e comprendere i modi recitativi
come arti di intrattenimento e fondazione di teatro. Come sempre conviene partire
mettendo allo scoperto le teleologie Implicite per non essere inconsapevolmente guidati a
vedere un solo aspetto della molteplicità e complessità culturale di questi anni: non è cioè
dall’attore che dobbiamo partire ma dalle concrete situazioni recitative da cui si estrapolerà
la categoria attore. Il problema emerge con tutto il suo rilievo quando si tengano presenti
molti elementi (fra loro non omogenei): la forte componente della cultura orale, dalle
diversificare abilità e modalità dei predicatori alle sfaccettate e multidimensionali tecniche
del narrare, dall’arte del conversare alla nuova e celebrata arte umanistica dell’oratoria il
personaggio come funzione delle artes dell’intrattenimento, nei vari aspetti e livelli, dal
carnevale all’allegoria, dalla figurazione alla narrazione letteraria; i mestieri costituiti come
quelli del buffone o del musico o quelli indotti dall’iterazione (le persone che nelle corti
vengono più volte scelte e chiamate a partecipare alla recitazione); le abilità che si
costruiscono nelle danze figurate o nei giochi di società: e così via, fino all’uso pedagogico
del recitare nelle scuole umanistiche. In due aree particolari questi modi recitativi appaiono
essere più strutturati e capaci di elaborare riconoscibili processi creativi: Siena e Venezia,
due aree culturali in cui la mancanza della funzione egemonica e centripeta della corte
articola usi diversi dello spettacolo. È uno strumento concreto, questa prospettiva, per
avvicinare in termini non consunti una forma dello spettacolo e della drammaturgia che a
Venezia si esplicita nell’esempio alto e complesso del Ruzante, e che si carica anche
dell’incontro con la forma drammaturgica emergente della nuova commedia.
Non è un fenomeno, questo della nuova commedia, da rinchiudere nella sequenza
dei testi letterari o nel confronto con i testi plautini: in particolare, ad esempio, la Corte
come organismo culturale di lunga durata vi gioca un ruolo tutt’altro che secondario, e non
solo nei modi dell’esistere della rappresentazione drammatica, ma anche nelle strutture
compositive. La commedia è un microcosmo tendenzialmente in sé autonomo, contornato
— nel suo esistere rappresentativo, si è sottolineato — di organismi affini (gli intermezzi) e
collocato all’interno di un più vasto insieme che è la festa; e un progetto non astratto ma
pensato, per un accadere unico di cui non si prevede la ripetibilità ma di cui si prevedono
fruitori e circostanze specifiche; non è ancora un mestiere, quello di scrivere commedie,
ma una articolazione temporanea dell’essere letterato e la commedia quindi si colloca non
soltanto e riduttivamente a fianco delle altre commedie, quanto piuttosto in rapporto alle
altre opere di quell’autore o di quell’ambiente. E una tecnica del rappresentare e,
attraverso il mondo dei personaggi, parla del committente. Anche per questo è stato scritto
che I invenzione della commedia è una vera e propria «rivoluzione antropologica». La
commedia è attraversata dallo sguardo della Corte e da quello della Cultura. Sarebbe
forse necessario individuare con maggiore sensibilità il corpus drammaturgico dei
Rinascimento e riconoscere nelle opere dei «grandi» più lo scarto dalla norma che non il
modello, e comunque guardare Ferrara e la sua corte nell’Ariosto oppure le adunanze
borghesi delle compagnie fiorentine nei Machiavelli. Analogo è il discorso per quel teatro
che nasce dalle Accademie (che ci aprirebbe anche al problema della tragedia) e che si
orienta nel confronto con le forme mitopoietiche dell’antico. E’ un tipo di sguardo che può
farci conoscere di più e in modi meno riduttivi la drammaturgia del Rinascimento.
