cooperazione colposa e principio di affidamento nei delitti colposi di

ADELINDA MORETTI
COOPERAZIONE COLPOSA E PRINCIPIO DI
AFFIDAMENTO NEI DELITTI COLPOSI DI EVENTO
CAUSALMENTE ORIENTATI
A mia madre
Opus est enim ad notitiam sui experimento;
quid quisque posset nisi temptando non didicit.
(De Providentia di Lucio Anneo Seneca)
INDICE
CAPITOLO I
ANALISI DELLA FATTISPECIE OGGETTIVA DELLA COOPERAZIONE
COLPOSA
PARAGRAFO I:
La pluralità di agenti
2
PARAGRAFO II:
Il primo criterio di tipizzazione della condotta di
partecipazione: la causalità condizionale
4
PARAGRAFO III:
“Quanto più cresce il numero dei compartecipi, tanto più
cresce la possibilità che qualcuno di essi non ponga in essere
una condizione necessaria dell’evento”
11
PARAGRAFO IV:
La causalità condizionale nella cooperazione colposa
secondo la dottrina
18
PARAGRAFO IV:
La causalità agevolatrice nella cooperazione colposa
critica
20
CAPITOLO II
RICERCA DEL SECONDO CRITERIO DI TIPIZZAZIONE DEL CONTRIBUTO
DI PARTECIPAZIONE
PARAGRAFO I
La misura oggettiva della colpa
28
I
PARAGRAFO II:
Il principio di affidamento nell’esperienza
giuridica tedesca
31
PARAGRAFO III:
Circolazione stradale e principio di affidamento nella
nostra esperienza giuridica
34
PARAGRAFO IV:
Principio di affidamento nel rapporto tra datore
di lavoro e lavoratore
47
PARAGRAFO V:
Principio di affidamento ed attività medica in équipe
secondo la dottrina
62
PARAGRAFO VI:
La violazione della regola cautelare quale imprescindibile
criterio di tipizzazione della condotta di partecipazione
PARAGRAFO VII:
Prima critica alla teoria di Risicato
67
73
CAPITOLO III
L’ELEMENTO SOGGETTIVO NELLA COOPERAZIONE COLPOSA
PREMESSA
78
PARAGRAFO I:
Primo problema: il legame psicologico tra le
condotte dei concorrenti
80
PARAGRAFO II:
Secondo problema: cooperazione colposa e concorso
di cause colpose indipendenti
86
II
CAPITOLO IV
SEZIONE I: COOPERAZIONE COLPOSA E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO
IN ÉQUIPE CHIRURGICA
96
PREMESSA
PARAGRAFO I:
Se un ferro chirurgico rimane nell’intestino è responsabile
solo il “ferrista”?
98
PARAGRAFO II:
Scioglimento anticipato e responsabilità dell’assente
107
PARAGRAFO III:
Successione nella posizione di garanzia ed esclusione
del principio di affidamento
113
SEZIONE II
COOPERAZIONE COLPOSA E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO IN MATERIA
ANTINFORTUNISTICA
PREMESSA
118
PARAGRAFO I:
I requisiti di efficacia della delega di funzioni
secondo la giurisprudenza
120
PARAGRAFO II:
Delega di funzioni e principio di affidamento
127
III
SEZIONE III
COOPERAZIONE COLPOSA E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO NELLA
CIRCOLAZIONE STRADALE
PREMESSA
137
PARAGRAFO I:
Gara di velocità e principio di affidamento
PARAGRAFO II:
Incauto affidamento e principio di affidamento
CONCLUSIONI:
Seconda critica alla teoria di Risicato:
la cooperazione colposa non può essere un limite al
principio di affidamento
BIBLIOGRAFIA
138
143
148
154
IV
PREMESSA
Questo modesto lavoro, nasce da un saggio di Lucia Risicato, nel quale
l’autrice afferma, innanzitutto, che una condotta di partecipazione può essere
atipica ( e cioè causale rispetto all’evento ma non autonomamente colposa)
anche qualora si concorra colposamente in un delitto colposo di evento a
forma libera. In tale ipotesi, per non lasciare impunita la condotta del
partecipe, non essendo la stessa incriminabile sulla base della norma
incriminatrice di parte speciale, proprio in quanto atipica, sarà necessario
riconoscere all’art. 113 c.p. una funzione di incriminazione ex novo.
La Risicato, inoltre, dopo aver accertato che è la consapevole interazione tra
le condotte dei concorrenti ad essere l’elemento soggettivo della cooperazione
colposa, riconosce a detto elemento, la funzione si superare di slancio e senza
residue perplessità il principio di affidamento solido argine della tipicità
colposa monosoggettiva.
È proprio alla luce di tali considerazioni che, chi scrive, si è spinta ad
individuare ed analizzare gli elementi oggettivi e soggettivi, costitutivi della
cooperazione colposa da un lato e quale sia il principio di affidamento e dei
suoi limiti dall’altro, per chiarire se le affermazioni della Risicato siano o
meno condivisibili.
1
CAPITOLO I
ANALISI DELLA FATTISPECIE OGGETTIVA DELLA
COOPERAZIONE COLPOSA
PARAGRAFO I: LA PLURALITÀ DI AGENTI
Il primo comma dell’art. 113 c.p. recita:
“ Nel delitto colposo, quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di
più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto
stesso.”
Come prima cosa è da osservare che la norma parla di cooperazione di più
persone, da tale indicazione si coglie il primo degli elementi costitutivi della
cooperazione: la pluralità di agenti. E’ necessario che il reato venga posto in
essere da un numero di soggetti superiore a quello che la legge indica per la
sussistenza della fattispecie di parte speciale. Mentre dunque per i reati
monosoggettivi sono necessari e sufficienti, ai fini del concorso, almeno due
soggetti, nei reati a concorso necessario, detti anche plurisoggettivi, il
concorso eventuale si configura solo quando vi siano una o più persone in più
rispetto ai soggetti essenziali. Non si richiede tuttavia, che tutti i concorrenti
siano imputabili o punibili, come si ricava dalla previsione dell’aggravante
prevista dall’art. 111 ( “Chi ha determinato a commettere un reato una
2
persona non imputabile, ovvero non punibile a cagione di una condizione o
qualità personale, risponde del reato da questa commesso..), applicabile al
concorso colposo in virtù dell’espresso richiamo effettuato dall’art. 113
comma 2º.
Inoltre, questi più agenti, attraverso le proprie condotte, debbono cooperare
alla realizzazione di un delitto colposo. Ma quali debbono essere le
caratteristiche della condotta di partecipazione affinché possa dirsi che il
partecipe ha cooperato alla realizzazione del delitto colposo?
3
PARAGRAFO II: IL PRIMO CRITERIO DI TIPIZZAZIONE DELLA CONDOTTA DI
PARTECIPAZIONE: LA CAUSALITÀ CONDIZIONALE
La prima questione che secondo chi scrive, è necessario affrontare per
stabilire quali siano le condotte di partecipazione punibili nell’ambito della
cooperazione colposa, è quella di verificare se la condotta stessa, debba essere
o meno necessariamente causale rispetto al verificarsi dell’evento e quindi se
il nesso causale - condizionale funzioni rispetto ad una qualsiasi condotta di
partecipazione colposa in un illecito colposo, oppure debba essere affiancato
da qualche altro criterio in grado, sempre sul piano causale, di integrare
l’operatività del primo.
Innanzitutto, quando è che un comportamento di partecipazione può
definirsi necessariamente causale?
Seguendo il criterio causale- condizionalistico, si giunge a dire che affinchè
un soggetto possa considerarsi partecipe, è necessario che egli abbia
effettivamente
contribuito
alla
perpetrazione
del
reato
con
un
comportamento che appaia come una condizione indispensabile del risultato
criminoso. Ogni singola condotta di partecipazione, cioè, deve costituire un
antecedente indispensabile alla produzione dell’evento e ciò accade quando,
utilizzando ex post, il procedimento di eliminazione mentale, che caratterizza
la teoria della condico sine qua non, eliminando mentalmente la condotta del
partecipe ne consegue il venir meno dell’evento.
La dove manca l’efficienza causale del comportamento verrebbe meno il
fenomeno della partecipazione.
4
Dall’esame di vari casi pratici1, configuranti ipotesi di cooperazione colposa,
si è potuto accertare che i giudici sia di legittimità che di merito, sempre
hanno ritenuto la condotta del partecipe, condicio sine qua non dell’evento.
Così, nell’ipotesi di incauto affidamento di veicolo a persona sprovvista della
patente di guida, la Corte di Cassazione ha affermato che la condotta
dell’affidante crea uno stato di cose, senza il quale i fattori successivi, cioè il
comportamento colposo dell’affidatario ed il danno, non si sarebbero
verificati. Sempre il S.C., ha ritenuto causale condizionale rispetto all’evento
pericolo di naufragio, il comportamento del commissario di bordo, il quale,
pur conoscendo lo stato precario delle caldaie della nave e le avverse
condizioni atmosferiche, aveva indotto il comandante della nave a riprendere
la navigazione. La Corte di Cassazione, ha poi affermato che andavano
ritenuti responsabili, a titolo di cooperazione nel delitto di omicidio colposo, i
genitori di una minore affetta da talassemia che, per motivi religiosi, avevano
omesso di far sottoporre la figlia alle periodiche trasfusioni di sangue
necessarie ad assicurarne la sopravvivenza. In questa ipotesi è evidente come
le condotte di entrambi i genitori, siano condiciones sine quibus non
dell’evento. Eliminandole mentalmente infatti, viene meno l’evento morte. E’
pertanto da ritenere certa, la sussistenza del nesso causale tra l’omissione
della terapia trasfusionale, che i genitori avevano l’obbligo giuridico di far
eseguire e la morte della bimba.
Cfr: Cass. Sez. IV, 29 novembre 1976, n. 12634, Pres. Ridola; Cass. Sez. IV, 6agosto 1993, n.
7650 (ud. 27 aprile 1993); Cass. 14.2. 1972, F.I. 73,II,216; Cass. Pen. Sez. I, sentenza 23
gennaio 1956; Corte di Appello di Orma, 30.7.1986, Oneda; Trib. Firenze, sentenza 6
novembre 1978, Pres. Librando; Cass. Sez. 4 sent. 1833 del 18.2.67; Cass. Pen. Sez. 4,
sentenza 00956 del 5.7.1971; Corte di Appello di Napoli, Sez. minorenni, 22 dicembre 1983;
Cass. Pen. Sez. IV, ud. 24 novembre 1961;
1
5
In un'altra sentenza la Suprema Corte ha affermato che nel fatto di due
veicoli, che secondo una condotta di guida preventivamente concordata tra i
conducenti, circolano di seguito l’uno all’altro, nel modo cosiddetto a non
perdersi, chi precede ha il dovere di non creare all’altro condizioni che
rendono l’andatura pericolosa. Invero, per il previo accordo e secondo la
comune esperienza, il primo conducente condiziona l’andatura del
compagno, nel senso che lo induce a comportarsi nella sua stessa maniera.
Per conseguenza, in caso di incidente colposo, cagionato dal conducente che
segue, è configurabile la concorrente responsabilità del conducente che
precede
in
relazione
all’eventuale
comportamento
imprudente
di
quest’ultimo. Senza dubbio la condotta del secondo conducente è condicio
sine qua non dell’evento, infatti eliminandola mentalmente viene meno
l’incidente, ma anche la condotta del primo autista è un antecedente causale
condizionale dell’evento, infatti, se questi avesse tenuto un andatura regolare
e prudente, anche il secondo avrebbe fatto lo stesso, quindi, l’incidente non si
sarebbe verificato.
In un’altra sentenza, che condannava, a titolo di cooperazione colposa, cinque
operai per incendio colposo, i giudici di merito, hanno ritenuto causali
condizionali rispetto all’evento verificatosi, le condotte di ciascuno degli
imputati, consistita nel fumare sigarette vicino a delle balle di paglia, sia pure
con l’accorgimento di coprirle col cavo delle mani. L’incendio era scoppiato
all’angolo destro, anteriore e superiore delle balle di paglia, originato,
indubbiamente, da qualche scintilla di sigaretta trasportata dal vento. Sulla
stessa sentenza si è pronunciata anche la Corte di Cassazione, che ha
6
individuato nella relazione causale tra le singole condotte dei concorrenti e
l’evento, un elemento indispensabile per la configurazione della cooperazione
colposa: “la cooperazione di cui all’art. 113 c.p., presuppone la partecipazione
di varie persone che, con la loro consapevole condotta colposa, integrano una
stessa condizione dell’evento lesivo. Estremi della speciale ipotesi in esame
sono pertanto: la partecipazione di varie persone ad una azione od omissione
colposa, la consapevolezza in tutti, della stessa, il nesso di causalità tra questa
e l’evento lesivo”.
Il Tribunale di Firenze, ha ritenuto colpevoli di omicidio colposo, per la morte
di una persona a seguito di assunzione di sostanza stupefacente, sia chi le
aveva procurato la sostanza, sia chi le aveva preparato ed iniettato la dose,
potendosi, le descritte condotte, qualificare come contributi causali alla
determinazione dell’evento secondo lo schema della cooperazione di più
persone di cui all’art. 113 c.p..
La Corte di Cassazione ha ritenuto responsabile, a titolo di cooperazione, per
i delitti di disastro aereo e di omicidio colposo dei passeggeri e
dell’equipaggio, il controllore di volo, per aver omesso di fornire ai piloti
informazioni precise e tempestive sulle deviazioni apprezzabili dell’aereo,
dalla rotta autorizzata di avvicinamento. L’evento non voluto, risaliva per
nesso di causalità, alla condotta gravemente colposa dei piloti, il cui
compimento ebbe un antecedente causale nel comportamento omissivo del
controllore. Se questi non avesse omesso tempestivi e precisi interventi di
sicurezza, l’evento sarebbe stato scongiurato. Pertanto anche la condotta del
7
controllore, oltre a quella dei piloti, deve ritenersi condicio sine qua non
dell’evento.
Dai casi che sono stati esaminati, sono emerse considerazioni ulteriori: nella
cooperazione colposa sono configurabili sia ipotesi di concorso materiale,
quando il concorrente partecipa direttamente all’attività preparativa o
esecutiva del delitto, si pensi, ad esempio, al caso di chi affida il proprio
mezzo a persona che sa essere priva di patente; sia ipotesi di concorso
morale, con riferimento a condotte istigative (di determinazione o induzione)
di carattere colposo, si pensi ad una gara di velocità non autorizzata, nella
quale, anche chi non cagiona materialmente l’incidente, comunque ne
risponde a titolo di cooperazione, per aver determinato o indotto il compagno
al comportamento antigiuridico, determinazione, che si esprime mediante la
vicendevole sollecitazione agonistica che ciascun conducente determina negli
altri partecipanti.
La condotta di cooperazione, inoltre può consistere in una azione, si pensi,
nel caso di morte di una persona a seguito di assunzione di sostanza
stupefacente, alla condotta di chi le abbia procurato la sostanza e di chi le
abbia preparato ed iniettato la dose, o si pensi, nell’ipotesi di incendio
colposo, alle condotte degli operai che fumavano vicino alle balle di paglia;
oppure in una omissione, si pensi al controllore di volo, il quale ometta di
attivarsi
fornendo
ai
piloti
informazioni
tempestive
sull’avvenuto
allontanamento dalla rotta. Si pensi anche, al caso del primo autista di un
autotreno, che risponde di cooperazione in omicidio colposo, qualora di
8
fronte alla condotta antidoverosa del secondo conducente, resti inerte, se da
tale condotta derivi l’evento letale.
Sarebbe del tutto irrilevante, al fine di determinare la responsabilità di coloro
che hanno cooperato nel delitto colposo, distinguere la figura dell’autore o del
coautore, da quella del complice e dell’istigatore2. È noto in proposito come il
legislatore, nella scelta tra i diversi modelli di disciplina del concorso
criminoso, si è trovato di fronte alla possibilità di adottare un modello in cui
venissero tipizzate in maniera autonoma le varie forme di partecipazione,
distinguendole a seconda dei ruoli (autore, partecipe, istigatore, ecc…) che
ciascuno dei concorrenti avrebbe potuto rivestire; ovvero di adottare un
modello indifferenziato, nel quale venisse sancita una pari responsabilità per
tutti coloro che avessero posto in essere una condotta dotata di efficacia
eziologia nei confronti dell’evento lesivo, ponendosi poi soltanto un
problema di graduazione della pena attraverso il sistema delle circostanze. È
altrettanto noto che il codice Rocco ha adottato la seconda delle possibili
Cfr. sul punto SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano
1987, secondo il quale, “ ai fini di una tipizzazione delle condotte concorsuale, riveste una
importanza primaria stabilire se la partecipazione criminosa debba essere costruita come un
insieme di condotte umane, al cui interno è possibile distinguere le differenti figure
dell’autore (o dei coautori), dell’istigatore e del complice, ovvero come un insieme di
contributi causali, ove il ruolo dell’autore coincide con quello dell’esecutore e le condotte di
istigazione e di complicità si caratterizzano solo sul piano delle loro modalità esterne…Non vi
è dubbio che la nostra giurisprudenza e la dottrina quasi unanime siano orientate in favore
della seconda soluzione, come dimostra anche il riconoscimento dell’ammissibilità di un
concorso doloso al fatto colposo; tale idea esprime infatti la concezione di un concorso di
persone come mera convergenza causale di due o più condotte, ove nulla si oppone alla
configurabilità dolosa per un concorrente rispetto al fatto da altri commesso con un
differente atteggiamento psicologico, così da fondare il processo di imputazione sul legame
eziologico tra la condotta e l’evento e da qualificare questo sulla base dell’elemento psichico
di ciascun partecipe. Sotto tale profilo, non solo risulta manifestamente superflua la
tipizzazione della nozione di autore ma, soprattutto, appare errato anche il tentativo di
definire i concetti di autore, istigatore e complice, poiché, in una descrizione delle modalità
esterne caratterizzanti le condotte di partecipazione, a prescindere dal loro elemento
psicologico e dal significato da esse rivestito nell’ambito della vicenda concorsuale”. Cit. pag.
271-272
2
9
soluzioni, per un duplice ordine di motivi, chiaramente evidenziati in sede di
lavori preparatori:
1. il primo, di ordine pratico, consiste nel riconoscimento, sulla base
dell’esperienza formatasi sotto il vigore del codice Zanardelli, che “la
preordinata
catalogazione
dell’entità
dell’apporto
di
ciascun
concorrente non può che essere arbitraria, perché in concreto il
giudizio è in relazione ad un’infinità di circostanze, che sono sottratte
ad ogni previsione, essendo il loro valore diverso nelle innumerevoli
modalità dei fatti”3.
2. il secondo, di ordine sistematico, evidenzia il profilo che “anche
nell’ipotesi in cui il fatto sia oggetto dell’attività di più persone,
l’evento deve essere messo a carico di tutti i concorrenti, che con la
propria azione contribuirono a determinarlo: il legame, invero, che
avvince l’attività dei vari concorrenti, si realizza in una associazione di
cause coscienti, alle quali è dovuto l’evento e, perciò, a ciascuno dei
compartecipi deve essere attribuita la responsabilità per l’intero”4.
L’art. 113 c.p., rispecchia pienamente l’opzione attuata dal legislatore. Il fatto
che questa norma contrariamente a quanto accade nello schema descrittivo
dell’art. 110 c.p., faccia esplicito riferimento alla causazione di un evento ad
opera di più persone, conferma ulteriormente, che la corresponsabilità dei
partecipi trova un limite oggettivo nel contributo al fatto concorsuale e non
già in una tipologia predeterminata di ruoli.
Vedi Lavori preparatori, vol. V, Relazione del Guardasigilli sul Libro I del progetto
definitivo, n. 134.
4 Così Lavori preparatori, ibidem.
3
10
PARAGRAFO III: “QUANTO PIÙ CRESCE IL NUMERO DEI COMPARTECIPI
TANTO PIÙ CRESCE LA POSSIBILITÀ CHE QUALCUNO DI ESSI NON PONGA IN
ESSERE UNA CONDIZIONE NECESSARIA DELL’EVENTO”
Nonostante che per giurisprudenza costante tanto di legittimità che di
merito, le condotte ritenute rilevanti nella prospettiva dell’art. 113 debbono
essere causali condizionali rispetto all’evento, parte della dottrina 5, ritiene,
invece, che non mancherebbero talune sentenze in grado di mettere in
discussione le conclusioni raggiunte. Il riferimento è a quelle pronunce in cui
si afferma la “concorrente responsabilità di tutti i partecipanti” ad una gara di
velocità non autorizzata (e svolta in condizioni pericolose) per l’incidente
che, nel corso della stessa, abbia visto coinvolto uno dei partecipanti”.
Per cercare di chiarire il problema, prendiamo in considerazione il seguente
esempio: in una partita di caccia alla quale partecipano cinquanta cacciatori,
una persona rimane uccisa, colpita da lontano da una imprudente fucilata di
uno dei partecipi. Si accerta che tutti i cacciatori presenti erano muniti di
fucile non autorizzato, perché di calibro molto superiore a quello consentito,
e a differenza di quest’ultimo in grado di uccidere un uomo anche da grande
distanza.
In ordine a tale fattispecie, si potrebbe rilevare che, ritenendo necessario un
nesso causale fra le singole condotte e l’evento e non un rapporto causale
diverso, intercorrente fra il complesso delle condotte concorrenti e l’evento,
non pare dubbio che ognuno o gran parte dei cacciatori intervenuti, tranne in
5
Cfr. sul punto ancora ALDROVANDI, Il concorso..,cit. pag. 110
11
ogni caso lo sparatore che ha colpito la vittima, risulterebbe non avere
minimamente condizionato l’evento verificatosi. Se il singolo cacciatore,
infatti, non avesse aderito alla cacciata, questa avrebbe ugualmente avuto
luogo. Eliminando mentalmente la condotta del singolo cacciatore, quindi,
l’evento non verrebbe meno, con la conseguenza che la condotta presa in
esame non potrebbe considerarsi condicio sine qua non dell’evento. Ora,
apparentemente, questo stesso ragionamento potremmo riproporlo nel caso
di tre ragazzi che decidano di partecipare ad una gara di velocità non
autorizzata con i propri motorini. Nel corso della gara, uno di essi cagiona un
incidente dal quale consegue la sua morte e le lesioni personali di un terzo. In
ordine a tale fattispecie si potrebbe rilevare che, pur non potendo escludere
che la mancata partecipazione di determinati concorrenti sarebbe stata
idonea ad impedire lo svolgimento della gara, risulti aprioristico concludere
nel senso che l’adesione di ciascun concorrente sia stata condizione
indispensabile della compartecipazione e, quindi, dell’evento. La condotta del
partecipante alla gara che ha cagionato direttamente l’incidente, è
sicuramente condicio sine qua non dell’evento. Se, infatti, si elimina
mentalmente la sua condotta, l’evento viene meno. Ma, se si elimina
mentalmente la condotta di uno dei ragazzi che si è limitato a prendere parte
alla gara, l’evento viene meno? Considerato il numero esiguo dei partecipanti,
si può dire che la gara si sarebbe ugualmente svolta oppure no? Se si giunge a
dire di no, allora ne risulta che anche quella condotta è stata condicio sine
qua non dell’evento, perché se la si elimina mentalmente, ne consegue che la
gara non si sarebbe svolta e che quindi l’evento non si sarebbe verificato. Se si
12
giunge a dire di si, allora ne consegue che eliminando mentalmente quella
condotta, l’evento non sarebbe venuto meno. In questi termini la proposta di
competizione avrebbe soltanto facilitato lo svolgersi della gara, risultando
pertanto, dotata di mera efficacia agevolatrice rispetto all’evento. In questo
caso, la formula condizionale, sarebbe inidonea a provare la causalità di quei
contributi che, insufficienti da soli a causare un certo risultato,
contribuiscano a determinarlo affiancandosi ad un processo causale in atto,
già da solo sufficiente a produrre quel risultato stesso. Per la condotta del tipo
da ultimo esaminato, non potrebbe essere affermata natura condizionale
proprio perché, immaginandola mancante, si sarebbe prodotto egualmente
un evento del tutto equivalente, sul piano giuridico, a quello che si è prodotto
con la sua presenza.
A ben guardare però, l’analogia tra le due fattispecie raffrontate è solo
apparente. Il dato che giustifica la soluzione offerta al caso della “partita di
caccia” è rappresentato dal numero dei cacciatori: il numero dei coagenti, è
così grande che l’esclusione di uno di essi operata mentalmente risulta
ininfluente sull’evolversi dell’avvenimento.
La situazione è radicalmente diversa per il caso della “gara di velocità” dove
all’estrema esiguità del numero dei concorrenti, si ricollega una elevata
probabilità di rilevanza causale – condizionalistica di ciascun contributo6.
Si condivida o meno tale ultima conclusione, va osservato che proprio
rispetto alle fattispecie in esame, ove più incerta è la rilevanza effettiva, sul
Il criterio (empirico) che viene in considerazione è quello secondo cui “quanto più cresce il
numero dei compartecipi, tanto più cresce la possibilità che qualcuno di essi non ponga in
essere una condizione necessaria dell’evento e viceversa”: cfr. ANGIONI, Il concorso colposo
e la riforma del diritto penale, cit. pag 79.
6
13
piano causale, delle singole condotte, la giurisprudenza richiama a chiare
lettere il criterio causale – condizionalsitico, affermando la necessità che il
contributo morale si sostanzi nella “cosciente determinazione o induzione 7” e
non accontentandosi quindi, di un semplice rafforzamento dell’altrui volontà,
come avviene per le fattispecie dolose.
Tuttavia, secondo chi scrive, tra le due fattispecie sopra confrontate, è
possibile individuare una ulteriore differenza sul piano della violazione, già a
livello oggettivo, della regola cautelare. Della violazione della regola
cautelare, quale possibile criterio di tipizzazione della condotta di
partecipazione, si intende parlarne successivamente, ma sin da subito sembra
opportuno osservare che:
nella “gara di velocità”, tutti coloro che hanno partecipato alla stessa, hanno
violato regole cautelari dello stesso tipo e volte a prevenire eventi proprio
della specie di quello che si è verificato. Infatti, come è stato accertato dai
giudici8, tutti e tre i ragazzi procedevano a velocità molto elevata (superiore ai
100 km/h), per di più il terreno di gara, che fu da tutti scelto, era una strada
stretta, con fondo sconnesso ed accidentato, per cui a maggior ragione
sarebbe stato necessario tenere una condotta prudente e diligente e quindi
ridurre di molto la velocità, come era indicato nell’apposito cartello
segnaletico che da nessuno dei ragazzi fu rispettato. Inoltre, data l’ora tarda,
Se è evidente, infatti, che il termine “ determinazione” richiama un contributo necessario
(cfr. MANTOVANI, Diritto penale, cit. p. 525), non meno chiaro è che pure l’induzione
implica un’attività dotata di efficacia condizionale: conclusione già pacifica sulla base del
significato che a tale espressione si attribuisce nel linguaggio comune e confermata,
comunque, dalla circostanza che, proprio con tale signfiicato, il concetto di induzione venga
utilizzato in una norma incriminatirce, quale la’rt. 317 c.p., ove esso abbraccia ogni
comportamento che abbia per risultato di determinare il paziente ad una data condotta (cfr.
ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, II, Milano, 1991, p. 310).
8 Vedi Corte di Appello di Napoli, Sez. minorenni, 22 dicembre 1983
7
14
la strada era quasi al buio perché priva di illuminazione, quindi la visibilità
era molto ridotta, e la comune prudenza avrebbe richiesto un’andatura cauta
proprio per evitare incidenti. Infine, non si tenne conto della distanza di
sicurezza che per legge e per prudenza deve sussistere tra i contendenti,
misura volta ad evitare scontri tra i veicoli, con conseguenze dannose sia per i
conducenti degli stessi che per i terzi. Anzi, i partecipanti, cercavano di
superare colui che era in testa e che, con il suo comportamento avventato e
pericoloso, condizionò gli altri che, per seguirlo e tentare di superarlo, si
indussero ad un precipitoso quanto rovinoso procedere.
Le regole cautelari che da tutti sono state violate, erano tutte volte ad evitare
collisioni tra i veicoli, collisioni tra i veicoli ed ostacoli esterni, fuoriuscita di
strada dei veicoli, qualsiasi tipo di incidente, insomma, che avesse potuto
pregiudicare la vita e l’incolumità fisica vuoi dei conducenti che di terzi, come
di fatto avvenne, tanto è vero che dallo scontro, ne derivò la morte di uno dei
partecipanti e gravi lesioni personali di un terzo.
Anche nel caso della “partita di caccia”, tutti e cinquanta i cacciatori,
contravvengono ad una stessa regola cautelare perché si muniscono di fucile
di calibro molto superiore a quello consentito. È necessario, tuttavia,
ricostruire il contenuto di questa regola cautelare, per stabilire se essa è volta
a prevenire eventi del tipo di quello che si è verificato. Insomma, la domanda
a cui si deve rispondere, a chi scrive, pare questa: l’evento che si è verificato
(cioè morte di un uomo) è riconducibile nello scopo di prevenzione della
norma cautelare che è stata violata da tutti i cacciatori? A ben guardare, no.
L’evento morte dell’uomo, infatti, si verifica perché quest’ultimo viene colpito
15
da una imprudente fucilata. La regola cautelare che viene violata, quindi, e
che è volta ad impedire l’evento del tipo di quello che si è verificato, consiste
nel fare un prudente e diligente uso del fucile, indipendentemente dal suo
calibro, proprio per evitare incidenti. Questa regola cautelare, però, non viene
violata da tutti coloro che hanno preso parte alla partita di caccia, ma solo ed
esclusivamente dal cacciatore che poi materialmente ha cagionato l’evento
morte. Anche se il cacciatore, quindi, avesse avuto un fucile di calibro
consentito, maneggiandolo imprudentemente, avrebbe potuto comunque
colpire per errore una persona ed ucciderla. A questo punto, tuttavia, una
obiezione potrebbe essere mossa, e cioè: immaginiamo che la persona che è
rimasta ferita, e che poi è deceduta, si fosse trovata a 200 m di distanza da
dove il cacciatore ha sparato con fucile di calibro non consentito e quindi con
gittata maggiore rispetto a quella di un fucile di calibro consentito. A seguito
di perizia, viene accertato che, qualora il cacciatore, anziché usare il fucile di
calibro non consentito, avesse usato quello di calibro consentito, non avrebbe
potuto colpire il bersaglio, poichè il proiettile avrebbe al massimo percorso
150 m e quindi non lo avrebbe raggiunto. In questo caso, se la regola
cautelare che prevede di usare il fucile di calibro consentito, fosse stata
rispettata, l’evento non si sarebbe verificato. Tuttavia, a ben guardare, in
questo ultimo caso, le regole che il cacciatore ha violato sono sempre due e
cioè: l’aver usato un fucile di calibro non consentito e l’averlo maneggiato
imprudentemente, e non si può prescindere dalla violazione di quest’ultima,
perché se il fucile di calibro non consentito fosse stato usato con diligenza,
comunque l’evento non si sarebbe verificato. Se realmente, quindi, si
16
verificasse un caso analogo a quello della partita di caccia (prospettato dalla
dottrina), non sarebbe configurabile una ipotesi di cooperazione colposa tra il
cacciatore che ha sparato e gli altri che hanno partecipato alla cacciata, se pur
con fucile di calibro non consentito, e questo non solo perché le condotte dei
cacciatori, dato l’elevato numero degli stessi, non possono essere considerate
condizioni indispensabili per il verificarsi dell’evento, ma anche perché questi
non hanno violato una regola cautelare del tipo di quella volta a prevenire il
verificarsi dell’evento morte, pertanto, potranno tutto al più rispondere a
livello contravvenzionale del mancato impiego del fucile di calibro consentito.
17
PARAGRAFO IV: LA CAUSALITÀ CONDIZIONALE NELLA COOPERAZIONE
COLPOSA SECONDO LA DOTTRINA
La dottrina maggioritaria, già dall’interpretazione del primo comma dell’art.
113, (che richiede che l’evento nel delitto colposo sia “cagionato” dalla
cooperazione di più persone), rileva come l’espressione verbale “cagionare”
(che il legislatore ha esplicitamente prescelto per individuare il rapporto di
derivazione della condotta concorsuale colposa), richiama immediatamente
la tematica del nesso causale ed è un argomento esegetico a favore della
necessità di un contributo eziologico effettivo. Ciò risulta evidente ancor più,
se si confronta il “cagionare” dell’art. 113 c.p. sia con l’espressione usata
dall’art. 110 c.p. per individuare la figura del concorso doloso, sia con le
espressioni usate dal legislatore per individuare alcune figure specifiche di
cooperazione colposa.
Sotto il primo profilo, si sottolinea che l’art. 110, adottando un tipo di
formulazione generica del tipo “più persone concorrono nel medesimo
reato”, ha lasciato aperti una serie di problemi relativi al tipo di nesso che
deve intercorrere tra le condotte dei concorrenti e tra queste e l’evento.
L’ampiezza della formula normativa ha infatti rappresentato la prima matrice
di un esteso e mai esaurito dibattito giurisprudenziale e dottrinario sui limiti
di rilevanza penale delle forme più late di partecipazione al reato, soprattutto
di quelle forme riassumibili nel concetto di agevolazione, e sulla loro
compatibilità con il principio di personalità della responsabilità penale.
18
Sotto il secondo profilo, si evidenzia che in materia di partecipazione colposa,
accanto alla norma generale sul concorso colposo, esistono una serie di
fattispecie incriminatrici speciali, denominate di agevolazione colposa, nelle
quali il rapporto tra condotta agevolante e condotta agevolata viene descritto
non in termini di “cagionare” bensì attraverso l’uso di locuzioni del tipo:
“rendere possibile o agevolare”. La comparazione tra i due tipi di espressione,
quella che connota il concorso doloso e quella che connota le forme specifiche
di agevolazione colposa, e la terminologia usata dall’art. 113 fornirebbe una
prima, importante indicazione nel senso che la normativa concorsuale
colposa è strutturata in modo da ricomprendere solo comportamenti di
partecipazione dotati di efficacia causale9.
in tal senso SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione nel delitto colposo, cit. pag. 43
ss. In senso analogo GRASSO, commentario sistematico al codice penale, vol II, art 113, cit
pag. 180 ss, e PAGLIARO, I principi di diritto penale.
9
19
PARAGRAFO V: LA CAUSALITÀ AGEVOLATRICE NELLA COOPERAZIONE
COLPOSA. CRITICA
Parte della dottrina ritiene che nella cooperazione colposa, sia opportuno
integrare la portata della causalità condizionalistica con la causalità c.d.
agevolatrice10, affinché sia attribuita rilevanza non solo ai contributi
concorsuali necessari, ma anche a quelli di agevolazione 11. Secondo questa
parte della dottrina, cioè, poiché il criterio causale condizionalistico, di per sé,
non sarebbe in grado di punire, nemmeno nell’ambito della cooperazione
colposa, le condotte di partecipazione non necessaria, sarebbe necessario
utilizzare anche il criterio dalla causalità agevolatrice, che permetterebbe di
punire quelle condotte che se anche non sono state necessariamente causali
rispetto all’evento, tuttavia ne hanno agevolato la realizzazione12. Che poi il
10
Secondo tale teoria è penalmente rilevante non solo l’ausilio necessario, che non può
essere mentalmente eliminato senza che il reato venga meno, ma anche quello che si limita
ad agevolare o facilitare il conseguimento dell’obiettivo finale, questa forma di influsso, pur
sempre causale anche se non condizionalistico, sarebbe ravvisabile, ad esempio, nel caso del
complice che fornendo la chiave allo scassinatore determina l’anticipazione della
consumazione del furto.
Tuttavia, secondo altri autori, nemmeno il modello della causalità c.d. agevolatrice sarebbe
dotato di validità generale: vi sarebbero infatti ulteriori casi di partecipazione non necessaria
sempre meritevoli di pena, nonostante manchi non solo il nesso condizionalistico con
l’evento ma anche ogni influsso causale sia pure nella forma attenuata dell’efficacia
agevolatrice. Per esemplificare, si fa l’ipotesi della fornitura di uno strumento che non viene
poi utilizzato dall’esecutore materiale, ovvero del complice maldestro il quale finisce, a causa
della sua condotta impacciata, con l’ostacolare anziché favorire l’impresa criminosa. Per
superare tali difficoltà, taluno propone l’abbandono dell’approccio causale e la sua
sostituzione con un giudizio di semplice prognosi.
