Maria madre di Dio - casasantamaria.it

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Maria, Madre di Dio
1 gennaio
Num 6,22-27; Sal 66; Gal 4,4-7; Lc 2,16-21
Prima Lettura Nm 6,22-27
Essi invocheranno il mio Nome, e io li benedirò.
Dal libro dei Numeri
Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad
Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete
gli Israeliti: direte loro: Ti benedica il Signore e ti
custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il
suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te
il suo volto e ti conceda pace”. Così porranno il
mio nome sugli Israeliti e io li benedirò».
La Madre e il Figlio benedicenti
Seconda Lettura Gal 4,4-7
Dio mandò il suo Figlio, nato da donna.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati
Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la
Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli.
E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale
grida: Abbà! Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di
Dio.
Vangelo Lc 2,16-21
I pastori trovarono Maria e Giuseppe e il bambino. Dopo otto giorni gli fu messo nome Gesù.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino,
adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua,
custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto,
com’era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù,
come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.
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La prima lettura (Num 6,22-27)), tratta dal libro BümidBar «nel deserto», cioè Numeri ci propone la
famosa Birkat ha-Cohanim, la benedizione sacerdotale che Dio assicura al popolo tramite Aronne e i sacerdoti.
Anche l'uomo, a imitazione di Dio, è chiamato a benedire, prima il Santo e poi il mondo. Nel culto ebraico
non si genuflette, ma ci si prostra e per farlo ci si appoggia sul Beºrek «ginocchio», stessa radice di büräkâ
«benedizione». La benedizione rappresenta il cuore della liturgia ebraica; è la ragione di ogni liturgia. Si
benedice per ogni cosa, a cominciare dal dono della Torah. Israel Ba’al Shem Tov, cioè Israel ben Eliezer
(1700-1760) fondatore del Chassidismo dell’Europa orientale (1750) affermava: «Il mondo è pieno di segreti
sublimi e meravigliosi. Ma una piccola mano tenuta davanti agli occhi nasconde tutto». Le büräkot
büräkot
«benedizioni» hanno il potere di allontanare questa piccola mano e di farci cogliere il mondo pieno di
splendore. In ogni cosa ci fanno scoprire qualcosa di sacro. Da questa esigenza di orientare a Dio tutta la
realtà (tale è l’essenza della benedizione) deriva la convinzione rabbinica che l’uso delle cose senza
benedizione equivale in sostanza all’idolatria. Afferma il Talmud babilonese: «I nostri maestri insegnarono:
È proibito all’uomo godere di questo mondo senza benedizione» (bBerakhot 35a); «disse Rav Jehudà in
nome di Shemuel: Chiunque gode di questo mondo senza benedizione, è come se abusasse delle cose sacre,
come è detto: ‘Del Signore è la terra e quanto contiene'» (Sal 24,1); «è come se depredasse il Santo, benedetto sia,
e la comunità di Israele» (ibid. 35b). Il testo è architettato come una costruzione a gradini che richiama alla
mente le ziggurat del mondo mesopotamico o forse i gradini della scalinata che introduceva nell'atrio
interno del tempio e dai quali, secondo notizie tarde di fonte rabbinica (Tosefta Sota VII, 7), i sacerdoti
impartivano la benedizione sul popolo.
Nm 6,22-23: Il Signore parlò a Mosè e disse: 23«Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo:
“Così benedirete gli Israeliti: direte loro: (wayüdaBBër yhwh(´ädönäy) ´el-möšè llë´mör. 23 DaBBër
´e|l-´ahárön wü´el-Bänäyw lë´mör Kò tübärákû ´et-Bünê yiSrä´ël ´ämôr lähem).
- Così benedirete gli Israeliti: direte loro (Kò
Kò tübärákû ´et´et-Bünê yiSrä´ël ´ämôr lähem,
lähem lett. «Così benedirai i figli di Israele
[con il] dire a loro). L'enfatica triplice ripetizione del tetragramma sacro (yhwh(´äd
yhwh(´ädönäy),
yhwh(´ädönäy), ha-Shem), ribadita
dall'altrettanto enfatica sottolineatura dell'´ánî
´ánî «io» di Dio: «io li benedirò» (v. 2), ricorda che la fonte, la
sorgente unica della benedizione è sempre e solo il Signore; i sacerdoti sono solo i ministri, i servi voluti
da Dio. Vi è dunque un'azione principe, un atto assoluto di cui Dio solo è il soggetto e detiene l'iniziativa: è
l'atto di bärëk «benedire» che precede e fonda il «tu» di Israele, mentre il frutto maturo della benedizione su
Israele è lo šälôm che raggiunge tutte le genti. La benedizione appare così come dono da parte di Dio che
contiene una vocazione per il destinatario: è parola efficace, ma non magica, che richiede obbedienza,
adesione e apertura allo šälôm.
šälôm
6,24: Ti benedica il Signore e ti custodisca (yübärekükä yhwh(´ädönäy) wüyišmüreºkä).
Il linguaggio di Nm 6,24-26 non è quello della tradizione sacerdotale, in cui il verbo chanàn, «fare grazia» (v.
25b) non si trova mai, ma è quello tipico dei tühillim
tühillim «Salmi». La struttura tripartita di questa benedizione
mira a esprimere un pensiero nel modo più forte possibile (cf Ger 7,4; 22,29). Nel nostro caso il triplice
ricorrere del verbo bärëk «benedire» (vv. 23. 24. 27; cf la triplice benedizione con cui Dio ha coronato l'opera
della creazione: Gen 1,22.28; 2,3) significa la pienezza e l'irrevocabilità della benedizione che Dio intende
accordare all'uomo. Alla base di ogni benedizione troviamo il rivolgersi misericordioso di Dio verso l'uomo
per instaurare una relazione di alleanza e di pace; per stabilire la propria presenza in mezzo al suo popolo,
per essere `immäºnû ´ël «Emmanuele» (Is 7,14; Mt 1,23). L'uomo sperimenta la benedizione come custodia,
protezione e salvaguardia (shamar 24b); come pietà, grazia e misericordia (chanan 25b); come pienezza di
vita, prosperità e pace (šälôm
šälôm 26b). Nell'AT Dio benedice concedendo posterità (Gen 28,3), abbondanza di
bestiame e di proprietà (Gen 24,35), fertilità, salute e vittoria (Dt 7,12ss). La benedizione mira cioè a una
positività e pienezza di vita dell'uomo in tutte le sue espressioni relazionali: con il creato, con l'ambiente
familiare, con il più ampio ambiente sociale, con Dio stesso. L'invocazione della protezione e della custodia
rappresenta l'aspetto «negativo» della büräkâ,
büräkâ perché si chiede al Signore di preservarci da tutto ciò che è di
ostacolo allo šälôm.
šälôm
2
6,25: Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia (yä´ër yhwh(´ädönäy)
Pänäyw ´ëlʺkä wî|HunneºKKä, lett. «Faccia risplendere il Signore volto suo verso di te e faccia grazia a te»).
- faccia risplendere per te il suo volto (yä´ër
yä´ër … Pänäyw ´ëlʺkä,
ä lett. «Faccia risplendere … volto suo verso di te»). Il
«volto di Dio» è un'espressione antropomorfica per designare il Signore che stabilisce un rapporto con
l'uomo; il suo volto luminoso esprime la sua intima volontà di donare pace, benevolenza, grazia e armonia.
- e ti faccia grazia (wî|
wî|HunneºKKä).
