Globalizzazione e autonomie
1. il problema in cerca di parole: globalizzazione, omologazione, complessità.
È indicativo e di guida il titolo dell’intervento di Anthony Giddens tenuto alle Reith Lectures nel
1999 poi trasmesso dalla Bbc e pubblicato nell’opera complessiva: «Il mondo che cambia. Come la
globalizzazione ridisegna la nostra vita» (il Mulino, Bologna 2000). Il termine globalizzazione si
presenta come lettore efficace e quasi insostituibile (anche solo per il suo ricorrere) della
contemporaneità. Come definirlo.
Globalizzazione, omologazione, complessità.
Inteso, in modo elementare e preliminare, come estensione al “sistema mondo” di pratiche sociali
identiche (all’apparenza, poiché in realtà il contesto le risignifica), il termine globalizzazione non
viene compreso nella sua incidenza interpretativa dell’età contemporanea se non è considerato in
tensione tra due altri termini antitetici che lo caratterizzano: omologazione e complessità. La
globalizzazione diffonde a livello mondiale stili di vita omogenei servendosi di processi che le
sociologia indica con il termine “omologazione”. Contemporaneamente essa introduce, negli ambiti
in cui opera, una rivoluzione di orientamento, scelta, progetto tale da creare inattesi, talora
disorientanti, livelli di complessità. Perciò bisogna camminare con tre parole: globalizzazione,
omologazione, complessità. Ognuna indica dinamiche sociali diverse, che tuttavia si sorreggono e
correggono a vicenda impedendosi reciprocamente di imporsi con enfasi eccessiva e quindi
inopportuna se il loro scopo è guidare a comprendere la dinamica della società contemporanea. Si
tratta di una di quelle parole che, tolte dall’abuso e poste in connessione, fanno scorgere la
dimensione culturale e politica in cui ogni individuo, nel presente, è collocato. «L’individualismo
imposto dalla globalizzazione ha sradicato i movimenti di massa e ha reso inservibili le categorie
politiche e sociali con cui pensavamo noi stessi e gli altri: se le grandi narrazioni collettive sono
finite, la vita del soggetto acquista la stessa drammaticità della storia del mondo. Abbiamo bisogno
di un nuovo paradigma per capire il presente e, soprattutto, per rivendicare i nostri diritti.» Touraine
Alain 2004 La globalizzazione e la fine del sociale, il Saggiatore, Milano 2008 (titolo originale in
traduzione letterale. Un nuovo paradigma. Per comprendere il mondo oggi).
1.1. ipotesi di intesa sul termine globalizzazione
1.1.01. Una premessa di metodo generale sul tema della chiarezza e delle semplicità. Si tratta di
categorie richieste ed elogiate, in realtà nascondono (o possono nascondere) un inganno. Quando ho
reso semplice un concetto allo scopo di renderlo chiaro l’ho anche reso inutile per l’intento di
portare a comprensione quella realtà che vogliamo conoscere.
Osserva Butler Judith 1990, 1999, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, Milano
2004: «I critici e i sostenitori di Scambi di genere hanno notato entrambi la sua complessità
stilistica. Senza dubbio è strano, e per alcuni esasperante, trovare un libro non facilmente
consumabile e non "divulgativo" secondo i criteri accademici. Questo stupore va forse imputato al
fatto che sottovalutiamo i lettori, la loro capacità e il loro desiderio di leggere testi complicati e
stimolanti, quando la complicazione non è gratuita, quando lo stimolo serve a mettere in discussione
verità date per scontate, anzi quando la natura scontata di quelle verità è opprimente.» XXII
«L’esigenza di semplicità dimentica gli inganni messi in atto dalla visione apparentemente “chiara".
Avital Ronell ricorda il momento in cui Nixon guardò la nazione negli occhi dicendo: "Lasciate che
chiarisca, bene una cosa" proseguendo poi a mentire. Che cosa, si cela dietro l’etichetta della
"chiarezza" e quale sarebbe il prezzo da pagare se non si mostrasse un certo sospetto critico quando
viene annunciato l’arrivo della, semplicità? Chi inventa i protocolli della "chiarezza” e quali
interessi favoriscono questi ultimi? Che cosa si preclude insistendo nel dire che ottusi criteri di
trasparenza sono indispensabili per ogni tipo di comunicazione? Che cosa nasconde la
"trasparenza"?» XXIII Il parlare alla “gente” partendo dalla convinzione che si sta parlando ad un
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bambino di anni… non esprime forse l’intenzione di ingannarla o escluderla subdolamente mentre
si vorrebbe trasmettere l’idea di essere vicino, dalla parte di, “uno di noi”…?
«Clamorosamente vincente sul piano quantitativo - ingrediente ormai irrinunciabile di ogni
riflessione, o forse sarebbe meglio dire di ogni predica, sull'inevitabile ridimensionamento dello
Stato sociale, sulla flessibilità del lavoro e sulla fine delle garanzie -, il termine globalizzazione
rimane, tuttavia, un concetto ancora preoccupantemente generico e impreciso. Un mot fétiche: una
parola feticcio, per usare una felice espressione di Robert Boyer, uno dei principali esponenti della
«scuola della regolazione» francese. O, se si preferisce, un mot chargé d'idéologie, come lo ha
definito, fin dal suo apparire, Francois Chesnais, per l'implicita accettazione che esso presuppone
del processo di «assolutizzazione dell'economia»; e per l'attribuzione ad esso di un carattere in se
stesso «benefico e necessario», irresistibile e ingovernabile, rispetto al quale, come nel caso delle
originarie religioni animistiche e tribali, l'unica chance lasciata ai soggetti sociali e agli individui è,
puramente e semplicemente, quella di adattarsi («s'adapter... est le maître mot qui a maintenant
valeur de slogan»), facendo, se possibile, «sacrifici umani».» Revelli Marco, La globalizzazione.
definizioni e conseguenze. (saggio-conferenza).
Scandendo allora i significati (alcuni) del termine “globalizzazione”
1.1.1. una “rivoluzione culturale” (o, secondo taluni, una «controrivoluzione culturale»). «Un
processo di più accelerata circolazione delle informazioni, delle immagini e dei valori culturali a cui
si accompagna, almeno in parte, un parallelo fenomeno di uniformazione, di omogeneizzazione e di
«omologazione» delle culture.» (Revelli M. ivi). La conseguenza è un’estensione universale di uno
stesso modello di vita: dimensione del vivere sociale che stempera tradizionali riferimenti ideali,
linguistici e consuetudinari privandoli del ruolo di "incubatori" di identità, di passaggi per la
programmazione produttiva e la distribuzione delle risorse.
«La rivoluzione digitale ha il potenziale per rendere fungibili, come merci nel ciberspazio, le
esperienze culturali, proprio come il denaro ha reso fungibile lo scambio di beni nello spazio
geografico. […] Il ciberspazio è il nuovo palcoscenico del mondo, sul quale, in futuro, verranno
messe in scena produzioni culturali di ogni tipo immaginabile.» Rifkin Jeremy 2000 L’era
dell’accesso. La rivoluzione della new economy, A. Mondadori 2000, 227, 228
1.1.2. una “rivoluzione temporale”: l'eterno presente. Le opportunità del presente, numerose, in
rapida e imprevedibile evoluzione, fanno della memoria un inutile pensare alla scarsità e del futuro
un tempo ove non vi è nulla da attendersi più di quello che oggi si può ottenere, non esistendo altro
modello di produzione di opportunità se non quello presente considerato sinonimo di sviluppo;
(vedi Bonomi Aldo 1996 Il trionfo della moltitudine, Bollati Boringhieri, Torino)
O, in altra accezione: « Il mondo globalizzato è mondo sincronizzato; il tempo che lo determina è il
presente in quanto prodotto; la sua convergenza tematica, esso la trova nell’attualità.» Sloterdijk
Peter 2001 L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, Carocci, Roma 2002, 158
«Oggi al tempo dell’orologio dell’era delle macchine si è aggiunto quello che lo studioso di design
John Thackara ha chiamato «tempo reale», cioè un tempo reso possibile da Internet, un tempo
istantaneo che impone agli individui di essere sempre attivi e connessi. […] In precedenza, il tempo
e lo spazio erano misurati a partire dall’esperienza individuale, e in particolare dall’esperienza
personale del rapporto con la natura, ma con l’avvento della modernità la loro percezione e stata
sempre più uniformemente condivisa in tutto il sistema sociale, «svuotando» sostanzialmente della
loro essenza sia il tempo che lo spazio. Questi sono stati resi entità astratte che riescono a facilitare
il funzionamento della società e dei mercati proprio perché non hanno la necessita di intrattenere dei
legami con un preciso contesto sociale. Tutto ciò ha reso possibile un’incredibile accelerazione
della vita che produce come conseguenza pesanti costi per l’ambiente naturale e una compressione
del tempo a disposizione degli individui. Passato e futuro si accorciano progressivamente e domina
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la necessità di essere istantanei.» Codeluppi Vanni, 2012 Ipermondo. Dieci chiavi per capire il
presente, Laterza, Roma-Bari, 10-11 Del resto, per Internet e per il mondo virtuale o della
connessione, nella seconde life, la notte non c’è.
1.1.2.1. e, per assurdo, abbiamo meno tempo, dunque urge vivere il presente. «Dopo aver inventato
ogni possibile sistema e strumento per risparmiare tempo e lavoro, e ogni servizio pensabile per
soddisfare desideri ed esigenze di natura economica, cominciamo a sentire di avere, per noi stessi,
meno tempo di quanto ne abbiano avuto i nostri antenati.» Rifkin Jeremy 2000 L’era dell’accesso.
La rivoluzione della new economy, A. Mondadori 2000, 152
1.1.3. una “rivoluzione spaziale”: la separazione dello spazio dal luogo (la deterritorializzazione).
I rapporti sociali si enucleano dai contesti locali di interazione e si ristrutturano su traiettorie spaziotemporali indefinite: la società globale si sostanzia nell'intensificarsi delle relazioni sociali mondiali
(mondializzazione) che collegano tra loro luoghi distanti così che gli eventi locali sono modellati
direttamente, istantaneamente, da eventi che si verificano in altri luoghi; « … come una radicale
trasformazione dello «spazio sociale» (dello spazio entro il quale avvengono i fatti percepiti dagli
uomini come rilevanti al fine della loro condizione quotidiana); o, se si preferisce, della «percezione
sociale» dello spazio (del modo in cui gli individui selezionano i fatti suscettibili di influenzare la
loro vita lungo una scala di distanze). Distanze che erano brevi o brevissime in epoche pretecnologiche e pre-moderne (non superavano in genere il raggio della comunità di villaggio, del
rapporto tra borgo e contado, entro cui si consumavano praticamente tutti gli eventi di un qualche
rilievo per i loro abitanti); che sono andate crescendo con il diffondersi delle tecnologie meccaniche
e in particolare con le tecnologie della «velocità» come la ferrovia, il telegrafo, l'automobile, il
telefono, la radio, la televisione, ecc., estendendosi, nell'ultimo secolo, al raggio dei grandi statinazione (facendo delle frontiere degli stati il perimetro dello «spazio sociale» di riferimento
nell'epoca, appunto, della nazionalizzazione delle masse); e che sono giunte ad abbracciare l'intero
pianeta negli ultimi decenni… come una forma di stretching spaziale (A. Giddens), di «stiramento»
dello spazio, nel senso dell'allungamento delle reti di riferimento spaziale degli individui, delle
catene di eventi e di relazioni per essi significativi su distanze appunto «globali», e che hanno
qualificato con l'espressione «azione a distanza».» (Revelli M. ivi).
Il luogo nel quale ci troviamo non costituisce necessariamente per noi una comunità. «Le relazioni
tra persone che vivono in un luogo in condizioni globalizzata possono configurarsi come una
coesistenza priva di rapporti». (Beck Ulrich, La società cosmopolita, il Mulino, Bologna 2003)
È utilizzabile appunto, per comprendere l’attuale globalizzazione, la distinzione tra spazio e luogo:
non è la materialità del luogo a decidere delle relazioni dello spazio, come accadeva un tempo; il
luogo non coincide con lo spazio, anche se si tratta tuttavia di due dimensioni irrinunciabili (non
posso rinunciare al luogo in cui vivo e alla specificità delle relazioni che comporta e mi offre; non
posso rinunciare alle relazioni senza limiti di distanza, quantità e qualità che le connessioni spaziali
realizzate attraverso la mediazione elettronica mi mettono a disposizione). Insieme danno il senso
della globalizzazione attuale. Afferma Appadurai Arjun 1996 Modernità in polvere. Dimensioni
culturali della globalizzazione, Raffaello Cortina editore, Milano 2012 p. 19-20: «…è proprio la
presenza diffusa di diversi tipi di sfere pubbliche diasporiche a costituire un indicatore specifico del
moderno globale.»
«Uno spazio che presenta un aspetto confuso e frammentario, perché tende ad articolarsi secondo
una molteplicità di dimensioni, la quale rende difficoltoso per gli individui il tradizionale processo
di radicamento in un determinato gruppo sociale posizionato all’interno di un territorio. Inoltre, tale
spazio opera in prevalenza in un ambito di tipo extranazionale e potenzialmente globale ed è
paradossalmente «senza spazio», in conseguenza di quel processo di movimento costante che
caratterizza attualmente merci, persone e messaggi.» (Codeluppi Vanni, 2012,13)
1.1.3.1 il tramonto della percezione tradizionale delle due coordinate della storia, il tempo (il senso
della storia è ora caratterizzato da un eterno presente) e lo spazio (la separazione dello spazio dal
luogo), si interpreta come perdita del "sentire storico" e del “sentire sociale”. Si tratta di una
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percezione che risalta con evidenza nei flussi delle relazioni comunicativi della rete mondiale,
internet. Dove è il luogo della rete? Esistono per la rete la notte e il giorno? Hanno senso le
dimensioni tempo e spazio in un mondo virtuale?
«E questo concetto è particolarmente vero nel nuovo mondo del ciberspazio, in cui un numero
crescente di persone trascorre una parte sempre più ampia del proprio tempo integrata in una rete di
relazioni prive di riferimenti geografici di qualsiasi tipo. L’indirizzo virtuale (quello della posta
elettronica) sta rapidamente soppiantando l’indirizzo geografico: la facilità con cui la gente ha
accettato di eliminare quasi completamente i riferimenti geografici nelle proprie intraprese
economiche e sociali è notevole, ed è un’ulteriore testimonianza della perdita di significato del
luogo nella vita delle persone. Una porzione rilevante della nostra esistenza cosciente è già migrata,
nella più totale indifferenza, nella dimensione più temporale delle relazioni fondate sull’accesso; ma
una parte primordiale della nostra natura resiste, e rimane radicata alla terra e alla nozione di
territorio.» Rifkin Jeremy 2000 L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, A.
Mondadori 2000, 176-177
1.1.4. una “rivoluzione sociale” nella ambivalenza della globalizzazione. «La globalizzazione e la
fine del sociale» è il titolo (italiano) dell’opera di Touraine (citata); la prima parte titola “quando
parlavamo di noi in termini sociali”; tra gli effetti “omologanti” della globalizzazione si annovera la
fine del sociale intesa come il venir meno di quei legami “comunitari” generali (nazione, patria …)
che nel generale riconoscimento univano le persone in nazioni e stati, costituivano il contesto dei
progetti personali anche in termini di mobilità sociale condivisa, narrata e possibile. Ma si tratta,
contestualmente, di processi che aprono ad una imprevedibile complessità, non ancora ben
identificata, difficile da gestire politicamente, ancora tutta da giocare, anche individualmente. « La
crisi e la disgregazione del paradigma sociale di quella che chiamiamo vita sociale hanno creato una
situazione di caos in cui sono esplose la violenza, la guerra, il dominio dei mercati — che sfuggono
a qualsiasi regolamentazione sociale—, ma anche l’ossessione identitaria dei vari comunitarismi.
[…] La disgregazione degli insiemi sociali e culturali chiusi su se stessi, al modo dei sistemi
olistici analizzati da Louis Dumont, libera forze di cambiamento sempre meno controllabili — è il
caso, per esempio, del capitalismo globalizzato — ma scatena anche vari tipi di crisi, di rottura, di
violenza che esprimono a loro volta il processo generale di desocializzazione, ovvero la
dissoluzione dei meccanismi di appartenenza a gruppi e istituzioni capaci di rendere stabile la
propria coesione interna e di gestire le proprie trasformazioni. Rende tuttavia possibile anche un
nuovo rapporto a sé, una coscienza di libertà e responsabilità in precedenza prigioniera di
meccanismi istituzionali deputati a imporre a ogni individuo valori, norme, forme di autorità e
rappresentazioni sociali. Questa doppia dissociazione può sfociare nell’indebolimento (se non
addirittura nella scomparsa) dello spazio propriamente sociale, oppure agevolare la comparsa di
nuove istituzioni.» (Touraine 2004, 28-29)
1.1.5. una “rivoluzione economica”: «la globalizzazione come fenomeno economico, o meglio, vi
sono le globalizzazioni economiche, poiché, come ha dimostrato la scuola francese «della
regolazione», è opportuno abbandonare la concezione «globalizzata della globalizzazione», e
tentare una più precisa descrizione dei diversi - e separati - processi attraverso i quali l'economia ha
«superato i propri confini», conquistando spazi e raggio d'azione inediti. Dei diversi modi e circuiti
con cui le diverse componenti della sfera economica si sono «mondializzate». Una via, questa, che
permette di meglio cogliere, nel loro sviluppo cronologico, i diversi meccanismi della
globalizzazione (l'attivazione dei suoi molteplici «circuiti»). I quali sono per lo meno tre,
corrispondenti a tre diversi tipi di «globalizzazione»:
- una globalizzazione che potremmo definire «commerciale» (o marchande) corrispondente alla
mondializzazione dei mercati delle merci;
- una globalizzazione che potremmo definire «produttiva», corrispondente alla mondializzazione
dei processi e dei cicli produttivi (della struttura delle imprese);
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- una globalizzazione che possiamo definire «finanziaria», corrispondente alla mondializzazione
del mercato dei capitali.» (Revelli M. ivi). Nota bene: «Il periodo definito dalla globalizzazione è
stato dominato dal capitale finanziario più che dal capitale industriale» (Touraine 2004, 42)
Jeremy Rifkin per indicare la natura della attuale economia usa l’espressione «sistema capitalistico
secondo il modello reticolare» e l’espressione «i processi sostituiscono le strutture». (Rifkin Jeremy
2000 L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, A. Mondadori 2000, 33,38). Modello
reticolare che diventa la struttura della “globalizzazione della produzione” e a più aspetti: 1. la
gestione produttiva e di competenze in interscambio; 2. la maggior rilevanza dell’accesso ai beni
nei confronti della loro proprietà, vista la loro rapida obsolescenza tecnologica dei mezzi e dei
processi produttivi; 3. natura progressivamente culturale (simbolica) delle merci, della loro
produzione e dell’imput al loro consumo; 4. la territorialità labile degli insediamenti improduttivi
(inesistente o fluida). La “globalizzazione della produzione” è deterritorializzazione (vedi Nike,
descritta da Rifkin 2000, 65-66) o sua fluida territorialità (vedi dislocazione rapida di impianti
produttivi in aree geografiche opportune ma mai definitive). Alla sua radice il mutamento delle
coordinate spaziali e del concetto utile di spazio. «Nei mercati geografici, la struttura ha ancora
importanza; nel ciberspazio, invece, i confini cadono e i processi sostituiscono le strutture nella
prassi operativa standard per la sopravvivenza; così, le organizzazioni diventano effimere e
fluttuanti come il medium elettronico attraverso cui gestiscono la propria attività.» (Rifkin 2000,
38)
1.2. globalizzazione e omologazione
«Lo sviluppo dell’economia di mercato con la tendenza ad eliminare le barriere al libero
commercio; l’interdipendenza a livello mondiale degli scambi finanziari; la diffusione delle diverse
tecnologie; la crescente influenza delle imprese multinazionali e delle organizzazioni e istituzioni
internazionali; l’affermarsi della cooperazione nel campo della ricerca scientifica; l’impatto dei
mezzi di comunicazione di massa e delle nuove tecniche informatiche; lo sviluppo dell’industria
culturale sono tutti elementi che spiegano le tendenze omologanti presenti nella globalizzazione.