11Così ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, Milano 1984. Ed è sempre Albeggiani a
determinare il contenuto della causalità agevolatrice: “ricorrono ipotesi di semplice
agevolazione per quelle condotte che, insufficienti da sole a determinare un certo risultato
criminoso, contribuiscono alla sua produzione influenzando favorevolmente la condotta
illecita di un altro soggetto che avrebbe, in ogni caso, realizzato anche da solo un risultato
giuridicamente analogo”. Cit. pag. 55
12 CONTRA ALDROVANDI, Concorso.., cit. pag. 40 ss , secondo l’autore, il concetto di
causalità agevolatrice,risulta improponibile nell’ambito del concorso colposo. Infatti “la
possibilità di sanzionare contributi meramente agevolatori è stata riconosciuta solo in
20
criterio causale condizionalistico non possa essere considerato l’unico criterio
di tipizzazione delle condotte di partecipazione, sarebbe dimostrato dalla
circostanza attenuante di cui al primo comma dell’art. 114 c.p. che così recita:
“ il giudice, qualora ritenga che l’opera prestata da taluna delle persone che
sono concorse nel reato a norma degli articoli 110 e 113 abbia avuto minima
importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato, può diminuire la
pena13”.
presenza di fattori che inducano a qualificare come significativi, sotto il profilo della lesione
al bene o interesse tutelato, anche comportamenti risolventisi in contributi di scarsa
rilevanza quantitativa. Nell’ambito della partecipazione criminosa si fa riferimento alla
“gravità del fenomeno associativo” e alla sua maggiore capacità lesiva nei confronti del bene
tutelato, derivante dal combinarsi di più comportamenti di aggressione nei confronti del
bene stesso. Se quest’ultimo rilievo però, ben si attaglia al concorso doloso, risulta estensibile
alla cooperazione nel reato colposo. Invero, non pare che quest’ultima comporti una
maggiore pericolosità oggettiva rispetto al concorso di condotte indipendenti, perhcè mai si
dovrebbe ritenere più pericolosa la condotta di due soggetti che si sfidino ad una gara di
velocità in automobile rispetto a quella di due automobilisti che, correndo ciascuno per conto
proprio, giungano a scontrarsi ad un incrocio?”.
13LATAGLIATA mostra la sostanziale inconciliabilità tra la concezione causale del concorso ed
una lettura dell’art. 114, 1º comma del c.p., orientata anch’essa sul piano della causalità
oggettiva. Riferendosi soprattutto ad una certa visione giurisprudenziale della minima
partecipazione in base alla quale essa dovrebbe essere riferita a contributi non indispensabili
alla produzione del reato, nel senso che questo avrebbe potuto essere commesso anche senza
quel contributo, l’autore rileva che tale aspetto non si mantiene coerente con le pretese
premesse causali del concorso, in quanto implicitamente tale lettura riconosce che vi
sarebbero atti di partecipazione che non sono condizioni necessarie per il verificarsi
dell’evento. Ed ecco la necessità di puntualizzare l’importanza minima della condotta, non
sul piano causale, ma sul piano soggettivo, attinente alla differenza tra la volontà del correo e
quella del mero complice, nella decisione dell’azione collettiva. La minima importanza
finirebbe con l’identificarsi con il ruolo del semplice partecipe (istigatore o agevolatore), in
quanto questi non possiede il dominio finalistico del fatto collettivo. L’attenuante di cui
all’art. 114, 1º comma c.p., competerebbe dunque a tutti i concorrenti che, nella struttura
dell’azione collettiva hanno il ruolo secondario di meri complici, ruolo non dipendente
dall’aspetto causale della condotta, ma dal contenuto della loro volontà.
La maggior parte della dottrina, condivide la puntualizzazione critica di Latagliata, in merito
alla inconciliabilità tra la concezione equicondizionalistica del contributo dei concorrenti ed
una ricostruzione della minima partecipazione, come contributo non necessario, tuttavia,
ritiene non condivisibile la particolare interpretazione dell’attenuante di cui all’art. 114, 1º
comma c.p., perché in contrasto con il tenore letterale di questa norma. Infatti il riferimento
testuale ad un’opera del concorrente che “ abbia avuto minima importanza nella
preparazione o nell’esecuzione del reato”, conduce e vincola l’interprete a ravvisare la ratio
dell’attenuante in una dimensione di carattere squisitamente oggettivo, senza offrire spazio
per una considerazione dell’atteggiamento volitivo del partecipe. Seguendo questa
prospettiva, si giunge a dire che se il concorso fosse fondato esclusivamente sulla causalità, la
concausa dovrebbe essere sempre conditio sine qua non e la condizione necessaria non
potrebbe essere poi ritenuta di minima importanza, una condotta che sia necessaria e quindi
21
Tale norma chiarirebbe che nel nostro ordinamento si danno condotte di
partecipazione non necessarie, che possono essere mentalmente eliminate
senza conseguenze significative sul risultato criminoso; condotte che, non
essendo, per definizione, condiciones sine quibus non, non possono assumere
natura causale alla stregua dei criteri tradizionali14. Questo ragionamento
sarebbe riproponibile anche nell’ambito della cooperazione colposa, in
quanto l’art. 114,1º comma c.p. espressamente richiama l’art. 113.
Per stabilire se effettivamente l’art. 114,1º comma c.p. possa essere
considerato un effettivo fondamento normativo per le condotte di
partecipazione non necessaria anche nell’ambito del concorso colposo, si
pongono come necessarie alcune considerazioni sull’applicazione della
circostanza attenuante in parola da parte della giurisprudenza.
Come prima cosa, la giurisprudenza in relazione alla nozione di “minima
importanza” si è espressa in questi termini: “l’attenuante di cui all’art. 114 c.p.
è configurabile solo quando l’opera prestata da taluno dei concorrenti sia
stata non solo minore rispetto a quella degli altri concorrenti, ma addirittura
minima, si da aver esplicato un’efficacia eziologia del tutto marginale e quasi
irrilevante nella produzione dell’evento15, il che è configurabile, in sostanza,
indispensabile per la verificazione dell’evento, svolge per ciò solo una funzione causale,
essenziale, che neppure le più elastiche considerazioni in termini di valore possono ridurre
ad un ruolo minimo. Si è giunti a dire che il sistema concorsuale del 1930, così com’esso è
stato strutturato, rivela una apertura verso il concetto generale di partecipazione non
necessaria, e cioè verso la punibilità di condotte atipiche non causali. La principale chiave
normativa di tale apertura sarebbe data proprio dal testo dell’attenuante di cui all’art. 114,1º
c., che, finisce per avere una funzione sistematica disgregatrice della teoria condizionalistica.
14 Cfr. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione.., cit. pag. 182; ID., Imputazione dell’evento.., cit.
pag. 409; MANTOVANI, Diritto penale, cit. pag. 546; PADOVANI, Diritto penale, cit., pag
373 s.; PAGLIARO, Principi.., cit., pag. 563; VIGNALE, Ai confini della tipicità.., cit., pag.
1368; GUERRINI, Il contributo concorsuale di minima importanza, Milano, 1997 pag. 58 ss.
15 Sul punto cfr. ALDROVANDI, Concorso nel reato colposo e diritto penale dell’impresa. Cit.
pag. 42; secondo l’autore, sarebbe lo stesso codice Rocco ad escludere la possibilità di
22
quando il reato si sarebbe ugualmente verificato, con le medesime modalità,
anche senza l’attività di detto concorrente. Si tratta, infatti, di un’eccezione
alla regola generale di equiparazione delle varie forme di concorso di persone
nel reato, fondata sul principio di equivalenza delle cause. Ne consegue, che
l’interpretazione deve essere rigorosa ed indipendente dalla minore efficienza
causale dell’apporto di taluno dei concorrenti, per cui è necessario che
l’attività del compartecipe abbia inciso su di una circostanza ovvero su un
particolare trascurabile e non essenziale del commesso reato. Ad integrare la
circostanza della minima partecipazione al reato, pertanto, non basta la
minore efficacia causale dell’attività prestata da un correo rispetto a quella
posta in essere da altri, ma è necessario che il contributo dato dal partecipe si
sia concretizzato nell’assunzione di un ruolo di rilevanza del tutto marginale,
ossia di efficacia causale così lieve rispetto all’evento, da risultare trascurabile
nell’economia generale del reato. In definitiva, l’attenuante può essere
concessa se la condotta di un partecipe ha avuto una efficienza eziologia del
tutto marginale, tale da poter essere avulsa dalla concatenazione causale
senza apprezzabili conseguenze sul risultato conclusivo”16.
Per quel che riguarda la casistica, in un primo gruppo di casi, la Corte di
Cassazione, fonda il concorso di persone sul criterio causale-condizionale,
interpretare la formula “partecipazione di minima importanza”, nel senso di minima
importanza causale, che dovrebbe invece intendersi come minore capacità a delinquere del
singolo soggetto. Il significato da attribuire alla locuzione “minima importanza” non sarebbe
tanto quello di una ridotta efficacia eziologia, sebbene quello di una ridotta rilevanza
concreta della singola condotta in rapporto all’illecito plurisoggettivo realizzatosi e, quindi,
sia rispetto agli altri contributi concorsuali, sia rispetto al disvalore tipicizzato dalla norma
incriminatrice.
16 In tal senso cfr. Cass Sez. I 94/198123; sez. I 91/188647; sez. I 85/169238; sez.I 82/157837;
sez. I 94/198357; vedi anche Cass. 16.4.1997, Milone; Cass. 21.2.1997, La Legname; Cass.
24.11.1995, Sara; Cass. 2.7.1997, Berio; Cass. 10.1.1994, Manitta; Cass. 11.5.1994, Scaringella.
23
esigendo sempre nel contributo del concorrente il carattere della necessità
rispetto alla produzione dell’evento, in funzione di meccanismo di
tipicizzazione. In quest’ordine di idee, diviene poi impossibile riconoscere
l’attenuante in parola, per la irriducibile contraddizione tra il concetto di
partecipazione “necessaria” ed il carattere “minimo” del contributo in cui si
sostanzia l’attenuante; ed ecco che per questa via si giunge inevitabilmente ad
una
interpretatio
abrogans
dell’attenuante.
Laddove
quindi,
la
giurisprudenza (di legittimità o di merito), giunga a dire che la condotta del
partecipe è stata condicio sine qua non dell’evento, e quindi un contributo
necessario per la realizzazione del fatto di reato, non potrebbe poi di certo
affermare che quella stessa condotta è risultata di minima importanza,
poiché, la ricerca di un contributo necessario, ma di minima importanza,
sarebbe una contraddizione in termini. Considerando che, nell’ambito della
cooperazione colposa, come è risultato dai casi che sono stati esaminati, la
giurisprudenza è sempre giunta ad individuare un legame causale condizionale tra le condotte di ciascun partecipe e l’evento, non si vede come
l’art. 114.1º comma c.p. potrebbe trovarvi applicazione, se, cioè, sempre la
condotta del partecipe è condicio sine qua non dell’evento, non potrà mai
essere partecipazione di minima importanza, quindi, anche ammettendo che
l’attenuante in parola costituisca un supporto normativo alla causalità
agevolatrice, tale non trova di fatto applicazione nella cooperazione colposa.
Che poi l’attenuante in parola costituisca una “chiave di volta” nella
ricostruzione giurisprudenziale del concorso doloso di persone, è discutibile,
infatti, per prima cosa sarà possibile andare ad applicare tale attenuante ad
24
un concorrente in dolo, nella realizzazione di un reato doloso, sempre che la
giurisprudenza non ritenga che quel contributo sia stato condicio sine qua
non dell’evento, poiché in questo caso si ricadrebbe nella contraddizione
denunciata a proposito della cooperazione colposa. Qualora invece la
giurisprudenza giungesse a ritenere non condizionale rispetto all’evento
lesivo la condotta del partecipe17, l’art. 114.1º comma potrebbe trovare
applicazione, ma nel valutare il complesso delle pronunce storicamente
formatosi sul punto, è agevole rilevare come quasi sempre la giurisprudenza
giunga alla disapplicazione dell’attenuante18, ed anche qualora propenda per
Cfr. Cass. Sez. I, sentenza 11.03.1991, Cantone, in cui la giurisprudenza così si è espressa:
“perché si configuri la fattispecie del concorso di persone nel reato non è necessario che il
contributo di ciascuno si ponga come condizione, sul piano causale, dell’evento lesivo. Infatti
la teoria causale del concorso, fatta propria dalla relazione al codice penale, contrasta con il
dettato dell’art. 110 c.p. e la funzione estensiva cui la normativa del concorso adempie,
consentendo di attribuire tipicità a comportamenti, che di per sé ne sarebbero privi, quando
abbiano, in qualsiasi modo, contribuito alla realizzazione collettiva, mentre, d’altro canto, lo
stesso codice, con la previsione dell’attenuante della minima partecipazione al fatto, ammette
la possibilità di condotte non condizionali, non potendosi certo considerare condizione
indispensabile per la realizzazione del reato una attività di minima importanza. In questa
ottica, ai fini della sussistenza del concorso deve ritenersi sufficiente che la condotta di
partecipazione si manifesti in un comportamento esteriore che arrechi un contributo
apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o
l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti e, in sostanza, che il partecipe per effetto
della sua condotta, idonea a facilitarne l’esecuzione, abbia aumentato la possibilità della
produzione del reato, perché in forza del rapporto associativo diventano sue anche le
condotte degli atri concorrenti”; cfr. Cass. Sez. V, sentenza 9 maggio 1986: “ ai fini del
concorso del reato (art. 110 c.p.) non è necessario che la condotta del concorrente sia
condicio sine qua non dell’evento ed è invece sufficiente che il soggetto abbia apportato un
contributo idoneo a favorire potenzialmente, a rendere più probabile l’evento (ad esempio
rafforzando l’altrui proposito criminoso): ciò che esclude la necessità di accertare se l’evento
si sarebbe ugualmente verificato senza l’apporto di quel concorrente”.
18 cfr. Cass. 7.12.1978, Cristini “ nel reato di contrabbando di sigarette estere non può
ritenersi di minima importanza, agli effetti dell’art. 114 c.p., l’attività di colui che nasconde
nella propria casa di abitazione la merce sottratta al pagamento dei diritti di confine”; cfr.
Cassazione 16.12.1985, Spinola, “in tema di estorsione, non è di minima importanza l’opera
del concorrente che abbia svolto attività di intermediazione ed abbia ricevuto egli stesso la
somma estorta, dichiarando di doverla consegnare ad altri ignoti partecipanti”. Cfr.
Cassazione penale, 26.1.1988, Cubeddu, “ il sequestro di persona a scopo di estorsione è un
reato a consumazione anticipata e si realizza nel momento in cui vengono attuati tutti i suoi
elementi costitutivi, fino alla cessazione dello stato di soggezione della vittima. Accertato il
concorso di più persone nella realizzazione del reato, le condotte dei vari compartecipi si
pongono sullo stesso piano. Il giudice non ha perciò l’obbligo di individuare il ruolo di
ciascuno di essi nella commissione del reato poiché tutte le condotte assumono valore
determinante e risolutivo; esula quindi qualsiasi ipotesi di applicazione dell’attenuante della
17
25
la sua applicazione19, si correrebbe sempre un rischio: quello che il
magistrato finisca per ricondurre a circostanza attenuante comportamenti
minima partecipazione”. Cfr. Cassazione 20.6.1994, Gerotti, “in tema di concorso di persone
nel reato, l’attenuante della minima partecipazione, di cui all’art. 114 c.p., non è applicabile a
colui che attende il complice alla guida di un’autovettura per portarlo in salvo, poiché egli
facilita il compimento dell’attività criminosa e rafforza l’efficienza dell’opera svolta dal
correo, garantendone una rapida fuga dal luogo del commesso reato ed una quasi certa
impunità”. Cfr. Cass. 3.7.1990, Pedori, “l’opera del cosiddetto palo non ha importanza
minima nella esecuzione del reato, poiché tale funzione facilita la realizzazione dell’attività
criminosa e rafforza l’efficienza dell’opera dei correi, garantendo l’impunità di costoro. Ne
deriva che non è applicabile la circostanza attenuante di cui all’art. 114 c.p.”. cfr. Cassazione
27.10.1981, Stipo, “ chi svolge l’attività di palo è un partecipante essenziale ad una rapina e a
qualsiasi altro reato commesso da più persone in concorso tra di loro, dato che guarda le
spalle dei suoi compagni e compartecipanti e previene eventuali sorprese che possano
disturbare la loro opera. (nella specie è stata ritenuta legittima l’esclusione dell’attenuante
della minima partecipazione al fatto”. Cfr. Cass. 18.1.1990, Guardi, “ in tema di concorso di
persone nella detenzione a fine di spaccio di un quantitativo non modico di eroina, ai fini
della concedibilità dell’attenuante di cui all’art. 114 c.p., non può ritenersi minimo un
contributo alla consumazione del reato costituito dalla custodia della droga e dal tentativo di
sottrarla al sequestro”. Cfr.Cass. 20.1.1994, Bassetti, “ l’attenuante di cui all’art. 114 c.p. trova
applicazione la dove l’apporto del correo risulti obiettivamente così lieve da apparire,
nell’ambito della relazione causale, quasi trascurabile e del tutto marginale. Il contributo
costituito dal trasporto di un detentore di stupefacente nel luogo di acquisto e da questo al
luogo i provenienza non può essere considerato come partecipazione di minima importanza
al reato”. Cfr. Cassazione 21.3.1990, Billi, “ colui il quale trasporta uno spacciatore nel luogo
di vendita della droga offre un consapevole, e apprezzabile, contributo causale alla di lui
attività di spaccio; tale contributo non può essere considerato “minimo” ai fini dell’art. 114
c.p., essendo valutabile solo ai fini dell’art. 133 c.p. Cfr. Cassazione 12.7.1988, Sgarra, “ in
tema di circostanze, l’attenuante di cui all’art. 114 c.p. può essere concessa solo se la condotta
del partecipante abbia esplicato efficacia causale del tutto marginale nella realizzazione
dell’evento. Non può considerarsi tale la condotta di colui che abbia agevolato il passaggio
clandestino del confine a coimputati, corrieri di droga, per consentire il trasporto della quale
abbia, altresì, altresì fornito un automezzo”. Cfr. Cass. 12.2.1985, Lucatello, “non può
applicarsi la norma suddetta alla condotta di colui che trasforma il proprio appartamento in
una base di appoggio di una organizzazione di trafficanti di stupefacenti ai quali l’agente
accordi la copertura del proprio contratto locatizio, per agevolare la custodia e lo
smistamento della merce mediante la collaborazione di piccoli spacciatori introdotti nello
squallido ambiente dei tossicodipendenti. Infatti, questa condotta rappresenta uno dei
supporti essenziali della complessa attività degli importatori e commercianti all’ingrosso di
sostanze stupefacenti e, di conseguenza, nella consumazione del reato, di cui all’art. 71 l.
685/75, assolve il ruolo di non secondaria importanza”.
19 Così ad es. Corte di Assise di Roma 4 marzo 1977; nella quale la Corte è giunta a dire che: “
costituisce concorso nel delitto di omicidio la partecipazione di una persona ad una
manifestazione politica violenta che faccia uso di pistola, mentre altri, anche se rimasto
sconosciuto sparando più colpi colpisce altra persona cagionandone la morte. Trattasi, in tal
caso, di un comportamento inteso a rafforzare l’azione del compartecipe, a garantirgli anche
un’adeguata protezione, offrendogli nuovi incentivi e maggior senso di sicurezza a compiere
il delitto”. Nel caso di specie, la Corte, ha ritenuto che il comportamento del partecipe, non
fosse configurabile come contributo causalmente indispensabile alla realizzazione
dell’evento, ed infatti l’evento si sarebbe verificato ugualmente anche senza la condotta del
partecipe, quindi sembrerebbe (in quanto non c’è una chiara presa di posizione sul punto)
che tale contributo sia stato considerato meramente agevolatore rispetto all’evento e lo ha
qualificato come partecipazione di minima importanza ex art 114.1º comma c.p.. Tuttavia,
26
che, non essendo necessari e neppure influenti su alcuna modalità dell’altrui
operato criminoso, addirittura dovrebbero essere collocati al di fuori della
punibilità concorsuale20. E se ciò è vero nell’ambito del concorso doloso, lo è
ancor di più nell’ambito della cooperazione colposa, dove avendo a che fare
con illeciti colposi, l’evento (nel senso di fatto tipico di reato) non è voluto.
Individuato il primo criterio di tipizzazione della condotta di partecipazione
nella causalità condizionale, occorre a questo punto accertare, si vi siano,
oltre a questo, altri criteri di tipizzazione della condotta concorsuale. Occorre,
cioè, stabilire se il singolo contributo di partecipazione si ponga sempre in
contrasto con una regola obiettiva di diligenza.
tale sentenza è stata stigmatizzata da A.M. ROMANO cit. in Giur. Di merito 1978, II 623; in
senso analogo FIANDACA MUSCO, Diritto penale, cit. pag. 464 e MANTOVANI, Diritto
penale, cit. pag 547.
20 In tal senso confronto GUERRINI, Il contributo concorsuale di minima importanza, 1997,
cit. pg. 37
27
CAPITOLO II
RICERCA DEL SECONDO CRITERIO DI TIPIZZAZIONE DEL
CONTRIBUTO DI PARTECIPAIZONE
PARAGRAFO I: LA MISURA OGGETTIVA DELLA COLPA
Chiarito che, nell’ambito della cooperazione colposa, la condotta di
partecipazione deve essere necessariamente causale rispetto all’evento, resta
aperto il problema di stabilire se, tale condotta, per essere punibile, debba
anche, già di per se, porsi in contrasto con una regola precauzionale. Occorre
cioè chiarire se, posto che la colpa rileva già sul terreno della tipicità, per
aversi concorso colposo, occorra che ciascuno dei compartecipi, tenga una
condotta in contrasto con una regola a contenuto cautelare, la cui osservanza
avrebbe evitato un evento prevedibile e riconducibile nello scopo di
prevenzione della stessa regola violata.
Ma che cosa vuol dire che la colpa rileva già sul piano della tipicità?
Illustre dottrina1, riconosce alla colpa una duplice dimensione o misura:
1. quella oggettiva, che richiede che la condotta si ponga in contrasto con
una regola cautelare;
Cfr. in tal senso: MANTOVANI, Diritto penale, 2001 cit. pag. 345; FIANDCA, Diritto penale
parte generale 2001, cit. pag. 501; GALLO, Colpa penale, in Enc. Dir. Vol VII 1960, cit. pag
636 ss.; MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, cit. pag. 167 ss; PADOVANI, Diritto
penale, cit. pag. 192 ss; ROMANO – GRASSO, Commentario sistematico del c.p. vol I art 43,
cit. pag. 384; PALAZZO, Diritto penale, cit. pag. 285; FIORE, Diritto penale, cit. pag. 247.
1
28
2. quella soggettiva, che richiede l’esigibilità dell’osservanza di tale
regola da parte dell’agente (e quindi l’attribuibilità al medesimo
dell’inosservanza). Deve cioè potersi muovere, un rimprovero
all’agente, per il comportamento tenuto nella situazione concreta.
Interessa ora analizzare la misura c.d. “oggettiva” della colpa e cioè la
violazione della regola cautelare di condotta.
La prima considerazione da fare è che i connotati che caratterizzano la colpa,
sul piano oggettivo, sono la prevedibilità e l’evitabilità dell’evento, nel senso
che alla base delle norme precauzionali di diligenza, prudenza o perizia
tendenti a scongiurare i pericoli connessi allo svolgimento delle diverse
attività umane, stanno regole di esperienza ricavate da giudizi ripetuti nel
tempo sulla pericolosità di determinati comportamenti e sui mezzi più adatti
ad evitarne le conseguenze. Sicchè le regole di diligenza vigenti nei vari
contesti sociali di riferimento rappresentano la cristallizzazione di giudizi di
prevedibilità ed evitabilità ripetuti nel tempo.
Se la prevedibilità e la evitabilità dell’evento, caratterizzano la colpa, sul
piano oggettivo, il giudizio di prevedibilità ed evitabilità dell’evento, deve
essere effettuato ex ante, in base al parametro oggettivo dell’homo eiusdem
condicionis et professionis, il che significa che la misura della diligenza, della
perizia, e della prudenza dovute, sarà quella del modello di agente che svolga
la stessa professione o stesso mestiere, lo stesso ufficio dell’agente reale.
L’orientarsi degli obblighi di diligenza, incombenti su ciascun consociato,
secondo lo standard oggettivo dell’homo eiusdem professionis et condicionis,
da un canto, consente a ciascuno, di agire con la sicurezza che non gli
29
verranno imputati eventi dannosi che dovessero verificarsi nonostante il
conformarsi della propria condotta a quella dell’agente modello, dall’altro,
autorizza ciascuno a fare affidamento sul fatto, che pure i soggetti, le cui
condotte venissero ad interagire con la propria, adegueranno il loro
comportamento agli standard oggettivi di diligenza dell’agente modello,
appartenente al medesimo circolo di rapporti cui gli stessi manifestano di
appartenere in dipendenza dell’attività esercitata.
In forza di detto affidamento quindi, ciascun consociato non è tenuto, quanto
meno come regola generale, ad orientare la propria condotta mettendo in
conto comportamenti illeciti altrui, ma deve limitarsi ad adottare le regole
cautelari atte ad evitare che dalla propria condotta derivino eventi dannosi ai
terzi.
Tuttavia, qualora si verifichino ipotesi, in cui il nesso di causalità fra una
certa condotta e l’evento, venga mediato dal comportamento illecito di un
terzo, astrattamente prevedibile, in presenza di quali presupposti, detta
prevedibilità, potrà far sorgere a carico di un certo soggetto, che con il terzo si
trovi ad interagire, particolari doveri di diligenza?
30
PARAGRAFO II: IL PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO NELL’ESPERIENZA
GIURIDICA TEDESCA
Sono state dottrina e giurisprudenza tedesca ad essersi occupate per prime
del principio di affidamento2 e dei suoi limiti. Nell’esperienza tedesca, il c.d.
Vertrauensgrundsatz (principio di affidamento) è stato enucleato ed
utilizzato sul terreno della colpa, per dare risposta al seguente quesito: vivere
in una società, può comportare la necessità di dover svolgere delle attività che
possono essere anche molto pericolose, ma nello stesso tempo molto utili,
nelle quali inevitabilmente ci si trova ad interagire con soggetti diversi.
Queste attività, debbono essere svolte rispettando, da parte di chi le esercita,
tutti quei doveri oggettivi di diligenza, prudenza, perizia, diretti a preservare
da lesioni i beni giuridici di volta in volta tutelati. Uno stesso obbligo di
diligenza, può essere indirizzato ad una pluralità di destinatari, il cui novero
può essere così ampio da identificarsi con la globalità dei membri della
collettività, ovvero obblighi di diligenza di diverso contenuto, possono far
capo a soggetti diversi, in rapporto al ruolo da ciascuno di essi rivestito nel
processo produttivo dell’evento che si tratta di impedire. Il problema, in un
Per quel che riguarda la genesi storica del principio di affidamento, tale espressione si deve
a Hermann Gülde, autore che tanto nel periodo del nazionalsocialismo quanto in epoca
successiva si occupa di problemi attinenti allo specifico tema della circolazione stradale. Egli
nel 1938 pubblica un articolo dal titolo di in equivoca significatività, vale a dire, il principio di
affidamento come criterio – guida del diritto della circolazione stradale. La locuzione de qua
viene coniata in stretta dipendenza con la trattazione di un problema che all’epoca comincia
ad affacciarsi con insistenza sempre maggiore: se cioè, il singolo partecipante al traffico
stradale debba costantemente mettere in conto, il che non può non riverberarsi sul quantum
di diligenza che gli viene richiesta, che gli altri partecipanti si comportino in modo
inavveduto, irragionevole, o comunque contrario alle regole del traffico. Contrapponendosi
all’orientamento dottrinale e soprattutto giurisprudenziale ancora dominante decisamente
incline alla soluzione affermativa, Gülde opta di massima a favore di una risposta negativa al
quesito.
2
31
caso e nell’altro, è quello di stabilire se, ed entro quali limiti, il singolo
soggetto, che si assume comunque destinatario autonomo di un dovere di
diligenza
proprio,
sia
tenuto
a
rispondere
delle
conseguenze
dell’inosservanza di un dovere di diligenza, da parte di altri con cui venga in
contatto.
Il primo settore nel quale dottrina e giurisprudenza tedesca si sono poste
questo problema, è stato quello della circolazione stradale e a tale problema,
hanno dato risposta utilizzando il principio di affidamento. In base ad esso,
ciascuno può normalmente confidare sul fatto che gli altri membri della
collettività con i quali entri in contatto si comportino in modo corretto,
osservando cioè i doveri di diligenza di cui sono rispettivamente destinatari,
fino a quando non sussistano indizi concreti che rendano riconoscibile il
contrario. In tale ultima evenienza, l’originario affidamento del primo deve
viceversa lasciare il posto ad un obbligo di adeguare la propria condotta, al
fine di neutralizzare i pericoli derivanti dall’altrui inosservanza, pena una
responsabilità, in concorso con l’autore di quest’ultima, in ordine alle
conseguenze che da detta, riconoscibile negligenza, sono scaturite. Viene così
rivendicata al principio di affidamento la funzione di consentire al singolo di
concentrarsi nel modo più adeguato, sugli obblighi che fanno effettivamente
capo a lui, sgravandolo dal compito di prevedere e prevenire gli
inadempimenti da parte di altri, di obblighi su di essi incombenti.
Successivamente, il principio in esame, è stato trasposto in quelle aree nelle
quali trova applicazione il principio della divisione del lavoro, prima tra tutte
l’attività medico -chirurgica.
32
Individuate nella dottrina e nella giurisprudenza tedesca, le matrici storiche
dell’elaborazione e della valorizzazione del principio di affidamento, quale
canone di distribuzione della responsabilità per colpa, nel concorso di una
pluralità di centri produttori di un medesimo evento dannoso, occorre
verificare se, ed in che modo, i contenuti essenziali di tale criterio, siano
filtrati anche nella nostra esperienza giuridica.
33
PARAGRAFO III: CIRCOLAZIONE STRADALE E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO
NELLA NOSTRA ESPERIENZA GIURIDICA
La circolazione stradale è una realtà molto pericolosa ma al tempo stesso
molto utile, così che l’ordinamento consente il suo svolgimento, ma obbliga
gli utenti della strada a conformare il proprio comportamento a numerose
norme di prudenza, diligenza e perizia scritte e non scritte, per tutelare beni
giuridici molto importanti, primi fra tutti la vita e l’incolumità fisica delle
persone stesse che prendono parte al traffico stradale.
Che ogni utente abbia l’obbligo, quindi, di rispettare quelle norme cautelari
che l’ordinamento direttamente a lui rivolge, sembra ovvio. Il problema,
invece, è quello di stabilire se l’utente abbia anche l’obbligo di prevedere i
comportamenti colposi, astrattamente prevedibili, degli altri consociati con i
quali venga ad interagire nel traffico stradale e quindi l’obbligo di attivarsi
per
neutralizzare
le
conseguenze
dannose
derivanti
dalle
altrui
manchevolezze, attraverso un aumento del quantum di diligenza dovuto.
Qualora il principio di affidamento, riuscisse a trovare concreta applicazione,
tenendo ben presenti quelle che sono le sue funzioni e cioè:
1. da un lato, l’affidamento, si pone a conferma del principio
costituzionale in forza del quale “ la responsabilità penale è personale”
(art 27.1º comma Cost.), per cui ciascuno è chiamato dall’ordinamento
a rispondere per i propri errori e non per gli errori altrui;
2. dall’altro, il principio di affidamento, permette al singolo di
concentrarsi nel modo più adeguato sugli obblighi che fanno
34
effettivamente capo a lui, sgravandolo dal compito di prevedere e
prevenire le inosservanze degli altri;
la soluzione sarebbe quella di ritenere che gli utenti della strada hanno il
dovere di osservare le norme del codice della strada, ma anche il diritto di
comportarsi sul presupposto che, anche gli altri, le osservino a meno che le
circostanze concrete siano tali da indicare che il comportamento del terzo,
non costituisce frutto di un’autodeterminazione responsabile. Ad esempio, da
parte di bambini che giocano sul marciapiede di una strada, da una persona
anziana che stà attraversando la strada e i cui riflessi siano visibilmente
appannati, da un’automobilista manifestamente ubriaco, non è legittimo
attendersi un comportamento perfettamente controllato3. La Corte di
Cassazione, ha statuito al riguardo che: “ il conducente di un veicolo, deve
tener conto delle eventuali e probabili anomalie ed irregolarità del
comportamento dei pedoni, che siano persone anziane e deve prospettarsi,
perciò, la possibilità che qualcuna di tali persone, scenda improvvisamente e
distrattamente dal marciapiede su cui era stata avvistata, per essere in grado
di adottare ogni necessaria cautela ed eseguire tutte le manovre che si
rendono in particolare opportune”. Nel caso di specie, un automobilista
mentre si accingeva a voltare a destra per portarsi nella zona di parcheggio,
andava ad urtare una viandante che era nel frattempo discesa dal
marciapiede e stava attraversando la sede stradale, per portarsi sul
marciapiede opposto. A seguito, dell’urto, la viandante che aveva più di 75
Nel senso che il principio dell’affidamento viene meno nei confronti di bambini o persone
anziane, Cfr., ad es., Cass. 5 ottobre 1972; Cass. 21 dicembre 1973, in Arch. Circol., 1974, p.
883; Cass. 3 settembre 1974, ivi, 1975, p. 480; Cass. 18 ottobre 1974, ivi, 1975, p. 731; Cass.
28 novembre 1975, ivi, 1977, p. 220; Cass. 4 marzo 1977, in Riv. Pen., 1977, p.912; Cass. 6
luglio 1977, in Arch. Circol., 1978, p.214
3
35
anni, cadeva pesantemente a terra e riportava gravi lesioni. Nel caso de quo,
l’automobilista, non avrebbe potuto invocare a sua discolpa il principio di
affidamento nei confronti dell’anziana signora, poiché, secondo i giudici, il
comportamento irregolare del pedone che sia persona anziana, e cioè il fatto
che il pedone scenda improvvisamente o distrattamente dal marciapiede su
cui sia avvistato, è fatto prevedibile, pertanto, l’automobilista ha l’obbligo di
adottare ogni necessaria cautela volta a neutralizzare i pericoli derivanti
dall’altrui imprudenza.
Sempre il S.C., ha affermato che “l’esistenza di un cartello indicatore di una
scuola impone, in ogni caso, l’obbligo di una velocità moderata,
indipendentemente dalle ore in cui, di solito, si svolgono le lezioni e dalla
presenza di scolari sulla strada. Nella circolazione stradale la condotta di
guida deve essere adeguata a tutte le circostanze ed i conducenti devono
tenere conto anche della imprudenza altrui, ragionevolmente prevedibile e
probabile”. Nel caso di specie, un uomo alla guida di un autocarro, in
prossimità di una scuola, aveva investito due ragazzi, i quali, rincorrendosi,
erano scesi dal marciapiede di destra, rispetto alla direzione di marcia
dell’autocarro. A causa delle gravissime lesioni riportate, i due ragazzi
decedettero. Anche in questo caso, il guidatore, non avrebbe potuto invocare
il principio di affidamento a sua discolpa nei confronti dei ragazzi, in quanto
il guidatore non può confidare sul fatto che dei ragazzi tengano un
comportamento perfettamente conforme alle regole di prudenza e diligenza,
ed ha l’obbligo di prevedere e prevenire le loro scorrettezze.
36
Ne consegue che, solo in simili ipotesi, gli altri utenti del traffico dovrebbero
regolarsi di conseguenza, onde evitare o ridurre il rischio di incidenti.
