ADELINDA MORETTI COOPERAZIONE COLPOSA E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO NEI DELITTI COLPOSI DI EVENTO CAUSALMENTE ORIENTATI A mia madre Opus est enim ad notitiam sui experimento; quid quisque posset nisi temptando non didicit. (De Providentia di Lucio Anneo Seneca) INDICE CAPITOLO I ANALISI DELLA FATTISPECIE OGGETTIVA DELLA COOPERAZIONE COLPOSA PARAGRAFO I: La pluralità di agenti 2 PARAGRAFO II: Il primo criterio di tipizzazione della condotta di partecipazione: la causalità condizionale 4 PARAGRAFO III: “Quanto più cresce il numero dei compartecipi, tanto più cresce la possibilità che qualcuno di essi non ponga in essere una condizione necessaria dell’evento” 11 PARAGRAFO IV: La causalità condizionale nella cooperazione colposa secondo la dottrina 18 PARAGRAFO IV: La causalità agevolatrice nella cooperazione colposa critica 20 CAPITOLO II RICERCA DEL SECONDO CRITERIO DI TIPIZZAZIONE DEL CONTRIBUTO DI PARTECIPAZIONE PARAGRAFO I La misura oggettiva della colpa 28 I PARAGRAFO II: Il principio di affidamento nell’esperienza giuridica tedesca 31 PARAGRAFO III: Circolazione stradale e principio di affidamento nella nostra esperienza giuridica 34 PARAGRAFO IV: Principio di affidamento nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore 47 PARAGRAFO V: Principio di affidamento ed attività medica in équipe secondo la dottrina 62 PARAGRAFO VI: La violazione della regola cautelare quale imprescindibile criterio di tipizzazione della condotta di partecipazione PARAGRAFO VII: Prima critica alla teoria di Risicato 67 73 CAPITOLO III L’ELEMENTO SOGGETTIVO NELLA COOPERAZIONE COLPOSA PREMESSA 78 PARAGRAFO I: Primo problema: il legame psicologico tra le condotte dei concorrenti 80 PARAGRAFO II: Secondo problema: cooperazione colposa e concorso di cause colpose indipendenti 86 II CAPITOLO IV SEZIONE I: COOPERAZIONE COLPOSA E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO IN ÉQUIPE CHIRURGICA 96 PREMESSA PARAGRAFO I: Se un ferro chirurgico rimane nell’intestino è responsabile solo il “ferrista”? 98 PARAGRAFO II: Scioglimento anticipato e responsabilità dell’assente 107 PARAGRAFO III: Successione nella posizione di garanzia ed esclusione del principio di affidamento 113 SEZIONE II COOPERAZIONE COLPOSA E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO IN MATERIA ANTINFORTUNISTICA PREMESSA 118 PARAGRAFO I: I requisiti di efficacia della delega di funzioni secondo la giurisprudenza 120 PARAGRAFO II: Delega di funzioni e principio di affidamento 127 III SEZIONE III COOPERAZIONE COLPOSA E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO NELLA CIRCOLAZIONE STRADALE PREMESSA 137 PARAGRAFO I: Gara di velocità e principio di affidamento PARAGRAFO II: Incauto affidamento e principio di affidamento CONCLUSIONI: Seconda critica alla teoria di Risicato: la cooperazione colposa non può essere un limite al principio di affidamento BIBLIOGRAFIA 138 143 148 154 IV PREMESSA Questo modesto lavoro, nasce da un saggio di Lucia Risicato, nel quale l’autrice afferma, innanzitutto, che una condotta di partecipazione può essere atipica ( e cioè causale rispetto all’evento ma non autonomamente colposa) anche qualora si concorra colposamente in un delitto colposo di evento a forma libera. In tale ipotesi, per non lasciare impunita la condotta del partecipe, non essendo la stessa incriminabile sulla base della norma incriminatrice di parte speciale, proprio in quanto atipica, sarà necessario riconoscere all’art. 113 c.p. una funzione di incriminazione ex novo. La Risicato, inoltre, dopo aver accertato che è la consapevole interazione tra le condotte dei concorrenti ad essere l’elemento soggettivo della cooperazione colposa, riconosce a detto elemento, la funzione si superare di slancio e senza residue perplessità il principio di affidamento solido argine della tipicità colposa monosoggettiva. È proprio alla luce di tali considerazioni che, chi scrive, si è spinta ad individuare ed analizzare gli elementi oggettivi e soggettivi, costitutivi della cooperazione colposa da un lato e quale sia il principio di affidamento e dei suoi limiti dall’altro, per chiarire se le affermazioni della Risicato siano o meno condivisibili. 1 CAPITOLO I ANALISI DELLA FATTISPECIE OGGETTIVA DELLA COOPERAZIONE COLPOSA PARAGRAFO I: LA PLURALITÀ DI AGENTI Il primo comma dell’art. 113 c.p. recita: “ Nel delitto colposo, quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso.” Come prima cosa è da osservare che la norma parla di cooperazione di più persone, da tale indicazione si coglie il primo degli elementi costitutivi della cooperazione: la pluralità di agenti. E’ necessario che il reato venga posto in essere da un numero di soggetti superiore a quello che la legge indica per la sussistenza della fattispecie di parte speciale. Mentre dunque per i reati monosoggettivi sono necessari e sufficienti, ai fini del concorso, almeno due soggetti, nei reati a concorso necessario, detti anche plurisoggettivi, il concorso eventuale si configura solo quando vi siano una o più persone in più rispetto ai soggetti essenziali. Non si richiede tuttavia, che tutti i concorrenti siano imputabili o punibili, come si ricava dalla previsione dell’aggravante prevista dall’art. 111 ( “Chi ha determinato a commettere un reato una 2 persona non imputabile, ovvero non punibile a cagione di una condizione o qualità personale, risponde del reato da questa commesso..), applicabile al concorso colposo in virtù dell’espresso richiamo effettuato dall’art. 113 comma 2º. Inoltre, questi più agenti, attraverso le proprie condotte, debbono cooperare alla realizzazione di un delitto colposo. Ma quali debbono essere le caratteristiche della condotta di partecipazione affinché possa dirsi che il partecipe ha cooperato alla realizzazione del delitto colposo? 3 PARAGRAFO II: IL PRIMO CRITERIO DI TIPIZZAZIONE DELLA CONDOTTA DI PARTECIPAZIONE: LA CAUSALITÀ CONDIZIONALE La prima questione che secondo chi scrive, è necessario affrontare per stabilire quali siano le condotte di partecipazione punibili nell’ambito della cooperazione colposa, è quella di verificare se la condotta stessa, debba essere o meno necessariamente causale rispetto al verificarsi dell’evento e quindi se il nesso causale - condizionale funzioni rispetto ad una qualsiasi condotta di partecipazione colposa in un illecito colposo, oppure debba essere affiancato da qualche altro criterio in grado, sempre sul piano causale, di integrare l’operatività del primo. Innanzitutto, quando è che un comportamento di partecipazione può definirsi necessariamente causale? Seguendo il criterio causale- condizionalistico, si giunge a dire che affinchè un soggetto possa considerarsi partecipe, è necessario che egli abbia effettivamente contribuito alla perpetrazione del reato con un comportamento che appaia come una condizione indispensabile del risultato criminoso. Ogni singola condotta di partecipazione, cioè, deve costituire un antecedente indispensabile alla produzione dell’evento e ciò accade quando, utilizzando ex post, il procedimento di eliminazione mentale, che caratterizza la teoria della condico sine qua non, eliminando mentalmente la condotta del partecipe ne consegue il venir meno dell’evento. La dove manca l’efficienza causale del comportamento verrebbe meno il fenomeno della partecipazione. 4 Dall’esame di vari casi pratici1, configuranti ipotesi di cooperazione colposa, si è potuto accertare che i giudici sia di legittimità che di merito, sempre hanno ritenuto la condotta del partecipe, condicio sine qua non dell’evento. Così, nell’ipotesi di incauto affidamento di veicolo a persona sprovvista della patente di guida, la Corte di Cassazione ha affermato che la condotta dell’affidante crea uno stato di cose, senza il quale i fattori successivi, cioè il comportamento colposo dell’affidatario ed il danno, non si sarebbero verificati. Sempre il S.C., ha ritenuto causale condizionale rispetto all’evento pericolo di naufragio, il comportamento del commissario di bordo, il quale, pur conoscendo lo stato precario delle caldaie della nave e le avverse condizioni atmosferiche, aveva indotto il comandante della nave a riprendere la navigazione. La Corte di Cassazione, ha poi affermato che andavano ritenuti responsabili, a titolo di cooperazione nel delitto di omicidio colposo, i genitori di una minore affetta da talassemia che, per motivi religiosi, avevano omesso di far sottoporre la figlia alle periodiche trasfusioni di sangue necessarie ad assicurarne la sopravvivenza. In questa ipotesi è evidente come le condotte di entrambi i genitori, siano condiciones sine quibus non dell’evento. Eliminandole mentalmente infatti, viene meno l’evento morte. E’ pertanto da ritenere certa, la sussistenza del nesso causale tra l’omissione della terapia trasfusionale, che i genitori avevano l’obbligo giuridico di far eseguire e la morte della bimba. Cfr: Cass. Sez. IV, 29 novembre 1976, n. 12634, Pres. Ridola; Cass. Sez. IV, 6agosto 1993, n. 7650 (ud. 27 aprile 1993); Cass. 14.2. 1972, F.I. 73,II,216; Cass. Pen. Sez. I, sentenza 23 gennaio 1956; Corte di Appello di Orma, 30.7.1986, Oneda; Trib. Firenze, sentenza 6 novembre 1978, Pres. Librando; Cass. Sez. 4 sent. 1833 del 18.2.67; Cass. Pen. Sez. 4, sentenza 00956 del 5.7.1971; Corte di Appello di Napoli, Sez. minorenni, 22 dicembre 1983; Cass. Pen. Sez. IV, ud. 24 novembre 1961; 1 5 In un'altra sentenza la Suprema Corte ha affermato che nel fatto di due veicoli, che secondo una condotta di guida preventivamente concordata tra i conducenti, circolano di seguito l’uno all’altro, nel modo cosiddetto a non perdersi, chi precede ha il dovere di non creare all’altro condizioni che rendono l’andatura pericolosa. Invero, per il previo accordo e secondo la comune esperienza, il primo conducente condiziona l’andatura del compagno, nel senso che lo induce a comportarsi nella sua stessa maniera. Per conseguenza, in caso di incidente colposo, cagionato dal conducente che segue, è configurabile la concorrente responsabilità del conducente che precede in relazione all’eventuale comportamento imprudente di quest’ultimo. Senza dubbio la condotta del secondo conducente è condicio sine qua non dell’evento, infatti eliminandola mentalmente viene meno l’incidente, ma anche la condotta del primo autista è un antecedente causale condizionale dell’evento, infatti, se questi avesse tenuto un andatura regolare e prudente, anche il secondo avrebbe fatto lo stesso, quindi, l’incidente non si sarebbe verificato. In un’altra sentenza, che condannava, a titolo di cooperazione colposa, cinque operai per incendio colposo, i giudici di merito, hanno ritenuto causali condizionali rispetto all’evento verificatosi, le condotte di ciascuno degli imputati, consistita nel fumare sigarette vicino a delle balle di paglia, sia pure con l’accorgimento di coprirle col cavo delle mani. L’incendio era scoppiato all’angolo destro, anteriore e superiore delle balle di paglia, originato, indubbiamente, da qualche scintilla di sigaretta trasportata dal vento. Sulla stessa sentenza si è pronunciata anche la Corte di Cassazione, che ha 6 individuato nella relazione causale tra le singole condotte dei concorrenti e l’evento, un elemento indispensabile per la configurazione della cooperazione colposa: “la cooperazione di cui all’art. 113 c.p., presuppone la partecipazione di varie persone che, con la loro consapevole condotta colposa, integrano una stessa condizione dell’evento lesivo. Estremi della speciale ipotesi in esame sono pertanto: la partecipazione di varie persone ad una azione od omissione colposa, la consapevolezza in tutti, della stessa, il nesso di causalità tra questa e l’evento lesivo”. Il Tribunale di Firenze, ha ritenuto colpevoli di omicidio colposo, per la morte di una persona a seguito di assunzione di sostanza stupefacente, sia chi le aveva procurato la sostanza, sia chi le aveva preparato ed iniettato la dose, potendosi, le descritte condotte, qualificare come contributi causali alla determinazione dell’evento secondo lo schema della cooperazione di più persone di cui all’art. 113 c.p.. La Corte di Cassazione ha ritenuto responsabile, a titolo di cooperazione, per i delitti di disastro aereo e di omicidio colposo dei passeggeri e dell’equipaggio, il controllore di volo, per aver omesso di fornire ai piloti informazioni precise e tempestive sulle deviazioni apprezzabili dell’aereo, dalla rotta autorizzata di avvicinamento. L’evento non voluto, risaliva per nesso di causalità, alla condotta gravemente colposa dei piloti, il cui compimento ebbe un antecedente causale nel comportamento omissivo del controllore. Se questi non avesse omesso tempestivi e precisi interventi di sicurezza, l’evento sarebbe stato scongiurato. Pertanto anche la condotta del 7 controllore, oltre a quella dei piloti, deve ritenersi condicio sine qua non dell’evento. Dai casi che sono stati esaminati, sono emerse considerazioni ulteriori: nella cooperazione colposa sono configurabili sia ipotesi di concorso materiale, quando il concorrente partecipa direttamente all’attività preparativa o esecutiva del delitto, si pensi, ad esempio, al caso di chi affida il proprio mezzo a persona che sa essere priva di patente; sia ipotesi di concorso morale, con riferimento a condotte istigative (di determinazione o induzione) di carattere colposo, si pensi ad una gara di velocità non autorizzata, nella quale, anche chi non cagiona materialmente l’incidente, comunque ne risponde a titolo di cooperazione, per aver determinato o indotto il compagno al comportamento antigiuridico, determinazione, che si esprime mediante la vicendevole sollecitazione agonistica che ciascun conducente determina negli altri partecipanti. La condotta di cooperazione, inoltre può consistere in una azione, si pensi, nel caso di morte di una persona a seguito di assunzione di sostanza stupefacente, alla condotta di chi le abbia procurato la sostanza e di chi le abbia preparato ed iniettato la dose, o si pensi, nell’ipotesi di incendio colposo, alle condotte degli operai che fumavano vicino alle balle di paglia; oppure in una omissione, si pensi al controllore di volo, il quale ometta di attivarsi fornendo ai piloti informazioni tempestive sull’avvenuto allontanamento dalla rotta. Si pensi anche, al caso del primo autista di un autotreno, che risponde di cooperazione in omicidio colposo, qualora di 8 fronte alla condotta antidoverosa del secondo conducente, resti inerte, se da tale condotta derivi l’evento letale. Sarebbe del tutto irrilevante, al fine di determinare la responsabilità di coloro che hanno cooperato nel delitto colposo, distinguere la figura dell’autore o del coautore, da quella del complice e dell’istigatore2. È noto in proposito come il legislatore, nella scelta tra i diversi modelli di disciplina del concorso criminoso, si è trovato di fronte alla possibilità di adottare un modello in cui venissero tipizzate in maniera autonoma le varie forme di partecipazione, distinguendole a seconda dei ruoli (autore, partecipe, istigatore, ecc…) che ciascuno dei concorrenti avrebbe potuto rivestire; ovvero di adottare un modello indifferenziato, nel quale venisse sancita una pari responsabilità per tutti coloro che avessero posto in essere una condotta dotata di efficacia eziologia nei confronti dell’evento lesivo, ponendosi poi soltanto un problema di graduazione della pena attraverso il sistema delle circostanze. È altrettanto noto che il codice Rocco ha adottato la seconda delle possibili Cfr. sul punto SEMINARA, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano 1987, secondo il quale, “ ai fini di una tipizzazione delle condotte concorsuale, riveste una importanza primaria stabilire se la partecipazione criminosa debba essere costruita come un insieme di condotte umane, al cui interno è possibile distinguere le differenti figure dell’autore (o dei coautori), dell’istigatore e del complice, ovvero come un insieme di contributi causali, ove il ruolo dell’autore coincide con quello dell’esecutore e le condotte di istigazione e di complicità si caratterizzano solo sul piano delle loro modalità esterne…Non vi è dubbio che la nostra giurisprudenza e la dottrina quasi unanime siano orientate in favore della seconda soluzione, come dimostra anche il riconoscimento dell’ammissibilità di un concorso doloso al fatto colposo; tale idea esprime infatti la concezione di un concorso di persone come mera convergenza causale di due o più condotte, ove nulla si oppone alla configurabilità dolosa per un concorrente rispetto al fatto da altri commesso con un differente atteggiamento psicologico, così da fondare il processo di imputazione sul legame eziologico tra la condotta e l’evento e da qualificare questo sulla base dell’elemento psichico di ciascun partecipe. Sotto tale profilo, non solo risulta manifestamente superflua la tipizzazione della nozione di autore ma, soprattutto, appare errato anche il tentativo di definire i concetti di autore, istigatore e complice, poiché, in una descrizione delle modalità esterne caratterizzanti le condotte di partecipazione, a prescindere dal loro elemento psicologico e dal significato da esse rivestito nell’ambito della vicenda concorsuale”. Cit. pag. 271-272 2 9 soluzioni, per un duplice ordine di motivi, chiaramente evidenziati in sede di lavori preparatori: 1. il primo, di ordine pratico, consiste nel riconoscimento, sulla base dell’esperienza formatasi sotto il vigore del codice Zanardelli, che “la preordinata catalogazione dell’entità dell’apporto di ciascun concorrente non può che essere arbitraria, perché in concreto il giudizio è in relazione ad un’infinità di circostanze, che sono sottratte ad ogni previsione, essendo il loro valore diverso nelle innumerevoli modalità dei fatti”3. 2. il secondo, di ordine sistematico, evidenzia il profilo che “anche nell’ipotesi in cui il fatto sia oggetto dell’attività di più persone, l’evento deve essere messo a carico di tutti i concorrenti, che con la propria azione contribuirono a determinarlo: il legame, invero, che avvince l’attività dei vari concorrenti, si realizza in una associazione di cause coscienti, alle quali è dovuto l’evento e, perciò, a ciascuno dei compartecipi deve essere attribuita la responsabilità per l’intero”4. L’art. 113 c.p., rispecchia pienamente l’opzione attuata dal legislatore. Il fatto che questa norma contrariamente a quanto accade nello schema descrittivo dell’art. 110 c.p., faccia esplicito riferimento alla causazione di un evento ad opera di più persone, conferma ulteriormente, che la corresponsabilità dei partecipi trova un limite oggettivo nel contributo al fatto concorsuale e non già in una tipologia predeterminata di ruoli. Vedi Lavori preparatori, vol. V, Relazione del Guardasigilli sul Libro I del progetto definitivo, n. 134. 4 Così Lavori preparatori, ibidem. 3 10 PARAGRAFO III: “QUANTO PIÙ CRESCE IL NUMERO DEI COMPARTECIPI TANTO PIÙ CRESCE LA POSSIBILITÀ CHE QUALCUNO DI ESSI NON PONGA IN ESSERE UNA CONDIZIONE NECESSARIA DELL’EVENTO” Nonostante che per giurisprudenza costante tanto di legittimità che di merito, le condotte ritenute rilevanti nella prospettiva dell’art. 113 debbono essere causali condizionali rispetto all’evento, parte della dottrina 5, ritiene, invece, che non mancherebbero talune sentenze in grado di mettere in discussione le conclusioni raggiunte. Il riferimento è a quelle pronunce in cui si afferma la “concorrente responsabilità di tutti i partecipanti” ad una gara di velocità non autorizzata (e svolta in condizioni pericolose) per l’incidente che, nel corso della stessa, abbia visto coinvolto uno dei partecipanti”. Per cercare di chiarire il problema, prendiamo in considerazione il seguente esempio: in una partita di caccia alla quale partecipano cinquanta cacciatori, una persona rimane uccisa, colpita da lontano da una imprudente fucilata di uno dei partecipi. Si accerta che tutti i cacciatori presenti erano muniti di fucile non autorizzato, perché di calibro molto superiore a quello consentito, e a differenza di quest’ultimo in grado di uccidere un uomo anche da grande distanza. In ordine a tale fattispecie, si potrebbe rilevare che, ritenendo necessario un nesso causale fra le singole condotte e l’evento e non un rapporto causale diverso, intercorrente fra il complesso delle condotte concorrenti e l’evento, non pare dubbio che ognuno o gran parte dei cacciatori intervenuti, tranne in 5 Cfr. sul punto ancora ALDROVANDI, Il concorso..,cit. pag. 110 11 ogni caso lo sparatore che ha colpito la vittima, risulterebbe non avere minimamente condizionato l’evento verificatosi. Se il singolo cacciatore, infatti, non avesse aderito alla cacciata, questa avrebbe ugualmente avuto luogo. Eliminando mentalmente la condotta del singolo cacciatore, quindi, l’evento non verrebbe meno, con la conseguenza che la condotta presa in esame non potrebbe considerarsi condicio sine qua non dell’evento. Ora, apparentemente, questo stesso ragionamento potremmo riproporlo nel caso di tre ragazzi che decidano di partecipare ad una gara di velocità non autorizzata con i propri motorini. Nel corso della gara, uno di essi cagiona un incidente dal quale consegue la sua morte e le lesioni personali di un terzo. In ordine a tale fattispecie si potrebbe rilevare che, pur non potendo escludere che la mancata partecipazione di determinati concorrenti sarebbe stata idonea ad impedire lo svolgimento della gara, risulti aprioristico concludere nel senso che l’adesione di ciascun concorrente sia stata condizione indispensabile della compartecipazione e, quindi, dell’evento. La condotta del partecipante alla gara che ha cagionato direttamente l’incidente, è sicuramente condicio sine qua non dell’evento. Se, infatti, si elimina mentalmente la sua condotta, l’evento viene meno. Ma, se si elimina mentalmente la condotta di uno dei ragazzi che si è limitato a prendere parte alla gara, l’evento viene meno? Considerato il numero esiguo dei partecipanti, si può dire che la gara si sarebbe ugualmente svolta oppure no? Se si giunge a dire di no, allora ne risulta che anche quella condotta è stata condicio sine qua non dell’evento, perché se la si elimina mentalmente, ne consegue che la gara non si sarebbe svolta e che quindi l’evento non si sarebbe verificato. Se si 12 giunge a dire di si, allora ne consegue che eliminando mentalmente quella condotta, l’evento non sarebbe venuto meno. In questi termini la proposta di competizione avrebbe soltanto facilitato lo svolgersi della gara, risultando pertanto, dotata di mera efficacia agevolatrice rispetto all’evento. In questo caso, la formula condizionale, sarebbe inidonea a provare la causalità di quei contributi che, insufficienti da soli a causare un certo risultato, contribuiscano a determinarlo affiancandosi ad un processo causale in atto, già da solo sufficiente a produrre quel risultato stesso. Per la condotta del tipo da ultimo esaminato, non potrebbe essere affermata natura condizionale proprio perché, immaginandola mancante, si sarebbe prodotto egualmente un evento del tutto equivalente, sul piano giuridico, a quello che si è prodotto con la sua presenza. A ben guardare però, l’analogia tra le due fattispecie raffrontate è solo apparente. Il dato che giustifica la soluzione offerta al caso della “partita di caccia” è rappresentato dal numero dei cacciatori: il numero dei coagenti, è così grande che l’esclusione di uno di essi operata mentalmente risulta ininfluente sull’evolversi dell’avvenimento. La situazione è radicalmente diversa per il caso della “gara di velocità” dove all’estrema esiguità del numero dei concorrenti, si ricollega una elevata probabilità di rilevanza causale – condizionalistica di ciascun contributo6. Si condivida o meno tale ultima conclusione, va osservato che proprio rispetto alle fattispecie in esame, ove più incerta è la rilevanza effettiva, sul Il criterio (empirico) che viene in considerazione è quello secondo cui “quanto più cresce il numero dei compartecipi, tanto più cresce la possibilità che qualcuno di essi non ponga in essere una condizione necessaria dell’evento e viceversa”: cfr. ANGIONI, Il concorso colposo e la riforma del diritto penale, cit. pag 79. 6 13 piano causale, delle singole condotte, la giurisprudenza richiama a chiare lettere il criterio causale – condizionalsitico, affermando la necessità che il contributo morale si sostanzi nella “cosciente determinazione o induzione 7” e non accontentandosi quindi, di un semplice rafforzamento dell’altrui volontà, come avviene per le fattispecie dolose. Tuttavia, secondo chi scrive, tra le due fattispecie sopra confrontate, è possibile individuare una ulteriore differenza sul piano della violazione, già a livello oggettivo, della regola cautelare. Della violazione della regola cautelare, quale possibile criterio di tipizzazione della condotta di partecipazione, si intende parlarne successivamente, ma sin da subito sembra opportuno osservare che: nella “gara di velocità”, tutti coloro che hanno partecipato alla stessa, hanno violato regole cautelari dello stesso tipo e volte a prevenire eventi proprio della specie di quello che si è verificato. Infatti, come è stato accertato dai giudici8, tutti e tre i ragazzi procedevano a velocità molto elevata (superiore ai 100 km/h), per di più il terreno di gara, che fu da tutti scelto, era una strada stretta, con fondo sconnesso ed accidentato, per cui a maggior ragione sarebbe stato necessario tenere una condotta prudente e diligente e quindi ridurre di molto la velocità, come era indicato nell’apposito cartello segnaletico che da nessuno dei ragazzi fu rispettato. Inoltre, data l’ora tarda, Se è evidente, infatti, che il termine “ determinazione” richiama un contributo necessario (cfr. MANTOVANI, Diritto penale, cit. p. 525), non meno chiaro è che pure l’induzione implica un’attività dotata di efficacia condizionale: conclusione già pacifica sulla base del significato che a tale espressione si attribuisce nel linguaggio comune e confermata, comunque, dalla circostanza che, proprio con tale signfiicato, il concetto di induzione venga utilizzato in una norma incriminatirce, quale la’rt. 317 c.p., ove esso abbraccia ogni comportamento che abbia per risultato di determinare il paziente ad una data condotta (cfr. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, II, Milano, 1991, p. 310). 