1.2.1. Un primo elemento di omologazione può essere anzitutto colto, da un lato, nel fatto che
l’obiettivo del benessere materiale, inteso secondo le condizioni che caratterizzano le società
sviluppate a economia di mercato, costituisce una meta ideale predominante per la generalità della
popolazione mondiale; dall’altro, nella diffusa fiducia nella possibilità di conseguire tale meta
grazie ai progressi del sapere scientifico e tecnologico, allo sviluppo delle forme di produzione e
distribuzione industriale, nonché all’estendersi del capitalismo finanziario. (Crespi Franco, 2004,
Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 13-14)
1.2.2. Occorre, in secondo luogo, riconoscere che tali rappresentazioni collettive sono anche il
prodotto del progressivo consolidarsi di strutture di tipo transnazionale sia a livello economico sia
a quello politico. Non solo assistiamo alla crescente concentrazione dell’attività di produzione e di
distribuzione in compagnie a carattere multinazionale, ma è anche in forte aumento la tendenza a
costituire enti internazionali di controllo dell’economia come la Banca Mondiale e il Fondo
Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, nonché grandi aggregazioni
relative ad aree commerciali e monetarie, come l’Unione Europea, la Grande Area Nordamericana
(Nafta), il Mercosur teso a sfoltire le barriere extratariffarie nei paesi dell’America Latina, e altre
iniziative come quella per la formazione di un Club del Pacifico con la partecipazione di Giappone,
Cina, Australia, Indonesia e USA, ecc. Sul piano politico-sociale, accanto alle Nazioni Unite,
all’Organizzazione Internazionale del Lavoro, all’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono
inoltre sorte, sempre a livello internazionale, numerose Organizzazioni Non Governative (ONG)
volte soprattutto all’assistenza, alla tutela dei diritti, alla difesa dell’ambiente, ma anche altre
iniziative di tipo governativo rivolte a sviluppare l’assistenza tecnica, l’unificazione della
formazione scolastica e universitaria, e via dicendo. L’importanza assunta dal “capitale globale”,
caratterizzato da ingenti spostamenti di flussi finanziari che attraversano le diverse aree
geografiche, e la rilevanza delle istituzioni transnazionali vanno ponendo in profonda crisi alcune
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funzioni tradizionali dei diversi Stati nazionali e lo stesso concetto di sovranità, dal momento che le
decisioni più importanti per la vita collettiva vengono sempre più prese a livello internazionale da
centri di potere non facilmente identificabili. Come ha giustamente osservato Niklas Luhmann, il
termine internazionale, non è, qui, più riferito, come in passato, ai rapporti tra due o più nazioni,
bensì ai problemi del sistema globale nel suo insieme [cfr. Luhmann 1997, 7].
La rilevanza dei centri di potere economico e politico operanti a livello mondiale sta trasformando
le forme di appartenenza nazionale e i rapporti tra sfera pubblica e sfera privata [cfr. Stiglitz 2002].
Tra i centri di potere che si muovono secondo una logica transnazionale occorre, inoltre, non
sottovalutare l’impatto che, sull’economia mondiale e sulle forme di aggregazione sociale, hanno
anche le forme della criminalità organizzata: in particolare, il mercato della droga, attraverso il
riciclaggio occulto di in genti capitali, nonché la possibilità di ONG a carattere sovversivo e
terroristico.
1.2.3. La terza componente omologante del processo di globalizzazione è soprattutto legata alla
diffusione su scala mondiale dei mezzi di comunicazione di massa e delle nuove tecniche
informatiche, nonché all’impatto dell’industria culturale. L’informazione sugli eventi che si
verificano nelle parti del mondo più distanti tra loro avviene, ormai, in tempo reale, mentre la
pubblicità e i diversi prodotti della fiction costituiscono, in quasi tutte le società, una fonte costante
di modelli omogenei relativi ai consumi e agli stili di vita. Un esempio particolarmente
significativo, da questo punto di vista, è rappresentato dalla formazione di una cultura giovanile (si
pensi, in particolare, alla musica, agli stili nella cura del corpo e nell’abbigliamento, allo sport, ai
movimenti ecologisti, pacifisti e no-global) che travalica ogni confine nazionale. (Crespi 2004, 1415)
1.2.4. ma, ad evitare illusioni e fraintendimenti, l’omologazione non si traduce necessariamente e
solo in processi di livellamento tali da uniformare nell’ottundimento sempre più generalizzato
masse subalterne; l’effetto è ben più complesso e l’omologazione diventa, quasi paradossalmente,
un fattore ulteriore di complessità sociale. Almeno per i seguenti processi in atto.
1.2.4.1. «L’uniformazione non impedisce l’ineguaglianza.» (Augé 1997, 28); anzi può diventare
strumenti di “alienazione” di massa o incrementare processi sociali di esclusione. La spinta
inesorabile al rialzo dei consumi, imposto da modelli e imperativi di omologazione è un processo
destinato a rendere ancor più marcate, evidenti e drammatiche le diseguaglianze. L’omologazione
impone stili di consumo e di standard sociale il cui raggiungimento genera impegno continuato,
ansia e inquietudine e allarga il mondo di coloro che sono esclusi da un numero sempre più
crescente di ambiti sociali, dalle relazioni e dalla partecipazione. Fa testo anche la constatazione che
l’incremento del consumo non si traduce, necessariamente e durevolmente, in incremento di
soddisfazione, se non nei casi di coloro che si trovano al di sotto della soglia di povertà: «Ciò che
appare dunque più paradossale all’interno della natura del consumo è la compresenza per gli
individui di benefici e della nascita di un elevato tasso di insoddisfazione.» (Codeluppi Vanni 2012
Ipermondo. Dieci chiavi per capire il presente, Laterza, Roma-Bari, 80)
«Non si può trascurare però che la società dei consumi di massa sembra in apparenza dar vita a un
processo di omologazione, mentre in realtà produce anche nuove forme di differenziazione e
gerarchizzazione degli individui. Lungi dall’eliminare, infatti, come promette, le barriere culturali,
le differenze religiose e i conflitti di classe, il consumo esercita oggi principalmente il suo potere
attraverso un incremento delle discriminazioni sociali.» (Codeluppi 2012, 78)
1.2.4.2. Il successo di un consumo omologato è garantita dal grado di flessibilità con cui registra
abitudini e tradizioni locali e vi adatta il proprio prodotto con strategia pubblicitaria mercantile
funzionale. «Proprio per questo motivo, è sbagliato considerare i processi di globalizzazione come
processi che mirano esclusivamente a ottenere dei risultati di omogeneizzazione culturale,
applicando dunque ad essi la storica tesi di Horkheimer e Adorno. È indubbio infatti che l’ingresso
negli ultimi anni del modello di consumo proprio dell’Occidente, e soprattutto dell’american way of
life, in molti paesi in via di sviluppo stia producendo, grazie soprattutto all’impiego del cinema
hollywoodiano e dei messaggi pubblicitari delle grandi marche globali, una vera e propria
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acculturazione forzata a tale modello. Un’acculturazione che appare violenta quando il consumo
viene ad innestarsi su un’infrastruttura industriale debole e non è accompagnato da un’adeguata
espansione economica. A ben vedere, però, ciò che generalmente si presenta è piuttosto una
costante relazione dialettica tra la cultura globale e quella locale. Se è vero, infatti, che tendono
sempre più a formarsi ampie comunità transnazionali di consumatori che condividono le stesse
abitudini e le stesse pratiche culturali e che l’economia mondiale si globalizza sotto la spinta
determinante esercitata dalle grandi imprese transnazionali, che spesso possiedono un potere
addirittura maggiore di quello detenuto dagli Stati nazionali e dai loro governi, è anche vero che è
ben vivo un processo contrario di appropriazione e rielaborazione avviato da parte di culture che si
trovano al di fuori del mondo occidentale e hanno la necessità vitale di esprimere e valorizzare la
propria diversità. Si pensi, ad esempio, ai celebri casi studiati dagli antropologi delle bottiglie di
Coca-Cola che gli indios Chamulas del Chiapas hanno integrato nei loro riti religiosi o delle lattine
di pelati che a Salvador De Bahia vengono usate come ostensori per incensi e offerte nelle
cerimonie organizzate per festeggiare la dea del mare. […] Dunque, la globalizzazione può
presentarsi in alcuni casi come un fenomeno sociale coercitivo e omogeneizzante, ma generalmente
si basa su un processo culturale articolato e complesso. Va considerato pertanto che «La situazione
attuale è caratterizzata, nello stesso tempo, da omogeneità ed eterogeneità. Stiamo assistendo allo
sviluppo di un intrattenimento mainstream globale ampiamente americano e alla costituzione di
blocchi su scala regionale» (Martel, Mainstream).» Codeluppi Vanni 2012 Ipermondo. Dieci chiavi
per capire il presente, Laterza, Roma-Bari, 17,18)
1.2.4.3. La diffusione globale di merci, abitudini, stili e modelli può, forse, diventare occasione per
costruzione di opportunità e libera da identità programmate secondo costumi e tradizioni locali; e
questo aspetto apre ulteriormente al tema della complessità individuale e sociale.
1.3. globalizzazione e complessità definizione e livelli di complessità e di società complesse
1.3.1. Società nelle quali si è verificata ed è in atto una rapida evoluzione nelle forme di
produzione, delle abitudini e delle regole dei rapporti sociali; ma tale evoluzione si accompagna alla
sopravvivenza di regole e sistemi (economici, sociali, politici, consuetudinari...culturali) vigenti in
periodi anteriori e ancora validi in aree o in settori di vita presente. (Cirese M. Alberto 1997
Dislivelli di cultura ed altri discorsi inattuali, Meltemi, Roma, p.11), o alla loro ripresa e
imprevedibile rilancio. La globalizzazione, quindi, e per paradosso, non si configura solo come
omologazione, ma dà vita alla complessità, all’accumulazione . «L’immagine ideale del benessere
appare operante anche nei paesi più arretrati e spiega il fenomeno sempre più accentuato delle
spinte migratorie verso le aree sviluppate. Inoltre, le diffuse aspettative di un miglioramento delle
condizioni di vita e la fiducia negli effetti del progresso scientifico e tecnologico di tipo occidentale
si sono mostrate di fatto compatibili con le tradizioni culturali più diverse: anche in quei paesi dove
sussistono posizioni di accentuato integralismo e di rifiuto del modello di sviluppo dell’Occidente,
come avviene, ad esempio, in alcune aree ove è predominante la religione islamica, il dogma
dell’eccellenza del sapere fondato sulla scienza e degli effetti positivi dello sviluppo tecnologico
appaiono in pratica indiscussi [cfr. Naipaul 1998]». (Crespi, ivi 14)
Sulla complessità derivata dal sovrapporsi e convivere di tradizioni diverse osserva Augé Marc
1997 La guerra dei sogni, eléuthera, Milano 2012, 26-27): «Nella prima poesia dei suoi Tableaux
parisiens, Baudelaire ricorda il coesistere nel paesaggio parigino di ciminiere di fabbriche e di
campanili di chiese, del mondo di domani e di quello di ieri che fanno, insieme, quello di oggi. Il
mondo moderno è quello dell’accumulazione.» (L’aver partecipato al rito delle candele attorno alla
gola, il giorno di San Biagio, non ci impedisce di entrare in farmacia e curare il mal di gola con un
colluttorio “miracoloso” della pubblicità.)
1.3.2. Società che appaiono fortemente unificate dalla accentuata centralità della loro
organizzazione statuale e dalla dichiarata volontà di riconoscersi come unità storiche omogenee
(comunità, patria, popolo, grande famiglia...); contemporaneamente però esse mostrano nel loro
passato e nel presente una serie di differenze "culturali" interne che appaiono più o meno
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direttamente connesse con le disuguaglianze associative, politiche, economiche, culturali e che si
accentuano (quasi paradossalmente) di fronte ai processi di omologazione avvertiti e paventati.
1.3.3. Società nella quali si realizza un forte dinamismo sociale di comunicazioni, addirittura
simultanee, tra centri (politici, economici, culturali) e periferie; dinamismo reso possibile dalla
disponibilità di mezzi tecnici prima sconosciuti e dall'innalzamento del livello culturale medio, e
tuttavia permangono "salti culturali" morfologici e storici, qualitativi e quantitativi, tra città e
campagna, tra ambienti "colti" e ambienti "popolari"; dislivelli forti e resistenti in quanto si
presentano come formazioni storiche e come processi di costruzione di identità sociali; il formarsi
di nuove diseguaglianze (nei redditi, negli stili di vita, nelle convinzioni ideologiche, nei rapporti
generazionali).
1.3.4. Società nella quali ha acquisito un altro grado di articolazione il processo di
"esteriorizzazione della memoria" (Leroi-Gourhan): la tendenza ad affidare a supporti materiali
extramentali ed extrasomatici (libri, nastri magnetici, spettacoli, manifestazioni, circoli associativi,
banche dati...) la propria specifica identità, autopercezione, bisogni, disagi ecc.; esteriorizzazione
della memoria resa complessa anche dalla varietà dell'indicatore prescelto e delle forme adottate.
(vedi: Cirese 1997)
1.3.5. in conclusione “surmoderno” o “ipermondo”: per la complessità in atto è consigliato per l’età
contemporanea usare il termine non di “post-moderno”, ma di “surmoderno” («…ho proposto di
chiamare surmoderno perché mi è sembrato derivare dall’imballarsi dei processi costitutiv i della
modernità» Augé Marc 1997 La guerra dei sogni, eléuthera, Milano 2012, 27 e vedi l’opera: Augè
Marc 1993 Nonluoghi, introduzione a un’antropologia della surmodernità, elèuthera, Milano
2011); e Vanni Codeluppi suggerisce “Ipermondo” (Codeluppi Vanni 2012 Ipermondo. Dieci chiavi
per capire il presente, Laterza, Roma-Bari).
1.4. la dinamica storica della globalizzazione, omologazione, complessità o le radici lontane in
un doppio movimento
Il viaggio dal (vecchio) centro alle periferie; il ritorno dalle periferie al centro, fino ad una
situazione senza centro e senza periferie identificabili con stabilità (nel mondo, nelle nazioni, nelle
unità sociali abitative città, paesi…)
«I cinque baldacchini della globalizzazione. Esportazione di spazi europei.
Se si vogliono comprendere i segreti sferologici della globalizzazione avanzata non basta soltanto
tentare di risalire a prima della minimizzazione dello spazio compiuta attraverso le tecnologie dei
trasporti e le piogge di immagini della fine del XX secolo; bisognerebbe anche ritrovare i criteri per
valutare l’immenso lavoro compiuto dagli europei e da chi, in ogni parte del mondo, è stato un loro
collaborazionista, lavoro teso a reinventare condizioni vivibili di esistenza in ogni luogo. L’aver
messo piede nella bianchezza planetaria non sarebbe mai diventato, con tutte le atrocità che implicò,
quell’impresa coronata di successi che invece è stata per gli europei e i loro discendenti, se quegli
uomini pronti al rischio che prendevano il largo non fossero riusciti a conservare o a rigenerare
anche in viaggio e su altri lidi almeno le condizioni minime di un’endosfera. Per questo la vera
storia della globalizzazione dovrebbe essere raccontata anche come la storia delle sfere di
protezione che ci si è portate dietro e come la traversata compiuta dagli involucri salvifici, quelli
visibili e quelli invisibili. Si potrebbe dire che un’arte specifica degli europei sia stata quella di
esportare baldacchini: simbolizzazioni portatili di un cielo di cui anche là fuori i viaggiatori
potevano appropriarsi in quanto “cielo per noi”. Non fu tanto il loro fatale “sterminismo” che per
secoli conferì agli europei il primato nella conquista del Fuori, quanto piuttosto la loro capacità
decisamente superiore di portare sempre con sé un minimo di spazio proprio. Perciò, ovunque
arrivassero, di norma erano anche in grado di dimostrare di essere i migliori osservatori degli Altri:
osservatore è colui che percepisce l’Altro attraverso una finestra teorica. Dal momento che essi
avevano con sé delle finestre mentali portatili, gli imprenditori europei, nella maggior parte dei
casi, erano in vantaggio rispetto all’Altro che veniva scoperto, dell’intera dimensione della capacità
8
di descrivere, analizzare e agire. Le forme fondamentali con le quali è stato possibile venire a capo
sferologicamente della relazione dell’assalitore con lo spazio bianco sono cinque:
— la mitologia della nave;
— la religione cristiana;
— la lealtà nei confronti dei principi e della madre patria;
— la comprensione scientifica dello spazio esterno;
— la traduzione linguistica.
Ciascuna di queste pratiche ha prodotto una propria poetica dello spazio che a sua volta ha dato il
proprio contributo al compito assunto dall’epoca: quello di rendere il Fuori vivibile per i viaggiatori
e gli invasori o, per lo memo, di fingere che il Fuori venisse integrato in qualcosa e che su di esso
venisse esercitato un controllo. Sloterdijk Peter 2001 L’ultima sfera. Breve storia filosofica della
globalizzazione, Carocci, Roma 2002, 131-132
In schema e come sintesi il doppio movimento e le radici lontane e complesse della
globalizzazione attuale.
1.4.1. Il via è dato nell’età moderna attraverso l’esportazione di un unico modello (i cinque
baldacchini – sfere di protezione) ad avviare il processo di globalizzazione e la globalizzazione che
si accompagna così anche a un processo di omologazione.