Kä Espressione analoga è «ti sia propizio» (cf Gen 43,29). Viene qui invocata la
condiscendenza di Dio, la sua compassione, il suo piegarsi, il suo curvarsi necessario per incontrare
l'uomo là dove egli si trova: è l'invocazione che l'uomo fa nelle situazioni di peccato (Sal 41,5; 51,3), di
pericolo (Sal 57,2), di afflizione (Sal 9,14), di malattia (Sal 6,3).
6,26: Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace” (yiSSä´ yhwh(´ädönäy) Pänäyw ´ëlʺkä
wüyäSëm lükä šälôm).
- Il Signore rivolga a te il suo volto (yiSSä´
yiSSä´ yhwh(´ädönäy) Pänäyw ´ëlʺkä,
ä lett. «Alzi il Signore il suo volto verso di
te»). Questa espressione si trova solo qui in tutto l'AT. Poiché è sempre «il superiore che benedice l'inferiore»
(Eb 7,7), sembra che Dio ora ricopra la posizione dell'inferiore al punto che deve alzare il volto verso colui
che ora è superiore affinché si stabilisca la pace. Probabilmente la frase significa il distendersi dei
lineamenti del volto in un sorriso di predilezione e benevolenza e si oppone al «far cadere la faccia» (Gen
4,5-6; Ger 3,12; Gb 29,24), all'oscurare cioè il volto nella collera, all'indurire i lineamenti aggrottando le ciglia
e mostrando un volto irato.
- e ti conceda pace (wüyäSëm
wüyäSëm lükä šälôm).
Sim
šälôm L'espressione «stabilire/concedere la pace» (Si
Sim šälôm,
šälôm «concessione
dello šälôm»)
šälôm è unica in tutto l'AT e indica la fondazione stabile della pace. La radice di šälôm è composta da
tre consonanti: shin-lamed-mem (‫ש‬.‫ל‬.‫)ם‬. Il suo uso nella Torah spesso indica benessere, sicurezza, salute e
prosperità di individui e nazioni. La radice šlm ha un ventaglio di significati che implicano sempre una
completezza, una composizione tra due opposti, un ponte con qualcuno o qualcosa, un sottinteso
riconoscimento di quella terza persona, Dio, che solo può realmente dare la pace. E questa pace non si può
realizzare da soli, non si può fare šälôm, dire šälôm, essere nello šälôm da soli. In tal senso, si può affermare
che lo šälôm è la forza che tiene insieme il creato, e lo accompagna come piccola luce sui nostri passi, verso
l’orizzonte messianico, in cui lo šälôm non rappresenterà più una semplice speranza, ma l’adempimento di
tutto ciò che è cominciato con l’esodo. È stato detto che non c’è šälôm senza esodo. šälôm è la più alta
aspirazione per il mondo in cui viviamo. È un valore posto al di sopra di tutti gli altri. L’insegnamento
rabbinico lo descrive come il solo «canale» attraverso il quale la benedizione divina può scorrere in questo
mondo. Il contrario di šälôm solitamente non è milHämâ, «guerra», ma maH
maHaloqeth, che significa «divisione,
contrasto, disputa». šälôm significa vivere in armonia gli uni con gli altri; maH
maHaloqeth invece significa divisione,
ostilità tra le persone. Oggi cosa induce le coppie, pur chiamate alla massima comunione con Dio e il
prossimo, a sperimentare dolorosamente più il maH
šälôm Esiste davvero un meH
meHalèk,
alèk
maHaloqeth che lo šälôm?
«divisore» e chi potrebbe essere? Le differenze sociali, etniche e religiose esisteranno fino a quando non
arriverà il mašîªH
mašîªH,
šîªH, «Messia». Il nostro compito è quello di imparare a vivere nello šälôm con gli altri e dare così
una mano affinché la redenzione arrivi prima. Il contrasto tra šälôm
šälôm e maH
maHaloqeth esiste anche all'interno della
psiche.
6,27: Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò» (wüSämû ´et-šümî `al-Bünê
yiSrä´ël wa´ánî ´ábärákëm, lett. «E porranno il mio nome su i figli di Israele e io benedirò loro»).
La solenne benedizione liturgica sacerdotale non è un augurio, ma una parola efficace fondata sulla fede (cf
Is 55,10-11). La benedizione assume un valore sacramentale, diventa un segno della grazia del Signore che
ordina la comunità, generando unità e comunione, incontro e riconciliazione. Essa è ziKKärôn «memoriale»
della sua continua azione di salvezza.
Le potenti virtualità insite in questo brevissimo testo appaiono dall'enorme influenza
che esso ha esercitato sia nella tradizione giudaica che cristiana. Già nell'AT il Sal 67 riprende la
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benedizione sacerdotale concessa a Israele mostrandone le risonanze universali: quella benedizione che si è
posata prima sul creato (Gen 1,28), poi su Abramo e i suoi discendenti (Gen 35,9; 48,3), per raggiungere
quindi l'intera umanità tramite la diaconia del popolo benedetto (Sal 67).
Il serek hayyahad di Qumran (Frammento 1QS), più comunemente chiamato «Regola della comunità» o
«Il Manuale di disciplina», datato al 100 – 75 a.C., è la copia di un regolamento comunitario scritto in
calligrafia asmonea e contiene undici colonne di uno scritto settario ebraico. Il Manuale di disciplina ha
un'introduzione che fissa lo scopo e il fine della comunità insediata a Qumran, descrive poi il rito
d'ingresso nell'alleanza della comunità, i principi teologici settari, come ad esempio la dottrina dei due
spiriti, il codice penale, il testo di un inno di lode al Creatore. Il testo è chiaramente composito ed ha subìto
revisioni a varie riprese, riscontrabili nei diversi livelli di composizione. Ebbene, in questa Regola è
riportata una rilettura di Nm 6,24-26 in senso spirituale e intellettuale (cf Sal 119,29.135) che ne
accentua anche i toni escatologici. La formula era utilizzata nel corso del rinnovamento annuale
dell'alleanza: allora i sacerdoti benedicevano «gli uomini della porzione di Dio» dicendo: «(Dio) ti
benedica in ogni bene e ti custodisca da ogni male! Egli faccia risplendere nel tuo cuore l'intelligenza, fonte
di vita, e ti accordi per grazia la conoscenza eterna! Egli scopra il suo volto di misericordia per una pace
eterna!» (1QS 11,2-4).
Il Targùm (pl. targumìm, «traduzione») è la traduzione in aramaico della Bibbia ebraica, prodotta dal II
secolo a.C. in poi. La preghiera e la lettura della Bibbia fatte in sinagoga rimanevano in lingua ebraica, ma
non comprendendo più questa lingua, il meturgeman traduceva i brani in aramaico, divenuta la lingua
corrente dopo l'esilio a Babilonia. I due Targumim ufficiali sono: 1) Targum di Onkelos o Targum
Babilonese databile tra il 60 a.C. e il II secolo d.C., prodotto da una scuola attiva a Babilonia. Il nome
Onkelos è una corruzione di Aquila, lo stesso redattore della versione greca, che venne tradizionalmente
ed erroneamente indicato come autore del Targum. Traduce il testo della sola Torah. 2) Il Targum
Yonathan ben Uzziel contiene solo i libri dei Profeti, anteriori e posteriori. È considerato coevo al Targum
di Onkelos, e anch’esso redatto a Babilonia. Il Targum Neofiti (copia fatta da Egidio di Viterbo nel 1504 del
Targum Palestinese del Pentateuco, fu donato da Ugo Boncompagni al Collegio dei Neofiti nel 1602.
