ISSN 2280-9120 1 Rivista di Psicologia dell’Emergenza e dell’Assistenza Umanitaria SEMESTRALE DELLA FEDERAZIONE PSICOLOGI PER I POPOLI Numero 17, 2017 Numero 17, 2017 Alessandra Farinella e Raffaela Paladini Emergenza rosa: la violenza sulle donne Riassunto La violenza sulle donne continua a essere in prima pagina su tutti i giornali: ogni anno in Italia oltre cento donne vengono uccise da uomini, quasi sempre quelli che sostengono di amarle. Tanto si è fatto e ancora di più si continua a fare; ma sembra che questo non basti. Anche la nostra Associazione si è mobilitata, partecipando a una campagna nazionale per sensibilizzare la cittadinanza al tema e aiutare le donne vittima di violenze. La violenza può avere molteplici volti, perché non si parla solo di donne ammazzate, ma anche di donne picchiate, maltrattate, abusate, aggredite e sfregiate: una strage, un’emergenza spesso sommessa. Diversi studi hanno evidenziato che ci sono dei fattori predisponenti nell’uomo che esercita violenza nei confronti della donna, ma hanno anche rilevato che esistono dei fattori di rischio nelle donne che subiscono violenza. Tali agiti provocano delle conseguenze, sia a livello psicologico che a livello fisiologico, che dipendono dal contesto in cui avvengono, dalla durata e gravità della violenza e dalle capacità di coping della vittima. Il disturbo post-traumatico da stress è molto spesso una delle più gravi conseguenze a lungo termine maggiormente associate a tutte le tipologie di violenza femminile. Parole chiave: violenza, donne, partner, sindrome della donna maltrattata, PTSD. Abstract Violence against women continues to be on the front page of every newspaper: each year more than a hundred women in Italy are killed by men, almost always those who claim to love them. So much was done, and even more is being done; but it seems that this is not enough. Our Association too mobilized, participating in a national campaign to raise awareness and help women who are victims of violence. Violence can have many faces, as victims of violence are not only the killed women, but also those who are beaten, battered, abused, assaulted and scarred that man exercising violence against women have some predisposing factors, but also that women who suffer violence have some risk factors in themselves. These acting outs have consequences, both at psychological and physiological level, depending on the context in which they are stirred, the duration and the severity of violence, and the victim’s coping ability. The post-traumatic stress disorder is very often one of the most serious long-term consequences more strongly associated with all types of violence against women. Key words: violence, women, battered woman syndrome, partner, PTSD. Introduzione Lo scorso anno, come Associazione Psicologi per i Popoli Emilia Romagna, abbiamo aderito alla campagna “Questo non è amore”, un progetto implementato dalla Polizia di Stato, che è scesa in molte piazze emiliano-romagnole, accanto alle donne vittima di violenza. 6 Rivista di Psicologia dell’Emergenza e dell’Assistenza Umanitaria 7 L’iniziativa, diffusa a livello nazionale, è stata promossa dal Ministero degli Interni e ha visto la partecipazione di agenti, psicologi e medici della Polizia di Stato, e ha consentito di contattare oltre 18.600 persone, in maggioranza donne. L’evento ha coinvolto 22 province italiane, tra cui Bologna, Imola, San Giovanni in Persicelo e Modena, il primo e il terzo sabato dei mesi di luglio, agosto, settembre e ottobre, con postazione mobile e personale specializzato. L’obiettivo del progetto era quello di sensibilizzare la popolazione sul tema della violenza contro le donne, fornendo materiale informativo sugli strumenti di tutela e di intervento in situazioni di violenza e stalking, nonché su come comportarsi, a chi rivolgersi e quali centri contattare sul territorio locale in caso di maltrattamenti fisici e psicologici. Il personale presente era preparato ad accogliere racconti di vissuti personali ed eventuali denunce, e consigliare un eventuale supporto qualificato. L’occasione ci ha dato modo di confrontarci su questo argomento con altri professionisti che lavorano nel settore, raccogliere testimonianze raccapriccianti e discuterne tra noi, informandoci/ formandoci sui dati del fenomeno e sulle motivazioni delle resistenze a denunciare da parte delle donne. Il quadro emerso pare davvero allarmante: la violenza sulle donne, per mano di mariti o ex mariti, compagni