1.4.2. Ma si tratta di una omologazione che si rivela doppia o che agisce, in successione
cronologica, in due sensi: la prima direzione è in termini di conquista coloniale e colonizzatrice a
partire dall’Europa per lo più verso Occidente, oltre le colonne di Ercole («Rinuncia all’Oriente,
entrata nello spazio omogeneo» Sloterdijk 2001, 33), la seconda è in termini di ritorno dalla
periferia al centro: le merci richieste dal vorace consumo del centro possono essere sostenute nel
loro incremento di consumo e di profitto per chi produce solo attraverso una diminuzione dei costi
produttivi. Ciò che accade, in termini di flussi e progressivamente, a partire dall’età moderna, non è
la “perdita del centro”, ma la “perdita della periferia” (Sloterdijk 2001, 27). O si avverte la
progressiva difficoltà (o gli alti costi economici e militari) per conservare e difendere una periferia
(come residuo impaurito di un’urgenza protettiva); nella globalizzazione tutto è centro e non c’è
periferia; o questa non è stabile, è estremamente mobile, variabile, costruita politicamente e
culturalmente ad hoc.
1.4.3. « Quel che è certo è che più il giro del globo si fa routine e si velocizza, più ampiamente si
propaga la metamorfosi dei mondi della vita (Lebenswelten) in ubicazioni; per questo e soltanto
nell’epoca dei mezzi di trasporto veloci e della trasmissione ultrarapida di informazioni che la
rottura dell’incantesimo delle vecchie strutture immunitarie locali si fa epidemica e percepibile per
le grandi masse. Nel corso della sua avanzata, la globalizzazione fa saltare strato per strato gli
involucri immaginari della vita autoctona, vissuta chiusi in casa propria, orientata su se stessa e
dotata di per se stessa di potere salvifico — di quella vita che fino a quel momento non si era svolta
da nessun’altra parte se non a casa propria e nel proprio paese natale (a questi spazi ormai
soppiantati il Gegnet heideggeriano dà invano e con ritardo un nome), e che conosceva soltanto una
costituzione del mondo autoprotettiva, vernacolare, animata microsfericamente e
macrosfericamente recintata di mura; che conosceva il mondo soltanto come un’estensione
sociocosmologica e dotata di pareti robuste, come estensione di una fantasia ancorata localmente a
terra, centrata su se stessa e monolingue, il mondo come estensione di una fantasia uterina di
gruppo. Ma ora la globalizzazione, che porta il Fuori dappertutto, trascina le città aperte ai
commerci, e alla fin fine anche i villaggi introversi, verso l’esterno, nello spazio omogeneizzante
dei trasporti. Fa saltare in aria le endosfere sviluppatesi autonomamente e le collega alla rete
spossessante. In essa prigionieri, gli agglomerati dei mortali autoctoni perdono quel privilegio che
detenevano da tempo immemorabile, il privilegio di costituire, ognuno per se stesso, il centro del
mondo.» (Sloterdijk 2001,28-29)
«Tale traffico nella direzione opposta si mescola con il gesto del ritorno a se stessi compiuto dagli
europei; e il risultato di questo amalgama si chiama multiculturalismo o ibridizzazione dei mondi
simbolici.» (Sloterdijk 2001, 158)
9
2. globalizzazione dei rischi e delle urgenze: i problemi, le preoccupazioni e le paure
della “società del rischio”
Beck Ulrich 1986 La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000
In sintesi preliminare e sommaria: tre problemi pongono le società e la formula politica degli stati
nazionali autonomi di fronte a nuovi compiti e trasformazioni: 1. la disponibilità delle risorse, 2. i
flussi demografici, 3. i problemi ambientali. Questioni che pongono in discussione il modello di
sviluppo dominante e le politiche di gestione.
Il bivio dell’età contemporanea, come è sintetizzato da Žižek Slavoj 2007 La violenza invisibile,
Rizzoli, Milano 2007, p. 31: «Abbiamo due universi: la moderna e aperta «società del rischio» e la
sicurezza del vecchio universo isolato del Significato che vi si contrappone; ma il prezzo del
Significato è uno spazio finito e chiuso sorvegliato da mostri innominabili.»
2.1. la “società del rischio” definita dagli “effetti collaterali” dei sistemi produttivi, effetti che
sono globali e di fronte alla loro portata e dimensione è sempre più manifesta la debolezza e
l’impotenza delle società locali e dello Stato nazionale.
2.1.01. «Nella modernità avanzata la produzione sociale di ricchezza va sistematicamente di pari
passo con la produzione sociale di rischi. Analogamente, ai problemi ed ai conflitti distributivi della
società basata sulla penuria si sovrappongono problemi e conflitti che scaturiscono dalla
produzione, definizione e distribuzione di rischi prodotti dalla scienza e dalla tecnica.» (Beck 1986,
25)
2.1.02. Gli ambiti: economia, ambiente, risorse energetiche, risorse alimentari, flussi finanziari,
tecnologie, biotecnologie, flussi migratori…
«Sono numerosi i segnali che indicano l’avanzata o addirittura il crescente predominio di una
cultura della globalità: ad esempio, il fatto che nella tempesta della modernizzazione globalizzata i
problemi mondiali sono da lungo tempo diventati problemi quotidiani. Il mutamento climatico, la
distruzione ambientale, i rischi alimentari, le crisi finanziarie globali, l’emigrazione, le conseguenze
anticipate delle innovazioni nanotecnologiche e genetiche, applicate alla natura e all’uomo,
configurano una messa in questione dei fondamenti del vivere assieme, di cui ognuno può fare
esperienza. Inoltre, lo Stato nazionale non è più il creatore di un quadro di riferimento che include
in sé tutti gli altri quadri di riferimento e che rende possibili le risposte politiche.» (Beck 2002 IX)
2.1.03. Debolezze delle politiche (nazionali9 attuali. «La consapevolezza che le tragedie della
nostra epoca sono tutte globali, sia nelle loro cause che nelle loro conseguenze, fa sì che si profili un
orizzonte cosmopolitico di esperienza e di aspettativa.» (Beck 2002 p.380) «Quasi
duecentocinquant’anni fa Benjamin Franklin ammoniva che coloro i quali «rinunciano alle libertà
essenziali per ottenere una piccola, provvisoria sicurezza, non meritano né libertà né sicurezza».
Questa sentenza suona ormai arcaica in una cultura globalizzata della paura, nella quale cresce
sempre più la disponibilità a pagare la sicurezza perduta con il denaro contante della libertà.» (Beck
2002 p.384)
2.1.1. le risposte politiche. Già il caso Europa: «Già in Europa qualsiasi politica che cerchi davvero
di prendere sul serio problemi transnazionali come la catastrofe climatica, l’abbandono dell’energia
nucleare, le regolazioni giuridiche della genetica umana, ma anche l’immigrazione, i diritti umani,
ecc. deve misurarsi con questioni complesse. Tutte queste questioni sono nello stesso tempo di
scottante attualità per la politica interna e insolubili rimanendo nell’ambito della politica interna.
Esse impongono alla politica un salto quantico, ossia la rinuncia all’autonomia nazionale per dar
vita a una sovranità cosmopolitica atta a risolvere i problemi nazionali. Contro questa apertura
transnazionale della politica nazionale è facile mobilitare l’opposizione nazionale; tuttavia, se tale
apertura non avvenisse sarebbe messa permanentemente in questione la fiducia nella capacità di
agire della politica nazional-statale.» (Beck 2002 p. 110)
10
2.1.2. è questa la sede del politico nella seconda modernità (la decisione sulla tecnologia è per lo
più coscienza scientifica, economica ed etica; la questione politica e il luogo di fondazione del
potere è costituito dall’area della impossibilità a prevedere le conseguenze delle decisioni sulla
tecnologia): «la fonte del politico non è la decisione sulla tecnologia, ma le sue conseguenze
imprevedibili. In particolare, è la consapevole impossibilità di prevedere le conseguenze a sollevare,
in un’opinione pubblica mondiale sensibile al rischio, la questione del potere. I fondamenti
decisionali delle rivoluzioni tecnologiche attuali vengono delegittimati da crisi legate ai rischi, da
movimenti di protesta e da boicottaggi di consumatori messi in scena in modo molto efficace e
capaci di far piombare l’economia mondiale in una crisi di fiducia» (Beck 2002 p.131-132)
2.1.3. la consapevolezza storica di fondo e preliminare: la scomparsa della natura illimitata.
«Solo le ricche democrazie occidentali non riescono a vedere la perfetta simmetria che c’è tra
l’abbattimento del muro della vergogna e la scomparsa della natura illimitata. In effetti i socialismi
hanno distrutto insieme i propri popoli e i propri ecosistemi, mentre il Nord e l’Ovest sono riusciti a
salvare i propri popoli e in qualche caso i propri paesaggi, distruggendo il resto del mondo e
facendo piombare nella miseria le altre popolazioni. Tragedia duplice: i vecchi socialismi credono
di poter eliminare le loro due sventure imitando l’Occidente; quest’ultimo crede di essere sfuggito a
entrambe e di poter impartire lezioni, e intanto lascia morire la Terra e gli uomini. Crede di essere
l’unico a possedere il sistema che permette di vincere indefinitamente, proprio quando ha forse
perso tutto.
Dopo questa duplice deriva delle migliori intenzioni, parrebbe che noi, i moderni, abbiamo perduto
un po’ della nostra sicurezza. Non si dovrebbe tentare di mettere fine allo sfruttamento dell’uomo
sull’uomo? Non si dovrebbe cercare di diventare signori e padroni della natura? Le nostre virtù più
elevate erano state messe al servizio di questo duplice compito, sul versante della politica come su
quello delle scienze e delle tecniche. Eppure, oggi interrogheremmo volentieri la nostra giovinezza
entusiasta e dai buoni sentimenti, chiedendole, come i giovani tedeschi ai loro genitori canuti: «A
quali ordini criminali abbiamo obbedito?»; «Possiamo dire che non lo sapevamo?».
Questi dubbi sui fondamenti delle buone intenzioni spingono qualcuno di noi a trasformarsi in
reazionario in due modi diversi: c’è chi sostiene che non si deve più voler mettere fine al dominio
dell’uomo sull’uomo; qualcun altro afferma che non si deve più cercare di dominare la natura.
Dobbiamo essere decisamente antimoderni, dicono tutti.
D’altro canto, la vaga espressione del postmoderno sintetizza bene lo scetticismo incompiuto di chi
rifiuta entrambe queste reazioni. I postmoderni, incapaci di credere alle duplici promesse del
socialismo e del «naturalismo», si guardano bene dal metterle del tutto in dubbio. Restano sospesi
tra la fede e il dubbio, aspettando la fine del millennio.» Latour Bruno 1991 Non siamo mai stati
moderni. Saggio di antropologia simmetrica, ed. Elèuthera, Milano 1995. 20-21
2.2. tre soggetti in relazione di potere e contropotere
Beck Urlich 2002 Potere e contropotere nell’età globale, Laterza Roma-Bari 2010
I tre soggetti in azione (in relazione strategica di potere e contropotere [come in un gioco; gli
scacchi]): 1. Capitale: strategie del capitale; 2. Stato: strategie dello Stato; 3. Società civile:
strategie dei movimenti della società civile.
Una conferma e nota introduttiva: « …la relazione fra capitale e Stato e sempre più spesso oggetto
di disputa. Il denaro ha sempre avuto una dimensione internazionale e le multinazionali che oggi
dominano il capitalismo mondiale sono ovviamente meno legate che mai alle loro nazioni d’origine.
Fino a poco tempo fa l’economia mondiale era controllata da poche società di provenienza
occidentale, e di incerta lealtà, sebbene l’avanzare del capitalismo asiatico stia rapidamente
cambiando lo scenario. Oggi quattro delle cinque banche più importanti al mondo sono cinesi. […]
I governi e le grandi aziende hanno certamente bisogno gli uni delle altre, ma i loro interessi sono
tutt’altro che sovrapponibili. Entrambi possono essere messi in pericolo dall’uso consapevole delle
risorse di Internet da parte dei movimenti democratici che mirano a sovvertire i loro rispettivi
11
monopoli.» Hann Chris, Hart Keith 2011 Antropologia economica. Storia, etnografia, critica,
Einaudi, Torino 2011, 40,42
2.2.1. il capitale: la logica del capitale e delle sue condizioni e scelte di profitto
2.2.1.1. [il potere] «È soprattutto l’economia ad avere sviluppato un meta-potere di questo genere
uscendo dalla gabbia del gioco di potere territoriale e organizzato sul piano dello Stato nazionale ed
elaborando nuove strategie nello spazio digitale di fronte allo Stato radicato nella dimensione
territoriale. Meta-gioco di potere significa che ci si scontra e si lotta per il potere e nello stesso
tempo si cambiano le regole nazional-statali della politica mondiale.» (Beck 2002 p.66)
2.2.1.1.1. L’origine del meta-potere del capitale. « È l’esatto capovolgimento del calcolo della
teoria classica del potere e della sovranità a rendere possibile la massimizzazione del potere delle
imprese transnazionali: non è la minaccia dell’invasione, ma, al contrario, la minaccia della noninvasione o del ritiro degli investitori a costituire uno strumento di coercizione. C’è solo una cosa
peggiore dell’essere travolti dalle multinazionali, ed è non essere travolti dalle multinazionali.
Questa forma di dominio non è più legata all’esecuzione di ordini, ma alla possibilità di investire
più vantaggiosamente altrove — in altri Paesi — e alla minaccia latente così agitata di non fare
qualcosa, ossia di non investire in questo Paese. In questo senso, il nuovo potere dei grandi gruppi
economici non si fonda sulla violenza come ultima ratio per piegare gli altri alla propria volontà e
perciò è molto più mobile, perché indipendente dai luoghi e, di conseguenza, «applicabile a livello
globale». Il potenziale di coercizione che comporta questa forma di dominio perfeziona la logica
dell’agire economico e del potere economico: sempre e ovunque non fare qualcosa, non investire,
senza doversi giustificare di fronte all’opinione pubblica — questa è la leva fondamentale del
potere nelle mani degli attori dell’economia mondiale. Non è attorno all’imperialismo, ma attorno al
non-imperialismo che si cristallizza il potere economico globale. La massimizzazione
deterritorializzata del potere dell’economia non ha dunque bisogno di essere conquistata
politicamente né di essere legittimata politicamente. Essa avviene all’insaputa degli organi di
controllo della democrazia parlamentare evoluta come i parlamenti, i tribunali e i governi. Essa non
necessita di alcuna mobilitazione militare. Pertanto, il potere dell’economia mondiale si basa
sull’esatto contrario di ciò che fonda il potere degli Stati nazionali democratici: le elezioni
democratiche, la legittimazione pubblica, il monopolio dei mezzi di violenza. La formula del potere
dell’economia transnazionale recita invece così: non-conquista deliberata e intenzionale. Questo
«non» senza violenza, invisibile, totalmente intenzionale e onnipresente del recesso non abbisogna
di un consenso, né potrebbe ottenerlo.» (Beck 2002 p. 66-68)
2.2.1.1.2. Contrasti di logica tra capitale e nazione. «La logica di esclusione della politica nazionalstatale entra in contraddizione con la logica di inclusione della razionalità economica mondiale. La
fonte della massimizzazione della creatività e del profitto non è la separazione, ma la mescolanza
delle razze, dei gruppi etnici, delle nazionalità, che quindi diventa la politica dominante in materia
di mercato del lavoro tra le imprese transnazionali. L’antidoto alla stagnazione è l’ibridazione. La
mescolanza è la carta vincente, diventa la norma — perlomeno nello spazio di potere delle
organizzazioni transnazionali. La mobilità all’interno dell’impresa significa mobilità al di là delle
frontiere. Chi vuol fare carriera in un grande gruppo industriale «tedesco» deve non soltanto parlare
inglese ad Erlangen, ma anche «uccidere le distanze» nel lavoro quotidiano ed essere disposto ad
andare a vivere in altri continenti. I grandi gruppi che operano a livello globale ricavano il loro
capitale, reclutano le loro élites manageriali in molte nazioni, creano posti di lavoro in (quasi) tutte
le parti del mondo e distribuiscono i loro dividendi ad azionisti dei Paesi più diversi. Così la fede
nell’ontologia sociale nazionale viene confutata empiricamente in esperimenti reali e non con la
morale del multiculturalismo, ma con l’argomento «money». È il realismo cosmopolitico
dell’economia mondiale che, usando il linguaggio della massimizzazione del profitto, porta al
trionfo di questa massima: le società cosmopolite sono puramente e semplicemente più creative e
quindi superiori alle società nazionali nella competizione per i mercati mondiali. […] In estrema
sintesi, si può affermare che il capitalismo senza frontiere è entrambe le cose, ossia un evasore
12
fiscale cronico e una scuola di cosmopolitismo.» (Beck 2002 p. 79-80) oppure, in versione più
benevola: «Per usare un’immagine: gli Stati hanno radici, gli investitori hanno ali. Questa nuova
asimmetria tra la forma di potere radicata e quella data rende possibili le conquiste non guerriere
compiute dall’economia mondiale.» (Beck 2002 p. 94)
2.2.1.1.3. Potere nazionale e potere trans-nazionale. «Quale genere di «potere» e di «dominio» sta
prendendo forma? Per rispondere a queste domande è opportuno chiarire la distinzione tra potere
nazional-statale e potere economico transnazionale sulla scorta della distinzione tra sovranità
territoriale e sovranità deterritorializzata. Il potere statale acquisisce e stabilizza la propria sovranità
grazie al controllo su un territorio, sulla sua popolazione e sulle sue risorse, mentre l’economia
mondiale ricava il suo potere, al contrario, dal fatto di non essere legata a nessun luogo, riuscendo
così a massimizzare il suo dominio exterritoriale, che fa valere nei confronti del potere statale
territorializzato.» (Beck 2002 p. 179)
«Anche se non sappiamo ancora granché sul possibile «regime cosmopolitico» del futuro, possiamo
già individuare queste due caratteristiche: esso sarà orientato verso il mercato mondiale e sarà
costituito tecnologicamente. Entrambe le cose sfuggono al controllo statale e rientrano nella sfera di
potere degli attori dell’economia mondiale e della scienza.» (Beck 2002 p. 172)
2.2.1.2. [il contropotere] Controreazioni ad interrompere autoconvincimenti neoliberali.