I problemi dell’immaginario visivo e quelli dello spazio del teatro e delle forme
scenografiche sono stati oggetto di particolare attenzione nella storiografia recente. Visti
nell’ottica di una cultura e di una civiltà si rivelano problemi che investono per intero un
«magazzino dell’immaginario» di grande imp-atto creativo. L’archetipo figurativo del
Colosseo e quello dell’arco trionfale, il partito spaziale prospettico e l’illustrazione dei testi:
questi e altri linguaggi e situazioni espressive si coagulano nelle vicende del luogo per
l’evento rappresentativo e del suo arredo significante. Il valore simbolico dell’immaginario
è qui fondante e non è riducibile al suo essere supporto visivo di un testo o di un’ azione,
né è lo spazio degli attori e tanto meno dei personaggi: i valori dello spazio teatrale sono
quelli della visione-figurazione e quelli del volume-ambiente, valori globali e non separati di
una civiltà. Non si sottolineerà mai abbastanza come il passaggio dagli spazi della
rappresentazione allo «spazio» del teatro sia opera di architetti-pittori che non vi portano
intenti settoriali ma la sperimentazione di modelli per l’architettura e per la figurazione. Ed
è opera di un gruppo non ampio che, con rapporti diretti e nell’ambito di un paio di
generazioni, elabora nel progetto e nella prassi un’idea-forma di lunga durata. Questo
avviene in particolare nel crogiuolo fertile che si condensa nella cultura romana tra Giulio Il
e Leone X, tra Bramante e Raffaello attraverso i Sangallo e Peruzzi.
Una volta pensati gli statuti del teatro nella loro concreta esistenza di oggetti
culturali e nella loro non separatezza è possibile guardare e metterne a prova l’intreccio in
uno specifico accadimento. Possiamo analizzare la drammaturgia che organizza i
linguaggi in una entrata trionfale o spostare l’attenzione sugli elementi figurativo-simbolici
messi in opera; possiamo guardare i modi della «festa scenica» o prendere in
considerazione il formarsi di quel particolare genere letterario che è la descrizione di
spettacoli.
Gli «sguardi ravvicinati» che abbiamo indicato (e che sono articolati nell’antologia
che segue) propongono di conoscere il teatro del Rinascimento come situazione
comtlessa di civiltà. Del resto non pochi dei cronisti e dei relatori di cui ci serviamo per
avere notizie di quegli spettacoli tra la fine del ‘400 e la metà circa deI ‘500 intrecciano la
descrizione dello spettacolo in sé e per sé all’insieme coevo di cui è parte, agli spettatori
cioè e alle circostanze. Come è stato detto, raccontano l’evento per linee orizzontali. In un
saggio recente (F. Cruciani, in «Teatro e Storia», n. 2, 1987) si sono seguiti gli eventi
festivi che Isabella d’Este riceve a Roma nell’inverno 1514-15 e si è visto come lo sguardo
di Isabella costruisca una sequenza di banchetti, balli, commedie, rappresentazioni
allegoriche, carnevale; e come invece per conoscere, ad esempio, l’evento culturale che
fu, in quell’occasione, la rappresentazione romana della Calandria con le scene del
Peruzzi, occorra lo sguardo diverso della cultura. E’ della dialettica tra i due modi che
abbiamo bisogno per una più attiva comprensione di quella civiltà di cui il teatro del
Rinascimento è epifenomeno. Se si esaminano gli usi spettacolari del Rinascimento non
distinguendo aprioristicamente per generi (da una parte studiando i tornei e dall’altra i
banchetti e da un’altra ancora i cortei, i trionfi, 1e allegorie agite, le commedie, ecc.) ma
tenendo presente la contemporaneità con cui i rappresentanti dei diversi generi si
intrecciavano e si alternavano, di nuovo troviamo la Festa come architettura del tempo che
catalizza i diversi elementi che vi compaiono come elementi culminanti di diverse arti, usi e
attività. Ma con all’interno tensioni di alcune componenti a distaccarsene e a vivere per se
stesse, quali la commedia e gli elementi architettonici e scenografici. Come si vede sono i
fattori fondanti l’immagine del Teatro nella nostra tradizione culturale: non vi compaiono
però gli attori e la specificazione degli spettatori. Ma dietro l’immagine, parlando di teatro, il
discorso torna poi sempre al sistema di relazioni che viene messo in atto, agli uomini che
questo teatro lo hanno fatto e fruito.