Acquistato nel 1896 da parte della Biblioteca Vaticana, fu riscoperto nel 1949 da A. Diez Macho) e il
Targum Onqelos o babilonese riportano il testo della benedizione in ebraico senza una parola di
commento rispettando la sacralità del testo che secondo la Mishnah (Meghillah IV, 10) non deve
essere tradotto. Il Targum Pseudo Jonathan o Targum Yerushalmi riproduce il testo ebraico di Nm
6,24-26 ma vi fa seguire la seguente parafrasi: «Il Signore ti benedica in tutte le tue occupazioni. Ti
custodisca dai demoni della notte e dagli spiriti malvagi, dai demoni di mezzogiorno e dai demoni
dell'aurora e dai demoni della sera. Il Signore faccia risplendere su di te lo splendore del suo volto, quando
sarai intento allo studio della Legge, te ne riveli i segreti e abbia pietà di te. Il Signore faccia risplendere su
di te lo splendore del suo volto nella tua preghiera e ti accordi la pace in tutto il tuo territorio».
Dalla Mishnah sappiamo anche il largo uso che della benedizione era fatto nella liturgia giudaica al
Tempio e nelle sinagoghe. Pronunciata quotidianamente al Tempio al termine dei sacrifici giornalieri dai
sacerdoti, di essa si attesta l'uso di pronunciarne il tetragramma solo nel Tempio, non nelle sinagoghe
(Sota 38a) dove esso era sostituito da un altro appellativo divino. Nel Tempio i sacerdoti, saliti davanti
all'arca restavano in piedi e, dopo che il lettore aveva proclamato: «Dio nostro e Dio dei nostri padri,
benedici noi con la triplice benedizione della legge scritta dalla mano di Mosè tuo servo e pronunciata da
Aronne e i suoi figli...», il sacerdote rivolgeva il volto all'assemblea e pronunciava la benedizione tenendo le
mani sollevate.
Tale è l'importanza della benedizione sacerdotale che è entrata nelle due più importanti e
significative preghiere della sinagoga: lo šüma e l' cAmidàh «Diciotto» benedizioni. In quest'ultima
preghiera la benedizione sacerdotale è inserita fra la XVIII e la preghiera Sim
Sim šälôm «dona pace» che riprende
le ultime parole di Nm 6,26 e che appare come il vertice e il coronamento di tutta l' cAmidàh: «Dona pace,
bene, benedizione, grazia, carità e misericordia a noi e a tutto Israele...».
Un'ulteriore parafrasi della benedizione sacerdotale ci è trasmessa da un documento cristiano della
fine del primo secolo d.C. (96-98 ca.):
«Fa' risplendere, Signore, il tuo volto su di noi per il nostro bene nella pace, affinché siamo protetti dalla
tua mano potente e liberati dal tuo braccio teso. Liberaci da quelli che ci odiano ingiustamente» (Clemente
di Roma, Ai Corinti 1,60,3).
La benedizione sacerdotale fu particolarmente cara a s. Francesco d'Assisi (Assisi 1182 - 1226).
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La Chiesa cattolica nel Nuovo messale romano la prevede come prima formula di benedizione solenne
destinata al tempo ordinario e come prima lettura della festa della Madre di Dio (1 gennaio). Qui essa è posta
in parallelo con il brano evangelico di Lc 2,16-21 attestando la lettura cristologica di Nm 6,22-27. La benedizione si è compiuta nel bambino nato a Betlemme al quale è posto il nome yühôšùª`,
yühôšùª` «il Signore salva» (Lc
2,21).
La tradizione patristica ha interpretato il passo di Nm 6 essenzialmente in senso cristologico.
Teodoreto di Cirro (Antiochia di Siria, 393 circa - 457 circa, vescovo di Cirro, e ultimo grande teologo
cristiano della scuola di Antiochia. Fu amico di Nestorio, pur non condividendo gli esiti delle sue dottrine, e
avversario del patriarca Cirillo di Alessandria) annota: «E ti custodisca: la seconda benedizione annuncia
l'avvento del Dio e Salvatore nostro. Sveli il Signore il suo volto per te, e abbia misericordia di te: infatti
l'incarnazione del Dio e Salvatore nostro è traboccante di misericordia... Alzi il Signore il suo volto su di te: di
questa pace il beato Paolo dice: Egli è la nostra pace... (cf Ef 2,14)» (PG 80,364). Degno di nota è anche il
riferimento al mistero trinitario, riconosciuto nella triplice menzione del Nome santo.
Interessante il commento di Ruperto di Deutz [Liegi (Belgio), ca. 1076 – Deutz (Germania), 1129,
teologo benedettino ed esegeta]: «Il Signore, Padre, ti benedica, che significa dare dei beni, e ti custodisca, che
significa liberare dai mali. Il Signore, Figlio, ti sveli il suo volto, che significa dare dei beni, e abbia pietà di te,
che significa liberare dai mali. Il Signore, Spirito, rivolga il suo volto a te, che significa dare dei beni, e ti dia
pace, che significa liberare dai mali. Infatti duplice è il frutto della benedizione divina: che siamo colmati di
beni e privati di mali e, segnati nel nome della Trinità, conosciamo nel tempo presente la remissione dei
peccati e ogni dono della grazia divina e nel tempo futuro siamo liberati dal castigo eterno...» (PL 167,852).
Il NT non sembra aver mai utilizzato direttamente Nm 6,24-26 (a parte forse qualche eco nei saluti
delle lettere paoline: cf Rm 1,7), ma in almeno un luogo questo silenzio è particolarmente eloquente. Si tratta
del Vangelo di Luca che si apre con una liturgia al tempio che resta incompiuta perché il sacerdote Zaccaria
che doveva impartire la benedizione finale (appunto la benedizione sacerdotale) ne è impedito dal
sopravvenuto mutismo (Lc 1,5-22); secondo la chiusa del Vangelo questo vuoto è colmato dalla benedizione
impartita da Gesù stesso sul gruppo dei suoi discepoli «alzando le mani» al momento dell'ascensione (Lc
24,50-53; cf Sir 50,20).
Il parallelismo di Lc 1,35 con Es 40,35 e Nm 9,18.22 mostra Maria come il mišHan «dimora, tenda»
adombrata dalla nube della Shekinàh, della Gloria di Dio presente nel figlio che sarà «Santo» e «Figlio di
Dio» (Lc 1,35). Maria è il luogo della presenza di Dio fra gli uomini e il Nome santo che era pronunciato
soltanto al Tempio quando si impartiva la benedizione sacerdotale (durante la festa di Jom Kippur) acquista
un volto preciso. Alla benedizione sacerdotale si sostituisce allora una benedizione ascendente che canta la
visita di Dio, il suo volgersi pieno di grazia e misericordia al suo popolo: è il Benedictus, testo non estraneo a
Nm 6,24-26. Secondo M. Gertner (1962) le due parti del Benedictus (Lc 1,68-75 e 1,76-79) sono composte a
partire da Nm 6,24-26. La prima sarebbe un poema salmico e la seconda la versione cristiana di un midrash
giudaico sulla benedizione sacerdotale.
Ma se l'inizio del Vangelo presenta Gesù come la benedizione nel suo realizzarsi, la fine del Vangelo
presenta Gesù che impartisce lui stesso la benedizione inaugurando un nuovo modo di presenza fra gli
uomini, presenza spirituale e non fisica, presenza nell' ἐκκλησία, ekklēsía («Io sono con voi fino alla fine del
mondo»: Mt 28,20), nella Chiesa chiamata a essere segno e benedizione per tutti gli uomini.