e/o ex compagni e fidanzati e/o ex fidanzati maltrattanti e abusanti, spesso con esiti infausti, non è mai stata così evidente come negli ultimi anni, a livello sia nazionale che internazionale. Emerge che l’ambito familiare è stato, e continua a essere, il luogo principale in cui avvengono le violenze. La violenza, inoltre, non è circoscritta a determinati classi sociali o culturali, ma colpisce in modo trasversale tutti i gruppi sociali e culturali e tutte le fasce di età. gravi nelle vittime maltrattate, si è assistito nei ultimi decenni, da parte delle forze dell’ordine, delle organizzazioni femminili e della sanità pubblica, a un incremento di attività/iniziative e interventi per arginare la violenza e proteggere le donne. Nonostante la cura nella ricerca e l’attenzione alle varie testimonianze, risulta impossibile risalire ai dati reali che permettano di fare una stima esatta dei casi di violenza che avvengono ogni anno, e questo per diversi motivi – primo dei quali la scarsità delle donne che trovano la forza di denunciare il proprio maltrattante. La violenza e le sue forme La violenza può avere molteplici volti, che a volte la vittima fatica a riconoscere nelle prime manifestazioni, spesso costituite da parole gentili ma oppressive, atteggiamenti di cura ma eccessivi, azioni di controllo e di dominio sull’altro, che narrano di disagi personali, scarsa autostima, insufficiente educazione affettiva/sentimentale, mancanza di affermazione sociale o traumi infantili e violenze domestiche. Nell’art. 1 della Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne del 1993, la violenza contro la donna (dentro e fuori le Numero 17, 2017 mura domestiche) viene definita così: “Qualsiasi atto di violenza per motivi di genere che provochi o possa verosimilmente provocare danno fisico, sessuale o psicologico, comprese le minacce di violenza, la coercizione o privazione arbitraria della libertà personale, sia nella vita pubblica che privata”. Tali comportamenti comprendono: Gli atti di aggressione fisica: schiaffi, pugni, calci e percosse. L’abuso psicologico: intimidazione, svalutazione e umiliazione costanti. I rapporti sessuali forzati e altre forme di coercizione sessuale. Vari atteggiamenti di controllo: isolare una persona dalla sua famiglia d’origine e dagli amici, controllarne i movimenti e limitare le sue possibilità di accesso a informazioni o assistenza (WHO, 2002). La violenza domestica riguarda tutti quegli atti di violenza commessi da uomini vicini alla vittima – come mariti, fidanzati, padri, suoceri, fratelli – che avvengono non soltanto all’interno del nucleo familiare ma anche all’esterno (Canu, 2008). La violenza quindi risulta essere caratterizzata da tutti quei comportamenti dove viene utilizzata sia la forza fisica per controllare e umiliare la donna, compreso l’abuso sessuale, sia quei comportamenti che, pur non essendo caratterizzati dall’uso della forza, hanno il fine di terrorizzare la donna facendo ricorso a minacce, svalutazione e limitazione graduale della libertà e dell’attività lavorativa o di studio. Questi comportamenti determinano con il progredire del tempo una forte limitazione delle risorse a cui la donna può attingere. Gli atti di violenza non emergono nella relazione disfunzionale in modo improvviso, non sono un gesto repentino, un raptus, uno scatto d’ira o di passione accecante, ma avvengono gradualmente partendo dalla violenza psicologica, passando per quella fisica e sessuale fino ad arrivare in moltissimi casi a sfociare nel femminicidio. La violenza da parte del partner maltrattante può assumere diverse modalità di espressione e di intensità. Per quanto riguarda l’intensità, la violenza può esprimersi sia in modo acuto – dove gli agiti, poco frequenti, si caratterizzano come espressione di rabbia – sia in modo cronico – dove gli atti di violenza non sono molto frequenti e hanno lo scopo di esercitare dominio e controllo sulla vittima (Canu, 2008). In riferimento alle modalità di espressione, la violenza assume diverse forme: psicologica, fisica e sessuale. La violenza psicologica, che precede spesso quella fisica, è caratterizzata da rimproveri, umiliazioni, provocazioni, limitazioni e isolamento della vittima tesi a eliminare qualsiasi rete amicale e parentale che possa costituire una risorsa per quest’ultima, nonché minacce e offese e, infine, privazione dell’indipendenza economica. Tali forme di violenza hanno lo scopo di indurre nella vittima autosvalutazione (mediante