Una tesi politica generale: «Poiché qualsiasi potere è legato al consenso, la concentrazione di potere
dell’economia mondiale ha una sua legittimità precaria.» (Beck 2002 p. 228)
2.2.1.2.1. I rischi di un’atomizzazione xenofoba. «Più libertà, ma anche più spaesamento
[Unbehaustheit]. Più mobilità, ma anche meno lealtà. Più transnazionalità, ma anche meno
democrazia. In altri termini, il crollo dell’ontologia sociale nazionale non significa affatto
automaticamente l’avvento di un’era cosmopolitica, cioè non significa che crescano la curiosità e il
rispetto per l’alterità dell’altro. Questo crollo può anche sfociare nell’atomizzazione e ribaltarsi
nella xenofobia. Occorre tenere presenti entrambi questi scenari agli antipodi, l’atomizzazione e la
ri-nazionalizzazione, da un lato, e la cosmopolitizzazione, dall’altro. Fra l’uno e l’altro ci sono
mondi, possibili crisi mondiali, catastrofi mondiali. Ogni potere genera un contropotere. La nascita
delle società cosmopolitiche e l’apparizione dei loro nemici sono due aspetti dello stesso
movimento.» (Beck 2002 p. 80-81)
2.2.1.2.2. La potenza del ricatto della logica del capitale nei confronti della politica nazionale e la
creazione di situazioni estreme: «In conformità alla loro logica i governi dei diversi Paesi
perseguono una strategia politica di mobilità discendente, al fine di attirare e legare a sé il capitale
straniero. Ciò significa che essi perseguono sistematicamente una politica di deregolazione, di
riduzione delle tasse, di smantellamento dei sistemi di sicurezza, delle normative contrattuali e
sindacali, delle forme organizzative del lavoro umano, per ridurre la concorrenza degli Stati sociali
sviluppati e dunque cari, creandosi una sorta di «monopolio» per condizioni di lavoro a buon
mercato, vale a dire miserabili. All’altra estremità della gerarchia mondiale, ma in base a un calcolo
analogo, gli Stati ricchi si assicurano la loro posizione di nicchia nello scenario mondiale
perseguendo la strategia del paradiso fiscale. Questa strategia parassitaria mira ad attirare e
trattenere i flussi globali di capitali istituendo e rispettando rigorosamente il «segreto bancario»,
riducendo al minimo le tasse, offrendo crediti facili e dunque spesso dubbi, ecc.» (Beck 2002 p.
197)
2.2.1.2.3. I rischi di questa deriva e il ritorno dello Stato. « Anche se tutte le strategie dell’economia
mondiale fin qui citate e tratteggiate rivelano e sviluppano in modo convincente il potenziale di
potere degli attori dell’economia mondiale, sono pur sempre condannate al fallimento. Questo
fallimento è dovuto al fatto che ogni tentativo compiuto dall’economia mondiale di spezzare, di
minimizzare o di sostituire il potere degli Stati urta contro un limite assoluto: l’economia mondiale
non può esistere senza lo Stato e la politica. Con una piccola forzatura, si può dire che il fallimento
delle strategie del capitale rientra nell’interesse più profondo del capitale. Proprio l’economia
mondiale ha bisogno di una forte mano (trans)statale sul piano dell’economia mondiale, capace di
imporle un quadro e un ordine, poiché altrimenti verrebbe meno l’accettazione pubblica e quindi il
13
potere degli attori transnazionali.» (Beck 2002 p. 205) «… tutte le strategie di autarchia e di
monopolizzazione dell’economia mondiale in ultima analisi falliscono per il fatto che solo la
politica condotta nel quadro dello Stato e organizzata su basi democratiche può prendere decisioni
collettivamente vincolanti e nello stesso tempo legittime circa la struttura e il futuro delle società.»
(Beck 2002 p. 206) Infatti gli investitori chiedono garanzie: stabilità politica, equilibrio sociale,
sostegno e agevolazioni…
Con efficacia Aldo Bonomi (Bonomi Aldo 2010 Sotto la pelle dello Stato. Rancore, cura,
operosità, Feltrinelli, Milano) titola un paragrafo del proprio studio, con rovesciamento della tesi
liberale originaria smithiana: La mano visibile dello stato. «Il divorzio tra economia e società e la
sfida differenzialista allo stato-nazione non implicano l’arretramento unilaterale del potere politico,
quanto una sua ristrutturazione e rifondazione. Ci sono molte e valide ragioni per ritenere che nel
nuovo capitalismo globale convivano e s’intreccino diversi modi e pratiche di relazione tra stato
economia, che si dispiegano secondo logiche spaziali non più (o non solo, e comunque sempre
meno) nazionali, non per questo meno cogenti o rilevanti.
Il potere politico (lo stato) non può essere considerato infatti un attore inerte di questo processo, per
tante e svariate ragioni. […] La rete dei rapporti fiduciari e dei reciproci riconoscimenti sui quali si
fonda un’economia di mercato, infatti, richiede l’esercizio di un’autorità di garanzia che assicuri
contro le tendenze opportunistiche e sia in grado di sanzionare i comportamenti scorretti. Richiede
inoltre che questa autorità sia in grado di ricostruire le condizioni di funzionamento dei mercati
quando queste vengono meno. È il caso per citare un esempio recente, dell’intervento di garanzia
delle banche centrali a sostegno dei grandi istituti di credito privati all’indomani del crollo di
Lehman Brothers, quando il mercato interbancario visse una fase di sostanziale congelamento che
rischiò di condurre a un credit crunch dagli effetti devastanti per vasti settori dell’economia.
L’idea per cui dello stato “si possa fare a meno” non trova in definitiva riscontri empirici nella
realtà europea e internazionale, sebbene siano venute meno alcune delle sue prerogative
monopolistiche sull’identità dei cittadini.
2.2.2. gli Stati: il tema della autonomia e sovranità nazionale degli Stati e la logica delle
organizzazioni politiche sopranazionali /internazionali.
Il potere. La storia moderna di formazione delle nazioni (e il concetto stesso di nazione) è una
storia epica (costruita ufficialmente in modo epico, tendenzialmente eroico, con documenti
trasformati in monumenti) di nascita dello Stato secondo gli obiettivi della autonomia e della
sovranità in tutti gli svariati campi della funzione politica (economia, giustizia, guerra, educazione,
cultura, religione fino ad obiettivi di biopotere esplicitamente o occultamente totalitari).
Il contropotere. La società del rischio, dei rischi globali devastanti, mettono in evidenza i limiti e la
pochezza di una simile sovranità e mettono in dubbio l’utilità di rivendicare e difendere la propria
sovrana autonomia. Riconoscere e gestire quei rischi impone una sovranità diversa per ruoli e per
sedi; processo già in corso da tempo nella costituzione di accordi, trattati, organizzazioni
internazionali, transnazionali, sovranazionali. È come se l’originario, e moderno, concetto di
sovranità fosse preso in una doppia trappola: la trappola della nazionalità (la nazione è trappola a se
stessa, condannata ai margini per la propria impotenza e insolvenza di fronte a problemi globali), la
trappola della inter- o sovranazionalità (le cui norme controllano e vincolano – apparentemente
limitano e mettono in crisi – il concetto di autonomia e di sovranità nazionale; “perdita di
sovranità”, “cessione di sovranità”).
La dialettica potere e contropotere qui si intreccia avviando un processo di definizione politica di
una seconda modernità. Occorre prendere atto come il potere dello Stato si esercita nelle sedi del
“contropotere” rappresentato da organismi sovranazionali e, conseguentemente, nell’attuazione
mirata di quelle scelte nel campo della propria sovranità nazionale, segnato da una specifica
concretezza storica.
2.2.2.1. [il (contro)potere] il gioco di autonomia e sovranità congiunte e la doppia trappola:
«trappola della nazionalità», «trappola della sovranazionalità».
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2.2.2.1.1. Sovranità e autonomia dello Stato moderno. «Le strategie statali «effettive» sono dunque
eo ipso strategie nazionali, che risultano dal controllo sul proprio territorio. Ciò include, sì, la
manipolazione dei mercati interni, di cui fanno parte anche i mercati del lavoro, con i presupposti
formativi e i sistemi di sicurezza sociale ad essi corrispondenti, ma esclude la
transnazionalizzazione e le strategie di cooperazione. Perciò, la distinzione tra strategie di Stato
potenziali, «despazializzate», e strategie di Stato nazionale effettive è così importante perché
comporta due cose: da un lato, essa mette in luce un elemento di «emancipazione» dello Stato e
della politica che imitano i loro avversari dell’economia mondiale e si liberano dei propri
«provincialismi» nazionali e territoriali. In questo modo, d’altro lato, risulta evidente che cosa
impedisce agli attori della politica — i governi e i partiti politici — di cogliere e di realizzare queste
opportunità, cioè il falso apriori secondo cui lo Stato e la nazione sarebbero indissolubili, così
come la politica e il territorio, la gestione politica e la sovranità nazionale.» (Beck 2002 p. 224-225)
2.2.2.1.2. la trappola della nazionalità come obiettivo che cocciutamente perseguito provoca il suo
contrario: la denazionalizzazione. La difesa di una sovranità in termini di autonomia è fonte del
rischio di perdita della sovranità sotto l’azione di soggetti che operano a livello transnazionale e
deterritorializzato, come i capitali e i movimenti; la sovranità in termini di autarchia è esclusione e
isolamento nei confronti dei flussi globali; oppure …
2.2.2.1.3. la trappola della sovranazionalità: il ruolo dello Stato nei circuiti globali si riduce a una
specializzazione univoca delle scelte di una nazione, funzionali solo alla domanda momentanea
proveniente dall’andamento di profitto dei capitali denazionalizzati. In questo caso, nella migliore
delle ipotesi, gli Stati nazionali rischiano di doversi rassegnare a «strategie di specializzazione»
dettate dalla situazione mondiale; secondo l’elenco di U. Beck: « (a) la strategia socialdemocratica
dello Stato protettore; (b) la strategia di ribasso degli Stati dai bassi salari; (c) la strategia
parassitaria degli Stati-paradisi fiscali e (d) la strategia anglosassone di depoliticizzazione
neoliberale, di de-statalizzazione dello Stato.» (Beck 2002 p. 248) Un caso limite ma ricorrente e
diffuso: «Alcuni Stati - soprattutto quelli del cosiddetto Terzo mondo – cercano di acquisire un
profilo ben distinto sul mercato mondiale e quindi di attirare e legare a sé il capitale straniero,
applicando sull’«articolo di marca» l’etichetta costi ridotti, controlli ridotti. Ciò significa che essi
rendono meno rigide o cancellano le loro leggi sulla tutela del lavoro, sulla tutela dell’ambiente o
sulla riscossione delle imposte da parte dello Stato.» (Beck 2002 p. 255)
2.2.2.2. [il potere come forma di contropotere (contropotere nazionale al contropotere
internazionale che pareva esercitato nei confronti dello Stato nazionale)] momenti strategici di
passaggio: «Occorre che i governi rinuncino all’indipendenza dello Stato e, per così dire, si leghino
reciprocamente le mani in accordi di cooperazione per dare impulso alla realizzazione dei compiti
nazionali fondamentali e conquistarsi nuove possibilità d’azione non solo sul piano internazionale,
ma anche su quello interno, nei confronti dell’opposizione e dell’opinione pubblica. Le strategie di
transnazionalizzazione esigono una nuova politica delle frontiere.» (Beck 2002 p.263)
«Internazionalizzazione e globalizzazione. Dalla perdita di sovranità verso l’esterno viene colpita
anche la maggior parte degli stati occidentali da tempo costituiti, anche se tale perdita viene sancita
nella maggior parte dei casi per mezzo di trattati. Uno stato come la Germania oggi è integrato in
numerose organizzazioni internazionali. Vanno ricordate a questo proposito l’Onu, con le
organizzazioni e agenzie a essa collegate, e le organizzazioni più antiche come l’Unione postale
universale. A esse si aggiungono istituzioni economiche come il Fondo monetario internazionale, la
Banca mondiale e il Trattato sul commercio mondiale (Gatt), e infine organizzazioni regionali come
il Consiglio d’Europa e alleanze militari come la Nato e l’Unione europea occidentale.
Simili istituzioni si fondano generalmente su trattati di diritto internazionale che impongono agli
stati partner degli obblighi, anche finanziari. Essi devono rispettarne gli statuti (come la Carta
dell’Onu che prescrive la soluzione pacifica dei conflitti), le prescrizioni (come quella di partecipare
alle consultazioni nel quadro dell’Ocse, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in
Europa) e i divieti (come quello di applicare i dazi preclusi dal Gatt). In teoria tutto ciò non intacca
la sovranità degli stati membri, in quanto è questa la base del diritto internazionale dei trattati. In
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realtà, lo spazio di manovra degli stati in politica estera viene notevolmente ridotto dall’eccezionale
densità degli impegni che essi hanno sottoscritto con i trattati. Quale stato, a parte gli Usa, ha oggi
la possibilità — che era un tempo la quintessenza della sovranità — di dichiarare guerra a proprio
piacimento? Sul piano giuridico è anche possibile che quegli impegni non abbiano prodotto un
aumento o una diminuzione di sovranità, ma sul piano politico è chiaro che proprio di questo si
tratta.
A partire dal 1951 è stata creata e sviluppata, per motivi pratici, una rete europea di alleanze e
trattati, da cui infine si è sviluppata l’Unione europea. Già la Comunità economica europea istituita
nel 1957 aveva un parlamento comune e un’unica corte di giustizia. Sebbene soprattutto la Francia
di De Gaulle negli anni Sessanta e la Gran Bretagna di Margaret Thatcher dopo il 1979 si
opponessero costantemente a ulteriori perdite di sovranità, la Comunità ha fatto sempre ulteriori
progressi. Nel 1973 ottenne il diritto ad avere entrate proprie e dal 1979 un parlamento a elezione
diretta; in quello stesso anno fu creato un sistema monetario europeo e nel 2002 la valuta è stata
unificata con l’introduzione dell’euro e l’istituzione di una banca centrale. Il complesso dei rapporti
europei è stato rivisto e integrato dal trattato di Maastricht del 1992, con cui in tutta la comunità —
che si chiamava ormai Unione europea — si introduceva la stessa normativa quadro di diritto civile.
Il progetto di una costituzione europea, intrapreso a partire da quel momento, è inizialmente
naufragato per il rifiuto espresso nel 2005 dai referendum popolari in Francia e in Olanda. Ma nel
frattempo il numero dei membri dell’Unione è salito a 25, e altri candidati attendono alla porta. Da
tempo l’Unione non è più una semplice confederazione di stati, ma non è nemmeno uno stato
federale, sebbene una tendenza in tal senso fosse presente fin dall’inizio e non sia certo esaurita.
Con la Commissione, che opera in autonomia ed è dotata di una sua burocrazia, con parlamento e
corti di giustizia, con il potere di emanare regolamenti e direttive vincolanti, con proprie entrate e
spese, con frontiere esterne e dazi in comune, con un proprio diritto civile, l’Unione ha alcune
caratteristiche tipiche dello stato, ottenute a spese della sovranità nazionale, sebbene quest’ultima in
linea di principio non venga messa in discussione. Ma la denuncia dei trattati da parte di un membro
— teoricamente possibile — è da molto tempo impossibile nella pratica: molto più conveniente
risulta invece seguire l’esempio britannico e danese, tentando di ricavare privilegi per il proprio
paese.» Reinhard Wolfgang 2007 Storia dello stato moderno, il Mulino, Bologna 2010 p. 115-117
2.2.2.3. il potere o la forma nuova del potere nata dalla sfida della globalizzazione: «com’è
possibile l’autotrasformazione cosmopolitica della politica e dello Stato?» (Beck 2002 p. 216); ma
non in termini di estensione della formula dello Stato nazionale a livello mondiale! «il
cosmopolitismo non pensa e non aspira alla società mondiale come a una società nazionale
ingrandita.» (Beck 2002 p.282) «La globalizzazione ha definitivamente aperto il grande gioco
politico che si gioca anche e precisamente per la trasformazione dei fondamenti della politica e
dello Stato e nel quale la questione dell’ulteriore sviluppo della statualità in vista dell’epoca
cosmopolitica è diventata la questione cruciale nella ripartizione del potere. L’autodefinizione della
capacità d’azione statale diventa dunque la variabile strategica del meta-gioco di potere.» (Beck
2002 p. 218)
«Nella misura in cui si riesce a sviluppare nuove concezioni di una «de-spazializzazione» dello
Stato e della politica e a percorrere nuove vie in questa direzione, si possono trovare risposte
politiche alla nuova geografia economica che si è delineata. Solo così il «destino» della politica
statale, di passare dalla condizione di soggetto attivo a quella di oggetto passivo della
globalizzazione, potrà capovolgersi in un nuovo slancio del politico. Ciò è possibile grazie alla
transnazionalizzazione intesa come cooperazione tra gli Stati.» (Beck 2002 p.225)
2.2.3. i movimenti: la logica dei movimenti di opinione della “società civile”
Il dato nuovo all’interno dei sistemi democratici rappresentativi: l’iniziativa dei cittadini.
Secondo l’analisi di Bernard Manin nei sistemi a democrazia rappresentativa sono in atto due
processi: «l’erosione della fedeltà ai partiti», «l’avvento della partecipazione politica non
istituzionalizzata». Sempre più cittadini, a quanto pare, partecipano a dimostrazioni, firmano
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petizioni o sottopongono le loro istanze direttamente a coloro che decidono. Questi comportamenti
sono più difficili da misurare rispetto al voto. […] Sia le inchieste regionali (come l’Eurobarometro)
sia quelle mondiali (come le tre ondate del World Values Survey) mostrano che sempre più cittadini
dichiarano di essersi effettivamente impegnati in una o più delle seguenti attività: firmare petizioni,
partecipare a dimostrazioni, unirsi a boicottaggi di consumatori, aderire a scioperi non ufficiali e
occupare edifici o fabbriche. […] Ma studi sul comportamento effettivo in singoli paesi confermano
che sono in aumento azioni come le dimostrazioni di piazza. In generale, gli studi empirici sulle
democrazie concordano sul fatto che i repertori delle azioni collettive sono cambiati in direzione di
queste forme non istituzionalizzate di partecipazione politica. Le forme di azione e le forme di
organizzazione che caratterizzavano i movimenti sociali antisistema negli anni sessanta si sono
normalizzate, diventando parte del funzionamento ordinario dei sistemi rappresentativi. […] È
impressionante notare come da diverse prospettive tutti questi studi mettano in rilievo che la
democrazia rappresentativa è stata trasformata, ma non messa in crisi, dall’importanza crescente
della partecipazione politica non elettorale.» Manin Bernard 1997 Principi del governo
rappresentativo, il Mulino, Bologna 2010 p. 281-284)
2.2.3.1. il potere «Né gli «egoisti» dei singoli Stati né quelli dell’economia mondiale sono in grado
di mobilitare un’opinione pubblica mondiale. Le strategie rivolte all’opinione pubblica mondiale
costituiscono il monopolio polivalente, ma nello stesso tempo limitato nelle sue risorse di potere,
delle reti di attori dei movimenti di difesa dell’ambiente, delle donne, dei diritti umani e dei
consumatori.