Il problema, pertanto, diviene quello di accertare se ne nel caso concreto, il
principio di affidamento, riesca a trovare effettiva applicazione.
Dall’esame di numerose sentenza della Corte di cassazione4 si è potuto
constatare che nel settore della circolazione stradale, sebbene il S.C., in una
non recente sentenza5, ha affermato che: “ in tema di responsabilità da
sinistri stradali, l’esatto principio secondo il quale il conducente di un
autoveicolo ha l’obbligo di prevedere le imprudenze altrui ragionevolmente
prevedibili e probabili, e non solamente possibili, deve contemperarsi con il
principio altrettanto esatto, che costituisce corollario e limite dell’obbligo
menzionato, dell’affidamento nell’altrui condotta di guida che abbia tutta
l’apparenza della normalità”, dimostrando, quindi, di riconoscere al principio
di affidamento la funzione di temperare l’obbligo di prevedere le imprudenze
altrui, di fatto, il principio in esame finisce sempre per essere disapplicato e
4
Cass. 27 ottobre 1992, Brilli, in Arch. Circolaz., 1993, 408; Cass., 21 gennaio 1998, Bruzzo, in Arch.
Circolaz., 1998, 559; Cass. Sez. IV, 19 dicembre 1996, Fundarò, in Arch. Circolaz. 1997, 600, nonché
in Dir. Pen. E proc., 1997, 961, con nata di PIRAS; Cass. Sez. IV, 4 febbraio 1991, Lubrano Lo
bianco, in Arch. Circolaz., 1992, 234; Cass., 10 aprile 1991, Luciano, in Arch. Circolaz., 1991, 814,
con nota di ALIBRANDI; Cass., 19 dicembre 1997, Iotti, in Arch. Circolaz., 1997, 903; Cass., 14
marzo 1991, Salzano, in Arch. Circolaz, 1992, 126; Cass., 8 novembre 1990, Bertolotti, in Arch,
circolaz., 1991, 298; Cass., 9 novembre 1989, Boscaini, in Riv. Pen., 1990, 1062; Cass., 1 marzo
1988, n. 400, Passeri, in Arch. Circolaz. 1988, 923 s.; Cass., 4 marzo 1991, Ricotta, in Arch.
Circolaz., 1992, 21; Cass., 22 febbraio 1991, n. 9782, Scuto, in Arch. Circolaz., 1992, 21 ss; Cass., 31
gennaio 1991, Oddera, in Arch. Circolaz., 1991, 754; Cass., 21 maggio 1991, Gelsi, in Arch.
Circolaz., 1992, 349; Cass., 17 gennaio 1992, Arata, in Arch, circolaz., 1992, 538; Cass., 3 aprile
1991, Moceri, in Arch. Circolaz., 1992, 18; Cass., 23 marzo 1992, Baldini, in Arch. Circolaz., 1992,
916; Cass., 18 gennaio 1990, Caglio, in Arch. Circolaz., 1991, 30; Cass., 9 novembre 1990, Pascali, in
Arch. Circolaz., 1991, 198; Cass., 9 febbraio 1988, n. 3110, Chiaia, in Arch. Circolaz., 1988, 931;
Cass. 24 gennaio 1994, Pirani, in Arch. Circolaz., 1995, 404; Cass., 2 dicembre 1988, Marras, Giust.
Pen. 1989, II, 694 s.; Cass, Sez. IV, 17 dicembre 1999, Lerede, CED Cass., n. 215663; Cass. Sez. VI,
7 dicembre 1979, n. 10593; Cass. Sez. IV, 3 dicembre 1979 n. 10277; Cass, Sez. IV, 25 ottobre 1979,
n. 8862 n. 1346; Cass. Sez., VI, 20 ottobre 1979, n. 8714; Cass. Sez. VI, 20 ottobre 1979, n. 8622;
Cass. Sez. VI, 8 ottobre 1979, n. 8106
5
Cass. pen. Sez. V, 6 marzo 1978 Del Mese pres.
37
si riconosce, invece, costantemente, l’esistenza in capo a ciascun partecipante
al traffico, dell’obbligo di prevedere le imprudenze altrui6.
La Suprema Corte, ad esempio, in tema di lesioni o omicidio colposi,
commessi con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione
stradale, ha ritenuto che “ è compreso nell’obbligo di tenere un
comportamento prudente ed accorto, da parte del conducente di un
autoveicolo, quello di prevedere le imprudenze altrui, ragionevolmente
prevedibili. Tale, deve considerarsi, l’inosservanza dell’obbligo di dare la
precedenza, da parte di chi, da una strada secondaria, s’immette su strada
privilegiata”. Nella specie, il conducente di una vettura, aveva investito un
ciclista, il quale era deceduto a seguito dell’investimento. I giudici
accertarono che l’incidente fu causato dalle condotte colpose sia dell’autista
che del ciclista. Il primo infatti era in colpa per aver impresso alla vettura una
velocità eccessiva e pericolosa. Il secondo, che da una strada secondaria si
doveva immettere su una strada privilegiata, era in colpa per non aver
osservato l’obbligo di dare la precedenza.
Sempre in materia di obbligo di dare la precedenza, la Suprema Corte ha
statuito che: “ il conducente che percorra una strada favorita dalla
precedenza non è esonerato dall’obbligo di moderare la velocità ai crocevia,
pur dovendosi tale obbligo considerare più elasticamente rispetto a quello dei
conducenti che procedano su strade non favorite. Invero, in ogni zona di
interruzione stradale è presente il pericolo di incidenti che si prospetta,
Sull’obbligo di prevedere e prevenire le imprudenze, che appaiano probabili, degli altri
utenti della strada (obbligo rientrante in quello più generale di prudenza e diligenza nella
circolazione stradale) la giurisprudenza è costante: Cfr: Cass. pen. 28 novembre 1975, ric.
Tagliavini; Cass. pen. 10 dicembre 1971, ric. Di Fiore; Cass. pen. 10 marzo 1971, Bivacqua;
Cass pen 19 novembre 1970 Cacciuto; Cass, pen. 28 febbraio 1969, ric Mucilli.
6
38
quindi, non eccezionale né abnorme né imprevedibile”. Ed ancora: “quando
al crocevia si pone un problema di precedenza tra due veicoli, il conducente
proveniente dalla destra, che gode della precedenza di diritto, non è
esonerato, per questo, dalla osservanza delle norme di comune prudenza,
sicchè, se il conducente di sinistra dimostra di non voler rispettare le priorità
di passo e impegna l’area del crocevia, egli è tenuto a rallentare e occorrendo
a fermarsi”. Sempre il S.C., ha affermato che: “ il conducente che si
approssima ad un crocevia, anche se favorito dal diritto di precedenza, deve
ispezionare la strada anche dal suo lato sinistro per l’eventualità che altro
conducente proveniente da quel lato non rispetti l’obbligo di cedergli il passo.
Invero, quando l’imprudenza altrui appaia già in atto per manifestazioni
esteriori o, comunque, si presenti ragionevolmente prevedibile, è dovere di
ogni utente della strada fare tutto il possibile per evitare eventi dannosi”.
Il S.C., ha statuito, poi, che “anche se in piena ora notturna e su strada in cui
non è consentito l’attraversamento pedonale, non è circostanza del tutto
imprevedibile che un pedone, violando il divieto, tenti di attraversare la
carreggiata, creando una situazione di grave pericolo per la propria ed altrui
incolumità”. Nel caso di specie un automobilista aveva investito un pedone
che a seguito dell’incidente era morto. Si accertò che l’incidente fu causato
dalle condotte colpose sia dell’autista che del pedone. Il primo era in colpa
per essere distratto alla guida dell’autovettura; per aver proceduto a velocità
non moderata, per non aver notato la presenza del pedone, che pure al
momento dell’investimento, aveva già attraversato un lungo tratto della
platea stradale. Il pedone era in colpa per aver effettuato l’attraversamento a
39
notte fonda, su strada a scorrimento veloce scarsamente illuminata e per di
più in un punto dove non era consentito il passaggio.
La suprema Corta ha affermato, inoltre, che “l’assenza di strisce pedonali non
può indurre a ritenere che nessun pedone si accingerà ad attraversare la
strada, giacchè è sufficiente un minimo di esperienza per conoscere
perfettamente l’effettiva realtà del traffico e sapere quanto spesso i pedoni
attraversano la strada indipendentemente dalle strisce”. Nel caso di specie, il
conducente di un autobus di linea aveva investito mortalmente un pedone
che attraversava la strada da sinistra a destra rispetto alla direzione
dell’autobus, che procedeva entro la sua corsia riservata. L’incidente era stato
concausato dalla condotta colposa sia dell’autista che del pedone. Il primo era
in colpa per aver omesso di ispezionare attentamente tutto il tratto di strada
che stava per impegnare, il secondo per aver attraversato la strada in un
tratto dove l’attraversamento non era consentito.
Ed ancora, il S.C., ha ritenuto che “in tema di circolazione stradale, il
repentino arresto del veicolo che precede costituisce non un fatto
straordinario ed eccezionale ma una circostanza ben prevedibile da parte del
conducente del veicolo che segue, il quale pertanto, deve adeguare la propria
condotta di guida, all’eventuale situazione di pericolo, derivante dal
verificarsi della predetta circostanza”. A tale affermazione consegue
l’esclusione dell’operatività del principio di affidamento. Ancora una volta è
la
prevedibilità
del
comportamento
illecito
del
terzo
a
prevalere
sull’affidamento nel corretto comportamento altrui.
40
Dall’esame della casistica si è evinto che la giurisprudenza non esita ad
assumere le parti del pedone, o del ciclista, o del motociclista “soggetti
deboli” del traffico, rispetto all’automobilista. Pertanto è la regola di condotta
dell’automobilista
a
doversi
modellare
sulla
prevedibilità
dell’altrui
comportamento negligente7.
Si intuisce facilmente che un orientamento di tal tipo nega qualunque
legittimazione al principio di affidamento, non solo perché vi è sempre il
dovere di prevedere e prevenire il comportamento scorretto altrui, ma anche
perché, sulla base dei casi esaminati, si configura sempre la violazione di una
norma cautelare volta a prevenire incidenti del tipo di quello che si è
verificato da parte di tutti coloro che hanno concausato l’incidente. Ne
consegue che qualora l’utente della strada, violi di per sé una norma
cautelare, non potrà invocare a sua difesa il principio de quo e ciò perché chi
invoca l’osservanza delle cautele doverose da parte di terzi non deve versare a
sua volta in colpa.
Ecco allora individuato un ulteriore limite al principio di affidamento, infatti
il criterio in questione ha la funzione di delimitare gli obblighi di diligenza
che un soggetto è tenuto ad osservare, ma non si può dilatare fino al punto da
ritenere che si possa agire imprudentemente affidandosi alla diligenza altrui.
In tal senso confronta DI GIOVINE , il contributo della vittima nel delitto colposo cit. pag.
26 ss.
A riguardo, la Corte di Cassazione ha statuito che “ rientra tra i doveri di comune prudenza
l’obbligo per ogni utente della strada di prevedere le imprudenze altrui; tale obbligo è
peraltro riferibile alle imprudenze ragionevolmente prevedibili ed apprezzabilmente
probabili”. Ed ancora:“il conducente di un veicolo deve tener conto del comportamento
imprudente altrui quando esso si presenti ragionevolmente prevedibile ed è tenuto a
preoccuparsene in maniera particolare quando esso appare già in atto da manifestazioni
esteriori”. Infine: “ costituisce dovere dei conducenti di veicoli rivolgere la propria attenzione
non solo al traffico che si svolge innanzi e sulla strada, bensì a quanto accade ai margini,
onde prepararsi a fronteggiare qualsiasi evenienza”.
7
41
A tale impostazione giurisprudenziale, aderisce anche quella parte della
dottrina8 che sostiene rientrare nei normali doveri di prudenza, l’obbligo di
prevedere
le
imprudenze
altrui,
ragionevolmente
prevedibili
ed
apprezzabilmente probabili.
A determinare tale regola, è la constatazione che, secondo una valutazione
ricavata dalla comune esperienza, le prescrizioni che disciplinano il traffico,
assai spesso non vengono osservate, e ciò comporta il pericolo della
verificazione di incidenti, con conseguente pregiudizio in danno dei beni
giuridici facenti capo a quanti vi sono coinvolti. Proprio per fronteggiare
questa evenienza, il cui grado di riscontro statistico è così alto, da farla
risultare come probabile, e come tale, prevedibile, si fa carico, anche
all’automobilista, che procede nello scrupoloso rispetto delle norme sulla
circolazione, di adattarsi all’ipotesi che con la sua condotta, vengano ad
interferire probabili e quindi prevedibili imprudenze altrui, non importa se
già avvenute o ancora da venire.
Altra parte della dottrina9, sostiene invece che l’obbligo di prevedere le
imprudenze altrui sussisterebbe, con tutte le sue conseguenze relative alla
responsabilità civile, penale per delitto, e penale per contravvenzione, solo in
quei casi eccezionali, nei quali la legge, impone una particolare prudenza.
Alcuni esempi di norme di tal tipo, ci sono offerti dal codice della strada, basti
pensare all’art. 145, che stabilisce che “i conducenti, approssimandosi ad una
intersezione, devono usare la massima prudenza al fine di evitare incidenti”.
Cfr. DUNI, l’obbligo di prevedere le imprudenze altrui, in Riv, giur. Circ. trasp. 1964 317 ss;
CONTRA MANTOVANI, il principio di affidamento.. cit. pag. 186 ss
9
Cfr. PANNAIN, intervento all’XI Convegno delle commissioni giuridiche dell’A.C.S., Napoli,
29 maggio 1964
8
42
Posto che la norma stabilisce che, quando due veicoli stanno per impegnare
una intersezione, ovvero, laddove le loro traiettorie stiano comunque per
intersecarsi, si ha l’obbligo di dare la precedenza a chi proviene da destra, c’è
da chiedersi quale sia la ragione che ha indotto il legislatore a richiedere
“massima prudenza” anche al conducente “privilegiato”, ovvero con il diritto
di precedenza. Questa ragione, sembra ravvisabile, nella volontà di evitare
incidenti, essendo molto frequente, e la comune esperienza lo dimostra, che
gli utenti della strada, contravvengono a detto obbligo. Se ciò è vero, il
conducente privilegiato non potrà di certo confidare sul fatto che, raggiunto
un crocevia, chi ne ha l’obbligo, gli darà, senza dubbio, la precedenza. Detto
affidamento, viene escluso a priori dallo stesso art. 145 c.s, laddove richiede
anche al conducente con diritto alla precedenza, la massima prudenza.
Oppure si pensi all’art 147 cod. strad. che stabilisce che “gli utenti della
strada, approssimandosi ad un passaggio a livello, devono usare la massima
prudenza al fine di evitare incidenti”, oppure alla norma che stabilisce che “la
luce gialla lampeggiante prescrive di usare prudenza e diminuire la velocità”.
Le considerazioni fatte in relazione all’art 145 c.s, possono essere ripetute a
proposito delle due norme ora menzionate.
La teoria appena
esaminata, non
viene di certo
condivisa
dalla
giurisprudenza. Se è vero, infatti, che una norma cautelare richiede massima
prudenza quando, sulla base dell’esperienza è prevedibile e probabile che un
terzo disattenda la norma stessa, è anche vero che, come si evince dai casi
pratici che sono stati esaminati, la giurisprudenza ha ritenuto sussistere
l’obbligo di prevedere il comportamento illecito altrui, anche in quelle ipotesi
43
nelle quali, non era possibile chiamare in causa, norme scritte che
richiedessero all’agente di usare la massima prudenza.
Chi scrive, è del parere che porre come regola, l’obbligo di prevedere le
imprudenze altrui, seppure ragionevolmente prevedibili, possa portare a
degli inconvenienti. Rivolgere, infatti, all’utente della strada la richiesta di
prevedere le imprudenze altrui, significa presupporre che gli altri utenti della
strada, con i quali il primo si troverà ad interagire, molto probabilmente, anzi
quasi sicuramente, non rispetteranno le regole di prudenza, diligenza,
perizia, che l’ordinamento loro impone, nell’ambito di questo settore. Se
questo è vero, verrebbe meno la funzione di prevenzione delle norme
contenute nel codice della strada, anzi, le stesse finirebbero per risultare
inutili, infatti a cosa servirebbe una norma se molto probabilmente, anzi
quasi certamente, la stessa verrà disattesa, tanto da dover addossare a
soggetti diversi dai destinatari di queste norme, l’obbligo di predisporre
misure dirette a prevenire gli effetti della loro (quasi scontata) inosservanza?
Non solo, ma assumendo a regola un tale obbligo, si andrebbero a favorire
proprio gli utenti della strada che non rispettano le norme di prudenza.
Questi ultimi infatti, potrebbero sempre contare sul fatto che altri, in loro
vece, adempiano, appunto in forza della regola in questione, all’obbligo di
neutralizzare le conseguenze del proprio comportamento difforme da tali
prescrizioni. Si verrebbero paradossalmente a creare le premesse per
l’insorgere,
in
dell’aspettativa
capo
che
ai
ci
destinatari
si
potrà
delle
pure
norme
discostare
sulla
dalle
circolazione,
indicazioni
comportamentali contenute nelle disposizioni del Codice della Strada,
44
potendosi in ogni caso contare, sul fatto che gli altri utenti del traffico,
ottempereranno al proprio obbligo di prevedere e prevenire precisamente le
imprudenze altrui.
Si può inoltre rilevare che assumendo come regola, l’obbligo di prevedere le
imprudenze altrui, si finirebbe per violare, il principio costituzionale che
stabilisce che la responsabilità penale è personale.
Da ultimo, è stato osservato che un tale obbligo, collide in modo palese con le
risultanze acquisite dalla dogmatica della colpa. Infatti ai fini della
configurabilità della colpa, è necessaria la presenza di circostanze concrete,
che valgano a rendere riconoscibile, il pericolo della lesione di beni giuridici,
e, pertanto, ad attualizzare il dovere di evitarlo. Un dovere di evitare le
conseguenze di imprudenze altrui, che si fondi esclusivamente sull’assunto,
che le violazioni delle regole della circolazione raggiungono un grado
statisticamente tanto rilevante, da renderle probabili e, per questo
prevedibili, da luogo invece ad un giudizio di prevedibilità formulato in
astratto.
Nel settore della circolazione stradale, in definitiva, il principio di
affidamento non riesce mai a trovare concreta applicazione, per lo meno nelle
ipotesi di concausazione colposa. Resta, tuttavia, da analizzare se il principio
in esame trovi applicazione nelle ipotesi di cooperazione colposa che si
possono configurare nel settore della circolazione stradale, si pensi ad
esempio all’ incauto affidamento di veicolo a persona sprovvista di patente di
guida, o ad una gara di velocità non autorizzata. Tale analisi viene però
45
rinviata ad altra parte dell’opera, dovendo prima completare la struttura della
cooperazione colposa.
Tuttavia, prima ancora di proseguire nell’analisi delle cooperazione colposa,
attraverso la ricerca del secondo criterio (secondo, poiché il primo già è stato
individuato nella causalità condizionale del contributo di partecipazione
rispetto all’evento) di tipizzazione della condotta di partecipazione, è
doveroso concludere l’esame del principio di affidamento, che si fa più
interessante in quelle attività dominate dal principio della divisione del
lavoro, e cioè l’attività medico – chirurgica in équipe, da un lato, ed il settore
degli infortuni sul lavoro, dall’altro.
46
PARAGRAFO IV: IL PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO NEL RAPPORTO TRA
DATORE DI LAVORO E LAVORATORE
Nel settore degli infortuni sul lavoro, il diritto penale ha per scopo la tutela di
beni giuridici (vita, incolumità, sicurezza del prestatore d’opera) e poiché
questi si trovano affidati alle scelte dell’imprenditore, dalle quali dipende la
loro reale salvaguardia, l’imprenditore stesso, ha due possibili strade:
o far fronte direttamente e in prima persona a tutti gli obblighi che
l’ordinamento pone, soggiacendo a tutte le responsabilità per gli eventuali
scostamenti dai modelli di rispetto e diligenza, oppure creare centri autonomi
di garanzia, attribuendo ad altri, nell’ambito di specifiche competenze, il
potere di concorrere ad integrare le decisioni che innervano l’attività
d’impresa. Solo in quest’ultimo caso si potrà porre un problema di esonero
parziale o totale della responsabilità del garante primario.
Qualora il datore di lavoro, dovesse percorrere questa seconda strada, si
troverà a fare i conti con la delega di funzioni, aventi penalistico rilievo,
all’interno dell’organizzazione aziendale.
Il problema della delega di funzioni, tuttavia, è anche strettamente connesso
al fenomeno della cooperazione colposa, ed infatti, la delega è idonea a
generare ipotesi di responsabilità concorsuale, in quanto, per effetto della
stessa, più persone vengono, in qualche modo, coinvolte in una medesima
attività. Pertanto, volendo analizzare la relazione che intercorre tra delega di
funzioni e principio di affidamento, e non essendo questa la sede più
47
opportuna per farlo, poiché non è stato terminato l’esame della struttura
della cooperazione colposa, si rinvia l’analisi ad altra parte dell’opera.
Qualora, invece, il datore di lavoro, decida di percorrere la prima strada, i
problemi da risolvere sono due: individuare gli obblighi che il legislatore gli
pone a carico e stabilire se una volta adempiuto a tali obblighi, nel caso in cui
si verifichi un infortunio sul lavoro in danno di un suo dipendete, il datore di
lavoro possa difendersi invocando il principio di affidamento nei confronti
del lavoratore.
Quello che si vuole chiarire è se, il principio di affidamento, possa valere ad
escludere la colpa del datore di lavoro, nell’ipotesi in cui, un suo dipendente,
si procuri lesioni personali o addirittura perda la vita a seguito di un
incidente avvenuto sul posto di lavoro e durante l’orario di lavoro.
Per quel che riguarda il primo problema, il dovere di sicurezza di cui è
soggetto passivo il datore di lavoro, in base all’art. 2087 c.c (il cui contenuto è
specificato sia dall’art. 4 del d.p.r. n. 547/55; sia dall’art. 4. del d. lgs. n.
626/94, in generale e dalle norme sui decreti sulla prevenzione degli
infortuni, in particolare), si può sintetizzare in tre ordini di comportamenti:
1. predisporre misure e mezzi di prevenzione infortuni;
2. impartire ordini precisi ai dipendenti in relazione all’uso dei medesimi
e rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti
nell’esecuzione del lavoro;
3. vigilare perché i mezzi antinfortunistici vengano usati (cinture, caschi,
ecc..) o non disinseriti.
48
Per quel che riguarda il secondo problema, si potrebbe ritenere che l’aver
ottemperato puntualmente a questi obblighi, consenta di escludere la
responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio.
Solo se il datore di lavoro non adempia ad uno dei suoi doveri, sarà possibile
ravvisare la sua colpa che potrà concorrere con quella del lavoratore qualora
questi abbia a sua volta messo in atto una condotta imprudente o negligente.
Qualora il datore di lavoro, quindi, abbia adempiuto a tutti gli obblighi di
sicurezza di cui il legislatore lo grava, sarà legittimo, da parte sua, confidare
nel fatto che i propri dipendenti tengano un comportamento prudente,
diligente e conforme agli obblighi a loro imposti dall’art. 6 del d.p.r. 547 del
55 e dall’art. 5 del d.lgs 626 del 94, senza avere l’obbligo di intervenire per
eliminare le conseguenze delle loro inosservanze.
Tuttavia dall’esame di varia casistica10, si è potuto concludere che il principio
di affidamento non riesce mai a trovare concreta applicazione e ciò per due
ordini di ragioni:
Cfr: Cass. Sez. lav. 17.04.2004 n. 7328; Cass., 19 giugno 1964, Nannotti ed altro, in Giust,
pen., 1965, 2, 47, la quale specifica che l’idoneità dell’inosservanza dell’art. 6, d.p.r. n. 547 del
1955 a costituire in colpa il lavoratore, configurando il comportamento di lui come causa
concorrente alla produzione dell’evento dannoso, “ non esime da responsabilità il datore di
lavoro già in colpa per non avere adottato le misure antinfortunistiche imposte da norme
giuridiche o di comune prudenza, che devono sempre adottarsi per la sicurezza individuale e
collettiva dei lavoratori, qualunque possa essere il loro comportamento in relazione agli
obblighi che incombono anche a loro”; Cass., 1 giugno 1993, Pannicelli, in Mass. Cass. Pen.,
1993, fasc. 12, 84; Cass., 31 maggio 1963, in Mass. Giur. Lav., 1964, 60; Cass., 5 gennaio 1999,
Caldarelli, in CED Cass., n. 214246; Cass., 27 settembre 1995, Bardelli, in CED Cass., n.
204051; Cass., 28 aprile 1981, n. 7402, Gramigna, CED Cass., n. 167679; Cass., 27 novembre
1996, Maestrini, in CED Cass., n. 206990; Cass., 3 ottobre 1990, Mindala, in Riv. Pen. 1991,
869: Cass., 15 dicembre 1989, Degola, in Riv. Trim. dir. Pen. Econ., 1991, 279 s., con nota di
CATALIOTTI; Cass., 15 febbraio 1991, Invernicci, in riv. Pen. 1991, 910; Cass., 18 ottobre
1990, Chiavazza, in riv. Pen., 1991, 869; Cass., 6 luglio 1993, Giuva, in Mass. Cass. pen., 1994,
fasc. 2, 100. Cass., 27 ottobre 1989, Amendola, in Riv. Pen., 1991, 214; Cass., 1 ottobre 1990,
Di Niro, in Giust. Pen., 1991 II, 303; Trib. Perugia, 3 febbraio, 1993, Colleoni, in Rass. Giur.
Umbra, 1994, 153, n. ANGELINI; Cass., 25 settembre 1995, Dal Pont, in CED Cass., n.
203223; Cass., 14 giugno 1996, Ieitano, in CED Cass., n. 206012; Cass., 9 otobre 1992,
Gesess, in Giur. It., 1994, II, 264; Cass., 19 febbraio 1990 n. 6504, Conca, in CED Cass., n.
10
49
da un lato, poiché è sempre configurabile da parte del datore di lavoro, la
violazione di qualche norma di sicurezza, per cui non può invocare
l’affidamento chi, con una sua condotta già autonomamente qualificabile
come negligente, imprudente o imperita, ha provocato egli stesso, una
reazione scorretta da parte di un terzo. Dall’altro, l’applicabilità del principio
di affidamento alla materia degli infortuni sul lavoro, trova ostacolo in una
delle eccezioni che alla sua operatività è costantemente opposta, quella per
cui, non può affidarsi al corretto comportamento di determinati soggetti, chi
è titolare di una posizione di garanzia, avente per contenuto, il proprio
controllo della rispondenza delle loro condotte alle regole di diligenza, delle
quali, i medesimi, sono destinatari.
È evidente, infatti, che tale obbligo risulti incompatibile con quell’effetto di
esonero dal controllo della conformità di comportamenti di terzi alle norme
di diligenza loro indirizzate che deriva dall’operatività del principio di
affidamento.
Sicchè, il responsabile della sicurezza, e cioè il datore di lavoro, non può
invocare a propria scusa il principio di affidamento, in quanto assume il ruolo
di garante dell’effettivo rispetto delle prescrizioni di sicurezza da parte del
lavoratore. È proprio rilevando una posizione di garanzia in capo al datore di
lavoro che in molte sentenze, i giudici sia di merito che di legittimità, hanno
escluso, esplicitamente o implicitamente, l’applicabilità del principio di
affidamento alla materia degli infortuni sul lavoro. Così, ad esempio, i giudici
184234; P. Brescia 21 marzo 1994, Fedriga, in Riv. Trim. dir. Pen. Econ., 1994, 1184; Cass., 3
giugno 1999, Grande, in CED Cass., n. 214998; Pret. Brescia, 18 aprile 1994, Faraglia, in Riv.
Trim. dir. Pen. Con., 1995, 377.
50
di merito, hanno ritenuto che “ è responsabile del reato di omicidio colposo il
dirigente, direttore tecnico di stabilimento che omettendo di istruire i
lavoratori e di operare concretamente affinchè il lavoro non si svolga in
condizioni pericolose per l’incolumità dei lavoratori stessi, abbia cagionato la
morte di uno di questi, dal momento che trattasi di violazione di cautela,
causalmente connessa all’evento letale ascritto, di carattere strutturale in
quanto afferente al generale obbligo di organizzare il lavoro in termini di
massima sicurezza che incombe, in base alla norma fondamentale dell’art.
2087 c.c., al datore di lavoro e dunque al suo alter ego dirigente”. Nel caso di
specie, il dirigente non avrebbe potuto invocare il principio di affidamento
nei confronti del lavoratore, rivestendo una posizione di garanzia e di
protezione nei suoi confronti ed avendo violato una regola cautelare, volta a
prevenire eventi del tipo di quello che, in concreto, si era verificato. Per cui,
non può fare affidamento sulla diligenza altrui, chi versa in colpa.
La Corte di Cassazione, ha affermato, inoltre, che: “l’avvenuto affidamento,
da parte dei vari destinatari delle norme antinfortunistiche, alla prudente
discrezionalità di operai esperti di quanto indispensabile all’adozione delle
cautele di prevenzione non può, in caso di evento colposo, costituire motivo
per l’esonero di responsabilità”. Ancora il S.C. ha ritenuto che “il datore di
lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche e garante della sicurezza
dei lavoratori, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento
del dipendente sia abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento
imprudente del lavoratore che o sia stato posto in essere da quest’ultimo del
tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e,
51
pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro, o rientri nelle
mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa radicalmente,
ontologicamente lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti
scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro”. Nella specie, la suprema
Corte ha ritenuto non abnorme, ma al più imprudente, l’uso di un carrello
inidoneo, da parte del lavoratore, nell’esercizio delle mansioni affidategli, non
essendo imprevedibile che un lavoratore, incaricato di sistemare rotoli di
tessuto di particolare altezza, e quindi particolarmente ingombrante se posati
orizzontalmente, possa decidere di metterli in posizione verticale. Anche in
questo caso, il datore di lavoro, non avrebbe potuto invocare il principio di
affidamento a sua discolpa, poiché in qualità di garante della sicurezza del
lavoratore, avrebbe dovuto prevedere e prevenire le conseguenze dannose
della sua imprudenza.
Conclusioni simili non sembrano, tuttavia, condivise da quella parte della
dottrina11 che ritiene diversa la posizione dei lavoratori nel quadro delineato
dal d. lgs. n. 626/94 rispetto a quella risultante dal d.p.r. n. 547/1955 .
Nell’ambito del d.p.r. n. 547/55, secondo la dottrina in esame, da un lato, il
lavoratore era delineato in termini di mero soggetto passivo della
prevenzione e si trascurava quasi del tutto la sua capacità di fronteggiare i
pericoli connessi all’attività lavorativa. Dall’altro, si sanciva il c.d. principio
della protezione oggettiva del lavoratore in forza del quale ai responsabili
della sicurezza spettava anche il compito di proteggere il dipendente nei
Cfr: MANTOVANI, responsabilità per inosservanza degli obblighi istituiti dal d. lgs. n. 626
del 1994 e principio di affidamento, cit. pag. 290 ss.; Cfr, altresì DIGIOVINE, il contributo
della vittima nel delitto colposo, cit. pag. 83 ss.
11
52
confronti degli effetti delle sue imprudenze e della sua inosservanza alle
norme antinfortunistiche.
Invece, con il d.lgs. 626 del 94. sarebbero stati forniti al lavoratore i mezzi per
meglio gestire, da sé, la propria tutela nei confronti dei fattori di rischio
immanenti al contesto lavorativo nel quale opera. Il prestatore di lavoro
sarebbe ormai chiamato, ufficialmente e compiutamente, ad uscire dalla sua
inerzia di titolare del credito di sicurezza, il cui soddisfacimento è comunque
autonomamente garantito e rafforzato, ed a farsi soggetto della sicurezza
individuale e collettiva.
Orbene, pur rimanendo in capo al datore di lavoro, l’obbligo di controllo circa
l’effettiva osservanza da parte dei lavoratori delle norme di sicurezza loro
indirizzate, risulterebbe evidente, secondo la dottrina in esame, che la
formazione ricevuta dal lavoratore (ed infatti alla luce degli artt. 21 e 22 d.
lgs. 626 del 94, al lavoratore è garantita non soltanto l’informazione sui rischi
generici e specifici ai quali è esposto nello svolgimento della prestazione, ma
anche una specifica formazione in tema di sicurezza, calibrata sulle precise
mansioni alle quali è addetto), accrescendone l’idoneità all’osservanza delle
misure prescritte, possa legittimamente far nascere un affidamento in ordine
al fatto che egli tenga un contegno conforme a sicurezza.
In questo contesto, quindi, il principio di affidamento, lungi dal rimuovere
l’obbligo di sorveglianza gravante sul datore di lavoro, ne presupporrebbe
l’assolvimento mediante istruzioni dirette ad ottenere dai lavoratori il
rispetto degli standards di sicurezza prescritti dalla legge.
53
A queste conclusioni, d’altra parte, la stessa Corte di Cassazione era giunta in
una precedente sentenza del 1993, che, a quanto consta, rappresenta l’unico
caso in cui si è fatta applicazione espressa del principio di affidamento alla
materia degli infortuni sul lavoro12.
In quell’occasione, in particolare, il Supremo Collegio aveva affermato che i
responsabili dell’organizzazione, una volta che abbiano predisposto nel
migliore dei modi le operazioni da compiere per l’esecuzione del lavoro
impartendo le dovute istruzioni sul perfetto modo di eseguirlo, “hanno
motivo per contare sull’esatto adempimento dell’obbligazione di lavoro da
si fa riferimento a Cass. 9 febbraio 1993, ric. Giordano, in Riv. Trim. Dir. Pen. Eco. 1995,
101, con nota di VOLPE, Infortuni sul lavoro e principio di affidamento.
Nel caso di specie si era verificato nel deposito costiero dell’Agip, una violenta esplosione,
valutata pari a quella di 10 – 15 tonnellate di tritolo, a seguito della quale si era sprigionato
un incendio di vastissime proporzioni che aveva interessato gran parte dell’area del deposito
medesimo e che aveva cagionato notevolissimi danni a persone e cose in una ampia zona del
territorio napoletano. Avevano perso la vita due dipendenti della società, tali Cozzuto
Antonio e Capace Arturo, addetti al turno di notte per le operazioni di scarico della benzina
“super” della nave cisterna Agip – Gela, e quattro donne abitanti in case vicine interessate
dall’onda d’urto. Disposta una perizia, il collegio dei periti aveva individuato con certezza la
dinamica del sinistro. Avevano rilevato i periti che le derivazioni di adduzione della benzina
“super” dei serbatoi di stoccaggio erano state ritrovate in un assetto diverso da quello che le
stesse avrebbero dovuto avere, secondo il programma di riempimento prestabilito dai
responsabili. Erano state, infatti, rinvenute aperte entrambe le linee di alimentazione ai
serbatoi n. 17 e n. 18 e siffatta situazione, stando al programma, si sarebbe dovuta verificare
solo per un arco di tempo di una decina di minuti, introno alle 3 della stessa notte, ora in cui
i due operai tankisti Cozzuto e Capace avrebbero dovuto aprire la linea di adduzione al
serbatoio n. 18 e chiudere, dopo qualche minuto, quella al serbatoio n. 17. Questa operazione,
però non era stata compiuta, sicché, nelle due ore successive, nella linea di alimentazione al
serbatoio n. 17 aveva continuato ad affluire la benzina che, ad un certo punto, aveva preso a
tracimare e a cadere, dalla sommità del serbatoio, sita ad oltre 15 metri di altezza dal suolo, ai
piedi dello stesso serbatoio, in una vasta superficie. Si era prodotta, quindi, una intensissima
accumulazione di vapori di benzina: una causa di innesco non individuato ne aveva
provocato l’improvvisa accensione e la violenta deflagrazione.