un indebolimento della personalità, facendola diventare molto insicura), senso di colpa, vergogna o, nei casi estremi, a un’identificazione con l’aggressore, che conduce inevitabilmente alla collusione della vittima con l’abusante e a mantenere il segreto delle violenze subite e alla sua difesa con meccanismi difensivi quali la minimizzazione e negazione. La donna, infatti, giustifica e protegge colui che le infligge violenza, piuttosto che agire per tutelare la propria vita, facendosi carico della violenza e collocan- 8 Rivista di Psicologia dell’Emergenza e dell’Assistenza Umanitaria 9 do in se stessa, nel proprio comportamento, la causa di tale agito. Il colludere, per la donna, ha la funzione di evitare il senso di impotenza, dà la sensazione di controllare le violenze subite, costruendo con queste modalità difensive un falso senso di sicurezza. L’abuso emotivo spesso determina nella donna maggiore sofferenza rispetto alla violenza fisica poiché è rafforzato da quest’ultima. In tal modo la violenza emotiva è sufficiente a controllare la vittima, a dominarla. La violenza fisica non comprende solamente atti fisici veri e propri, ma anche le minacce di percosse. In questo tipo di violenza, l’abusante, mediante la paura e l’aggressione fisica, mantiene il suo dominio sulla vittima. La violenza sessuale, ovvero l’imposizione dell’attività sessuale, comprende le molestie sessuali e tutti quei rapporti sessuali “accettati” dalla donna per il terrore delle conseguenze da parte dell’abusante – come, per esempio, attività sessuali in pubblico o rapporti sessuali con altri soggetti. Sono violenze che hanno come principale finalità quella di umiliare la donna, privarla della dignità ed esercitare potere su di lei. Vengono utilizzate dal maltrattante non come mezzo per raggiungere un soddisfacimento dei propri bisogni, ma per umiliare e avere il controllo assoluto della relazione. La vittima, invece, viene indotta dai comportamenti violenti del partner a utilizzare le attività sessuali come mezzo per salvarsi dalle violenze fisiche subite ed evitare che il maltrattante indirizzi la propria violenza fisica anche sui figli (Walker, 1996; 2000). Un elemento importante da considerare negli atti di violenza è la ciclicità con la quale viene messa in atto. Sono state individuate quattro fasi crescenti di violenza: nella prima si evidenzia nell’uomo maltrattante uno stato di tensione che si manifesta attraverso il comportamento teso a mostrare ostilità a ogni singolo comportamento della donna. Segue la fase di attacco, in cui il partner mostra la perdita del controllo sul proprio comportamento inizialmente con grida, urla, rottura di oggetti e poi con la violenza vera e propria sulla donna. Successivamente alla violenza, il partner maltrattante cerca di minimizzare l’accaduto attribuendo la colpa dell’accaduto alla partner. Infine, si mostra premuroso nei confronti della partner. Quest’ultima fase gioca un ruolo fondamentale nella ciclicità della violenza, in quanto, con il comportamento manipolativo dell’uomo timoroso di essere lasciato, la donna si lascia convincere che la violenza non avrà più luogo e che lui cambierà. È in questo momento che si instaura nella donna una resistenza agli attacchi di violenza (Canu, 2008). I meccanismi psicologici sottesi in quest’ultima fase, o fase della “luna di miele”, sono la minimizzazione, il diniego e l’idealizzazione – meccanismi difensivi messi in atto dalla donna abusata che gettano le basi per il perpetuarsi delle violenze (Grifoni, 2016). I fattori predisponenti nell’uomo e la classificazione dei partner maltrattanti Secondo quanto riportato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 2002), è possibile individuare dei fattori di rischio che predispongono Numero 17, 2017 il partner a esercitare violenza nei confronti della donna. In primo luogo, l’aver sperimentato personalmente o assistito alla messa in atto di violenze in ambito familiare durante il periodo infantile o l’adolescenza costituisce un fattore che predispone l’uomo a ricorrere alla violenza nei confronti della donna. L’assunzione costante o l’abuso di alcol è un altro fattore determinante nella relazione disfunzionale caratterizzata da violenza. In terzo luogo, possono essere presenti disturbi emotivi e di personalità. Questi uomini sembrano essere affetti da disturbi della personalità, in particolar modo da disturbo antisociale di personalità e disturbo borderline di personalità, oltre a presentare una