8 Vedi Corte di Appello di Napoli, Sez. minorenni, 22 dicembre 1983 7 14 la strada era quasi al buio perché priva di illuminazione, quindi la visibilità era molto ridotta, e la comune prudenza avrebbe richiesto un’andatura cauta proprio per evitare incidenti. Infine, non si tenne conto della distanza di sicurezza che per legge e per prudenza deve sussistere tra i contendenti, misura volta ad evitare scontri tra i veicoli, con conseguenze dannose sia per i conducenti degli stessi che per i terzi. Anzi, i partecipanti, cercavano di superare colui che era in testa e che, con il suo comportamento avventato e pericoloso, condizionò gli altri che, per seguirlo e tentare di superarlo, si indussero ad un precipitoso quanto rovinoso procedere. Le regole cautelari che da tutti sono state violate, erano tutte volte ad evitare collisioni tra i veicoli, collisioni tra i veicoli ed ostacoli esterni, fuoriuscita di strada dei veicoli, qualsiasi tipo di incidente, insomma, che avesse potuto pregiudicare la vita e l’incolumità fisica vuoi dei conducenti che di terzi, come di fatto avvenne, tanto è vero che dallo scontro, ne derivò la morte di uno dei partecipanti e gravi lesioni personali di un terzo. Anche nel caso della “partita di caccia”, tutti e cinquanta i cacciatori, contravvengono ad una stessa regola cautelare perché si muniscono di fucile di calibro molto superiore a quello consentito. È necessario, tuttavia, ricostruire il contenuto di questa regola cautelare, per stabilire se essa è volta a prevenire eventi del tipo di quello che si è verificato. Insomma, la domanda a cui si deve rispondere, a chi scrive, pare questa: l’evento che si è verificato (cioè morte di un uomo) è riconducibile nello scopo di prevenzione della norma cautelare che è stata violata da tutti i cacciatori? A ben guardare, no. L’evento morte dell’uomo, infatti, si verifica perché quest’ultimo viene colpito 15 da una imprudente fucilata. La regola cautelare che viene violata, quindi, e che è volta ad impedire l’evento del tipo di quello che si è verificato, consiste nel fare un prudente e diligente uso del fucile, indipendentemente dal suo calibro, proprio per evitare incidenti. Questa regola cautelare, però, non viene violata da tutti coloro che hanno preso parte alla partita di caccia, ma solo ed esclusivamente dal cacciatore che poi materialmente ha cagionato l’evento morte. Anche se il cacciatore, quindi, avesse avuto un fucile di calibro consentito, maneggiandolo imprudentemente, avrebbe potuto comunque colpire per errore una persona ed ucciderla. A questo punto, tuttavia, una obiezione potrebbe essere mossa, e cioè: immaginiamo che la persona che è rimasta ferita, e che poi è deceduta, si fosse trovata a 200 m di distanza da dove il cacciatore ha sparato con fucile di calibro non consentito e quindi con gittata maggiore rispetto a quella di un fucile di calibro consentito. A seguito di perizia, viene accertato che, qualora il cacciatore, anziché usare il fucile di calibro non consentito, avesse usato quello di calibro consentito, non avrebbe potuto colpire il bersaglio, poichè il proiettile avrebbe al massimo percorso 150 m e quindi non lo avrebbe raggiunto. In questo caso, se la regola cautelare che prevede di usare il fucile di calibro consentito, fosse stata rispettata, l’evento non si sarebbe verificato. Tuttavia, a ben guardare, in questo ultimo caso, le regole che il cacciatore ha violato sono sempre due e cioè: l’aver usato un fucile di calibro non consentito e l’averlo maneggiato imprudentemente, e non si può prescindere dalla violazione di quest’ultima, perché se il fucile di calibro non consentito fosse stato usato con diligenza, comunque l’evento non si sarebbe verificato. Se realmente, quindi, si 16 verificasse un caso analogo a quello della partita di caccia (prospettato dalla dottrina), non sarebbe configurabile una ipotesi di cooperazione colposa tra il cacciatore che ha sparato e gli altri che hanno partecipato alla cacciata, se pur con fucile di calibro non consentito, e questo non solo perché le condotte dei cacciatori, dato l’elevato numero degli stessi, non possono essere considerate condizioni indispensabili per il verificarsi dell’evento, ma anche perché questi non hanno violato una regola cautelare del tipo di quella volta a prevenire il verificarsi dell’evento morte, pertanto, potranno tutto al più rispondere a livello contravvenzionale del mancato impiego del fucile di calibro consentito. 17 PARAGRAFO IV: LA CAUSALITÀ CONDIZIONALE NELLA COOPERAZIONE COLPOSA SECONDO LA DOTTRINA La dottrina maggioritaria, già dall’interpretazione del primo comma dell’art. 113, (che richiede che l’evento nel delitto colposo sia “cagionato” dalla cooperazione di più persone), rileva come l’espressione verbale “cagionare” (che il legislatore ha esplicitamente prescelto per individuare il rapporto di derivazione della condotta concorsuale colposa), richiama immediatamente la tematica del nesso causale ed è un argomento esegetico a favore della necessità di un contributo eziologico effettivo. Ciò risulta evidente ancor più, se si confronta il “cagionare” dell’art. 113 c.p. sia con l’espressione usata dall’art. 110 c.p. per individuare la figura del concorso doloso, sia con le espressioni usate dal legislatore per individuare alcune figure specifiche di cooperazione colposa. Sotto il primo profilo, si sottolinea che l’art. 110, adottando un tipo di formulazione generica del tipo “più persone concorrono nel medesimo reato”, ha lasciato aperti una serie di problemi relativi al tipo di nesso che deve intercorrere tra le condotte dei concorrenti e tra queste e l’evento. L’ampiezza della formula normativa ha infatti rappresentato la prima matrice di un esteso e mai esaurito dibattito giurisprudenziale e dottrinario sui limiti di rilevanza penale delle forme più late di partecipazione al reato, soprattutto di quelle forme riassumibili nel concetto di agevolazione, e sulla loro compatibilità con il principio di personalità della responsabilità penale. 18 Sotto il secondo profilo, si evidenzia che in materia di partecipazione colposa, accanto alla norma generale sul concorso colposo, esistono una serie di fattispecie incriminatrici speciali, denominate di agevolazione colposa, nelle quali il rapporto tra condotta agevolante e condotta agevolata viene descritto non in termini di “cagionare” bensì attraverso l’uso di locuzioni del tipo: “rendere possibile o agevolare”. La comparazione tra i due tipi di espressione, quella che connota il concorso doloso e quella che connota le forme specifiche di agevolazione colposa, e la terminologia usata dall’art. 113 fornirebbe una prima, importante indicazione nel senso che la normativa concorsuale colposa è strutturata in modo da ricomprendere solo comportamenti di partecipazione dotati di efficacia causale9. in tal senso SEVERINO DI BENEDETTO, La cooperazione nel delitto colposo, cit. pag. 43 ss. In senso analogo GRASSO, commentario sistematico al codice penale, vol II, art 113, cit pag. 180 ss, e PAGLIARO, I principi di diritto penale. 9 19 PARAGRAFO V: LA CAUSALITÀ AGEVOLATRICE NELLA COOPERAZIONE COLPOSA. CRITICA Parte della dottrina ritiene che nella cooperazione colposa, sia opportuno integrare la portata della causalità condizionalistica con la causalità c.d. agevolatrice10, affinché sia attribuita rilevanza non solo ai contributi concorsuali necessari, ma anche a quelli di agevolazione 11. Secondo questa parte della dottrina, cioè, poiché il criterio causale condizionalistico, di per sé, non sarebbe in grado di punire, nemmeno nell’ambito della cooperazione colposa, le condotte di partecipazione non necessaria, sarebbe necessario utilizzare anche il criterio dalla causalità agevolatrice, che permetterebbe di punire quelle condotte che se anche non sono state necessariamente causali rispetto all’evento, tuttavia ne hanno agevolato la realizzazione12. Che poi il 10 Secondo tale teoria è penalmente rilevante non solo l’ausilio necessario, che non può essere mentalmente eliminato senza che il reato venga meno, ma anche quello che si limita ad agevolare o facilitare il conseguimento dell’obiettivo finale, questa forma di influsso, pur sempre causale anche se non condizionalistico, sarebbe ravvisabile, ad esempio, nel caso del complice che fornendo la chiave allo scassinatore determina l’anticipazione della consumazione del furto. Tuttavia, secondo altri autori, nemmeno il modello della causalità c.d. agevolatrice sarebbe dotato di validità generale: vi sarebbero infatti ulteriori casi di partecipazione non necessaria sempre meritevoli di pena, nonostante manchi non solo il nesso condizionalistico con l’evento ma anche ogni influsso causale sia pure nella forma attenuata dell’efficacia agevolatrice. Per esemplificare, si fa l’ipotesi della fornitura di uno strumento che non viene poi utilizzato dall’esecutore materiale, ovvero del complice maldestro il quale finisce, a causa della sua condotta impacciata, con l’ostacolare anziché favorire l’impresa criminosa. Per superare tali difficoltà, taluno propone l’abbandono dell’approccio causale e la sua sostituzione con un giudizio di semplice prognosi. 11Così ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, Milano 1984. Ed è sempre Albeggiani a determinare il contenuto della causalità agevolatrice: “ricorrono ipotesi di semplice agevolazione per quelle condotte che, insufficienti da sole a determinare un certo risultato criminoso, contribuiscono alla sua produzione influenzando favorevolmente la condotta illecita di un altro soggetto che avrebbe, in ogni caso, realizzato anche da solo un risultato giuridicamente analogo”. Cit. pag. 55 12 CONTRA ALDROVANDI, Concorso.., cit. pag. 40 ss , secondo l’autore, il concetto di causalità agevolatrice,risulta improponibile nell’ambito del concorso colposo. Infatti “la possibilità di sanzionare contributi meramente agevolatori è stata riconosciuta solo in 20 criterio causale condizionalistico non possa essere considerato l’unico criterio di tipizzazione delle condotte di partecipazione, sarebbe dimostrato dalla circostanza attenuante di cui al primo comma dell’art. 114 c.p. che così recita: “ il giudice, qualora ritenga che l’opera prestata da taluna delle persone che sono concorse nel reato a norma degli articoli 110 e 113 abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato, può diminuire la pena13”. presenza di fattori che inducano a qualificare come significativi, sotto il profilo della lesione al bene o interesse tutelato, anche comportamenti risolventisi in contributi di scarsa rilevanza quantitativa. Nell’ambito della partecipazione criminosa si fa riferimento alla “gravità del fenomeno associativo” e alla sua maggiore capacità lesiva nei confronti del bene tutelato, derivante dal combinarsi di più comportamenti di aggressione nei confronti del bene stesso. Se quest’ultimo rilievo però, ben si attaglia al concorso doloso, risulta estensibile alla cooperazione nel reato colposo. Invero, non pare che quest’ultima comporti una maggiore pericolosità oggettiva rispetto al concorso di condotte indipendenti, perhcè mai si dovrebbe ritenere più pericolosa la condotta di due soggetti che si sfidino ad una gara di velocità in automobile rispetto a quella di due automobilisti che, correndo ciascuno per conto proprio, giungano a scontrarsi ad un incrocio?”. 13LATAGLIATA mostra la sostanziale inconciliabilità tra la concezione causale del concorso ed una lettura dell’art. 114, 1º comma del c.p., orientata anch’essa sul piano della causalità oggettiva. Riferendosi soprattutto ad una certa visione giurisprudenziale della minima partecipazione in base alla quale essa dovrebbe essere riferita a contributi non indispensabili alla produzione del reato, nel senso che questo avrebbe potuto essere commesso anche senza quel contributo, l’autore rileva che tale aspetto non si mantiene coerente con le pretese premesse causali del concorso, in quanto implicitamente tale lettura riconosce che vi sarebbero atti di partecipazione che non sono condizioni necessarie per il verificarsi dell’evento. Ed ecco la necessità di puntualizzare l’importanza minima della condotta, non sul piano causale, ma sul piano soggettivo, attinente alla differenza tra la volontà del correo e quella del mero complice, nella decisione dell’azione collettiva. La minima importanza finirebbe con l’identificarsi con il ruolo del semplice partecipe (istigatore o agevolatore), in quanto questi non possiede il dominio finalistico del fatto collettivo. L’attenuante di cui all’art. 114, 1º comma c.p., competerebbe dunque a tutti i concorrenti che, nella struttura dell’azione collettiva hanno il ruolo secondario di meri complici, ruolo non dipendente dall’aspetto causale della condotta, ma dal contenuto della loro volontà. La maggior parte della dottrina, condivide la puntualizzazione critica di Latagliata, in merito alla inconciliabilità tra la concezione equicondizionalistica del contributo dei concorrenti ed una ricostruzione della minima partecipazione, come contributo non necessario, tuttavia, ritiene non condivisibile la particolare interpretazione dell’attenuante di cui all’art. 114, 1º comma c.p., perché in contrasto con il tenore letterale di questa norma. Infatti il riferimento testuale ad un’opera del concorrente che “ abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato”, conduce e vincola l’interprete a ravvisare la ratio dell’attenuante in una dimensione di carattere squisitamente oggettivo, senza offrire spazio per una considerazione dell’atteggiamento volitivo del partecipe. Seguendo questa prospettiva, si giunge a dire che se il concorso fosse fondato esclusivamente sulla causalità, la concausa dovrebbe essere sempre conditio sine qua non e la condizione necessaria non potrebbe essere poi ritenuta di minima importanza, una condotta che sia necessaria e quindi 21 Tale norma chiarirebbe che nel nostro ordinamento si danno condotte di partecipazione non necessarie, che possono essere mentalmente eliminate senza conseguenze significative sul risultato criminoso; condotte che, non essendo, per definizione, condiciones sine quibus non, non possono assumere natura causale alla stregua dei criteri tradizionali14. Questo ragionamento sarebbe riproponibile anche nell’ambito della cooperazione colposa, in quanto l’art. 114,1º comma c.p. espressamente richiama l’art. 113. Per stabilire se effettivamente l’art. 114,1º comma c.p. possa essere considerato un effettivo fondamento normativo per le condotte di partecipazione non necessaria anche nell’ambito del concorso colposo, si pongono come necessarie alcune considerazioni sull’applicazione della circostanza attenuante in parola da parte della giurisprudenza. Come prima cosa, la giurisprudenza in relazione alla nozione di “minima importanza” si è espressa in questi termini: “l’attenuante di cui all’art. 114 c.p. è configurabile solo quando l’opera prestata da taluno dei concorrenti sia stata non solo minore rispetto a quella degli altri concorrenti, ma addirittura minima, si da aver esplicato un’efficacia eziologia del tutto marginale e quasi irrilevante nella produzione dell’evento15, il che è configurabile, in sostanza, indispensabile per la verificazione dell’evento, svolge per ciò solo una funzione causale, essenziale, che neppure le più elastiche considerazioni in termini di valore possono ridurre ad un ruolo minimo. Si è giunti a dire che il sistema concorsuale del 1930, così com’esso è stato strutturato, rivela una apertura verso il concetto generale di partecipazione non necessaria, e cioè verso la punibilità di condotte atipiche non causali. La principale chiave normativa di tale apertura sarebbe data proprio dal testo dell’attenuante di cui all’art. 114,1º c., che, finisce per avere una funzione sistematica disgregatrice della teoria condizionalistica. 14 Cfr. ALBEGGIANI, I reati di agevolazione.., cit. pag. 182; ID., Imputazione dell’evento.., cit. pag. 409; MANTOVANI, Diritto penale, cit. pag. 546; PADOVANI, Diritto penale, cit., pag 373 s.; PAGLIARO, Principi.., cit., pag. 563; VIGNALE, Ai confini della tipicità.., cit., pag. 1368; GUERRINI, Il contributo concorsuale di minima importanza, Milano, 1997 pag. 58 ss. 15 Sul punto cfr. ALDROVANDI, Concorso nel reato colposo e diritto penale dell’impresa. Cit. pag. 42; secondo l’autore, sarebbe lo stesso codice Rocco ad escludere la possibilità di 22 quando il reato si sarebbe ugualmente verificato, con le medesime modalità, anche senza l’attività di detto concorrente. Si tratta, infatti, di un’eccezione alla regola generale di equiparazione delle varie forme di concorso di persone nel reato, fondata sul principio di equivalenza delle cause. Ne consegue, che l’interpretazione deve essere rigorosa ed indipendente dalla minore efficienza causale dell’apporto di taluno dei concorrenti, per cui è necessario che l’attività del compartecipe abbia inciso su di una circostanza ovvero su un particolare trascurabile e non essenziale del commesso reato. Ad integrare la circostanza della minima partecipazione al reato, pertanto, non basta la minore efficacia causale dell’attività prestata da un correo rispetto a quella posta in essere da altri, ma è necessario che il contributo dato dal partecipe si sia concretizzato nell’assunzione di un ruolo di rilevanza del tutto marginale, ossia di efficacia causale così lieve rispetto all’evento, da risultare trascurabile nell’economia generale del reato. In definitiva, l’attenuante può essere concessa se la condotta di un partecipe ha avuto una efficienza eziologia del tutto marginale, tale da poter essere avulsa dalla concatenazione causale senza apprezzabili conseguenze sul risultato conclusivo”16. Per quel che riguarda la casistica, in un primo gruppo di casi, la Corte di Cassazione, fonda il concorso di persone sul criterio causale-condizionale, interpretare la formula “partecipazione di minima importanza”, nel senso di minima importanza causale, che dovrebbe invece intendersi come minore capacità a delinquere del singolo soggetto. Il significato da attribuire alla locuzione “minima importanza” non sarebbe tanto quello di una ridotta efficacia eziologia, sebbene quello di una ridotta rilevanza concreta della singola condotta in rapporto all’illecito plurisoggettivo realizzatosi e, quindi, sia rispetto agli altri contributi concorsuali, sia rispetto al disvalore tipicizzato dalla norma incriminatrice. 16 In tal senso cfr. Cass Sez. I 94/198123; sez. I 91/188647; sez. I 85/169238; sez.I 82/157837; sez. I 94/198357; vedi anche Cass. 16.4.1997, Milone; Cass. 21.2.1997, La Legname; Cass. 24.11.1995, Sara; Cass. 2.7.1997, Berio; Cass. 10.1.1994, Manitta; Cass. 11.5.1994, Scaringella. 23 esigendo sempre nel contributo del concorrente il carattere della necessità rispetto alla produzione dell’evento, in funzione di meccanismo di tipicizzazione. In quest’ordine di idee, diviene poi impossibile riconoscere l’attenuante in parola, per la irriducibile contraddizione tra il concetto di partecipazione “necessaria” ed il carattere “minimo” del contributo in cui si sostanzia l’attenuante; ed ecco che per questa via si giunge inevitabilmente ad una interpretatio abrogans dell’attenuante. Laddove quindi, la giurisprudenza (di legittimità o di merito), giunga a dire che la condotta del partecipe è stata condicio sine qua non dell’evento, e quindi un contributo necessario per la realizzazione del fatto di reato, non potrebbe poi di certo affermare che quella stessa condotta è risultata di minima importanza, poiché, la ricerca di un contributo necessario, ma di minima importanza, sarebbe una contraddizione in termini. Considerando che, nell’ambito della cooperazione colposa, come è risultato dai casi che sono stati esaminati, la giurisprudenza è sempre giunta ad individuare un legame causale condizionale tra le condotte di ciascun partecipe e l’evento, non si vede come l’art. 114.1º comma c.p. potrebbe trovarvi applicazione, se, cioè, sempre la condotta del partecipe è condicio sine qua non dell’evento, non potrà mai essere partecipazione di minima importanza, quindi, anche ammettendo che l’attenuante in parola costituisca un supporto normativo alla causalità agevolatrice, tale non trova di fatto applicazione nella cooperazione colposa. Che poi l’attenuante in parola costituisca una “chiave di volta” nella ricostruzione giurisprudenziale del concorso doloso di persone, è discutibile, infatti, per prima cosa sarà possibile andare ad applicare tale attenuante ad 24 un concorrente in dolo, nella realizzazione di un reato doloso, sempre che la giurisprudenza non ritenga che quel contributo sia stato condicio sine qua non dell’evento, poiché in questo caso si ricadrebbe nella contraddizione denunciata a proposito della cooperazione colposa. Qualora invece la giurisprudenza giungesse a ritenere non condizionale rispetto all’evento lesivo la condotta del partecipe17, l’art. 114.1º comma potrebbe trovare applicazione, ma nel valutare il complesso delle pronunce storicamente formatosi sul punto, è agevole rilevare come quasi sempre la giurisprudenza giunga alla disapplicazione dell’attenuante18, ed anche qualora propenda per Cfr. Cass. Sez. I, sentenza 11.03.1991, Cantone, in cui la giurisprudenza così si è espressa: “perché si configuri la fattispecie del concorso di persone nel reato non è necessario che il contributo di ciascuno si ponga come condizione, sul piano causale, dell’evento lesivo. Infatti la teoria causale del concorso, fatta propria dalla relazione al codice penale, contrasta con il dettato dell’art. 110 c.p. e la funzione estensiva cui la normativa del concorso adempie, consentendo di attribuire tipicità a comportamenti, che di per sé ne sarebbero privi, quando abbiano, in qualsiasi modo, contribuito alla realizzazione collettiva, mentre, d’altro canto, lo stesso codice, con la previsione dell’attenuante della minima partecipazione al fatto, ammette la possibilità di condotte non condizionali, non potendosi certo considerare condizione indispensabile per la realizzazione del reato una attività di minima importanza. In questa ottica, ai fini della sussistenza del concorso deve ritenersi sufficiente che la condotta di partecipazione si manifesti in un comportamento esteriore che arrechi un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti e, in sostanza, che il partecipe per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l’esecuzione, abbia aumentato la possibilità della produzione del reato, perché in forza del rapporto associativo diventano sue anche le condotte degli atri concorrenti”; cfr. Cass. Sez. V, sentenza 9 maggio 1986: “ ai fini del concorso del reato (art. 110 c.p.) non è necessario che la condotta del concorrente sia condicio sine qua non dell’evento ed è invece sufficiente che il soggetto abbia apportato un contributo idoneo a favorire potenzialmente, a rendere più probabile l’evento (ad esempio rafforzando l’altrui proposito criminoso): ciò che esclude la necessità di accertare se l’evento si sarebbe ugualmente verificato senza l’apporto di quel concorrente”. 18 cfr. Cass. 7.12.1978, Cristini “ nel reato di contrabbando di sigarette estere non può ritenersi di minima importanza, agli effetti dell’art. 114 c.p., l’attività di colui che nasconde nella propria casa di abitazione la merce sottratta al pagamento dei diritti di confine”; cfr. Cassazione 16.12.1985, Spinola, “in tema di estorsione, non è di minima importanza l’opera del concorrente che abbia svolto attività di intermediazione ed abbia ricevuto egli stesso la somma estorta, dichiarando di doverla consegnare ad altri ignoti partecipanti”. Cfr. Cassazione penale, 26.1.1988, Cubeddu, “ il sequestro di persona a scopo di estorsione è un reato a consumazione anticipata e si realizza nel momento in cui vengono attuati tutti i suoi elementi costitutivi, fino alla cessazione dello stato di soggezione della vittima. Accertato il concorso di più persone nella realizzazione del reato, le condotte dei vari compartecipi si pongono sullo stesso piano. Il giudice non ha perciò l’obbligo di individuare il ruolo di ciascuno di essi nella commissione del reato poiché tutte le condotte assumono valore determinante e risolutivo; esula quindi qualsiasi ipotesi di applicazione dell’attenuante della 17 25 la sua applicazione19, si correrebbe sempre un rischio: quello che il magistrato finisca per ricondurre a circostanza attenuante comportamenti minima partecipazione”. Cfr. Cassazione 20.6.1994, Gerotti, “in tema di concorso di persone nel reato, l’attenuante della minima partecipazione, di cui all’art. 114 c.p., non è applicabile a colui che attende il complice alla guida di un’autovettura per portarlo in salvo, poiché egli facilita il compimento dell’attività criminosa e rafforza l’efficienza dell’opera svolta dal correo, garantendone una rapida fuga dal luogo del commesso reato ed una quasi certa impunità”. Cfr. Cass. 3.7.1990, Pedori, “l’opera del cosiddetto palo non ha importanza minima nella esecuzione del reato, poiché tale funzione facilita la realizzazione dell’attività criminosa e rafforza l’efficienza dell’opera dei correi, garantendo l’impunità di costoro. Ne deriva che non è applicabile la circostanza attenuante di cui all’art. 114 c.p.”. cfr. Cassazione 27.10.1981, Stipo, “ chi svolge l’attività di palo è un partecipante essenziale ad una rapina e a qualsiasi altro reato commesso da più persone in concorso tra di loro, dato che guarda le spalle dei suoi compagni e compartecipanti e previene eventuali sorprese che possano disturbare la loro opera. (nella specie è stata ritenuta legittima l’esclusione dell’attenuante della minima partecipazione al fatto”. Cfr. Cass. 18.1.1990, Guardi, “ in tema di concorso di persone nella detenzione a fine di spaccio di un quantitativo non modico di eroina, ai fini della concedibilità dell’attenuante di cui all’art. 114 c.p., non può ritenersi minimo un contributo alla consumazione del reato costituito dalla custodia della droga e dal tentativo di sottrarla al sequestro”. Cfr.Cass. 20.1.1994, Bassetti, “ l’attenuante di cui all’art. 114 c.p. trova applicazione la dove l’apporto del correo risulti obiettivamente così lieve da apparire, nell’ambito della relazione causale, quasi trascurabile e del tutto marginale. Il contributo costituito dal trasporto di un detentore di stupefacente nel luogo di acquisto e da questo al luogo i provenienza non può essere considerato come partecipazione di minima importanza al reato”. Cfr. Cassazione 21.3.1990, Billi, “ colui il quale trasporta uno spacciatore nel luogo di vendita della droga offre un consapevole, e apprezzabile, contributo causale alla di lui attività di spaccio; tale contributo non può essere considerato “minimo” ai fini dell’art. 114 c.p., essendo valutabile solo ai fini dell’art. 133 c.p. Cfr. Cassazione 12.7.1988, Sgarra, “ in tema di circostanze, l’attenuante di cui all’art. 114 c.p. può essere concessa solo se la condotta del partecipante abbia esplicato efficacia causale del tutto marginale nella realizzazione dell’evento. Non può considerarsi tale la condotta di colui che abbia agevolato il passaggio clandestino del confine a coimputati, corrieri di droga, per consentire il trasporto della quale abbia, altresì, altresì fornito un automezzo”. Cfr. Cass. 12.2.1985, Lucatello, “non può applicarsi la norma suddetta alla condotta di colui che trasforma il proprio appartamento in una base di appoggio di una organizzazione di trafficanti di stupefacenti ai quali l’agente accordi la copertura del proprio contratto locatizio, per agevolare la custodia e lo smistamento della merce mediante la collaborazione di piccoli spacciatori introdotti nello squallido ambiente dei tossicodipendenti. Infatti, questa condotta rappresenta uno dei supporti essenziali della complessa attività degli importatori e commercianti all’ingrosso di sostanze stupefacenti e, di conseguenza, nella consumazione del reato, di cui all’art. 71 l. 685/75, assolve il ruolo di non secondaria importanza”. 