Esiti
La multiforme attività di spettacoli in cui consiste il teatro del Rinascimento ha, tra
l’altro, questo di specifico: che si organizza e si rea lizza in base ad un progetto che è
esterno allo spettacolo in sé e per sé, in ordine ad una logica che non nasce dallo
spettacolo ma che lo informa. Quella caratteristica «moderna» che è l’autonomia dei
linguaggi e delle forme e soprattutto dei loro produttori, gli artisti, quella autonomia non la
si trova nel teatro del Rinascimento. Per questo lo studio del teatro del Rinascimento è
fascinosamente «condannato» a dilatarsi nello studio di un ambiente culturale e
antropologico, :1 parlare sempre per lo specifico evento — di qualcos’altro, in una rete di
interrelazioni in cui ogni filo si definisce in rapporto agli altri fili e in relazione alla rete nella
sua globalità. Ma il teatro del Rinascimento non è il teatro del Cinquecento, ne è la
categoria culturale e progettuale egemonica. Nel Cinquecento il teatro è fatto anche dagli
scarti e dalle differenze, dalla continuità — certamente ibridata — di forme e mestieri e
abilità che vengono marginalizzati dalla progettualità rinascimentale ma ne sono pur
sempre quel fondo oscuro e ribollente che ha fatto parlare di antirinascimento. Il teatro del
Rinascimento è il progetto della Corte e della Cultura (le accademie). Una categoria
culturale prima ancora di un ambito cronologico, in cui viene a maturazione un modo di
pensare teatro, una forma mentis, di lunga durata e non legata agli spettacoli. Anche per
questo il teatro del Rinascimento è un organismo irriducibile ai suoi elementi e in qualche
modo questi sono sempre epifenomeno di altro; è naturale che il teatro nasca qui con una
forte tensione e vocazione metaforica. Laddove il teatro nel Cinquecento è solo il quadro
cronologico in cui accadono gli eventi, il terreno delle differenze e delle emergenze.
Parlare di esiti del teatro del Rinascimento implica allora due prospettive
complementari nell’oggetto e opposte nello sguardo. E significa guardare ciò che resta nel
tempo delle complessità messe in atto, cosa contribuiscono a creare le situazioni e le
civiltà, in cosa si coagulano i modi dello spettacolo: i «risultati» cioè del teatro del
Rinascimento come momento della storia del teatro, i modelli che dall’invenzione del
teatro passano alla cultura teatrale dei secoli successivi. Ma significa anche guardare le
vie d’uscita dal progetto culturale irripetibile, il giungere a conclusione di esperienze e il
nascere di altre, il punto da cui il nuovo comincia ad emergere anche per differenza
quando non per opposizione: i punti di partenza dunque del teatro che dal Cinquecento si
prolunga nel Seicento costituendo così una storia del teatro «moderno» di cui il
Rinascimento è precedente e dunque non vi è omogeneo. Sono i due sensi del latino
«exitus» che, come ogni analogo di soglia, indica il morire e il nascere. In senso forse ben
più storiografico che storico.
Posto il problema, si può scegliere che cosa guardare. La storia del teatro del
Rinascimento è stata fatta con i grandi autori e le Corti importanti, più con l’eccezione
significante e gravida di valori, cioè, che non con la norma e il quotidiano. Negli anni della
crisi del grande mito Roma e il Rinascimento negli anni intorno al ‘30, cosa vediamo
spostando lo sguardo al margine E utile prendere un intellettuale non arrivato a posizioni
di prestigio, che vive all’ombra di una corte periferica: che conosce tutti i problemi del
cortigiano ma in chiave quotidiana e banale. E vedere che teatro fa e cosa è per lui il
teatro. Un esempio, nei suoi limiti famoso, è Francesco Belo e i suoi rapporti con un ramo
degli Orsini, tra Roma e il Lazio. Ed è significativa l’importanza che nella ricerca assumono
non tanto cronache ed epistolari quando i registri dei tipografi. In questo livello della
cultura stampare una commedia cambia di significato, diventa strumento importante di
autoaffermazione: è un rapporto tra libro e commedia ben concreto e materiale, tra
l’indicazione di una committenza che si fa estranea e astratta rispetto al pensare teatro e il
segnare una omologia di mercato. Nei non pochi esempi (ancora nel Lazio il Santafiora, e
le più articolate zone di Siena e ancor più Venezia) troviamo commedie non tanto più
«basse» rispetto ai noti e canonici modelli «alti», quanto diverse nelle scelte della
narrazione e dell’agire. Ma vi restano sfocati e indistinti le modalità e i sensi del
rappresentare, e la presenza dei recitanti e degli spettatori: ci si deve interrogare, anche,
sul come questa situazione culturale, così diversa dal teatro del Rinascimento ma che vi
inerisce (sono gli anni in cui il Peruzzi porta a maturità piena la scena prospettica urbana e
si definiscono le tipologie della sala), come questa ci appaia una situazione di teatro
«moderna».