scarsa autostima. Quest’ultima determinerebbe un senso di fragilità, che si cerca di contrastare con la violenza. Riuscire a classificare in qualche modo le caratteristiche dei partner maltrattanti permetterebbe di individuare e mettere in atto adeguate strategie d’intervento, che riducano i livelli di violenza per proteggere la vittima di abusi (Sanders, 1992; Grana et al., 2014). Holtzworth-Munroe e Stuart (1994), con un’importante ricerca a cui sono seguiti ulteriori studi di validazione, sono riusciti a individuare tre dimensioni, in cui è possibile individuare tre sottotipi di uomini maltrattanti. Le dimensioni fanno riferimento alla messa in atto del comportamento: gravità e frequenza delle violenze fisiche e sessuali generalizzabilità della violenza psicopatologia e/o disturbi di personalità. I tre sottotipi di uomini maltrattanti individuati da questi studiosi riguardano: Famiglia. In questo sottotipo rientrano tutti quei soggetti maschili che attuano le loro violenze solamente all’interno del contesto familiare e a cui si associa solo una psicopatologia. Disforico/borderline. Questi soggetti maltrattano la propria partner sia all’interno che all’esterno del contesto familiare, facendo ricorso all’abuso non solo fisico ma anche sessuale. Presentano inoltre comportamenti criminali e di abuso di alcol e droghe. Da un punto di vista strettamente psicologico, i partner maltrattanti che rientrano in questo sottotipo presentano tratti di personalità patologici imputabili ai disturbi disforici, schizofrenici e borderline. Violento/antisociale. Questo terzo sottotipo, raccoglie quei soggetti la cui violenza è di grave entità e frequente. Come nel sottotipo precedente, essi attuano anche abusi di natura sessuale. È possibile riscontrare sia comportamenti di abuso di sostanze sia criminali. La loro personalità è patologica, in particolare di tipo antisociale. In riferimento ai disturbi di personalità, si rintraccerebbe anche un disturbo di personalità di tipo paranoide: l’uomo ritiene che la partner metta in atto una serie di azioni contro di lui e che approfitti del suo amore ripagandolo solamente con delusioni e tradimenti. La violenza, quindi, sarebbe la giusta punizione per le sofferenze e le umiliazioni subite (Casale et al., 2014). 10 Rivista di Psicologia dell’Emergenza e dell’Assistenza Umanitaria 11 Fattori predisponenti nella donna Nella relazione caratterizzata da violenza intervengono oltre ai fattori individuali anche i fattori ambientali . Tra questi ultimi è individuabile la mancanza di una rete sociale e familiare a cui fare riferimento per richiedere sostegno e aiuto emotivo e materiale. Molto spesso, infatti, la rete parentale giunge a giustificare o a negare le violenze che la donna riceve, arrivando perfino ad accusarla di essere la causa dell'istigazione alle violenze, di essere un'incapace soprattutto nell'accudire i propri figli, o qualora la donna manifesti l'ipotesi di mettere fine alla relazione, l'accusano di voler far crescere i propri figli privi di una figura paterna. Esistono due elementi fondamentali che fanno sì che la donna possa divenire oggetto di violenze da parte della figura maschile in età adulta: l’essere donna e l’aver subito maltrattamenti e/o carenze affettive durante il periodo infantile. La bambina, nel periodo infantile, fa costante riferimento alle figure di accudimento per ricevere protezione; tuttavia, se tali figure tradiscono il loro ruolo, facendo sperimentare carenze affettive o, nei casi estremi, maltrattamenti, in lei si sviluppa un senso di insicurezza e inadeguatezza, che la predispone in età adulta a ricercare quella “figura paterna sostitutiva” che vada a confermare la sua convinzione, derivante dall’infanzia, di non meritare di essere amata. La relazione con il maltrattante, inizialmente, non è violenta, in quanto quest’ultimo si dimostra molto attento ai bisogni della partner; ma questo comportamento ha lo scopo di far diventare la donna dipendente da lui, fino ad allontanarla dalle sue relazioni amicali e familiari. Infatti, tutte le donne vittime di violenza non hanno consapevolezza di essere vittime se non nel momento in cui sono invischiate nella relazione (Galante, 2012). Questa dipendenza dà origine a un legame ambivalente, in cui gli atti di violenza assumono un andamento ciclico alternandosi ad affettuosità, ed è in questi momenti di dolcezza e passione che il maltrattante è in grado di trattenere la partner maltrattata nel rapporto patologico. Occorre