La seconda lettura (Gal 4,4-7) ci propone il primo testo del Nuovo Testamento che accenna alla
madre di Cristo. Paolo ci tiene a sottolineare la realtà dell'incarnazione. Nascere da donna e sotto la Legge vuol
dire nascere nella condizione di ogni uomo e, da quella, riscattare tutti alla libertà. Maria è la prova concreta
che Gesù si è fatto veramente simile a tutti quelli che nascono da donna.
Gal 4,4: Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna,
nato sotto la Legge, 5per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo
l’adozione a figli (ὅτε δὲ ἦλθεν τὸ πλήρωμα τοῦ χρόνου ἐξαπέστειλεν ὁ θεὸς τὸν υἱὸν αὐτοῦ,
γενόμενον ἐκ γυναῖκος, γενόμενον ὑπὸ νόμον, 5ἵνα τοὺς ὑπὸ νόμον ἐξαγοράσῃ ἵνα τὴν υἱοθεσίαν
ἀπολάβωμεν).
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- Ma quando venne la pienezza del tempo (ὅτε δὲ ἦλθεν τὸ πλήρωμα τοῦ χρόνου). Introdotta enfaticamente
da un’avversativa (ma quando), la frase ha un tono solenne che si addice alla rilevanza tematica: questa è
l’unica volta in cui Paolo si sofferma sull’invio del Cristo. Cosa dice questa metafora, quale idea sottende
del tempo? Gli antichi calcolavano il χρόνος, ου, ὁ «tempo» in modo spaziale, attraverso il riempimento di
specifiche anfore con sabbia finissima o attraverso la clessidra, un dispositivo che misura lo scorrere del
tempo mediante un flusso costante dell’acqua. Ma questa misura è inadeguata per comprendere il senso
della formulazione paolina che computa il tempo in altro modo, in chiave di promessa e compimento (i
deportati «ricostruiranno il tempio, ma uguale al primo, fino al momento in cui si compirà il tempo stabilito», Tob
14,5). Nel quadro della concezione biblica il χρόνος raggiunge la sua pienezza in una dinamica di attesa,
una sorta di gravidanza, di germinazione, di lievitazione interiore. È l’attesa che rende gravido il tempo e
frementi le viscere del vecchio χρόνος, è l’attesa di colui che deve venire. La venuta del Messia provoca la
pienezza del tempo! Lutero commenta bene: Non enim tempus fecit Filium mitti, sed et contra missio Filii fecit
tempus plenitudinis; «Infatti non il tempo causò l’invio del Figlio, ma al contrario l’invio del Figlio causò la
pienezza del tempo» (Lutero). Secondo l’evangelista Marco, Gesù inizia la sua predicazione con esplicito
riferimento al tempo che si è fatto pieno: πεπλήρωται ὁ καιρὸς (Mc 1,15). Simile è la formulazione di
Paolo. «Il tempo sembra giungere riempiendosi e si riempie giungendo!» (A. Pitta). Ma qui l’Apostolo non
parla di un tempo opportuno per la decisione umana, come è il biblico καιρός. Usa il più comune termine
χρόνος, il tempo che scandisce la cronaca e fa pensare al cronometro. Secondo Paolo proprio il χρόνος
raggiunge il suo πλήρωμα, la sua «pienezza».
- Dio mandò il suo Figlio (ἐξαπέστειλεν ὁ θεὸς τὸν υἱὸν αὐτοῦ). Il verbo ἐξαπέστειλεν «mandò», ind. aor.
di ἐξαποστέλλω «invio, rimando, caccio via» che descrive l’azione divina, compare soltanto due volte
nell’epistolario paolino, qui e in 4,6: Dio mandò … lo Spirito. Paolo presenta dunque con identico linguaggio
il duplice invio del Figlio e dello Spirito da parte dell’unico inviante: Dio Padre. Appare nitida l’azione
trinitaria. E nell’invio del Figlio appare anche un duplice movimento - discendente e ascendente - che vede
coinvolte in un simbolico intreccio la Donna e la Legge. Il verbo ἐξαποστέλλω, exapostéllō altrove si riferisce
all'invio di messaggeri o di collaboratori apostolici (cf Lc 1,53; 20,10.11; At 7,12). Il semplice ἀποστέλλω,
apostéllō (132x) ricorre solo 4 volte nell'epistolario paolino (Rm 10,15; 1Cor 1,17; 2Cor 2,17; 2Tm 4,12); non
viene mai riferito all'invio di Gesù Cristo né a quello dello Spirito. Assumerà connotazione cristologica
nella teologia giovannea (cf Gv 1,6; 3,17; 5,36; 6,57; 1Gv 4,9.10.14). Nell'AT questo verbo viene utilizzato
soprattutto per la missione profetica (cf Es 3,12; Sal 104,26; Mi 6,4). Nelle categorie sapienziali l'invio del
figlio corrisponde a quello della sapienza che si trovava, sin da principio, presso Dio (cf Sap 9,10.18).
- nato da donna (γενόμενον ἐκ γυναῖκος). La seconda parte di questa «formula d'invio» (vv. 4b-5) è
costruita secondo la seguente composizione chiastica:
a) nato da donna,
b) nato sotto la Legge,
b1) affinché coloro che erano sotto la Legge riscattasse,
a1) affinché la figliolanza ricevessimo.
Al centro del chiasmo (b.b1) si trovano i riferimenti alla condizione di sudditanza nei confronti della Legge,
sia per Cristo che per gli uomini; le parti limitrofe (a.a1) si riferiscono all'interscambio tra la figliolanza
umana di Cristo e quella divina dell'uomo. Dunque, la sottomissione alla Legge rappresenta la condizione
per la quale per l'uomo è possibile pervenire alla liberazione stessa dalla Legge e alla relativa figliolanza
divina.
- nato (γενόμενον). Il verbo, part. aor. di γίνομαι «nasco, traggo origine, accado, succedo, vengo, avvengo, trovo»,
sostituisce il verbo proprio della nascita γεννάω «genero, partorisco». Questa scelta esprime soprattutto la
fragilità della condizione umana e non un particolare tipo di nascita: nascere da donna vuol dire
semplicemente essere mortale, limitato, come tutti gli altri uomini. Quindi, prima che di un'espressione di
portata mariologica, si tratta di una formula antropologica e cristologica: il figlio di Dio è diventato
pienamente uomo, come noi. In questa prospettiva cristologica, che determina l'apocalittica «pienezza del
tempo», trova collocazione l'implicita portata mariologica di Gal 4,4. Da questo punto di vista più che un
riferimento alla verginità di Maria o alla nascita prodigiosa di Gesù, l'espressione «nato da donna» implica
che anche la madre di Gesù entra a far parte della «nuova creazione» inaugurata con l'invio del figlio di
Dio. Colui che era fin dal principio presso Dio, come la Sapienza (cf Sap 9,10.18; Gv 1,1-18), entra nel mondo
come «nato da donna»: il Figlio di Dio è diventato pienamente umano, come noi, fragile, limitato, mortale.