Un caso storico recente (2011): «Già nei luoghi originali, nelle grandi manifestazioni della rivolta
storica, si produce quella che potremmo definire una delocalizzazione soggettiva del luogo. Ciò che
viene affermato nel quadro di un luogo nuovo riafferma sempre il proprio valore trascendente e
universalizzante rispetto al luogo stesso. «Piazza Tahrir» è quel luogo cui si presta attenzione da
parte di tutta la Terra. Alcuni indignados spagnoli hanno riassunto benissimo questa estensione
delocalizzante del luogo: “Noi siamo qui, ma in ogni caso è una questione mondiale, e quindi siamo
dappertutto”». (Badiou Alain 2011 Il risveglio della storia, Adriano Salani Editore Milano 2012
99)
Su cosa si basa il potere dei movimenti di difesa della società civile globale nei confronti del
capitale che si arroga il potere e si legittima da sé?» (Beck 2002 p.308); la domanda potrebbe essere
così formulata su cosa si basa il potere del loro contropotere? Il potere della loro azione nel
contrastare (contropotere) scelte e modi operativi di Stato e capitali transnazionali? «… essi
dispongono di una risorsa di potere che non è tale se considerata dal punto di vista dalla politica
internazionale classica: non dispongono del potere dello Stato, né di quello del mercato, ma di un
potere di legittimazione.» (Beck 2002 p.312) « La prassi dei movimenti avvocatori si basa sul
principio di non sovranità degli Stati (o dei grandi gruppi) nelle questioni cruciali dell’umanità: le
distruzioni ambientali, i pericoli legati all’applicazione delle tecnologie su larga scala e
all’economia mondiale, i diritti umani, i diritti civili, la povertà globale, ecc. […] Detto altrimenti, il
capitale di legittimazione acquisito attraverso azioni concrete, ma anche giocato contro gli egoismi
delle nazioni e dell’economia mondiale, presuppone la visione di una responsabilità cosmopolitica
che travalichi e aggiri le frontiere.» (Beck 2002 p.314)
2.2.3.2. il potere. Il meta-potere della società civile globale che si esprime nei movimenti: il “potere
di legittimazione” che deve essere esplicitata. «Questo avviene in particolare allorché attraverso il
regime dei diritti umani e le corrispondenti convenzioni regionali vengono incoraggiati e dotati di
potere gruppi di opposizione orientati verso ideali cosmopolitici oppure quando la politica dei diritti
umani è collegata a sanzioni economiche o militari. In questo senso, da un lato il linguaggio dei
diritti umani produce un discorso di potere autorevole e altamente legittimo, che consente a gruppi
repressi e minacciati di legittimare i loro diritti e (eventualmente) di farli valere in lotte interne che
godono del sostegno esterno dell’opinione pubblica mondiale; dall’altro, in questo modo viene
conferito ai governi e alle ONG un diritto permanente e fondamentale a far sentire la propria voce e
a intervenire ovunque nel mondo. […] Il principio vigente nella prima modernità, fondata sugli Stati
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nazionali, secondo cui il diritto internazionale prevale sui diritti umani, è soppiantato nella seconda
modernità dal principio cosmopolitico, le cui conseguenze non sono state ancora pienamente
valutate, in base al quale i diritti umani prevalgono sul diritto internazionale, vale a dire che nel
caso di conflitto il diritto cosmopolitico di una persona viene fatto valere contro la sovranità
nazionale ancorata al diritto internazionale. Le conseguenze rivoluzionarie di questa evoluzione
cominciano oggi a profilarsi. Le distinzioni tra politica interna e politica estera, tra guerra e pace,
sulle quali finora si era sostenuto l’ordine del sistema internazionale, vengono meno, poiché il
regime dei diritti umani sfida il diritto internazionale e si rivolge direttamente alle singole persone
al di là dei popoli e delle nazioni, postulando una società civile mondiale di individui,
giuridicamente vincolante.» (Beck 2002 p. 83-84, 85-86, 87)
«È ancora vero, come sta scritto nella Costituzione tedesca, che «ogni potere dello Stato emana dal
popolo» (art. 20, § 2), ma non è più vero che ogni potere è detenuto dallo Stato. In particolare il
potere di istituire il diritto, l’autorità sull’autorità, cioè il diritto di decidere chi può prendere
decisioni vincolanti su che cosa, non risiede più soltanto nel potere statale, l’«unico potere
legittimo». Nascono invece forme di sovranità condivisa: condivisa tra gli Stati e gli attori (le
organizzazioni) dell’economia mondiale. Ciò significa che nel quadro dell’economia privata
mondiale si sviluppano nuove forme organizzative di potere non pubblico, che sta al di sopra degli
Stati sovrani senza avanzare pretese di sovranità statale, ma dotato di una parziale capacità di
istituire diritto.» (Beck 2002 p. 94-95)
«Essi fondano la loro stabilità sulle strategie di difesa — celebrate dai mass-media — che mettono
in atto per contrastare i pericoli con i quali la civiltà minaccia se stessa (cfr. in questo volume pp.
326 sgg.). Traggono il loro mandato dall’impegno sulle questioni fondamentali dell’umanità: la
distruzione ambientale, i pericoli dell’economia mondiale, le violazioni dei diritti umani, i diritti
civili, la lotta contro la crescente povertà globale e le clamorose violazioni delle regole non scritte
di una «giustizia globale». Questi «problemi mondiali» non sono soltanto «faccende interne» degli
Stati nazionali o dei grandi gruppi economici internazionali. Perciò è legittimo immischiarsi e
intervenire ovunque nel mondo, infrangendo, là dove necessario, il diritto nazionale con l’aiuto dei
mass-media, per allarmare l’opinione pubblica mondiale e farla reagire.» (Beck 2002 p.98-99)
2.2.3.3. uno strumento efficace: il potere del no in termini di consumo. « Le ONG — per quanto
disparate, non coordinate e in sé contraddittorie esse siano — dispongono senz’altro di un’«arma»
tagliente, globale, civile, nella misura in cui esse possono battere i grandi gruppi con le loro stesse
armi. La fredda logica dei mercati astratti ha molti attori. Essi non sono soltanto i proprietari, cioè
gli azionisti, e nemmeno soltanto i manager, le banche o le organizzazioni finanziarie
sovranazionali. C’è, non ultimo, anche il cliente globale, che dispone di un potere sempre maggiore.
Analogamente al capitale, egli dispone del potere globale del «no», del non-acquisto o del diverso
acquisto (come i GAS), l’“altro consumo”… Analogamente al capitale, il consumatore politico può
mettere in atto questa politica del «no» come effetto collaterale calcolato dell’agire economico, cioè
in modo incontrollabile e con costi ridotti. In breve, lo «sciopero dei consumatori» è uno strumento
di contropotere senza strumenti di contropotere.» (Beck 2002 p.308-309)
2.2.3.4. [il contropotere] strategie degli altri soggetti volti ad annullare il potere dei movimenti
assorbendone, depotenziandone, in vari modi, il potenziale critico innovativo; e le difficoltà interne
proprie e gli effetti possibili delle « strategie di drammaturgia del rischio: la «metodologia
avvocatoria» — produrre disponibilità al mutamento favorendo la consapevolezza pubblica di certi
fatti» (Beck 2002 , 316)
2.2.3.4.1. un contropotere “interno” a più livelli: 1. « L’efficacia dell’arma del non-acquisto è però
indebolita dalla difficoltà di organizzare durevolmente l’azione di non-acquisto dei non-membri
(perché questi sono i consumatori). Essa presuppone sistemi di informazione, un lavoro a livello di
opinione pubblica, l’uso dei media come strumento di una politica simbolica, informazioni fattuali,
ecc.» (Beck 2002, 309); 2. «non esiste un nemico chiaramente individuato, contro il quale possano
essere indirizzati i confitti.» (Beck 2002, 309) 3. «… non c’è un linguaggio unico del conflitto, ma
una confusione per così dire babilonica tra molti linguaggi del conflitto: quello dell’ecologia, quello
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dei diritti umani, quello femminista, quello religioso, quello nazionalistico, quello sindacale, quello
xenofobo.» (Beck 2002, 309)
2.2.3.4.2. un contropotere “esterno” anch’esso a più livelli e con diverse strategie. I tragici effetti
politici a livello di Stati (nazionali) in occasioni di interventi militari delle organizzazioni
internazionali a difesa dei diritti umani. Torna cioè il tema della democrazia (esportazione della
democrazia, sostegno dei diritti umani, missione di civiltà… motivi già sfruttati dal passato
colonialismo) utilizzato a legittimare interventi militari o politici dagli esiti imprevedibili. «Questa
nuova combinazione di disinteresse umanitario e di logica imperiale del potere viene preparata da
sviluppi che possono essere caratterizzati come circolo della globalizzazione: le globalizzazioni
economica, culturale e morale combinano i loro effetti per accelerare il declino delle istituzioni
nazional-statali, che a sua volta può portare a gravi tragedie umane e a guerre — come è accaduto
negli anni Novanta del secolo scorso in Somalia, Africa occidentale, Jugoslavia, Albania e in
diverse parti dell’ex Unione Sovietica.» Questo avviene in particolare allorché attraverso il regime
dei diritti umani e le corrispondenti convenzioni regionali vengono incoraggiati e dotati di potere
gruppi di opposizione orientati verso ideali cosmopolitici oppure quando la politica dei diritti umani
è collegata a sanzioni economiche o militari.
In questo senso, da un lato il linguaggio dei diritti umani produce un discorso di potere autorevole e
altamente legittimo, che consente a gruppi repressi e minacciati di legittimare i loro diritti e
(eventualmente) di farli valere in lotte interne che godono del sostegno esterno dell’opinione
pubblica mondiale; dall’altro, in questo modo viene conferito ai governi e alle ONG un diritto
permanente e fondamentale a far sentire la propria voce e a intervenire ovunque nel mondo.» (Beck
2002, 87)
2.2.3.4.3. La contro-strategia del sospetto e della negazione adottata (come contropotere nei
confronti dei movimenti) da parte degli Stati e del “capitale”. 1. la strategia del sospetto: «chi
pratica una politica con i fatti, cioè drammatizza i fatti per realizzare determinati obiettivi politici, si
espone al sospetto di essere uno dei tanti difensori di interessi…. strumentalizzano i fatti per
imporre i propri interessi nei confronti di singoli Stati o gruppi economici o per favorire il proprio
autofinanziamento attraverso offerte e nuove adesioni » (Beck 2002, 314, 315); 2. la strategia della
minimizzazione o negazione: «questi fatti [violazione dei diritti umani in un Paese, pericolosità di
determinate forme di produzione, di certe sostanze tossiche negli alimenti, ecc.] sono
sistematicamente rimossi e negati da chi detiene il potere — gli Stati o i grandi gruppi. […] cioè
dissimulano i fatti che li danneggiano e diffondono quelli da cui si attendono vantaggi strategici.»
(Beck 2002, 314, 315)
2.2.3.4.4. Movimenti a rischio di assorbimento: le “sirene” del capitale.
La situazione in esame: «Il peculiare contropotere del rischio pubblicamente discusso, la sua
capacità di far cadere le facciate dell’irresponsabilità organizzata almeno per un secondo (quanto
basta a far inorridire il mondo alla luce dei riflettori della sfera pubblica mediatica) e di costringere
gli ignoranti ad associarsi, è un segno della riflessività politica del rischio.» (Beck 2002 p. 135)
La strategia del capitale come contropotere alla logica dei movimenti consiste, oltre che nella
denuncia del falso allarmismo e del falso moralismo (i movimenti si globalizzano in forza della
globalizzazione che attaccano), nel rubare a proprio vantaggio i temi e le campagne dei movimenti
stessi. In particolare evidenza tale strategia si manifesta nel capo della ecologia, nel campo dei
diritti umani e delle povertà. Il pensiero va alle ricorrenti, disinvolte e rapide tecniche del lavarsi la
coscienza da parte della grandi industrie camuffando (“tingere d’azzurro”) i propri prodotti dalle
imprevedibili conseguenze in termini di spreco di risorse, distruzioni di equilibri ambientali,
minacce al futuro… variando in blue-washing l’espressione green-washing, che allude alle
malefatte delle multinazionali, compiute dietro il paravento delle loro campagne pubblicitarie
«verdi» o della partecipazione a iniziative di solidarietà umanitaria legata all’acquisto dei loro
prodotti (per ogni prodotto venduto 10 centesimi verranno devoluti… i punti accumulati verranno
destinati a favore di individui svantaggiati…); sottolineare la cura “ecologica” adottata nella
produzione della propria merce (un SUV nel bosco, la benzina “verde”, la plastica ecocompatibile
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…); adottare le forme artistiche della protesta per la propaganda di merci (i disegni dei writers come
Bansky per promuovere una macchina, di Keit Häring per abiti, mobili, ceramiche…)
Si deve prestare attenzione a come viene costruito uno spot pubblicitario: l’oggetto si mostra in
grado di risolvere i problemi ambientali e i rischi che produce; il suo consumo paradossalmente
diventa segno di sensibilità ai problemi ambientali o del rischio.
«Le tendenze della controcultura sono diventate il terreno di caccia preferito dai professionisti del
marketing alla ricerca di nuovi stimoli: la questione ambientale, il dibattito femminista, la difesa dei
diritti umani e la giustizia sociale sono temi che hanno trovato frequente applicazione nelle
campagne di marketing. Identificando prodotti e servizi attraverso argomenti culturalmente
controversi, le aziende evocano lo spirito ribelle e antistituzionale del consumatore e attribuiscono
all’acquisto il significato simbolico di atto dichiarativo a favore della causa. Quando si acquista un
sapone o un profumo da The Body Shop, si acquista veramente l’esperienza di essere amici degli
animali.» Rifkin Jeremy 2000 L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, A. Mondadori
2000, 232.
3. Direzioni, prospettive e proposte (in ipotesi) come risposte politiche e sociali:
relazioni ed autonomie nella globalizzazione
«Benvenuti in tempi interessanti»: Žižek Slavoj 2011 Benvenuti in tempi interessanti, Adriano
Salani Editore, Milano 2012; a margine del titolo va notato: « Dicono che in Cina, se si odia
veramente qualcuno, lo si maledice così: «Che tu possa vivere in tempi interessanti!» Storicamente i
«tempi interessanti» sono stati periodi di irrequietezza, guerra e lotte per il potete che hanno portato
sofferenze a milioni di innocenti. Oggi ci stiamo chiaramente avvicinando a una nuova epoca di
tempi interessanti. Dopo decenni di Stato sociale, in cui i tagli finanziari erano limitati a brevi
periodi ed erano sostenuti dalla promessa che le cose sarebbero ben presto tomate alla normalità,
stiamo entrando in un nuovo periodo in cui la crisi economica e diventata permanente, e ormai un
semplice modo di vita. Inoltre oggi le crisi interessano entrambi gli estremi della vita economica —
l’ecologia (l’esternalità naturale) e la speculazione finanziaria pura — e non il cuore del processo
produttivo. È per questo che è cruciale evitare la semplice e ovvia soluzione: «dobbiamo liberarci
degli speculatori, mettere ordine, e la produzione reale potrà continuare». La lezione del capitalismo
è che queste speculazioni «irreali» sono il reale; se le eliminiamo, ne soffre la realtà della
produzione.» (Žižek 2011, 9)
Richiamando il problema: capitali, movimenti e identità individuali, nella globalizzazione, si
muovono secondo una logica di deterritorializzazione; lo Stato, gli stati nazionali hanno
competenze e si muovono secondo una logica di territorialità, per cultura, lingua, storia,
amministrazione e competenze di sovranità. Viene in risalto, quindi, un divario tra il soggetto
politico e i soggetti sociali; si muovono secondo logiche opposte.
Indicando la direzione: l’incontro è possibile non nella difesa ad oltranza e secondo tradizione di
autonomie e competenze, ma nell’avvio di forme politiche nuove di gestione e di coordinamento.
Sembra prendere forma un doppio intreccio. Il primo, l’intreccio politico istituzionale tra “maxi,
medi, mini”: tra organismi internazionali e sovranazionali, stati nazionali (o già nazionali; stati di
diritto territorialmente specializzati), movimenti societari espressioni di urgenze irrinunciabili di
gruppi e persone.
Il secondo, l’intreccio politico sociale tra lo Stato di diritto locale e le libere e labili associazioni
cittadine portatrici, in forma di movimenti (e di sub-politica), di urgenze che rendono possibile una
legislativa e amministrativa specifica e mirata dei proclami giuridici riguardanti i diritti e le
opportunità.
Il primo intreccio si gioca sulla rilettura degli stati nazionali in grado di passare da una politica
estere (e interna di conseguenza) di difesa della propria autonomia territoriale all’esercizio del
proprio ruolo di sovranità propositiva all’interno degli organismo internazionali e sovranazionali.
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Il secondo intreccio diventa analisi delle potenzialità politiche del sociale a decretarne, attraverso la
contingenza, il rinnovamento e il rilancio e a spingere verso una rifondazione della politica come
una prassi, una abitudine, un dovere e un diritto sociale. Dunque: relazioni politiche e dinamiche
sociali “al di là delle classi e delle stratificazioni”.
3.1. Nazioni cosmopolite; le nuove forme della sovranità e dell’autonomia.
Il filo conduttore che occorre ribadire. Come nell’antichità classica non si tratta di una polis che è
poi anche cosmopolitismo in una specie di politica estera; ma quella polis e quella cultura è
essenzialmente cosmopolita. Così il cosmopolitismo delle nazioni non si rivolge alla loro “politica
estera”, come avveniva nell’età moderna nell’ambito delle relazioni internazionali degli stati
nazionali, ma definisce la realtà politica delle nazioni in toto. Sono cosmopolite di fatto nelle
componenti demografiche, sociali e culturali che le caratterizzano, per i problemi economici e
ambientali in cui e di cui vivono, nelle urgenze di sicurezza, difesa e alleanze in cui sono inserite;
dunque la politica di ogni nazione (politica interna, politica estera) è necessariamente, in forza della
propria natura e sovranità, cosmopolita.
3.01. uno schema semplificato ma utile per focalizzare uno sviluppo storico: nella prima modernità:
gli stati nazionali (la dama); nella seconda modernità: gli stati transnazionali; cosmopoliti (gli
scacchi).