sottolineare che l’alternanza di questi momenti spinge la donna, nei periodi di “calma”, a ignorare la criticità della situazione, considerando la violenza come un evento isolato. Il partner violento, a sua volta, sostenendo che la violenza non avrà più luogo, determina l’accettazione della relazione abusante da parte della vittima. Dutton e Painter (1981) ritengono che l’alternanza dei momenti di violenza e affetto, e la scelta della donna di mantenere questo legame, non siano dovute, come molti studiosi hanno sostenuto, a una personalità patologica che determina la vittimizzazione o a tratti di personalità masochistici, bensì alla presenza di meccanismi di rinforzo attivati dalla disuguaglianza di potere tra i membri della coppia e riscontrabili nel legame che si instaura tra il rapitore e l’ostaggio. Quest’ultimo legame, definito “identificazione con l’aggressore” ed elaborato dallo psicanalista ungherese Ferenczi, consiste nell’introiettare l’immagine dell’aggressore con lo scopo di rendere l’esperienza meno traumatica, riuscendo ad avere un senso di controllo sulla propria sofferenza. Inoltre, per questi studiosi, occorre considerare anche la presenza di altri fattori importanti che aiutano a mantenere la relazione di abuso, o traumatic bonding: Numero 17, 2017 il ruolo dei modelli comportamentali adulti durante il periodo infantile. Per esempio, l’apprendimento per imitazione di modelli di comportamento aggressivi, che potrebbe determinare nel maschio l’assunzione del ruolo di maltrattante da adulto e nelle femmine un senso di impotenza, derivante dall’osservare la propria madre coinvolta nei maltrattamenti; uno stato di impotenza appresa. Il fatto di non poter controllare determinate situazioni o azioni origina nell’individuo la perdita della capacità di affrontare la situazione e apportare un significativo cambiamento. Un’ulteriore conseguenza del senso di impotenza appresa è un drastico calo dell’autostima unito all’insorgere della depressione; le ridotte risorse sociali ed economiche. Molto spesso il partner maltrattante, esercitando un controllo sulla disponibilità economica della donna, impedisce il raggiungimento di un’indipendenza che potrebbe essere utilizzata da quest’ultima per mettere fine alla relazione maltrattante. Le conseguenze psicologiche e fisiologiche dell’abuso La ciclicità delle violenze ha un forte impatto a breve, medio e lungo termine sulla salute della donna. Le conseguenze che ne derivano, tuttavia, non sono oggettive ma variano tra le vittime di abuso e dipendono dal contesto, dalla durata e dalla gravità della violenza, nonché dalle capacità di coping e dalle risorse materiali disponibili (Creazzo, 2011). La sindrome della donna maltrattata, o battered woman syndrome, fa riferimento allo stress psicologico (distress) inerente all’anticipazione dell’abuso e ha, come conseguenze psicologiche negative, un abbassamento dell’autostima, impotenza appresa e strategie di coping inadeguate. Nelle donne violentate si riscontra sovente anche un senso di colpa verso il partner (“sono io a provocarlo”) e un senso di svalutazione di sé (“me le merito”); sono donne afflitte da senso di inadeguatezza (“non riesco a far andare bene la relazione”, “non sono capace di sopportare”), diffidenza (“suscito biasimo e disapprovazione negli altri”), vergogna (“forse sono io che sbaglio, ha ragione lui”), paura “di far brutta figura” e da un sentimento di ambiguità, “di mettere in cattiva luce il proprio uomo e/o padre dei propri figli”. Le donne vittima di violenza lamentano una serie di disturbi somatici come tachicardia, difficoltà a deglutire, senso di “nodo alla gola”, disturbi gastrointestinali, come conseguenza degli alti livelli di stress sperimentati. Le vittime si sentono vuote, stanche, prive di energia. Niente le interessa più, il tono della voce è monotono, la mimica facciale è congelata, l’atteggiamento evitante. Sono riscontrabili inoltre disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione, disturbi alimentari, abuso di sostanze e disturbi quali atti di autolesionismo, ansia e disturbo della personalità di tipo paranoide, oltre al disturbo posttraumatico da stress (Pico-Alfonso, 2008; Galante, 2012). 