Orbene, nella specie, se la posizione gerarchica dei responsabili dell’organizzazione:
Migliardini, Onza, Galieni, era tale, in astratto, da consentire la sorveglianza dell’operato
degli operai Cozzuto e Capace, non sussistevano davvero ragioni soggettive o oggettive che
facessero dubitare che il Cozzuto ed il Capace avrebbero fatto il loro dovere. I due operai
infatti, erano altamente specializzati ed erano stati posti nelle condizioni migliori, anche con
riguardo al numero, per svolgere il loro lavoro, che sarebbe consistito, nel suo momento più
delicato, in una operazione di nessuna difficoltà.
I responsabili dell’organizzazione, dunque, facendo leva sul principio dell’affidamento, non
avevano alcun valido motivo per sospettare che quei lavoratori, dotati di particolare
competenza, sarebbero venuti meno all’elementare dovere di stare svegli nel momento della
esecuzione di quella tutt’altro che difficile manovra di chiusura di un rubinetto e di apertura
di un altro rubinetto.
12
54
parte dei lavoratori e per attendersi da costoro l’uso della normale diligenza
nell’eseguire l’operazione”. “Ed infatti”, ha continuato la Cassazione, “se il
lavoratore ha diritto di aspettarsi che il datore di lavoro lo metta nelle
condizioni migliori per lavorare, il datore di lavoro ha, dal canto suo, il pari
diritto di fare affidamento sull’esatto adempimento da parte del lavoratore
del proprio dovere”.
Tuttavia, tale orientamento non ha avuto seguito, tanto è vero, che la
sentenza
in
esame
rappresenta
un
caso
isolato
nel
panorama
giurisprudenziale.
Non solo, ma la Corte di Cassazione, in una recente sentenza 13, dopo aver
ribadito che gli obblighi in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro,
non si esauriscono nell’apprestamento delle attrezzature necessarie a detto
scopo ma si estendono alla costante vigilanza volta a prevenire e in ogni caso,
a fare tempestivamente cessare, eventuali manomissioni da parte dei
dipendenti, ha chiaramente affermato che non può tenersi conto alcuno di
quelle sollecitazioni che da parte di autorevole dottrina sono state avanzate in
ragione della disciplina dettata dal d. lgs. 626/94 che ha riconosciuto
espressamente il ruolo essenziale della corresponsabilizzazione del lavoratore
nella gestione della sicurezza nei luoghi di lavoro, affermando espressamente
che i lavoratori contribuiscono, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti ed ai
preposti, all’adempimento di tutti gli obblighi imposti dall’autorità
competente o comunque necessari per tutelare la sicurezza e la salute dei
lavoratori durante il lavoro. La Corte, in definitiva, ha escluso che il
13
Cfr: Cass. 21 maggio 2002, n. 7454
55
lavoratore possa ritenersi corresponsabile, insieme al datore di lavoro, della
sicurezza nei luoghi di lavoro. Egli rimane in ogni caso “creditore di
sicurezza”.
L’orientamento costante della Corte di Cassazione, inoltre, anche dopo
l’entrata in vigore del d. lgs. 626 del 94, è sempre nel senso di ritenere che la
funzione delle norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro
è quella di impedire l’insorgenza di situazioni pericolose e di tutelare il
lavoratore non solo dai rischi intrinsecamente connaturali all’esercizio
dell’attività lavorativa, ma anche a quelli conseguenti alla sua disattenzione
nonché a quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello
stesso prestatore d’opera, la cui incolumità deve sempre essere tutelata,
addirittura contro la sua stessa volontà. Così, il Tribunale di Perugia, ha
ritenuto che “ spetta al datore di lavoro la predisposizione di dispositivi di
sicurezza che superino anche l’imprudenza e la disattenzione del lavoratore e
che lo obblighino a condotte sicure. Le misure antinfortunistiche devono
essere imposte e osservate dal datore di lavoro anche contro la volontà ed i
rischi di condotte imprudenti da parte del dipendente. Non si può, pertanto,
ritenere che la mera attività informativa possa essere sufficiente ad escludere
responsabilità per il datore di lavoro e per i preposti alla sicurezza”. Nella
specie, la disattivazione di fotocellule di cui era stato fornito il macchinario
della casa costruttrice aveva consentito che il lavoratore entrasse nel raggio di
azione della macchina stessa mentre questa era in movimento. Anche i
giudici di legittimità, hanno ritenuto che “la normativa antinfortunistica mira
a salvaguardare l’incolumità del lavoratore non soltanto dai rischi derivanti
56
da accidenti o fatalità ma anche da quelli che possono scaturire da sue stesse
avventatezze, negligenze e disattenzioni, purchè normalmente connesse
all’attività lavorativa, cioè non abnormi e non esorbitanti dal procedimento di
lavoro.” Ed ancora sul punto: “ le norme di sicurezza dettate a tutela
dell’integrità fisica del lavoratore, devono essere attuate anche contro la
volontà dello stesso; si risponde della omissione anche se il lavoratore,
colpevolmente, trascura le norme o le disposizioni impartite, né rileva che il
lavoratore infortunatosi sia professionalmente qualificato, sia pure a livello
corrispondente a quello cui è affidato il controllo dell’applicazione delle
misure di prevenzione”.
Pare certo che i giudici di legittimità e di merito, sono pervenuti a tali
orientamenti per una serie di motivi emersi dall’osservazione e valutazione di
dati socio – economici che possono essere così sintetizzati:
1. l’abitudine ad un determinato lavoro, anche se pericoloso, porta
inevitabilmente l’agente a sottovalutare la reale entità del rischio, a
non individuare tempestivamente i pericoli, ad allentare l’attenzione,
specie se il lavoro comporti automaticità di movimenti;
2. la difficoltà dell’operazione che si stà compiendo, magari delicata e di
responsabilità, per la quale un errore può determinare un danno
rilevante all’imprenditore, concentra l’attenzione dell’agente sullo
svolgimento del lavoro, sottraendola totalmente ai pericoli connaturati
a quella attività lavorativa;
3. la corretta valutazione del coinvolgimento delle parti contraenti
(datore di lavoro e lavoratore subordinato) e l’alea cui ognuno di
57
queste è sottoposta (l’una di tipo economico e l’altra di natura
squisitamente personale) comporta il trasferimento sull’imprenditore
della responsabilità di quanto accade nell’impresa a danno del
lavoratore.
Ne consegue che il datore di lavoro “è sempre responsabile dell’infortunio
occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure
protettive, sia quando non accerti e vigili che, di queste misure, venga fatto
effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun
effetto esimente per l’imprenditore, che abbia provocato un infortunio sul
lavoro, per violazione delle relative prescrizioni, all’eventuale concorso di
colpa del lavoratore, atteso che la condotta del dipendente, può comportare
l’esonero totale del datore di lavoro da responsabilità, solo quando essa
presenti i caratteri dell’abnormità, dell’opinabilità ed esorbitanza, rispetto al
procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell’atipicità ed
eccezionalità,
così
da
porsi
come
causa
esclusiva
dell’evento.
Il
comportamento imprudente del lavoratore, quando non presenti i caratteri
estremi sopra indicati, può invece rilevare come concausa dell’infortunio”.
La Corte di Cassazione ha richiamato il principio sopra esposto in un caso di
infortunio sul lavoro, che vide coinvolto un operaio che, mentre, in piedi sulle
pale di un c.d. muletto, guidato da un compagno di lavoro, era intento a
prelevare del materiale, riposto in alto sulla soletta di un locale aziendale,
cadeva al suolo riportando
lesioni. I giudici nel caso de quo, ritennero
evidente sia la colpa del lavoratore per aver tenuto un comportamento
imprudente, consistito nel non aver usato il bancale, disponibile in azienda,
58
che gli avrebbe garantito una posizione sicura nelle manovre di sollevamento
e discesa, evitandogli di perdere l’equilibrio e cadere al suolo; sia la colpa del
datore di lavoro, per aver tollerato la pratica esistente in azienda, di non
utilizzare il bancale nelle manovre di sollevamento e discesa; per non aver
vigilato sull’attività svolta dai lavoratori; per non aver preteso l’osservanza da
parte dei dipendenti delle misure di sicurezza atte ad evitare infortuni. Ne
consegue che il datore di lavoro, inutilmente avrebbe potuto invocare a sua
discolpa il principio di affidamento, in quanto questo, trovava un limite sia
nella posizione di garanzia e di controllo che egli ricopriva nei confronti dei
dipendenti, sia nella condotta colposa del lavoratore, posto che non può
invocare l’affidamento chi versa in colpa.
Lo stesso principio è stato applicato dal S.C., in un caso in cui perse la vita un
operaio di una cartiera artigiana. L’operaio, mentre partecipava con un altro
operaio alle operazioni di pulizia delle vasche in cemento, destinate a
contenere l’impasto di acqua e carta straccia proveniente dalle molazze,
restava impigliato con i suoi indumenti in uno degli alberi di trasmissione
delle molazze stesse, decedendo a causa delle lesioni riportate. Nel caso di
specie, i giudici sia di merito che di legittimità, ravvisarono la colpa sia del
datore di lavoro per aver violato gli artt. 55 e 56 del d.p.r. 1955/547, avendo
omesso di isolare gli alberi di trasmissione, nonostante che detti alberi non si
presentassero lisci e fossero collocati ad altezza inferiore a metri due dal
posto di lavoro, sia la colpa della vittima, che violando le precise disposizioni
del datore di lavoro, era passata sotto gli alberi di trasmissione in movimento,
omettendo di fermarli prima dell’operazione. Il datore di lavoro, inoltre,
59
rivestendo una posizione di garanzia e di controllo nei confronti del
lavoratore ed avendo violato delle specifiche norme antinfortunistiche, volte a
prevenire incidenti del tipo di quello che si era poi verificato, non avrebbe
potuto invocare a sua discolpa il principio di affidamento.
Sempre la Corte di Cassazione, ha ritenuto che “il datore di lavoro, non può
invocare a propria scusa il principio di affidamento assumendo che l’attività
del lavoratore era imprevedibile, essendo ciò doppiamente erroneo, da un
lato, in quanto l’operatività del detto principio riguarda i fatti prevedibili e
dall’altro, atteso che esso comunque non opera nelle situazioni in cui sussiste
una posizione di garanzia, come certamente è quella del datore di lavoro. Il
principio dell’affidamento, ha proseguito la Corte, presuppone la previsione o
la prevedibilità dell’evento ed esclude la responsabilità, per colpa nonostante
la prevedibilità o, addirittura, la previsione dell’evento. Pertanto, affidamento
e imprevedibilità non hanno nulla in comune, chè il primo, l’affidamento,
esonera per definizione, da responsabilità per l’altrui condotta prevedibile
che sia collegata alla nostra e non per l’altrui condotta imprevedibile.
L’evento imprevedibile esonera, si, da responsabilità, ma non per il principio
dell’affidamento, sebbene perché l’imprevedibile è fuori del raggio d’azione
della colpa”.
Nel caso di specie, un operaio con la qualifica di allupino, cioè di addetto a
controllare che le varie sfilacciature dei tessuti venissero separate durante la
fase di convogliamento in alcune stanze, accortosi che il convogliatore si era
ostruito, come era avvenuto in altre occasioni, dovendo sbloccarlo e dovendo
portarsi, per sbloccarlo a 5/6 metri da terra, invece di servirsi della apposta
60
scala, aveva chiesto ad un collega, che stava transitando in quel momento con
un carrello elevatore, di fissarlo sino alla sommità del convogliatore. Il collega
si era prestato, ma allorché l’allupino, eseguito il controllo del convogliatore,
doveva scendere, anziché porre in azione la leva per la discesa, aveva toccato
la leva per l’apertura delle forche, determinando la caduta al suolo dell’altro. I
giudici ritennero responsabile del fatto, anche il datore di lavoro, in colpa, per
aver omesso il controllo in merito all’adozione di tutte le cautele necessarie
affinché si evitassero infortuni. Anche in questo caso, il principio di
affidamento non poteva essere invocato dal datore di lavoro a sua difesa. Egli,
infatti, in qualità di garante della sicurezza del lavoratore sul posto di lavoro,
avrebbe dovuto controllare e vigilare che le misure di sicurezza venissero in
concreto adottate, che i mezzi di prevenzione fossero stati realmente
utilizzati, che il lavoro si fosse svolte secondo le direttive impartite. Controlli
questi che erano stati disattesi.
Accertato pertanto che i giudici sia di merito che di legittimità, giungono
sempre a negare che il principio di affidamento possa essere invocato dal
datore di lavoro a sua difesa, non resta che esaminare se il principio in esame,
trovi applicazione in un'altra materia dove si applica il principio della
divisione del lavoro, ovvero, l’attività medico – chirurgica in èquipe.
61
PARAGRAFO V: PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO ED ATTIVITÀ MEDICA IN
ÉQUIPE SECONDO LA DOTTRINA
È dato di osservazione comune, che le prestazioni medico – chirurgiche,
vengano oggi pressoché normalmente eseguite non più, da un solo
professionista, bensì da una pluralità di soggetti, medici e paramedici, inseriti
all’interno di una struttura ed organizzatati secondo precisi criteri di
ripartizione delle competenze.
Questo è un fenomeno, ormai irreversibile, che trova le proprie radici in
diversi e molteplici fattori: innanzitutto, il progresso tecnico della scienza
medica, che ha fatto proliferare le specializzazioni ed ha reso sempre più
complessi gli interventi diagnostici, le misure terapeutiche e le previsioni
prognostiche. In secondo luogo, la sempre maggiore incentivazione della
medicina c.d. “sociale” che, con vertiginoso aumento del numero dei pazienti,
ha reso inevitabile una sempre più curata e razionale organizzazione dei
luoghi di cura, siano essi pubblici che privati.
Con riguardo alla responsabilità medica in ambito di équipe, è da osservare
che i sanitari componenti un équipe chirurgica, sia essa strutturata con la
semplice presenza del chirurgo, dell’aiuto e dell’anestesista o sia essa
strutturata in maniera assai più complessa, a volte con la contemporanea
presenza di molti sanitari, rappresenta il momento che, fotografa per
eccellenza, in un unico contesto spazio – temporale, la contemporanea
attività multidisciplinare di sanitari appartenenti a diverse specialità, il più
delle volte gerarchicamente organizzati e diretti da un capo équipe.
62
Tale fenomeno determina l’insorgere di delicate problematiche circa i criteri
di attribuzione della responsabilità penale all’interno dell’équipe, in presenza
di una condotta colposa lesiva degli interessi del paziente.
Si pone cioè, il problema di stabilire, se e a quali condizioni, il singolo
soggetto, partecipe del gruppo, possa essere chiamato a rispondere della
condotta colposa posta in essere da altri componenti e sino a che punto si
estenda il suo dovere di prudenza, diligenza, e perizia nell’attività svolta.
La dottrina, da parte sua, ha espresso a riguardo, tre posizioni fondamentali:
1. secondo una prima tesi, andrebbe affermata, data anche la ricorrente
difficoltà obiettiva di accertare quale dei componenti dell’équipe abbia
errato, una sorta di responsabilità di gruppo o per fatto altrui, sicchè
sia sempre garantito l’indennizzo dei danni subiti dal paziente14.
2. Un altro orientamento appartiene alla dottrina (Crespi) che per prima
si soffermò in Italia, sul tema della responsabilità medica nei lavori in
équipe. L’illustre autore, affrontando il quesito cruciale sulla
responsabilità del capo – équipe per l’eventuale errore commesso da
uno dei collaboratoti, sostenne il principio generale del dovere di
controllo da parte del primo sull’attività dei propri aiuti ed assistenti o
del personale sanitario, principio che ammetterebbe deroga solo in
quei particolari casi in cui il responsabile del gruppo avesse avuto
ragionevoli motivi per fare affidamento sull’attività del collaboratore
in questo senso CATTANEO, La responsabilità medica nel diritto italiano, in La
responsabilità medica, Milano, 1989, pag. 22
si tratta di una tesi non condivisibile, per il rischio di deresponsabilizzazione dei medici che
comporta nella misura in cui essi non vengono più chiamati a rispondere personalmente
delle proprie colpe, ed inoltre difficilmente compatibile con il principio costituzionale della
personalità della responsabilità penale (art. 27.1º comma Cost.)
14
63
autore dell’errore. Si formulava, in sostanza, da tale dottrina, il
principio del non affidamento, da valere come criterio per lo meno
ordinario, di valutazione.
3. Secondo un terzo indirizzo (Marinucci – Marrubini)15 non può invece
essere condiviso il “principio del non affidamento”, poiché esso finisce
per suonare come sistematica sfiducia, da parte del medico che dirige
il gruppo, nell’abilità e nella capacità degli altri partecipanti all’attività.
Va invece riconosciuto, il contrario principio dell’affidamento, che
meglio consente di definire la sfera di responsabilità dei singoli
partecipanti al processo lavorativo, da circoscrivere nell’ambito dello
specifico settore coperto e garantito dalle prestazioni di ciascuno. In
forza di esso, ciascun partecipe, risponde solo del corretto
adempimento dei doveri di diligenza e di perizia inerenti ai compiti
Tale indirizzo è stato accolto da una parte della giurisprudenza: cfr Cass. Pen. 20. 3. 1991: “
per il principio di affidamento ogni consociato può confidare che ciascuno si comporti
adottando le regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente proprio
dell’attività che di volta in volta viene in questione e in virtù del quale ognuno deve evitare
unicamente i pericoli scaturenti dalla propria condotta…. Se più sono i titolari della posizione
di garanzia, ciascuno è per intero, destinatario dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, con
la conseguenza che, se è possibile che determinati interventi siano eseguiti da uno dei
garanti, è però doveroso per l’altro o per gli altri garanti, dai quali ci si aspetta la stessa
condotta, accertarsi che il primo sia effettivamente ed adeguatamente intervenuto”.
Il Pretore di Genova, con sentenza del 13 novembre del 1991, ha affermato che: “Nell’attività
medica di équipe, propria della sala chirurgica, dove la divisione dei compiti e l’autonomia
dei ruoli comportano l’obbligo della non ingerenza nella sfera altrui, vige il principio
dell’affidamento, secondo cui ciascun medico per potersi concentrare al meglio nelle
operazioni di sua stretta competenza, deve poter confidare nel corretto operato dei suoi
collaboratori e se ciò avvenga, ognuno di essi risponderà solo dell’adempimento dei suoi
compiti ed entro questa sfera sarà limitata la sua responsabilità. Ma il principio
dell’affidamento viene meno ogni volta che un componente del gruppo percepisca che un
altro collaboratore tenga un comportamento non conforme a diligenza o stia commettendo
errori che possano compromettere il buon esito finale; allora subentra un diverso obbligo,
quello di richiamare l’attenzione del collega affinché si corregga e se questi persista nella sua
condotta, anche l’obbligo di intervenire, ove ciò sia necessario e possibile, come nel caso era,
anche in via di supplenza”.
15
64
che gli sono affidati, senza essere gravato, per principio, dal
defatigante obbligo di sorvegliare il comportamento altrui, con la
positiva conseguenza che in tal modo ciascun membro del gruppo è
lasciato libero, nell’interesse del paziente, di adempiere in modo
qualificante e responsabile alle proprie mansioni.
La dottrina in esame completa il proprio assunto rilevando che, peraltro, un
obbligo di controllo e di vigilanza può ben insorgere, e ciò avviene o in
relazione a circostanze concrete che lascino temere contegni altrui non
conformi a perizia e diligenza, così in pratica annullando l’aspettativa di un
comportamento corretto, o in relazione ai compiti specifici spettanti a ciascun
membro del gruppo, tra cui, potrebbero esservi proprio compiti di
sorveglianza e controllo sull’operato altrui. Si pensi, ad esempio, al capo
équipe, che per la sua posizione giuridica di supremazia gerarchica, è
chiamato a dirigere e coordinare le prestazioni dei collaboratori, ed ha un
obbligo di controllo e di sorveglianza che gli impedisce di fare affidamento sul
fatto che i propri collaboratori si comporteranno diligentemente.
Qualora, invece, tale posizione giuridica di supremazia gerarchica, non sia
presente e nell’ambito dell’équipe si trovino ad operare medici, con posizione
paritaria, ma con competenze diverse, ciascun soggetto, sarà autorizzato ad
attendersi che gli altri membri dell’équipe svolgano correttamente le attività
di loro competenza e sarà, pertanto, esonerato da qualsivoglia dovere di
controllo sulla correttezza delle loro prestazioni.
Tale esonero non opererà, però, incondizionatamente, ma soltanto
nell’ipotesi in cui non si manifestino nel caso concreto evidenti segni di
65
inadempimento da parte degli altri componenti, tali da compromettere
l’aspettativa di un comportamento conforme alle regole di diligenza. In
quest’ultimo caso, il singolo partecipante, percependo tali mancanze, dovrà
adottare il comportamento che la situazione concreta suggerisce per ovviare
agli errori commessi dal collega16.
Non resterebbe che esaminare casi pratici, per verificare come i giudici, sia di
legittimità che di merito, abbiano risolto il problema della ripartizione della
responsabilità penale in una équipe chirurgica.
Tuttavia, poiché quasi in ogni caso di intervento “mal riuscito” per colpa dei
sanitari che hanno preso parte all’operazione, gli stessi, si trovano ad essere
imputati, a titolo di cooperazione colposa, per omicidio colposo o lesioni
personali colpose in danno del paziente, converrà terminare l’analisi della
cooperazione colposa, prima di analizzare che tipo di relazione intercorra tra
la stessa cooperazione ed il principio di affidamento. Si rinvia pertanto
l’esame dei casi pratici ad altra parte dell’opera.
16
La crescente esigenza della specializzazione rivolta a potenziare l’efficacia del trattamento
sanitario comporta che il paziente venga seguito da più sanitari, talora in posizione paritaria
con differenziazione di competenze, altre volte inseriti in una organizzazione gerarchica.
La contemporanea presenza di più sanitari operanti in un unico contesto spazio – temporale,
pone il problema di stabilire se ed in quali condizioni il singolo operatore, quale partecipe
dell’équipe, risponda dei comportamenti colposi riferibili agli altri componenti e fine a che
punto, si estenda il proprio dovere di prudenza diligenza e perizia con riferimento alla altrui
attività, anche di diversa specialità.
L’obbligo di concentrazione di ognuno dei componenti l’équipe fa sì che ciascun specialista
risponda delle conseguenze del proprio operato e non sia tenuto nel contempo a vigilare
l’operato altrui con assiduità e con atteggiamento di sfiducia. Quindi, in presenza di un
rapporto gerarchico il capo équipe, oltre alla responsabilità specifica conseguente alla sua
specializzazione, avrà anche quella di vigilare e controllare, con l’intensità che le condizioni
oggettive e soggettive richiedono, l’operato degli altri sanitari che con lui collaborano, se uno
di questi incorre in colpa che, con la necessaria diligenza, poteva essere da lui prevenuta ed
evitata, entrambi, pur a diverso titolo, ne risponderanno. Qualora invece non sussista un
rapporto di gerarchia è giustificato il ricorso al principio dell’affidamento sulla
professionalità degli altri operatori per cui la responsabilità rimane circoscritta a chi è
incorso in colpa.
66
PARAGRAFO VI:
LA VIOLAZIONE DELLA REGOLA CAUTELARE QUALE
IMPRESCINDIBILE CRITERIO DI TIPIZZAZIONE DELLA CONDOTTA COLPOSA
DI PARTECIPAZIONE
Nel primo capitolo, si è cercato di chiarire che, per giurisprudenza costante di
legittimità e di merito, e secondo la dottrina prevalente, ogni singolo
contributo di partecipazione, nella cooperazione colposa, per essere
penalmente
rilevante,
deve
essere
necessariamente
causale
rispetto
all’evento.
Si pone ora il problema di stabilire se la causalità condizionale, sia l’unico
criterio di tipizzazione della condotta di partecipazione, oppure se oltre a ciò,
sia necessario che ogni singola condotta di partecipazione si ponga in
contrasto con una regola cautelare volta ad evitare eventi del tipo di quello
che si è verificato nel caso concreto.
Dall’esame di casi configuranti ipotesi di cooperazione colposa17, è stato
constato, da chi scrive, che sempre, i giudici, sia di legittimità che di merito,
hanno ritenuto in colpa l’imputato, solo dopo aver accertato, che questi
avesse, sul piano oggettivo, posto in essere un comportamento non solo
condicio sine qua non dell’evento, ma anche in contrasto con una regola
cautelare, volta a prevenire proprio l’evento in concreto verificatosi.
Cfr: Cass. Sez. IV, 09.04.2004 n. 16860 pres. D’Urso G., Rel. Visconti S., Verardi ed altro;
Cass. Sez. IV, 18.05.2005 n. 18548 pres. Fattori P.; Cass. peb. Sez. IV, 13.03.1997 n.
2516 pres. Scorzelli ; Cass. Sez. IV, 07.06.2004 n. 25311 pres. Coco GS ; Cass. Peb. Sez. IV,
26.05.2004 n. 24051, pres. Coco GS ; Cass. Pen. Sez. IV, 19.05.2000, n. 5820 pres. Frangini
B. ; Cass. Sez. IV, 01.12.2004 n. 46515, pres. D’Urso ; Cass. Pen. Sez. IV, 19.02.2004 n. 7202,
pres. Battisti ; Cass. Pen., sez. I, 22.03.2005 n. 11509, pres. Fabbri; Cass. pen. Sez. IV,
18.05.2005, n. 18568, pres. Battisti ; Cass. Pen. Sez. IV, 07.04.2004 n. 25311, pres. Coco.
17
67
Così, ad esempio, si sono orientati i giudici di merito, in un caso nel quale
sono stati ritenuti colpevoli del delitto previsto degli artt. 430 – 449 c.p., e in
cooperazione tra loro ex art. 113 c.p., un pastore itinerante e l’ente ferroviario.
Il primo era in colpa per aver allestito una recinzione palesemente inidonea a
contenere gli animali, pur non conoscendo bene i luoghi, fatto questo che
avrebbe dovuto indurlo ad ancor maggiore cautela e perizia. Il secondo, era in
colpa per non aver provveduto, come pure gli imponevano i regolamenti di
regime, ad assicurare una ininterrotta recinzione della propria sede. Nel caso
di specie, il pastore aveva ricoverato un gregge di oltre trecento pecore nei
pressi della ferrovia. La recinzione, costituita da una corda sorretta da sottili
paletti di legno, era stata rimossa dagli ovini che, percorse alcune centinaia di
metri, avendo trovato un varco, avevano invaso il binario. Sopraggiungeva in
quel frangente un treno passeggeri, la cui motrice era deragliata e
nell’occorso, avevano riportato lievi lesioni personali una passeggera e due
macchinisti. In un’altra sentenza,
sia i giudici di merito, che quelli di
legittimità, hanno ritenuto responsabili a titolo di cooperazione colposa nel
delitto
di omicidio
colposo, due
collaboratrici
scolastiche, che
in
collaborazione fra loro, al fine di ripulire lo sgabuzzino adiacente all’archivio
della scuola, dal contenuto cartaceo destinato ormai al macero, avevano
ideato e poi attuato lo smaltimento dei rifiuti cartacei, mediante “lancio dalla
finestra”, prescindendo da qualsiasi cautela di lancio. Sicchè, un faldone
colmo di riviste, lanciato nel cortile della scuola, dalla finestra del bagno, sita
al secondo piano, a circa 8.80 m di altezza, aveva colpito alla testa un uomo,
che ignaro del pericolo passava di li sotto. Questi, a seguito del colpo era
68
deceduto. I giudici ritennero innegabile la violazione da parte di entrambe le
imputate di una regola di condotta a contenuto cautelare, regola che doveva
essere ravvisata nel dovere, di entrambe le collaboratrici, di attendere che
pervenisse un ordine o un segnale di inizio delle operazioni di lancio, segno
evidente che il cortile sottostante era stato liberato e che il personale della
scuola, che potesse transitarvi, era stato avvisato, o quanto meno nel dovere
di entrambe, di sporgersi dalla finestra quel tanto che consentisse di
accertare che nel cortile non vi fossero più macchine in sosta e che, nel
momento del lancio non transitasse nessuno. La Corte di Cassazione ha
ritenuto
che
se
la
condotta
materiale
del
lancio,
poteva
essere
indifferentemente dell’una o dell’altra, l’osservanza della regola di condotta a
contenuto cautelare, perché il lancio venisse effettuato senza pericolo di
danno per le persone o per le cose, spettava ad entrambe e di fatto entrambe
l’avevano violata.
In un'altra sentenza, i giudici di merito, non hanno ravvisato cooperazione
colposa nel delitto di cui all’art. 449 c.p. tra l’ingegnere progettista delle opere
strutturali in cemento armato e direttore dei lavori ed il titolare dell’impresa
costruttrice, per il crollo improvviso di parte di un muro di contenimento con
ribaltamento verso il cortile di una scuola. I giudici, infatti, hanno escluso che
la condotta dell’ingegnere potesse qualificarsi come colposa, non avendo
questi violato alcuna regola cautelare. L’evento doveva essere addebitato al
solo costruttore, il quale era in colpa per non aver informato l’ingegnere circa
i tempi di costruzione del muro mettendolo nella impossibilità di controllarne
l’esecuzione; per non aver rispettato le previsioni progettuali dell’ingegnere,
69
non solo costruendo un muro elevato e di spessore inferiore, ma anche
apponendo un’armatura metallica contenente una percentuale di ferro pari
solo al 40% di quello indicato dal tecnico e non realizzando le opere di
drenaggio pure stabilite da quest’ultimo.
In un altro caso, sono stati ritenuti responsabili, a titolo di cooperazione
colposa del delitto di cui all’art. 589.3º comma c.p., il titolare e legale
rappresentante di una ditta costruttrice di impianti di g.p.l., il direttore dei
lavori di costruzione del fabbricato, il caporeparto dei VV.FF. ed il
responsabile dell’ufficio prevenzione incendi. Nella specie, al termine di
un’operazione di riempimento di g.p.l. del serbatoio condominiale di un
immobile, si verificò un’esplosione, che causò la morte di due bambini ed il
ferimento, anche con lesioni gravissime di altre dodici persone che
frequentavano l’asilo sito al piano terra dell’edificio in conseguenza del crollo
di una parete di un’aula che confinava con il vano scale, nonché la morte
dell’amministratore del condominio scaraventato a terra dall’onda d’urto. I
giudici sia di merito che di legittimità, hanno ravvisato la colpa del titolare e
legale rappresentante della ditta di impianti, per avere realizzato l’impianto
di g.p.l. non a regola d’arte; la condotta del direttore dei lavori del fabbricato,
per avere omesso di adempiere agli obblighi a lui inerenti per tale qualità,
riguardanti l’impianto di g.p.l.; la condotta del capo reparto dei vigili del
fuoco, per gravi omissioni di controllo da parte di persona svolgente una
funzione pubblica e preposta alla verifica dell’applicazione delle norme di
prevenzione.
70
I giudici di merito, in un’altra sentenza, hanno ritenuto responsabili di
omicidio colposo, posto in essere a titolo di cooperazione tra loro, il
responsabile dell’ufficio tecnico comunale, ed i progettisti e direttori dei
lavori relativi alla costruzione di un edificio scolastico nel cui giardino si
trovava un pozzo artesiano, lasciato incustodito e privo di adeguate misure di
protezione, profondo circa m. 120 ed avente un diametro di circa 50 cm. A
causa dell’assenza di una adeguata e solida copertura, un minore, era
precipitato all’interno del pozzo, ed era morto a causa della caduta. I giudici
ritennero che gli imputati fossero ciascuno in colpa, per non aver curato la
copertura
dell’imboccatura
del
pozzo,
rimasta
precariamente
ed
inidoneamente chiusa. Sarebbe stato, invece, necessario adottare un idoneo
sistema di chiusura del pozzo, tale da garantire l’incolumità degli operai sul
cantiere e quella del pubblico al momento della consegna dell’opera, così
come prescriveva la legge all’art. 10 del d.p.r. 547/94, norma questa che era
stata da tutti gli imputati disattesa.
Dall’esame dei casi sopra riportati, si evince che per avere cooperazione
colposa, la condotta di ciascun partecipe, oltre ad essere necessariamente
causale rispetto all’evento, e cioè oltre ad essere condicio sine qua non
dell’evento, deve anche porsi in contrasto con una regola obiettiva di
diligenza, che sia volta a prevenire eventi proprio del tipo di quello che si è
verificato.
I requisiti di tipizzazione della condotta di partecipazione, sul piano
oggettivo, pertanto, sono due:
71
1. la causalità condizionale del contributo del partecipe rispetto
all’evento;
2. la violazione di una regola a contenuto cautelare, volta a prevenire
eventi del tipo di quello verificatosi.
Che la violazione della regola di diligenza, sia un imprescindibile criterio di
tipizzazione della condotta colposa di partecipazione, è condiviso anche dalla
dottrina più recente18, che puntualizza che poiché la colpa si risolve in un
giudizio normativo, solo la contrarietà alla regola di diligenza permette di
qualificare come colposo l’atto di partecipazione. La condotta di ciascun
concorrente, pertanto, per risultare rilevante, ai sensi dell’art. 113 c.p., deve
caratterizzarsi per la violazione di una regola cautelare: non risulta possibile
qualificare un comportamento come colposo in mancanza di un tale
requisito. Dalla dottrina in esame, è stato giustamente sottolineato che, a
differenza delle fattispecie concorsuali dolose, l’identificazione della condotta
tipica non è legata al solo impiego del criterio causale, ma si determina anche
in base alla inosservanza della specifica regola cautelare: condotta di
partecipazione, rilevante ai sensi della fattispecie plurisoggettiva eventuale
colposa, che nasce dall’innesto dell’art. 113 c.p., con le singole figure colpose
di parte speciale, è quella che, ponendosi in un rapporto di condizionamento
rispetto all’evento (o alla condotta realizzata da altro concorrente),
Cfr: ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, 1984, cit. pag.179; ANGIONI, il
concorso colposo e la riforma del diritto penale, in Studi Delitala I, 1984, cit. pag. 67;
COGNETTA, la cooperazione nel delitto colposo, RIDPP, 1980, cit. pag. 87; FIANDACA –
MUSCO, diritto penale, parte generale, cit. pag. 518; GRASSO, in Comm. Sist. II, art. 113, cit.
pag. 197; SEVERINO DI BENEDETTO, la cooperazione nel delitto colposo, 1988, cit. pag. 21;
ALDROVANDI, Concorso, cit. pag. 59.
18
72
rappresenti, come si è già rilevato, la violazione di una regola di condotta a
contenuto cautelare.
PARAGRAFO VII: PRIMA CRITICA ALLA TEORIA DI RISICATO
Le conclusioni fino ad ora raggiunte, portano a criticare quella parte della
dottrina19 che ritiene che la condotta di cooperazione può consistere in
un’azione atipica, perché ancora non direttamente colposa rispetto all’evento
finale, ma semplice condicio sine qua non dell’altrui azione colposa, anche
nei delitti di evento causalmente orientati. In altri termini, secondo la
dottrina in esame, sarebbero configurabili, anche in riferimento ai delitti
colposi di evento a forma libera, casi di partecipazione, morale o materiale,
all’altrui fatto colposo, caratterizzati dalla assoluta atipicità originaria della
condotta di partecipazione. In tali ipotesi, un fatto che di per sé sarebbe
irrilevante in chiave monosoggettiva perché penalmente “neutro”, diverrebbe
rilevante
in
una
manifestazione
plurisoggettiva
proprio
in
quanto
strettamente connesso con l’altrui condotta tipica. Integrerebbe, ad esempio,
gli estremi di una partecipazione morale al fatto colposo altrui, la condotta di
Tizio, che viaggia sull’autovettura di Caio e che istiga Caio, che è al volante, ad
accelerare. A seguito dell’eccessiva velocità, viene cagionato un incidente
mortale. Ciò che, secondo questa dottrina, non rende automaticamente tipica
19
Cfr: RISICATO, il concorso colposo tra vecchie e nuove incertezze, cit. pag.145 ss.