19 Così ad es. Corte di Assise di Roma 4 marzo 1977; nella quale la Corte è giunta a dire che: “ costituisce concorso nel delitto di omicidio la partecipazione di una persona ad una manifestazione politica violenta che faccia uso di pistola, mentre altri, anche se rimasto sconosciuto sparando più colpi colpisce altra persona cagionandone la morte. Trattasi, in tal caso, di un comportamento inteso a rafforzare l’azione del compartecipe, a garantirgli anche un’adeguata protezione, offrendogli nuovi incentivi e maggior senso di sicurezza a compiere il delitto”. Nel caso di specie, la Corte, ha ritenuto che il comportamento del partecipe, non fosse configurabile come contributo causalmente indispensabile alla realizzazione dell’evento, ed infatti l’evento si sarebbe verificato ugualmente anche senza la condotta del partecipe, quindi sembrerebbe (in quanto non c’è una chiara presa di posizione sul punto) che tale contributo sia stato considerato meramente agevolatore rispetto all’evento e lo ha qualificato come partecipazione di minima importanza ex art 114.1º comma c.p.. Tuttavia, 26 che, non essendo necessari e neppure influenti su alcuna modalità dell’altrui operato criminoso, addirittura dovrebbero essere collocati al di fuori della punibilità concorsuale20. E se ciò è vero nell’ambito del concorso doloso, lo è ancor di più nell’ambito della cooperazione colposa, dove avendo a che fare con illeciti colposi, l’evento (nel senso di fatto tipico di reato) non è voluto. Individuato il primo criterio di tipizzazione della condotta di partecipazione nella causalità condizionale, occorre a questo punto accertare, si vi siano, oltre a questo, altri criteri di tipizzazione della condotta concorsuale. Occorre, cioè, stabilire se il singolo contributo di partecipazione si ponga sempre in contrasto con una regola obiettiva di diligenza. tale sentenza è stata stigmatizzata da A.M. ROMANO cit. in Giur. Di merito 1978, II 623; in senso analogo FIANDACA MUSCO, Diritto penale, cit. pag. 464 e MANTOVANI, Diritto penale, cit. pag 547. 20 In tal senso confronto GUERRINI, Il contributo concorsuale di minima importanza, 1997, cit. pg. 37 27 CAPITOLO II RICERCA DEL SECONDO CRITERIO DI TIPIZZAZIONE DEL CONTRIBUTO DI PARTECIPAIZONE PARAGRAFO I: LA MISURA OGGETTIVA DELLA COLPA Chiarito che, nell’ambito della cooperazione colposa, la condotta di partecipazione deve essere necessariamente causale rispetto all’evento, resta aperto il problema di stabilire se, tale condotta, per essere punibile, debba anche, già di per se, porsi in contrasto con una regola precauzionale. Occorre cioè chiarire se, posto che la colpa rileva già sul terreno della tipicità, per aversi concorso colposo, occorra che ciascuno dei compartecipi, tenga una condotta in contrasto con una regola a contenuto cautelare, la cui osservanza avrebbe evitato un evento prevedibile e riconducibile nello scopo di prevenzione della stessa regola violata. Ma che cosa vuol dire che la colpa rileva già sul piano della tipicità? Illustre dottrina1, riconosce alla colpa una duplice dimensione o misura: 1. quella oggettiva, che richiede che la condotta si ponga in contrasto con una regola cautelare; Cfr. in tal senso: MANTOVANI, Diritto penale, 2001 cit. pag. 345; FIANDCA, Diritto penale parte generale 2001, cit. pag. 501; GALLO, Colpa penale, in Enc. Dir. Vol VII 1960, cit. pag 636 ss.; MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, cit. pag. 167 ss; PADOVANI, Diritto penale, cit. pag. 192 ss; ROMANO – GRASSO, Commentario sistematico del c.p. vol I art 43, cit. pag. 384; PALAZZO, Diritto penale, cit. pag. 285; FIORE, Diritto penale, cit. pag. 247. 1 28 2. quella soggettiva, che richiede l’esigibilità dell’osservanza di tale regola da parte dell’agente (e quindi l’attribuibilità al medesimo dell’inosservanza). Deve cioè potersi muovere, un rimprovero all’agente, per il comportamento tenuto nella situazione concreta. Interessa ora analizzare la misura c.d. “oggettiva” della colpa e cioè la violazione della regola cautelare di condotta. La prima considerazione da fare è che i connotati che caratterizzano la colpa, sul piano oggettivo, sono la prevedibilità e l’evitabilità dell’evento, nel senso che alla base delle norme precauzionali di diligenza, prudenza o perizia tendenti a scongiurare i pericoli connessi allo svolgimento delle diverse attività umane, stanno regole di esperienza ricavate da giudizi ripetuti nel tempo sulla pericolosità di determinati comportamenti e sui mezzi più adatti ad evitarne le conseguenze. Sicchè le regole di diligenza vigenti nei vari contesti sociali di riferimento rappresentano la cristallizzazione di giudizi di prevedibilità ed evitabilità ripetuti nel tempo. Se la prevedibilità e la evitabilità dell’evento, caratterizzano la colpa, sul piano oggettivo, il giudizio di prevedibilità ed evitabilità dell’evento, deve essere effettuato ex ante, in base al parametro oggettivo dell’homo eiusdem condicionis et professionis, il che significa che la misura della diligenza, della perizia, e della prudenza dovute, sarà quella del modello di agente che svolga la stessa professione o stesso mestiere, lo stesso ufficio dell’agente reale. L’orientarsi degli obblighi di diligenza, incombenti su ciascun consociato, secondo lo standard oggettivo dell’homo eiusdem professionis et condicionis, da un canto, consente a ciascuno, di agire con la sicurezza che non gli 29 verranno imputati eventi dannosi che dovessero verificarsi nonostante il conformarsi della propria condotta a quella dell’agente modello, dall’altro, autorizza ciascuno a fare affidamento sul fatto, che pure i soggetti, le cui condotte venissero ad interagire con la propria, adegueranno il loro comportamento agli standard oggettivi di diligenza dell’agente modello, appartenente al medesimo circolo di rapporti cui gli stessi manifestano di appartenere in dipendenza dell’attività esercitata. In forza di detto affidamento quindi, ciascun consociato non è tenuto, quanto meno come regola generale, ad orientare la propria condotta mettendo in conto comportamenti illeciti altrui, ma deve limitarsi ad adottare le regole cautelari atte ad evitare che dalla propria condotta derivino eventi dannosi ai terzi. Tuttavia, qualora si verifichino ipotesi, in cui il nesso di causalità fra una certa condotta e l’evento, venga mediato dal comportamento illecito di un terzo, astrattamente prevedibile, in presenza di quali presupposti, detta prevedibilità, potrà far sorgere a carico di un certo soggetto, che con il terzo si trovi ad interagire, particolari doveri di diligenza? 30 PARAGRAFO II: IL PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO NELL’ESPERIENZA GIURIDICA TEDESCA Sono state dottrina e giurisprudenza tedesca ad essersi occupate per prime del principio di affidamento2 e dei suoi limiti. Nell’esperienza tedesca, il c.d. Vertrauensgrundsatz (principio di affidamento) è stato enucleato ed utilizzato sul terreno della colpa, per dare risposta al seguente quesito: vivere in una società, può comportare la necessità di dover svolgere delle attività che possono essere anche molto pericolose, ma nello stesso tempo molto utili, nelle quali inevitabilmente ci si trova ad interagire con soggetti diversi. Queste attività, debbono essere svolte rispettando, da parte di chi le esercita, tutti quei doveri oggettivi di diligenza, prudenza, perizia, diretti a preservare da lesioni i beni giuridici di volta in volta tutelati. Uno stesso obbligo di diligenza, può essere indirizzato ad una pluralità di destinatari, il cui novero può essere così ampio da identificarsi con la globalità dei membri della collettività, ovvero obblighi di diligenza di diverso contenuto, possono far capo a soggetti diversi, in rapporto al ruolo da ciascuno di essi rivestito nel processo produttivo dell’evento che si tratta di impedire. Il problema, in un Per quel che riguarda la genesi storica del principio di affidamento, tale espressione si deve a Hermann Gülde, autore che tanto nel periodo del nazionalsocialismo quanto in epoca successiva si occupa di problemi attinenti allo specifico tema della circolazione stradale. Egli nel 1938 pubblica un articolo dal titolo di in equivoca significatività, vale a dire, il principio di affidamento come criterio – guida del diritto della circolazione stradale. La locuzione de qua viene coniata in stretta dipendenza con la trattazione di un problema che all’epoca comincia ad affacciarsi con insistenza sempre maggiore: se cioè, il singolo partecipante al traffico stradale debba costantemente mettere in conto, il che non può non riverberarsi sul quantum di diligenza che gli viene richiesta, che gli altri partecipanti si comportino in modo inavveduto, irragionevole, o comunque contrario alle regole del traffico. Contrapponendosi all’orientamento dottrinale e soprattutto giurisprudenziale ancora dominante decisamente incline alla soluzione affermativa, Gülde opta di massima a favore di una risposta negativa al quesito. 2 31 caso e nell’altro, è quello di stabilire se, ed entro quali limiti, il singolo soggetto, che si assume comunque destinatario autonomo di un dovere di diligenza proprio, sia tenuto a rispondere delle conseguenze dell’inosservanza di un dovere di diligenza, da parte di altri con cui venga in contatto. Il primo settore nel quale dottrina e giurisprudenza tedesca si sono poste questo problema, è stato quello della circolazione stradale e a tale problema, hanno dato risposta utilizzando il principio di affidamento. In base ad esso, ciascuno può normalmente confidare sul fatto che gli altri membri della collettività con i quali entri in contatto si comportino in modo corretto, osservando cioè i doveri di diligenza di cui sono rispettivamente destinatari, fino a quando non sussistano indizi concreti che rendano riconoscibile il contrario. In tale ultima evenienza, l’originario affidamento del primo deve viceversa lasciare il posto ad un obbligo di adeguare la propria condotta, al fine di neutralizzare i pericoli derivanti dall’altrui inosservanza, pena una responsabilità, in concorso con l’autore di quest’ultima, in ordine alle conseguenze che da detta, riconoscibile negligenza, sono scaturite. Viene così rivendicata al principio di affidamento la funzione di consentire al singolo di concentrarsi nel modo più adeguato, sugli obblighi che fanno effettivamente capo a lui, sgravandolo dal compito di prevedere e prevenire gli inadempimenti da parte di altri, di obblighi su di essi incombenti. Successivamente, il principio in esame, è stato trasposto in quelle aree nelle quali trova applicazione il principio della divisione del lavoro, prima tra tutte l’attività medico -chirurgica. 32 Individuate nella dottrina e nella giurisprudenza tedesca, le matrici storiche dell’elaborazione e della valorizzazione del principio di affidamento, quale canone di distribuzione della responsabilità per colpa, nel concorso di una pluralità di centri produttori di un medesimo evento dannoso, occorre verificare se, ed in che modo, i contenuti essenziali di tale criterio, siano filtrati anche nella nostra esperienza giuridica. 33 PARAGRAFO III: CIRCOLAZIONE STRADALE E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO NELLA NOSTRA ESPERIENZA GIURIDICA La circolazione stradale è una realtà molto pericolosa ma al tempo stesso molto utile, così che l’ordinamento consente il suo svolgimento, ma obbliga gli utenti della strada a conformare il proprio comportamento a numerose norme di prudenza, diligenza e perizia scritte e non scritte, per tutelare beni giuridici molto importanti, primi fra tutti la vita e l’incolumità fisica delle persone stesse che prendono parte al traffico stradale. Che ogni utente abbia l’obbligo, quindi, di rispettare quelle norme cautelari che l’ordinamento direttamente a lui rivolge, sembra ovvio. Il problema, invece, è quello di stabilire se l’utente abbia anche l’obbligo di prevedere i comportamenti colposi, astrattamente prevedibili, degli altri consociati con i quali venga ad interagire nel traffico stradale e quindi l’obbligo di attivarsi per neutralizzare le conseguenze dannose derivanti dalle altrui manchevolezze, attraverso un aumento del quantum di diligenza dovuto. Qualora il principio di affidamento, riuscisse a trovare concreta applicazione, tenendo ben presenti quelle che sono le sue funzioni e cioè: 1. da un lato, l’affidamento, si pone a conferma del principio costituzionale in forza del quale “ la responsabilità penale è personale” (art 27.1º comma Cost.), per cui ciascuno è chiamato dall’ordinamento a rispondere per i propri errori e non per gli errori altrui; 2. dall’altro, il principio di affidamento, permette al singolo di concentrarsi nel modo più adeguato sugli obblighi che fanno 34 effettivamente capo a lui, sgravandolo dal compito di prevedere e prevenire le inosservanze degli altri; la soluzione sarebbe quella di ritenere che gli utenti della strada hanno il dovere di osservare le norme del codice della strada, ma anche il diritto di comportarsi sul presupposto che, anche gli altri, le osservino a meno che le circostanze concrete siano tali da indicare che il comportamento del terzo, non costituisce frutto di un’autodeterminazione responsabile. Ad esempio, da parte di bambini che giocano sul marciapiede di una strada, da una persona anziana che stà attraversando la strada e i cui riflessi siano visibilmente appannati, da un’automobilista manifestamente ubriaco, non è legittimo attendersi un comportamento perfettamente controllato3. La Corte di Cassazione, ha statuito al riguardo che: “ il conducente di un veicolo, deve tener conto delle eventuali e probabili anomalie ed irregolarità del comportamento dei pedoni, che siano persone anziane e deve prospettarsi, perciò, la possibilità che qualcuna di tali persone, scenda improvvisamente e distrattamente dal marciapiede su cui era stata avvistata, per essere in grado di adottare ogni necessaria cautela ed eseguire tutte le manovre che si rendono in particolare opportune”. Nel caso di specie, un automobilista mentre si accingeva a voltare a destra per portarsi nella zona di parcheggio, andava ad urtare una viandante che era nel frattempo discesa dal marciapiede e stava attraversando la sede stradale, per portarsi sul marciapiede opposto. A seguito, dell’urto, la viandante che aveva più di 75 Nel senso che il principio dell’affidamento viene meno nei confronti di bambini o persone anziane, Cfr., ad es., Cass. 5 ottobre 1972; Cass. 21 dicembre 1973, in Arch. Circol., 1974, p. 883; Cass. 3 settembre 1974, ivi, 1975, p. 480; Cass. 18 ottobre 1974, ivi, 1975, p. 731; Cass. 28 novembre 1975, ivi, 1977, p. 220; Cass. 4 marzo 1977, in Riv. Pen., 1977, p.912; Cass. 6 luglio 1977, in Arch. Circol., 1978, p.214 3 35 anni, cadeva pesantemente a terra e riportava gravi lesioni. Nel caso de quo, l’automobilista, non avrebbe potuto invocare a sua discolpa il principio di affidamento nei confronti dell’anziana signora, poiché, secondo i giudici, il comportamento irregolare del pedone che sia persona anziana, e cioè il fatto che il pedone scenda improvvisamente o distrattamente dal marciapiede su cui sia avvistato, è fatto prevedibile, pertanto, l’automobilista ha l’obbligo di adottare ogni necessaria cautela volta a neutralizzare i pericoli derivanti dall’altrui imprudenza. Sempre il S.C., ha affermato che “l’esistenza di un cartello indicatore di una scuola impone, in ogni caso, l’obbligo di una velocità moderata, indipendentemente dalle ore in cui, di solito, si svolgono le lezioni e dalla presenza di scolari sulla strada. Nella circolazione stradale la condotta di guida deve essere adeguata a tutte le circostanze ed i conducenti devono tenere conto anche della imprudenza altrui, ragionevolmente prevedibile e probabile”. Nel caso di specie, un uomo alla guida di un autocarro, in prossimità di una scuola, aveva investito due ragazzi, i quali, rincorrendosi, erano scesi dal marciapiede di destra, rispetto alla direzione di marcia dell’autocarro. A causa delle gravissime lesioni riportate, i due ragazzi decedettero. Anche in questo caso, il guidatore, non avrebbe potuto invocare il principio di affidamento a sua discolpa nei confronti dei ragazzi, in quanto il guidatore non può confidare sul fatto che dei ragazzi tengano un comportamento perfettamente conforme alle regole di prudenza e diligenza, ed ha l’obbligo di prevedere e prevenire le loro scorrettezze. 36 Ne consegue che, solo in simili ipotesi, gli altri utenti del traffico dovrebbero regolarsi di conseguenza, onde evitare o ridurre il rischio di incidenti. Il problema, pertanto, diviene quello di accertare se ne nel caso concreto, il principio di affidamento, riesca a trovare effettiva applicazione. Dall’esame di numerose sentenza della Corte di cassazione4 si è potuto constatare che nel settore della circolazione stradale, sebbene il S.C., in una non recente sentenza5, ha affermato che: “ in tema di responsabilità da sinistri stradali, l’esatto principio secondo il quale il conducente di un autoveicolo ha l’obbligo di prevedere le imprudenze altrui ragionevolmente prevedibili e probabili, e non solamente possibili, deve contemperarsi con il principio altrettanto esatto, che costituisce corollario e limite dell’obbligo menzionato, dell’affidamento nell’altrui condotta di guida che abbia tutta l’apparenza della normalità”, dimostrando, quindi, di riconoscere al principio di affidamento la funzione di temperare l’obbligo di prevedere le imprudenze altrui, di fatto, il principio in esame finisce sempre per essere disapplicato e 4 Cass. 27 ottobre 1992, Brilli, in Arch. Circolaz., 1993, 408; Cass., 21 gennaio 1998, Bruzzo, in Arch. Circolaz., 1998, 559; Cass. Sez. IV, 19 dicembre 1996, Fundarò, in Arch. Circolaz. 1997, 600, nonché in Dir. Pen. E proc., 1997, 961, con nata di PIRAS; Cass. Sez. IV, 4 febbraio 1991, Lubrano Lo bianco, in Arch. Circolaz., 1992, 234; Cass., 10 aprile 1991, Luciano, in Arch. Circolaz., 1991, 814, con nota di ALIBRANDI; Cass., 19 dicembre 1997, Iotti, in Arch. Circolaz., 1997, 903; Cass., 14 marzo 1991, Salzano, in Arch. Circolaz, 1992, 126; Cass., 8 novembre 1990, Bertolotti, in Arch, circolaz., 1991, 298; Cass., 9 novembre 1989, Boscaini, in Riv. Pen., 1990, 1062; Cass., 1 marzo 1988, n. 400, Passeri, in Arch. Circolaz. 1988, 923 s.; Cass., 4 marzo 1991, Ricotta, in Arch. Circolaz., 1992, 21; Cass., 22 febbraio 1991, n. 9782, Scuto, in Arch. Circolaz., 1992, 21 ss; Cass., 31 gennaio 1991, Oddera, in Arch. Circolaz., 1991, 754; Cass., 21 maggio 1991, Gelsi, in Arch. Circolaz., 1992, 349; Cass., 17 gennaio 1992, Arata, in Arch, circolaz., 1992, 538; Cass., 3 aprile 1991, Moceri, in Arch. Circolaz., 1992, 18; Cass., 23 marzo 1992, Baldini, in Arch. Circolaz., 1992, 916; Cass., 18 gennaio 1990, Caglio, in Arch. Circolaz., 1991, 30; Cass., 9 novembre 1990, Pascali, in Arch. Circolaz., 1991, 198; Cass., 9 febbraio 1988, n. 3110, Chiaia, in Arch. Circolaz., 1988, 931; Cass. 24 gennaio 1994, Pirani, in Arch. Circolaz., 1995, 404; Cass., 2 dicembre 1988, Marras, Giust. Pen. 1989, II, 694 s.; Cass, Sez. IV, 17 dicembre 1999, Lerede, CED Cass., n. 215663; Cass. Sez. VI, 7 dicembre 1979, n. 10593; Cass. Sez. IV, 3 dicembre 1979 n. 10277; Cass, Sez. IV, 25 ottobre 1979, n. 8862 n. 1346; Cass. Sez., VI, 20 ottobre 1979, n. 8714; Cass. Sez. VI, 20 ottobre 1979, n. 8622; Cass. Sez. VI, 8 ottobre 1979, n. 8106 5 Cass. pen. Sez. V, 6 marzo 1978 Del Mese pres. 37 si riconosce, invece, costantemente, l’esistenza in capo a ciascun partecipante al traffico, dell’obbligo di prevedere le imprudenze altrui6. La Suprema Corte, ad esempio, in tema di lesioni o omicidio colposi, commessi con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale, ha ritenuto che “ è compreso nell’obbligo di tenere un comportamento prudente ed accorto, da parte del conducente di un autoveicolo, quello di prevedere le imprudenze altrui, ragionevolmente prevedibili. Tale, deve considerarsi, l’inosservanza dell’obbligo di dare la precedenza, da parte di chi, da una strada secondaria, s’immette su strada privilegiata”. Nella specie, il conducente di una vettura, aveva investito un ciclista, il quale era deceduto a seguito dell’investimento. I giudici accertarono che l’incidente fu causato dalle condotte colpose sia dell’autista che del ciclista. Il primo infatti era in colpa per aver impresso alla vettura una velocità eccessiva e pericolosa. Il secondo, che da una strada secondaria si doveva immettere su una strada privilegiata, era in colpa per non aver osservato l’obbligo di dare la precedenza. Sempre in materia di obbligo di dare la precedenza, la Suprema Corte ha statuito che: “ il conducente che percorra una strada favorita dalla precedenza non è esonerato dall’obbligo di moderare la velocità ai crocevia, pur dovendosi tale obbligo considerare più elasticamente rispetto a quello dei conducenti che procedano su strade non favorite. Invero, in ogni zona di interruzione stradale è presente il pericolo di incidenti che si prospetta, Sull’obbligo di prevedere e prevenire le imprudenze, che appaiano probabili, degli altri utenti della strada (obbligo rientrante in quello più generale di prudenza e diligenza nella circolazione stradale) la giurisprudenza è costante: Cfr: Cass. pen. 28 novembre 1975, ric. Tagliavini; Cass. pen. 10 dicembre 1971, ric. Di Fiore; Cass. pen. 10 marzo 1971, Bivacqua; Cass pen 19 novembre 1970 Cacciuto; Cass, pen. 28 febbraio 1969, ric Mucilli. 6 38 quindi, non eccezionale né abnorme né imprevedibile”. Ed ancora: “quando al crocevia si pone un problema di precedenza tra due veicoli, il conducente proveniente dalla destra, che gode della precedenza di diritto, non è esonerato, per questo, dalla osservanza delle norme di comune prudenza, sicchè, se il conducente di sinistra dimostra di non voler rispettare le priorità di passo e impegna l’area del crocevia, egli è tenuto a rallentare e occorrendo a fermarsi”. Sempre il S.C., ha affermato che: “ il conducente che si approssima ad un crocevia, anche se favorito dal diritto di precedenza, deve ispezionare la strada anche dal suo lato sinistro per l’eventualità che altro conducente proveniente da quel lato non rispetti l’obbligo di cedergli il passo. Invero, quando l’imprudenza altrui appaia già in atto per manifestazioni esteriori o, comunque, si presenti ragionevolmente prevedibile, è dovere di ogni utente della strada fare tutto il possibile per evitare eventi dannosi”. Il S.C., ha statuito, poi, che “anche se in piena ora notturna e su strada in cui non è consentito l’attraversamento pedonale, non è circostanza del tutto imprevedibile che un pedone, violando il divieto, tenti di attraversare la carreggiata, creando una situazione di grave pericolo per la propria ed altrui incolumità”. Nel caso di specie un automobilista aveva investito un pedone che a seguito dell’incidente era morto. Si accertò che l’incidente fu causato dalle condotte colpose sia dell’autista che del pedone. Il primo era in colpa per essere distratto alla guida dell’autovettura; per aver proceduto a velocità non moderata, per non aver notato la presenza del pedone, che pure al momento dell’investimento, aveva già attraversato un lungo tratto della platea stradale. Il pedone era in colpa per aver effettuato l’attraversamento a 39 notte fonda, su strada a scorrimento veloce scarsamente illuminata e per di più in un punto dove non era consentito il passaggio. La suprema Corta ha affermato, inoltre, che “l’assenza di strisce pedonali non può indurre a ritenere che nessun pedone si accingerà ad attraversare la strada, giacchè è sufficiente un minimo di esperienza per conoscere perfettamente l’effettiva realtà del traffico e sapere quanto spesso i pedoni attraversano la strada indipendentemente dalle strisce”. Nel caso di specie, il conducente di un autobus di linea aveva investito mortalmente un pedone che attraversava la strada da sinistra a destra rispetto alla direzione dell’autobus, che procedeva entro la sua corsia riservata. L’incidente era stato concausato dalla condotta colposa sia dell’autista che del pedone. Il primo era in colpa per aver omesso di ispezionare attentamente tutto il tratto di strada che stava per impegnare, il secondo per aver attraversato la strada in un tratto dove l’attraversamento non era consentito. Ed ancora, il S.C., ha ritenuto che “in tema di circolazione stradale, il repentino arresto del veicolo che precede costituisce non un fatto straordinario ed eccezionale ma una circostanza ben prevedibile da parte del conducente del veicolo che segue, il quale pertanto, deve adeguare la propria condotta di guida, all’eventuale situazione di pericolo, derivante dal verificarsi della predetta circostanza”. A tale affermazione consegue l’esclusione dell’operatività del principio di affidamento. Ancora una volta è la prevedibilità del comportamento illecito del terzo a prevalere sull’affidamento nel corretto comportamento altrui. 40 Dall’esame della casistica si è evinto che la giurisprudenza non esita ad assumere le parti del pedone, o del ciclista, o del motociclista “soggetti deboli” del traffico, rispetto all’automobilista. Pertanto è la regola di condotta dell’automobilista a doversi modellare sulla prevedibilità dell’altrui comportamento negligente7. Si intuisce facilmente che un orientamento di tal tipo nega qualunque legittimazione al principio di affidamento, non solo perché vi è sempre il dovere di prevedere e prevenire il comportamento scorretto altrui, ma anche perché, sulla base dei casi esaminati, si configura sempre la violazione di una norma cautelare volta a prevenire incidenti del tipo di quello che si è verificato da parte di tutti coloro che hanno concausato l’incidente. Ne consegue che qualora l’utente della strada, violi di per sé una norma cautelare, non potrà invocare a sua difesa il principio de quo e ciò perché chi invoca l’osservanza delle cautele doverose da parte di terzi non deve versare a sua volta in colpa. Ecco allora individuato un ulteriore limite al principio di affidamento, infatti il criterio in questione ha la funzione di delimitare gli obblighi di diligenza che un soggetto è tenuto ad osservare, ma non si può dilatare fino al punto da ritenere che si possa agire imprudentemente affidandosi alla diligenza altrui. In tal senso confronta DI GIOVINE , il contributo della vittima nel delitto colposo cit. pag. 26 ss. A riguardo, la Corte di Cassazione ha statuito che “ rientra tra i doveri di comune prudenza l’obbligo per ogni utente della strada di prevedere le imprudenze altrui; tale obbligo è peraltro riferibile alle imprudenze ragionevolmente prevedibili ed apprezzabilmente probabili”. Ed ancora:“il conducente di un veicolo deve tener conto del comportamento imprudente altrui quando esso si presenti ragionevolmente prevedibile ed è tenuto a preoccuparsene in maniera particolare quando esso appare già in atto da manifestazioni esteriori”. Infine: “ costituisce dovere dei conducenti di veicoli rivolgere la propria attenzione non solo al traffico che si svolge innanzi e sulla strada, bensì a quanto accade ai margini, onde prepararsi a fronteggiare qualsiasi evenienza”. 