3.02. una premessa contro gli automatismi: «“I meccanismi della messa in rete planetaria, che non
sono affatto così nuovi come ritengono alcuni ‘globalizzatori’ - sostiene per contro Martin Shaw sono condizioni necessarie ma nient’affatto sufficienti per produrre trasformazioni globali nel senso
pieno del termine.” La globalità è un processo consapevole o non è niente: la chiave è lo sviluppo
mondiale di una comune consapevolezza umana del globale, non nel senso di un’astratta questione
morale o intellettuale, ma nel senso di una coscienza profondamente radicata nelle lotte sociali e
collegata a processi sociali come il processo democratico, che di solito si considerano
separatamente. In questo senso “si può effettivamente osservare una rivoluzione globale diffusa,
non simultanea e incompleta, accanto a molte manifestazioni di una controrivoluzione
antiglobalista”(Shaw 2000, p. 13).» (Beck 2002 p. 106)
3.03. una tesi generale: «Che ne è degli Stati nazionali? Gli Stati nazionali non si dissolvono affatto,
ma vengono reinterpretati, perdono vecchi significati e ne acquistano di nuovi nello spazio di potere
transnazionale.» (Beck 2002 p.149)
3.1.1. la globalizzazione e la perdita della sovranità nazionale
Una tesi in forma di constatazione: «le percezioni globali del rischio creano lo spazio per nuove
possibilità di potere transnazionali.» (Beck 2002 p. 13) «Cosa può indurre nazioni sicure di se stesse
a dividere la loro sovranità nazionale con altre nazioni o a cederla del tutto? La tesi che intendiamo
sviluppare … è la seguente: è la percezione delle minacce che l’umanità rivolge a se stessa
mediante il progresso a far uscire dalla chiusura dell’ottica nazionale e a diventare nello stesso
tempo la fonte di nuovi pericoli politici globali. Per esporre perlomeno a grandi linee questo
argomento dell’autominaccia, che occupa un posto centrale nella teoria politica della seconda
modernità, proveremo a tradurre due autori, Fritz W. Scharpf e Thomas Hobbes, dalla prospettiva
nazionale a quella cosmopolitica.» (Beck 2002 p.326-327) «La teoria politica della sovranità di
Thomas Hobbes si basa sulla formula homo homini lupus, «l’uomo è un lupo per l’uomo». Invece,
la teoria politica della società del rischio parte da una variante di questo stesso principio: l’umanità
è un lupo per l’umanità. Il «carattere di predatore», del quale parla Hobbes, non viene attribuito ai
singoli uomini, ma all’umanità nel suo complesso. L’umanità è soggetto e oggetto della propria
autominaccia.» (Beck 2002 p.329)
«La priorità dell’autoconservazione protratta il più a lungo possibile è il primo bene dell’umanità.
Tra tutti i mali la morte sta al primo posto. Al livello del singolo individuo essa è inevitabile. Non è
così al livello dell’umanità. La morte dell’umanità, l’autoannientamento di tutti come possibilità
dell’agire umano è la novità introdotta nel mondo dalla civiltà. L’orrore dinnanzi a questa
21
prospettiva può fondare un consenso globale che crea un potere globale. Il fatto che questo potere
unito al consenso del dominio legittimo globale, che tende a evitare i pericoli incombenti
sull’umanità, abbia conseguenze estremamente ambivalenti, è dovuto alla natura stessa del politico.
[…] La percezione dell’incombente suicidio del genere umano apre la possibilità di ricorrere a una
legittimità globalizzata e a fonti globalizzate di potere basato sul consenso. Queste fonti di
legittimazione del potere globale sono in prima istanza a-democratiche, in quanto si sottraggono a
qualsiasi procedura democratica proprio in forza della loro globalità. Tuttavia, esse dipendono dalla
percezione e dal riconoscimento globali e dunque dalle messe in scena mediatiche. In secondo
luogo esse sono anche potenzialmente antidemocratiche, poiché con la percezione del rischio per
l’umanità cresce la disponibilità a sbarazzarsi dei vincoli democratici.» (Beck 2002 p.328)
«… la percezione del pericolo che incombe sull’umanità fa cadere il principio di legittimazione
dell’ordine nazional-statale. Dal momento che il sovrano nazionale di fronte al pericolo da cui è
minacciata l’umanità non è più in grado di garantire la sicurezza interna ed esterna e la protezione
della vita dei suoi cittadini, viene meno il dovere di ubbidienza dei cittadini. La conseguenza
(secondo Hobbes) è che l’umanità civilizzata ricade nello stato di natura, nel quale ognuno è
padrone di se stesso e deve difendere da sé i suoi diritti naturali. Nella misura in cui la percezione
dei pericoli ai quali è esposta l’umanità avviene a livello globale, questa delegittimazione minaccia
l’ordine nazional-statale su scala globale. A meno che gli Stati nazionali minacciati nella loro
esistenza non comincino e non riescano a trasformarsi da Stati nazionali in Stati transnazionali, cioè
in Stati cosmopolitici. Il contratto sociale non può più fondarsi sull’anarchia dei singoli Stati. Deve
invece istituire un nuovo ordine interstatale che tragga la propria legittimità cosmopolitica dalla
lotta preventiva ai pericoli che minacciano l’umanità.» (Beck 2002 p.331-332)
3.1.1.1. il passaggio dalla perdita al guadagno, a nuovi ruoli, opportunità e compiti: « l’abbandono
dell’assiomatica nazionale, non segna affatto la fine della politica — come spesso si pretende —,
ma può essere intesa e praticata come strategia di auto-autonomizzazione della politica.» (Beck
2002 p. 269)
3.1.1.2. ipotesi di laboratorio politico teorico e pratico (tra storia-fatti e storia-narrazione):
«Se il dio dello Stato nazionale è un dio mortale, ciò non significa (come vuole farci credere l’ottica
nazionale) che lo Stato muoia. Accade invece come nella leggenda nella quale l’eroe taglia la testa
del drago e al posto di quella testa ne spuntano molte altre.» (Beck 2002 p.338) Ad esempio: lo
Stato etnico, lo Stato neoliberale (cioè lo Stato concorrenziale, lo Stato-mercato), gli Stati
transnazionali (nella forma non univoca, anzi opposta di Stato transnazionale di sorveglianza
[eccellente esempio dell’internazionalizzazione dello Stato nazionale] e di Stato cosmopolitico). Si
tratta del meta-gioco storico della politica in cui sono coinvolti tanti attori: l’economia mondiale, gli
«Stati» (e tutto ciò che ne fa parte: i partiti, le associazioni, le popolazioni, le tradizioni, le religioni,
le regioni e, non ultimi, i parlamenti, le sfere pubbliche, i mass-media), partiti nazionali dei cittadini
del mondo (più semplicemente, i «partiti mondiali»), movimenti…
3.1.1.3. verso un cambio di orizzonte cosmopolitico: «La tesi della fine della politica afferma che la
fine della politica nazionale è arrivata. Ciò offre molte opportunità ad un cambio di orizzonte
cosmopolitico. La fine della politica nazionale segna l’inizio di una politica transnazionale.
Quest’ultima può essere trasformata in uno Stato cosmopolitico. L’indifferenza per questi princìpi e
queste idee condanna allo scacco qualsiasi politica e qualsiasi scienza politica dell’ottica nazionale.
Tuttavia, l’uscita dal paradigma nazionale non può in alcun modo avvenire andando ciascuno per
conto proprio, poiché le strategie isolate hanno un respiro troppo corto. Non solo per il capitale, ma
anche per la società civile globale vale il principio secondo cui senza lo Stato non sono possibili
decisioni collettivamente vincolanti, cioè non è possibile nessuna legittimazione. Ma vale anche il
contrario: senza alleanze tra partiti e governi, da un lato, e tra società civile e certe frazioni del
capitale, dall’altro, non è possibile nessuna riforma radicale della politica statale. Solo la messa in
rete programmatica e organizzativa della politica, dello Stato e della sub-politica transnazionale con
le sue reti di potere nell’economia mondiale e nella società civile può riuscire a compiere il
passaggio dal paradigma della statualità nazionale al paradigma della statualità cosmopolitica.»
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(Beck 2002 p.325-326) «Tanto più interessante è osservare come gli Stati egoisti imparano che gli
specifici problemi interni con i quali essi devono misurarsi possono essere risolti solo cooperando
con altri Stati. Prima la politica estera era una questione di scelta e non di necessità. Oggi, invece,
prevale un «sia .. sia» di tipo nuovo… » (Beck 2002, p.340)
«Se è corretto evitare la fissazione sullo Stato nazionale, dal momento che lo Stato non è più l’attore
del sistema internazionale, ma un attore tra gli altri, sarebbe d’altra parte sbagliato gettare il
bambino con l’acqua sporca e lasciare che la critica allo sguardo fissato sullo Stato nazionale ci
faccia perdere di vista la possibile capacità d’azione e di autotrasformazione dello Stato nell’era
globale. Perciò, meta-gioco di potere significa che anche gli Stati devono essere pensati come
contingenti e politicamente modificabili, e che devono essere resi tali e studiati in quanto tali. La
questione che allora si pone è la seguente: come rendere possibile la transnazionalizzazione degli
Stati?» (Beck 2002 p.13)
3.1.2. la globalizzazione e il potenziamento della sovranità nazionale: il futuro e la forza della
nazione in contesto (interno ed esterno) cosmopolitico
3.1.2.1. La presenza della nazione (Stati nazionali) in contesti sopranazionali sede del
potenziamento dello stato nazionale; la sua insostituibilità allo scopo di dare concretezza e realtà
alle politiche di gestione. In chiarificazione preliminare: Stati cosmopoliti non Stato cosmopolita:
(si citava già) «Un regime cosmopolitico non è affatto un regime nazional-statale proiettato su scala
più ampia. […] Diventa pertanto necessario un cambio di paradigma caratterizzato dai concetti
antitetici di internazionale e cosmopolitico» (Beck 2002 p.62)
3.1.2.2. Sovranità e autonomia: una distinzione necessaria (a differenza della situazione politica
della prima modernità in cui i termini venivano rigorosamente associati come in una definizione)
«Per far uscire il pensiero e l’azione dalla trappola nazionale occorre introdurre una distinzione
fondamentale tra sovranità e autonomia. […] Da questo punto di vista, la dipendenza economica, la
diversificazione culturale, la cooperazione militare, giuridica e tecnologica tra gli Stati portano
automaticamente alla perdita di autonomia e quindi alla perdita di sovranità. Se però si commisura
la sovranità alla capacità di plasmare politicamente gli eventi, cioè a quanto uno Stato è in grado di
aumentare il benessere della popolazione e di avviare a soluzione problemi urgenti quali la
disoccupazione, la lotta alla criminalità, la tutela ambientale, la sicurezza sociale e militare, allora la
crescita delle interdipendenze e della cooperazione, cioè la perdita di autonomia, si rivela un
guadagno di sovranità effettiva. La capacità di controllo politico dei governi aumenta con la
crescita del benessere sociale e con l’acquisizione di maggiore potere tecnologico ed economico
globale consentita da accordi interstatali. Per il regime cosmopolitico è fondamentale assumere la
consapevolezza del fatto che la perdita formale di autonomia e l’effettivo guadagno di sovranità
possono rafforzarsi a vicenda. […] La sovranità effettiva degli attori (collettivi e individuali) cresce
nella misura in cui diminuisce formalmente la loro autonomia. In altri termini, sulla scia della
globalizzazione politica avviene un passaggio dall’autonomia basata sull’esclusione nazionale alla
sovranità basata sull’inclusione transnazionale. Ad essere determinante non è più il fatto che viene
creata una rete sempre più fitta di intrecci interstatali, ma il modo in cui tale rete viene vista,
valutata e organizzata.» (Beck 2002 p. 118-119) La gestione condivisa di problemi fondamentali e
globali, che superano quindi la possibilità di gestione dei singoli Stati, non è cessione o perdita di
sovranità, ma esercizio di sovranità; una competenza che altrimenti si rischia di perdere per
l’impossibilità di uno Stato a competenze nazionali di legiferare e gestire in modo efficace e utile
problemi di rilevanza globale (problemi dell’ambiente, delle risorse energetiche, dei flussi
finanziari, della crisi economica, dell’emigrazione…)
«Alla fine è di fondamentale importanza essere consapevoli che la rinuncia ai diritti nazionali di
sovranità non significa affatto la perdita di competenza per la risoluzione dei problemi nazionali. È
vero, invece, il contrario: solo la transnazionalizzazione delle attività dello Stato e del governo apre
la strada anche alla soluzione delle questioni scottanti a livello nazionale.
Qui sta un punto decisivo per la comprensione della seconda modernità dello Stato e della politica:
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l’unico modo di rivitalizzare la politica nazionale consiste nel denazionalizzarla. Sussiste un nesso
interno tra le perdite di sovranità nazionale e i guadagni di sovranità transnazionale, cioè il
dispiegamento di una sovranità nazionale riguadagnata tramite la cooperazione (se con ciò si
intende fondamentalmente la soluzione anche delle «questioni nazionali» di una politica orientata
verso la soluzione dei problemi). Per affermare e motivare l’indispensabilità dello Stato di fronte
all’economia mondiale che colonizza la politica occorre spezzare l’egemonia del discorso
neoliberale e sostituirla con un discorso sui contenuti della grande politica. Come ho detto, io parlo
di strategie, che però non devono mai essere identificate con la loro realizzazione. Rinunciare a
queste strategie di grande politica perché la loro attuazione appare utopistica nel momento storico,
significherebbe rinunciare preventivamente a una fondamentale strategia di potere della politica.»
(Beck 2002 p.227- 228)
3.1.2.3. nazioni e cosmopolitismo (stati nazionali cosmopoliti) è coniugare ideale e concretezza; ali
e radici. Ali senza radici = nessuna applicazione concreta del progetto; Radici senza ali = nessuna
capacità di progettare se non in semplice difesa dell’esistente.
« Queste istituzioni cosmopolitiche dovrebbero trarre la loro sostanza politica da nuovi e flessibili
diritti civili transnazionali. Questo cosmopolitismo messo a terra, radicato nei luoghi e nelle loro
tradizioni, non deve essere scambiato con il vecchio, elitario cosmopolitismo borgheseimperialistico, che aveva elevato la norma europea a norma mondiale. Esso si fonda invece sul
principio e il valore della diversità nel senso radicale del termine, cioè sul riconoscimento
dell’alterità dell’altro. […] Gli Stati cosmopolitici sono quelli che nascono dalla mescolanza con la
società civile globale. Ossia: in luogo dell’universalismo particolare della nazione (e delle nazioni)
e in luogo dell’omogeneità nazionale subentra la questione sul modo in cui la politica — la
decisione politica legittimata democraticamente — sia possibile nelle condizioni della pluralità
culturale.» (Beck 2002 p.282-283)
3.1.3. mutamento del concetto di politica ….e l’ipotesi della non coincidenza tra Nazione e
Stato: dunque gli Stati cosmopoliti.
È come se il movimento dei capitali, il movimento dei diritti e i “movimenti” che li sollecitano e
richiedono, le organizzazioni internazionali, loro contesto di definizione formale cambiassero la
natura e la ragione prima dello Stato; non tanto e non più, romanticamente, Stato “nazionale” ma,
come nelle teorie politiche dell’età moderna, stato di diritto, non più territoriale localistico, ma
cosmopolita esercitato, specificato e garantito in ambiti territoriali storicamente definiti. Tre
soggetti non più nazionali: capitali, organismi internazionali, movimenti ridefiniscono il ruolo e la
direzione di sovranità degli Stati nazionali, dei suoi principi e della sua struttura organizzativa.
« Nel quadro e nello spazio transnazionale la politica sperimenta, esplora e rafforza il proprio
interesse per se stessa.» (Beck 2002 p. 273) «… il rinnovamento dei contenuti della politica, cioè il
rinnovamento cosmopolitico della politica, è una risorsa di potere fondamentale. In altri termini, la
rinuncia all’utopia equivale alla rinuncia al potere. Solo chi è capace di entusiasmare ottiene
consenso e potere. La riscoperta di grandi obiettivi, della grande politica, serve sia a rivitalizzare la
politica sul piano dei contenuti, sia a darle potere. Le due cose assieme concorrono a determinare la
strategia di ripoliticizzazione della politica.» (Beck 2002 p.275) Una definizione di cosmopolitismo
e della sua funzione: fornire alla polis (Stati nazionali, nazionalità, culture e identità nazionali)
l’occasione e le dinamiche per il cosmopolitismo: la nuova etica dei diritti e il nuovo ruolo della
Stato nella propria dimensione cosmopolitica.
3.1.3.1. L’evoluzione in atto e i nuovi sguardi. «Davanti ai nostri occhi, sotto le nostre dita si
compie un’evoluzione delle forme e del concetto del politico, che finora non si era potuto percepire
e studiare a causa della mancanza di categorie e prospettive adeguate, una mancanza che questo
libro cerca di colmare. La struttura delle opportunità del politico spezza il dualismo del nazionale e
dell’internazionale e si colloca nello spazio «glocale». La politica mondiale è diventata politica
interna mondiale, che priva la politica nazionale delle sue frontiere e dei suoi fondamenti. La novità
non è il fatto che le strategie del capitale mettano sotto pressione gli Stati e puntino loro il coltello
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alla gola — di questo l’economia politica si occupa fin dai suoi inizi — ma il modo in cui lo fanno
e il modo in cui il potere economico con le sue ripercussioni sulla politica mondiale si serve della
minaccia di una ritirata degli investitori per trionfare su una politica paralizzata nel suo legame alla
«terra patria». Dunque, in linea di principio gli attori dell’economia mondiale non sono più potenti
degli Stati. Ma sono usciti prima dalle angustie dell’ortodossia nazionale: questa è la novità.
Perciò, chi si attende il ritorno del politico nel concetto e nella forma dello Stato nazionale si
aggiungerà inevitabilmente al coro di coloro che lamentano la fine della politica. Uno degli errori
del nazionalismo metodologico sta nel fatto che esso rende gran parte della teoria politica e della
scienza politica cieca di fronte al cambiamento di forma del politico nella seconda modernità, cioè
della modernità cosmopolitica. In questo modo non viene colta la riflessività politica della società e
della storia aperte al futuro, l’esperienza fondamentale della storicità, della doppia contingenza,
della trasformazione verso il futuro aperto di una società, di una statualità e di una politica di tipo
diverso. La globalizzazione impone la politica mondiale.» (Beck 2002 p.323-324)
3.1.3.2. Stato nazionale – Stato incompiuto; lo Stato dei diritti riservati (cioè del privilegio) dei
diritti negati.