Da altro versante, ad analoghe riflessioni sulle pratiche teatrali drammaturgiche
come «esiti» del teatro del Rinascimento porta il cercare di guardare i modi e i meccanismi
produttivi del dramma. Lo si può ben studiare in una zona, ancora una volta, marginale: la
Siena di Alessandro Piccolomini. Per prima cosa veniamo a conoscere una scrittura
drammaturgica che vive come momenti separati l’operazione fabulatoria, quella letterarioretorica e quella registica: l’invenzione dalla fabula, trovare cioè il caso e distendere le
scene, è prerogativa e abilità di un letterato; di un altro è il trasportare lo schema narrativo
in dialogo e rivederlo «d’intorno a le parole»; di un altro ancora l’assestamento e la
composizione, l’accomodare l’insieme. L’operazione creativa dello scrivere un dramma è
sciolta e divisa nelle sue funzioni, in una separazione del lavoro che è modo di produzione
strutturalmente ripetibile e statuto socioculturale. E cosi il personaggio e il derivato di una
aristotelica tassonomia antropologica e l’invenzione è una combinatoria prevedibile dalle
tipo logie dei personaggi tra loro e dalla combinatoria al loro interno delle possibili
caratteristiche e qualità. Scrivere un dramma appare lavoro risultante da una molteplicità
organizzata e progettabile di operazioni, è uso di materiali culturali già elaborati. Da un lato
questo va rapportato a Siena e alle condizioni della sua civiltà teatrale: dall’altro il dramma
vi appare qui «modernamente» soluto, legato ad una idea di teatro e ad una possibilità di
fruizione. Non più l’evento unico e irripetibile del teatro del Rinascimento, ma un modo di
produzione legato a un modello e a una sistematica, e disciolto nelle sue funzioni e nelle
sue variabili possibilità di fruizione. E’ questo un esito della cultura teatrale nel
Rinascimento che si apre a non settorializzare o mitizzare l’ingresso dei comici dell’Arte
nel teatro e nella civiltà del Cinquecento.
La tensione ad una normativa, a fissare un modello, è l’esito forse più noto del
teatro del Rinascimento ed è particolarmente evidente nelle regole «aristoteliche» per la
drammaturgia: ma ha effetti e continuità ancor più vincolanti nella tipologia della
scenografia e in quella del teatro accademico, della sala teatrale — privata e pubblica. Qui
il modello diventa un a priori dell’esistere dello spettacolo rappresentativo e vive a lungo
nella cultura europea come una categoria indiscussa (fino ad essere inconsapevole) del
pensare teatro, a identificarsi (spazio e scena) con lo stesso essere del teatro. La
normativa è una sostituzione, in fondo. Il teatro del Rinascimento viveva come un dato del
progetto della Corte e della Cultura e qui fondava le proprie ragioni e le proprie
consistenze: il singolo spettacolo, o elemento dello spettacolo, rimandava e si giustificava
in rapporto alla progettualità specifica di quel determinato accadimento, nel tempo
separato e nello spazio extraquotidiano della Festa. Il dramma, l’allegoria, la recitazione, la
scena, il ballo, il banchetto, l’arco trionfale, eccetera: frammenti dell’unità che tutti li
assumeva e del progetto cui rimandavano. La loro autonomia non era assoluta, sciolta dal
sistema di relazioni di cui erano parzialità: lo «spettacolo di relazione» era ogni volta,
anche, atto di fondazione del proprio modello. Lo spettacolo «moderno» è assoluto,
momento realizzativo episodico — del modello che Io trascende. Ma è anche la
fondazione dei mestieri dello spettacolo e di un diverso organizzarsi del loro sapere.