7 41 A tale impostazione giurisprudenziale, aderisce anche quella parte della dottrina8 che sostiene rientrare nei normali doveri di prudenza, l’obbligo di prevedere le imprudenze altrui, ragionevolmente prevedibili ed apprezzabilmente probabili. A determinare tale regola, è la constatazione che, secondo una valutazione ricavata dalla comune esperienza, le prescrizioni che disciplinano il traffico, assai spesso non vengono osservate, e ciò comporta il pericolo della verificazione di incidenti, con conseguente pregiudizio in danno dei beni giuridici facenti capo a quanti vi sono coinvolti. Proprio per fronteggiare questa evenienza, il cui grado di riscontro statistico è così alto, da farla risultare come probabile, e come tale, prevedibile, si fa carico, anche all’automobilista, che procede nello scrupoloso rispetto delle norme sulla circolazione, di adattarsi all’ipotesi che con la sua condotta, vengano ad interferire probabili e quindi prevedibili imprudenze altrui, non importa se già avvenute o ancora da venire. Altra parte della dottrina9, sostiene invece che l’obbligo di prevedere le imprudenze altrui sussisterebbe, con tutte le sue conseguenze relative alla responsabilità civile, penale per delitto, e penale per contravvenzione, solo in quei casi eccezionali, nei quali la legge, impone una particolare prudenza. Alcuni esempi di norme di tal tipo, ci sono offerti dal codice della strada, basti pensare all’art. 145, che stabilisce che “i conducenti, approssimandosi ad una intersezione, devono usare la massima prudenza al fine di evitare incidenti”. Cfr. DUNI, l’obbligo di prevedere le imprudenze altrui, in Riv, giur. Circ. trasp. 1964 317 ss; CONTRA MANTOVANI, il principio di affidamento.. cit. pag. 186 ss 9 Cfr. PANNAIN, intervento all’XI Convegno delle commissioni giuridiche dell’A.C.S., Napoli, 29 maggio 1964 8 42 Posto che la norma stabilisce che, quando due veicoli stanno per impegnare una intersezione, ovvero, laddove le loro traiettorie stiano comunque per intersecarsi, si ha l’obbligo di dare la precedenza a chi proviene da destra, c’è da chiedersi quale sia la ragione che ha indotto il legislatore a richiedere “massima prudenza” anche al conducente “privilegiato”, ovvero con il diritto di precedenza. Questa ragione, sembra ravvisabile, nella volontà di evitare incidenti, essendo molto frequente, e la comune esperienza lo dimostra, che gli utenti della strada, contravvengono a detto obbligo. Se ciò è vero, il conducente privilegiato non potrà di certo confidare sul fatto che, raggiunto un crocevia, chi ne ha l’obbligo, gli darà, senza dubbio, la precedenza. Detto affidamento, viene escluso a priori dallo stesso art. 145 c.s, laddove richiede anche al conducente con diritto alla precedenza, la massima prudenza. Oppure si pensi all’art 147 cod. strad. che stabilisce che “gli utenti della strada, approssimandosi ad un passaggio a livello, devono usare la massima prudenza al fine di evitare incidenti”, oppure alla norma che stabilisce che “la luce gialla lampeggiante prescrive di usare prudenza e diminuire la velocità”. Le considerazioni fatte in relazione all’art 145 c.s, possono essere ripetute a proposito delle due norme ora menzionate. La teoria appena esaminata, non viene di certo condivisa dalla giurisprudenza. Se è vero, infatti, che una norma cautelare richiede massima prudenza quando, sulla base dell’esperienza è prevedibile e probabile che un terzo disattenda la norma stessa, è anche vero che, come si evince dai casi pratici che sono stati esaminati, la giurisprudenza ha ritenuto sussistere l’obbligo di prevedere il comportamento illecito altrui, anche in quelle ipotesi 43 nelle quali, non era possibile chiamare in causa, norme scritte che richiedessero all’agente di usare la massima prudenza. Chi scrive, è del parere che porre come regola, l’obbligo di prevedere le imprudenze altrui, seppure ragionevolmente prevedibili, possa portare a degli inconvenienti. Rivolgere, infatti, all’utente della strada la richiesta di prevedere le imprudenze altrui, significa presupporre che gli altri utenti della strada, con i quali il primo si troverà ad interagire, molto probabilmente, anzi quasi sicuramente, non rispetteranno le regole di prudenza, diligenza, perizia, che l’ordinamento loro impone, nell’ambito di questo settore. Se questo è vero, verrebbe meno la funzione di prevenzione delle norme contenute nel codice della strada, anzi, le stesse finirebbero per risultare inutili, infatti a cosa servirebbe una norma se molto probabilmente, anzi quasi certamente, la stessa verrà disattesa, tanto da dover addossare a soggetti diversi dai destinatari di queste norme, l’obbligo di predisporre misure dirette a prevenire gli effetti della loro (quasi scontata) inosservanza? Non solo, ma assumendo a regola un tale obbligo, si andrebbero a favorire proprio gli utenti della strada che non rispettano le norme di prudenza. Questi ultimi infatti, potrebbero sempre contare sul fatto che altri, in loro vece, adempiano, appunto in forza della regola in questione, all’obbligo di neutralizzare le conseguenze del proprio comportamento difforme da tali prescrizioni. Si verrebbero paradossalmente a creare le premesse per l’insorgere, in dell’aspettativa capo che ai ci destinatari si potrà delle pure norme discostare sulla dalle circolazione, indicazioni comportamentali contenute nelle disposizioni del Codice della Strada, 44 potendosi in ogni caso contare, sul fatto che gli altri utenti del traffico, ottempereranno al proprio obbligo di prevedere e prevenire precisamente le imprudenze altrui. Si può inoltre rilevare che assumendo come regola, l’obbligo di prevedere le imprudenze altrui, si finirebbe per violare, il principio costituzionale che stabilisce che la responsabilità penale è personale. Da ultimo, è stato osservato che un tale obbligo, collide in modo palese con le risultanze acquisite dalla dogmatica della colpa. Infatti ai fini della configurabilità della colpa, è necessaria la presenza di circostanze concrete, che valgano a rendere riconoscibile, il pericolo della lesione di beni giuridici, e, pertanto, ad attualizzare il dovere di evitarlo. Un dovere di evitare le conseguenze di imprudenze altrui, che si fondi esclusivamente sull’assunto, che le violazioni delle regole della circolazione raggiungono un grado statisticamente tanto rilevante, da renderle probabili e, per questo prevedibili, da luogo invece ad un giudizio di prevedibilità formulato in astratto. Nel settore della circolazione stradale, in definitiva, il principio di affidamento non riesce mai a trovare concreta applicazione, per lo meno nelle ipotesi di concausazione colposa. Resta, tuttavia, da analizzare se il principio in esame trovi applicazione nelle ipotesi di cooperazione colposa che si possono configurare nel settore della circolazione stradale, si pensi ad esempio all’ incauto affidamento di veicolo a persona sprovvista di patente di guida, o ad una gara di velocità non autorizzata. Tale analisi viene però 45 rinviata ad altra parte dell’opera, dovendo prima completare la struttura della cooperazione colposa. Tuttavia, prima ancora di proseguire nell’analisi delle cooperazione colposa, attraverso la ricerca del secondo criterio (secondo, poiché il primo già è stato individuato nella causalità condizionale del contributo di partecipazione rispetto all’evento) di tipizzazione della condotta di partecipazione, è doveroso concludere l’esame del principio di affidamento, che si fa più interessante in quelle attività dominate dal principio della divisione del lavoro, e cioè l’attività medico – chirurgica in équipe, da un lato, ed il settore degli infortuni sul lavoro, dall’altro. 46 PARAGRAFO IV: IL PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO NEL RAPPORTO TRA DATORE DI LAVORO E LAVORATORE Nel settore degli infortuni sul lavoro, il diritto penale ha per scopo la tutela di beni giuridici (vita, incolumità, sicurezza del prestatore d’opera) e poiché questi si trovano affidati alle scelte dell’imprenditore, dalle quali dipende la loro reale salvaguardia, l’imprenditore stesso, ha due possibili strade: o far fronte direttamente e in prima persona a tutti gli obblighi che l’ordinamento pone, soggiacendo a tutte le responsabilità per gli eventuali scostamenti dai modelli di rispetto e diligenza, oppure creare centri autonomi di garanzia, attribuendo ad altri, nell’ambito di specifiche competenze, il potere di concorrere ad integrare le decisioni che innervano l’attività d’impresa. Solo in quest’ultimo caso si potrà porre un problema di esonero parziale o totale della responsabilità del garante primario. Qualora il datore di lavoro, dovesse percorrere questa seconda strada, si troverà a fare i conti con la delega di funzioni, aventi penalistico rilievo, all’interno dell’organizzazione aziendale. Il problema della delega di funzioni, tuttavia, è anche strettamente connesso al fenomeno della cooperazione colposa, ed infatti, la delega è idonea a generare ipotesi di responsabilità concorsuale, in quanto, per effetto della stessa, più persone vengono, in qualche modo, coinvolte in una medesima attività. Pertanto, volendo analizzare la relazione che intercorre tra delega di funzioni e principio di affidamento, e non essendo questa la sede più 47 opportuna per farlo, poiché non è stato terminato l’esame della struttura della cooperazione colposa, si rinvia l’analisi ad altra parte dell’opera. Qualora, invece, il datore di lavoro, decida di percorrere la prima strada, i problemi da risolvere sono due: individuare gli obblighi che il legislatore gli pone a carico e stabilire se una volta adempiuto a tali obblighi, nel caso in cui si verifichi un infortunio sul lavoro in danno di un suo dipendete, il datore di lavoro possa difendersi invocando il principio di affidamento nei confronti del lavoratore. Quello che si vuole chiarire è se, il principio di affidamento, possa valere ad escludere la colpa del datore di lavoro, nell’ipotesi in cui, un suo dipendente, si procuri lesioni personali o addirittura perda la vita a seguito di un incidente avvenuto sul posto di lavoro e durante l’orario di lavoro. Per quel che riguarda il primo problema, il dovere di sicurezza di cui è soggetto passivo il datore di lavoro, in base all’art. 2087 c.c (il cui contenuto è specificato sia dall’art. 4 del d.p.r. n. 547/55; sia dall’art. 4. del d. lgs. n. 626/94, in generale e dalle norme sui decreti sulla prevenzione degli infortuni, in particolare), si può sintetizzare in tre ordini di comportamenti: 1. predisporre misure e mezzi di prevenzione infortuni; 2. impartire ordini precisi ai dipendenti in relazione all’uso dei medesimi e rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti nell’esecuzione del lavoro; 3. vigilare perché i mezzi antinfortunistici vengano usati (cinture, caschi, ecc..) o non disinseriti. 48 Per quel che riguarda il secondo problema, si potrebbe ritenere che l’aver ottemperato puntualmente a questi obblighi, consenta di escludere la responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio. Solo se il datore di lavoro non adempia ad uno dei suoi doveri, sarà possibile ravvisare la sua colpa che potrà concorrere con quella del lavoratore qualora questi abbia a sua volta messo in atto una condotta imprudente o negligente. Qualora il datore di lavoro, quindi, abbia adempiuto a tutti gli obblighi di sicurezza di cui il legislatore lo grava, sarà legittimo, da parte sua, confidare nel fatto che i propri dipendenti tengano un comportamento prudente, diligente e conforme agli obblighi a loro imposti dall’art. 6 del d.p.r. 547 del 55 e dall’art. 5 del d.lgs 626 del 94, senza avere l’obbligo di intervenire per eliminare le conseguenze delle loro inosservanze. Tuttavia dall’esame di varia casistica10, si è potuto concludere che il principio di affidamento non riesce mai a trovare concreta applicazione e ciò per due ordini di ragioni: Cfr: Cass. Sez. lav. 17.04.2004 n. 7328; Cass., 19 giugno 1964, Nannotti ed altro, in Giust, pen., 1965, 2, 47, la quale specifica che l’idoneità dell’inosservanza dell’art. 6, d.p.r. n. 547 del 1955 a costituire in colpa il lavoratore, configurando il comportamento di lui come causa concorrente alla produzione dell’evento dannoso, “ non esime da responsabilità il datore di lavoro già in colpa per non avere adottato le misure antinfortunistiche imposte da norme giuridiche o di comune prudenza, che devono sempre adottarsi per la sicurezza individuale e collettiva dei lavoratori, qualunque possa essere il loro comportamento in relazione agli obblighi che incombono anche a loro”; Cass., 1 giugno 1993, Pannicelli, in Mass. Cass. Pen., 1993, fasc. 12, 84; Cass., 31 maggio 1963, in Mass. Giur. Lav., 1964, 60; Cass., 5 gennaio 1999, Caldarelli, in CED Cass., n. 214246; Cass., 27 settembre 1995, Bardelli, in CED Cass., n. 204051; Cass., 28 aprile 1981, n. 7402, Gramigna, CED Cass., n. 167679; Cass., 27 novembre 1996, Maestrini, in CED Cass., n. 206990; Cass., 3 ottobre 1990, Mindala, in Riv. Pen. 1991, 869: Cass., 15 dicembre 1989, Degola, in Riv. Trim. dir. Pen. Econ., 1991, 279 s., con nota di CATALIOTTI; Cass., 15 febbraio 1991, Invernicci, in riv. Pen. 1991, 910; Cass., 18 ottobre 1990, Chiavazza, in riv. Pen., 1991, 869; Cass., 6 luglio 1993, Giuva, in Mass. Cass. pen., 1994, fasc. 2, 100. Cass., 27 ottobre 1989, Amendola, in Riv. Pen., 1991, 214; Cass., 1 ottobre 1990, Di Niro, in Giust. Pen., 1991 II, 303; Trib. Perugia, 3 febbraio, 1993, Colleoni, in Rass. Giur. Umbra, 1994, 153, n. ANGELINI; Cass., 25 settembre 1995, Dal Pont, in CED Cass., n. 203223; Cass., 14 giugno 1996, Ieitano, in CED Cass., n. 206012; Cass., 9 otobre 1992, Gesess, in Giur. It., 1994, II, 264; Cass., 19 febbraio 1990 n. 6504, Conca, in CED Cass., n. 10 49 da un lato, poiché è sempre configurabile da parte del datore di lavoro, la violazione di qualche norma di sicurezza, per cui non può invocare l’affidamento chi, con una sua condotta già autonomamente qualificabile come negligente, imprudente o imperita, ha provocato egli stesso, una reazione scorretta da parte di un terzo. Dall’altro, l’applicabilità del principio di affidamento alla materia degli infortuni sul lavoro, trova ostacolo in una delle eccezioni che alla sua operatività è costantemente opposta, quella per cui, non può affidarsi al corretto comportamento di determinati soggetti, chi è titolare di una posizione di garanzia, avente per contenuto, il proprio controllo della rispondenza delle loro condotte alle regole di diligenza, delle quali, i medesimi, sono destinatari. È evidente, infatti, che tale obbligo risulti incompatibile con quell’effetto di esonero dal controllo della conformità di comportamenti di terzi alle norme di diligenza loro indirizzate che deriva dall’operatività del principio di affidamento. Sicchè, il responsabile della sicurezza, e cioè il datore di lavoro, non può invocare a propria scusa il principio di affidamento, in quanto assume il ruolo di garante dell’effettivo rispetto delle prescrizioni di sicurezza da parte del lavoratore. È proprio rilevando una posizione di garanzia in capo al datore di lavoro che in molte sentenze, i giudici sia di merito che di legittimità, hanno escluso, esplicitamente o implicitamente, l’applicabilità del principio di affidamento alla materia degli infortuni sul lavoro. Così, ad esempio, i giudici 184234; P. Brescia 21 marzo 1994, Fedriga, in Riv. Trim. dir. Pen. Econ., 1994, 1184; Cass., 3 giugno 1999, Grande, in CED Cass., n. 214998; Pret. Brescia, 18 aprile 1994, Faraglia, in Riv. Trim. dir. Pen. Con., 1995, 377. 50 di merito, hanno ritenuto che “ è responsabile del reato di omicidio colposo il dirigente, direttore tecnico di stabilimento che omettendo di istruire i lavoratori e di operare concretamente affinchè il lavoro non si svolga in condizioni pericolose per l’incolumità dei lavoratori stessi, abbia cagionato la morte di uno di questi, dal momento che trattasi di violazione di cautela, causalmente connessa all’evento letale ascritto, di carattere strutturale in quanto afferente al generale obbligo di organizzare il lavoro in termini di massima sicurezza che incombe, in base alla norma fondamentale dell’art. 2087 c.c., al datore di lavoro e dunque al suo alter ego dirigente”. Nel caso di specie, il dirigente non avrebbe potuto invocare il principio di affidamento nei confronti del lavoratore, rivestendo una posizione di garanzia e di protezione nei suoi confronti ed avendo violato una regola cautelare, volta a prevenire eventi del tipo di quello che, in concreto, si era verificato. Per cui, non può fare affidamento sulla diligenza altrui, chi versa in colpa. La Corte di Cassazione, ha affermato, inoltre, che: “l’avvenuto affidamento, da parte dei vari destinatari delle norme antinfortunistiche, alla prudente discrezionalità di operai esperti di quanto indispensabile all’adozione delle cautele di prevenzione non può, in caso di evento colposo, costituire motivo per l’esonero di responsabilità”. Ancora il S.C. ha ritenuto che “il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche e garante della sicurezza dei lavoratori, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che o sia stato posto in essere da quest’ultimo del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e, 51 pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro, o rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa radicalmente, ontologicamente lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro”. Nella specie, la suprema Corte ha ritenuto non abnorme, ma al più imprudente, l’uso di un carrello inidoneo, da parte del lavoratore, nell’esercizio delle mansioni affidategli, non essendo imprevedibile che un lavoratore, incaricato di sistemare rotoli di tessuto di particolare altezza, e quindi particolarmente ingombrante se posati orizzontalmente, possa decidere di metterli in posizione verticale. Anche in questo caso, il datore di lavoro, non avrebbe potuto invocare il principio di affidamento a sua discolpa, poiché in qualità di garante della sicurezza del lavoratore, avrebbe dovuto prevedere e prevenire le conseguenze dannose della sua imprudenza. Conclusioni simili non sembrano, tuttavia, condivise da quella parte della dottrina11 che ritiene diversa la posizione dei lavoratori nel quadro delineato dal d. lgs. n. 626/94 rispetto a quella risultante dal d.p.r. n. 547/1955 . Nell’ambito del d.p.r. n. 547/55, secondo la dottrina in esame, da un lato, il lavoratore era delineato in termini di mero soggetto passivo della prevenzione e si trascurava quasi del tutto la sua capacità di fronteggiare i pericoli connessi all’attività lavorativa. Dall’altro, si sanciva il c.d. principio della protezione oggettiva del lavoratore in forza del quale ai responsabili della sicurezza spettava anche il compito di proteggere il dipendente nei Cfr: MANTOVANI, responsabilità per inosservanza degli obblighi istituiti dal d. lgs. n. 626 del 1994 e principio di affidamento, cit. pag. 290 ss.; Cfr, altresì DIGIOVINE, il contributo della vittima nel delitto colposo, cit. pag. 83 ss. 11 52 confronti degli effetti delle sue imprudenze e della sua inosservanza alle norme antinfortunistiche. Invece, con il d.lgs. 626 del 94. sarebbero stati forniti al lavoratore i mezzi per meglio gestire, da sé, la propria tutela nei confronti dei fattori di rischio immanenti al contesto lavorativo nel quale opera. Il prestatore di lavoro sarebbe ormai chiamato, ufficialmente e compiutamente, ad uscire dalla sua inerzia di titolare del credito di sicurezza, il cui soddisfacimento è comunque autonomamente garantito e rafforzato, ed a farsi soggetto della sicurezza individuale e collettiva. Orbene, pur rimanendo in capo al datore di lavoro, l’obbligo di controllo circa l’effettiva osservanza da parte dei lavoratori delle norme di sicurezza loro indirizzate, risulterebbe evidente, secondo la dottrina in esame, che la formazione ricevuta dal lavoratore (ed infatti alla luce degli artt. 21 e 22 d. lgs. 626 del 94, al lavoratore è garantita non soltanto l’informazione sui rischi generici e specifici ai quali è esposto nello svolgimento della prestazione, ma anche una specifica formazione in tema di sicurezza, calibrata sulle precise mansioni alle quali è addetto), accrescendone l’idoneità all’osservanza delle misure prescritte, possa legittimamente far nascere un affidamento in ordine al fatto che egli tenga un contegno conforme a sicurezza. In questo contesto, quindi, il principio di affidamento, lungi dal rimuovere l’obbligo di sorveglianza gravante sul datore di lavoro, ne presupporrebbe l’assolvimento mediante istruzioni dirette ad ottenere dai lavoratori il rispetto degli standards di sicurezza prescritti dalla legge. 53 A queste conclusioni, d’altra parte, la stessa Corte di Cassazione era giunta in una precedente sentenza del 1993, che, a quanto consta, rappresenta l’unico caso in cui si è fatta applicazione espressa del principio di affidamento alla materia degli infortuni sul lavoro12. In quell’occasione, in particolare, il Supremo Collegio aveva affermato che i responsabili dell’organizzazione, una volta che abbiano predisposto nel migliore dei modi le operazioni da compiere per l’esecuzione del lavoro impartendo le dovute istruzioni sul perfetto modo di eseguirlo, “hanno motivo per contare sull’esatto adempimento dell’obbligazione di lavoro da si fa riferimento a Cass. 9 febbraio 1993, ric. Giordano, in Riv. Trim. Dir. Pen. Eco. 1995, 101, con nota di VOLPE, Infortuni sul lavoro e principio di affidamento. Nel caso di specie si era verificato nel deposito costiero dell’Agip, una violenta esplosione, valutata pari a quella di 10 – 15 tonnellate di tritolo, a seguito della quale si era sprigionato un incendio di vastissime proporzioni che aveva interessato gran parte dell’area del deposito medesimo e che aveva cagionato notevolissimi danni a persone e cose in una ampia zona del territorio napoletano. Avevano perso la vita due dipendenti della società, tali Cozzuto Antonio e Capace Arturo, addetti al turno di notte per le operazioni di scarico della benzina “super” della nave cisterna Agip – Gela, e quattro donne abitanti in case vicine interessate dall’onda d’urto. Disposta una perizia, il collegio dei periti aveva individuato con certezza la dinamica del sinistro. Avevano rilevato i periti che le derivazioni di adduzione della benzina “super” dei serbatoi di stoccaggio erano state ritrovate in un assetto diverso da quello che le stesse avrebbero dovuto avere, secondo il programma di riempimento prestabilito dai responsabili. Erano state, infatti, rinvenute aperte entrambe le linee di alimentazione ai serbatoi n. 17 e n. 18 e siffatta situazione, stando al programma, si sarebbe dovuta verificare solo per un arco di tempo di una decina di minuti, introno alle 3 della stessa notte, ora in cui i due operai tankisti Cozzuto e Capace avrebbero dovuto aprire la linea di adduzione al serbatoio n. 18 e chiudere, dopo qualche minuto, quella al serbatoio n. 17. Questa operazione, però non era stata compiuta, sicché, nelle due ore successive, nella linea di alimentazione al serbatoio n. 17 aveva continuato ad affluire la benzina che, ad un certo punto, aveva preso a tracimare e a cadere, dalla sommità del serbatoio, sita ad oltre 15 metri di altezza dal suolo, ai piedi dello stesso serbatoio, in una vasta superficie. Si era prodotta, quindi, una intensissima accumulazione di vapori di benzina: una causa di innesco non individuato ne aveva provocato l’improvvisa accensione e la violenta deflagrazione. Orbene, nella specie, se la posizione gerarchica dei responsabili dell’organizzazione: Migliardini, Onza, Galieni, era tale, in astratto, da consentire la sorveglianza dell’operato degli operai Cozzuto e Capace, non sussistevano davvero ragioni soggettive o oggettive che facessero dubitare che il Cozzuto ed il Capace avrebbero fatto il loro dovere. I due operai infatti, erano altamente specializzati ed erano stati posti nelle condizioni migliori, anche con riguardo al numero, per svolgere il loro lavoro, che sarebbe consistito, nel suo momento più delicato, in una operazione di nessuna difficoltà. I responsabili dell’organizzazione, dunque, facendo leva sul principio dell’affidamento, non avevano alcun valido motivo per sospettare che quei lavoratori, dotati di particolare competenza, sarebbero venuti meno all’elementare dovere di stare svegli nel momento della esecuzione di quella tutt’altro che difficile manovra di chiusura di un rubinetto e di apertura di un altro rubinetto. 