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Nascere da donna è passaggio obbligante, è comune ingresso nel mondo. E altro ingresso non c’è, neppure
per il Figlio di Dio. Si sta parlando chiaramente di una specifica donna ebrea: Maria di Nazaret. È a lei che
Dio si rivolge nella pienezza del tempo. Anzi, il tempo per diventare "pieno" attende il suo Sì. «Rallegrati,
figlia di Sion, grida di gioia, Israele […] Il Signore, tuo Dio, dentro di te è un salvatore potente» (Sof 3,14.17). Maria è
la casa della Parola, suo grembo accogliente. Maria non mette barriere ai sogni di Dio. Nel suo grembo
avviene il mirabile interscambio tra la figliolanza umana e quella divina.
- nato sotto la Legge (γενόμενον ὑπὸ νόμον). Notiamo la ripetizione del participio: «nato da donna / nato
sotto la Legge». Nascere «sotto la Legge» per Paolo non ha alcun valore positivo; esprime invece una
situazione di schiavitù dalla quale soltanto il Figlio di Dio è in grado di liberare.
La composizione parallela tra i due stichi, pone in evidenza proprio la corrispondenza tra «nato da donna» e
«nato sotto la Legge»: questo implica che se essere «sotto la Legge» assume una sfumatura negativa lo
stesso vale per il «nascere da donna» per il Figlio di Dio. Naturalmente la negatività della formulazione
non riguarda la madre di Gesù bensì il fatto che il figlio di Dio diventa figlio dell'uomo, sino alla
sottomissione alla Legge e alla sua maledizione. Il secondo stico del chiasmo approfondisce dunque
l'itinerario discendente dell'incarnazione da parte del Figlio di Dio: «nato sotto la Legge» corrisponde alla
condizione dell'erede fanciullo che si trovava «sotto tutori e amministratori» (Gal 4,2) e a quella degli uomini
«schiavi degli elementi del mondo» (v. 3). Il Figlio di Dio condivide pienamente la situazione di schiavitù
nella quale si trova ogni uomo, prima e a prescindere dal suo disegno di liberazione. In base al parallelo di
Gal 3,13-14 si può persino ipotizzare che l'essere «nato sotto la Legge» corrisponda a trovarsi, in definitiva,
sotto la «maledizione della Legge». Secondo il linguaggio dell'inno cristologico di Fil 2,6-11 questo corrisponderà al «sino alla morte, e alla morte di croce» (Fil 2,8). In termini sociologici nascere sotto la Legge significa
praticamente essere «giudeo», appartenere al popolo che riconosce nella Legge il principale privilegio
dell'elezione (cf Rm 9,4).
- per riscattare quelli che erano sotto la Legge (ἵνα τοὺς ὑπὸ νόμον ἐξαγοράσῃ). Il verbo è cong. aor. di
ἐξαγοράζω, exagorázō «libero, riscatto». Generalmente chi nasce sotto la Legge rimane in questa condizione
per tutta la vita e non può minimamente immaginare di liberare se stesso e gli altri dalla Legge e dalla sua
maledizione. Invece il figlio di Dio riscatta, con la sua morte di croce, coloro che si trovavano sotto la
maledizione della Legge: è lo stesso paradosso riscontrato in Gal 3,13-14. La prima finalità positiva dell'invio
del Figlio è descritta, tuttavia, in forma negativa: egli compie un evento di riscatto, analogo a quello della
compravendita degli schiavi. Qui, come in Gal 3,13, Paolo utilizza un aoristo che, in entrambi i casi, ha
valore puntuale: mediante la sua morte, con il pagamento del suo sangue, Cristo ha riscattato innanzitutto
i giudei dalla maledizione della Legge.
- perché ricevessimo l’adozione a figli (ἵνα τὴν υἱοθεσίαν ἀπολάβωμεν). Il verbo è cong. aor. di
ἀπολαμβάνω «ricevo, ottengo, prendo con me». L'ultimo stico del chiasmo esprime, con categorie positive, il
valore del riscatto operato da Cristo: affinché ricevessimo la figliolanza. Il termine υἱοθεσία appartiene al
vocabolario forense, riferendosi all'adozione di chi non nasce come figlio ma lo diventa. Dal punto di vista
giuridico, l'istituto dell'adozione era particolarmente noto in contesto greco-romano, non altrettanto in
quello giudaico. Nella LXX e nel NT non ricorre mai questo termine; Paolo è l'unico a utilizzarlo 5 volte nel
suo epistolario. Di fatto, la figliolanza rappresenta il progetto originario dell'elezione divina su ogni uomo
(Ef 1,5) e si realizza universalmente mediante l'opera di Cristo (cf Rm 8,15; Gal 4,5). Tuttavia questo rimane
un dono escatologico che viene accolto in pienezza alla fine della storia, con la «redenzione del nostro corpo»
(Rm 8,23). Anche Israele vanta la figliolanza, in forza dell'elezione divina (cf Rm 9,4).
4,6: E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo
Figlio, il quale grida: «Abbà! Padre!» (Ὅτι δὲ ἐστε υἱοὶ ἐξαπέστειλεν ὁ θεὸς τὸ πνεῦμα τοῦ υἱοῦ
αὐτοῦ εἰς τὰς καρδίας ἡμῶν κρᾶζον• ἀββα ὁ πατήρ).
Le ultime battute di questa perorazione si caratterizzano per l'originalità del ruolo dello Spirito nella teologia
neotestamentaria. Poiché questa formula d'invio dello Spirito verrà ripresa in Rm 8,15-16 forse è opportuno
tener presente quest'importante parallelo paolino, senza dimenticare, tuttavia, che Galati non va interpretato
alla luce di Romani. In entrambi i testi è riconoscibile innanzitutto l'invocazione fondamentale della
figliolanza «abbà, padre», (Gal 4,6; Rm 8,15). Inoltre sia in Romani che in Galati vi è una stretta relazione tra
lo Spirito e la figliolanza (Gal 4,6; Rm 8,15-16), da una parte, e tra la figliolanza e l'eredità (Gal 4,7; Rm
8,17), dall'altra. Tuttavia, se in Gal 4,6 lo Spirito grida in noi, in Rm 8,15 siamo noi a gridare nello Spirito; e se
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in Gal 4,6 è più stretta la relazione tra lo Spirito e il Figlio di Dio, in Rm 8,17 è più esplicita quella tra noi e
Cristo. In tal senso sembra chiaro che la formula di Rm 8,15-16 costituisce uno sviluppo teologico rispetto al
modello di Gal 4,6-7.
- E che voi siete figli (Ὅτι δὲ ἐστε υἱοὶ). La sentenza di Gal 4,6 è dibattuta; qual è il valore dell' ὅτι che apre la
formula d'invio: causale o dichiarativo? Nel primo caso la figliolanza precede il dono dello Spirito, per cui si è
prima figli di Dio e poi segue il dono dello Spirito. Nel secondo caso, l'interpretazione dichiarativa può
lasciare spazio sia per una preminenza dello Spirito, rispetto alla figliolanza, che per una simultaneità dei
doni: dal dono dello Spirito a quello della figliolanza oppure nel dono dello Spirito quello della
figliolanza.
- Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio (ἐξαπέστειλεν ὁ θεὸς τὸ πνεῦμα τοῦ υἱοῦ αὐτοῦ εἰς τὰς
καρδίας ἡμῶν). È bene notare che l'invio dello Spirito è posto in parallelo con l'invio del Figlio: «Dio
mandò il suo Figlio... (v. 4), Dio mandò lo Spirito del suo Figlio» (v. 6). Come dall'invio del Figlio così da quello
dello Spirito deriva il dono della figliolanza: possiamo affermare che lo Spirito rende presente e
personalizza quell'unico dono della figliolanza realizzato, una volta per sempre, con la redenzione in
Cristo. L'interpretazione dichiarativa è confermata dalla relazione tra queste due espressioni: «avete ricevuto
lo Spirito» (Gal 3,2), «abbiamo ricevuto la figliolanza» di Gal 4,5. La stessa formulazione parallela di Rm 8,16
conferma la consistenza dell'ipotesi dichiarativa: lo Spirito attesta che siamo figli di Dio e non è la
figliolanza ad attestare che abbiamo ricevuto lo Spirito. Per questo, dobbiamo desumere che esista una
simultaneità tra lo Spirito e la figliolanza. La reciprocità tra lo Spirito e la figliolanza viene posta bene in
evidenza da Girolamo: «In tal modo quindi colui che possiede lo Spirito del Figlio di Dio è figlio di Dio, così,
per inverso, colui che non possiede lo Spirito del Figlio di Dio non può chiamarsi figlio di Dio» (Ai Galati,
400). Pertanto la dichiarazione della propria figliolanza passa attraverso l'invio dello Spirito. È il Padre che
sempre e soltanto lui invia il Figlio e lo Spirito del Figlio.
- nei nostri cuori (εἰς τὰς καρδίας ἡμῶν). La relazione tra lo Spirito e il «cuore» è tipica dell'antropologia
paolina: lo Spirito, in quanto soffio, dimora nel cuore, rendendolo vitale. A tal proposito è bene precisare che
per l'antropologia biblica il cuore non rappresenta la sede degli affetti bensì della ragione, del
discernimento interiore: per questo Paolo parla di «circoncisione del cuore nello Spirito» (Rm 2,29). Da questo
punto di vista l'espressione più vicina a Gal 4,6 è quella di 2Cor 1,22: «Dio... ci ha impresso il sigillo e ci ha dato
la caparra dello Spirito nei nostri cuori».
- il quale grida: «Abbà! Padre!» (κρᾶζον• ἀββα ὁ πατήρ). Il verbo è part. pres. att. di κράζω «grido».
L'invocazione «Abbà» che lo Spirito grida in noi è lo stesso grido del Figlio che attesta una relazione
personale e intima tra Gesù Cristo e il Padre. Pertanto Dio invia lo Spirito del Figlio perché con quello
stesso Spirito egli e noi possiamo gridare: «Abbà». Questa è l'unica volta in cui Paolo parla dello Spirito del
Figlio; altrove preferisce l'espressione «Spirito di Cristo» (Rm 8,9) o di «Gesù Cristo» (Fil 1,19), oltre alla
formula più usuale «Spirito di Dio». Significativa è la scelta del verbo κράζειν «gridare»: generalmente lo si
riscontra in contesti di forte richiesta, rivolta a Gesù, da coloro che subiscono una situazione di malattia o di
pericolo. La relazione fondamentale per la vita cristiana tra lo Spirito del Figlio e il cuore dell'uomo illumina
anche il contesto nel quale i credenti gridano «abbà, padre»: non si tratta tanto di invocazioni carismatiche e
situazionali delle comunità cristiane, quanto della permanente invocazione, causata dall'inabitazione dello
Spirito nel cuore dei credenti. Per questo, in base al parallelo di Rm 8,15 non solo lo Spirito grida nei nostri
cuori ma noi stessi gridiamo in lui.
4,7: Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio
(ὥστε οὐκέτι εἶ δοῦλος ἀλλὰ υἱὸς• εἰ δὲ υἱὸς, καὶ κληρονόμος διὰ θεοῦ).
- Quindi non sei più schiavo, ma figlio (ὥστε οὐκέτι εἶ δοῦλος ἀλλὰ υἱὸς). Un brusco passaggio dalla 2a
plurale alla 2a singolare, tipico dello stile diatribico, determina la conclusione della pericope. Il tenore
enfatico di questa conclusione, analoga a quella di Gal 3,29, risalta maggiormente per la figura retorica del
«climax»: «schiavo-figlio; figlio-erede». L'ultimo termine della prima parte, figlio, diventa il primo della
seconda. L'accento è posto sul termine «figlio»: attraverso il passaggio dalla schiavitù alla figliolanza si
perviene alla partecipazione dell'eredità di cui godono soltanto i figli e non gli schiavi.
- se figlio, sei anche erede per grazia di Dio (εἰ δὲ υἱὸς, καὶ κληρονόμος διὰ θεοῦ). La formula διὰ più il
genitivo θεοῦ serve a Paolo per ricordare ai destinatari l'origine divina dell'eredità realizzata in Cristo.
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I Gàlati erano una popolazione di origine celtica, stanziatasi nell'attuale Turchia centrale
alcuni secoli prima di Cristo. Paolo era passato per questa regione nel suo secondo viaggio missionario (5052 d.C. ca.) e vi si era dovuto fermare a causa di una malattia (4,13-14). Ne aveva approfittato per annunciare
loro Gesù Cristo e il suo vangelo. Molti si erano dimostrati disposti ad accogliere la fede nel Gesù che egli
annunciava; la lettera, infatti, si rivolge «alle Chiese della Galazia» (1,2), cioè a diverse comunità. Nella sua
predicazione Paolo aveva parlato del popolo ebraico, che Dio si era scelto, a cui si era fatto conoscere come
l'unico Dio, con cui aveva stretto una particolare alleanza, donando una Legge sulla quale regolare la vita e
promettendo un salvatore, che a suo tempo avrebbe inviato (4,4): il Figlio suo Gesù Cristo. Questi avrebbe
portato la salvezza a tutti gli uomini, al di là di ogni distinzione (3,26-29).
Dopo la partenza di Paolo, in Galazia erano passati altri predicatori di origine giudaica che avevano
aderito a Gesù Cristo, ma che rimanevano convinti della necessità di vivere secondo la Legge di Mosè per
avere la salvezza: la sola fede in Cristo non poteva essere sufficiente per salvarsi. Paolo, ai loro occhi, non era
un vero apostolo, poiché non era stato con Gesù come i Dodici; anche ciò che egli predicava non era del tutto
vero: la fede in Cristo non bastava per avere la salvezza. Molti cristiani Gàlati si lasciarono persuadere.
Paolo, venuto a conoscenza della cosa, scrisse questa lettera nella quale difese la sua identità di apostolo e la
validità del suo vangelo.
L'azione dello Spirito Santo si esprime soprattutto nel grido che innalza nel cuore dei credenti:
«Abbà, padre». Tale invocazione (cf Mc 14,36) rappresenta uno dei rari «ipsissima verba Jesu» riportati
nell'epistolario paolino. Di fatto il termine abbà si riscontra 3 volte nel NT: Mc 14,36; Rm 8,15; Gal 4,6; e
sempre questa traslitterazione semitica viene accompagnata dalla traduzione greca (ὁ πατήρ), preceduta
dall'articolo nominativo. Sulla provenienza semantica del termine, senza negarne l'origine aramaica, al
tempo di Gesù abbà era utilizzato anche in ebraico. Inoltre è bene precisare che quest'invocazione non veniva
utilizzata soltanto dai bambini ma anche dagli adulti, nei confronti del proprio padre.