Fra «theatrum» e «theatrum»
La parola theatrum nel Medioevo non indicava il teatro. Nel Du Cange troviamo il
theatrum spiegato come «forum, locus publicus ubi merces venum exponuntur», il mercato
cioè; nei Variloquus di Giovanni Melher, della fine del Quattrocento, theatrum è «umbra,
vel umbraculum, vel locus obumbratus», un riparo dal sole. A lungo dura l’uso di collegare
teatro e postribolo, e ancor più il nesso teatro-anfiteatro e quindi Colosseo e l’indicare
come teatro scalini digradanti verso un piano. Ancora nel ‘500 Bramante chiama theatrum
la parte centrale del Cortile del Belvedere e Giuliano da Sangallo il cortile sommerso del
progetto del 1498 per il re di Napoli. Il teatro del Campidoglio ha consentito di richiamarsi
alla curia. Theatrum è quindi uno spazio separato, recintato, protetto dal sole e dove ci si
può riunire; si connette cosi anche all’hortus conclusus. Su altra direzione Cesariano
riporta ancora l’etimologia di theatrum come Dei atrium. Prima dell’invenzione del teatro,
theatrum è dunque parola che indica un luogo designato, uno spazio speciale, per funzioni
diverse — dal mercato al tribunale, all’intrattenimento di ogni tipo. Dalla seconda metà del
Cinquecento theatrum è parola che spesso ricorre nei titoli dei libri più diversi a indicare il
libro come luogo in cui si contiene e si ordina un certo sapere, che si rifà al «Teatro della
memoria» (a partire da Giulio Camillo) e al «teatro del mondo». Qui «teatro» non è più il
luogo degli spettacoli ma diventa il luogo dell’immaginario in cui il molteplice e
l’inafferrabile, il fenomenico, si struttura e si ordina. Questa valenza della parola teatro è
stata vista (da Amedeo Quondam, in un saggio edito nel 1980, dal titolo significativo: Dal
teatro della corte al teatro del mondo) come il processo di estensione della «scena della
Corte a scena del Mondo, a sistema antropologico della rappresentazione e della
simulazione»: il teatro del mondo sarebbe allora l’equivalente simbolico «di un modo di
produzione, quello della Corte, della sua scena, della sua tipologia culturale generale».
Theatrum è qui il nodo ordinatore, la categoria strutturante, il punto di vista «superiore»
che consente di comprendere il molteplice nella sua meravigliosa e contraddittoria
diversità.
Se, come abbiamo visto parlando degli esiti del teatro del Rinascimento e
dell’ingresso dei comici dell’Arte, il teatro «moderno» nasce da una rottura coi teatro del
Rinascimento, quest’ultimo (fra «theatrum» e «theatrum») ha una sua storia e una sua
vocazione metaforica che non si identifica con quella storia più strettamente teatrale che
parla degli attori e del loro recitare, dei modi della drammaturgia e delle situazioni dei
pubblico (anche se naturalmente vi si interseca spesso e ripetutamente).
Guardiamo la scenografia. Il sistema scenico di fondale e quinte diventa la
rappresentazione dello spazio in cui accade l’azione dei personaggi, il luogo in cui la
finzione si realizza e la vita si irrealizza: e insieme un modo del pensare, una convenzione
culturale di lunga durata, il luogo ideologico che ‘informa’ lo sguardo dello spettatore. La
magia del «sembrare vero» o del meravigliare fonda un teatrale di cui il teatro è una
realizzazione episodica. E, anche, la scenografia diventa uno dei mestieri del teatro, con
un suo evolversi, modificarsi, rapportarsi alla cultura dall’interno del teatro. Diventa uno dei
linguaggi del teatro e sviluppa la propria specificità, quella di essere visione. Ma ci sono
teatri che ne possono fare a meno e usarla in modo semplificatorio e indicativo: il teatro
drammatico e professionistico può non usare le complessità acquisite. e ci sono teatri che
non usano le meraviglie della visione, come il teatro elisabettiano o quello spagnolo. E
d’altra parte le meraviglie scenografiche della visione sono usate in spettacoli non
strettamente drammatici, come nelle feste barocche e nei loro «ingegni», e la scena
diventa luogo di spettacoli diversi e molteplici, più per il melodramma ad esempio che per
il dramma. E una storia del teatro, questa, parallela e che si può seguire nel teatro della
visione — un modo del teatro che ha la sua autonomia. Ma è anche una storia fortemente
radicata in senso culturale e antropologico, tanto da costituire una forma mentis e una
metafora, una categoria per guardare e ordinare cose diverse e perfino non omogenee. E
una valenza metaforica che sopravvive agli spettacoli da cui nasce e che ha le sue radici
nel modo in cui viene a definizione nel teatro del Rinascimento. Il destino metaforico della
parola scena è forse anche in questo: come si è già detto non «nasce» per circoscrivere
un agire o un insieme della prassi, viene invece dedotta da una cultura e riconosciuta in