12 54 parte dei lavoratori e per attendersi da costoro l’uso della normale diligenza nell’eseguire l’operazione”. “Ed infatti”, ha continuato la Cassazione, “se il lavoratore ha diritto di aspettarsi che il datore di lavoro lo metta nelle condizioni migliori per lavorare, il datore di lavoro ha, dal canto suo, il pari diritto di fare affidamento sull’esatto adempimento da parte del lavoratore del proprio dovere”. Tuttavia, tale orientamento non ha avuto seguito, tanto è vero, che la sentenza in esame rappresenta un caso isolato nel panorama giurisprudenziale. Non solo, ma la Corte di Cassazione, in una recente sentenza 13, dopo aver ribadito che gli obblighi in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, non si esauriscono nell’apprestamento delle attrezzature necessarie a detto scopo ma si estendono alla costante vigilanza volta a prevenire e in ogni caso, a fare tempestivamente cessare, eventuali manomissioni da parte dei dipendenti, ha chiaramente affermato che non può tenersi conto alcuno di quelle sollecitazioni che da parte di autorevole dottrina sono state avanzate in ragione della disciplina dettata dal d. lgs. 626/94 che ha riconosciuto espressamente il ruolo essenziale della corresponsabilizzazione del lavoratore nella gestione della sicurezza nei luoghi di lavoro, affermando espressamente che i lavoratori contribuiscono, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti ed ai preposti, all’adempimento di tutti gli obblighi imposti dall’autorità competente o comunque necessari per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori durante il lavoro. La Corte, in definitiva, ha escluso che il 13 Cfr: Cass. 21 maggio 2002, n. 7454 55 lavoratore possa ritenersi corresponsabile, insieme al datore di lavoro, della sicurezza nei luoghi di lavoro. Egli rimane in ogni caso “creditore di sicurezza”. L’orientamento costante della Corte di Cassazione, inoltre, anche dopo l’entrata in vigore del d. lgs. 626 del 94, è sempre nel senso di ritenere che la funzione delle norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro è quella di impedire l’insorgenza di situazioni pericolose e di tutelare il lavoratore non solo dai rischi intrinsecamente connaturali all’esercizio dell’attività lavorativa, ma anche a quelli conseguenti alla sua disattenzione nonché a quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso prestatore d’opera, la cui incolumità deve sempre essere tutelata, addirittura contro la sua stessa volontà. Così, il Tribunale di Perugia, ha ritenuto che “ spetta al datore di lavoro la predisposizione di dispositivi di sicurezza che superino anche l’imprudenza e la disattenzione del lavoratore e che lo obblighino a condotte sicure. Le misure antinfortunistiche devono essere imposte e osservate dal datore di lavoro anche contro la volontà ed i rischi di condotte imprudenti da parte del dipendente. Non si può, pertanto, ritenere che la mera attività informativa possa essere sufficiente ad escludere responsabilità per il datore di lavoro e per i preposti alla sicurezza”. Nella specie, la disattivazione di fotocellule di cui era stato fornito il macchinario della casa costruttrice aveva consentito che il lavoratore entrasse nel raggio di azione della macchina stessa mentre questa era in movimento. Anche i giudici di legittimità, hanno ritenuto che “la normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l’incolumità del lavoratore non soltanto dai rischi derivanti 56 da accidenti o fatalità ma anche da quelli che possono scaturire da sue stesse avventatezze, negligenze e disattenzioni, purchè normalmente connesse all’attività lavorativa, cioè non abnormi e non esorbitanti dal procedimento di lavoro.” Ed ancora sul punto: “ le norme di sicurezza dettate a tutela dell’integrità fisica del lavoratore, devono essere attuate anche contro la volontà dello stesso; si risponde della omissione anche se il lavoratore, colpevolmente, trascura le norme o le disposizioni impartite, né rileva che il lavoratore infortunatosi sia professionalmente qualificato, sia pure a livello corrispondente a quello cui è affidato il controllo dell’applicazione delle misure di prevenzione”. Pare certo che i giudici di legittimità e di merito, sono pervenuti a tali orientamenti per una serie di motivi emersi dall’osservazione e valutazione di dati socio – economici che possono essere così sintetizzati: 1. l’abitudine ad un determinato lavoro, anche se pericoloso, porta inevitabilmente l’agente a sottovalutare la reale entità del rischio, a non individuare tempestivamente i pericoli, ad allentare l’attenzione, specie se il lavoro comporti automaticità di movimenti; 2. la difficoltà dell’operazione che si stà compiendo, magari delicata e di responsabilità, per la quale un errore può determinare un danno rilevante all’imprenditore, concentra l’attenzione dell’agente sullo svolgimento del lavoro, sottraendola totalmente ai pericoli connaturati a quella attività lavorativa; 3. la corretta valutazione del coinvolgimento delle parti contraenti (datore di lavoro e lavoratore subordinato) e l’alea cui ognuno di 57 queste è sottoposta (l’una di tipo economico e l’altra di natura squisitamente personale) comporta il trasferimento sull’imprenditore della responsabilità di quanto accade nell’impresa a danno del lavoratore. Ne consegue che il datore di lavoro “è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che, di queste misure, venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l’imprenditore, che abbia provocato un infortunio sul lavoro, per violazione delle relative prescrizioni, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, atteso che la condotta del dipendente, può comportare l’esonero totale del datore di lavoro da responsabilità, solo quando essa presenti i caratteri dell’abnormità, dell’opinabilità ed esorbitanza, rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell’atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell’evento. Il comportamento imprudente del lavoratore, quando non presenti i caratteri estremi sopra indicati, può invece rilevare come concausa dell’infortunio”. La Corte di Cassazione ha richiamato il principio sopra esposto in un caso di infortunio sul lavoro, che vide coinvolto un operaio che, mentre, in piedi sulle pale di un c.d. muletto, guidato da un compagno di lavoro, era intento a prelevare del materiale, riposto in alto sulla soletta di un locale aziendale, cadeva al suolo riportando lesioni. I giudici nel caso de quo, ritennero evidente sia la colpa del lavoratore per aver tenuto un comportamento imprudente, consistito nel non aver usato il bancale, disponibile in azienda, 58 che gli avrebbe garantito una posizione sicura nelle manovre di sollevamento e discesa, evitandogli di perdere l’equilibrio e cadere al suolo; sia la colpa del datore di lavoro, per aver tollerato la pratica esistente in azienda, di non utilizzare il bancale nelle manovre di sollevamento e discesa; per non aver vigilato sull’attività svolta dai lavoratori; per non aver preteso l’osservanza da parte dei dipendenti delle misure di sicurezza atte ad evitare infortuni. Ne consegue che il datore di lavoro, inutilmente avrebbe potuto invocare a sua discolpa il principio di affidamento, in quanto questo, trovava un limite sia nella posizione di garanzia e di controllo che egli ricopriva nei confronti dei dipendenti, sia nella condotta colposa del lavoratore, posto che non può invocare l’affidamento chi versa in colpa. Lo stesso principio è stato applicato dal S.C., in un caso in cui perse la vita un operaio di una cartiera artigiana. L’operaio, mentre partecipava con un altro operaio alle operazioni di pulizia delle vasche in cemento, destinate a contenere l’impasto di acqua e carta straccia proveniente dalle molazze, restava impigliato con i suoi indumenti in uno degli alberi di trasmissione delle molazze stesse, decedendo a causa delle lesioni riportate. Nel caso di specie, i giudici sia di merito che di legittimità, ravvisarono la colpa sia del datore di lavoro per aver violato gli artt. 55 e 56 del d.p.r. 1955/547, avendo omesso di isolare gli alberi di trasmissione, nonostante che detti alberi non si presentassero lisci e fossero collocati ad altezza inferiore a metri due dal posto di lavoro, sia la colpa della vittima, che violando le precise disposizioni del datore di lavoro, era passata sotto gli alberi di trasmissione in movimento, omettendo di fermarli prima dell’operazione. Il datore di lavoro, inoltre, 59 rivestendo una posizione di garanzia e di controllo nei confronti del lavoratore ed avendo violato delle specifiche norme antinfortunistiche, volte a prevenire incidenti del tipo di quello che si era poi verificato, non avrebbe potuto invocare a sua discolpa il principio di affidamento. Sempre la Corte di Cassazione, ha ritenuto che “il datore di lavoro, non può invocare a propria scusa il principio di affidamento assumendo che l’attività del lavoratore era imprevedibile, essendo ciò doppiamente erroneo, da un lato, in quanto l’operatività del detto principio riguarda i fatti prevedibili e dall’altro, atteso che esso comunque non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia, come certamente è quella del datore di lavoro. Il principio dell’affidamento, ha proseguito la Corte, presuppone la previsione o la prevedibilità dell’evento ed esclude la responsabilità, per colpa nonostante la prevedibilità o, addirittura, la previsione dell’evento. Pertanto, affidamento e imprevedibilità non hanno nulla in comune, chè il primo, l’affidamento, esonera per definizione, da responsabilità per l’altrui condotta prevedibile che sia collegata alla nostra e non per l’altrui condotta imprevedibile. L’evento imprevedibile esonera, si, da responsabilità, ma non per il principio dell’affidamento, sebbene perché l’imprevedibile è fuori del raggio d’azione della colpa”. Nel caso di specie, un operaio con la qualifica di allupino, cioè di addetto a controllare che le varie sfilacciature dei tessuti venissero separate durante la fase di convogliamento in alcune stanze, accortosi che il convogliatore si era ostruito, come era avvenuto in altre occasioni, dovendo sbloccarlo e dovendo portarsi, per sbloccarlo a 5/6 metri da terra, invece di servirsi della apposta 60 scala, aveva chiesto ad un collega, che stava transitando in quel momento con un carrello elevatore, di fissarlo sino alla sommità del convogliatore. Il collega si era prestato, ma allorché l’allupino, eseguito il controllo del convogliatore, doveva scendere, anziché porre in azione la leva per la discesa, aveva toccato la leva per l’apertura delle forche, determinando la caduta al suolo dell’altro. I giudici ritennero responsabile del fatto, anche il datore di lavoro, in colpa, per aver omesso il controllo in merito all’adozione di tutte le cautele necessarie affinché si evitassero infortuni. Anche in questo caso, il principio di affidamento non poteva essere invocato dal datore di lavoro a sua difesa. Egli, infatti, in qualità di garante della sicurezza del lavoratore sul posto di lavoro, avrebbe dovuto controllare e vigilare che le misure di sicurezza venissero in concreto adottate, che i mezzi di prevenzione fossero stati realmente utilizzati, che il lavoro si fosse svolte secondo le direttive impartite. Controlli questi che erano stati disattesi. Accertato pertanto che i giudici sia di merito che di legittimità, giungono sempre a negare che il principio di affidamento possa essere invocato dal datore di lavoro a sua difesa, non resta che esaminare se il principio in esame, trovi applicazione in un'altra materia dove si applica il principio della divisione del lavoro, ovvero, l’attività medico – chirurgica in èquipe. 61 PARAGRAFO V: PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO ED ATTIVITÀ MEDICA IN ÉQUIPE SECONDO LA DOTTRINA È dato di osservazione comune, che le prestazioni medico – chirurgiche, vengano oggi pressoché normalmente eseguite non più, da un solo professionista, bensì da una pluralità di soggetti, medici e paramedici, inseriti all’interno di una struttura ed organizzatati secondo precisi criteri di ripartizione delle competenze. Questo è un fenomeno, ormai irreversibile, che trova le proprie radici in diversi e molteplici fattori: innanzitutto, il progresso tecnico della scienza medica, che ha fatto proliferare le specializzazioni ed ha reso sempre più complessi gli interventi diagnostici, le misure terapeutiche e le previsioni prognostiche. In secondo luogo, la sempre maggiore incentivazione della medicina c.d. “sociale” che, con vertiginoso aumento del numero dei pazienti, ha reso inevitabile una sempre più curata e razionale organizzazione dei luoghi di cura, siano essi pubblici che privati. Con riguardo alla responsabilità medica in ambito di équipe, è da osservare che i sanitari componenti un équipe chirurgica, sia essa strutturata con la semplice presenza del chirurgo, dell’aiuto e dell’anestesista o sia essa strutturata in maniera assai più complessa, a volte con la contemporanea presenza di molti sanitari, rappresenta il momento che, fotografa per eccellenza, in un unico contesto spazio – temporale, la contemporanea attività multidisciplinare di sanitari appartenenti a diverse specialità, il più delle volte gerarchicamente organizzati e diretti da un capo équipe. 62 Tale fenomeno determina l’insorgere di delicate problematiche circa i criteri di attribuzione della responsabilità penale all’interno dell’équipe, in presenza di una condotta colposa lesiva degli interessi del paziente. Si pone cioè, il problema di stabilire, se e a quali condizioni, il singolo soggetto, partecipe del gruppo, possa essere chiamato a rispondere della condotta colposa posta in essere da altri componenti e sino a che punto si estenda il suo dovere di prudenza, diligenza, e perizia nell’attività svolta. La dottrina, da parte sua, ha espresso a riguardo, tre posizioni fondamentali: 1. secondo una prima tesi, andrebbe affermata, data anche la ricorrente difficoltà obiettiva di accertare quale dei componenti dell’équipe abbia errato, una sorta di responsabilità di gruppo o per fatto altrui, sicchè sia sempre garantito l’indennizzo dei danni subiti dal paziente14. 2. Un altro orientamento appartiene alla dottrina (Crespi) che per prima si soffermò in Italia, sul tema della responsabilità medica nei lavori in équipe. L’illustre autore, affrontando il quesito cruciale sulla responsabilità del capo – équipe per l’eventuale errore commesso da uno dei collaboratoti, sostenne il principio generale del dovere di controllo da parte del primo sull’attività dei propri aiuti ed assistenti o del personale sanitario, principio che ammetterebbe deroga solo in quei particolari casi in cui il responsabile del gruppo avesse avuto ragionevoli motivi per fare affidamento sull’attività del collaboratore in questo senso CATTANEO, La responsabilità medica nel diritto italiano, in La responsabilità medica, Milano, 1989, pag. 22 si tratta di una tesi non condivisibile, per il rischio di deresponsabilizzazione dei medici che comporta nella misura in cui essi non vengono più chiamati a rispondere personalmente delle proprie colpe, ed inoltre difficilmente compatibile con il principio costituzionale della personalità della responsabilità penale (art. 27.1º comma Cost.) 14 63 autore dell’errore. Si formulava, in sostanza, da tale dottrina, il principio del non affidamento, da valere come criterio per lo meno ordinario, di valutazione. 3. Secondo un terzo indirizzo (Marinucci – Marrubini)15 non può invece essere condiviso il “principio del non affidamento”, poiché esso finisce per suonare come sistematica sfiducia, da parte del medico che dirige il gruppo, nell’abilità e nella capacità degli altri partecipanti all’attività. Va invece riconosciuto, il contrario principio dell’affidamento, che meglio consente di definire la sfera di responsabilità dei singoli partecipanti al processo lavorativo, da circoscrivere nell’ambito dello specifico settore coperto e garantito dalle prestazioni di ciascuno. In forza di esso, ciascun partecipe, risponde solo del corretto adempimento dei doveri di diligenza e di perizia inerenti ai compiti Tale indirizzo è stato accolto da una parte della giurisprudenza: cfr Cass. Pen. 20. 3. 1991: “ per il principio di affidamento ogni consociato può confidare che ciascuno si comporti adottando le regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente proprio dell’attività che di volta in volta viene in questione e in virtù del quale ognuno deve evitare unicamente i pericoli scaturenti dalla propria condotta…. Se più sono i titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero, destinatario dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, con la conseguenza che, se è possibile che determinati interventi siano eseguiti da uno dei garanti, è però doveroso per l’altro o per gli altri garanti, dai quali ci si aspetta la stessa condotta, accertarsi che il primo sia effettivamente ed adeguatamente intervenuto”. Il Pretore di Genova, con sentenza del 13 novembre del 1991, ha affermato che: “Nell’attività medica di équipe, propria della sala chirurgica, dove la divisione dei compiti e l’autonomia dei ruoli comportano l’obbligo della non ingerenza nella sfera altrui, vige il principio dell’affidamento, secondo cui ciascun medico per potersi concentrare al meglio nelle operazioni di sua stretta competenza, deve poter confidare nel corretto operato dei suoi collaboratori e se ciò avvenga, ognuno di essi risponderà solo dell’adempimento dei suoi compiti ed entro questa sfera sarà limitata la sua responsabilità. Ma il principio dell’affidamento viene meno ogni volta che un componente del gruppo percepisca che un altro collaboratore tenga un comportamento non conforme a diligenza o stia commettendo errori che possano compromettere il buon esito finale; allora subentra un diverso obbligo, quello di richiamare l’attenzione del collega affinché si corregga e se questi persista nella sua condotta, anche l’obbligo di intervenire, ove ciò sia necessario e possibile, come nel caso era, anche in via di supplenza”. 15 64 che gli sono affidati, senza essere gravato, per principio, dal defatigante obbligo di sorvegliare il comportamento altrui, con la positiva conseguenza che in tal modo ciascun membro del gruppo è lasciato libero, nell’interesse del paziente, di adempiere in modo qualificante e responsabile alle proprie mansioni. La dottrina in esame completa il proprio assunto rilevando che, peraltro, un obbligo di controllo e di vigilanza può ben insorgere, e ciò avviene o in relazione a circostanze concrete che lascino temere contegni altrui non conformi a perizia e diligenza, così in pratica annullando l’aspettativa di un comportamento corretto, o in relazione ai compiti specifici spettanti a ciascun membro del gruppo, tra cui, potrebbero esservi proprio compiti di sorveglianza e controllo sull’operato altrui. Si pensi, ad esempio, al capo équipe, che per la sua posizione giuridica di supremazia gerarchica, è chiamato a dirigere e coordinare le prestazioni dei collaboratori, ed ha un obbligo di controllo e di sorveglianza che gli impedisce di fare affidamento sul fatto che i propri collaboratori si comporteranno diligentemente. Qualora, invece, tale posizione giuridica di supremazia gerarchica, non sia presente e nell’ambito dell’équipe si trovino ad operare medici, con posizione paritaria, ma con competenze diverse, ciascun soggetto, sarà autorizzato ad attendersi che gli altri membri dell’équipe svolgano correttamente le attività di loro competenza e sarà, pertanto, esonerato da qualsivoglia dovere di controllo sulla correttezza delle loro prestazioni. Tale esonero non opererà, però, incondizionatamente, ma soltanto nell’ipotesi in cui non si manifestino nel caso concreto evidenti segni di 65 inadempimento da parte degli altri componenti, tali da compromettere l’aspettativa di un comportamento conforme alle regole di diligenza. In quest’ultimo caso, il singolo partecipante, percependo tali mancanze, dovrà adottare il comportamento che la situazione concreta suggerisce per ovviare agli errori commessi dal collega16. Non resterebbe che esaminare casi pratici, per verificare come i giudici, sia di legittimità che di merito, abbiano risolto il problema della ripartizione della responsabilità penale in una équipe chirurgica. Tuttavia, poiché quasi in ogni caso di intervento “mal riuscito” per colpa dei sanitari che hanno preso parte all’operazione, gli stessi, si trovano ad essere imputati, a titolo di cooperazione colposa, per omicidio colposo o lesioni personali colpose in danno del paziente, converrà terminare l’analisi della cooperazione colposa, prima di analizzare che tipo di relazione intercorra tra la stessa cooperazione ed il principio di affidamento. Si rinvia pertanto l’esame dei casi pratici ad altra parte dell’opera. 16 La crescente esigenza della specializzazione rivolta a potenziare l’efficacia del trattamento sanitario comporta che il paziente venga seguito da più sanitari, talora in posizione paritaria con differenziazione di competenze, altre volte inseriti in una organizzazione gerarchica. La contemporanea presenza di più sanitari operanti in un unico contesto spazio – temporale, pone il problema di stabilire se ed in quali condizioni il singolo operatore, quale partecipe dell’équipe, risponda dei comportamenti colposi riferibili agli altri componenti e fine a che punto, si estenda il proprio dovere di prudenza diligenza e perizia con riferimento alla altrui attività, anche di diversa specialità. L’obbligo di concentrazione di ognuno dei componenti l’équipe fa sì che ciascun specialista risponda delle conseguenze del proprio operato e non sia tenuto nel contempo a vigilare l’operato altrui con assiduità e con atteggiamento di sfiducia. Quindi, in presenza di un rapporto gerarchico il capo équipe, oltre alla responsabilità specifica conseguente alla sua specializzazione, avrà anche quella di vigilare e controllare, con l’intensità che le condizioni oggettive e soggettive richiedono, l’operato degli altri sanitari che con lui collaborano, se uno di questi incorre in colpa che, con la necessaria diligenza, poteva essere da lui prevenuta ed evitata, entrambi, pur a diverso titolo, ne risponderanno. Qualora invece non sussista un rapporto di gerarchia è giustificato il ricorso al principio dell’affidamento sulla professionalità degli altri operatori per cui la responsabilità rimane circoscritta a chi è incorso in colpa. 66 PARAGRAFO VI: LA VIOLAZIONE DELLA REGOLA CAUTELARE QUALE IMPRESCINDIBILE CRITERIO DI TIPIZZAZIONE DELLA CONDOTTA COLPOSA DI PARTECIPAZIONE Nel primo capitolo, si è cercato di chiarire che, per giurisprudenza costante di legittimità e di merito, e secondo la dottrina prevalente, ogni singolo contributo di partecipazione, nella cooperazione colposa, per essere penalmente rilevante, deve essere necessariamente causale rispetto all’evento. Si pone ora il problema di stabilire se la causalità condizionale, sia l’unico criterio di tipizzazione della condotta di partecipazione, oppure se oltre a ciò, sia necessario che ogni singola condotta di partecipazione si ponga in contrasto con una regola cautelare volta ad evitare eventi del tipo di quello che si è verificato nel caso concreto. Dall’esame di casi configuranti ipotesi di cooperazione colposa17, è stato constato, da chi scrive, che sempre, i giudici, sia di legittimità che di merito, hanno ritenuto in colpa l’imputato, solo dopo aver accertato, che questi avesse, sul piano oggettivo, posto in essere un comportamento non solo condicio sine qua non dell’evento, ma anche in contrasto con una regola cautelare, volta a prevenire proprio l’evento in concreto verificatosi. Cfr: Cass. Sez. IV, 09.04.2004 n. 16860 pres. D’Urso G., Rel. Visconti S., Verardi ed altro; Cass. Sez. IV, 18.05.2005 n. 18548 pres. Fattori P.; Cass. peb. Sez. IV, 13.03.1997 n. 2516 pres. Scorzelli ; Cass. Sez. IV, 07.06.2004 n. 25311 pres. Coco GS ; Cass. Peb. Sez. IV, 26.05.2004 n. 24051, pres. Coco GS ; Cass. Pen. Sez. IV, 19.05.2000, n. 5820 pres. Frangini B. ; Cass. Sez. IV, 01.12.2004 n. 46515, pres. D’Urso ; Cass. Pen. Sez. IV, 19.02.2004 n. 7202, pres. Battisti ; Cass. Pen., sez. I, 22.03.2005 n. 11509, pres. Fabbri; Cass. pen. Sez. IV, 18.05.2005, n. 18568, pres. Battisti ; Cass. Pen. Sez. IV, 07.04.2004 n. 25311, pres. Coco. 17 67 Così, ad esempio, si sono orientati i giudici di merito, in un caso nel quale sono stati ritenuti colpevoli del delitto previsto degli artt. 430 – 449 c.p., e in cooperazione tra loro ex art. 113 c.p., un pastore itinerante e l’ente ferroviario. Il primo era in colpa per aver allestito una recinzione palesemente inidonea a contenere gli animali, pur non conoscendo bene i luoghi, fatto questo che avrebbe dovuto indurlo ad ancor maggiore cautela e perizia. Il secondo, era in colpa per non aver provveduto, come pure gli imponevano i regolamenti di regime, ad assicurare una ininterrotta recinzione della propria sede. Nel caso di specie, il pastore aveva ricoverato un gregge di oltre trecento pecore nei pressi della ferrovia. La recinzione, costituita da una corda sorretta da sottili paletti di legno, era stata rimossa dagli ovini che, percorse alcune centinaia di metri, avendo trovato un varco, avevano invaso il binario. Sopraggiungeva in quel frangente un treno passeggeri, la cui motrice era deragliata e nell’occorso, avevano riportato lievi lesioni personali una passeggera e due macchinisti. In un’altra sentenza, sia i giudici di merito, che quelli di legittimità, hanno ritenuto responsabili a titolo di cooperazione colposa nel delitto di omicidio colposo, due collaboratrici scolastiche, che in collaborazione fra loro, al fine di ripulire lo sgabuzzino adiacente all’archivio della scuola, dal contenuto cartaceo destinato ormai al macero, avevano ideato e poi attuato lo smaltimento dei rifiuti cartacei, mediante “lancio dalla finestra”, prescindendo da qualsiasi cautela di lancio. Sicchè, un faldone colmo di riviste, lanciato nel cortile della scuola, dalla finestra del bagno, sita al secondo piano, a circa 8.80 m di altezza, aveva colpito alla testa un uomo, che ignaro del pericolo passava di li sotto. Questi, a seguito del colpo era 68 deceduto. I giudici ritennero innegabile la violazione da parte di entrambe le imputate di una regola di condotta a contenuto cautelare, regola che doveva essere ravvisata nel dovere, di entrambe le collaboratrici, di attendere che pervenisse un ordine o un segnale di inizio delle operazioni di lancio, segno evidente che il cortile sottostante era stato liberato e che il personale della scuola, che potesse transitarvi, era stato avvisato, o quanto meno nel dovere di entrambe, di sporgersi dalla finestra quel tanto che consentisse di accertare che nel cortile non vi fossero più macchine in sosta e che, nel momento del lancio non transitasse nessuno. La Corte di Cassazione ha ritenuto che se la condotta materiale del lancio, poteva essere indifferentemente dell’una o dell’altra, l’osservanza della regola di condotta a contenuto cautelare, perché il lancio venisse effettuato senza pericolo di danno per le persone o per le cose, spettava ad entrambe e di fatto entrambe l’avevano violata. In un'altra sentenza, i giudici di merito, non hanno ravvisato cooperazione colposa nel delitto di cui all’art. 449 c.p. tra l’ingegnere progettista delle opere strutturali in cemento armato e direttore dei lavori ed il titolare dell’impresa costruttrice, per il crollo improvviso di parte di un muro di contenimento con ribaltamento verso il cortile di una scuola. I giudici, infatti, hanno escluso che la condotta dell’ingegnere potesse qualificarsi come colposa, non avendo questi violato alcuna regola cautelare. L’evento doveva essere addebitato al solo costruttore, il quale era in colpa per non aver informato l’ingegnere circa i tempi di costruzione del muro mettendolo nella impossibilità di controllarne l’esecuzione; per non aver rispettato le previsioni progettuali dell’ingegnere, 69 non solo costruendo un muro elevato e di spessore inferiore, ma anche apponendo un’armatura metallica contenente una percentuale di ferro pari solo al 40% di quello indicato dal tecnico e non realizzando le opere di drenaggio pure stabilite da quest’ultimo. In un altro caso, sono stati ritenuti responsabili, a titolo di cooperazione colposa del delitto di cui all’art. 589.3º comma c.p., il titolare e legale rappresentante di una ditta costruttrice di impianti di g.p.l., il direttore dei lavori di costruzione del fabbricato, il caporeparto dei VV.FF. ed il responsabile dell’ufficio prevenzione incendi. Nella specie, al termine di un’operazione di riempimento di g.p.l. del serbatoio condominiale di un immobile, si verificò un’esplosione, che causò la morte di due bambini ed il ferimento, anche con lesioni gravissime di altre dodici persone che frequentavano l’asilo sito al piano terra dell’edificio in conseguenza del crollo di una parete di un’aula che confinava con il vano scale, nonché la morte dell’amministratore del condominio scaraventato a terra dall’onda d’urto. I giudici sia di merito che di legittimità, hanno ravvisato la colpa del titolare e legale rappresentante della ditta di impianti, per avere realizzato l’impianto di g.p.l. non a regola d’arte; la condotta del direttore dei lavori del fabbricato, per avere omesso di adempiere agli obblighi a lui inerenti per tale qualità, riguardanti l’impianto di g.p.l.; la condotta del capo reparto dei vigili del fuoco, per gravi omissioni di controllo da parte di persona svolgente una funzione pubblica e preposta alla verifica dell’applicazione delle norme di prevenzione. 