73
la condotta di Tizio è proprio la pericolosità ancora indeterminata del
semplice invito ad aumentare la velocità, dal quale il passeggero avrebbe
sicuramente fatto bene ad astenersi, ma che tuttavia non si identifica con la
violazione della regola cautelare rilevante ex art. 43 c.p. e consistente nello
spingere l’autovettura oltre il limite consentito. Anche in questo caso, si
afferma, è l’attualità di interazione consapevole tra i concorrenti a porre la
condotta dell’istigatore in connessione di rischio rispetto all’evento morte
materialmente cagionato dal conducente dell’autovettura: il contesto di
cooperazione è tale che la condotta dell’uno, naturalisticamente distinta da
quella dell’altro, finisce per compenetrarsi con essa, assumendone quella
diretta valenza colposa di cui sarebbe altrimenti priva.
Partendo da tali premesse, la dottrina in esame, giunge a dire che all’art. 113
c.p. deve essere riconosciuta una funzione di incriminazione ex novo, anche
nei delitti colposi di evento causalmente orientati.
Ammettendo, infatti, che la condotta di cooperazione possa essere atipica
anche nei delitti di evento a forma libera, qualora si riconosca all’art. 113 una
funzione di mera disciplina, e non essendo il contributo di partecipazione, in
quanto atipico, punibile sulla base della norma incriminatrice di parte
speciale, se ne dovrebbe concludere che non è punibile colui che ha fornito il
contributo atipico, proprio perché manca una norma che permetta di
incriminarlo. Da qui, quindi, l’esigenza di riconoscere all’art. 113 , nei delitti
causalmente orientati, non solo una funzione di disciplina (e ciò quando il
contributo del partecipe sia causale e colposo rispetto all’evento non voluto),
ma anche una funzione di incriminazione, nei casi in cui il contributo del
74
partecipe, pur essendo causale rispetto all’evento, non sia autonomamente
colposo, in quanto, sul piano oggettivo, non si ponga in contrasto con alcuna
regola cautelare. Pertanto, sempre secondo la dottrina in esame e ritornando
all’esempio sopra formulato, nell’ipotetica assenza di tale disposizione con
funzione di incriminazione, ci si dovrebbe rassegnare a considerare
(tipicamente
colposo)
comportamento
del
ai
sensi
guidatore,
dell’art.
il
quale
43
c.p.
solo,
esclusivamente
materialmente
il
ed
autoresponsabilmente, contravviene al limite di velocità pigiando il piede sul
pedale acceleratore.
Della dottrina appena esaminata, chi scrive, non condivide le premesse stesse
da cui muove, e cioè, che il contributo di cooperazione, nei delitti
causalmente orientati possa essere causale e non colposo.
Il presente, modesto lavoro, infatti, è stato finora proteso a dimostrare che,
nei delitti di evento a forma libera, due sono, sul piano oggettivo, i criteri di
tipizzazione della condotta di partecipazione, e cioè la causalità condizionale
rispetto all’evento e la violazione della regola cautelare, nel cui raggio di
prevenzione, rientrino eventi del tipo di quello che in concreto si è verificato.
Se ogni singolo contributo di cooperazione, pertanto, nei delitti di evento
causalmente orientati, per essere penalmente rilevante, oltre ad essere
causale condizionale, si deve anche porre in contrasto con una regola di
condotta, sarà sempre tipico e quindi incriminabile sulla base della norma
incriminatrice di parte speciale. Ne consegue che, in questi casi, l’art. 113 c.p.
è chiamato a svolgere non una funzione di incriminazione ex novo, essendo
del tutto inutile, ma una funzione di mera disciplina, a differenza di quanto
75
avviene nei delitti colposi di evento a forma vincolata, dove, per la
configurabilità di condotte di partecipazione atipiche, pacificamente, in
dottrina, all’art. 113 c.p. viene riconosciuta una funzione di incriminazione, in
assenza della quale il contributo atipico del partecipe resterebbe impunito.
Qualche ultima parola merita di essere spesa a proposito dell’esempio
dell’istigazione ad aumentare i limiti di velocità, usato, dalla dottrina
esaminata, a sostegno della tesi che si è appena criticata. Quello che, chi
scrive, non condivide è il ritenere Tizio, che istiga Caio ad aumentare la
velocità della macchina, non autonomamente in colpa per non aver violato,
con la propria condotta, alcuna norma di prudenza. Vero è che Tizio, non
viola alcuna regola cautelare scritta, e quindi da parte sua non c’è una colpa
specifica, ma è anche vero che ex art. 43 c.p., la colpa si configura non
soltanto quando vengono violate leggi, regolamenti, ordini o discipline, ma
anche quando l’evento non voluto si verifichi a causa di negligenza,
imprudenza o imperizia. Pertanto è la violazione di una regola cautelare non
scritta, a dar luogo ad una colpa generica.
Nel caso in esame, Tizio, esorta insistentemente il conducente dell’auto sulla
quale viaggia, ad accelerare, tanto da violare i limiti di velocità consentiti, e
quindi a trasgredire una regola cautelare scritta. Può forse dirsi che l’esortare
qualcuno a contravvenire ad una norma cautelare prevista dal codice della
strada e volta a prevenire incidenti del tipo di quello che in concreto si è
verificato, sia un comportamento conforme a diligenza e prudenza?
Evidentemente no. Tizio viola una norma non scritta di diligenza e di
prudenza che gli imponeva, in quelle circostanze, di astenersi dall’indurre il
76
conducente del veicolo a tenere un comportamento altamente pericoloso, non
solo per l’incolumità fisica sua e del conducente stesso, ma anche per la vita e
la sicurezza di terzi, che in quel momento partecipavano al traffico stradale, e
ciò per il futile motivo che aveva fretta.
In definitiva, il contributo di Tizio è causale e colposo rispetto all’evento, così
come quello di Caio, tuttavia per Tizio si configura una colpa generica avendo
violato una misura cautelare non scritta, per Caio invece una colpa specifica
avendo violato una norma cautelare scritta. Ciascuna condotta di
partecipazione pertanto è tipica, essendo l’omicidio colposo un delitto di
evento a forma libera, quindi è incriminabile sulla base della norma
incriminatrice di parte speciale, per cui l’art. 113 non svolge, in questo caso,
una funzione di incriminazione ma di mera disciplina.
Tuttavia, resta aperto un problema, la cui soluzione qui si anticipa, ma del
quale si parlerà più ampiamente dopo aver posto in relazione casi di
cooperazione colposa con il principio di affidamento, e cioè può Tizio
invocare a sua discolpa il principio di affidamento nei confronti di Caio? La
risposta pare scontata alla luce del seguente principio, che opera come limite
al principio di affidamento, vale a dire: il principio della fiducia non può
essere invocato da chi, con una sua condotta già autonomamente qualificabile
come negligente, imprudente o imperita, ha provocato egli stesso una
reazione scorretta da parte di un terzo.
77
CAPITOLO III
L’ELEMENTO SOGGETTIVO NELLA COOPERAZIONE
COLPOSA
PREMESSA
Nel capitolo secondo, abbiamo visto come, ogni singolo partecipe ad un
delitto colposo, per essere in colpa debba, innanzitutto, violare una regola
obbiettiva di diligenza. Tuttavia, per salvaguardare l’autonomia della colpa,
quale reale forma di colpevolezza, non basta la oggettiva inosservanza della
regola cautelare di condotta. Ma occorre che essa sia all’agente anche
soggettivamente imputabile, occorre cioè l’elemento “personalizzante” la
responsabilità colposa: la c.d. “misura soggettiva” della colpa1.
Il requisito dell’attribuibilità dell’inosservanza all’agente, ha la funzione di
collegare l’inosservanza stessa della regola cautelare al soggetto inosservante,
ossia di riportare la condotta obiettivamente incauta alla responsabilità
personale e, così, delimitarla rispetto alla responsabilità oggettiva.
Perché, quindi, la colpa sia imputabile al soggetto, è necessario addebitargli
la violazione di regole cautelari di condotta, in che si individua un fatto di
reato, che egli poteva evitare mediante l’osservanza, esigibile, di tali regole.
1
In tal senso MANTOVANI, diritto penale parte generale, cit. pag. 345 ss.
78
Tuttavia, oltre alla colpa, è necessario chiedersi se, dal punto di vista
soggettivo, la fattispecie concorsuale descritta dall’art. 113 c.p. richieda un
quid pluris costituito dalla consapevolezza di cooperare con altri. Questo
problema è inoltre strettamente connesso ad un altro problema, ovvero alla
distinzione tra concorso colposo e concorso di cause colpose indipendenti ex
art. 41.3º comma e 43 c.p. caratterizzato dal convergere autonomo di più
condotte colpose, tutte dotate di efficacia eziologia rispetto all’evento lesivo.
79
PARAGRAFO I: PRIMO PROBLEMA: IL LEGAME PSICOLOGICO TRA LE
CONDOTTE DEI CONCORRENTI
Al primo problema, e cioè se la consapevolezza di cooperare con altri, pur
senza un preventivo accordo tra i partecipi, sia o meno, elemento costitutivo
della cooperazione colposa, sono state date tre soluzioni:
1. secondo l’impostazione tradizionale2 la cooperazione nel delitto colposo si
caratterizzerebbe per un legame psicologico tra le condotte dei concorrenti:
ciascuno dei compartecipi deve essere consapevole della convergenza della
propria condotta con la condotta altrui, senza però che tale consapevolezza
investa l’evento richiesto per l’esistenza del reato nelle fattispecie
causalmente orientate. Per quanto riguarda poi l’oggetto della consapevolezza
di cooperare con altri, due sono essenzialmente gli orientamenti formatisi al
riguardo:
a) la tesi più rigorosa3 ritiene che a qualificare la cooperazione
colposa ex. art. 113 c.p. sia necessaria la consapevolezza del
carattere colposo dell’altrui condotta. Il partecipe, cioè,
dev’essere quanto meno cosciente di aderire all’altrui condotta
negligente, imprudente o imperita. Il legame psichico tra le
condotte non si esaurirebbe nella mera consapevolezza di
cooperare con altri, ma richiederebbe anche la consapevolezza
ANTOLISEI, Diritto penale parte generale, pag. 528; BETTIOL, Sul concorso di più persone
nei delitti colposi, in Scritti giuridici, I, 1966, cit. pag. 19; FIORE, diritto penale parte
generale, cit. pag. 102; LATAGLIATA, Cooperazione nel delitto colposo, Edx, X, 1962, cit.
pag. 615; SPASARI, Profili di teoria generale del reato in relazione al concorso di persone nel
reato colposo, 1956, cit. pag. 73.
3 FIORE, ult. Cit. II, cit. pag. 103; LATAGLIATA, ult. Cit. pag. 615; SPASARI, ult. Cit. pag. 80
2
80
del carattere colposo dell’altrui condotta alla quale si aderisce.
Un tale requisito deve però ritenersi estraneo alla cooperazione
colposa: se il compartecipe si rendesse conto del carattere
imprudente dell’altrui condotta, nel senso che sia prevedibile
che da essa derivino eventi illeciti, e fosse consapevole di
cooperare
con
una
condotta
così
caratterizzata,
si
rappresenterebbe la possibilità di realizzazione dell’evento,
grazie anche al proprio contributo, e verserebbe quindi in una
situazione di dolo eventuale, o quanto meno di colpa cosciente 4.
Inoltre questa impostazione finisce per introdurre un requisito
che non è richiesto da nessuna norma5.
b) Secondo l’impostazione prevalente6 è sufficiente, ai fini
dell’applicabilità dell’art. 113 c.p., la semplice consapevolezza,
anche unilaterale di cooperare all’altrui fatto materiale,
indipendentemente dalla specifica conoscenza del carattere
colposo dell’altrui condotta. A qualificare la cooperazione
colposa basterebbe, in questa prospettiva, la consapevolezza, in
capo al partecipe, di tutti quegli elementi fattuali (inerenti alla
condotta ed al contesto in cui si svolge l’azione) che
così GRASSO, in Comm. Sist. II, art. 113, cit. apg. 199; ANGIONI, il concorso colposo e la
riforma del diritto penale, cit. pag. 47; FIANDACA – MUSCO, diritto penale parte generale,
cit. pag. 517
5 così GRASSO, IN Comm. Sist. II, art. 113 cit. pag. 199
6 BETTIOL, sul concorso di più persone nei delitti colposi, scritti giuridici I, 1966 cit. pag. 18
“il concorso colposo si caratterizza per l’esistenza di un legame psicologico tra i concorrenti,
ciascuno dei quali, per essere tale, deve avere la coscienza dia cce3dere ad un’azione altrui,
senza però che tale consapevolezza investa la realizzazione dell’intero fatto criminoso, e, in
particolare (nei reati casualmente orientati), l’evento;ANTOLISEI, diritto penale parte
generale, cit. pag. 537; FIANDACA – MSUCO, Diritto penale parte generale, cit. pag. 517;
RISICATO, il concorso colposo tra vecchie e nuove incertezze, cit. pag. 162 ss; ROMANO
GRASSO, comm. Sist. Cit. art. 113 pag. 183.
4
81
costituiscono il substrato materiale della qualifica di negligenza,
imprudenza o imperizia7.
2. La costruzione tradizionale è stata sottoposta a critica da parte di chi 8,
sottolineando il carattere normativo dell’illecito colposo, nel quale è
per lo più assente un coefficiente psicologico naturalistico, e che si
caratterizza per la violazione di una regola cautelare obiettiva, ha
rilevato come il dato psicologico di carattere naturalistico, costituito
dalla rappresentazione dell’altrui condotta concorrente, non possa
valere di per sé a fondare la responsabilità per un illecito colposo, sia
pure a titolo di concorso, in quanto esso, in se e per sé, nulla dice
ancora sul motivo per il quale il partecipe risponde a titolo di colpa del
fatto realizzato da altri. Questa dottrina è giunta ad individuare il
contrassegno tipico della cooperazione colposa, nella prevedibilità
della condotta altrui concorrente con la propria.
3. La dottrina più recente ha precisato, condivisibilmente, come la
rappresentazione dell’altrui condotta concorrente, sia un requisito che
non si sostituisce, ma che, al contrario, viene ad aggiungersi al dato
rappresentato dalla violazione di una regola cautelare obiettiva: in altri
termini, la responsabilità a titolo di cooperazione colposa implica, per
ciascun concorrente che questi, oltre ad essersi rappresentato l’altrui
condotta, abbia posto in essere un comportamento contrario ad una
Anche la dottrina più recente ha opportunamente puntualizzato l’oggetto di tale legame
psicologico che deve investire il sostrato di fatto che rende possibile qualificare come colposa
la condotta del concorrente. Cfr. ALDROVANDI, concorso nel reato colposo e diritto penale
dell’impresa, cit. pag. 92; RISICATO, concorso.., cit. pag. 158
8 SEVERINO DI BENEDETTO, la cooperazione nel delitto colposo cit. pag. 103;
analogamente COGNETTA, la cooperazione nel delitto colposo, cit. pag. 87
7
82
regola cautelare, sicchè occorrerà accertare, in base ai consueti
principi in materia di colpa, la rappresentabilità ed evitabilità del fatto
di reato ed in particolare, per i reati causalmente orientati, dell’evento.
Richiamare la dimensione normativa della colpa anche in ambito
concorsuale, secondo la dottrina in esame, è quanto mai opportuno,
tuttavia una simile circostanza non può portare a rinunciare alla
necessità di un effettivo legame psicologico tra le condotte dei
concorrenti nei termini un cui ne parla l’impostazione tradizionale.
Invero, la consapevolezza di cooperare con altri, è un requisito
soggettivo specifico della compartecipazione criminosa che si pone su
un piano differente ed autonomo rispetto a quello della ricostruzione
degli elementi normativi che stanno alla base del rimprovero di colpa.
Pretendere di rinunciare a tale contrassegno psicologico, sottolineando
la dimensione normativa della colpa, è, quindi, il risultato della
sovrapposizione di due diversi piani concettuali: quello dei requisiti di
struttura del concorso criminoso e quello dei requisiti di struttura
della responsabilità colposa dei concorrenti.
La necessità di un tale requisito, deve ammettersi per diverse ragioni:
1. esso risulta implicitamente presente nelle situazioni di cui all’art. 113,
comma2º dove è previsto un aggravamento di pena: la determinazione
di altri alla commissione di un reato presuppone evidentemente la
rappresentazione dell’agire altrui concorrente con il proprio9.
9
In tal senso ROMANO GRASSO, Comm. Sist. Art. 113 c.p. cit. pag. 183
83
2. E’ solo un tale requisito a giustificare l’applicazione del regime
concorsuale a coloro che abbiano contribuito colposamente alla
realizzazione di un reato: per esempio, l’estensione a tutti i concorrenti
delle cause di giustificazione (ex art. 119 c.p.) si rivelerebbe del tutto
illogica e priva di senso se a fondare la cooperazione colposa fosse
sufficiente una mera convergenza di condotte diverse al di fuori di
qualunque legame subiettivo10.
3. Dal punto di vista di pericolosità oggettiva e colpevolezza, questa
situazione può giustificare una considerazione normativa ad hoc11.
La
giurisprudenza
si
mantiene
fedele
all’impostazione
tradizionale,
affermando che “ciò che vale a caratterizzare la cooperazione colposa è la
consapevolezza
di
partecipare
all’azione
od
all’omissione
altrui12”.
In tal senso ROMANO GRASSO, ult. Cit.
La consapevolezza di concorrere con altri, proprio per la aumentata pericolosità che
caratterizza il consapevole convergere di più condotte, determina un obbligo cautelare
aggiuntivo che si traduce nel comune dovere di coordinare la propria attività pericolosa con
quella altrui o di evitare di potenziare, influenzandola, consapevolmente con il proprio
comportamento imprudente, l’imprudenza altrui. Si pensi, per esemplificare, alla gara di
corsa non autorizzata ed alla maggiore pericolosità di tale ipotesi, che non va ricollegata solo
alla circostanza che ciascun concorrente già da solo viola una regola cautelare, ma che deriva
piuttosto dal fatto che si è in presenza di una gara dove ogni aumento di velocità di un
concorrente comporta la violazione di una regola cautelare aggiuntiva (specifica della
cooperazione colposa) in quanto spinge anche gli altri ad aumentare la velocità ed a
comportarsi, quindi, in modo ancora più imprudente”. Così ALBEGGIANI, la cooperazione
colposa, in Studium iuris 2000, cit. pag. 520.
12 Così Cass. IV 5.1.1996, Paternità, MCP 203521; Cass. IV 15.11.1986, Fadda, G PEN 1988, II,
44; conf. Cass. IV 20.2.1990, Zappulla, CP 1991, 1771; App. Bari 7.2.1987, De Nicolò e altro, R
PEN 1988, 487 ss; Cass IV 14.2.1972, Rizzuto, FI 1973, II, 216 ss., ove si perviene a
concludere che la cooperazione si caratterizza per la presenza di un fascio di volontà insieme
operanti, oppure la consapevole confluenza della volontà dei soggetti all’interno della
condotta dalla quale deriva l’evento non voluto (Cass. IV 23.11.1987, Mazzetti, CP 1989, 581;
conf. Cass. IV 31.5.1983, Lucani, CP 1984, 277; Cass. I 18.3.1982, Castellani, CP 1984, 1773.
da ultimo Cass., sez. IV 9.7.2004 “ la cooperazione nel delitto colposo di cui all’art. 113 c.p. si
verifica quando più persone pongono in essere una autonoma condotta nella reciproca
consapevolezza di contribuire all’azione od omissione altrui che sfocia nella produzione
dell’evento non voluto (affermando il principio la corte ha precisato, nella fattispecie relativa
alla gara di velocità posta in essere tra due automobilisti, che non ha alcun rilievo
l’accertamento della circostanza relativa a un eventuale accordo preventivo tra i soggetti
impegnati nelle condotte criminose).
10
11
84
Naturalmente, “la cooperazione riguarda soltanto le condotte esteriori e non
investe in alcun modo l’evento, giacchè l’essenza di questa figura giuridica è
proprio il risultato non voluto13”.
In definitiva, la consapevolezza del convergere della propria con l’altrui
condotta, sembra essere un requisito soggettivo minimo che si rivela comune
alle forme concorsuali tanto dolose che colpose14.
Come nel concorso doloso, inoltre, la consapevolezza di cooperare con altri
può sussistere unilateralmente in uno dei concorrenti, al quale soltanto sarà
applicato il regime concorsuale15.
La sussistenza di una situazione di cooperazione colposa non è esclusa per il
fatto che un concorrente non sia punibile per mancanza di imputabilità o di
colpevolezza. In una tale ipotesi devono trovare applicazione i
principi
desumibili dagli art. 112, ult. co. e 119, co. 1ºc.p..
Cass. VI 29.1.1977, Renzi ed altri, RP 1977, 492
esatt.ALBEGGIANI, reati di agevolazione colposa, cit. pag. 198ss.
15 Così come quello doloso, anche il concorso colposo può essere unilaterale, quando uno
soltanto dei concorrenti sa di cooperare con altri, in tal caso il regime concorsuale andrà
applicato solamente a chi sappia di cooperare, mentre per gli altri soggetti rimane salva la
possibilità di una responsabilità a titolo monosoggettivo, qualora la loro condotta risulti
tipica ai sensi della fattispecie incriminatrice. Così MANTOVANI, diritto penale, parte
generale cit. pag. 536.
13
14
85
PARAGRAFO II: SECONDO PROBLEMA: COOPERAZIONE COLPOSA E
CONCORSO DI CAUSE COLPOSE INDIPENDENTI
Per quanto riguarda la distinzione tra concorso colposo e concorso di cause
colpose indipendenti, illustre dottrina16, sottolinea come tale problema
attenga principalmente alle fattispecie causalmente orientate, mentre per
quelle a forma vincolata esso di solito non si pone, giacchè in tal caso si è
generalmente in presenza di condotte originariamente atipiche, che
concorrono colposamente con condotte tipiche e ciò distingue tale ipotesi, già
sul piano puramente descrittivo, rispetto a quella del concorso di condotte
colpose
indipendenti.
Anche
al
riguardo
sono
riscontrabili
diversi
orientamenti:
1. secondo un primo orientamento, la distinzione in esame sarebbe un
problema immaginario, stante l’impossibilità di individuare argomenti
ragionevoli per giustificare una diversità di trattamento fra istituti
sostanzialmente omogenei e sovrapponibili, due fattispecie cioè
oggettivamente identiche17.
Così SEVERINO DI BENEDETTO, ult, cit. pag. 94
le affermazioni di coloro i quali ritengono che non sia possibile differenziare la
cooperazione nel delitto colposo dal concorso di autonome condotte colpose partono dalla
premessa che la realizzazione colposa di un fatto di concorso è concepibile anche senza la
consapevolezza di cooperare. Si argomenta in proposito che per esempio, con riferimento al
caso che un’infermiera abbia cagionato la morte di un paziente iniettandogli una sostanza
nociva, anziché una terapeutica, si distingua secondo che l’infermiera abbia iniettato la
sostanza nociva in quanto il medico curante gliene abbia portato la fiala al momento
dell’iniezione, o in quanto il medico abbia collocato la fiala della sostanza nociva nel luogo in
cui avrebbe dovuto trovare quella sostanza terapeutica; supposto poi che in entrambi i casi il
medico abbia agito con colpa, si consideri, come, stando all’opinione dottrinale accennata, si
dovrebbe ritenere, con manifesto apriorismo che soltanto nel primo caso, il solo in cui ricorra
da parte del medico la consapevolezza di cooperare, il medico avrebbe commesso un reato
colposo di concorso, laddove nel secondo dovrebbe rispondere quale autore di un reato
principale. (BOSCARELLI)
16
17
86
2. In base alla costruzione tradizionale, seguita dalla dottrina prevalente
e dalla costante giurisprudenza18, la rappresentazione dell’altrui
A questa prima esemplificazione si aggiunge quella di chi contesta la tesi, di prevalente
elaborazione giurisprudenziale, secondo cui nella cooperazione nel delitto colposo si avrebbe
unità di reato con pluralità di soggetti, mentre nel concorso di condotte colpose indipendenti,
si avrebbe pluralità di reati con unico evento. In questa prospettiva si analizza l’ipotesi,
ritenuta, secondo i canoni classici della distinzione, appartenente alla categoria della
cooperazione nel delitto colposo, di un soggetto che lasci per distrazione la rivoltella carica su
un tavolo e di altro soggetto che la veda e, credendola scarica e facendo partire un colpo,
uccida una terza persona. Con riferimento ad essa si osserva poi che siavi o non saivi
adesione psichica, non v’è dubbio che tutte le condotte colpose contribuiscono alla
produzione dell’evento, il quale rappresenta la consumazione di un unico delitto, onde
sarebbe contraddittorio ammettere la pluralità di delitti in confronto ad un solo evento.
Tanto nelle ipotesi solitamente indicate come cooperazione nel delitto colposo, quanto nelle
ipotesi solitamente ascritte al concorso di condotte colpose indipendenti, che dovrebbero dar
luogo a distinte imputazioni, l’identità dell’evento rende unico il reato…Nel reato colposo,
infatti, è l’evento che da il tono a tutta la fattispecie, poiché senza evento non c’è reato
colposo e non è ammissibile il tentativo. (PANNAIN)
Ad analoghe conclusioni, in ordine alla irrilevanza dell’elemento della consapevolezza di
cooperare, sia pure con implicazioni diverse, giunge quella parte della dottrina la quale,
constatato che la condotta del partecipe produce l’evento solo incrociando la serie causale
posta da altri, ne desume che l’agente non è in grado di prevedere il verificarsi dell’evento se
non è in grado di prevedere l’attività altrui, ma precisa che non è detto tuttavia che di tale
attività egli debba di fatto essere consapevole (PEDRAZZI).
Per una critica di tali orientamenti, confronta SEVERINO DI BENEDETTO, concorso..,cit.
pag. 93 ss.
18 “ in tema di reati colposi, l’elemento differenziante tra l’ipotesi di cooperazione e quella di
mero concorso di cause indipendenti tra loro è dato dal collegamento delle volontà dei
diversi soggetti agenti; mentre, infatti, nella cooperazione le volontà dei soggetti devono tutte
confluire consapevolmente all’interno della condotta dalla quale deriva l’evento non voluto,
nei casi invece di concorso di cause indipendenti, l’evento consegue ad una mera coincidenza
di azioni od omissioni, non collegate da alcun vincolo subiettivo” Così Cass. pen. 23.11.1987
“la differenza tra cooperazione colposa e concorso di cause indipendenti consiste unicamente
nell’elemento psicologico, perchè nella cooperazione colposa è richiesta la consapevolezza di
ciascuno di conferire il proprio contributo alla condotta colposa che sbocca nella produzione
dell’evento, mentre nel concorso di cause indipendenti, l’evento consegue ad una mera
coincidenza di azioni od omissioni non collegate ad alcun vincolo subiettivo” Così Cass. pen.
31.05.1983
il dovere di sicurezza, posto a carico del costruttore dall’art. 7 d.p.r. n. 547, va valutato con
particolare severità ed intransigenza; la responsabilità penale del costruttore per i reati di
lesioni colpose derivanti dall’impianto da lui installato, deve essere inquadrata nell’ipotesi di
concorso di cause autonome ed indipendenti generato dal rapporto tra l’art. 4 e l’art. 7 d.p.r.
n. 547; l’atteggiamento psichico del costruttore deve essere ricondotto alla forma soggettiva
della colpa con previsione alla luce della irresponsabile costruzione dell’impianto senza
progetti e della mancata comunicazione dei pericoli accertati in concreto” Così P. Brescia
24.06.1981
“ la cooperazione nel delitto colposo di cui all’art. 113 c.p. si verifica quando più persone
pongono in essere una data autonoma condotta nella reciproca consapevolezza di contribuire
all’azione od omissione altrui che sfocia nella produzione dell’evento non voluto”. Così Cass.
sez. un. 25.11.1998
“ in tema di reati colposi, l’elemento differenziante l’ipotesi di cooperazione da quella di mero
concorso di cause tra loro indipendenti è dato dal collegamento delle volontà dei diversi
soggetti agenti; mentre, infatti, nella cooperazione vi deve essere la volontà di concorrere alla
87
condotta costituisce l’elemento di differenziazione tra concorso
colposo e mera convergenza di azioni colpose indipendenti,
riconducibili all’art. 41 c.p.. Mentre nella cooperazione ognuno dei
compartecipi ha la consapevolezza di partecipare all’azione od
omissione di altri che, insieme con la propria condotta, è causa
dell’evento non voluto, nei casi di concorso di cause indipendenti
l’evento consegue ad una mera coincidenza di azioni od omissioni, non
collegate da alcun vincolo subiettivo. Così che ogni condotta resta
imputabile come fatto a sé stante, importando separata responsabilità
per distinti reati.
3. Secondo la dottrina che aderisce alla natura squisitamente normativa
della colpa, l’elemento caratteristico anche della cooperazione colposa,
rispetto al concorso di cause colpose indipendenti, non andrebbe
individuato in requisiti di tipo psicologico ma sulla base di criteri di
tipo normativo: a contrassegnare la cooperazione colposa starebbe un
particolare tipo di regole cautelari a carattere secondario, non
riguardanti cioè la diretta causazione dell’evento lesivo ma aventi ad
oggetto il comportamento dei terzi insieme ai quali il reato viene
realizzato e, piuttosto che la effettiva consapevolezza di concorrere con
altri, basterebbe la prevedibilità della condotta altrui concorrente con
la propria19.
realizzazione della condotta altrui, contraria a regole cautelari, e la prevedibilità ed evitabilità
dell’evento criminoso, nei casi, invece di concorso di cause indipendenti l’evento consegue ad
azioni od omissioni non collegate da alcun vincolo subiettivo”. Così P.Spoleto, 25.06.1992
19 “ la distinzione tra cooperazione colposa e concorso di cause colpose indipendenti, non può
rintracciarsi nella rappresentazione dell’altrui condotta concorrente con la propria. Ed allora
non rimangono che due alternative: o porsi alla ricerca di un altro elemento che, fungendo da
88
L’inquadramento del fatto nell’una o nell’altra ipotesi comporta l’applicabilità
o meno della disciplina concorsuale20. In particolare, la giurisprudenza ha più
volte ribadito che in tema di reati colposi, qualora si versi in ipotesi di
concorso di cause indipendenti che hanno dato luogo all’evento, l’attenuante
della partecipazione di minima importanza ex art. 114, comma 1º, dello stesso
codice non può essere concessa. Allo stesso modo, si è escluso che nel caso di
elemento circostanziale rispetto ad un fatto che già presenta tutti gli elementi costitutivi di
una fattispecie incriminatrice speciale, giustifichi il passaggio di esso alla disciplina
concorsuale; oppure riconoscere che non esistono differenze strutturali tra cooperazione nel
delitto colposo e concorso di condotte colpose autonome….L’unico contenuto dell’elemento
psicologico che potrebbe svolgere un ruolo circostanziale idoneo a giustificare siffatta opera
di riconduzione, senza contrastare con i contenuti anche normativi, della colpa, sarebbe
rappresentato dalla prevedibilità della condotta altrui concorrente con la propria. Questo
elemento verrebbe a precisare la regola di diligenza violata, la quale avrebbe un duplice
parametro di riferimento: la prevedibilità della condotta altrui e, attraverso di essa, la
prevedibilità dell’evento finale”. Così SEVERINO DI BENEDETTO, la cooperazione…cit. pag.
103 – 104.
CONTRA ALDOVRANDI: “la necessità di individuare un elemento soggettivo caratterizzante
il concorso colposo, nonché l’impossibilità di focalizzarlo nella mera prevedibilità della
condotta altrui, conducono ad accedere all’impostazione tradizionale che fa riferimento alla
rappresentazione dell’altrui comportamento. In realtà pare imprescindibile l’esigenza di
ulteriormente specificare tale requisito, focalizzando l’attenzione sull’oggetto del coefficiente
soggettivo, occorre, verificare se la consapevolezza debba riferirsi semplicemente all’altrui
condotta causale o invece all’altrui condotta violatrice della regola cautelare, o infine alla
tipicità dell’altrui condotta”…..viene privilegiata la soluzione intermedia, “secondo cui il
concorso colposo sarebbe caratterizzato dalla consapevolezza della condotta violatrice delle
regole cautelari di comportamento. Tale posizione vale da un canto a superare
l’indeterminatezza del primo fra i criteri presi in esame e, dall’altro ad evitare le
c’incongruenze cui perverrebbe sul piano applicativo il criterio fondato sulla consapevolezza
della tipicità dell’altrui condotta”.
20 Con riferimento a tutte le figure di delitto colposo, l’art. 113 svolge la funzione di dettare la
disciplina del delitto concorsuale. In particolare, l’ipotesi del capoverso estende al concorso
nel delitto colposo le circostanze aggravanti previste dagli artt. 111 e 112 nn. 3 e 4.
correttamente in dottrina si ritiene che, con riguardo alla cooperazione colposa, non possa
trovare applicazione l’art. 115: le nozioni di istigazione e di accordo presuppongono, infatti, il
dolo dell’istigatore o dei partecipanti l’accordo. In dottrina è prevalente la tesi che esclude al
concorso colposo l’applicabilità della fattispecie concorsuale anomala prevista dall’art. 116.
disciplinando l’ipotesi di reato diverso da quello voluto, l’art. 116 presuppone infatti che
almeno uno degli agenti versi in dolo, il che, ovviamente, risulta inconciliabile con la colpa.
Controversa è la compatibilità dell’art. 117 con la struttura del concorso colposo. Mentre
secondo alcuni è necessario che il comportamento del soggetto privo della qualifica sia
doloso, secondo l’orientamento prevalente, invece, non sussiste alcun ostacolo
all’applicazione della disciplina prevista dall’art. 117 al concorso colposo, nel caso in cui
l’extraneus sia in colpa circa la mancata conoscenza della qualifica rivestita dall’intraneus.
Alla cooperazione colposa sono applicabili gli artt. 118 e 119; in particolare, ai sensi dell’art.
119 co. 2, la presenza di una causa di giustificazione si estende a tutti i concorrenti.
89
condotte colpose indipendenti possa operare, ex art. 123 c.p., l’effetto
estensivo della querela.
Un rapido sguardo alla giurisprudenza per vedere come risolve il problema
della distinzione tra l’istituto della cooperazione colposa e quello delle
condotte colpose indipendenti.
La Corte di Cassazione sul punto ha enunciato i seguenti principi:
“Nei delitti colposi occorre distinguere il concorso di più cause che agiscono
tra di loro indipendentemente e con un vincolo puramente materiale, dalla
vera e propria partecipazione nel delitto, cioè, dalla così detta cooperazione
nel delitto colposo di cui parla l’art. 113 c.p.. Perchè vi sia cooperazione, con le
sue conseguenze circa la responsabilità, non basta una compenetrazione di
fatto in un’unica causalità efficiente, ma è necessaria la consapevolezza del
soggetto cooperante di concorrere ad una condotta colposa. Anche nel delitto
colposo, commesso da più persone, non deve mancare quella cooperazione
psicologica da cui scaturisce il carattere unitario del reato commesso da più
soggetti. Elemento comune alle due ipotesi è la medesimezza dell’evento
dannoso. L’elemento differenziale è invece la sussistenza nella cooperazione,
della consapevolezza che ciascuno degli autori dell’evento dannoso deve avere
di contribuire all’azione altrui. Tale elemento manca nel concorso di cause,
nelle quali si ha coincidenza fortuita di azioni colpose distinte nel produrre lo
stesso evento senza alcun vincolo psicologico. Ne consegue che nel caso di
cooperazione nel delitto colposo si ha unità di reato imputabile a più soggetti,
mentre nella ipotesi di concorso di colpe autonome ogni azione individuale,
90
appare disunita dalle altre concorrenti e ciascuna, perciò, resta imputabile
come fatto a sé stante, importando responsabilità separata per distinti reati”.
Nel caso di specie, erano venuti a collisione un camion ed una fiat giardinetta.
A causa dell’urto la Giardinetta era finita sul marciapiede, cagionando lesioni
ad un pedone. I giudici sia di merito che di legittimità, ritennero che non
sussistesse cooperazione colposa per la mancanza di un concorso cosciente e
volontario di condotte. Si trattava, piuttosto, di concorso di cause nel quale
l’unico evento è effetto di mera coincidenza di azioni colpose, non collegate
fra loro da alcun vincolo morale o psicologico.