Per quanto riguarda la relazione con Dio, pur riconoscendone l'utilizzazione dell'invocazione in Sir
23,1.4 e nel detto rabbinico di Hanin Hammehà in cui si chiede la pioggia (cf b.Ta'an. 23b), di fatto sia l'AT
che il giudaismo si dimostrano reticenti nell'invocare Dio in tal modo. Dunque, l'invocazione abbà, sulla
bocca di Gesù rimane rivelatrice della relazione particolare che lo lega a Dio. D'altro canto, quasi tutte le
invocazioni di Gesù verso Dio vengono introdotte dal vocativo «padre», unito a «mio» (cf Mt 26,39.42), a
«nostro» (cf Mt 6,9) oppure a «Signore» (cf Mt 11,25). La presenza di abbà, soltanto in Mc 14,35 e in Gal 4,6; Rm
8,15, forse non è casuale: doveva essere un'invocazione diffusa nelle comunità di origine ellenistica. Questo
spiega anche l'aggiunta dell'immediata traduzione greca.
I credenti, a causa dell'unione con Cristo, possono a pieno titolo, invocare Dio chiamandolo «padre»;
è lo stesso Spirito che li abilita a una relazione così personale con Dio. È significativo che, sia in Galati che in
Romani, la stessa invocazione sia posta al culmine delle relative sezioni dedicate, rispettivamente, alla
figliolanza in Cristo (Gal 3,1-4,7) e alla giustificazione in Cristo (Rm 5,1-8,39).
In particolare, la presenza di abbà in Gal 4,1-7 esprime anche la novità relazionale trinitaria
sottostante: a causa dell'incorporazione a Cristo, il suo Spirito «grida» in noi la fondamentale relazione di
adozione filiale, o di huiothesía, che ci permette di riconoscere soltanto Dio come «padre» (cf Mt 23,9).
Il vangelo (Lc 2,16-21) ci ricorda i tre motivi della solennità odierna: la mul
mulah «circoncisione» del
Bambino, l'imposizione del Nome yühôšùª` «Gesù», Maria Θεοτόκος «madre di Dio» (lat. Deipara o Dei
genetrix).
2,16: Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella
mangiatoia (καὶ ἦλθαν σπεύσαντες καὶ ἀνεῦραν τήν τε Μαριὰμ καὶ τὸν Ἰωσὴφ καὶ τὸ βρέφος
κείμενον ἐν τῇ φάτνῃ).
- senza indugio (σπεύσαντες). Il part. aor. di σπεύδω «affretto» crea un po' di tensione nel racconto. Tale
fretta è un mezzo letterario per esprimere la vicinanza di Dio che guida la storia (cf 1,39). La visita dei pastori
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è descritta in maniera scarna. Il verbo ἀνεῦραν, ind. aor. di ἀνευρίσκω «incontro, trovo dopo ricerche»,
segnala l'attimo della scoperta.
2,17: E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro (ἰδόντες δὲ
ἐγνώρισαν περὶ τοῦ ῥήματος τοῦ λαληθέντος αὐτοῖς περὶ τοῦ παιδίου τούτου, lett. «avendo visto poi fecero
conoscere la parola detta loro circa questo bambino»).
- riferirono (ἐγνώρισαν). Letteralmente «resero noto», ripreso il verbo γνωρίζω gnōrízō usato in 2,15. Luca
insiste sul carattere apertamente pubblico dei: «fatti accaduti in segreto» (At 26,26).
2,18: Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori (καὶ πάντες οἱ
ἀκούσαντες ἐθαύμασαν περὶ τῶν λαληθέντων ὑπὸ τῶν ποιμένων πρὸς αὐτούς).
- Tutti quelli che udivano si stupirono (πάντες οἱ ἀκούσαντες ἐθαύμασαν). I vv. 17-18 riprendono il motivo
di alcuni racconti di miracoli. L'accenno convenzionale allo stupore è espresso con una reazione indiretta,
non quella dei pastori, ma quella dei loro ascoltatori. I concetti teologici di questo passo sono tipici della
predicazione cristiana, perché ῥῆμα esprime insieme l'evento salvifico e la sua interpretazione divina, e
λαλέω (λαληθέντων part. aor. pass.) non è il parlare ordinario, ma il discorso della predicazione che
coinvolge e persuade.
2,19: Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore (ἡ δὲ
Μαρία πάντα συνετήρει τὰ ῥήματα ταῦτα συμβάλλουσα ἐν τῇ καρδίᾳ αὐτῆς).
- Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose (ἡ δὲ Μαρία πάντα συνετήρει τὰ ῥήματα ταῦτα). Il
termine ῥῆμα qui è usato come in 2,15.
- meditandole nel suo cuore (συμβάλλουσα ἐν τῇ καρδίᾳ αὐτῆς). Il termine συμβάλλουσα, part. pres. di
συμβάλλω, symbállo «pongo, metto insieme, compongo, converso, convengo, rifletto, medito, coordino» è usato da
Luca anche come «dibattito, discussione» (cf 11,53; At 4,15; 17,18; 18,27). Qui, come in 2,51, si vuole
chiaramente intendere un processo mentale. Maria qui è nella stessa situazione in cui si trovava Zaccaria di
fronte alla famiglia e ai vicini (1,63-67). I verbi συνετήρει impf. ind. di συντηρέω «custodisco, serbo,
proteggo», e συμβάλλω «metto insieme, medito» non sono abituali in Luca. Descrivono un atteggiamento e un
comportamento altamente positivi. Il primo significa registrare e conservare nella memoria, sia l'azione vista
che le parole udite, riguardanti la fede; il secondo indica l'interpretazione giusta dell'intervento divino. Maria
pertanto ricorda e comprende ciò che ha visto e udito. Maria non interpreta con il suo intelletto (νοῦς), ma
con la sua volontà e la sua affettività ἐν τῇ καρδίᾳ αὐτῆς «nel suo cuore».
2,20: I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano
udito e visto, com’era stato detto loro (καὶ ὑπέστρεψαν οἱ ποιμένες δοξάζοντες καὶ αἰνοῦντες τὸν
θεὸν ἐπὶ πᾶσιν οἷς ἤκουσαν καὶ εἶδον καθὼς ἐλαλήθη πρὸς αὐτούς).
- I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio (ὑπέστρεψαν οἱ ποιμένες δοξάζοντες καὶ αἰνοῦντες τὸν
θεὸν). Sei verbi caratterizzano questo versetto di sintesi: ὑποστρέφω all'ind. aor. «torno, ritorno», δοξάζω al
part. pres. «lodo, esalto, onoro, glorifico, manifesto la gloria», αἰνέω al part. pres. «lodo, approvo, encomio», ἀκούω
all'ind. aor. «odo, ascolto, comprendo, apprendo, faccio attenzione, esaudisco», ὁράω all'ind. aor. «vedo, guardo,
osservo, ricevo una visione, veglio, bado, constato», λαλέω all'ind. aor. pass. «discorro, parlo, intervengo, dico,
prendo la parola». In Gesù si compie la salvezza definitiva di Dio; il vangelo dell'infanzia fa parte di questo
evento. Eserciti angelici accompagnano una nascita in povertà. Il bambino porta in sé questa duplice realtà:
la povertà presente e la potenza futura. Dio e l'uomo si incontrano a natale. La venuta di Dio non ha luogo
in una unione mistica, ma nella storia. Il significato escatologico del racconto comporta un aspetto di critica:
la storia di natale si erge contro le pretese imperiali e contro il fanatismo religioso. Maria e i pastori
incarnano l'atteggiamento conforme all'opera di Dio: non il servilismo o l'obbedienza cieca, ma la fede
attiva. Maria partecipa alla salvezza come Abramo, è il tipo del credente.