70 I giudici di merito, in un’altra sentenza, hanno ritenuto responsabili di omicidio colposo, posto in essere a titolo di cooperazione tra loro, il responsabile dell’ufficio tecnico comunale, ed i progettisti e direttori dei lavori relativi alla costruzione di un edificio scolastico nel cui giardino si trovava un pozzo artesiano, lasciato incustodito e privo di adeguate misure di protezione, profondo circa m. 120 ed avente un diametro di circa 50 cm. A causa dell’assenza di una adeguata e solida copertura, un minore, era precipitato all’interno del pozzo, ed era morto a causa della caduta. I giudici ritennero che gli imputati fossero ciascuno in colpa, per non aver curato la copertura dell’imboccatura del pozzo, rimasta precariamente ed inidoneamente chiusa. Sarebbe stato, invece, necessario adottare un idoneo sistema di chiusura del pozzo, tale da garantire l’incolumità degli operai sul cantiere e quella del pubblico al momento della consegna dell’opera, così come prescriveva la legge all’art. 10 del d.p.r. 547/94, norma questa che era stata da tutti gli imputati disattesa. Dall’esame dei casi sopra riportati, si evince che per avere cooperazione colposa, la condotta di ciascun partecipe, oltre ad essere necessariamente causale rispetto all’evento, e cioè oltre ad essere condicio sine qua non dell’evento, deve anche porsi in contrasto con una regola obiettiva di diligenza, che sia volta a prevenire eventi proprio del tipo di quello che si è verificato. I requisiti di tipizzazione della condotta di partecipazione, sul piano oggettivo, pertanto, sono due: 71 1. la causalità condizionale del contributo del partecipe rispetto all’evento; 2. la violazione di una regola a contenuto cautelare, volta a prevenire eventi del tipo di quello verificatosi. Che la violazione della regola di diligenza, sia un imprescindibile criterio di tipizzazione della condotta colposa di partecipazione, è condiviso anche dalla dottrina più recente18, che puntualizza che poiché la colpa si risolve in un giudizio normativo, solo la contrarietà alla regola di diligenza permette di qualificare come colposo l’atto di partecipazione. La condotta di ciascun concorrente, pertanto, per risultare rilevante, ai sensi dell’art. 113 c.p., deve caratterizzarsi per la violazione di una regola cautelare: non risulta possibile qualificare un comportamento come colposo in mancanza di un tale requisito. Dalla dottrina in esame, è stato giustamente sottolineato che, a differenza delle fattispecie concorsuali dolose, l’identificazione della condotta tipica non è legata al solo impiego del criterio causale, ma si determina anche in base alla inosservanza della specifica regola cautelare: condotta di partecipazione, rilevante ai sensi della fattispecie plurisoggettiva eventuale colposa, che nasce dall’innesto dell’art. 113 c.p., con le singole figure colpose di parte speciale, è quella che, ponendosi in un rapporto di condizionamento rispetto all’evento (o alla condotta realizzata da altro concorrente), Cfr: ALBEGGIANI, I reati di agevolazione colposa, 1984, cit. pag.179; ANGIONI, il concorso colposo e la riforma del diritto penale, in Studi Delitala I, 1984, cit. pag. 67; COGNETTA, la cooperazione nel delitto colposo, RIDPP, 1980, cit. pag. 87; FIANDACA – MUSCO, diritto penale, parte generale, cit. pag. 518; GRASSO, in Comm. Sist. II, art. 113, cit. pag. 197; SEVERINO DI BENEDETTO, la cooperazione nel delitto colposo, 1988, cit. pag. 21; ALDROVANDI, Concorso, cit. pag. 59. 18 72 rappresenti, come si è già rilevato, la violazione di una regola di condotta a contenuto cautelare. PARAGRAFO VII: PRIMA CRITICA ALLA TEORIA DI RISICATO Le conclusioni fino ad ora raggiunte, portano a criticare quella parte della dottrina19 che ritiene che la condotta di cooperazione può consistere in un’azione atipica, perché ancora non direttamente colposa rispetto all’evento finale, ma semplice condicio sine qua non dell’altrui azione colposa, anche nei delitti di evento causalmente orientati. In altri termini, secondo la dottrina in esame, sarebbero configurabili, anche in riferimento ai delitti colposi di evento a forma libera, casi di partecipazione, morale o materiale, all’altrui fatto colposo, caratterizzati dalla assoluta atipicità originaria della condotta di partecipazione. In tali ipotesi, un fatto che di per sé sarebbe irrilevante in chiave monosoggettiva perché penalmente “neutro”, diverrebbe rilevante in una manifestazione plurisoggettiva proprio in quanto strettamente connesso con l’altrui condotta tipica. Integrerebbe, ad esempio, gli estremi di una partecipazione morale al fatto colposo altrui, la condotta di Tizio, che viaggia sull’autovettura di Caio e che istiga Caio, che è al volante, ad accelerare. A seguito dell’eccessiva velocità, viene cagionato un incidente mortale. Ciò che, secondo questa dottrina, non rende automaticamente tipica 19 Cfr: RISICATO, il concorso colposo tra vecchie e nuove incertezze, cit. pag.145 ss. 73 la condotta di Tizio è proprio la pericolosità ancora indeterminata del semplice invito ad aumentare la velocità, dal quale il passeggero avrebbe sicuramente fatto bene ad astenersi, ma che tuttavia non si identifica con la violazione della regola cautelare rilevante ex art. 43 c.p. e consistente nello spingere l’autovettura oltre il limite consentito. Anche in questo caso, si afferma, è l’attualità di interazione consapevole tra i concorrenti a porre la condotta dell’istigatore in connessione di rischio rispetto all’evento morte materialmente cagionato dal conducente dell’autovettura: il contesto di cooperazione è tale che la condotta dell’uno, naturalisticamente distinta da quella dell’altro, finisce per compenetrarsi con essa, assumendone quella diretta valenza colposa di cui sarebbe altrimenti priva. Partendo da tali premesse, la dottrina in esame, giunge a dire che all’art. 113 c.p. deve essere riconosciuta una funzione di incriminazione ex novo, anche nei delitti colposi di evento causalmente orientati. Ammettendo, infatti, che la condotta di cooperazione possa essere atipica anche nei delitti di evento a forma libera, qualora si riconosca all’art. 113 una funzione di mera disciplina, e non essendo il contributo di partecipazione, in quanto atipico, punibile sulla base della norma incriminatrice di parte speciale, se ne dovrebbe concludere che non è punibile colui che ha fornito il contributo atipico, proprio perché manca una norma che permetta di incriminarlo. Da qui, quindi, l’esigenza di riconoscere all’art. 113 , nei delitti causalmente orientati, non solo una funzione di disciplina (e ciò quando il contributo del partecipe sia causale e colposo rispetto all’evento non voluto), ma anche una funzione di incriminazione, nei casi in cui il contributo del 74 partecipe, pur essendo causale rispetto all’evento, non sia autonomamente colposo, in quanto, sul piano oggettivo, non si ponga in contrasto con alcuna regola cautelare. Pertanto, sempre secondo la dottrina in esame e ritornando all’esempio sopra formulato, nell’ipotetica assenza di tale disposizione con funzione di incriminazione, ci si dovrebbe rassegnare a considerare (tipicamente colposo) comportamento del ai sensi guidatore, dell’art. il quale 43 c.p. solo, esclusivamente materialmente il ed autoresponsabilmente, contravviene al limite di velocità pigiando il piede sul pedale acceleratore. Della dottrina appena esaminata, chi scrive, non condivide le premesse stesse da cui muove, e cioè, che il contributo di cooperazione, nei delitti causalmente orientati possa essere causale e non colposo. Il presente, modesto lavoro, infatti, è stato finora proteso a dimostrare che, nei delitti di evento a forma libera, due sono, sul piano oggettivo, i criteri di tipizzazione della condotta di partecipazione, e cioè la causalità condizionale rispetto all’evento e la violazione della regola cautelare, nel cui raggio di prevenzione, rientrino eventi del tipo di quello che in concreto si è verificato. Se ogni singolo contributo di cooperazione, pertanto, nei delitti di evento causalmente orientati, per essere penalmente rilevante, oltre ad essere causale condizionale, si deve anche porre in contrasto con una regola di condotta, sarà sempre tipico e quindi incriminabile sulla base della norma incriminatrice di parte speciale. Ne consegue che, in questi casi, l’art. 113 c.p. è chiamato a svolgere non una funzione di incriminazione ex novo, essendo del tutto inutile, ma una funzione di mera disciplina, a differenza di quanto 75 avviene nei delitti colposi di evento a forma vincolata, dove, per la configurabilità di condotte di partecipazione atipiche, pacificamente, in dottrina, all’art. 113 c.p. viene riconosciuta una funzione di incriminazione, in assenza della quale il contributo atipico del partecipe resterebbe impunito. Qualche ultima parola merita di essere spesa a proposito dell’esempio dell’istigazione ad aumentare i limiti di velocità, usato, dalla dottrina esaminata, a sostegno della tesi che si è appena criticata. Quello che, chi scrive, non condivide è il ritenere Tizio, che istiga Caio ad aumentare la velocità della macchina, non autonomamente in colpa per non aver violato, con la propria condotta, alcuna norma di prudenza. Vero è che Tizio, non viola alcuna regola cautelare scritta, e quindi da parte sua non c’è una colpa specifica, ma è anche vero che ex art. 43 c.p., la colpa si configura non soltanto quando vengono violate leggi, regolamenti, ordini o discipline, ma anche quando l’evento non voluto si verifichi a causa di negligenza, imprudenza o imperizia. Pertanto è la violazione di una regola cautelare non scritta, a dar luogo ad una colpa generica. Nel caso in esame, Tizio, esorta insistentemente il conducente dell’auto sulla quale viaggia, ad accelerare, tanto da violare i limiti di velocità consentiti, e quindi a trasgredire una regola cautelare scritta. Può forse dirsi che l’esortare qualcuno a contravvenire ad una norma cautelare prevista dal codice della strada e volta a prevenire incidenti del tipo di quello che in concreto si è verificato, sia un comportamento conforme a diligenza e prudenza? Evidentemente no. Tizio viola una norma non scritta di diligenza e di prudenza che gli imponeva, in quelle circostanze, di astenersi dall’indurre il 76 conducente del veicolo a tenere un comportamento altamente pericoloso, non solo per l’incolumità fisica sua e del conducente stesso, ma anche per la vita e la sicurezza di terzi, che in quel momento partecipavano al traffico stradale, e ciò per il futile motivo che aveva fretta. In definitiva, il contributo di Tizio è causale e colposo rispetto all’evento, così come quello di Caio, tuttavia per Tizio si configura una colpa generica avendo violato una misura cautelare non scritta, per Caio invece una colpa specifica avendo violato una norma cautelare scritta. Ciascuna condotta di partecipazione pertanto è tipica, essendo l’omicidio colposo un delitto di evento a forma libera, quindi è incriminabile sulla base della norma incriminatrice di parte speciale, per cui l’art. 113 non svolge, in questo caso, una funzione di incriminazione ma di mera disciplina. Tuttavia, resta aperto un problema, la cui soluzione qui si anticipa, ma del quale si parlerà più ampiamente dopo aver posto in relazione casi di cooperazione colposa con il principio di affidamento, e cioè può Tizio invocare a sua discolpa il principio di affidamento nei confronti di Caio? La risposta pare scontata alla luce del seguente principio, che opera come limite al principio di affidamento, vale a dire: il principio della fiducia non può essere invocato da chi, con una sua condotta già autonomamente qualificabile come negligente, imprudente o imperita, ha provocato egli stesso una reazione scorretta da parte di un terzo. 77 CAPITOLO III L’ELEMENTO SOGGETTIVO NELLA COOPERAZIONE COLPOSA PREMESSA Nel capitolo secondo, abbiamo visto come, ogni singolo partecipe ad un delitto colposo, per essere in colpa debba, innanzitutto, violare una regola obbiettiva di diligenza. Tuttavia, per salvaguardare l’autonomia della colpa, quale reale forma di colpevolezza, non basta la oggettiva inosservanza della regola cautelare di condotta. Ma occorre che essa sia all’agente anche soggettivamente imputabile, occorre cioè l’elemento “personalizzante” la responsabilità colposa: la c.d. “misura soggettiva” della colpa1. Il requisito dell’attribuibilità dell’inosservanza all’agente, ha la funzione di collegare l’inosservanza stessa della regola cautelare al soggetto inosservante, ossia di riportare la condotta obiettivamente incauta alla responsabilità personale e, così, delimitarla rispetto alla responsabilità oggettiva. Perché, quindi, la colpa sia imputabile al soggetto, è necessario addebitargli la violazione di regole cautelari di condotta, in che si individua un fatto di reato, che egli poteva evitare mediante l’osservanza, esigibile, di tali regole. 1 In tal senso MANTOVANI, diritto penale parte generale, cit. pag. 345 ss. 78 Tuttavia, oltre alla colpa, è necessario chiedersi se, dal punto di vista soggettivo, la fattispecie concorsuale descritta dall’art. 113 c.p. richieda un quid pluris costituito dalla consapevolezza di cooperare con altri. Questo problema è inoltre strettamente connesso ad un altro problema, ovvero alla distinzione tra concorso colposo e concorso di cause colpose indipendenti ex art. 41.3º comma e 43 c.p. caratterizzato dal convergere autonomo di più condotte colpose, tutte dotate di efficacia eziologia rispetto all’evento lesivo. 79 PARAGRAFO I: PRIMO PROBLEMA: IL LEGAME PSICOLOGICO TRA LE CONDOTTE DEI CONCORRENTI Al primo problema, e cioè se la consapevolezza di cooperare con altri, pur senza un preventivo accordo tra i partecipi, sia o meno, elemento costitutivo della cooperazione colposa, sono state date tre soluzioni: 1. secondo l’impostazione tradizionale2 la cooperazione nel delitto colposo si caratterizzerebbe per un legame psicologico tra le condotte dei concorrenti: ciascuno dei compartecipi deve essere consapevole della convergenza della propria condotta con la condotta altrui, senza però che tale consapevolezza investa l’evento richiesto per l’esistenza del reato nelle fattispecie causalmente orientate. Per quanto riguarda poi l’oggetto della consapevolezza di cooperare con altri, due sono essenzialmente gli orientamenti formatisi al riguardo: a) la tesi più rigorosa3 ritiene che a qualificare la cooperazione colposa ex. art. 113 c.p. sia necessaria la consapevolezza del carattere colposo dell’altrui condotta. Il partecipe, cioè, dev’essere quanto meno cosciente di aderire all’altrui condotta negligente, imprudente o imperita. Il legame psichico tra le condotte non si esaurirebbe nella mera consapevolezza di cooperare con altri, ma richiederebbe anche la consapevolezza ANTOLISEI, Diritto penale parte generale, pag. 528; BETTIOL, Sul concorso di più persone nei delitti colposi, in Scritti giuridici, I, 1966, cit. pag. 19; FIORE, diritto penale parte generale, cit. pag. 102; LATAGLIATA, Cooperazione nel delitto colposo, Edx, X, 1962, cit. pag. 615; SPASARI, Profili di teoria generale del reato in relazione al concorso di persone nel reato colposo, 1956, cit. pag. 73. 3 FIORE, ult. Cit. II, cit. pag. 103; LATAGLIATA, ult. Cit. pag. 615; SPASARI, ult. Cit. pag. 80 2 80 del carattere colposo dell’altrui condotta alla quale si aderisce. Un tale requisito deve però ritenersi estraneo alla cooperazione colposa: se il compartecipe si rendesse conto del carattere imprudente dell’altrui condotta, nel senso che sia prevedibile che da essa derivino eventi illeciti, e fosse consapevole di cooperare con una condotta così caratterizzata, si rappresenterebbe la possibilità di realizzazione dell’evento, grazie anche al proprio contributo, e verserebbe quindi in una situazione di dolo eventuale, o quanto meno di colpa cosciente 4. Inoltre questa impostazione finisce per introdurre un requisito che non è richiesto da nessuna norma5. b) Secondo l’impostazione prevalente6 è sufficiente, ai fini dell’applicabilità dell’art. 113 c.p., la semplice consapevolezza, anche unilaterale di cooperare all’altrui fatto materiale, indipendentemente dalla specifica conoscenza del carattere colposo dell’altrui condotta. A qualificare la cooperazione colposa basterebbe, in questa prospettiva, la consapevolezza, in capo al partecipe, di tutti quegli elementi fattuali (inerenti alla condotta ed al contesto in cui si svolge l’azione) che così GRASSO, in Comm. Sist. II, art. 113, cit. apg. 199; ANGIONI, il concorso colposo e la riforma del diritto penale, cit. pag. 47; FIANDACA – MUSCO, diritto penale parte generale, cit. pag. 517 5 così GRASSO, IN Comm. Sist. II, art. 113 cit. pag. 199 6 BETTIOL, sul concorso di più persone nei delitti colposi, scritti giuridici I, 1966 cit. pag. 18 “il concorso colposo si caratterizza per l’esistenza di un legame psicologico tra i concorrenti, ciascuno dei quali, per essere tale, deve avere la coscienza dia cce3dere ad un’azione altrui, senza però che tale consapevolezza investa la realizzazione dell’intero fatto criminoso, e, in particolare (nei reati casualmente orientati), l’evento;ANTOLISEI, diritto penale parte generale, cit. pag. 537; FIANDACA – MSUCO, Diritto penale parte generale, cit. pag. 517; RISICATO, il concorso colposo tra vecchie e nuove incertezze, cit. pag. 162 ss; ROMANO GRASSO, comm. Sist. Cit. art. 113 pag. 183. 4 81 costituiscono il substrato materiale della qualifica di negligenza, imprudenza o imperizia7. 2. La costruzione tradizionale è stata sottoposta a critica da parte di chi 8, sottolineando il carattere normativo dell’illecito colposo, nel quale è per lo più assente un coefficiente psicologico naturalistico, e che si caratterizza per la violazione di una regola cautelare obiettiva, ha rilevato come il dato psicologico di carattere naturalistico, costituito dalla rappresentazione dell’altrui condotta concorrente, non possa valere di per sé a fondare la responsabilità per un illecito colposo, sia pure a titolo di concorso, in quanto esso, in se e per sé, nulla dice ancora sul motivo per il quale il partecipe risponde a titolo di colpa del fatto realizzato da altri. Questa dottrina è giunta ad individuare il contrassegno tipico della cooperazione colposa, nella prevedibilità della condotta altrui concorrente con la propria. 3. La dottrina più recente ha precisato, condivisibilmente, come la rappresentazione dell’altrui condotta concorrente, sia un requisito che non si sostituisce, ma che, al contrario, viene ad aggiungersi al dato rappresentato dalla violazione di una regola cautelare obiettiva: in altri termini, la responsabilità a titolo di cooperazione colposa implica, per ciascun concorrente che questi, oltre ad essersi rappresentato l’altrui condotta, abbia posto in essere un comportamento contrario ad una Anche la dottrina più recente ha opportunamente puntualizzato l’oggetto di tale legame psicologico che deve investire il sostrato di fatto che rende possibile qualificare come colposa la condotta del concorrente. Cfr. ALDROVANDI, concorso nel reato colposo e diritto penale dell’impresa, cit. pag. 92; RISICATO, concorso.., cit. pag. 158 8 SEVERINO DI BENEDETTO, la cooperazione nel delitto colposo cit. pag. 103; analogamente COGNETTA, la cooperazione nel delitto colposo, cit. pag. 87 7 82 regola cautelare, sicchè occorrerà accertare, in base ai consueti principi in materia di colpa, la rappresentabilità ed evitabilità del fatto di reato ed in particolare, per i reati causalmente orientati, dell’evento. Richiamare la dimensione normativa della colpa anche in ambito concorsuale, secondo la dottrina in esame, è quanto mai opportuno, tuttavia una simile circostanza non può portare a rinunciare alla necessità di un effettivo legame psicologico tra le condotte dei concorrenti nei termini un cui ne parla l’impostazione tradizionale. Invero, la consapevolezza di cooperare con altri, è un requisito soggettivo specifico della compartecipazione criminosa che si pone su un piano differente ed autonomo rispetto a quello della ricostruzione degli elementi normativi che stanno alla base del rimprovero di colpa. Pretendere di rinunciare a tale contrassegno psicologico, sottolineando la dimensione normativa della colpa, è, quindi, il risultato della sovrapposizione di due diversi piani concettuali: quello dei requisiti di struttura del concorso criminoso e quello dei requisiti di struttura della responsabilità colposa dei concorrenti. La necessità di un tale requisito, deve ammettersi per diverse ragioni: 1. esso risulta implicitamente presente nelle situazioni di cui all’art. 113, comma2º dove è previsto un aggravamento di pena: la determinazione di altri alla commissione di un reato presuppone evidentemente la rappresentazione dell’agire altrui concorrente con il proprio9. 9 In tal senso ROMANO GRASSO, Comm. Sist. Art. 113 c.p. cit. pag. 183 83 2. E’ solo un tale requisito a giustificare l’applicazione del regime concorsuale a coloro che abbiano contribuito colposamente alla realizzazione di un reato: per esempio, l’estensione a tutti i concorrenti delle cause di giustificazione (ex art. 119 c.p.) si rivelerebbe del tutto illogica e priva di senso se a fondare la cooperazione colposa fosse sufficiente una mera convergenza di condotte diverse al di fuori di qualunque legame subiettivo10. 3. Dal punto di vista di pericolosità oggettiva e colpevolezza, questa situazione può giustificare una considerazione normativa ad hoc11. La giurisprudenza si mantiene fedele all’impostazione tradizionale, affermando che “ciò che vale a caratterizzare la cooperazione colposa è la consapevolezza di partecipare all’azione od all’omissione altrui12”. In tal senso ROMANO GRASSO, ult. Cit. La consapevolezza di concorrere con altri, proprio per la aumentata pericolosità che caratterizza il consapevole convergere di più condotte, determina un obbligo cautelare aggiuntivo che si traduce nel comune dovere di coordinare la propria attività pericolosa con quella altrui o di evitare di potenziare, influenzandola, consapevolmente con il proprio comportamento imprudente, l’imprudenza altrui. Si pensi, per esemplificare, alla gara di corsa non autorizzata ed alla maggiore pericolosità di tale ipotesi, che non va ricollegata solo alla circostanza che ciascun concorrente già da solo viola una regola cautelare, ma che deriva piuttosto dal fatto che si è in presenza di una gara dove ogni aumento di velocità di un concorrente comporta la violazione di una regola cautelare aggiuntiva (specifica della cooperazione colposa) in quanto spinge anche gli altri ad aumentare la velocità ed a comportarsi, quindi, in modo ancora più imprudente”. Così ALBEGGIANI, la cooperazione colposa, in Studium iuris 2000, cit. pag. 520. 12 Così Cass. IV 5.1.1996, Paternità, MCP 203521; Cass. IV 15.11.1986, Fadda, G PEN 1988, II, 44; conf. Cass. IV 20.2.1990, Zappulla, CP 1991, 1771; App. Bari 7.2.1987, De Nicolò e altro, R PEN 1988, 487 ss; Cass IV 14.2.1972, Rizzuto, FI 1973, II, 216 ss., ove si perviene a concludere che la cooperazione si caratterizza per la presenza di un fascio di volontà insieme operanti, oppure la consapevole confluenza della volontà dei soggetti all’interno della condotta dalla quale deriva l’evento non voluto (Cass. IV 23.11.1987, Mazzetti, CP 1989, 581; conf. Cass. IV 31.5.1983, Lucani, CP 1984, 277; Cass. I 18.3.1982, Castellani, CP 1984, 1773. da ultimo Cass., sez. IV 9.7.2004 “ la cooperazione nel delitto colposo di cui all’art. 113 c.p. si verifica quando più persone pongono in essere una autonoma condotta nella reciproca consapevolezza di contribuire all’azione od omissione altrui che sfocia nella produzione dell’evento non voluto (affermando il principio la corte ha precisato, nella fattispecie relativa alla gara di velocità posta in essere tra due automobilisti, che non ha alcun rilievo l’accertamento della circostanza relativa a un eventuale accordo preventivo tra i soggetti impegnati nelle condotte criminose). 10 11 84 Naturalmente, “la cooperazione riguarda soltanto le condotte esteriori e non investe in alcun modo l’evento, giacchè l’essenza di questa figura giuridica è proprio il risultato non voluto13”. In definitiva, la consapevolezza del convergere della propria con l’altrui condotta, sembra essere un requisito soggettivo minimo che si rivela comune alle forme concorsuali tanto dolose che colpose14. Come nel concorso doloso, inoltre, la consapevolezza di cooperare con altri può sussistere unilateralmente in uno dei concorrenti, al quale soltanto sarà applicato il regime concorsuale15. La sussistenza di una situazione di cooperazione colposa non è esclusa per il fatto che un concorrente non sia punibile per mancanza di imputabilità o di colpevolezza. In una tale ipotesi devono trovare applicazione i principi desumibili dagli art. 112, ult. co. e 119, co. 1ºc.p.. Cass. VI 29.1.1977, Renzi ed altri, RP 1977, 492 esatt.ALBEGGIANI, reati di agevolazione colposa, cit. pag. 198ss. 15 Così come quello doloso, anche il concorso colposo può essere unilaterale, quando uno soltanto dei concorrenti sa di cooperare con altri, in tal caso il regime concorsuale andrà applicato solamente a chi sappia di cooperare, mentre per gli altri soggetti rimane salva la possibilità di una responsabilità a titolo monosoggettivo, qualora la loro condotta risulti tipica ai sensi della fattispecie incriminatrice. Così MANTOVANI, diritto penale, parte generale cit. pag. 536. 