Un principio analogo a quello sopra esposto, è stato affermato sempre dal
S.C., nel caso in cui un auto, su tratto di strada rettilineo e pianeggiante,
investì due biciclette che percorrevano la strada nello stesso senso di marcia.
Nel caso in esame, i giudici, non ravvisarono una cooperazione colposa tra
automobilista e ciclisti ma un concorso di cause colpose indipendenti, in
quanto fu accertato che l’evento non voluto, fu cagionato dalla mera
coincidenza di più attività colpose non collegate tra loro, da alcun vincolo
subiettivo.
La Suprema Corte ha ribadito, in un caso di incauto affidamento di un veicolo
a persona che si sapeva priva di patente di guida, che “nella cooperazione nel
delitto colposo gli autori dell’evento hanno la consapevolezza di contribuire
all’azione altrui, altrimenti si ha concorso di cause indipendenti; e
nell’affidamento incauto di un veicolo, la cooperazione nel delitto colposo
ricorre, concretandosi la detta consapevolezza, quando il fatto colposo è
derivato da imperizia nella guida”.
91
In un altro caso, invece, nel quale un uomo, alla guida di un ciclomotore, fu
investito da un automobilista, e a seguito dell’incidente fu ricoverato presso
un ospedale, dove trovò la morte per arresto cardio circolatorio derivante da
peritonite fecaloide non trattata, i giudici di merito hanno ritenuto colpevoli
del reato di omicidio colposo, per aver cagionato, cooperando con le loro
condotte la morte dell’uomo, i sanitari e l’automobilista. La seguente
decisione non si presta, tuttavia, ad essere condivisa da chi scrive, infatti,
posto che, per giurisprudenza costante di legittimità e di merito, per aversi
cooperazione colposa è necessario accertare che vi sia stata confluenza
coordinata e consapevole del comportamento dei singoli partecipanti, è da
escludere che una confluenza coordinata e consapevole di condotte, possa
esservi
stata
tra
l’automobilista
ed
i
sanitari.
Tra
la
condotta
dell’automobilista da un lato, e le condotte dei sanitari dall’altro, si configura,
piuttosto, una ipotesi di concorso di condotte colpose indipendenti, per
essersi verificata una coincidenza fortuita di più condotte colpose nella
produzione dello stesso evento. Si condividono, invece, le conclusioni alle
quali i giudici di merito sono giunti, in riferimento alle condotte dei sanitari,
e cioè che si trattava di cooperazione colposa e non di concorso di cause
indipendenti tra di loro, dal momento che vi fu confluenza coordinata e
consapevole dei comportamenti dei singoli medici, anche se finalizzata a
salvare il paziente, laddove nel concorso di cause, la coincidenza delle singole
azioni od omissioni è meramente fortuita.
La Corte di Cassazione, da ultimo, ha statuito che “ai fini della configurabilità
della cooperazione nel delitto colposo, prevista dall’art. 113 c.p., è sufficiente
92
la coscienza, da parte del soggetto, dell’altrui partecipazione all’azione, ma
non è necessaria la conoscenza delle specifiche condotte e dell’identità dei
partecipi. Ne consegue che la cooperazione è ipotizzabile anche nelle ipotesi
riguardanti le organizzazioni complesse quali la sanità, le imprese e settori
della P.A. nei cui atti confluiscono condotte poste in essere, anche in tempi
diversi, da soggetti tra i quali non c’è rapporto diretto. In tali ipotesi esiste
comunque il legame psicologico previsto per la cooperazione colposa, perchè
ciascuno degli agenti è conscio che altro soggetto (medico, pubblico
funzionario, dirigente etc.) ha partecipato o parteciperà alla trattazione del
caso”.
Nel caso di specie, un automobilista nel percorrere una strada a scorrimento
veloce, che sebbene aperta al traffico veicolare, era ancora in fase di
ultimazione e per di più priva di segnaletica, perdeva il controllo della propria
autovettura, nel tratto terminale della strada, che presentava un dislivello
notevolmente discendente e terminava con tratto in terra battuta. A seguito
dell’urto contro il margine della strada, si procurava lesioni. I giudici
ritennero responsabili dell’accaduto, a titolo di cooperazione, sia il direttore
dei lavori di costruzione della strada che l’ingegnere capo in relazione ai
medesimi lavori, assumendo che entrambi avevano sottoscritto il verbale di
consegna della strada ed in ciò fu ravvisata la prova della interazione
consapevole delle condotte tra i partecipi.
Esposto, da un lato l’orientamento della dottrina maggioritaria circa la
differenza tra la cooperazione colposa ed il concorso di cause indipendenti,
dall’altro, l’orientamento della giurisprudenza sia di legittimità che di merito,
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sullo stesso problema, a chi scrive, sembra possibile concludere, che la
differenza tra la concausazione colposa di un delitto di evento causalmente
orientato da parte di due o più soggetti e la cooperazione colposa da parte
degli stessi soggetti, nello stesso delitto, non può configurarsi sul piano
oggettivo. Infatti sul piano oggettivo, sia nella cooperazione colposa che nel
concorso di cause indipendenti, per addebitare il delitto a ciascun imputato,
sarà necessario accertare che il comportamento di ciascuno, sia stato causale
e colposo rispetto all’evento non voluto. La differenza si configura invece sul
piano soggettivo, laddove, solo nella cooperazione colposa deve esserci
interazione consapevole di condotte, mentre nel concorso di cause
indipendenti, l’evento consegue ad una mera coincidenza di azioni od
omissioni, non collegate da alcun vincolo subiettivo.
Sul piano soggettivo, dunque, gli elementi che caratterizzano la cooperazione
colposa sono:
1. la “rimproverabilità” del partecipe per la violazione della regola
cautelare che sia volta ad evitare eventi del tipo di quelli, in concreto,
verificatosi;
2. il quid pluris della cooperazione, ovvero, la consapevole interazione
delle condotte.
Per quel che riguarda il primo elemento, si tiene a ribadire quanto già è stato
detto nel capitolo primo dell’opera e cioè che, la sussistenza di una situazione
di cooperazione colposa (con l’applicazione del relativo regime giuridico) non
è esclusa per il fatto che un concorrente non sia punibile per mancanza di
94
imputabilità: in una tale ipotesi devono trovare applicazione i principi
desumibili dagli art. 112, ult. comma e 119, primo comma21.
Per quel che riguarda il secondo elemento, nel caso in cui uno soltanto dei
concorrenti abbia consapevolezza di cooperare con altri, il concorso sarà
unilaterale. In questo caso, solo a costui va applicata la disciplina dettata
dall’art. 113, mentre per gli altri soggetti, esclusa una responsabilità
concorsuale, l’eventuale punibilità può sorgere, ricorrendone i presupposti,
sulla base della norma monosoggettiva22.
Terminata, quindi, l’analisi del concorso colposo, sia sul piano oggettivo che
soggettivo, e stabilito quale è il contenuto del principio di affidamento e quali
sono i suoi limiti, si può passare, ora, all’esame di casi pratici in materia di
lavoro medico in équipe, infortuni sul lavoro e circolazione stradale, settori
questi, nei quali, da un lato, con più frequenza si configurano ipotesi di
cooperazione colposa, dall’altro sono questi gli ambiti, nei quali del principio
di affidamento è dato riscontrare le applicazioni più pregnanti, quanto meno
in via astratta, per stabilire se detto principio riesca a trovare concreta
applicazione e quindi valutare che tipo di relazione intercorre tra la
cooperazione colposa ed il principio de quo.
In tal senso, Cfr: ROMANO GRASSO, commentario sistematico al codice penale, art. 113,
edizione 2004; MARINUCCI DOLCINI, codice penale commentato art 113; PADOVANI,
codice penale commentato art. 113.
22
In tal senso Cfr: MARINUCCI DOLCINI, ult. cit; ROMANO GRASSO, ult. cit.; PADOVANI,
ult. cit..
21
95
CAPITOLO IV
COOPERAZIONE COLPOSA E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO
IN ÉQUIPE CHIRURGICA
PREMESSA
L’ipotesi più frequente di cooperazione colposa riguarda il lavoro d’équipe,
che coinvolge personale medico e paramedico.
Tra le varie situazioni di cooperazione medica, l’attività dell’équipe chirurgica
viene ad assumere un posto di rilievo e preminenza, quanto ad aggravio di
responsabilità, dovuto al rischio immediato e maggiore che la terapia
chirurgica generalmente comporta rispetto ad altra attività di cura.
Soprattutto nel settore chirurgico, gli errori sono purtroppo frequenti e capita
spesso di leggere sui quotidiani di vittime o di gravi danni provocati dalla
dimenticanza, quasi sempre per colpevole negligenza, di cotone idrofilo, di
garza od anche di ferri chirurgici nell’addome del paziente.
Sotto l’aspetto dell’attribuzione della colpa, nei contenziosi originati da tali
negligenti dimenticanze, il nodo della questione (più difficile da sciogliere)
generalmente si è concretizzato in una semplice domanda: dell’abbandono
del ferro risponde il “ ferrista”, tenuto, come da prassi, a contare i ferri
utilizzati durante l’operazione, oppure sono responsabili tutti i medici che
compongono l’équipe?
96
Con l’aiuto di recente giurisprudenza di legittimità, cerchiamo di chiarire
come potrebbe distribuirsi la colpa se qualche “corpo estraneo” (ferro
chirurgico, pezza laparotomia ecc..), utilizzato nel corso dell’intervento
chirurgico, dovesse rimanere nell’addome del paziente.
Più precisamente, esaminando due distinte vicende giudiziarie finite in
Cassazione, si può prendere cognizione dei danni causati e delle colpe
conseguenti all’abbandono nell’addome, in un caso, di un ferro particolare: la
cosiddetta “Pinza di Kelly”, la cui funzione è quella di tenere divaricati i
tessuti durante l’operazione, una volta eseguita l’incisione. Invero, si tratta di
una gravissima disattenzione visto che il “ferro” in questione ha una certa
dimensione: 16 cm di lunghezza e 7 cm di larghezza nella parte degli anelli,
con all’estremità due punte ricurve! Nell’altro di una garza laparotomica. I
due casi presi in esame, differiscono tra loro, non tanto per la natura del
corpo estraneo che è stato lasciato nell’addome del paziente, quanto perchè
nel caso della pinza di Kelly, tutti i sanitari componenti l’équipe sono rimasti
in sala operatoria fino al termine dell’intervento, mentre nel caso della garza
laparatomica, uno dei medici chirurghi che ha coadiuvato nello svolgimento
dell’intervento, si è allontanato dalla sala operatoria prima che questo si fosse
concluso.
97
PARAGRAFO I: SE UN FERRO CHIRURGICO RIMANE NELL’INTESTINO È
RESPONSABILE SOLO IL “FERRISTA”?
Di recente, si è verificato che tre medici, uno nella qualità dì Primario, e gli
altri nella qualità di chirurghi, sono stati, unitamente agli infermieri –
strumentisti, rinviati a giudizio, per rispondere del delitto di lesioni colpose
gravi in pregiudizio di un paziente, il quale aveva riportato un laparocele, con
indebolimento
permanente
della
funzione
contenitiva
della
parete
addominale, a cagione della condotta negligente tenuta dai suddetti medici e
paramedici, in cooperazione colposa tra loro, nel corso dell'intervento
chirurgico eseguito in équipe per una occlusione intestinale accusata dal
paziente, condotta consistita nell'omessa vigilanza reciproca sull’utilizzo degli
strumenti chirurgici, uno dei quali, e precisamente una pinza di Kelly era
stata lasciata all'interno della cavità addominale, rendendo necessario a
distanza di tempo un secondo intervento per rimuovere la pinza1.
Così Cass. Pen. Sez. IV 18.05.2005 n. 18568
Un'altra vicenda giudiziaria di abbandono di “corpo estraneo”, nell’addome del paziente, trae
origine da un intervento chirurgico eseguito in via di urgenza su persona ricoverata nella
stessa giornata (1 5.12.1995) per "colica addominale di natura da determinare".
Nel corso dell'intervento si evidenziava la presenza di un adenocarcinoma perforato del
sigma con peritonite diffusa, neoplasia poi accertata di natura maligna.
Quattro mesi dopo (17.4.1996) la paziente veniva nuovamente ricoverata per "coliche
addominali ricorrenti associate a disturbi urinari", e dagli esami radiologia risultava un
corpo estraneo nell'addome.
Operata nuovamente dagli stessi medici, veniva rimossa una pinza chirurgica rimasta
nell'addome dopo la sutura della ferita a seguito della prima operazione.
In data 2.5.1996 la paziente veniva sottoposta al terzo intervento chirurgico per una
fistolizzazione, di ansa intestinale con successivo cedimento parziale della sutura
laparatomica, ma, nei giorni successivi, si verificarono una nuova fistolizzazione e fatti
emorragici.
Sta di fatto che la paziente il 29.6.1996 entrò in coma ed il giorno successivo è morta.
Occorre in primo luogo considerare - anche se la situazione può apparire paradossale - che
nel caso di specie il giorno dell'operazione mancava l'infermiera ferrista, addetta
1
98
nominalmente al controllo delle pezze laparotomiche e alla conta dei ferri utilizzati dai
chirurghi.
Tuttavia, la suddetta circostanza non ha avuto alcuna influenza sul fatto che tutti i medici
dell'équipe chirurgica siano stati ritenuti in colpa, per non aver verificato al termine
dell'intervento (prima della chiusura della ferita) il numero dei ferri chirurgici adoperati.
Solo il giudice di primo grado, nell'attribuire la responsabilità all'intera équipe, ha dato un
certo peso "anche" alla circostanza che, " mancando il ferrista, cioè proprio l'addetto al
controllo ed al conteggio dei ferri, un medico componete l'équipe avrebbe detto alla figlia
della paziente, come da questa dichiarato: "Facciamo tutto noi".
Il primo giudice (Pretore) ha fondato il giudizio di responsabilità sui risultati degli
accertamenti tecnici effettuati, sia con perizia, sia con consulenze tecniche delle parti, nonché
sulla testimonianza della figlia della donna deceduta.
I periti, pur dichiarando che la grave malattia ne avrebbe comportato sicuramente il decesso
entro un termine massimo non definibile, ma da ritenere non superiore ad un anno, hanno
concluso che "il comportamento negligente dei sanitari chirurghi (ndc: e cioè dimenticanza
della pinza) non ha determinato l'evento letale ma ha contribuito ad accelerarlo, sì da
ritenersi ad esso eziologicamente riconducibile in via concorrente".
A tale conclusione i periti giunsero non solo per le dimensioni della pinza, lunga 16 cm., e
larga nella parte degli anelli 7 cm., con all'estremità due punte ricurve, ma per la circostanza
che la paziente, per i dolori causati dalla presenza nel proprio corpo della pinza, è stata
costretta ad assumere "generose dosi disarmaci analgesici che hanno comportato un grave
insulto tossico su di un fegato già meiopragico a causa della preesistente statosi".
Peraltro, è risultata pacifica la circostanza che "la pinza presentava una branca rotta (forse
per le continue sterilizzazioni), per uno spezzone di 33 mm., recuperato anch’esso in
addome, ed ha ritenuto che ciò può avere comportato lo scivolamento della pinza tra le
anse intestinali, senza che nessuno della equine chirurgica se ne accorgesse ".
Proprio per la suddetta situazione (rottura della pinza), secondo gli incolpati, la fattispecie
doveva farsi rientrare nell'ambito di operatività del "caso fortuito" disciplinato dall'art. 45 del
codice penale, nel senso che la mancata rimozione è stata dovuta ad una fatalità tanto
accidentale, quanto un prevedibile, e cioè la rottura di una delle estremità del ferro
chirurgico, che ne aveva comportato lo scivolamento tra le anse intestinali, senza che
nessuno se ne sia potuto accorrere.
Il Pretore ha ritenuto che non potesse sussistere la scriminante del "caso fortuito" di cui
all'articolo 45 del c. p. "in quanto i medici non hanno poi effettuato un conteggio finale, che
avrebbe sicuramente evidenziato la mancanza di quel ferro, valutate anche le dimensioni e
l'ampiezza della ferita, dallo sterno al pube, che avrebbe necessitato un più attento
controllo. Il giudice di primo grado ha valutato anche la negligenza successiva, perchè nei
4 mesi tra dicembre e aprile nessuno si è accorto della mancanza della pinza ".
Il primo giudice, dopo aver individuato la responsabilità dell'intera equipe medica "anche"
nella circostanza che, mancando l'addetto al controllo ed al conteggio dei ferri, un medico
componete l'equipe ebbe a dire alla figlia della paziente che avrebbero provveduto loro
medici, ha concluso la motivazione della sentenza di condanna con un breve riassunto dei
fatti e con un'ampia esposizione sul trattamento sanzionatorio.
La Corte di merito ha sostanzialmente confermato il giudizio di responsabilità degli imputati,
in quanto ha ritenuto che la rottura di un margine della pinza ed il suo scivolamento nelle
anse intestinali, pur non essendo accadimento frequente, non è comunque imprevedibile ed
eccezionale.
Infatti, da atto che l'usura dei ferri o un eventuale difetto di costruzione possono cagionare
un evento del genere.
La Cassazione sul punto ( sentenza 26.05.2004 n.39062) precisa che "la valutazione in
diritto della sussistenza o meno del "caso fortuito" nella specie va compiuta in relazione alla
assoluta non riconducibilità del fatto che lo costituirebbe ai ricorrenti e sulla assoluta
autonomia di tale fatto incidente sull'evento letale, senza partecipazione causale degli
imputati ".
Nel condividere la decisione della Corte di merito per avesse escluso l'applicabilità, chiarisce:
"la questione così posta ha il difetto di un esame parziale della fattispecie ed assolutamente
99
Nel caso in esame, per individuare i soggetti penalmente responsabili, c’è da
chiedersi innanzitutto, chi, all’interno dell’équipe, avesse il compito di
contare i ferri al termine dell’operazione.
L’orientamento prevalente in dottrina, è quello di ritenere applicabili
all’attività medico chirurgica in équipe, i seguenti principi:
1. il principio della divisione del lavoro al quale consegue la divisione
degli obblighi tra i componenti dell’équipe.
2. Il principio di affidamento, in forza del quale ogni componente del
gruppo può confidare sul fatto che gli altri rispettino gli obblighi di
incompleto" perché "la condotta colpevole dei ricorrenti si identifica non tanto nella rottura
della pinza, che, pur non essendo circostanza imprevedibile, non è attribuibile direttamente
agli imputati, quanto nell'omesso conteggio dei ferri dopo la sutura della ferita, e nella
successiva omessa immediata rimozione ".
A maggior chiarimento del tema affrontato e dell'interrogativo posto prima in evidenza è il
caso di riportare testualmente quanto, i giudici di legittimità, aggiungono.
"E', infatti, evidente" chiariscono "che è opportuno il conteggio prima della chiusura della
ferita per rimuovere eventuali pezzi dimenticati (talvolta è successo con garze o cotone
idrofilo), senza procedere poi alla "scucitura" subito dopo l'intervento, ma è altrettanto
evidente che regole semplici di diligenza, di perizia e di prudenza, senza neppure
"scomodare" la conoscenza della scienza medica, impongono di controllare nuovamente
che tutti i ferri siano stati rimossi dopo la sutura della ferita, in quanto ad una eventuale
omissione si può porre rimedio nell’immediatezza,
procurando un lieve trauma la "scucitura " della sutura, là dove la permanenza del ferro
nel corpo per molto tempo (nella specie diversi mesi) ed il dovere procedere a nuovo
intervento chirurgico per rimuoverlo dopo che si siano prodotte tenaci aderenze sono causa
di lesioni gravi, o addirittura della morte del paziente".
"E’ dovere professionale di procedere al conteggio dei ferri non può quindi ritenersi
esaurito eseguendolo prima della sutura della ferita e ancorché ancora alcuni pezzi
permangono nel corpo della persona sottoposta ad intervento chirurgico, ma va
completato con una ulteriore verifica subito dopo la sutura per controllare la rimozione
degli ulteriori pezzi, proprio perchè è possibile (come è avvenuto nella specie) che tali ferri
possano, per diverse cause (per dimenticanza o per incidente), essere stati lasciati nel corpo
della persona operata ".
Viene pure specificato che, nella specie, agli imputati è stata contestata la colpa generica e
non la violazione di particolari cognizioni di scienza medica, quindi: "Non può esservi dubbio
che almeno il controllo della rimozione dei ferri spetti all'intera equine operatoria, e cioè ai
medici, i quali hanno la responsabilità del buon esito dell'intervento, non solo in relazione
all'oggetto dell'operazione, ma altresì per tutti gli adempimenti connessi, sicché è del tutto
inaccoglibile l'argomento secondo il quale il controllo successivo alla saturazione della
ferita, e cioè quello definitivo e tranquillizzante, sia devoluto al personale infermieristico,
secondo una prassi consolidata. avendo il personale paramedico, nel settore chirurgico,
funzioni di assistenza, ma non di verifica dell'attuazione dell'intervento operatorio nella
sua completezza".
100
diligenza dall’ordinamento loro imposti e quindi può concentrarsi sui
propri compiti.
3. Il principio della responsabilità personale, in forza del quale ogni
componente del gruppo risponde delle inosservanze inerenti le sue
competenze specifiche.
Qualora questi principi, avessero trovato applicazione concreta, nel caso in
esame, la conclusione sarebbe stata quella di addebitare l’erronea od omessa
conta dei ferri chirurgici al solo ferrista.
Tuttavia, non è stata questa la strada percorsa dai giudici che si sono occupati
della vicenda2.
L’errore nella c.d. conta dei ferri chirurgici da parte del ferrista non ha minimamente
influenzato il giudizio della Corte che, anche in proposito, ha ritenuto essere stata
correttamente esposta dai giudici di secondo grado l’argomentazione secondo cui “i medici,
qualora si avvalgano di paramedici ai quali sia materialmente affidata l’esecuzione di un
compito, conservano sull’attività degli ausiliari intatto il dovere di vigilanza; dovere che nella
fattispecie è stato omesso da parte di ciascun medico nei confronti del ferrista”.
Se il rigore del ragionamento tecnico – giuridico di queste sentenze non può essere criticato,
ciò non toglie che, come è stato osservato (da Pietrantonio Ricci Straordinario di Medicina
legale Università degli Studi Magna Grascia di Catanzaro), il medico legale non può non
segnalare come essa faccia riferimento a un’epoca, il 1995, in cui la figura dell’infermiere non
aveva la dignità attuale in termini di qualificazione professionale e che l’introduzione delle
professioni sanitarie pone in carico a queste nuove figure di laureati delle responsabilità
proprie, soprattutto in relazione a un caso simile”.
Recentissime le notizie di stampa (17.07.05) sul caso di cosiddetta malasanità verificatosi in
una clinica privata di Cagliari, dove ben due pinze chirurgiche sono state dimenticate
nell’addome di un paziente. Le pinze sarebbero state lasciate il 31 maggio 2005, giorno di
effettuazione di un intervento chirurgico per rimuovere un tumore dalla vescica, ad un
operaio di 65 anni che ha trascorso gli ultimi due mesi della sua vita tra atroci sofferenze,
giustificate dai medici come dolori post operatori.
Le due pinze chirurgiche di Cagliari, devono perciò fare i conti con la L. 26.02.1999, n. 42 il
cui art. 1, con lo statuire che la denominazione “ professione sanitaria ausiliaria” nel testo
unico delle leggi sanitarie, approvato con regio decreto 27 luglio 1934. n. 1265, e successive
modificazioni, nonché in ogni altra disposizione di legge, è sostituita dalla denominazione
“professione sanitaria” non può che significare che per il Legislatore quella stessa attività che
era stata svolta dal personale paramedico fino ad allora come meramente ausiliaria, l’ha
voluta come totalmente ad essa autonoma tanto da fargli abrogare, da una parte, il
regolamento approvato c on decreto del Presidente della Repubblica il 14 marzo 1974, n. 225
avente ad oggetto le modifiche al regio decreto 2 maggio 1940, n. 1310, sulle mansioni degli
infermieri professionali e infermieri generici e, dall’altra, con lo statuire che il campo proprio
di attività e di responsabilità delle professioni sanitarie di cui all’art. 6, comma 3, del decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni e integrazioni, è determinato
dai contenuti dei decreti ministeriali istitutivi dei relativi profili professionali e degli
2
101
In primo grado, infatti, tutti gli imputati sono stati ritenuti colpevoli del reato
loro in concorso ascritto.
I giudici di merito, hanno parzialmente riformato la sentenza di primo grado,
assolvendo con formula “per non aver commesso il fatto” soltanto uno degli
infermieri, che era stato condannato in primo grado e confermando nel resto
l’impugnata decisione.
La Corte di appello, condivisibilmente, ha ritenuto che l’applicabilità del
principio di affidamento doveva essere esclusa, in quanto il caso concreto era
caratterizzato dall’opera comune e contestuale di un’équipe medica,
all’interno
della
quale
gli
operatori
sanitari
non
avevano
diverse
specializzazioni, ricoprendo essi lo stesso ruolo di chirurghi, con
interscambiabilità degli stessi nell’esecuzione di un complesso intervento
chirurgico. Pertanto la sinergia operativa propria di un intervento a “quattro
mani” avrebbe dovuto comportare per i chirurghi, una doverosa reciproca
vigilanza anche nell’attività di asportazione dei ferri non demandabile ad altri
e non avendo corrisposto a tale dovere, ciascuno di essi doveva
correlativamente rispondere penalmente dell’evento lesivo per fatto proprio e
non per fatto altrui.
ordinamenti didattici dei rispettivi corsi di diploma universitario e di formazione postbase
nonché degli specifici codici deontologici fatte slave le competenze previste per le professioni
mediche e per le altre professioni del ruolo sanitario per l’accesso alle quali è richiesto il
possesso del diploma di laurea, nel rispetto reciproco delle specifiche competenze
professionali.
Un’ “autonomia”, che secondo parte della dottrina, manda in archivio il dovere di vigilanza
del quale la S.C. ha investito il medici sull’attività degli ausiliari onde sarebbe antistorico
parlare per le due pinze chirurgiche dimenticate di dovere di vigilanza che sarebbe rimasto
dopo una tal legge intatto per essere stato omesso da parte di ciascun medico nei confronti
del ferrista e che fa, nel contempo, rientrare, magari dalla finestra, quel principio di
affidamento che la S.C. aveva estromesso dalla parta nelle sentenze del 26.05.2004 n. 39062;
e 18.05.2005, n. 18568.
102
Quindi, in capo a tutti i membri dell’équipe vigeva l’obbligo di controllo
sull’uso e sul recupero dei ferri una volta terminata l’operazione. Tutti
avevano omesso tale controllo, di conseguenza, nessuno poteva fare
affidamento sul corretto comportamento né degli altri medici, né del ferrista.
Degli altri medici, poiché il principio in esame, non può estendersi fino al
punto da ritenere che si possa agire imprudentemente affidandosi alla
diligenza altrui. Proprio questo principio è stato applicato al caso de quo dalla
Corte di Cassazione, che ha affermato che “non può parlarsi di affidamento
quando colui che si affida sia in colpa per aver violato determinate norme
precauzionali o per aver omesso determinate condotte e ciononostante
confidi che altri, che eventualmente gli succede nella stessa posizione di
garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione”.
Del ferrista, ovvero del personale paramedico, poiché i medici, qualora si
avvalgano di paramedici ai quali sia materialmente affidata l’esecuzione di un
compito, conservano, sull’attività degli ausiliari, intatto il dovere di vigilanza,
dovere che nella fattispecie era stato omesso da parte di ciascun medico nei
confronti del ferrista.
La Corte di Appello, tuttavia, ha assolto uno degli infermieri, e la Corte di
Cassazione, dinnanzi alla doglianza lamentata dai chirurghi connessa alla
mancata applicazione, nei loro confronti, del principio di affidamento, ha
ritenuto che la stessa fosse infondata, poiché la pronuncia di assoluzione
dell’infermiere, trovava giustificazione non nell’applicazione di detto
principio, bensì nella posizione del tutto esclusiva rivestita per l’occasione da
costui, in quanto esso, facendo parte del personale non sterile, non aveva
103
avuto alcun contatto con il campo operatorio e non aveva avuto, come fu
accertato, alcun potere di controllo in ordine ai ferri chirurgici usati per
l’intervento.
Dalla sentenza in esame pertanto emergono tre limiti al principi di
affidamento:
1. quando all’interno di una équipe, gli operatori sanitari non hanno
diverse
specializzazioni
e
ricoprono
lo
stesso
ruolo
con
interscambiabilità degli stessi nell’esecuzione di un complesso
intervento chirurgico, vige in capo a ciascuno il reciproco dovere di
vigilanza sull’uso ed il recupero di tutti i ferri chirurgici. Ciò esclude
l’applicabilità del principio di affidamento con la conseguenza che
ciascuno dei componenti l’équipe chirurgica risponde penalmente
dell’evento lesivo cagionato al paziente per fatto proprio e non per
fatto altrui;
2. non può parlarsi di affidamento quando colui che si affida sia in colpa
per aver violato determinate norme precauzionali o per aver omesso
determinate condotte;
3. i medici (chirurghi) qualora si avvalgano dell’attività di paramedici ai
quali sia materialmente affidata l’esecuzione di un compito conservano
sulla loro attività intatto il dovere di vigilanza perchè hanno la
responsabilità del buon esito per tutti gli adempimenti connessi.
Resta poi da chiedersi perché i giudici abbiano ritenuto di non escludere
alcun membro dall’obbligo di controllo.
Probabilmente perché:
104
1. tutti i sanitari, medici e paramedici, sono portatori ex lege di una
posizione
di
garanzia
espressione
dell’obbligo
di
solidarietà
costituzionale imposto ex articoli 2 e 32 della Carta fondamentale, nei
confronti dei pazienti, la cui salute essi devono tutelare contro
qualsivoglia pericolo che ne minacci l’integrità;
2. ogni intervento chirurgico, comporta lo svolgimento di una attività
molto complessa e rischiosa, per cui è necessario che ogni componente
l’équipe sia massimamente accorto e diligente;
3. a dover essere tutelati sono la vita e l’incolumità fisica dei pazienti,
beni giuridici, questi, di fondamentale importanza;
4. l’errore (o la omissione) è derivato da una negligenza eclatante.
Nel caso in esame, inoltre, senza dubbio si configura una ipotesi di
cooperazione colposa, in quanto le condotte di ciascun sanitario, sul piano
oggettivo sono necessariamente causali rispetto all’evento (nel caso di specie
si è verificata una progressione causale che ha visto nell’omessa asportazione
della pinza, avvenuta nel primo intervento chirurgico, la condizione
imprescindibile del secondo intervento, causa diretta del laparocele. Quindi il
primo intervento chirurgico deve essere visto come condizione causale
necessaria del secondo intervento, resosi necessario per rimuovere la pinza e
causa del laparocele).
Sono colpose, in quanto tutti i membri dell’équipe hanno omesso il controllo
a cui erano obbligati (i giudici di secondo grado, hanno condiviso il
convincimento del primo giudice, secondo cui l’accertata negligenza,
tradottasi, nella specie, nell’insufficienza del doveroso reciproco controllo
105
sull’uso delle pinze chirurgiche, aveva caratterizzato in modo colposo la
condotta professionale degli imputati). Sul piano soggettivo, tutti sono
rimproverabili per l’omissione. Inoltre, in capo a ciascuno di essi, è
ravvisabile la consapevolezza di prendere parte e di contribuire all’azione
dell’altro. Nella Cooperazione colposa infatti non è richiesto che il partecipe
abbia consapevolezza del carattere colposo dell’altrui condotta, è sufficiente
che sia consapevole di partecipare all’azione od omissione di altri che insieme
con la propria condotta è stata causa dell’evento non voluto. E che tale
consapevolezza fosse presente, non può mettersi in dubbio in una operazione
a “quattro mani”.
Nel caso in esame, in definitiva, si configura una ipotesi di cooperazione
colposa e non trova invece applicazione il principio di affidamento.
E veniamo al secondo caso, nel quale a seguito di un intervento di taglio
cesareo eseguito da due chirurghi, era stata dimenticata nell’addome della
paziente una garza laparotomica.
106
PARAGRAFO II: SCIOGLIMENTO ANTICIPATO E RESPONSABILITÀ
DELL’ASSENTE
A seguito di un intervento di taglio cesareo, eseguito da due medici,
coadiuvati dal personale infermieristico, era stata dimenticata nell’addome
della paziente una garza laparotomica. Dimessa dalla clinica la paziente era
stata sottoposta ad ulteriori interventi: il primo intervento fu causato dalla
necessità di rimuovere la garza laparotomica, ed i successivi per sopperire
alle gravi complicazioni alle quali aveva dato luogo la permanenza della garza
nell’addome.
Nell’intervento di taglio cesareo, inoltre, la negligenza consistita nell’avere
lasciato la garza nell’addome della paziente, si era verificata nella fase finale
dell’intervento, e cioè appena prima della sutura della ferita, fase che si svolse
in assenza di uno dei due chirurghi, che con il consenso del collega, si era
allontanato dalla sala operatoria, poiché era stata chiamato in reparto per
svolgere delle specifiche incombenze più urgenti delle semplici fasi di
completamento di un intervento fino a quella fase perfettamente riuscito.
I due medici, unitamente al personale infermieristico che aveva con loro
preso parte all’intervento, furono rinviati a giudizio per aver cagionato lesioni
personali colpose, in cooperazione tra loro, alla paziente3.
Tutti gli imputati sono stati condannati sia in primo che in secondo grado.
3
Cass. Pen. Sez. IV, sentenza 6 aprile 2005 – 16 giugno 2005, n. 22579
107
Presentato ricorso per cassazione da entrambi i medici, la Corte ha accolto
solo il ricorso del medico che si era allontanato dalla sala operatoria prima
che l’intervento fosse finito.
Con riferimento alla condotta omissiva del medico che svolse l’intervento
senza mai allontanarsi dalla sala operatoria, i giudici di legittimità hanno
ritenuto sussistente il nesso di causalità tra la sua condotta omissiva, e gli
eventi lesivi successivi, in quanto, senza l'iniziale negligenza, nessuna
conseguenza negativa, incidente sulla salute della paziente, si sarebbe
verificata. La condotta del medico, pertanto, era causa di tutti i successivi
eventi lesivi, in quanto antecedente causale determinante, l’evento. Ma oltre
ad essere causale, la condotta del medico, era senza dubbio anche colposa,
avendo egli lasciato, per negligenza una garza nell’addome della paziente.
Il medico in questione, inoltre, ha invocato a sua discolpa il principio di
affidamento nei confronti del ferrista, poiché sua (anche sulla base del
principio della divisione del lavoro), sarebbe stata la competenza alla conta
delle garze.
La domanda alla quale i giudici hanno dovuto dare una risposta,
sembrerebbe la seguente: poteva il personale medico, fare affidamento sul
fatto che il ferrista, avrebbe con diligenza ed accortezza svolto una delle sue
funzioni, ovvero quella consistente nel contare le garze al termine
dell’operazione e prima della sutura della ferita?
A questa domanda i giudici di legittimità, condivisibilmente hanno dato le
seguenti risposte:
108
1. “i medici, qualora si avvalgano di paramedici, ai quali sia
materialmente affidata l’esecuzione di un compito, conservano
sull’attività degli ausiliari intatto il dovere di vigilanza”(questo
principio il S. C. lo ha espresso nella sentenza del 18.05.2005 n.
18568).
2. “il controllo della rimozione dei ferri spetta all’intera équipe
operatoria, cioè ai medici, che hanno la responsabilità del buon esito
dell’operazione anche con riferimento a tutti gli adempimenti connessi
e non può essere delegato al solo personale paramedico, avendo gli
infermieri funzione di assistenza ma non di verifica” (questo principio
la Corte lo ha espresso nella sentenza del 26.05.2004 n.39062 e lo ha
ribadito nella sentenza ora in esame).