2,21: Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo
nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo
(Καὶ ὅτε ἐπλήσθησαν ἡμέραι ὀκτὼ τοῦ περιτεμεῖν αὐτὸν καὶ ἐκλήθη τὸ ὄνομα αὐτοῦ Ἰησοῦς, τὸ κληθὲν
ὑπὸ τοῦ ἀγγέλου πρὸ τοῦ συλλημφθῆναι αὐτὸν ἐν τῇ κοιλίᾳ).
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- Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione (Καὶ ὅτε ἐπλήσθησαν ἡμέραι ὀκτὼ τοῦ
περιτεμεῖν αὐτὸν). Il verbo ἐπλήσθησαν è ind. aor. pass. di πλήθω/πίμπλημι «riempio, imbevo, mi
compio». La mûlah / milà «circoncisione» (gr. περιτομή, ῆς, ἡ) di Gesù è parallela a quella di Giovanni (1,59).
La circoncisione era il segno dell'alleanza di Dio con il proprio popolo e dell'appartenenza al popolo di
Israele: «Quando avrà otto giorni, sarà circonciso tra di voi ogni maschio di generazione in generazione [...] così la mia
alleanza sussisterà nella vostra carne» (Gn 17,10.13). Il rito non rientrava nei compiti del sacerdote; la circoncisione poteva essere compiuta da chiunque, anche se successivamente era consuetudine che la praticasse
uno specialista chiamato mohèl. Normalmente aveva luogo nella sinagoga, davanti ad almeno dieci persone;
si disponevano due sedie: una per il testimone e l'altra per il profeta Elia, che si credeva fosse presente alla
cerimonia. Con il passar del tempo la cerimonia divenne sempre più complicata, aumentando il proprio
significato spirituale. Si arrivò così a parlare della circoncisione del cuore (Lv 26,4; Ger 4,4; Rm 2,28-29),
ovvero della conversione del cuore a Dio. Durante l'operazione si pronunciava la büräkâ:
büräkâ «Benedetto sia il
Signore nostro Dio, che ci ha santificato con i suoi precetti e ci ha donato la circoncisione». E il padre del
bambino continuava: «Che ci ha santificato con i suoi precetti e ci ha permesso di introdurre nostro figlio
nell'alleanza del nostro padre Abramo». Con ogni probabilità fu Giuseppe, d'accordo con Maria, a decidere
per il nome menzionato dall'angelo: yühôšùª` «Yhwh salva».
Mentre celebrano la divina maternità di Maria, le letture trovano nella paternità di Dio
nei confronti di Israele (I lettura), di Gesù (vangelo) e dei cristiani (II lettura) un loro elemento di unità. La
benedizione, che nella famiglia ebraica è normalmente opera paterna, risale in ultima istanza a Dio Padre e
raggiunge i figli d’Israele attraverso mediatori umani come padri di famiglia e sacerdoti («Così porranno il mio
nome sugli Israeliti e io li benedirò»); il nome imposto al bambino proviene dal cielo, dall’alto, cioè da Dio
Padre; lo Spirito del Figlio effuso nel cuore dei credenti suscita in loro l’invocazione «Abbà! Padre!».
Gesù è nato a Betlemme, ma otto giorni dopo si canta la sua identità e perciò la sua appartenenza:
Gesù viene circonciso, divenendo figlio di Abramo; Gesù riceve il nome, che rivela la sua vocazione unica;
Gesù ha una madre, ma solo Dio poteva donarlo agli uomini.
L'annuncio della circoncisione avviene nella sinagoga (beth ha-knesseth) il venerdì sera che precede
l'intervento (il venerdì sera è il momento di maggiore affluenza perché si accoglie la sposa Shabbat). Il
partecipare a una mûlah è considerato dall’ebreo, oltre che una gioia, una vera micwâ «precetto» da osservare.
All’annuncio seguono spesso canti, alternati allo studio di alcuni brani della Torà, poiché lo studio
rappresenta l’auspicio che il piccolo cresca come uomo giusto e studioso degli insegnamenti della Torà. Ed è
anche l’auspicio che deriva da un passo talmudico, secondo il quale «ogni volta che un maschio viene al
mondo, la pace viene al mondo».
Racconta un midrash che ogni bambino che nasce, porta in sé un seme dell’epoca messianica. Se
durante la sua vita si comporterà con amore, con misericordia e giustizia, avrà sparso nel mondo un seme
per far fiorire il regno di Dio.
La circoncisione consiste nella recisione del prepuzio, cioè della pelle che ricopre il glande.
L’operazione viene compiuta da un mohèl «circoncisore», alla presenza di un sandàk «padrino».
La circoncisione è un precetto positivo affidato al padre. Per precetto positivo si intende un precetto
che richieda di «fare» qualcosa, per precetto negativo quello che richiede di «non fare» qualcosa. Se il padre
non è in grado di compiere personalmente la mûlah,
mûlah delega qualcuno per effettuarla in sua vece: è comunque
uso che il padre stia vicino al circoncisore durante tutto il tempo della cerimonia.
La scelta del mohèl deve essere effettuata non soltanto in base alle sue conoscenze medicoscientifiche, ma anche in base alla sua conoscenza della halakhà (precettistica ebraica) e alla sua personale
osservanza religiosa. Il sandàk è una figura particolare molto importante, in quanto deve tenere in braccio il
bambino durante la circoncisione, ed è quindi paragonato all’altare sul quale si offriva l’incenso. Tale
funzione è spesso esplicata da uno dei nonni del bambino. Durante la circoncisione tutti i presenti restano in
piedi, così come fece il popolo di Israele che, mentre Mosè parlava con Dio sul monte Sinai, «restò in piedi
dinanzi al Patto dell’alleanza».
È uso che nella stanza ove avverrà la circoncisione sia posta la «Sedia del profeta Elia», su cui
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siederà il sandàk con il bambino in braccio. La mûlah va eseguita al mattino; è comunque possibile eseguirla
durante tutta la giornata. Mai di notte. È opportuna la presenza del minian, cioè di dieci uomini adulti.
Gesù, come era prescritto dalla legge, viene circonciso per entrare nella «santa alleanza» stipulata
con Abramo (cf Gen 17,10s.). Nella carne di Gesù, quella incisione narra il suo essere ebreo, ed ebreo per
sempre. Luca parla di questo segno per ricordare che la circoncisione è importante e decisiva per affermare
che essa non è il marchio di un popolo ribelle, ma il segno della partecipazione all’alleanza sancita con Dio
da parte dei figli della discendenza di Abramo. Perciò la promessa di Dio per loro non viene meno: essi
restano il popolo di Dio nel quale è nato il Cristo, Gesù di Nazaret.
Gesù, ricorda Paolo, è nato sotto la legge - dunque circonciso - è nato da donna (Gal 4,4), cioè da Maria.
L’Altissimo si è fatto l'infinitamente piccolo, l’eterno si è fatto temporale, il forte si è fatto debole, l’immortale
si è fatto mortale e lo Spirito si è fatto carne, e questo nel grembo di Maria. Lo Spirito Santo ha reso Maria
madre di Dio. In Maria, «la terra ha dato il suo frutto. Ci benedica Dio, il nostro Dio» (Sal 67,7). L'invocazione
presente nella benedizione sacerdotale - «il Signore rivolga a te il suo volto» - si è realizzata tramite il volto di
Gesù.
All’inizio dell’anno nuovo, tramite Cristo riceviamo la benedizione divina, affinché ci accompagni
per tutto l'anno. Essa si manifesta come benedizione nuziale tra Dio e l’umanità.
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