« Il nazionalismo ha perduto la sua innocenza La negatività del Moderno e della sua coscienza non
è un mero atteggiamento, non è un’ideologia del tragico. È la coscienza storica della modernità
nazionale ad avere sviluppato, senza alcuna pietà né alcun riguardo per la propria autodistruzione, il
potenziale di catastrofi morali, politiche, economiche e tecnologiche che ha trasformato la vita reale
in un laboratorio da libro dell’orrore. Ne sono testimonianza gli stermini di massa del XX secolo —
le guerre mondiali, l’Olocausto, le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki — e la lista del male
assoluto non finisce mai di allungarsi. […] Con il trionfo del nazionalismo nel XVIII e XIX secolo
il gruppo particolare fu elevato a universale, la propria nazione venne identificata con l’umanità. Le
molte umanità particolari universalizzarono il particolare facendone la norma della solidarietà
politica, creando così — in modo apparentemente definitivo — l’universalismo del nazionale,
l’universalismo particolare. In questo senso ciò che oggi ha inizio è, a seconda della prospettiva che
si assume, una controrivoluzione cosmopolitica o il superamento della menzogna in cui si avvolge
l’era nazionale e che afferma: i diritti fondamentali possono essere divisi a livello nazionale,
possono essere accordati a coloro che sono come noi — membri di questa nazione e di questo
popolo—, mentre possono essere rifiutati a tutti gli altri individui. (Beck 2002 p.299, 300)
«Lo Stato nazionale è lo Stato incompiuto, lo Stato che nega strutturalmente la propria
responsabilità morale per i diritti delle minoranze e degli stranieri. Hegel parla di «Stato razionale»,
intendendo con questa espressione l’idea centrale secondo cui allo Stato spetta di incarnare e far
valere la responsabilità etica di mediare tra le diverse lealtà, convinzioni, identità, comunità di fede
che compongono una società. Proprio questo negano gli Stati nazionali. Essi rappresentano una
minaccia per la diversità interna, per le lealtà multiple dei flows e dei fluids che circolano all’interno
delle loro frontiere. Gli Stati nazionali incarnano la negazione della pluralità. Gli Stati nazionali
sono sinonimi di violenza contro le minoranze e gli stranieri. Gli Stati nazionali tollerano la guerra
come emanazione legittima della sovranità statale. Gli Stati nazionali incarnano la tolleranza nei
confronti della violenza, di cui essi dispongono autonomamente all’interno e all’esterno. Gli Stati
nazionali presuppongono di essere loro, e loro soltanto, gli unici soggetti del diritto internazionale.
Il cosmopolitismo si contrappone al diritto all’autodeterminazione nazionale, inteso come il diritto a
chiudersi al resto del mondo, e sottolinea la necessità di collegare la sovranità interna alla
responsabilità per gli altri, per gli stranieri, dentro e fuori delle frontiere nazionali. Non si tratta di
negare o, peggio, di condannare l’autodeterminazione. Si tratta, al contrario, di liberarla dalla sua
unilateralità nazionale e di combinarla con un’apertura cosmopolitica ai bisogni del mondo,
consentendole di trovare un nuovo equilibrio tra i doveri nei confronti dei concittadini e i doveri nei
confronti degli altri cittadini del mondo. Pertanto, il principio secondo cui ogni essere umano è un
fine in se stesso (Kant) non può che entrare in contraddizione con il tradimento di questo principio
alle frontiere della nazione: perché dovremmo assumere certi doveri morali nei confronti di certe
persone per la sola ragione che casualmente condividono la nostra medesima appartenenza
25
nazionale? Perché mai dovremmo sentirci liberi da qualsiasi obbligazione morale nei confronti dei
nostri simili per il solo motivo che essi sono nati e cresciuti dall’altra parte dello steccato
nazionale?» (Beck 2002 p. 304-305) [ricorda l’affermazione di Antistene, dei cinici: «Antistene
non lesinava il suo disprezzo per gli Ateniesi che si vantavano di essere autoctoni, anzi diceva che
non era più nobili delle chiocciole e delle cavallette» (se si tratta solo di un fatto di nascita, anche
loro sono nate in Atene) [da Diogene Laerzio cit.]
3.1.3.3. La base etica della politica: un’etica fondata sui diritti umani e naturali; un’autofondazione
che ubbidisce «alla logica dell’affermazione, che si giustifica in termini tanto etici, quanto empirici,
quanto pragmatici. […]…l’atto di fede della modernità cosmopolitica è il seguente: “I diritti umani
non mentono”». (Beck 2002 p. 396, 385). Il tema che qui viene affrontato è proponibile con il
quesito: «Quali sono i fondamenti della sovranità legittima nell’era globale?» (Beck 2002 p. XI): «i
diritti umani sono una fonte di potere cosmopolitico.» (Beck 2002 p.303)
«Ecco ciò che dà valore al regime cosmopolitico: l’autonomia giuridica dello Stato viene
subordinata al regime dei diritti umani. Pertanto, la situazione giuridica cosmopolitica che ci si
propone di realizzare mette in questione l’indipendenza degli Stati cosmopolitici.» (Beck 2002
p.290)
« Nella metafisica nazionale l’aspirazione universalistica del diritto è caduta nel dimenticatoio o —
peggio ancora—è stata subordinata alle norme proprie di ciascuna comunità etnica. Invece, la
costellazione cosmopolitica e lo Stato cosmopolitico sganciano la sovranità del diritto dalla
sovranità della forza e quindi spezzano — almeno in parte — la subordinazione della prima alla
seconda. Cosa significa «cosmopolitico» in questo contesto? «In prima istanza la nozione di
cosmopolitismo si riferisce ai valori di base che stabiliscono standard o limiti che nessun soggetto
agente, non importa se rappresentante di un governo, di uno Stato o di associazioni civili, può
violare» (Held 2002b, p. 5).» (Beck 2002 p.303-304)
«La sovranità dei diritti umani, che trae da se stessa la propria legittimità, non conosce frontiere. Il
suo sviluppo ubbidisce alla logica dell’autofondazione fuori della storia; essa, cioè, si fonda non sul
voto ma sull’approvazione, non sulla conquista ma piuttosto sulla non-conquista, non sulla
democrazia, ma sul ritorno alla ragione. Il regime dei diritti umani presuppone un diritto universale,
trascendentale e nello stesso tempo fondatore di potere, che non si radica più nella territorialità del
nazionale e dello Stato, ma nell’immediatezza simulata dell’individuo e della globalità, che non è
sottoposta a controlli democratici.» (Beck 2002 p. 385) « Se — come avviene nel caso del regime
cosmopolitico — lo scopo è quello di stabilire un insieme di princìpi morali validi per tutti, per la
nuova umanità illimitata, allora la legittimità di quest’ordine non può per principio derivare dalle
fonti di legittimazione dell’ordine limitato, territoriale, fondato sullo Stato nazionale.» (Beck 2002
p.395-396)
3.1.3.4. Lo Stato cosmopolitico. «Lo Stato cosmopolitico ha interiorizzato nelle sue istituzioni
l’ottica cosmopolitica, cioè ha abbandonato l’ossessione dell’ottica nazionale per accedere in questo
modo allo spazio d’azione aperto dalla caduta dei confini dell’economia e della cultura, nonché
dalla destatalizzazione della politica e del diritto. Ciò significa, concretamente, che la capacità
cosmopolitica di azione dello Stato deve essere colta ed esplorata concettualmente e politicamente
«a prescindere dalle rappresentazioni della sovranità e dell’autonomia che sono state considerate
valide fino ad ora». «Al centro dell’analisi dovrebbe stare non la ‘sovranità’ o l’‘autonomia’ dello
Stato, ma le sue capacità d’azione nel senso più ampio (state capacity)», cioè la capacità dello Stato
di contribuire alla soluzione dei problemi globali (Grande/Risse 2000, p. 253). […] Lo Stato
cosmopolitico utilizza dunque, senza lasciarsi affliggere da scrupoli di sovranità, la collaborazione
non rimunerata di altri governi, di organizzazioni non-governative e di grandi gruppi dell’economia
mondiale per risolvere i problemi «nazionali», cioè per risolvere problemi transnazionali che però
hanno la massima priorità in ambito nazionale.» (Beck 2002 p.283, 284) « Risulta perciò evidente,
una volta di più, che la perdita di sovranità e di autonomia da parte dello Stato deve essere
«nettamente distinta dalla perdita di capacità di controllo e di azione e quindi dalla perdita della
capacità di risolvere i problemi». «Si può benissimo pensare che i giorni dello Stato nazionale,
26
gerarchicamente strutturato, siano contati mentre invece le organizzazioni del dominio politico sotto
forma di reti nelle quali gli Stati nazionali sono ‘aboliti’ dischiuda nuove possibilità di azione in
un’economia e in una cultura globalizzate» (Grande/Risse 2000, p. 253; Elkins 1995; Albrow 1996
[trad. it. 1999]; Beck 1998a; Zürn 1998b; Grande 1999).» (Beck 2002 p. 285)
Dunque un motto a conclusione: «Pensa globalmente, agisci localmente» in Hillman James 1995
Forme del potere. Capire il potere per usarlo in maniera intelligente, Garzanti, Milano 1996, p.
186
3.2. Stato nazionale e movimenti. Un bilancio sulla politica, sub-politica, pre-politica, anti-politica
dei movimenti.
Come anticipato. Va presa in considerazione la prospettiva dell’intreccio politico sociale tra lo Stato
di diritto locale e le libere e labili associazioni cittadine portatrici, in forma di movimenti (e di subpolitica), di urgenze che rendono possibile una elaborazione legislativa e amministrativa specifica e
mirata dei proclami giuridici riguardanti i diritti e le opportunità. È allora l’analisi delle potenzialità
politiche del sociale a decretare, attraverso la definizione della sua contingenza, il rinnovamento e il
rilancio della politica, a spingere verso una sua rifondazione come una prassi, una abitudine, un
dovere e un diritto sociale; ad aprire gli stati all’internazionalismo dei problemi che caratterizza, su
ambiti specifici, i movimenti.
3.2.01. un caso non di poco conto: la strategia attuale dell’ONU e l’incontro istituzioni e
movimenti. « Il segretario generale delle Nazioni Unite punta speranze sempre più grandi sulle
coalizioni multiple: grazie alla partnership con organizzazioni non governative, con la società civile,
con imprese e università, egli cerca di conquistare un po’ di autonomia per la politica mondiale
dell’ONU. […] In questo modo Annan apre un nuovo gioco politico, multinazionale e
multidimensionale, nel quale gli Stati hanno perduto il loro monopolio politico per diventare un
partner o un concorrente strategico — per quanto molto importante — tra gli altri. Nascono così
coalizioni multiple e si genera un campo di forze nel quale è anche possibile, ad esempio, dar vita
ad alleanze tra organizzazioni non-governative e grandi gruppi transnazionali su questioni di
politica dei diritti umani o di tutela del lavoro, contro i governi ancora legati all’apriori nazionale.
Quando gli si domanda se così facendo egli non mini le fondamenta delle Nazioni Unite, nate da
un’alleanza di Stati e governi, Annan risponde richiamandosi alla Carta dell’ONU, dove si dice che
essa è stata scritta nel nome di tutti gli uomini, e aggiungendo che in ogni modo i governi non
possono mantenere da soli le promesse della Costituzione delle Nazioni Unite. Per questo c’è
bisogno di coalizioni transnazionali e multidimensionali. Ciò significa che la Carta delle Nazioni
Unite abbandona la prospettiva unilateralmente centrata sullo Stato nazionale e si apre a
un’estensione e a un rinnovamento cosmopolitici.» (Beck 2002, 277, 278)
3.2.1. la direzione e il successo della logica dei movimenti non consiste nel negare lo Stato
nazionale, ma nel guadagnare gli Stati nazionali alla (propria) dimensione cosmopolitica. «…il
capitale di legittimazione e quindi il potere dei movimenti avvocatori dipendono dalla loro capacità
di fare della veridicità, in quanto tale, un fattore politico.» (Beck 2002, 314) « In questo senso i
teorici della cultura mondiale trascurano le peculiarità delle strategie avvocatorie [dei movimenti].
Queste ultime tematizzano e strumentalizzano la rapidissima perdita di legittimazione che
caratterizza il dominio degli Stati e dell’economia mondiale, in questo modo contribuendo a creare
e a dare forma al regime cosmopolitico che si sta delineando. Nell’ottica delle strategie avvocatorie
e nel loro campo d’azione cadono le frontiere e i muri dei contenitori degli Stati e delle società
nazionali e si aprono (o vengono aperti) alla responsabilità e al potere cosmopolitici. Nondimeno,
anche per questi movimenti e per la loro strategia occorre tenere presente che il quadro nazionale si
apre, sì, ma non è cancellato. Il progetto cosmopolitico al quale i movimenti avvocatori danno voce
continua a indirizzarsi agli Stati. […] La società cosmopolitica può essere svegliata all’interno di
uno Stato e può fare pressione dall’esterno di uno Stato. Ma gli attori responsabili del politico
restano gli Stati.» (Beck 2002,.321,322)
3.2.2. Un bilancio sulla sub-politica, pre-politica, anti-politica dei movimenti.
27
«Prepolitica, subpolitica, antipolitica. Come dunque è evidente, le pratiche politiche capaci di
interagire con il tessuto sociale non si esauriscono nell’ambito della politica parlamentare: una
sempre maggiore importanza comunicativa ha assunto l’area del cosiddetto “subpolitico”. Tale area
coinvolge attori collettivi e individuali al di fuori della politica istituzionale (tradizionale) o liminali
rispetto al sistema economico, spesso in relazione antagonistica (o semplicemente critica) rispetto
alle forme consolidate della politica. I media, in tale mutata situazione, non sono più soltanto
strumenti di supporto alle istituzioni politiche (e in qualche caso persino asservite a esse), ma
possono diventare veicolo politico, forum di discussione in cui si generano forme di consenso, si
verifica e si forma un’opinione pubblica non più frutto del rapporto esclusivo fra istituzioni
parlamentari e cittadini. I media, in altre parole, rappresentano un luogo di condivisione pubblica e
la vasta area del subpolitico si nutre spesso proprio delle pratiche discorsive mediali; in tale
prospettiva vanno interpretati gli usi “tattici” della Rete da parte di organizzazioni che possiamo
variamente definire come subpolitiche (associazioni dal basso, movimenti auto-organizzati,
organizzazioni non governative), prepolitiche (associazioni di formazione alla politica, movimenti
di impegno sociale, associazioni radicate in ambito ecclesiale) e antipolitiche (movimenti che
contestano la “partitocrazia”, gruppi di interesse, associazioni anti-istituzionali). Bisogna chiarire
subito che se il confine fra la sfera del subpolitico e del prepolitico è molto incerto, esso è molto
netto fra le prime due e l’antipolitica. Quest’ultima infatti contesta spesso la stessa legittimità della
politica “tradizionale”, adottando comunque forme comunicative molto simili a quelle che i gruppi
di pressione utilizzano per entrare in maniera adeguata nel dibattito politico.
D’altra parte molti dei cambiamenti o delle politiche pubbliche più importanti per la nostra vita non
provengono dalla sfera tradizionale del processo decisionale, ovvero dal sistema politico formale
(sebbene esso abbia ancora un peso che una vulgata accademica tende a sottodimensionare in
maniera eccessiva). Il cambiamento epocale che Beck (Beck, Giddens, Lash, 1994) etichetta come
“modernizzazione riflessiva” è quello che rivela tendenze fondamentalmente “impolitiche” (se non
antipolitiche) secondo un processo complesso e non sempre chiarissimo. Da un lato, infatti, il
cambiamento, a un livello macrosociale, è causato dallo stesso processo di modernizzazione
(secondo una dinamica che è tipica delle teorie sociologiche del “conflitto”); dall’altro il processo di
cambiamento sembra guidato proprio dalle capacità autoriflessive dei pubblici cittadini. Le azioni
dei consumatori e le logiche della cittadinanza attiva si muovono proprio in questa logica e talvolta
sembra che la dimensione politica venga affiancata — se non addirittura sublimata — dai
meccanismi della subpolitica, dove agenti esterni alla politica tradizionale diventano parte di un
nuovo protagonismo sociale. Beck (1997) ritiene che la subpolitica rappresenti una parte fondante
della politica moderna, sebbene al di fuori del sistema politico formale: in tale area i cittadini
possono assumere un nuovo protagonismo su terni etici o su questioni sociali come l’ecologia, la
famiglia, il sesso ecc. Beck sostiene — forse a volte troppo ottimisticamente — che gruppi di
cittadini spesso non organizzati possono oggi prendere il potere politico: sebbene questo sia
irrealistico per molte ragioni, è tuttavia vero che i movimenti e le associazioni subpolitiche (e
antipolitiche) possono oggi teoricamente riuscire a influenzare l’agenda sociale, stabilendo forme di
inusitato news management in misura a volte maggiore di quanto facciano i partiti politici
tradizionali. […] Anche Tony Giddens (Beck, Giddens, Lash, 199, p. 44) individua nell’area del
subpolitico alcune delle attività costitutive della vita politica contemporanea, non più animata da
una motivazione utopica verso il futuro bensì dal mondo vitale del soggetto. In altre parole, il
microcosmo della vita personale appare strettamente interconnesso con il macrocosmo delle
questioni globali. Le forme subpolitiche ci obbligano a ripensare una nuova agenda morale,
costruita su domande nuove, come quelle concernenti un’esistenza in cui siamo inevitabilmente
costretti a compiere, contemporaneamente e spesso in maniera confusa, molte scelte (Giddens,
1991). […] All’interno di logiche più “politiche” ma comunque con atteggiamento critico verso la
politica “istituzionale” si muovono tutte le esperienze di “cittadinanza attiva” (tipica di gran parte
del terzo settore) e che possiamo definire come «la capacità dei cittadini di organizzarsi in modo
multiforme, di mobilitare risorse umane, tecniche e finanziarie, e di agire nelle politiche pubbliche
28
con modalità e strategie differenziate, per tutelare diritti e prendersi cura dei beni comuni,
esercitando a tal fine poteri e responsabilità» (Moro, 2005). Sorice Michele 2011 La comunicazione
politica, Carocci editore, Roma, p. 98-101
«Il successo e lo sviluppo di Internet e, in particolare, del Web 2.0 hanno evidenziato un uso diverso
della comunicazione politica e della stessa partecipazione alla vita sociale: la Rete sembra garantire
un rapporto più diretto fra attori, politici e cittadini. Questo fenomeno viene spiegato ricorrendo al
concetto di disintermediazione. […] Il termine “disintermediazione” proviene dalle scienze
economiche e si riferisce originariamente alla possibilità di scavalcare i canali istituzionalizzati di
distribuzione e vendita dei prodotti. […] Per estensione, il termine designa tutte le forme di
“scambio” in cui scompaiono o sono meno presenti gli intermediari. Il concetto è entrato nell’uso
anche della comunicazione politica e indica la costruzione – potenziale – di rapporti diretti fra attori
politici (candidati) e cittadini senza l’intermediazione dei partiti e/o di apparati istituzionali.» Sorice
2011, 107
[segue classificazione e costruzione di tipologie di presenza e partecipazione dei cittadini alla vita
politica, e allo spazio che la politica è disposta a fornire, sulla base dell’utilizzo dei nuovi media:
dal semplice accesso alle informazione alla proposta partecipazione ai processi decisionali]
3.2.3. in ulteriore approfondimento. « Probabilmente, secondo lo stesso Eder, la ricognitivizzazione
della sfera pubblica potrebbe essere favorita solo da una sua estensione oltre i confini degli statimercati nazionali (i quali, invece, nell’era della globalizzazione, per salvaguardare la propria
specificità e i propri interessi sfruttano spesso l’aumentata possibilità di comunicazione all’esterno
per promuovere e far conoscere la propria identità, con un arroccamento conservatore): Eder,
infatti, vede che sta nascendo e sviluppandosi tutto un universo di “influentials”, di “idea-givers”, di
“opinion leaders” (“protest actors, social movements, intellectuals, scientists, politicians kept
outside the decision making bodies, and journalists”) che stanno promuovendo dibattiti pubblici su
molti temi di interesse sovranazionale, come la questione ambientale, le normative sull’aborto, il
fenomeno della globalizzazione, il processo di unificazione dell’Europa, e, aggiungo io, anche la
protesta contro la pena di morte, le istanze di affermazione dei diritti umani, la questione sanitaria
nel terzo mondo e non solo, la mancanza di cibo e di acqua per larghissima parte degli abitanti del
pianeta, un’economia sostenibile, la definizione di una politica di governo, o quantomeno di
indirizzo all’azione politica dei singoli stati, a livello mondiale, ….. Per Eder questo “return of
reason” è legato all’insorgenza e allo sviluppo di una società civile a livello globale, effetto della
globalizzazione delle comunicazioni e alla possibilità conseguente di una mondializzazione dei
dibattiti: per lo studioso, quindi, soltanto al di fuori della “scatola” nazionale (nella quale
evidentemente egli considera la sfera pubblica come ormai irrimediabilmente compromessa con gli
affari privati) e della sua omogeneità elitaria e di “casta” della cultura e degli atteggiamenti
comunicativi, oltre i legami sempre più “stretti” e “vischiosi” delle nazionalità, soltanto quindi in
un’internazionalità tutta da costruire, il processo democratico può trovare nuova linfa e vigore e
continuare la sua perpetua evoluzione, supportata e condizionata dall’interno da una sfera pubblica
transnazionale che finalmente si può riappropriare di quella funzione cognitiva e di luogo del
dibattito pubblico, stimolato da rinnovate forti istanze ideologico-associazionistiche su scala
globale.» Il riferimento è a Klaus Eder, The Transformations of the Public Sphere and Their Impact
on Democratization, in La democrazia di fronte allo stato. Una discussione sulle difficoltà della
politica moderna, a cura di Alessandro Pizzorno, Milano, Feltrinelli, 2010. La nota è di Andrea
Beretta, La sfera pubblica e la democrazia. Coimplicazioni processuali, Tesi Scuola Superiore
IUSS, 2011, 15-16.