13 14 85 PARAGRAFO II: SECONDO PROBLEMA: COOPERAZIONE COLPOSA E CONCORSO DI CAUSE COLPOSE INDIPENDENTI Per quanto riguarda la distinzione tra concorso colposo e concorso di cause colpose indipendenti, illustre dottrina16, sottolinea come tale problema attenga principalmente alle fattispecie causalmente orientate, mentre per quelle a forma vincolata esso di solito non si pone, giacchè in tal caso si è generalmente in presenza di condotte originariamente atipiche, che concorrono colposamente con condotte tipiche e ciò distingue tale ipotesi, già sul piano puramente descrittivo, rispetto a quella del concorso di condotte colpose indipendenti. Anche al riguardo sono riscontrabili diversi orientamenti: 1. secondo un primo orientamento, la distinzione in esame sarebbe un problema immaginario, stante l’impossibilità di individuare argomenti ragionevoli per giustificare una diversità di trattamento fra istituti sostanzialmente omogenei e sovrapponibili, due fattispecie cioè oggettivamente identiche17. Così SEVERINO DI BENEDETTO, ult, cit. pag. 94 le affermazioni di coloro i quali ritengono che non sia possibile differenziare la cooperazione nel delitto colposo dal concorso di autonome condotte colpose partono dalla premessa che la realizzazione colposa di un fatto di concorso è concepibile anche senza la consapevolezza di cooperare. Si argomenta in proposito che per esempio, con riferimento al caso che un’infermiera abbia cagionato la morte di un paziente iniettandogli una sostanza nociva, anziché una terapeutica, si distingua secondo che l’infermiera abbia iniettato la sostanza nociva in quanto il medico curante gliene abbia portato la fiala al momento dell’iniezione, o in quanto il medico abbia collocato la fiala della sostanza nociva nel luogo in cui avrebbe dovuto trovare quella sostanza terapeutica; supposto poi che in entrambi i casi il medico abbia agito con colpa, si consideri, come, stando all’opinione dottrinale accennata, si dovrebbe ritenere, con manifesto apriorismo che soltanto nel primo caso, il solo in cui ricorra da parte del medico la consapevolezza di cooperare, il medico avrebbe commesso un reato colposo di concorso, laddove nel secondo dovrebbe rispondere quale autore di un reato principale. (BOSCARELLI) 16 17 86 2. In base alla costruzione tradizionale, seguita dalla dottrina prevalente e dalla costante giurisprudenza18, la rappresentazione dell’altrui A questa prima esemplificazione si aggiunge quella di chi contesta la tesi, di prevalente elaborazione giurisprudenziale, secondo cui nella cooperazione nel delitto colposo si avrebbe unità di reato con pluralità di soggetti, mentre nel concorso di condotte colpose indipendenti, si avrebbe pluralità di reati con unico evento. In questa prospettiva si analizza l’ipotesi, ritenuta, secondo i canoni classici della distinzione, appartenente alla categoria della cooperazione nel delitto colposo, di un soggetto che lasci per distrazione la rivoltella carica su un tavolo e di altro soggetto che la veda e, credendola scarica e facendo partire un colpo, uccida una terza persona. Con riferimento ad essa si osserva poi che siavi o non saivi adesione psichica, non v’è dubbio che tutte le condotte colpose contribuiscono alla produzione dell’evento, il quale rappresenta la consumazione di un unico delitto, onde sarebbe contraddittorio ammettere la pluralità di delitti in confronto ad un solo evento. Tanto nelle ipotesi solitamente indicate come cooperazione nel delitto colposo, quanto nelle ipotesi solitamente ascritte al concorso di condotte colpose indipendenti, che dovrebbero dar luogo a distinte imputazioni, l’identità dell’evento rende unico il reato…Nel reato colposo, infatti, è l’evento che da il tono a tutta la fattispecie, poiché senza evento non c’è reato colposo e non è ammissibile il tentativo. (PANNAIN) Ad analoghe conclusioni, in ordine alla irrilevanza dell’elemento della consapevolezza di cooperare, sia pure con implicazioni diverse, giunge quella parte della dottrina la quale, constatato che la condotta del partecipe produce l’evento solo incrociando la serie causale posta da altri, ne desume che l’agente non è in grado di prevedere il verificarsi dell’evento se non è in grado di prevedere l’attività altrui, ma precisa che non è detto tuttavia che di tale attività egli debba di fatto essere consapevole (PEDRAZZI). Per una critica di tali orientamenti, confronta SEVERINO DI BENEDETTO, concorso..,cit. pag. 93 ss. 18 “ in tema di reati colposi, l’elemento differenziante tra l’ipotesi di cooperazione e quella di mero concorso di cause indipendenti tra loro è dato dal collegamento delle volontà dei diversi soggetti agenti; mentre, infatti, nella cooperazione le volontà dei soggetti devono tutte confluire consapevolmente all’interno della condotta dalla quale deriva l’evento non voluto, nei casi invece di concorso di cause indipendenti, l’evento consegue ad una mera coincidenza di azioni od omissioni, non collegate da alcun vincolo subiettivo” Così Cass. pen. 23.11.1987 “la differenza tra cooperazione colposa e concorso di cause indipendenti consiste unicamente nell’elemento psicologico, perchè nella cooperazione colposa è richiesta la consapevolezza di ciascuno di conferire il proprio contributo alla condotta colposa che sbocca nella produzione dell’evento, mentre nel concorso di cause indipendenti, l’evento consegue ad una mera coincidenza di azioni od omissioni non collegate ad alcun vincolo subiettivo” Così Cass. pen. 31.05.1983 il dovere di sicurezza, posto a carico del costruttore dall’art. 7 d.p.r. n. 547, va valutato con particolare severità ed intransigenza; la responsabilità penale del costruttore per i reati di lesioni colpose derivanti dall’impianto da lui installato, deve essere inquadrata nell’ipotesi di concorso di cause autonome ed indipendenti generato dal rapporto tra l’art. 4 e l’art. 7 d.p.r. n. 547; l’atteggiamento psichico del costruttore deve essere ricondotto alla forma soggettiva della colpa con previsione alla luce della irresponsabile costruzione dell’impianto senza progetti e della mancata comunicazione dei pericoli accertati in concreto” Così P. Brescia 24.06.1981 “ la cooperazione nel delitto colposo di cui all’art. 113 c.p. si verifica quando più persone pongono in essere una data autonoma condotta nella reciproca consapevolezza di contribuire all’azione od omissione altrui che sfocia nella produzione dell’evento non voluto”. Così Cass. sez. un. 25.11.1998 “ in tema di reati colposi, l’elemento differenziante l’ipotesi di cooperazione da quella di mero concorso di cause tra loro indipendenti è dato dal collegamento delle volontà dei diversi soggetti agenti; mentre, infatti, nella cooperazione vi deve essere la volontà di concorrere alla 87 condotta costituisce l’elemento di differenziazione tra concorso colposo e mera convergenza di azioni colpose indipendenti, riconducibili all’art. 41 c.p.. Mentre nella cooperazione ognuno dei compartecipi ha la consapevolezza di partecipare all’azione od omissione di altri che, insieme con la propria condotta, è causa dell’evento non voluto, nei casi di concorso di cause indipendenti l’evento consegue ad una mera coincidenza di azioni od omissioni, non collegate da alcun vincolo subiettivo. Così che ogni condotta resta imputabile come fatto a sé stante, importando separata responsabilità per distinti reati. 3. Secondo la dottrina che aderisce alla natura squisitamente normativa della colpa, l’elemento caratteristico anche della cooperazione colposa, rispetto al concorso di cause colpose indipendenti, non andrebbe individuato in requisiti di tipo psicologico ma sulla base di criteri di tipo normativo: a contrassegnare la cooperazione colposa starebbe un particolare tipo di regole cautelari a carattere secondario, non riguardanti cioè la diretta causazione dell’evento lesivo ma aventi ad oggetto il comportamento dei terzi insieme ai quali il reato viene realizzato e, piuttosto che la effettiva consapevolezza di concorrere con altri, basterebbe la prevedibilità della condotta altrui concorrente con la propria19. realizzazione della condotta altrui, contraria a regole cautelari, e la prevedibilità ed evitabilità dell’evento criminoso, nei casi, invece di concorso di cause indipendenti l’evento consegue ad azioni od omissioni non collegate da alcun vincolo subiettivo”. Così P.Spoleto, 25.06.1992 19 “ la distinzione tra cooperazione colposa e concorso di cause colpose indipendenti, non può rintracciarsi nella rappresentazione dell’altrui condotta concorrente con la propria. Ed allora non rimangono che due alternative: o porsi alla ricerca di un altro elemento che, fungendo da 88 L’inquadramento del fatto nell’una o nell’altra ipotesi comporta l’applicabilità o meno della disciplina concorsuale20. In particolare, la giurisprudenza ha più volte ribadito che in tema di reati colposi, qualora si versi in ipotesi di concorso di cause indipendenti che hanno dato luogo all’evento, l’attenuante della partecipazione di minima importanza ex art. 114, comma 1º, dello stesso codice non può essere concessa. Allo stesso modo, si è escluso che nel caso di elemento circostanziale rispetto ad un fatto che già presenta tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice speciale, giustifichi il passaggio di esso alla disciplina concorsuale; oppure riconoscere che non esistono differenze strutturali tra cooperazione nel delitto colposo e concorso di condotte colpose autonome….L’unico contenuto dell’elemento psicologico che potrebbe svolgere un ruolo circostanziale idoneo a giustificare siffatta opera di riconduzione, senza contrastare con i contenuti anche normativi, della colpa, sarebbe rappresentato dalla prevedibilità della condotta altrui concorrente con la propria. Questo elemento verrebbe a precisare la regola di diligenza violata, la quale avrebbe un duplice parametro di riferimento: la prevedibilità della condotta altrui e, attraverso di essa, la prevedibilità dell’evento finale”. Così SEVERINO DI BENEDETTO, la cooperazione…cit. pag. 103 – 104. CONTRA ALDOVRANDI: “la necessità di individuare un elemento soggettivo caratterizzante il concorso colposo, nonché l’impossibilità di focalizzarlo nella mera prevedibilità della condotta altrui, conducono ad accedere all’impostazione tradizionale che fa riferimento alla rappresentazione dell’altrui comportamento. In realtà pare imprescindibile l’esigenza di ulteriormente specificare tale requisito, focalizzando l’attenzione sull’oggetto del coefficiente soggettivo, occorre, verificare se la consapevolezza debba riferirsi semplicemente all’altrui condotta causale o invece all’altrui condotta violatrice della regola cautelare, o infine alla tipicità dell’altrui condotta”…..viene privilegiata la soluzione intermedia, “secondo cui il concorso colposo sarebbe caratterizzato dalla consapevolezza della condotta violatrice delle regole cautelari di comportamento. Tale posizione vale da un canto a superare l’indeterminatezza del primo fra i criteri presi in esame e, dall’altro ad evitare le c’incongruenze cui perverrebbe sul piano applicativo il criterio fondato sulla consapevolezza della tipicità dell’altrui condotta”. 20 Con riferimento a tutte le figure di delitto colposo, l’art. 113 svolge la funzione di dettare la disciplina del delitto concorsuale. In particolare, l’ipotesi del capoverso estende al concorso nel delitto colposo le circostanze aggravanti previste dagli artt. 111 e 112 nn. 3 e 4. correttamente in dottrina si ritiene che, con riguardo alla cooperazione colposa, non possa trovare applicazione l’art. 115: le nozioni di istigazione e di accordo presuppongono, infatti, il dolo dell’istigatore o dei partecipanti l’accordo. In dottrina è prevalente la tesi che esclude al concorso colposo l’applicabilità della fattispecie concorsuale anomala prevista dall’art. 116. disciplinando l’ipotesi di reato diverso da quello voluto, l’art. 116 presuppone infatti che almeno uno degli agenti versi in dolo, il che, ovviamente, risulta inconciliabile con la colpa. Controversa è la compatibilità dell’art. 117 con la struttura del concorso colposo. Mentre secondo alcuni è necessario che il comportamento del soggetto privo della qualifica sia doloso, secondo l’orientamento prevalente, invece, non sussiste alcun ostacolo all’applicazione della disciplina prevista dall’art. 117 al concorso colposo, nel caso in cui l’extraneus sia in colpa circa la mancata conoscenza della qualifica rivestita dall’intraneus. Alla cooperazione colposa sono applicabili gli artt. 118 e 119; in particolare, ai sensi dell’art. 119 co. 2, la presenza di una causa di giustificazione si estende a tutti i concorrenti. 89 condotte colpose indipendenti possa operare, ex art. 123 c.p., l’effetto estensivo della querela. Un rapido sguardo alla giurisprudenza per vedere come risolve il problema della distinzione tra l’istituto della cooperazione colposa e quello delle condotte colpose indipendenti. La Corte di Cassazione sul punto ha enunciato i seguenti principi: “Nei delitti colposi occorre distinguere il concorso di più cause che agiscono tra di loro indipendentemente e con un vincolo puramente materiale, dalla vera e propria partecipazione nel delitto, cioè, dalla così detta cooperazione nel delitto colposo di cui parla l’art. 113 c.p.. Perchè vi sia cooperazione, con le sue conseguenze circa la responsabilità, non basta una compenetrazione di fatto in un’unica causalità efficiente, ma è necessaria la consapevolezza del soggetto cooperante di concorrere ad una condotta colposa. Anche nel delitto colposo, commesso da più persone, non deve mancare quella cooperazione psicologica da cui scaturisce il carattere unitario del reato commesso da più soggetti. Elemento comune alle due ipotesi è la medesimezza dell’evento dannoso. L’elemento differenziale è invece la sussistenza nella cooperazione, della consapevolezza che ciascuno degli autori dell’evento dannoso deve avere di contribuire all’azione altrui. Tale elemento manca nel concorso di cause, nelle quali si ha coincidenza fortuita di azioni colpose distinte nel produrre lo stesso evento senza alcun vincolo psicologico. Ne consegue che nel caso di cooperazione nel delitto colposo si ha unità di reato imputabile a più soggetti, mentre nella ipotesi di concorso di colpe autonome ogni azione individuale, 90 appare disunita dalle altre concorrenti e ciascuna, perciò, resta imputabile come fatto a sé stante, importando responsabilità separata per distinti reati”. Nel caso di specie, erano venuti a collisione un camion ed una fiat giardinetta. A causa dell’urto la Giardinetta era finita sul marciapiede, cagionando lesioni ad un pedone. I giudici sia di merito che di legittimità, ritennero che non sussistesse cooperazione colposa per la mancanza di un concorso cosciente e volontario di condotte. Si trattava, piuttosto, di concorso di cause nel quale l’unico evento è effetto di mera coincidenza di azioni colpose, non collegate fra loro da alcun vincolo morale o psicologico. Un principio analogo a quello sopra esposto, è stato affermato sempre dal S.C., nel caso in cui un auto, su tratto di strada rettilineo e pianeggiante, investì due biciclette che percorrevano la strada nello stesso senso di marcia. Nel caso in esame, i giudici, non ravvisarono una cooperazione colposa tra automobilista e ciclisti ma un concorso di cause colpose indipendenti, in quanto fu accertato che l’evento non voluto, fu cagionato dalla mera coincidenza di più attività colpose non collegate tra loro, da alcun vincolo subiettivo. La Suprema Corte ha ribadito, in un caso di incauto affidamento di un veicolo a persona che si sapeva priva di patente di guida, che “nella cooperazione nel delitto colposo gli autori dell’evento hanno la consapevolezza di contribuire all’azione altrui, altrimenti si ha concorso di cause indipendenti; e nell’affidamento incauto di un veicolo, la cooperazione nel delitto colposo ricorre, concretandosi la detta consapevolezza, quando il fatto colposo è derivato da imperizia nella guida”. 91 In un altro caso, invece, nel quale un uomo, alla guida di un ciclomotore, fu investito da un automobilista, e a seguito dell’incidente fu ricoverato presso un ospedale, dove trovò la morte per arresto cardio circolatorio derivante da peritonite fecaloide non trattata, i giudici di merito hanno ritenuto colpevoli del reato di omicidio colposo, per aver cagionato, cooperando con le loro condotte la morte dell’uomo, i sanitari e l’automobilista. La seguente decisione non si presta, tuttavia, ad essere condivisa da chi scrive, infatti, posto che, per giurisprudenza costante di legittimità e di merito, per aversi cooperazione colposa è necessario accertare che vi sia stata confluenza coordinata e consapevole del comportamento dei singoli partecipanti, è da escludere che una confluenza coordinata e consapevole di condotte, possa esservi stata tra l’automobilista ed i sanitari. Tra la condotta dell’automobilista da un lato, e le condotte dei sanitari dall’altro, si configura, piuttosto, una ipotesi di concorso di condotte colpose indipendenti, per essersi verificata una coincidenza fortuita di più condotte colpose nella produzione dello stesso evento. Si condividono, invece, le conclusioni alle quali i giudici di merito sono giunti, in riferimento alle condotte dei sanitari, e cioè che si trattava di cooperazione colposa e non di concorso di cause indipendenti tra di loro, dal momento che vi fu confluenza coordinata e consapevole dei comportamenti dei singoli medici, anche se finalizzata a salvare il paziente, laddove nel concorso di cause, la coincidenza delle singole azioni od omissioni è meramente fortuita. La Corte di Cassazione, da ultimo, ha statuito che “ai fini della configurabilità della cooperazione nel delitto colposo, prevista dall’art. 113 c.p., è sufficiente 92 la coscienza, da parte del soggetto, dell’altrui partecipazione all’azione, ma non è necessaria la conoscenza delle specifiche condotte e dell’identità dei partecipi. Ne consegue che la cooperazione è ipotizzabile anche nelle ipotesi riguardanti le organizzazioni complesse quali la sanità, le imprese e settori della P.A. nei cui atti confluiscono condotte poste in essere, anche in tempi diversi, da soggetti tra i quali non c’è rapporto diretto. In tali ipotesi esiste comunque il legame psicologico previsto per la cooperazione colposa, perchè ciascuno degli agenti è conscio che altro soggetto (medico, pubblico funzionario, dirigente etc.) ha partecipato o parteciperà alla trattazione del caso”. Nel caso di specie, un automobilista nel percorrere una strada a scorrimento veloce, che sebbene aperta al traffico veicolare, era ancora in fase di ultimazione e per di più priva di segnaletica, perdeva il controllo della propria autovettura, nel tratto terminale della strada, che presentava un dislivello notevolmente discendente e terminava con tratto in terra battuta. A seguito dell’urto contro il margine della strada, si procurava lesioni. I giudici ritennero responsabili dell’accaduto, a titolo di cooperazione, sia il direttore dei lavori di costruzione della strada che l’ingegnere capo in relazione ai medesimi lavori, assumendo che entrambi avevano sottoscritto il verbale di consegna della strada ed in ciò fu ravvisata la prova della interazione consapevole delle condotte tra i partecipi. Esposto, da un lato l’orientamento della dottrina maggioritaria circa la differenza tra la cooperazione colposa ed il concorso di cause indipendenti, dall’altro, l’orientamento della giurisprudenza sia di legittimità che di merito, 93 sullo stesso problema, a chi scrive, sembra possibile concludere, che la differenza tra la concausazione colposa di un delitto di evento causalmente orientato da parte di due o più soggetti e la cooperazione colposa da parte degli stessi soggetti, nello stesso delitto, non può configurarsi sul piano oggettivo. Infatti sul piano oggettivo, sia nella cooperazione colposa che nel concorso di cause indipendenti, per addebitare il delitto a ciascun imputato, sarà necessario accertare che il comportamento di ciascuno, sia stato causale e colposo rispetto all’evento non voluto. La differenza si configura invece sul piano soggettivo, laddove, solo nella cooperazione colposa deve esserci interazione consapevole di condotte, mentre nel concorso di cause indipendenti, l’evento consegue ad una mera coincidenza di azioni od omissioni, non collegate da alcun vincolo subiettivo. Sul piano soggettivo, dunque, gli elementi che caratterizzano la cooperazione colposa sono: 1. la “rimproverabilità” del partecipe per la violazione della regola cautelare che sia volta ad evitare eventi del tipo di quelli, in concreto, verificatosi; 2. il quid pluris della cooperazione, ovvero, la consapevole interazione delle condotte. Per quel che riguarda il primo elemento, si tiene a ribadire quanto già è stato detto nel capitolo primo dell’opera e cioè che, la sussistenza di una situazione di cooperazione colposa (con l’applicazione del relativo regime giuridico) non è esclusa per il fatto che un concorrente non sia punibile per mancanza di 94 imputabilità: in una tale ipotesi devono trovare applicazione i principi desumibili dagli art. 112, ult. comma e 119, primo comma21. Per quel che riguarda il secondo elemento, nel caso in cui uno soltanto dei concorrenti abbia consapevolezza di cooperare con altri, il concorso sarà unilaterale. In questo caso, solo a costui va applicata la disciplina dettata dall’art. 113, mentre per gli altri soggetti, esclusa una responsabilità concorsuale, l’eventuale punibilità può sorgere, ricorrendone i presupposti, sulla base della norma monosoggettiva22. Terminata, quindi, l’analisi del concorso colposo, sia sul piano oggettivo che soggettivo, e stabilito quale è il contenuto del principio di affidamento e quali sono i suoi limiti, si può passare, ora, all’esame di casi pratici in materia di lavoro medico in équipe, infortuni sul lavoro e circolazione stradale, settori questi, nei quali, da un lato, con più frequenza si configurano ipotesi di cooperazione colposa, dall’altro sono questi gli ambiti, nei quali del principio di affidamento è dato riscontrare le applicazioni più pregnanti, quanto meno in via astratta, per stabilire se detto principio riesca a trovare concreta applicazione e quindi valutare che tipo di relazione intercorre tra la cooperazione colposa ed il principio de quo. In tal senso, Cfr: ROMANO GRASSO, commentario sistematico al codice penale, art. 113, edizione 2004; MARINUCCI DOLCINI, codice penale commentato art 113; PADOVANI, codice penale commentato art. 113. 22 In tal senso Cfr: MARINUCCI DOLCINI, ult. cit; ROMANO GRASSO, ult. cit.; PADOVANI, ult. cit.. 21 95 CAPITOLO IV COOPERAZIONE COLPOSA E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO IN ÉQUIPE CHIRURGICA PREMESSA L’ipotesi più frequente di cooperazione colposa riguarda il lavoro d’équipe, che coinvolge personale medico e paramedico. Tra le varie situazioni di cooperazione medica, l’attività dell’équipe chirurgica viene ad assumere un posto di rilievo e preminenza, quanto ad aggravio di responsabilità, dovuto al rischio immediato e maggiore che la terapia chirurgica generalmente comporta rispetto ad altra attività di cura. Soprattutto nel settore chirurgico, gli errori sono purtroppo frequenti e capita spesso di leggere sui quotidiani di vittime o di gravi danni provocati dalla dimenticanza, quasi sempre per colpevole negligenza, di cotone idrofilo, di garza od anche di ferri chirurgici nell’addome del paziente. Sotto l’aspetto dell’attribuzione della colpa, nei contenziosi originati da tali negligenti dimenticanze, il nodo della questione (più difficile da sciogliere) generalmente si è concretizzato in una semplice domanda: dell’abbandono del ferro risponde il “ ferrista”, tenuto, come da prassi, a contare i ferri utilizzati durante l’operazione, oppure sono responsabili tutti i medici che compongono l’équipe? 96 Con l’aiuto di recente giurisprudenza di legittimità, cerchiamo di chiarire come potrebbe distribuirsi la colpa se qualche “corpo estraneo” (ferro chirurgico, pezza laparotomia ecc..), utilizzato nel corso dell’intervento chirurgico, dovesse rimanere nell’addome del paziente. Più precisamente, esaminando due distinte vicende giudiziarie finite in Cassazione, si può prendere cognizione dei danni causati e delle colpe conseguenti all’abbandono nell’addome, in un caso, di un ferro particolare: la cosiddetta “Pinza di Kelly”, la cui funzione è quella di tenere divaricati i tessuti durante l’operazione, una volta eseguita l’incisione. Invero, si tratta di una gravissima disattenzione visto che il “ferro” in questione ha una certa dimensione: 16 cm di lunghezza e 7 cm di larghezza nella parte degli anelli, con all’estremità due punte ricurve! Nell’altro di una garza laparotomica. I due casi presi in esame, differiscono tra loro, non tanto per la natura del corpo estraneo che è stato lasciato nell’addome del paziente, quanto perchè nel caso della pinza di Kelly, tutti i sanitari componenti l’équipe sono rimasti in sala operatoria fino al termine dell’intervento, mentre nel caso della garza laparatomica, uno dei medici chirurghi che ha coadiuvato nello svolgimento dell’intervento, si è allontanato dalla sala operatoria prima che questo si fosse concluso. 