Ne consegue che il principio di affidamento non può trovare applicazione
poiché, da un lato, i medici mantengono una posizione di vigilanza
sull’attività degli ausiliari, dall’altro, perché l’obbligo di controllare la
rimozione delle garze e dei ferri, che sono stati usati nel corso
dell’operazione, spetta non al solo ferrista, ma all’intera équipe operatoria.
Per quanto riguarda, invece, l’altro chirurgo, poteva la sua condotta ritenersi
colposa per essersi allontanato dalla sala operatoria prima del termine
dell’intervento?
I giudici di merito hanno accertato che egli si era allontanato dalla sala
operatoria:
109
1. con il consenso del collega, (nella sentenza di merito si legge infatti che
la sua presenza fu richiesta in sala operatoria finchè fosse
indispensabile);
2. e perché era stata richiesta la sua presenza in reparto, per svolgere
delle incombenze più urgenti delle semplici fasi di completamento di
un intervento di parto cesareo fino a quella fase perfettamente
riuscito;
da tali accertamenti doveva escludersi, pertanto, che da parte sua vi fosse
stata violazione di una qualche regola cautelare.
I giudici di legittimità hanno affermato che pur dovendosi riconoscere
l’operatività del principio secondo il quale: “ogni sanitario non può esimersi
dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro
collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la
correttezza, se del caso ponendo rimedio o facendo in modo che si ponga
opportunamente rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali e,
come tali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze
scientifiche del professionista medio” (principio questo, che chiaramente, si
pone come limite al principio di affidamento), nel caso in esame, si doveva
tener conto che l’équipe operatoria, si era sciolta anticipatamente. Secondo il
S.C. lo scioglimento anticipato:
1. non incide sull’esclusione della colpa e del nesso di causalità, qualora
avvenga in un intervento ad alto rischio, senza giustificazioni per chi si
allontana e quindi facendo venir meno quel contributo di conoscenze
110
professionali che possono salvaguardare l’incolumità del paziente in
presenza di errore altrui.
2. consente invece di escludere la colpa per negligenza e, di conseguenza,
l’incidenza causale sull’evento, qualora avvenga in una fase in cui
l’intervento può ritenersi, se non concluso, solo da definire con
adempimenti della massima semplicità, quali la conta delle garze e dei
ferri da rimuovere o già rimossi, e, subito dopo, la sutura della ferita, a
conclusione di un’operazione chirurgica perfettamente riuscita,
essendo il medico che si allontana giustificato da altre più pressanti ed
urgenti attività mediche.
Da ciò ne conseguiva che il medico in questione, non poteva essere accusato
di aver cooperato alla negligenza, consistita nell’avere lasciato la garza
nell’addome della paziente, per il solo motivo di aver fatto parte dell’équipe
operatoria, essendo il suo allontanamento giustificato da altre più urgenti
attività mediche.
La Corte di Cassazione ha quindi individuato, nello scioglimento anticipato
dell’èquipe operatoria, qualora sia giustificato, un limite alla colpa che è valso
ad escludere la penale responsabilità di uno dei due chirurghi.
Responsabilità penale a titolo di cooperazione colposa si è configurata,
invece, tra il medico che non si era allontanato dalla sala operatoria ed il
ferrista. Le condotte di entrambi i soggetti, erano infatti, sul piano oggettivo,
causali e colpose rispetto all’evento; sul piano soggettivo, entrambi i soggetti
erano rimproverabili per la violazione di regole cautelari volte ad evitare
eventi del tipo di quello verificatosi. Trattandosi inoltre, di un intervento
111
svolto in équipe, era presente l’interazione consapevole delle condotte. Il
principio di affidamento invocato dal medico a sua difesa, come già detto,
non ha trovato invece applicazione.
112
PARAGRAFO III: SUCCESSIONE NELLA POSIZIONE DI GARANZIA ED
ESCLUSIONE DEL PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO
Un automobilista, percorrendo una strada in senso vietato, investiva un
ciclomotorista, che riportava lesioni e veniva accompagnato in ospedale.
Avendo riportato la rottura della milza, lo stesso, era sottoposto ad intervento
di splenectomia da parte del primario chirurgo e del suo aiuto. Uscito dalla
sala operatoria, veniva sistemato in reparto ed affidato a controllo medico,
con l'assistenza degli infermieri. Dopo alcune ore, si riscontrava improvviso
aggravamento delle condizioni del paziente, che poco dopo decedeva.
In sede di indagini preliminari si individuava la causa della morte in un
fenomeno emorragico dipeso da cattiva chiusura della arteria in fase
operatoria e non diagnosticato tempestivamente in fase post operatoria.
Sia l’automobilista che i sanitari, venivano rinviati a giudizio con l’addebito di
cooperazione colposa in omicidio colposo4.
Il primo problema che si pone, è quello di accertare se tra il primario, il suo
aiuto e l’automobilista, sia configurabile una cooperazione colposa.
Prendiamo in considerazione le condotte di ciascuno di detti soggetti e
vediamo innanzi tutte se siano, sul piano oggettivo causali e colpose rispetto
all’evento.
Per quanto riguarda l’automobilista, la sua condotta è causale rispetto
all’evento poiché le lesioni riportate dal ciclomotorista, non furono lievi,
4
Cass. pen. Sez. IV, 18.06.1999 (26.05.1999), n. 8006 pres. Viola G.
113
tanto è vero che questi fu sottoposto ad intervento chirurgico per
l’asportazione della milza che si era rotta a seguito dell’incidente. Quindi fu la
gravità delle lesioni a rendere necessario l’intervento chirurgico. Ciò
impediva di riconoscere la successiva colpa medica come situazione
eccezionale, atipica, imprevedibile idonea ex art. 41, 2º comma ad
interrompere il nesso causale tra la condotta dell’automobilista e la morte
dell’uomo. L’automobilista era inoltre in colpa, per aver percorso la strada in
senso vietato.
Per quanto riguarda la condotta del primario, che sia causale rispetto
all’evento, non pare dubbio. Infatti, è vero che la morte era dovuta ad un
fenomeno emorragico non diagnosticato tempestivamente nella fase post
operatoria, ma l’emorragia era dipesa dalla cattiva chiusura dell’arteria da lui
eseguita.
Per quanto riguarda invece la colpa, poteva il primario fare affidamento sul
fatto che il medico alle cui cure il paziente fu affidato dopo l’operazione,
eseguisse il controllo dovuto con scrupolosa attenzione e con diligenza, tanto
da accorgersi dell’emorragia (conseguita alla cattiva chiusura dell’arteria) e
salvare la vita al paziente (andando quindi a neutralizzare le conseguenze
dannose derivate dal comportamento colposo del collega)?
La Corte di Cassazione, ha espresso sul punto, due condivisibili principi:
1. in caso di successione in posizione di garanzia, colui al quale altri
succeda, non si libera da eventuali responsabilità riconducibili alla sua
condotta, facendo affidamento sull’adempimento del proprio dovere
da parte del successore;
114
2. non si può ipotizzare affidamento quando colui che si affida sia in
colpa per avere violato
determinate norme di condotta,
e,
ciononostante, confidi che altri che gli succede nella posizione di
garanzia elimini la violazione e ponga rimedio a conseguenze negative
di sua colpa già estrinsecata.
Questi due principi, sono altrettanti due limiti al principio di affidamento. Il
primario, cioè, non poteva invocare a sua discolpa il principio di affidamento
sia perché egli essendo in colpa, (per non aver chiuso bene, a causa di
negligenza, l’arteria), non poteva confidare nel fatto che il medico che gli
succedeva nella posizione di garanzia, eliminasse la violazione, ponendo
rimedio alle conseguenze della sua colpa; sia perché in qualità di garante
primario, non si liberava, a causa della successione, da eventuali
responsabilità riconducibili alla sua condotta.
Per quanto infine riguarda la condotta dell’aiuto del primario, i giudici sia di
primo che di secondo grado, hanno affermato che vi fu anche sua colpa,
nonostante che alla difettosa chiusura del vaso sanguigno aveva proceduto
materialmente il primario. All’aiuto fu contestato di non essersi attivato per
ovviare all’errore commesso dal capo équipe.
Poteva l’aiuto primario, invocare il principio di affidamento nei confronti del
suo superiore?
Al riguardo, la Corte di Cassazione, ha enunciato due condivisibili principi:
1. l’errore materiale di uno dei compartecipi, avallato e non corretto da
un altro componente dell’équipe presente, partecipe e corresponsabile,
nella libera distribuzione di compiti in una operazione effettuata in
115
coppia, è sostegno di colpa anche del secondo componente, pur non
avendo costui commesso in concreto l’errore materiale
causa
dell’evento lesivo.
2. La corresponsabilità dell’èquipe chirurgica, anche omissiva per
qualcuno dei componenti, è insita nel significato e nella funzione
dell’équipe: se questa è ritenuta necessaria ed utilizzata per una
determinata operazione ed evidentemente per il grado di difficoltà
della
operazione,
non
può
prescindersi
dalla
assunzione
di
responsabilità da parte di tutti i componenti dell’équipe e non può
valutarsi la colpa come se l’operatore sia uno solo.
Questi due principi escludono che il principio di affidamento possa operare a
favore del medico che, pur avendo preso parte all’équipe, non abbia posto
materialmente in essere l’errore che è stato causa dell’evento, ma che tuttavia
era presente quando l’errore è stato posto in essere e che non si è accorto, per
sua negligenza, dello stesso e non lo ha corretto. Tuttavia, la Corte di
Cassazione ha precisato che va verificato e spiegato se l’intervento correttivo,
omesso nel contesto operativo, era possibile.
Per quanto riguarda l’elemento soggettivo della cooperazione colposa, anche
se, tanto l’automobilista che il primario sono entrambi rimproverabili per
l’avvenuta violazione di regole cautelari, non sembra che si configuri la
consapevolezza di partecipare alla condotta di altri, che insieme con la
propria, è stata causa dell’evento non voluto. Piuttosto, sembra essersi
verificata, una mera coincidenza di più azioni colpose, causatrici dell’evento,
116
tra loro indipendenti o, quanto meno, non collegate da un vincolo psicologico
tra le persone che le hanno commesse.
In nessuno dei casi esaminati, il principio di affidamento è riuscito a trovare
concreta applicazione, poiché, i giudici tanto di legittimità che di merito, vuoi
per la pericolosità connessa ad ogni intervento chirurgico, vuoi per
l’importanza dei beni giuridici coinvolti, hanno sempre finito per individuare
dei limiti all’operatività dello stesso.
117
COOPERAZIONE COLPOSA E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO IN
MATERIA ANTINFORTUNISTICA
PREMESSA
Nel capitolo secondo si è visto come nel rapporto tra datore di lavoro e
lavoratore, di fatto, il principio di affidamento non riesca mai ad eludere la
colpa del datore di lavoro, qualora si verifichi un infortunio sul lavoro, in
danno del dipendente. Ciò, si è detto, è dovuto in primo luogo, al fatto che il
datore di lavoro riveste una posizione di garanzia nei confronti del lavoratore,
avente per contenuto il controllo della rispondenza della condotta del
prestatore d’opera alle regole di diligenza delle quali il medesimo è
destinatario, ed ha per di più, l’obbligo di proteggere il lavoratore, attraverso
l’adozione delle misure antinfortunistiche richieste dalla legge, dalla sua
stessa negligenza, imprudenza ed imperizia.
Tuttavia, è possibile che il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, non sia
diretto. Potrebbe darsi, cioè, che il datore di lavoro si trovi a capo di una
struttura imprenditoriale articolata e complessa e che quindi si renda
necessaria una ripartizione organizzativa di compiti da affidare a dei
collaboratori.
Qualora, infatti, l’imprenditore fosse personalmente tenuto ad adempiere a
tutta la serie di obblighi imposti dalla legislazione del lavoro, è stato
giustamente osservato, che si determinerebbe la trasformazione della
118
funzione imprenditoriale in una mera attività amministrativa, dalla quale
resterebbe
forzatamente
estranea
l’organizzazione
dei
fattori
della
produzione, che pure ne è il momento caratterizzante non solo sul piano
economico, ma su quello dei valori giuridici.
Il titolare dell’impresa, pertanto, non potendo abbracciare tutti i settori della
complessa organizzazione aziendale, si può trovare nella necessità di delegare
alcune attività, creando delle posizioni di garanzia sostitutive.
Ed è qui che si inserisce il problema della delega di funzioni. Con il presente
lavoro non si intende cercare di sciogliere tutti i nodi problematici che,
soprattutto in dottrina, sono emersi sull’argomento1, ma solo stabilire che
tipo di rapporto intercorra tra la delega di funzioni ed il principio di
affidamento in materia antinfortunistica e cioè stabilire se il delegante, di
1
Tuttavia, si tiene a sottolineare che da illustre dottrina (MANTOVANI, il principio di
affidamento nella teoria del reato colposo) il principio di affidamento viene ad essere
utilizzato per dare un fondamento dogmatico all’esenzione da responsabilità dell’obbligato
primario – delegante, purchè la delega sia valida ed efficace sia nel suo momento genetico (
perchè diversamente non sorgerebbe neppure una legittima aspettativa), sia nel suo
momento funzionale (perchè altrimenti l’aspettativa stessa verrebbe meno): “sicchè, tanto
nei casi nei quali l’aspettativa promanante la detta disciplina sia bloccata nella sua
insorgenza dall’assenza della possibilità di ottemperarvi dal suo destinatario; quanto in quelli
in cui essa venga rimossa da circostanze concrete atte a comprovare il suo mancato rispetto,
la riconoscibilità dell'inosservanza della disciplina de qua, da parte di coloro che ne sono
destinatari, si traduce per il garante primario in via mediata, ossia per il tramite della
riconoscibilità dell'inadempimento degli obblighi che tale disciplina riversa sui garanti
ulteriori, nella riconoscibilità degli eventi che l'effettivo assolvimento di quegli obblighi era
preordinato a prevenire.
In tale prospettiva, la delega esclude la colpa del garante originario, a favore del quale
l'affidamento sia valutabile, mentre non vale ad escluderlo dal novero dei destinatari del
precetto penale; inoltre, «... l'obbligo del garante primario di intervenire a fronte delle
conosciute o conoscibili violazioni del c.d. delegato, lungi dal potersi identificare a priori
come un "residuo non delegabile" (del contenuto) dell'obbligo facente capo al garante
originario-delegante, non rappresenta alcunché di diverso dal risultato prodotto, in capo al
medesimo, dal venir meno di un affidamento tutelabile circa l'effettiva osservanza, da parte
di un garante ulteriore, della disciplina che gli assegna in via esclusiva l'assolvimento di
determinati obblighi prevenzionistici. La rimozione di tale affidamento, infatti, non può che
comportare la piena riespansione, a suo carico, degli obblighi (di diligenza) distribuiti a
mezzo della disciplina, della quale è nota, o quantomeno riconoscibile, l'inosservanza».
119
fatto, possa invocare il principio di affidamento a sua discolpa nei confronti
del delegato, e se si, quando.
Per far questo però, si pone come necessario, chiarire, quanto meno, quali
siano i requisiti in presenza dei quali, la giurisprudenza ritiene che la delega
sia efficace.
PARAGRAFO
I: I
REQUISITI DI EFFICACIA DELLA DELEGA DI FUNZIONI
SECONDO LA GIURISPRUDENZA
Si è detto che accanto al datore di lavoro agiscano altri soggetti con funzioni
sussidiarie; pertanto, in caso di violazione della legge che comporta una
responsabilità penale, è necessario verificare se tale responsabilità sia
attribuibile in via esclusiva all'imprenditore oppure al dipendente delegato
formalmente al controllo e gestione di un determinato settore produttivo,
ovvero se tra i due vi sia una responsabilità concorrente.
La giurisprudenza ha affrontato e risolto questa problematica con l'istituto
della delega di funzioni che si ha quando il garante originario con atto
formale attribuisce ad altri soggetti determinate funzioni, quali ad es.
garantire il rispetto e l'osservanza della normativa antinfortunistica.
Per effetto della delega, il garante originario adempie ai doveri di diligenza
che su di esso incombono per il tramite del soggetto delegato.
L’operazione è giustificata dalla necessità di realizzare, con soddisfacente
approssimazione, una coincidenza tra responsabilità penale e concreta
120
articolazione dei poteri decisionali nelle strutture dotate di una certa
complessità. Da un lato, ciò corrisponde ad un evidente interesse delle
imprese, quale quello di evitare che il datore di lavoro sia continuamente
chiamato in causa per comportamenti o per eventi che ricadono al di fuori
della propria sfera di azione, spesso lontana dal momento della produzione e
concentrata sulla funzione di amministrazione e di indirizzo generale
dell’impresa. Dall’altro, vi è l’esigenza dell’ordinamento di permettere
comunque l’individuazione di soggetti responsabili per la eventuale
violazione delle disposizioni prevenzionali e per gli infortuni che a queste
violazioni sono collegabili.
La delega di funzioni comporta l'esclusiva responsabilità del soggetto
delegato e la conseguente esclusione di una concorrente responsabilità del
delegante soltanto in presenza delle seguenti condizioni-presupposti:
a) innanzi tutto occorre un
ATTO FORMALE DI DELEGA2
nel quale siano
precisati i compiti del soggetto delegato. La Corte di Cassazione, sul
punto, si è così espressa: “ il titolare dell'impresa di dimensioni
industriali, è esonerato da responsabilità penale quando abbia
delegato formalmente, nell'ambito dell'organizzazione dell'azienda,
determinati compiti ad un preposto3.
Intanto si richiede che la delega, perché possa produrre effetti scriminanti in favore di chi la
conferisce, debba essere esplicita. La semplice articolazione organizzativa, con l’affidamento
di compiti di direzione o sorveglianza dell’attività produttiva non esime dalla responsabilità il
datore di lavoro, in mancanza di una delega specificamente riferita all’attuazione di misure
prevenzionali.
La delega deve, poi, essere volontariamente accettata dal destinatario. Senza questa
consapevole e volontaria assunzione delle attribuzioni delegate non si ha esonero dalla
responsabilità penale del delegante.
La delega deve essere fatto per iscritto.
3
Cass. Pen. sez. III, 94/198381
2
121
b) La delega di funzioni è ammessa nell'ambito di
DIMENSIONI
IMPRESE DI NOTEVOLI
o nell'ambito di aziende con organizzazione piramidale. Il
S.C., al riguardo, ha affermato che: “l'amministratore o il legale
rappresentante di una società di notevoli dimensioni deve essere
ritenuto esente da ogni responsabilità in merito alle infrazioni ed alle
violazioni di legge verificatesi nell'esercizio dell'impresa allorchè, in
concreto, egli abbia preposto ai vari servizi e settori soggetti qualificati
e idonei”4.
c) Il
SOGGETTO DELEGATO
deve essere
tecnicamente sia professionalmente
È DELEGATO;
PERSONA IDONEA
e cioè sia
CAPACE DI SVOLGERE L'ATTIVITÀ CUI
ciò implica da parte del datore di lavoro non soltanto una
particolare attenzione nella scelta del delegato, ma anche il dovere di
formare professionalmente il delegato. Solitamente le grandi imprese
organizzano corsi di formazione e aggiornamento destinati a quei
lavoratori che in base alla particolare funzione a cui sono delegati
devono essere resi edotti in merito. Sull'argomento la Suprema Corte
così si è espressa: “la responsabilità del datore di lavoro per violazione
delle norme antinfortunistiche, viene meno qualora si faccia
coadiuvare da un dirigente all'uopo preposto, persona che deve essere
tecnicamente affidabile”5; ed ancora: “all'imprenditore che abbia
soddisfatto l'obbligo impostogli dall'art. 17 d..P.R. 7/01/56, n. 164, di
nominare un preposto per sovraintendere determinate specifiche
operazioni, designando una persona capace ed idonea a sostenere il
4
5
Cass. Pen. sez. IlI 961172040
Cass. Pen. sez. IV, 611011995, n. 12297
122
ruolo assegnatogli, non può essere addebitato l'evento dannoso che si
sia verificato per inosservanza delle disposizioni che regolano quelle
specifiche operazioni”6. Sempre il S.C. ha statuito che “in tema di
infortunio sul lavoro l'imprenditore non va esente da responsabilità
penale solo perché abbia delegato ad un capo cantiere l'apprestamento
delle antinfortunistiche, dovendo comunque dimostrare che la persona
delegata sia qualificata e capace7”; ed ancora: “in materia di
responsabilità colposa, il committente dei lavori dati in appalto deve
adeguare la sua condotta a due fondamentali regole di diligenza e
prudenza: a) scegliere l'appaltatore e più in generale il soggetto al
quale affida l'incarico, accertando che la persona a cui si rivolge sia
non soltanto munita dei titoli di idoneità prescritti dalla legge, ma
anche della capacità tecnica e professionale, proporzionata al tipo
astratto di attività commissionata ed alle concrete modalità di
espletamento della stessa8”. Oltre alla idoneità tecnica e professionale
del delegato, occorre che il datore di lavoro fornisca tutti gli strumenti
tecnici necessari affinché il delegato possa assolvere alle funzioni cui è
preposto. Infatti, proprio in materia di prevenzione degli infortuni sul
lavoro, la giurisprudenza ha sempre riconosciuto la responsabilità
dell'imprenditore, a
prescindere dall'eventuale delega, quando
l'infortunio è da attribuire non tanto all'attuazione di questa o di
quella misura, ma più in generale ad una situazione di assoluta
Cass. Pen. sez. IV, 10/3/1995, n.4432
Cass. Pen. sez. IV, 1810311986
8
Cas. Pen. sez.II 921189173
6
7
123
inadeguatezza degli impianti in relazione alle esigenze di tutela della
integrità fisica dei lavoratori.
d) Il soggetto delegato deve avere
GARANZIA.
DI FATTO ASSUNTO LA POSIZIONE DI
Sull'argomento la giurisprudenza non è unanime in quanto
un orientamento ritiene necessario che la delega si traduca in un atto
formale, mentre altro orientamento giurisprudenziale (minoritario)
attribuisce responsabilità penale al delegato anche in assenza di delega
formale. In tal senso si è espressa la Pretura di Tolmezzo, che ha
ritenuto essere responsabile del reato di cui agli artt. 590 c.p. e 7 d.lg.
n. 626/'94 il soggetto che, pur senza essere investito di delega da parte
del datore di lavoro, svolga le funzioni di preposto ed abbia assunto in
concreto il compito di accompagnare un lavoratore autonomo in un
sopralluogo al fine di predisporre un preventivo di spesa.
e) Condizione strettamente collegata al presupposto di cui sopra,
affinché si possa parlare di esclusiva responsabilità penale del soggetto
delegato, è che questi agisca con la massima autonomia, nel senso che
al delegato devono essere trasferiti tutti i poteri concernenti
l'organizzazione del settore produttivo cui è preposto ovvero tutti i
poteri in ordine all'espletamento delle funzioni cui è delegato; ciò
implica che il datore di lavoro non deve ingerirsi nelle mansioni
affidate al delegato. Il concetto di autonomia comprende anche la
disponibilità, da parte del delegato, dei mezzi finanziari necessari per
l'espletamento dei poteri attribuitigli. In assenza di tale autonomia di
spesa, rimane comunque l'esclusiva responsabilità del delegato solo
124
qualora questi non si attivi per richiedere a chi ha poteri di spesa
l'acquisto di ciò che serve per garantire la sicurezza sul luogo di lavoro.
In tal senso si è espresso il T.A.R. Umbria, che ha ritenuto che: “il
dipendente nominato "datore di lavoro" ai sensi del d.lg. 626/'94 e
dunque responsabile della sicurezza sul lavoro dei propri subordinati,
qualora disponga di poteri di gestione ma non di autonomia di spesa,
potrà incorrere in responsabilità solo ove non richieda a chi ha poteri
di spesa l'acquisto di ciò che serve per scongiurare incidenti 9”. Questo
è anche l’orientamento seguito dalla Corte di Cassazione, che così si è
espressa: “in tema di lesioni colpose per violazione di norme
antinfortunistiche
qualora
la
Corte
di
Cassazione,
ai
fini
dell'accertamento della responsabilità del direttore dello stabilimento
ovvero del capo reparto sub delegato, abbia richiesto al Giudice di
rinvio di accertare se il predetto direttore aveva il potere di organizzare
diversamente il lavoro, disponendo dei necessari mezzi finanziari, ed il
Giudice di rinvio abbia accertato che tali mezzi economici erano nella
disponibilità del direttore dello stabilimento (per i poteri attribuitigli
dal regolamento aziendale e per l'ampiezza della preposizione
institoria), escludendo che il subdelegato godesse di capacità di spesa e
disponibilità finanziaria, è irrilevante accertare quali fossero i compiti
del capo reparto, la cui responsabilità resta esclusa per l'indisponibilità
dei mezzi finanziari”10. Ed ancora, il Pretore di Milano, ha statuito che:
“il legale rappresentante ed amministratore delegato di un grande
9
T.A.R. Umbria 11/11/1998 n.1032
Cass. Pen. sez. III, 15/12/1997, n. 1769
10
125
gruppo industriale non è responsabile per l'infortunio di un
dipendente verificatosi in uno stabilimento periferico e causato dalla
mancanza di un dispositivo di protezione, quando vi sia un
responsabile dell'unità produttiva che sia dotato di un budget di cui
possa autonomamente disporre”11.
Orbene, solo in presenza delle cinque condizioni sopra esposte, la
responsabilità del delegato fa venire meno la concorrente responsabilità
dell'imprenditore (delegante). Tuttavia è necessario precisare che, anche
nell'ipotesi di delega di funzioni la responsabilità dell'imprenditore non viene
meno se egli non osserva il potere-dovere di controllo sull'operato dei propri
dipendenti, ciò a cui è sempre tenuto in quanto (dominus) titolare
dell'impresa, ovvero se è a conoscenza di inadempimenti del soggetto
delegato e non vi pone rimedio12. In tal senso si è espressa la Corte di
Cassazione: “la responsabilità del datore di lavoro per violazione delle norme
antinfortunistiche, qualora si faccia coadiuvare da un dirigente nel controllo
delle modalità di esecuzione del lavoro e in quello per il rispetto delle citate
norme, viene meno solo se … controlli che colui al quale ha conferitola delega
la usi concretamente”13; ed ancora : “sull'imprenditore stesso incombe
l'obbligo di controllare che la persona capace e qualificata da lui delegata
adempia regolarmente alle funzioni delegategli”14.
Pretore di Milano 4/11/1998
Non avendo la delega una rilevanza scriminante in ordine alla posizione del dante causa,
questi conserva la propria qualità di garante in ordine al rispetto della normativa in materia
di sicurezza del lavoro: muta semplicemente il contenuto dell’obbligo, che diviene quello di
vigilare acchè i dipendenti non si sottraggano all’adempimento delle prescrizioni e degli
ordini ricevuti.
13
Cass. Pen. sez. IV, 6/10/1995, n.12297
14
Cass. Pen. sez. V, 85/090614
11
12
126
PARAGRAFO II: DELEGA DI FUNZIONI E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO
Qualora si accerti che, di fatto, tutti i sopra enunciati requisiti di efficacia
della delega siano presenti, sembra logico poter concludere che il delegante,
potrà confidare sul fatto che il delegato, adempia con diligenza alle funzioni
che gli sono state delegate, nel rispetto delle norme antinfortunistiche a lui
rivolte, senza avere, quindi, il dovere di prevedere i comportamenti colposi
del delegato e di neutralizzarne le conseguenze.
Dall’esame di casi pratici15, sembra però, che i giudici per affermare la
responsabilità penale del delegante, si preoccupino di accertare che la delega,
nel caso di specie, sia priva di uno o più degli elementi necessari alla sua
efficacia, senza ricorrere al principio dell’affidamento, che viene invocato,
invece, solo nella relazione tra datore di lavoro o suo alter ego e lavoratore,
ma che, come già detto nel capitolo secondo, non riesce mai a trovare
concreta applicazione.
Così ad esempio, in un caso, nel quale un operaio mentre lavorava sospeso su
di una impalcatura, era precipitato dalla stessa ed era morto. Furono
imputati nel delitto di omicidio colposo il presidente dell’impresa edile, il
direttore generale, il direttore dei lavori ed il capo cantiere. I giudici di
merito, ritennero la penale responsabilità del presidente, che aveva ritenuto
di rispettare la norma che gli imponeva l’attuazione delle misure di sicurezza
Cfr: Cass. Sez. IV, 22 aprile 2004, n. 18638 pres. Battisti; Cass. pen. Sez. IV, 2 ottobre
2003, n. 37470, pres. Olivieri; Cass. pen. Sez. IV, 31 dicembre 2003, n. 49492, Dessì ; Cass.
Pen. Sez IV, 2 ottobre 2003, n. 37470, Boncompagni; pretura penale di Milano, 18 marzo
1993; Pretura pen. Milano 16 aprile 1996, Tanara; Pretura pen. Roma, 18 ottobre 1984,
Fiasconaro; Cass. pen. Sez. IV, 28 aprile 1990, n. 6201; Amendola; Cass. pen. Sez., IV, 31
marzo 1990, n. 4437
15
127
in un cantiere dove operavano oltre 300 persone, occupante un’area di alcuni
ettari, delegando a tal fine un semplice geometra (con la qualifica di capo
cantiere) il quale, non solo non poteva essere, secondo i giudici,
responsabilizzato poiché rivestiva la qualità di preposto e non di dirigente,
ma non avrebbe comunque potuto svolgere tale funzione sia perché
incaricato di numerose altre incombenze, sia perché, in pratica, tale funzione
era inadeguata alle sue concrete possibilità, sia in ultimo perché, sottoposto
all’autorità di altre persone, in ogni caso nessuna iniziativa avrebbe potuto
adottare per l’attuazione delle misure antinfortunistiche, che, per la loro
estensione e complessità, non potevano che riguardare in ultima analisi
l’organizzazione del lavoro di tutto il cantiere. Secondo i giudici, inoltre, la
delega di funzioni antinfortunistiche contenuta nel mandato del capo
cantiere, non solo era illegittima, ma risultava puramente formale e tesa solo
a creare una sorta di “capro espiatorio” nel caso fossero accaduti infortuni sul
lavoro.
Considerazioni analoghe, secondo i giudici potevano essere fatte per il
direttore dei lavori che pur avendo la qualifica di dirigente come direttore di
cantiere, in pratica, non aveva ricevuto alcuna attribuzione specifica di
mansioni antinfortunistiche, ma solo attribuzioni connesse all’andamento
produttivo dell’azienda.
Per quel che riguardava invece il direttore generale, per sua stessa
ammissione, aveva avuto “carta bianca” dal presidente e in tale sua posizione
i giudici ritennero che avesse la concreta, effettiva e sostanziale possibilità di
provvedere alle misure antinfortunistiche che erano state, di fatto, disattese.
128
Tale responsabilità, tuttavia, non esimeva quella del presidente, che
consapevole della posizione inadempiente assunta dal direttore generale,
avrebbe dovuto intervenire per ristabilire nel cantiere, e nell’azienda tutta, un
principio di legalità per il rispetto delle norme di prevenzione degli infortuni
sul lavoro. Secondo i giudici, non riconoscere questo obbligo del presidente,
equivaleva a consentirgli, a dispetto di ogni logica ed equità, di determinare
previamente un responsabile per eludere gli obblighi che gli competevano
direttamente per legge.
Considerando che, nel caso de quo, i giudici di merito hanno individuato i
seguenti criteri di attribuzione di responsabilità o corresponsabilità in tema
di infortuni sul lavoro : “1) la delega da parte dell’imprenditore deve essere
vera ed effettiva, tale da comportare il trasferimento di tutti i poteri
dell’imprenditore e deve riguardare un intero settore o unità produttiva; 2) la
delega
deve
essere
tale
da
escludere
un’effettiva
partecipazione
dell’imprenditore all’organizzazione del lavoro; 3) la delega deve essere fatta
a persona qualificata, cioè a persona idonea e competente; 4) l’imprenditore
non deve comunque essere a conoscenza della mancata osservanza delle
misure antinfortunistiche nel settore affidato ad altri16”, ne consegue che la
Di recente la Corte di Cassazione ha statuito che: “ in materia di infortuni sul lavoro, gli
obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro, possono
essere delegati, con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo
al datore di lavoro. Tuttavia, il relativo atto di delega deve essere espresso, in equivoco e certo
e deve investire persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e
dei relativi poteri decisionali e di intervento che abbia accettato lo specifico incarico, fermo
comunque l’obbligo per il datore di lavoro di vigilare e di controllare che il delegato usi poi
concretamente la delega secondo quanto la legge prescrive. Così Cass. pen. Sez. IV
12.01.2005 n. 12230
ed ancora : « la responsabilità del datore di lavoro per violazione delle norme
antinfortunistiche, qualora si faccia coadiuvare da un dirigente nel controllo delle modalità
di esecuzione del lavoro ed in quello per il rispetto delle citate norme, viene meno solo se
trasferisca alla persona nominata, che deve essere tecnicamente affidabile, i suoi poteri
16
129
delega conferita al capo cantiere, non poteva essere efficace per mancanza dei
detti requisiti, pertanto, in via di principio, il presidente, non avrebbe potuto
invocare il principio di affidamento a sua discolpa nei confronti del preposto.
Per quel che riguarda, poi, la delega conferita al direttore del cantiere, anche
questa doveva considerarsi inefficacie e pertanto, il principio di affidamento,
qualora invocato, non sarebbe valso ad escludere la colpa del presidente. I
giudici, tuttavia, sono giunti ad affermare la responsabilità del presidente ed
ad assolvere il capo cantiere e il direttore del cantiere, dopo aver accertato
che la delega conferita era priva dei suoi fondamentali requisiti. Pertanto,
sempre in linea di principio, si può dire che l’assenza di tutti i criteri di
efficacia della delega, funga da limite al principio di affidamento.
In un altro caso, un dipendente, durante i lavori di costruzione di una
galleria, si era posto alla guida di una pala meccanica, ed aveva effettuato lo
scarico della terra dall’alto di un attiguo viadotto. Durante uno scarico, la pala
meccanica si era ribaltata ed era precipitata da una altezza di circa m. 7,
trascinando il dipendente che era stato schiacciato dal pesante mezzo ed era
deceduto. Venivano tratti a giudizio il procuratore generale della società e
direttore dei lavori, il direttore del cantiere ed il capo imbocco del cantiere,
per rispondere, a titolo di cooperazione, di omicidio colposo. In primo ed in
anche in tema di osservanza delle disposizioni in materia di infortuni sul lavoro. Così App.
Milano Sez. II 17.06.2005
la Corte di Cassazione, inoltre, ha affermato che “in materia di infortuni sul lavoro, il
principio in forza del quale il datore di lavoro può trasferire la propria posizione di garanzia
circa gli obblighi di prevenzione e sorveglianza imposti dalla normativa antinfortunistica solo
attraverso un provvedimento formale di delega ad altro soggetto subentrante con esplicita
indicazione delle funzioni ed esplicita accettazione, va contemperato, quando tale principio
debba trovare attuazione in un’impresa di grandi dimensioni, con la necessità di accertare, in
concreto, l’effettiva situazione della gerarchia delle responsabilità all’interno delle posizioni
di vertice, così da verificare la predisposizione, da parte del datore di lavoro di adeguato
organigramma dirigenziale ed esecutivo il cui corretto funzionamento esonera l’imprenditore
da responsabilità di livello intermedio e finale”.
130
secondo grado tutti gli imputati furono assolti per non aver commesso il
fatto, in quanto i giudici ritennero che, da parte loro, non fosse stata violata
alcuna norma antinfortunistica e che la responsabilità dell’accaduto fosse da
addebitare esclusivamente alla colpa della vittima. La Corte di Cassazione ha
ritenuto invece che al procuratore e legale rappresentante della società
spettava l’obbligo di adottare le misure volte ad assicurare la stabilità della
pala meccanica, trattandosi di misura che andava adottata a livello direttivo
ed organizzativo fin dall’apertura del cantiere quando si acquistano e si
introducono le macchine e si creano i turni di lavoro e le condizioni per lo
scambio delle mansioni. Secondo i giudici di legittimità, la Corte di merito
aveva escluso apoditticamente la responsabilità del procuratore della società,
senza aver dato la dimostrazione precisa ed in equivoca della devoluzione ad
un collaboratore qualificato delle incombenze direttive, in particolare, di
quelle relative all’adozione delle misure antinfortunistiche. Poiché a volte, ha
ritenuto la S.C., la delega delle mansioni può essere artificiosa e diretta
soltanto ad esonerare il titolare dell’impresa dalla personale osservanza di
norme penalmente sanzionate, occorreva accertare che la eventuale delega
fosse la conseguenza della effettiva organizzazione dell’impresa e che al
delegato fossero conferiti i più ampi poteri organizzativi e decisionali con la
fornitura dei mezzi per attuare gli incarichi.