Nella stessa direzione, in rete, le App socialmente utili. Un esercito di volontari per il bene pubblico
in la Repubblica 05.08.2012.; Walzer Michael La politica al tempo dei movimenti. Perché la
società civile si scontra con i partiti in la Repubblica 20.07.2012
3.2.4. L’inutile indignazione. Con un ragionamento condotto secondo la logica (qui parziale) del per
assurdo, John Rawls dimostra (se lo si interpreta) come forme di protesta che si traducano nella non
partecipazione, l’indignazione che si manifesta, ad esempio, nel non voto, siano per gli stessi
29
movimenti, oltre che per la politica in generale, controproducenti: le mansioni e i ruoli assegnati per
elezione verranno comunque occupati da coloro che sono eletti e, in caso di astensione indignata,
eletti solo da chi non si indigna, da chi plaude al potere; quell’indignazione non solo dunque non ha
effetto politico di protesta e di cambiamento, ma rafforza al potere quella classe contro cui gli
indignati protestano.
«L’idea di base è che, senza un’ampia partecipazione alla vita democratica di una collettività di
cittadini vigorosa e bene informata, e con assoluta certezza se c’è un ritiro generalizzato a vita
privata, anche le istituzioni politiche meglio congegnate cadranno in mano a gente che cerca di
dominare e di imporre la propria volontà attraverso l’apparato statale, vuoi per desiderio di potere e
di gloria militare vuoi per ragioni di classe e di interesse economico, per non parlare
dell’espansionismo religioso e del fanatismo nazionalista. La sicurezza delle istituzioni
democratiche richiede la partecipazione attiva dei cittadini che possiedono le virtù politiche
necessarie a sostenere un regime costituzionale.» (Rawls John 1993 Liberalesimo politico, ed. di
Comunità, Torino 1999, 177-178)
3.3. Un bicameralismo ideale oltre il secolare inganno della caverna (di Platone)
Raccogliere e valorizzare la sfida della sub-politica, pre-politica, anti-politica dei movimenti in un
nuovo bicameralismo funzionale: dalla riflessione di Bruno Latour (Latour Bruno 1991 Non siamo
mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, ed. Elèuthera, Milano 1995; Latour Bruno
1999 Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Raffaello Cortina editore, Milano
2000.
Alcuni passaggi (e un passaggio attraverso la filosofia; con riferimento alla prima proposta politica
organica della storia della filosofia europea: Platone).
3.3.1. Platone e l’inganno del mito della caverna. In Platone è in atto una separazione che assume le
forme della lacerazione e dell’opposizione politica. Nel mito della caverna (nell’“inganno della
caverna”, Latour) il parlare, sempre forse in forma di parresìa (di parlare libero), si divide, si
colloca in due sedi separate (scarsamente collegate, di difficile collegamento) e assume natura ben
diversa; la conseguenza è che tra le due forme la distanza è pressoché, disperatamente, incolmabile
e di tragica opposizione. La vicenda di Socrate (la sua condanna a morte da parte di quella polis che
intendeva curare, salvare) e dello stesso Platone (il fallimento drammatico dei tentativi di Platone,
minacciato di morte e quindi in precipitosa fuga, e dei platonici di condurre lo stato o i suoi
reggitori alla filosofia) ne sono (sarebbero) una drammatica e eloquente conferma.
Il parlare (la parresìa) di coloro (la massa, i più, il demos) che stanno nella caverna, prigionieri
senza saperlo, senza esserne consapevoli (quindi doppiamente prigionieri), legati e abituati (legati
dall’abitudine) a guardare scorrere sullo schermo del fondo della caverna immagini e ombre, è
chiacchiericcio infinito e senza senso (“bavardage” Latour) intorno a ombre, immagini, apparenze e
simili amenità… Di esse ignorano sia ciò di cui sono copia, sia gli artefici di quelle oculate
proiezioni: burattinai alle loro spalle, non visti e non sospettati di esistere che astutamente
proiettano per la massa dei prigionieri ombre accorte, accompagnate da parole adeguate
trasmettendole come la realtà; ciò che essi vedono è considerato realtà in quanto unica visione
avvertita, e realtà ritenuta senza alternativa… Difficile, per i legacci e legami, girare il capo,
cogliere e smascherare l’inganno senza incorrere nell’ingiuria collettiva della follia, dell’uscita di
senno, senza essere derisi, accusati, cacciati, uccisi; comunque se ciò capita si tratta di un caso
fortuito, accade a pochi, la sorte di costoro è l’irrisione e, come nel caso di Socrate, la cacciata e la
morte.
Il parlare di coloro (i pochi, gli àristoi) che per fortuna e coraggio, per condizioni naturali
favorevoli (per natura) e per pazienza di adattamento educativo (per educazione e studio; uno studio
che si unisce alla natura risvegliandola secondo opportunità: il kairòs) si sono liberati dalla catene e,
uscendo dalla caverna, hanno compiuto il cammino in salita dalle ombre verso gli oggetti, di cui
quelle ombre erano proiezioni, dagli oggetti verso le forme ideali geometriche che di ogni oggetto
visibile sono forme, dagli enti ideali delle geometrie verso i principi logici ideali, cioè verso le
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forme e essenze ideali a partire dalle quali ogni realtà trova spiegazione e fondamento e si compone
in un ordine razionale comprensibile e gestibile. Il loro parlare costituisce scienza. È la repubblica
dei pari quanto all’aristocrazia del sapere e della parresìa della scienza, del costruire secondo
sapienza di cui l’Accademia platonica è realizzazione storica concreta, esterna alla polis, ma
rivendicante un progetto di gestione, conduzione razionale (pitagorica, nostalgica del modello
pitagorico) della polis. Il loro ritorno nella caverna, con progetti di liberazione, è tragedia,
determina quasi sicuramente la loro morte.
3.3.1.1. Contrariamente al progetto politico di Platone, che formava filosofi al ruolo di guide per
liberare i prigionieri dalla caverna e dalla schiavitù delle ombre, alla affermazione di Latour, per cui
l’unico modo per non cadere vittima dell’inganno della caverna e per uscirne è quello di non
entrarvi, oggi stiamo progressivamente entrando nella caverna.
«Nel film The Truman Show, del 1998, il protagonista è un personaggio immaginario che, cresciuto
in un ambiente televisivo completamente simulato, è del tutto inconsapevole della propria
condizione di prigioniero. Quando, alla fine, Truman scopre la verità, cerca disperatamente di
fuggire per rientrare nel «mondo reale», al di fuori del circoscritto, sebbene vasto, set televisivo. Per
ironia della sorte, mentre Truman tenta con ogni mezzo di sottrarsi all’ambiente artificiale che lo
imprigiona, la maggioranza di noi sta compiendo un viaggio in direzione opposta.
La presenza intorno a noi di media simulati elettronici si fa sempre più massiccia, e una parte ogni
giorno più cospicua della nostra esistenza si svolge in ambienti artificiali. Questo rappresenta un
cambiamento straordinario nel modo in cui gli esseri umani conducono la propria esistenza: si
rammenti che solo un centinaio di armi fa la parola broadcast [1. semina a spaglio, 2.
radiodiffusione, teletrasmissione, programma radiofonico], oggi familiare a chiunque si occupi di
televisione, era un termine tecnico dell’agricoltura e si riferiva allo spargimento della semente.»
Rifkin Jeremy 2000 L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, A. Mondadori 2000,
225.
3.3.2. Il problema politico come problema del doppio e la sua rilettura. È necessario riconoscere e
stabilire la natura e le competenze dei due luoghi che il mito della caverna di Platone nettamente
distingue e oppone, almeno in prima relazione. Distruttivo è pensare di conservarli in opposizione,
in guerra, in disprezzo reciproco (stile “radical chic” contro “gente comune/normale”). Il problema
che si impone è come legarli tra loro in un progetto o in una relazione di tipo politico. Nella
distinzione platonica, nella competenza riconosciuta ai filosofi, la politica sembra non risiedere più
nella polis, se non come campo applicativo, ma nella relazione tra i pochi che sanno (gli àristoi) e i
molti privi di paidèia, di conoscenza e di educazione. Occorre invece partire dal reale sociale e
dalle sue condizioni. Una osservazione del filosofo dell’età moderna Baruch Spinoza: «I filosofi
pensano che gli affetti dai quali siamo combattuti siano dei vizi, e che gli uomini vi cadano per loro
colpa. Per questo solitamente ne fanno argomento di riso, di compianto o di rampogna, e quelli che
vogliono fare più mostra di santità lanciano maledizioni. Credono così di fare qualcosa di divino e
di toccare il culmine della saggezza, mentre tutto quel che sanno fare è lodare in mille modi una
natura umana inesistente e fustigare quella che c’è davvero. Non concepiscono gli uomini per come
sono, ma per come li vorrebbero: con la conseguenza che, nella maggior parte dei casi, scrivono
della satira al posto dell’etica, e non sanno mai elaborare una politica applicabile alla pratica, ma
solo finzioni chimeriche o istituzioni realizzabili in Utopia o nel famoso secolo d’oro dei poeti,
dove peraltro non ce n’è alcun bisogno. Siccome dunque si ritiene che, fra tutte le scienze applicate,
la teoria politica sia la più discrepante dalla propria pratica, nessuno meno dei teorici, ovvero dei
filosofi, è stimato idoneo a reggere le sorti della repubblica.» Spinoza Baruch 1677 Trattato
politico, edizioni ETS, Pisa 1999, 27
3.3.3. La proposta politica per coinvolgimento e istituzioni (un dualismo funzionale):
Prima camera PRESA IN CONSIDERAZIONE
1. Perplessità
2. Consultazione
Seconda camera ORDINAMENTO
3. Istituzione
4. Gerarchia
3.3.3.1. Prima camera. POTERE DI PRESA IN CONSIDERAZIONE: QUANTI SIAMO? (camera
alta) riunire il collettivo
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Prima esigenza (già nel concetto di fatto); tu non semplificherai il numero di proposizioni da
considerare nella discussione. PERPLESSITÀ.
Seconda esigenza (già nel concetto di valore): tu ti accerterai che non sia stato cortocircuitato in
modo arbitrario il numero delle voci che partecipano all’articolazione delle proposizioni.
CONSULTAZIONE.
3.3.3. 2. Seconda camera. POTERE DI ORDINAMENTO: POSSIAMO VIVERE
INSIEME?(camera bassa)
Terza esigenza (già nel concetto di valore): tu discuterai la compatibilità delle proposizioni nuove
con quelle già istituite, in modo da mantenerle tutte in un medesimo mondo comune che conferirà a
esse il loro posto legittimo. GERARCHIZZAZIONE.
Quarta esigenza (già nel concetto di fatto); una volta istituite le proposizioni, tu non ne discuterai
più la presenza legittima in seno alla vita collettiva. ISTITUZIONE. (Latour 1999, 123)
3.4. Le opportunità antropologiche e storiche (individuali e collettive) della globalizzazione
cosmopolita.
3.4.1. “Attori inseriti in scale interdipendenti” «Uno spazio stratificato e multiforme. Lo spazio di
riferimento dei soggetti individuali e dei gruppi è dunque molteplice: ciascun attore si trova inserito,
in altre parole, in più scale interdipendenti, che contribuiscono a separare gli spazi
dell’appartenenza cognitiva (di ciò che si conosce), affettiva (ciò in cui ci s’identifica) e strumentale
(degli interessi). Una molteplicità di scale spaziali che è anche molteplicità di scale temporali, in un
corto circuito tra prossimità e simultaneità.» (Bonomi 2010, 42) Il tema viene ripreso attorno al
titolo “identità e multiculturalismo (o meglio interculturalismo).
3.4.2. Il richiamo delle trasformazioni in atto indicate con il termine “globalizzazione” e le strade
del possibile “risveglio della Storia”, il risveglio dell’iniziativa, attraverso i movimenti, oltre le
rigidità create dalle finizioni e forzature identitarie. Il tema, come viene provocatoriamente
formulato da Alain Badiou nel duplice richiamo: ai dati oggettivi del presente, all’Idea che
determina il risveglio della Storia: «Malgrado ciò, vorrei aggiungere che, quanto ai dati «oggettivi»
del capitalismo contemporaneo, non penso affatto di essere particolarmente disinformato.
Globalizzazione, mondializzazione? Spostamento di un grande numero di centri di produzione
industriale nei paesi fornitori di mano d’opera a basso costo e a regime politico autoritario?
Passaggio — durante gli anni Ottanta nei nostri vecchi paesi sviluppati, da un’economia incentrata
su se stessa, con un aumento continuo del salario operaio e la ridistribuzione sociale organizzata
dallo Stato e dai sindacati, a un’economia liberale integrata sugli scambi mondiali, e quindi
esportatrice, specializzata, che privatizza i profitti, socializza i rischi e accetta l’aumento planetario
delle disuguaglianze? Rapidissima concentrazione dei capitali sotto la direzione del capitale
finanziario? Utilizzo di nuovi strumenti grazie ai quali la velocità di rotazione prima dei capitali e
poi delle merci, è considerevolmente accelerata (diffusione su ampia scala del trasporto aereo,
telefonia globale, strumenti finanziari, Internet, programmi che mirano ad assicurare il successo
delle decisioni istantanee ecc.)? Sofisticazione della speculazione grazie a nuovi prodotti derivati e
a una sottile matematica della combinazione dei rischi? Indebolimento spettacolare, nei nostri paesi,
del mondo contadino e di tutta l’organizzazione rurale della società? Assoluta e conseguente
necessità di attribuire alla piccola borghesia urbana il ruolo di pilastro del regime sociale e politico
esistente? Resurrezione, su larga scala, e in primo luogo presso i borghesi più ricchi, della
convinzione vecchia come Aristotele che le classi medie siano l’alfa e l’omega della vita
«democratica»? Lotta planetaria, a volte in tono minore a volte estremamente violenta, per
assicurarsi materie prime e fonti di energia a basso costo, soprattutto in Africa, il continente oggetto
di tutti i saccheggi «occidentali» e di conseguenza di tutte le atrocità? Conosco piuttosto bene
questo argomento, come tutti d’altronde.
La questione è sapere se questo insieme aneddotico di elementi costituisca un capitalismo
«postmoderno», un capitalismo nuovo, un capitalismo degno delle macchine desideranti di Deleuze
e Guattari, un capitalismo che sia capace di generare da solo un’intelligenza collettiva di tipo nuovo
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e suscitare l’insorgere di un potere costituente fino a questo momento asservito, che superi il
vecchio potere degli Stati … […] Se un risveglio della Storia ci sarà, non bisognerà cercarlo nel
carattere barbaro e conservatore del capitalismo o nella foga di tutti gli apparati statali che ne
tutelano il concitato andamento. L’unico risveglio possibile sarà quello dell’iniziativa popolare in
cui si radicherà la potenza di un’Idea. […] … se le rivolte devono segnare un risveglio della Storia,
bisognerà pure che si accordino con un’Idea.» (Badiou Alain 2011 Il risveglio della storia, Adriano
Salani Editore Milano 2012, 15-27 passim.)
E, in termini epici: «Quando avviene un evento popolare di massa, per sua natura tende a demolire
l’oggetto identitario e i nomi separatori che lo accompagnano. Essi vengono sostituiti da una
presentazione reale, l’affermazione che quello che esiste, quello che in maniera incondizionata e
dittatoriale proclama la propria esistenza e la necessità della propria esistenza, sono le persone che
stanno lì e che agiscono insieme, qualunque sia il nome che lo Stato dà loro. In questo senso, la
rivolta storica depone i nomi. È nel vuoto di questa deposizione che un’organizzazione politica
svilupperà le conseguenze di un’esistenza nuova, l’esistenza di ciò che prima non esisteva:
l’esistenza dell’anonimo, l’esistenza politica puramente popolare del popolo.» (Badiou 2011, 97)
Bibliografia di primo e principale riferimento
Appadurai Arjun 1996 Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Raffaello
Cortina editore, Milano 2012
Touraine Alain 2004 La globalizzazione e la fine del sociale, il Saggiatore, Milano 2008
Beck Ulrich 1986 La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000
Beck Urlich 2002 Potere e contropotere nell’età globale, Laterza Roma-Bari 2010
Joseph E. Stiglitz 2006 La globalizzazione che funziona, Einaudi, Torino 2006
Sloterdijk Peter 2001 L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, Carocci, Roma
2002
Codeluppi Vanni 2012 Ipermondo. Dieci chiavi per capire il presente, Laterza, Roma-Bari
Badiou Alain 2011 Il risveglio della storia, Adriano Salani Editore, Milano 2012
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