12 Rivista di Psicologia dell’Emergenza e dell’Assistenza Umanitaria 13 Il disturbo post-traumatico da stress come conseguenza a lungo termine Dalla letteratura emerge che il disturbo post-traumatico da stress è molto spesso una delle conseguenze a lungo termine maggiormente associata a tutte le tipologie di violenza femminile, anche se la violenza sessuale sembra essere maggiormente correlata al PTDS. Infatti, come riportato nel DSM-5, “è maggiormente prevalente tra le femmine rispetto ai maschi lungo l’arco della vita. Nella popolazione generale mostrano una durata maggiore del disturbo rispetto ai maschi”. Tale disturbo, causato da forti eventi stressanti o traumatici, è associato a episodi imprevisti, unici e limitati nel tempo, come un incidente, una morte, una catastrofe o altro, ma anche a una minaccia quotidiana, e si caratterizza per la presenza di 1) pensieri intrusivi che fanno rivivere al soggetto l’evento traumatico; 2) evitamento di tutte le situazioni che potrebbero far rivivere l’evento (flashback); 3) una sintomatologia imputabile a un’iperattivazione fisiologica (iperaorusal); 4) riduzione dell’espressione emozionale, che causa una riduzione dell’interesse della vittima in attività in precedenza praticate e ritenute interessanti; 5) difficoltà nel manifestare emozioni. Tra i sintomi che possono far ritenere che vi sia un’evoluzione negativa della patologia, ci sono la rabbia e la dissociazione (depersonalizzazione e derealizzazione). L’insorgenza del disturbo avviene generalmente entro tre mesi dall’evento eversivo, e l’acuirsi dei sintomi si associa molto spesso a quei fattori che, successivamente al trauma, continuano a caratterizzarsi come stressogeni, come, per esempio, il rivivere il trauma stesso nella quotidianità (AMA, 2014). Tuttavia è doveroso sottolineare che la comparsa del disturbo non è sempre una conseguenza prevedibile; infatti, occorre considerare l’eventuale presenza dei fattori di resilienza che proteggono la vittima di violenza dallo sviluppo del disturbo post-traumatico da stress. Conclusioni Per arginare i casi estremi di violenza che molto spesso sfociano in femminicidio è di fondamentale importanza che la vittima impari a 1) riconoscere la pericolosità delle azioni dell’altro; 2) riconoscere di essere vittima di una situazione di violenza e ad accettare i vissuti e le emozioni negative che ne derivano, 3) fidarsi di se e prendere consapevolezza della propria forza; 4) chiedere aiuto e non sentirsi abbandonata dai servizi territoriali che possono costituire la sua salvezza. Spesso la donna oggetto di violenza è molto sola. Ed è questo il primo obiettivo dell’uomo violento: isolarla, per meglio “dominarla”, allontanandola dalla famiglia, dalle amiche, dai colleghi e da tutti gli affetti, manifestando un senso di possesso e di coercizione e sopraffazione tirannica, tale da escludere ogni possibilità di reazione. Sovente la donna, per evitare liti, si allontana, elude le telefonate delle amiche, si sottrae agli inviti di familiari, trova pretesti per non uscire, così che in poco tempo si ritrova isolata. Il meccanismo è talmente pervasivo che mina l’autostima e la capacità di coping della donna, che perde il senso di sé e il senso di realtà e spesso rinuncia a denun- Numero 17, 2017 ciare, confidarsi e ammettere le violenze subite, vittima anche della paura che sostituisce la rabbia, e della rassegnazione che placa il senso di ribellione. In una tale esperienza di violenza, deprivazioni e dolore, solo se la donna si sente “protetta” e “ascoltata” può arrivare a trovare il coraggio di fuggire dalla ciclicità delle violenze subite, denunciare e riuscire in questo modo a mettersi in salvo insieme ai figli, qualora presenti. È importante che la vittima riesca a rompere il muro del silenzio, della segretezza che caratterizza queste storie. A livello preventivo, bisognerebbe incentivare nelle scuole, negli uffici, nelle fabbriche e in tutti i luoghi pubblici l’educazione all’affettività, partendo dal presupposto che una buona gestione del proprio mondo emozionale è la migliore garanzia di benessere psicofisico. Riconoscere e gestire le proprie emozioni è fondamentale, perché è proprio attraverso la loro espressione e la loro percezione che si entra in contatto con la dimensione più profonda di se stessi e degli altri. Sapersi “muovere” nel proprio mondo affettivo ed emotivo consente di riconoscere ed esprimere i propri bisogni e metterli in relazione con la realtà esterna, e costituisce il migliore fattore di protezione dal disagio, dal disadattamento e da problematiche inerenti la sfera sessuale, comportamentale e sociale, realizzando così la propria sana e armonica dimensione esistenziale. 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