Nel caso in esame non risultava, inoltre, che il capo cantiere ed il capo
imbocco del cantiere fossero stati gli alter ego dell’imprenditore e neppure
che fossero dei dirigenti inferiori dotati di ampi poteri per impedire che il
lavoro potesse svolgersi in spregio alle norme infortunistiche. Essi non
131
potevano, pertanto, aver assunto l’obbligo dell’imprenditore di adottare tutte
le misure che erano necessarie per la tutela dell’integrità fisica dei lavoratori
ma avevano soltanto il dovere di sorvegliare l’esecuzione del lavoro ed
assicurare l’uso concreto dei mezzi antinfortunistici specie di quelli già
predisposti o derivanti dalle condizioni di pericolo in cui si svolgeva il
lavoro17. Il S.C. ha statuito, a riguardo, che “ le attribuzioni e le competenze
relative all’attuazione delle misure di sicurezza possono di fatto competere
anziché al titolare dell’impresa sociale ai dirigenti ed ai preposti, ma, ai fini
dello spostamento della responsabilità occorre che in concreto sia
chiaramente dimostrata la devoluzione dall’imprenditore ad un collaboratore
dell’impresa
delle
incombenze
direttamente
inerenti
all’adozione
e
sorveglianza delle misure di prevenzione. Inoltre, la devoluzione deve essere
anche conseguenza della effettiva organizzazione del lavoro dell’impresa e
deve essere fatta in favore di delegato esperto al quale bisogna conferire
poteri e mezzi per l’attuazione dei compiti.”
Nel caso di specie, una tale dimostrazione mancava, pertanto il procuratore
della società, non avrebbe potuto addurre a sua discolpa il principio di
affidamento nei confronti del dirigente di cantiere e del capo cantiere, per
non avergli devoluto quelle funzioni direttamente inerenti all’adozione delle
17
La Corte di Cassazione, in un caso di infortunio occorso all’addetto alla macchina denominata
“lupa” durante l’operazione di “lisciatura manuale effettuata durante il funzionamento della macchina
stessa, secondo una prassi illegittima instaurata in fabbrica con il tacito assenso del preposto, in
violazione della prescrizione ex art. 49 commi primo e terzo d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547, ha statuito
che: “in tema di prevenzione infortuni, il datore di lavoro deve controllare che il preposto,
nell’esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle,
eventualmente in aggiunta, impartitegli; ne consegue che, qualora nell’esercizio dell’attività lavorativa
si instauri, con il consenso del preposto, una prassi contra legem, foriera di pericoli per gli addetti, in
caso di infortunio del dipendente la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di
formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la
pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di lesioni colpose aggravata dalla violazione
delle norme antinfortunistiche”. Così Cass. pen. Sez. IV 22 aprile 2004.
132
misure antinfortunistiche. Anche in questo caso, pertanto, seppur in via
astratta, l’inefficacia della delega di funzioni si configura quale limite al
principio di affidamento.
In un altro caso, ancora, un operaio era salito su di un tubo, collocato a
notevole altezza ed inidoneo a sostenerlo nell’esecuzione del lavoro che gli era
stato assegnato e rientrante nell’ambito dei suoi compiti e funzioni. Mentre
l’operaio era intento a svolgere il suo lavoro in piedi sul tubo, questo cedeva e
l’operaio cadeva riportando lesioni personali gravi. Venivano rinviati a
giudizio il dirigente responsabile della sicurezza ed il preposto. I giudici di
merito hanno ritenuto che senza dubbio, era da ritenere la penale
responsabilità dell’obbligato alla sicurezza per aver dato l’ordine generico di
compiere un’operazione complessa e rischiosa; per aver omesso di
predisporre l’analisi ed il progetto delle sequenze operative al fine di valutare
la praticabilità nei termini di sicurezza imposta della legge; per aver
abbandonato il lavoratore nella fase in cui più attenta doveva essere la
soprintendenza dell’obbligato alla sicurezza. Per quanto riguarda il preposto,
questi, invece, fu assolto per non aver commesso il fatto poiché i giudici
hanno ritenuto che: “in caso di fatto colposo commesso con la violazione delle
norme antinfortunistiche, la responsabilità degli imprenditori dirigenti,
sovraintendenti alle attività lavorative non è ravvisabile solamente quando i
compiti organizzativi siano stati effettivamente delegati ad altra persona
qualificata e capace, che abbia liberamente accettata la delega e sempre che
tale delega risulti giudizialmente provata. Nel caso di specie tale delega a
persona idonea ed accettante era risultata sfornita di ogni prova. In
133
particolare nessun cenno alla competenza tecnica del preposto ed alla
effettività dei suoi compiti di intervento. Non emergeva la prospettazione di
una seria preparazione delle operazioni più complesse a cura di un idoneo
soggetto tecnicamente preparato. In definitiva, il preposto non era apparso in
condizioni di effettivamente dirigere l’attività dei lavoratori.
Anche in questo caso, quindi, il dirigente, non avrebbe potuto invocare a sua
discolpa il principio di affidamento, non avendo conferito al preposto una
efficace delega. Si può ribadire, pertanto, che la mancanza dei requisiti
necessari all’efficacia della delega funge da limite al principio di affidamento.
In un altro caso, infine, un operaio di una ditta subappaltatrice dei lavori di
rifacimento di una facciata di un edificio di civile abitazione, in ossequio ad
una prassi invalsa nel cantiere, veniva sollevato mediante un argano elettrico
destinato esclusivamente al carico e scarico dei materiali, da tale condotta ne
derivava la morte per caduta del dipendente.
Imputati, per il delitto di cui all’art. 589.2 comma c.p. in cooperazione
colposa tra loro (ex. Art. 113 c.p.) furono: l’amministratrice della società, il
capocantiere e l’appaltante.
I giudici di merito, hanno ritenuto che la legale rappresentante della impresa
sub appaltatrice, pur essendo priva di personale competenza tecnica in
materia di sicurezza, fosse responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore,
per aver trascurato di conferire ad una persona provvista dei necessari
requisiti, un’apposita delega per l’apprestamento delle prescritte misure
prevenzionali e per l’esercizio di un’adeguata vigilanza sulla loro effettiva
applicazione, così indirettamente consentendo che venissero adottate in
134
cantiere, per difetto di opportuni controlli, manovre e prassi irregolari
(sollevamento di persone con apparecchiature inidonee) da cui è derivata la
morte di un lavoratore. Inutilmente quindi l’imputata, avrebbe potuto
invocare a sua difesa il principio di affidamento, essendo del tutto mancante
una delega di funzioni.
Corresponsabile dell’evento mortale fu sia il capo cantiere della ditta subappaltatrice, il quale, in qualità di preposto di fatto, pur essendo consapevole
della pericolosità di una manovra irregolare eseguita mediante l’impiego di
un’apparecchiatura inidonea, non era intervenuto ad impedirla, ma anzi
l’aveva favorita con il proprio tacito consenso, che il committente, il quale si
era ingerito nello svolgimento dei lavori e, pertanto, aveva di fatto assunto la
responsabilità all’interno del cantiere soprattutto in ordine all’osservanza
della normativa antinfortunistica. A riguardo i giudici hanno statuito che:
“benché per l’esecuzione dei lavori oggetto d’appalto o subappalto, l’obbligo
dell’apprestamento delle misure prevenzionali richieste dalla legge gravi
sull’impresa appaltatrice o subappaltatrice, tuttavia, qualora la ditta
appaltante o subappaltante, oltre a fornire una parte delle apparecchiature, si
ingerisca attraverso un proprio direttore di cantiere nell’organizzazione,
direzione e controllo dei lavori appaltati, non può, ritenersi esente da
responsabilità per avere omesso di impedire l’esecuzione di manovre
pericolose di cui aveva conoscenza e da cui poi è derivata la morte di un
operaio della ditta sub appaltatrice”.
Il committente, pertanto, non avrebbe potuto invocare a sua discolpa il
principio di affidamento nei confronti dell’impresa subappaltatrice, poiché si
135
era ingerito nella direzione e nel controllo dei lavori appaltati. Su di lui
gravava l’obbligo di impedire l’esecuzione di manovre pericolose delle quali
aveva conoscenza, obbligo al quale non aveva adempiuto.
Dal caso in esame, si può evincere, che un ulteriore limite al principio di
affidamento può essere individuato nella ingerenza nella direzione e nel
controllo dei lavori appaltati, sicchè l’impresa committente non potrà più
difendersi affermando che grava sull’impresa appaltatrice l’obbligo di
apprestare le misure di prevenzione richieste dalla legge e che quindi
confidava nel fatto che quest’ultima avesse con diligenza adempiuto ai suoi
doveri, qualora si ingerisca nell’organizzazione esecuzione e controllo dei
lavori appaltati.
136
COOPERAZIONE COLPOSA E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO
NELLA CIRCOLAZIONE STRADALE
PREMESSA
In materia di circolazione stradale, è più probabile che un incidente sia
cagionato da un concorso di cause colpose indipendenti, piuttosto che dalla
cooperazione di più persone. Tuttavia, i giudici di legittimità e di merito, si
sono occupati di casi di gare di velocità non autorizzate tra autoveicoli o
ciclomotori, ed anche di ipotesi di incauto affidamento di veicolo a persona
che si sapeva essere priva di patente.
Nell’uno e nell’altro caso, si pongono due ordini di problemi:
1. stabilire se, qualora a seguito della gara o dell’ incauto affidamento, si
verifichi un incidente a cui consegua la morte o le lesioni personali di
terzi, coloro che hanno preso parte alla gara di velocità da un lato,
l’affidante e l’affidatario dall’altro, siano imputabili pur il delitto loro
ascritto a titolo di cooperazione colposa.
2. Stabilire da un lato, se coloro che hanno preso parte alla gara di
velocità, ma non hanno materialmente cagionato l’incidente, possano
a propria discolpa invocare il principio di affidamento, nei confronti di
chi invece ha materialmente cagionato l’incidente; dall’altro se
l’affidante possa invocare a sua discolpa il principio di affidamento nei
confronti dell’affidatario.
137
PARAGRAFO I: GARA DI VELOCITÀ E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO
Iniziando dal primo problema, e con riferimento alla gara di velocità, i giudici
tanto di merito che di legittimità, sono sempre giunti ad accertare che le
condotte dei partecipanti, sul piano oggettivo, sono causali e colpose rispetto
all’evento.
Che la condotta di chi cagiona materialmente l’incidente lesivo o mortale, sia
causale
rispetto
all’evento,
non
pare
dubbio,
infatti
eliminandola
mentalmente, l’evento viene meno. Che la stessa condotta sia anche colposa,
è dimostrato dal fatto che sempre, in questi casi, vengono superati, da parte
di tutti i gareggianti, i limiti di velocità consentiti, non viene rispettata la
distanza di sicurezza, vengono compiute manovre pericolose (come il
sorpasso in curva, o l’invasione dell’opposta corsia di marcia) per cercare di
sorpassare il compagno, antagonista nella sfida. La Corte di Cassazione ha
precisato che “sfida” significa proprio reciproco incitamento a correre per
superare l’avversario e vincere.
Per quel che riguarda, invece, la condotta di chi partecipa alla gara, ma non
cagiona materialmente l’incidente, potrebbe ritenersi che, la stessa, non sia
causale condizionale rispetto all’evento, ma costituisca un contributo di mera
agevolazione all’incidente. Non è questo, però, l’orientamento seguito dai
giudici sia di legittimità che di merito. Il S.C., ha infatti affermato sul punto
che “ se durante una gara di velocità non autorizzata uno dei partecipanti, a
causa della velocità eccessiva o comunque, di imprudenti o imperite manovre
eseguite nel gareggiare, incorra in un incidente produttivo di danni a sé o a
138
terzi, sussiste la responsabilità anche degli altri partecipanti alla gara, in
quanto, in tal caso, si verifica, nell’aspetto di induzione ad un comportamento
imprudente, l’ipotesi di cui all’art. 113 c.p., la quale si concreta non soltanto
con la partecipazione materiale ma anche con la determinazione o induzione,
con qualunque mezzo, al comportamento antigiuridico che, nella ipotesi della
gara di velocità, si esprime mediante la vicendevole sollecitazione agonistica
che ciascun contendente determina negli altri partecipanti”.
Il S.C., in un’altra sentenza ha affermato che “lo sfidato col partecipare alla
competizione, col rafforzare il proposito dell’altro all’azione antigiuridica
risponde dell’evento cagionato dallo sfidante”, ed ha proseguito, “l’imputato
anche se non è stato l’autore materiale dei luttuosi eventi, ne deve rispondere
per la sua partecipazione soggettiva alla azione che li ha determinati, per aver
prestato adesione alla condotta imprudente e violatrice delle norme del
codice della strada”.
La Suprema Corte ha statuito anche che: “il fatto che l’imputato non abbia
cagionato materialmente lo scontro, non ha nessuna rilevanza per escludere il
nesso di causalità ravvisabile ex art. 113 c.p.. Lo stimolo della partecipazione
alla gara di velocità e la sua guida altamente imprudente si inseriscono come
antecedenti causali dell’evento”. Nel caso di specie, a seguito di una gara di
velocità non autorizzata, alla quale presero parte due soggetti, uno alla guida
di una Lancia Thema, l’altro alla guida di un Alfa Romeo 164, si verificò un
incidente mortale tra la Lancia Thema ed una Lancia Prisma. La prima
vettura che percorreva la strada contro mano, era andata ad urtare
frontalmente e con estrema violenza, a causa dell’elevata velocità tenuta, la
139
seconda vettura. A seguito della collisione erano deceduti all’istante il
conducente della Lancia Tema, il conducente della Lancia Prisma e due
trasportati sull’autovettura condotta da quest’ultimo. Al conducente dell’Alfa
Romeo fu addebitato di aver cooperato ex art. 113 c.p. nel determinare la
collisione tra le due autovetture.
Per quel che riguarda poi la colpa, sempre, coloro che partecipano ad una
gara di velocità tengono un comportamento altamente imprudente ed
inosservante delle norme che regolano la circolazione stradale. La Corte di
Cassazione ha affermato che “costituisce motivo di colpa il fatto stesso di
accettare una gara di velocità tra veicoli su strada pubblica”. Sempre il
Supremo Collegio ha stabilito che “ è ravvisabile la cooperazione nel delitto
colposo, a norma dell’art. 113 c.p., nella concorde psichica partecipazione ad
una condotta imprudente, negligente ed inosservante di regolamenti ed
ordini”. Nella specie, fu affermata la concorrente responsabilità di tutti i
partecipanti ad una divisata ed attuata gara di velocità su ciclomotori svoltasi
su strada stretta, con fondo accidentato e priva di illuminazione.
Per quel che riguarda invece l’elemento soggettivo della cooperazione
colposa, ovvero l’interazione consapevole delle condotte, i giudici di merito si
sono così espressi: “nella produzione di un evento lesivo la colpa di un
soggetto può concorrere con la colpa di un altro soggetto. Se tra le due
condotte vi è un legame soggettivo, nel quale sia possibile individuare la
presenza dell’elemento psicologico che caratterizza la partecipazione, si ha
l’ipotesi della cooperazione colposa prevista dall’art. 113 c.p.. Se, invece, tra i
vari soggetti manca la consapevolezza di agire in comune, si ha l’ipotesi delle
140
cause colpose indipendenti e ciascuno degli agenti risponde dell’evento
colposo realizzato nei limiti del proprio rapporto”. Applicando esattamente
questi principi, ad un caso nel quale, a seguito di gara di velocità tra due
autoveicoli, su strada pubblica, una delle due autovetture in gara, nel
percorrere una curva a velocità eccessiva, aveva sbandato, abbattuto la rete di
protezione e precipitata in mare, fatto al quale era conseguito la morte del
conducente e del trasportato, i giudici ritennero che l’imputato (ovvero il
conducente dell’altra autovettura in gara) accettando la sfida e gareggiando,
aveva contribuito a porre in essere una situazione di pericolo, ed aveva
coscientemente e volontariamente aderito alla inosservanza di regole di
comune prudenza e diligenza quali quelle di non procedere ad una velocità
eccessiva non consentita dalle condizioni del luogo e dalla tortuosità e
angustia del percorso.
La Corte di Cassazione ha affermato in un'altra sentenza che “la cooperazione
nel delitto colposo di cui all’art. 113 c.p. si verifica quando più persone
pongono
in
essere
una
data
autonoma
condotta
nella
reciproca
consapevolezza di contribuire all’azione od omissione altrui che sfocia nella
produzione dell’evento non voluto”. Questo principio è stato applicato in un
caso, nel quale i giudici di merito dedussero che si fosse svolta una gara di
velocità, dall’altissima velocità tenuta dai due veicoli che vi presero parte,
velocità di gran lunga superiore al limite dei 60 km/h; dalla circostanza che
uno dei due veicoli aveva invaso l’opposta corsia di marcia, chiaro segno di
volere sorpassare l’altro automezzo; dal fatto che le due vetture si tallonavano
fra loro, a brevissima distanza l’una dall’altra; dall’inosservanza della
141
distanza di sicurezza. I giudici ritennero che ciascun partecipe fosse ben
consapevole che la propria azione confluiva nell’azione altrui che determinò
l’evento non voluto.
Condivisibile secondo i giudici di legittimità, è poi l’esclusione della necessità
di un accordo preventivo tra i soggetti, potendo una gara di velocità essere
nata anche estemporaneamente sulla strada1.
In definitiva, ogni qual volta, duo o più soggetti, prendono parte ad una gara
di velocità non autorizzata, non importa se si tratti di una decisione
programmata o attuata per emulazione nel corso della guida, qualora si
verifichi un incidente lesivo o mortale, sempre si configura una responsabilità
a titolo di cooperazione colposa di tutti i partecipanti.
Rimane da dire sul secondo problema esposto all’inizio del presente capitolo
e cioè: coloro che non hanno cagionato materialmente l’incidente, possono
invocare a propria discolpa il principio di affidamento? In altri termini, può il
principio de quo servire ad escludere la colpa di chi partecipa alla gara, ma
non cagiona materialmente l’incidente? Alla domanda deve essere data
risposta negativa, infatti avendo più sopra, messo in evidenza che sempre
tutti i partecipanti violano delle norme di prudenza e di diligenza, ne
consegue che in questi casi sempre verrà ad operare un limite al principio di
affidamento e cioè: il principio di affidamento non può essere invocato
quando colui che si affida, sia in colpa per aver violato determinate norme
precauzionali o per avere omesso determinate condotte.
1
così Cass. 20.10.1995 n. 100; cass. 14.11.1980 n. 1586; cass 13.10.2004. n.40205
142
PARAGRAFO II: INCAUTO AFFIDAMENTO E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO
Cerchiamo ora di chiarire se le conclusioni raggiunte in materia di gara di
velocità non autorizzata, possono essere estese alle ipotesi di incauto
affidamento.
Anche con riguardo ai casi di incauto affidamento, per stabilire se tra
affidante ed affidatario sia configurabile, nell’ipotesi in cui venga cagionato
un incidente mortale o lesivo dall’affidatario ma con il veicolo messogli a
disposizione dall’affidante, o del quale l’affidante era tenuto ad impedire
l’impossessamento da parte dell’affidatario, una cooperazione colposa, è
necessario accertare che sul piano oggettivo le condotte di entrambi siano
state causali e colpose rispetto all’evento. Sul piano soggettivo, invece, è
necessario accertare che entrambi i soggetti siano rimproverabili per la
violazione di regole cautelari, volte a prevenire eventi del tipo di quello
verificatosi e che sussista il quid pluris della cooperazione, e cioè l’interazione
consapevole delle condotte.
Che la condotta dell’affidatario, che pur privo di patente, si ponga alla guida
di un autoveicolo, e per imperizia cagioni un incidente a terzi, sia causale
rispetto all’evento, non pare dubbio. Andando ad eliminare mentalmente
quella condotta, infatti, l’evento viene meno. Che anche, però, la condotta
dell’affidante sia condicio sine qua non dell’evento, e prima ancora della
condotta dell’affidatario, non è da mettere in dubbio. Andando ad eliminare
mentalmente la condotta dell’affidante, viene meno, infatti, la condotta
143
dell’affidatario e quindi l’evento. La condotta dell’affidante, pertanto, si pone
come antecedente causale dell’evento.
Così si sono orientati i giudici sia di merito che di legittimità, in un caso nel
quale un datore di lavoro, aveva affidato la propria autovettura ad un
dipendente, pur sapendo che questi era sfornito di patente e stava facendo
scuola per conseguirla, affinché si fosse recato a chiamare un tale che si
trovava a circa 200/300 m di distanza. L’affidatario durante il tragitto, aveva
investito, a causa di imperizia consistita in una mancata e tempestiva azione
frenante, un bambino che attraversava di corsa la strada, causandone la
morte.
In un altro caso poi, è stata ritenuta causale rispetto all’evento la condotta di
un padre che aveva omesso di collocare le chiavi del suo motofurgone, in un
luogo ove il figlio non avesse potuto trovarle. Il fatto che il padre, con la
dovuta diligenza, non avesse evitato che il figlio si impossessasse della chiave,
si poneva come antecedente causale dell’evento. Nel caso di specie il figlio,
alla guida del motofurgone, aveva per imperizia investito una vespa,
cagionando lesioni personali al conducente della stessa.
Le condotte, tanto dell’affidante quanto dell’affidatario, inoltre, si pongono
sempre in contrasto con regole cautelari volte ad evitare eventi del tipo di
quello verificatosi.
Per quel che riguarda la condotta dell’affidante, basti pensare che l’incauto
affidamento di veicolo a persona sprovvista della patente di guida, integra un
fatto contravvenzionale. Non può mettersi, pertanto in dubbio, che tale
condotta viola una regola a contenuto cautelare.
144
La Corte di Cassazione, inoltre, in riferimento alla condotta dell’affidante, in
un caso in cui un tale, aveva affidato una macchina operatrice di sua
proprietà a persona che sapeva senza patente, e a tale incauto affidamento
era conseguito l’investimento mortale di un ragazzo, e ciò a causa di imperizia
nell’effettuare la manovra di retromarcia, ha ritenuto che “costituisce
imprudenza, oltre che inosservanza di leggi scritte, l’affidare una macchina,
per la cui guida sia prescritta la patente, a persona che sia priva di essa.
Invero, il semplice fatto di mettere la guida di un veicolo a disposizione di
una persona non abilitata, costituisce una situazione di pericolo per la
incolumità dei cittadini”.
Per quel che riguarda poi la condotta dell’affidatario, già integra gli estremi
della colpa il mettersi alla guida di un motofurgone, automobile, macchina
operatrice, ecc.. pur essendo sprovvisto di patente di guida. I giudici di
merito, inoltre, hanno sempre accertato la violazione di qualche altra regola
cautelare da parte dello stesso. Così infatti in un caso2 nel quale vennero a
collisione un automobile, guidata da persona priva di patente ed una vespa. A
seguito dello scontro, il ciclomotorista decedette. I giudici di merito
accertarono che il conducente dell’autovettura oltre che essersi messo alla
guida dell’auto pur essendo privo di patente, aveva proceduto a velocità
eccessiva, non aveva mantenuto la propria destra, aveva invaso l’opposta
mezzeria con deviazione a sinistra, non aveva data la precedenza al
ciclomotore proveniente da destra. In un altro caso3, i giudici di merito,
hanno accertato che l’affidatario era in colpa perché, avendo notato la
2
3
cfr cass. Sez. IV, 14 aprile 1996, in Arch. Giur. Circ. e sin. Strad. 1997
Cfr. Cass Sez. IV 11 marzo 1998 in Giust. Pen. 1999
145
presenza degli agenti della polizia stradale sulla strada provinciale, alla quale
era diretto, e temendo di essere colto in flagrante contravvenzione di guida
senza patente, effettuò la retromarcia ad elevata velocità e senza prendere
minimamente cura di accertarsi della presenza di altri utenti della strada,
ponendo, così, in essere una condotta imprudente ed imperita allo stesso
tempo.
Per quel che infine, riguarda l’elemento soggettivo, sempre i giudici hanno
ritenuto rimproverabili i soggetti per la violazione di regole cautelari volte ad
evitare incidenti del tipo di quello verificatosi e sempre è stato ritenuto che vi
fosse stata la consapevolezza di partecipare alla condotta altrui, che insieme
con la propria, fu causa dell’evento non voluto. Sul punto la Corte di
Cassazione ha osservato che “ quella di affidamento di veicolo a persona
inesperta di guida, è una ipotesi di scuola di cooperazione nel reato colposo
derivante dalla guida del veicolo affidato. Nella cooperazione nel delitto
colposo, invero, gli autori dell’evento hanno la consapevolezza di contribuire
all’azione altrui, altrimenti si ha concorso di cause indipendenti; e
nell’affidamento incauto di un veicolo la cooperazione nel delitto colposo
ricorre, concretandosi la detta consapevolezza, quando il fatto colposo è
derivato da imperizia nella guida”.
Per quel che riguarda, invece, il problema dell’applicabilità del principio di
affidamento a casi di incauto affidamento, c’è da chiedersi se l’affidante possa
a sua discolpa invocare il principio in esame nei confronti dell’affidatario.
Anche in questo caso deve essere richiamato un limite al principio di
affidamento, ovvero quello per il quale il principio della fiducia non può
146
essere invocato da chi, con una sua condotta già autonomamente qualificabile
come negligente, imprudente o imperita, ha provocato egli stesso una
reazione scorretta da parte di un terzo. Il criterio in questione ha, lo si ripete
ancora una volta, la funzione di delimitare gli obblighi di diligenza che un
soggetto è tenuto ad osservare, ma non si può dilatare fino al punto da
ritenere che si possa agire imprudentemente affidandosi alla diligenza altrui.
A ben guardare, un altro limite al principio di affidamento può essere
richiamato e cioè: il principio in questione non può essere invocato in tutte
quelle ipotesi in cui le circostanze concrete siano tali da escludere che si possa
confidare sul diligente comportamento altrui.
Senza dubbio, l’affidante consapevole che l’affidatario sia privo di patente,
non potrà confidare in una guida, da parte sua, perita, prudente e diligente.
Si può quindi concludere che tanto nelle ipotesi di gara di velocità non
autorizzata, quanto nell’ipotesi di incauto affidamento, sempre si configura
una cooperazione colposa, qualora a seguito della gara o dell’incauto
affidamento venga cagionato un incidente lesivo o mortale, e mai il principio
di affidamento riesce a trovare applicazione concreta, perchè sempre si
configura qualche suo limite.
147
SECONDA CRITICA ALLA TEORIA DI RISICATO: LA COOPERAZIONE
COLPOSA
NON
PUÒ
ESSERE
UN
LIMITE
AL
PRINCIPIO
DI
AFFIDAMENTO
Secondo parte della dottrina4, la consapevole interazione tra le condotte dei
concorrenti, che nel terzo capitolo si è visto essere l’elemento soggettivo della
cooperazione colposa, consentirebbe di superare con slancio e senza residue
perplessità il principio di affidamento.
La
consapevolezza
di
cooperare
con
altri,
cioè,
ponendosi
come
indispensabile elemento di coesione del fascio di volontà insieme operanti,
nella produzione dell’evento, farebbe si che l’intero fatto sia proprio, al tempo
stesso, dell’autore e del partecipe e che dunque l’uno non assuma più rispetto
all’altro la veste di terzo. Ad esemplificazione di tale assunto, viene fatto
l’esempio dell’incauto affidamento: del sinistro causato dalla totale imperizia
del guidatore non abilitato, il proprietario (affidante) dell’auto è responsabile,
a titolo di concorso colposo, non tanto per il fatto che le circostanze del caso
concreto operino da limite al principio di affidamento e facciano sorgere a
suo carico un preciso e distinto dovere di prevenzione, quanto piuttosto
perché è come se lui stesso, si fosse messo alla guida della propria auto senza
essere fornito di patente di guida. In altre parole, il fatto (incidente mortale)
grazie all’interazione consapevole delle condotte, diventa “proprio” al tempo
stesso, dell’affidante e dell’affidatario, ed è come se l’affidante stesso, si sia
messo alla guida della propria auto senza essere fornito di patente. Ecco
4
Cfr: RISICATO, il concorso..cit. pag. 165 ss.
148
allora superato il principio di affidamento, senza bisogno di chiamare in
causa i suoi limiti per escludere la sua applicazione.
In questo senso la cooperazione colposa, fungerebbe da limite al principio di
affidamento.
Alla scrivente, sembra che la dottrina qui criticata, riconosca alla consapevole
interazione tra le condotte dei concorrenti, la funzione di rendere colposa una
condotta che altrimenti non lo sarebbe, poiché, parte dal presupposto che
nella cooperazione colposa in un delitto causalmente orientato, si possa
configurare una condotta di partecipazione causale rispetto all’evento, ma
non colposa, in quanto, non direttamente in contrasto con una regola
cautelare specificamente diretta ad evitare eventi del medesimo tipo di quello
cagionato, in altre parole, una condotta atipica.
Sulla atipicità della condotta nel concorso colposo nei delitti causalmente
orientati, chi scrive, ha già avuto modo di dire nel capitolo secondo. Tuttavia,
si tiene a ribadire, anche in questa sede, che poichè nella cooperazione
colposa nei delitti di evento a forma libera ( ed è in tali fattispecie che il
disvalore penale si incentra tutto nella causazione dell’evento lesivo, mentre
risultano indifferenti le modalità di condotta concretamente tenute
dall’agente) la condotta di partecipazione è sempre causale e colposa rispetto
all’evento, ed infatti tanto i giudici di merito che di legittimità, in tutti i casi
che sono stati esaminati, hanno ritenuto la penale responsabilità del
partecipe solo dopo aver accertato che la sua condotta, autonomamente, si
poneva in contrasto con una regola cautelare e mai hanno affermato che è il
contesto di cooperazione a rendere penalmente rilevante un contributo di
149
partecipazione irrilevante in chiave monosoggettiva, perchè penalmente
neutro, la funzione della consapevole interazione tra le condotte dei
concorrenti, non sarà quella di supplire all’atipicità originaria del fatto del
partecipe, ma sarà quella più modesta, di distinguere le ipotesi di
cooperazione colposa da quelle di concorso di cause colpose indipendenti,
con conseguenze di natura esclusivamente disciplinare. Non può essere
condiviso, pertanto, l’assunto secondo il quale “in mancanza del contesto
consapevole di interazione, la condotta dotata di pericolosità astratta ed
indeterminata rispetto all’evento concretamente realizzatosi non può
considerarsi in via di principio punibile”, in quanto o la condotta di
partecipazione viola una regola cautelare volta ad evitare l’evento che in
concreto si è verificato, ed allora l’imputato sarà punibile, o, viceversa,
nell’ipotesi in cui non violi alcuna regola cautelare, l’imputato dovrà essere
assolto.
Riprendendo l’esempio dell’incauto affidamento, è chiaro che l’affidante è
incriminabile non perché in forza della consapevole interazione tra le
condotte è come se lui stesso si fosse messo alla guida della vettura senza
patente, ma è incriminabile poiché con la sua condotta viola una regola
cautelare volta ad evitare eventi del tipo di quello verificatosi.
Entrambi i partecipi concorrono a causare l’evento non voluto, ciascuno con
una condotta causale, colposa, quindi tipica, e pertanto, incriminabile sulla
base della norma incriminatrice di parte speciale. Che poi vi sia stata
interazione consapevole delle condotte, è servito a qualificare il caso come
cooperazione colposa e quindi ad applicare l’art. 113 in funzione di mera
150
disciplina. L’affidante, inoltre, non può invocare a sua discolpa il principio di
affidamento, non perché è come se lui stesso avesse commesso il fatto, ma
perché, autonomamente, viola una regola cautelare che gli impedisce di poter
poi confidare nel comportamento diligente altrui.
Secondo la scrivente, quindi, il principio in questione dovrebbe essere
relazionato non con l’elemento soggettivo della cooperazione colposa ma con
la misura oggettiva della colpa cioè con la violazione della regola cautelare di
condotta.
Il principio di affidamento, si è detto, vale ad escludere la colpa, ma in che
modo?
Si tratta di stabilire se il partecipe abbia o meno violato una regola cautelare,
ed il principio di affidamento viene invocato proprio per dimostrare che
nessuna regola di condotta è stata violata dall’agente, poiché egli non aveva
l’obbligo di prevedere e prevenire le conseguenze dannose derivanti dalle
manchevolezze altrui, potendo confidare nel fatto che gli altri coagenti, si
sarebbero comportati in modo diligente ed accorto.
Tuttavia, qualora nel caso concreto, si accerti che l’agente ha di per sé violato
una regola cautelare di condotta volta a prevenire eventi del tipo di quello
verificatosi (si pensi all’affidante, nell’incauto affidamento; o al partecipe,
nella gara di velocità, o al datore di lavoro che omette di adeguare l’ambiente
di lavoro a tutte le misure di sicurezza dalla legge prescritte; o al medico che
pur avendone avuto la possibilità, non elimina la fonte di pericolo per il
paziente, confidando che ciò venga fatto dal collega che gli succede nella
posizione di garanzia) lo stesso, non potrà mai difendersi invocando il
151
principio di affidamento, poiché la sua applicazione sarà sempre esclusa
dall’eccezione, in forza della quale, non può parlarsi di affidamento quando
colui che si affida sia in colpa per avere violato determinate norme
precauzionali o per avere omesso determinate condotte e, ciononostante,
confidi che altri, elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione.
Qualora, invece, si accerti, che l’agente, riveste una posizione di controllo e
sorveglianza o nei confronti della vittima, (si pensi al caso emblematico del
datore di lavoro) o nei confronti degli altri agenti, rispetto a lui subordinati,
con i quali ha svolto una attività comune (si pensi ad un medico capo équipe
che è chiamato a dirigere e coordinare le prestazioni poste in essere dai
collaboratori) è la stessa posizione di controllo che finisce per escludere la
possibilità di invocare il principio di affidamento.
Con riferimento, poi, all’attività medico chirurgica in équipe, si è visto come
secondo la dottrina la regola generale da cui andrebbero prese le mosse è la
seguente: ogni partecipante ad una attività medica di équipe risponde solo
del corretto adempimento dei doveri di diligenza e di perizia inerenti ai
compiti che gli sono specificamente affidati, perché solo in questa maniera
ciascun membro del gruppo è lasciato libero, nell’interesse del paziente, di
adempiere in modo soddisfacente alle proprie mansioni. Questa regola trova
il suo punto di forza proprio nel principio di affidamento, tuttavia, di fatto, la
giurisprudenza è giunta ad affermare che, pur comportando una netta
suddivisione di competenze, il lavoro in équipe determina, un reciproco
obbligo di sorveglianza e di intervento, dal momento che il collegamento
funzionale ed ambientale tra le attività svolte, determinato proprio dal fatto
152
di lavorare in gruppo, consente al singolo partecipante di constatare eventuali
condotte altrui scorrette o inadeguate o di rilevare, addirittura, veri e propri
errori di condotta. Un obbligo di questo tipo grava, naturalmente, su tutti e
ciascuno i componenti dell’équipe. Ecco allora che, anche in questo caso,
diviene, di fatto, impossibile invocare il principio di affidamento.
In definitiva, il principio di affidamento, non riuscendo mai a trovare
concreta applicazione, non sarà in grado di escludere la colpa del partecipe.
Ne consegue anche, che il problema di stabilire se la cooperazione colposa
funga da limite al principio di affidamento, diviene un problema meramente
teorico, proprio perché il principio in esame trova applicazione nel nostro
ordinamento solo come principio astratto che poi, in concreto, viene sempre
superato da qualche suo limite.
153
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