un’idea; si definisce così come progetto e in quanto tale diventa prassi e anche prassi
teatrale. In quel periodo e in quella zona della cultura che chiamiamo Rinascimento (in
senso riduttivo: Il breve momento culturale «romano» tra fine Quattrocento e i primi
decenni del Cinquecento), al durare e alle compresenze delle diverse forme espressive
agite come spettacolo si contrappone e si congiunge un progetto ideologico che si ridica in
modo egemonico nella cultura: questo è il teatro, avvalorato come restituzione
mitopoietica e non mitografica dell’antico, una istituzione che si recupera e si inventa
(spazio, drammaturgia, edificio, e anche funzioni dell’attore e dello spettatore). Sono non
molti uomini, spesso legati tra di loro, che vivono nelle microsocietà culturali del tempo; ma
innestati alle nuove forme del potere e che riescono ad autodefinirsi detentori del sapere e
dell’arte: una élite culturale egemone che rende tendenzialmente egemonico il suo
progetto. Il teatro sembra essere, nel Rinascimento, una funzione della società strutturata
ed esistente su una progettualità globale, ma — va nuovamente ricordato e sottolineato
non ancora sugli statuti del Teatro. L’invenzione del teatro fu evento di larga e profonda
valenza culturale e antropologica, non ancora oggi ben compresa; coagula il valore
autonomo della cultura, l’uomo come centro dell’universo, l’unità nell’individuo delle
diverse forme espressive con la tensione alla costituzione degli statuti. Ma guardandola
con la logica del «dopo» la storia diventa tautologia e non conoscenza; studiando teatro, le
tensioni fanno conoscere non tanto l’esito, l’accaduto, ma appunto le istanze, i bisogni:
non l’unità, che è astrazione, ma il molteplice, che è concreto.
Il discorso fin qui condotto è orientato su un eccesso. Si sono accentuate
problematiche aperte e prospettive irrisolte rispetto all’oggetto storiografico «Teatro del
Rinascimento» nel tentativo di proporne una diagnosi. Ma, per l’appunto, come la scheda
diagnostica di un malato indica soltanto i mali e non testimonia dell’organismo se non in
questo senso, così la nostra diagnosi è una scheda che ha bisogno, per una più corretta
visione, dell’organismo antologico di cui è parte.
La raccolta che segue si compone di tre parti. Nella prima vengono date prospettive
diacroniche sul teatro del Rinascimento secondo le tematiche «tradizionali» dello spazio
del teatro, della scenografia e della drammaturgia; e vi si aggiungono due riflessioni
problematiche, una sulla categoria della Festa, l’altra sulla figurazione. La seconda parte
offre esempi su momenti e questioni dello spettacolo nel Rinascimento: l’analisi della
cultura di una città nell’articolarsi della vita dello spettacolo e nel confronto con culture
diverse (Firenze, tra Ferrara e Roma); l’indagine sull’organizzarsi della cultura recitativa
«iuxta propria principia» nell’esempio di Venezia e di Ruzante; l’interazione tra la Corte e
la drammaturgia; capitoli iconografici sul definirsi di un’immagine teatrale e del luogo
teatrale e della scena; la narrazione drammatica proposta in una «entrata» rituale come il
Possesso e la simbologia messa in atto in un’entrata vera e propria: i modi della festa
scenica e le sue componenti; la riflessione sul costituirsi della narrazione di eventi di
spettacolo Naturalmente molti altri apporti specifici avrebbero dovuto essere presenti, e
non solo su altre corti o città, uomini ed eventi, ma sulla tragedia e le accademie, la
pastorale e la simbologia degli «ingegni» e delle macchine, sugli attori e sui mestieri dello
spettacolo, sui carnevali e le feste cittadine. La terza parte intende proporre aspetti del
passaggio dal teatro del Rinascimento al teatro nel Cinquecento, attraverso un intellettuale
non integrato nelle corti importanti e i modi di una drammaturgia non organica alla cultura
alta; il processo di funzionalizzazione della scrittura teatrale; il costituirsi di un teatro che
segue ragioni diverse dal teatro rinascimentale nei sistemi e nelle logiche produttive;
l’indicazione iconografica del modello del «teatro all’italiana» Punti di arrivo di una cultura
teatrale, questi, e insieme punti di partenza per la moderna civiltà teatrale. Le indicazioni
bibliografiche sono state realmente pensate come sussidio guidato per ulteriori
approfondimenti E nell’antologia che si fanno chiari i debiti al processo conoscitivo di una
storiografia ricca e che viene da lontano (e che non è solo teatrale); in questa storiografia,
cui siamo ampiamente debitori, lo studio del teatro del Rinascimento è conoscenza e
riflessione su un insieme culturale di cui il teatro è uno dei fattori attivi e organici.