97 PARAGRAFO I: SE UN FERRO CHIRURGICO RIMANE NELL’INTESTINO È RESPONSABILE SOLO IL “FERRISTA”? Di recente, si è verificato che tre medici, uno nella qualità dì Primario, e gli altri nella qualità di chirurghi, sono stati, unitamente agli infermieri – strumentisti, rinviati a giudizio, per rispondere del delitto di lesioni colpose gravi in pregiudizio di un paziente, il quale aveva riportato un laparocele, con indebolimento permanente della funzione contenitiva della parete addominale, a cagione della condotta negligente tenuta dai suddetti medici e paramedici, in cooperazione colposa tra loro, nel corso dell'intervento chirurgico eseguito in équipe per una occlusione intestinale accusata dal paziente, condotta consistita nell'omessa vigilanza reciproca sull’utilizzo degli strumenti chirurgici, uno dei quali, e precisamente una pinza di Kelly era stata lasciata all'interno della cavità addominale, rendendo necessario a distanza di tempo un secondo intervento per rimuovere la pinza1. Così Cass. Pen. Sez. IV 18.05.2005 n. 18568 Un'altra vicenda giudiziaria di abbandono di “corpo estraneo”, nell’addome del paziente, trae origine da un intervento chirurgico eseguito in via di urgenza su persona ricoverata nella stessa giornata (1 5.12.1995) per "colica addominale di natura da determinare". Nel corso dell'intervento si evidenziava la presenza di un adenocarcinoma perforato del sigma con peritonite diffusa, neoplasia poi accertata di natura maligna. Quattro mesi dopo (17.4.1996) la paziente veniva nuovamente ricoverata per "coliche addominali ricorrenti associate a disturbi urinari", e dagli esami radiologia risultava un corpo estraneo nell'addome. Operata nuovamente dagli stessi medici, veniva rimossa una pinza chirurgica rimasta nell'addome dopo la sutura della ferita a seguito della prima operazione. In data 2.5.1996 la paziente veniva sottoposta al terzo intervento chirurgico per una fistolizzazione, di ansa intestinale con successivo cedimento parziale della sutura laparatomica, ma, nei giorni successivi, si verificarono una nuova fistolizzazione e fatti emorragici. Sta di fatto che la paziente il 29.6.1996 entrò in coma ed il giorno successivo è morta. Occorre in primo luogo considerare - anche se la situazione può apparire paradossale - che nel caso di specie il giorno dell'operazione mancava l'infermiera ferrista, addetta 1 98 nominalmente al controllo delle pezze laparotomiche e alla conta dei ferri utilizzati dai chirurghi. Tuttavia, la suddetta circostanza non ha avuto alcuna influenza sul fatto che tutti i medici dell'équipe chirurgica siano stati ritenuti in colpa, per non aver verificato al termine dell'intervento (prima della chiusura della ferita) il numero dei ferri chirurgici adoperati. Solo il giudice di primo grado, nell'attribuire la responsabilità all'intera équipe, ha dato un certo peso "anche" alla circostanza che, " mancando il ferrista, cioè proprio l'addetto al controllo ed al conteggio dei ferri, un medico componete l'équipe avrebbe detto alla figlia della paziente, come da questa dichiarato: "Facciamo tutto noi". Il primo giudice (Pretore) ha fondato il giudizio di responsabilità sui risultati degli accertamenti tecnici effettuati, sia con perizia, sia con consulenze tecniche delle parti, nonché sulla testimonianza della figlia della donna deceduta. I periti, pur dichiarando che la grave malattia ne avrebbe comportato sicuramente il decesso entro un termine massimo non definibile, ma da ritenere non superiore ad un anno, hanno concluso che "il comportamento negligente dei sanitari chirurghi (ndc: e cioè dimenticanza della pinza) non ha determinato l'evento letale ma ha contribuito ad accelerarlo, sì da ritenersi ad esso eziologicamente riconducibile in via concorrente". A tale conclusione i periti giunsero non solo per le dimensioni della pinza, lunga 16 cm., e larga nella parte degli anelli 7 cm., con all'estremità due punte ricurve, ma per la circostanza che la paziente, per i dolori causati dalla presenza nel proprio corpo della pinza, è stata costretta ad assumere "generose dosi disarmaci analgesici che hanno comportato un grave insulto tossico su di un fegato già meiopragico a causa della preesistente statosi". Peraltro, è risultata pacifica la circostanza che "la pinza presentava una branca rotta (forse per le continue sterilizzazioni), per uno spezzone di 33 mm., recuperato anch’esso in addome, ed ha ritenuto che ciò può avere comportato lo scivolamento della pinza tra le anse intestinali, senza che nessuno della equine chirurgica se ne accorgesse ". Proprio per la suddetta situazione (rottura della pinza), secondo gli incolpati, la fattispecie doveva farsi rientrare nell'ambito di operatività del "caso fortuito" disciplinato dall'art. 45 del codice penale, nel senso che la mancata rimozione è stata dovuta ad una fatalità tanto accidentale, quanto un prevedibile, e cioè la rottura di una delle estremità del ferro chirurgico, che ne aveva comportato lo scivolamento tra le anse intestinali, senza che nessuno se ne sia potuto accorrere. Il Pretore ha ritenuto che non potesse sussistere la scriminante del "caso fortuito" di cui all'articolo 45 del c. p. "in quanto i medici non hanno poi effettuato un conteggio finale, che avrebbe sicuramente evidenziato la mancanza di quel ferro, valutate anche le dimensioni e l'ampiezza della ferita, dallo sterno al pube, che avrebbe necessitato un più attento controllo. Il giudice di primo grado ha valutato anche la negligenza successiva, perchè nei 4 mesi tra dicembre e aprile nessuno si è accorto della mancanza della pinza ". Il primo giudice, dopo aver individuato la responsabilità dell'intera equipe medica "anche" nella circostanza che, mancando l'addetto al controllo ed al conteggio dei ferri, un medico componete l'equipe ebbe a dire alla figlia della paziente che avrebbero provveduto loro medici, ha concluso la motivazione della sentenza di condanna con un breve riassunto dei fatti e con un'ampia esposizione sul trattamento sanzionatorio. La Corte di merito ha sostanzialmente confermato il giudizio di responsabilità degli imputati, in quanto ha ritenuto che la rottura di un margine della pinza ed il suo scivolamento nelle anse intestinali, pur non essendo accadimento frequente, non è comunque imprevedibile ed eccezionale. Infatti, da atto che l'usura dei ferri o un eventuale difetto di costruzione possono cagionare un evento del genere. La Cassazione sul punto ( sentenza 26.05.2004 n.39062) precisa che "la valutazione in diritto della sussistenza o meno del "caso fortuito" nella specie va compiuta in relazione alla assoluta non riconducibilità del fatto che lo costituirebbe ai ricorrenti e sulla assoluta autonomia di tale fatto incidente sull'evento letale, senza partecipazione causale degli imputati ". Nel condividere la decisione della Corte di merito per avesse escluso l'applicabilità, chiarisce: "la questione così posta ha il difetto di un esame parziale della fattispecie ed assolutamente 99 Nel caso in esame, per individuare i soggetti penalmente responsabili, c’è da chiedersi innanzitutto, chi, all’interno dell’équipe, avesse il compito di contare i ferri al termine dell’operazione. L’orientamento prevalente in dottrina, è quello di ritenere applicabili all’attività medico chirurgica in équipe, i seguenti principi: 1. il principio della divisione del lavoro al quale consegue la divisione degli obblighi tra i componenti dell’équipe. 2. Il principio di affidamento, in forza del quale ogni componente del gruppo può confidare sul fatto che gli altri rispettino gli obblighi di incompleto" perché "la condotta colpevole dei ricorrenti si identifica non tanto nella rottura della pinza, che, pur non essendo circostanza imprevedibile, non è attribuibile direttamente agli imputati, quanto nell'omesso conteggio dei ferri dopo la sutura della ferita, e nella successiva omessa immediata rimozione ". A maggior chiarimento del tema affrontato e dell'interrogativo posto prima in evidenza è il caso di riportare testualmente quanto, i giudici di legittimità, aggiungono. "E', infatti, evidente" chiariscono "che è opportuno il conteggio prima della chiusura della ferita per rimuovere eventuali pezzi dimenticati (talvolta è successo con garze o cotone idrofilo), senza procedere poi alla "scucitura" subito dopo l'intervento, ma è altrettanto evidente che regole semplici di diligenza, di perizia e di prudenza, senza neppure "scomodare" la conoscenza della scienza medica, impongono di controllare nuovamente che tutti i ferri siano stati rimossi dopo la sutura della ferita, in quanto ad una eventuale omissione si può porre rimedio nell’immediatezza, procurando un lieve trauma la "scucitura " della sutura, là dove la permanenza del ferro nel corpo per molto tempo (nella specie diversi mesi) ed il dovere procedere a nuovo intervento chirurgico per rimuoverlo dopo che si siano prodotte tenaci aderenze sono causa di lesioni gravi, o addirittura della morte del paziente". "E’ dovere professionale di procedere al conteggio dei ferri non può quindi ritenersi esaurito eseguendolo prima della sutura della ferita e ancorché ancora alcuni pezzi permangono nel corpo della persona sottoposta ad intervento chirurgico, ma va completato con una ulteriore verifica subito dopo la sutura per controllare la rimozione degli ulteriori pezzi, proprio perchè è possibile (come è avvenuto nella specie) che tali ferri possano, per diverse cause (per dimenticanza o per incidente), essere stati lasciati nel corpo della persona operata ". Viene pure specificato che, nella specie, agli imputati è stata contestata la colpa generica e non la violazione di particolari cognizioni di scienza medica, quindi: "Non può esservi dubbio che almeno il controllo della rimozione dei ferri spetti all'intera equine operatoria, e cioè ai medici, i quali hanno la responsabilità del buon esito dell'intervento, non solo in relazione all'oggetto dell'operazione, ma altresì per tutti gli adempimenti connessi, sicché è del tutto inaccoglibile l'argomento secondo il quale il controllo successivo alla saturazione della ferita, e cioè quello definitivo e tranquillizzante, sia devoluto al personale infermieristico, secondo una prassi consolidata. avendo il personale paramedico, nel settore chirurgico, funzioni di assistenza, ma non di verifica dell'attuazione dell'intervento operatorio nella sua completezza". 100 diligenza dall’ordinamento loro imposti e quindi può concentrarsi sui propri compiti. 3. Il principio della responsabilità personale, in forza del quale ogni componente del gruppo risponde delle inosservanze inerenti le sue competenze specifiche. Qualora questi principi, avessero trovato applicazione concreta, nel caso in esame, la conclusione sarebbe stata quella di addebitare l’erronea od omessa conta dei ferri chirurgici al solo ferrista. Tuttavia, non è stata questa la strada percorsa dai giudici che si sono occupati della vicenda2. L’errore nella c.d. conta dei ferri chirurgici da parte del ferrista non ha minimamente influenzato il giudizio della Corte che, anche in proposito, ha ritenuto essere stata correttamente esposta dai giudici di secondo grado l’argomentazione secondo cui “i medici, qualora si avvalgano di paramedici ai quali sia materialmente affidata l’esecuzione di un compito, conservano sull’attività degli ausiliari intatto il dovere di vigilanza; dovere che nella fattispecie è stato omesso da parte di ciascun medico nei confronti del ferrista”. Se il rigore del ragionamento tecnico – giuridico di queste sentenze non può essere criticato, ciò non toglie che, come è stato osservato (da Pietrantonio Ricci Straordinario di Medicina legale Università degli Studi Magna Grascia di Catanzaro), il medico legale non può non segnalare come essa faccia riferimento a un’epoca, il 1995, in cui la figura dell’infermiere non aveva la dignità attuale in termini di qualificazione professionale e che l’introduzione delle professioni sanitarie pone in carico a queste nuove figure di laureati delle responsabilità proprie, soprattutto in relazione a un caso simile”. Recentissime le notizie di stampa (17.07.05) sul caso di cosiddetta malasanità verificatosi in una clinica privata di Cagliari, dove ben due pinze chirurgiche sono state dimenticate nell’addome di un paziente. Le pinze sarebbero state lasciate il 31 maggio 2005, giorno di effettuazione di un intervento chirurgico per rimuovere un tumore dalla vescica, ad un operaio di 65 anni che ha trascorso gli ultimi due mesi della sua vita tra atroci sofferenze, giustificate dai medici come dolori post operatori. Le due pinze chirurgiche di Cagliari, devono perciò fare i conti con la L. 26.02.1999, n. 42 il cui art. 1, con lo statuire che la denominazione “ professione sanitaria ausiliaria” nel testo unico delle leggi sanitarie, approvato con regio decreto 27 luglio 1934. n. 1265, e successive modificazioni, nonché in ogni altra disposizione di legge, è sostituita dalla denominazione “professione sanitaria” non può che significare che per il Legislatore quella stessa attività che era stata svolta dal personale paramedico fino ad allora come meramente ausiliaria, l’ha voluta come totalmente ad essa autonoma tanto da fargli abrogare, da una parte, il regolamento approvato c on decreto del Presidente della Repubblica il 14 marzo 1974, n. 225 avente ad oggetto le modifiche al regio decreto 2 maggio 1940, n. 1310, sulle mansioni degli infermieri professionali e infermieri generici e, dall’altra, con lo statuire che il campo proprio di attività e di responsabilità delle professioni sanitarie di cui all’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni e integrazioni, è determinato dai contenuti dei decreti ministeriali istitutivi dei relativi profili professionali e degli 2 101 In primo grado, infatti, tutti gli imputati sono stati ritenuti colpevoli del reato loro in concorso ascritto. I giudici di merito, hanno parzialmente riformato la sentenza di primo grado, assolvendo con formula “per non aver commesso il fatto” soltanto uno degli infermieri, che era stato condannato in primo grado e confermando nel resto l’impugnata decisione. La Corte di appello, condivisibilmente, ha ritenuto che l’applicabilità del principio di affidamento doveva essere esclusa, in quanto il caso concreto era caratterizzato dall’opera comune e contestuale di un’équipe medica, all’interno della quale gli operatori sanitari non avevano diverse specializzazioni, ricoprendo essi lo stesso ruolo di chirurghi, con interscambiabilità degli stessi nell’esecuzione di un complesso intervento chirurgico. Pertanto la sinergia operativa propria di un intervento a “quattro mani” avrebbe dovuto comportare per i chirurghi, una doverosa reciproca vigilanza anche nell’attività di asportazione dei ferri non demandabile ad altri e non avendo corrisposto a tale dovere, ciascuno di essi doveva correlativamente rispondere penalmente dell’evento lesivo per fatto proprio e non per fatto altrui. ordinamenti didattici dei rispettivi corsi di diploma universitario e di formazione postbase nonché degli specifici codici deontologici fatte slave le competenze previste per le professioni mediche e per le altre professioni del ruolo sanitario per l’accesso alle quali è richiesto il possesso del diploma di laurea, nel rispetto reciproco delle specifiche competenze professionali. Un’ “autonomia”, che secondo parte della dottrina, manda in archivio il dovere di vigilanza del quale la S.C. ha investito il medici sull’attività degli ausiliari onde sarebbe antistorico parlare per le due pinze chirurgiche dimenticate di dovere di vigilanza che sarebbe rimasto dopo una tal legge intatto per essere stato omesso da parte di ciascun medico nei confronti del ferrista e che fa, nel contempo, rientrare, magari dalla finestra, quel principio di affidamento che la S.C. aveva estromesso dalla parta nelle sentenze del 26.05.2004 n. 39062; e 18.05.2005, n. 18568. 102 Quindi, in capo a tutti i membri dell’équipe vigeva l’obbligo di controllo sull’uso e sul recupero dei ferri una volta terminata l’operazione. Tutti avevano omesso tale controllo, di conseguenza, nessuno poteva fare affidamento sul corretto comportamento né degli altri medici, né del ferrista. Degli altri medici, poiché il principio in esame, non può estendersi fino al punto da ritenere che si possa agire imprudentemente affidandosi alla diligenza altrui. Proprio questo principio è stato applicato al caso de quo dalla Corte di Cassazione, che ha affermato che “non può parlarsi di affidamento quando colui che si affida sia in colpa per aver violato determinate norme precauzionali o per aver omesso determinate condotte e ciononostante confidi che altri, che eventualmente gli succede nella stessa posizione di garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione”. Del ferrista, ovvero del personale paramedico, poiché i medici, qualora si avvalgano di paramedici ai quali sia materialmente affidata l’esecuzione di un compito, conservano, sull’attività degli ausiliari, intatto il dovere di vigilanza, dovere che nella fattispecie era stato omesso da parte di ciascun medico nei confronti del ferrista. La Corte di Appello, tuttavia, ha assolto uno degli infermieri, e la Corte di Cassazione, dinnanzi alla doglianza lamentata dai chirurghi connessa alla mancata applicazione, nei loro confronti, del principio di affidamento, ha ritenuto che la stessa fosse infondata, poiché la pronuncia di assoluzione dell’infermiere, trovava giustificazione non nell’applicazione di detto principio, bensì nella posizione del tutto esclusiva rivestita per l’occasione da costui, in quanto esso, facendo parte del personale non sterile, non aveva 103 avuto alcun contatto con il campo operatorio e non aveva avuto, come fu accertato, alcun potere di controllo in ordine ai ferri chirurgici usati per l’intervento. Dalla sentenza in esame pertanto emergono tre limiti al principi di affidamento: 1. quando all’interno di una équipe, gli operatori sanitari non hanno diverse specializzazioni e ricoprono lo stesso ruolo con interscambiabilità degli stessi nell’esecuzione di un complesso intervento chirurgico, vige in capo a ciascuno il reciproco dovere di vigilanza sull’uso ed il recupero di tutti i ferri chirurgici. Ciò esclude l’applicabilità del principio di affidamento con la conseguenza che ciascuno dei componenti l’équipe chirurgica risponde penalmente dell’evento lesivo cagionato al paziente per fatto proprio e non per fatto altrui; 2. non può parlarsi di affidamento quando colui che si affida sia in colpa per aver violato determinate norme precauzionali o per aver omesso determinate condotte; 3. i medici (chirurghi) qualora si avvalgano dell’attività di paramedici ai quali sia materialmente affidata l’esecuzione di un compito conservano sulla loro attività intatto il dovere di vigilanza perchè hanno la responsabilità del buon esito per tutti gli adempimenti connessi. Resta poi da chiedersi perché i giudici abbiano ritenuto di non escludere alcun membro dall’obbligo di controllo. Probabilmente perché: 104 1. tutti i sanitari, medici e paramedici, sono portatori ex lege di una posizione di garanzia espressione dell’obbligo di solidarietà costituzionale imposto ex articoli 2 e 32 della Carta fondamentale, nei confronti dei pazienti, la cui salute essi devono tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci l’integrità; 2. ogni intervento chirurgico, comporta lo svolgimento di una attività molto complessa e rischiosa, per cui è necessario che ogni componente l’équipe sia massimamente accorto e diligente; 3. a dover essere tutelati sono la vita e l’incolumità fisica dei pazienti, beni giuridici, questi, di fondamentale importanza; 4. l’errore (o la omissione) è derivato da una negligenza eclatante. Nel caso in esame, inoltre, senza dubbio si configura una ipotesi di cooperazione colposa, in quanto le condotte di ciascun sanitario, sul piano oggettivo sono necessariamente causali rispetto all’evento (nel caso di specie si è verificata una progressione causale che ha visto nell’omessa asportazione della pinza, avvenuta nel primo intervento chirurgico, la condizione imprescindibile del secondo intervento, causa diretta del laparocele. Quindi il primo intervento chirurgico deve essere visto come condizione causale necessaria del secondo intervento, resosi necessario per rimuovere la pinza e causa del laparocele). Sono colpose, in quanto tutti i membri dell’équipe hanno omesso il controllo a cui erano obbligati (i giudici di secondo grado, hanno condiviso il convincimento del primo giudice, secondo cui l’accertata negligenza, tradottasi, nella specie, nell’insufficienza del doveroso reciproco controllo 105 sull’uso delle pinze chirurgiche, aveva caratterizzato in modo colposo la condotta professionale degli imputati). Sul piano soggettivo, tutti sono rimproverabili per l’omissione. Inoltre, in capo a ciascuno di essi, è ravvisabile la consapevolezza di prendere parte e di contribuire all’azione dell’altro. Nella Cooperazione colposa infatti non è richiesto che il partecipe abbia consapevolezza del carattere colposo dell’altrui condotta, è sufficiente che sia consapevole di partecipare all’azione od omissione di altri che insieme con la propria condotta è stata causa dell’evento non voluto. E che tale consapevolezza fosse presente, non può mettersi in dubbio in una operazione a “quattro mani”. Nel caso in esame, in definitiva, si configura una ipotesi di cooperazione colposa e non trova invece applicazione il principio di affidamento. E veniamo al secondo caso, nel quale a seguito di un intervento di taglio cesareo eseguito da due chirurghi, era stata dimenticata nell’addome della paziente una garza laparotomica. 106 PARAGRAFO II: SCIOGLIMENTO ANTICIPATO E RESPONSABILITÀ DELL’ASSENTE A seguito di un intervento di taglio cesareo, eseguito da due medici, coadiuvati dal personale infermieristico, era stata dimenticata nell’addome della paziente una garza laparotomica. Dimessa dalla clinica la paziente era stata sottoposta ad ulteriori interventi: il primo intervento fu causato dalla necessità di rimuovere la garza laparotomica, ed i successivi per sopperire alle gravi complicazioni alle quali aveva dato luogo la permanenza della garza nell’addome. Nell’intervento di taglio cesareo, inoltre, la negligenza consistita nell’avere lasciato la garza nell’addome della paziente, si era verificata nella fase finale dell’intervento, e cioè appena prima della sutura della ferita, fase che si svolse in assenza di uno dei due chirurghi, che con il consenso del collega, si era allontanato dalla sala operatoria, poiché era stata chiamato in reparto per svolgere delle specifiche incombenze più urgenti delle semplici fasi di completamento di un intervento fino a quella fase perfettamente riuscito. I due medici, unitamente al personale infermieristico che aveva con loro preso parte all’intervento, furono rinviati a giudizio per aver cagionato lesioni personali colpose, in cooperazione tra loro, alla paziente3. Tutti gli imputati sono stati condannati sia in primo che in secondo grado. 3 Cass. Pen. Sez. IV, sentenza 6 aprile 2005 – 16 giugno 2005, n. 22579 107 Presentato ricorso per cassazione da entrambi i medici, la Corte ha accolto solo il ricorso del medico che si era allontanato dalla sala operatoria prima che l’intervento fosse finito. Con riferimento alla condotta omissiva del medico che svolse l’intervento senza mai allontanarsi dalla sala operatoria, i giudici di legittimità hanno ritenuto sussistente il nesso di causalità tra la sua condotta omissiva, e gli eventi lesivi successivi, in quanto, senza l'iniziale negligenza, nessuna conseguenza negativa, incidente sulla salute della paziente, si sarebbe verificata. La condotta del medico, pertanto, era causa di tutti i successivi eventi lesivi, in quanto antecedente causale determinante, l’evento. Ma oltre ad essere causale, la condotta del medico, era senza dubbio anche colposa, avendo egli lasciato, per negligenza una garza nell’addome della paziente. Il medico in questione, inoltre, ha invocato a sua discolpa il principio di affidamento nei confronti del ferrista, poiché sua (anche sulla base del principio della divisione del lavoro), sarebbe stata la competenza alla conta delle garze. La domanda alla quale i giudici hanno dovuto dare una risposta, sembrerebbe la seguente: poteva il personale medico, fare affidamento sul fatto che il ferrista, avrebbe con diligenza ed accortezza svolto una delle sue funzioni, ovvero quella consistente nel contare le garze al termine dell’operazione e prima della sutura della ferita? A questa domanda i giudici di legittimità, condivisibilmente hanno dato le seguenti risposte: 108 1. “i medici, qualora si avvalgano di paramedici, ai quali sia materialmente affidata l’esecuzione di un compito, conservano sull’attività degli ausiliari intatto il dovere di vigilanza”(questo principio il S. C. lo ha espresso nella sentenza del 18.05.2005 n. 18568). 2. “il controllo della rimozione dei ferri spetta all’intera équipe operatoria, cioè ai medici, che hanno la responsabilità del buon esito dell’operazione anche con riferimento a tutti gli adempimenti connessi e non può essere delegato al solo personale paramedico, avendo gli infermieri funzione di assistenza ma non di verifica” (questo principio la Corte lo ha espresso nella sentenza del 26.05.2004 n.39062 e lo ha ribadito nella sentenza ora in esame). Ne consegue che il principio di affidamento non può trovare applicazione poiché, da un lato, i medici mantengono una posizione di vigilanza sull’attività degli ausiliari, dall’altro, perché l’obbligo di controllare la rimozione delle garze e dei ferri, che sono stati usati nel corso dell’operazione, spetta non al solo ferrista, ma all’intera équipe operatoria. Per quanto riguarda, invece, l’altro chirurgo, poteva la sua condotta ritenersi colposa per essersi allontanato dalla sala operatoria prima del termine dell’intervento? I giudici di merito hanno accertato che egli si era allontanato dalla sala operatoria: 109 1. con il consenso del collega, (nella sentenza di merito si legge infatti che la sua presenza fu richiesta in sala operatoria finchè fosse indispensabile); 2. e perché era stata richiesta la sua presenza in reparto, per svolgere delle incombenze più urgenti delle semplici fasi di completamento di un intervento di parto cesareo fino a quella fase perfettamente riuscito; da tali accertamenti doveva escludersi, pertanto, che da parte sua vi fosse stata violazione di una qualche regola cautelare. I giudici di legittimità hanno affermato che pur dovendosi riconoscere l’operatività del principio secondo il quale: “ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio o facendo in modo che si ponga opportunamente rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali e, come tali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio” (principio questo, che chiaramente, si pone come limite al principio di affidamento), nel caso in esame, si doveva tener conto che l’équipe operatoria, si era sciolta anticipatamente. Secondo il S.C. lo scioglimento anticipato: 1. non incide sull’esclusione della colpa e del nesso di causalità, qualora avvenga in un intervento ad alto rischio, senza giustificazioni per chi si allontana e quindi facendo venir meno quel contributo di conoscenze 110 professionali che possono salvaguardare l’incolumità del paziente in presenza di errore altrui. 2. consente invece di escludere la colpa per negligenza e, di conseguenza, l’incidenza causale sull’evento, qualora avvenga in una fase in cui l’intervento può ritenersi, se non concluso, solo da definire con adempimenti della massima semplicità, quali la conta delle garze e dei ferri da rimuovere o già rimossi, e, subito dopo, la sutura della ferita, a conclusione di un’operazione chirurgica perfettamente riuscita, essendo il medico che si allontana giustificato da altre più pressanti ed urgenti attività mediche. Da ciò ne conseguiva che il medico in questione, non poteva essere accusato di aver cooperato alla negligenza, consistita nell’avere lasciato la garza nell’addome della paziente, per il solo motivo di aver fatto parte dell’équipe operatoria, essendo il suo allontanamento giustificato da altre più urgenti attività mediche. La Corte di Cassazione ha quindi individuato, nello scioglimento anticipato dell’èquipe operatoria, qualora sia giustificato, un limite alla colpa che è valso ad escludere la penale responsabilità di uno dei due chirurghi. Responsabilità penale a titolo di cooperazione colposa si è configurata, invece, tra il medico che non si era allontanato dalla sala operatoria ed il ferrista. Le condotte di entrambi i soggetti, erano infatti, sul piano oggettivo, causali e colpose rispetto all’evento; sul piano soggettivo, entrambi i soggetti erano rimproverabili per la violazione di regole cautelari volte ad evitare eventi del tipo di quello verificatosi. Trattandosi inoltre, di un intervento 111 svolto in équipe, era presente l’interazione consapevole delle condotte. Il principio di affidamento invocato dal medico a sua difesa, come già detto, non ha trovato invece applicazione. 112 PARAGRAFO III: SUCCESSIONE NELLA POSIZIONE DI GARANZIA ED ESCLUSIONE DEL PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO Un automobilista, percorrendo una strada in senso vietato, investiva un ciclomotorista, che riportava lesioni e veniva accompagnato in ospedale. Avendo riportato la rottura della milza, lo stesso, era sottoposto ad intervento di splenectomia da parte del primario chirurgo e del suo aiuto. Uscito dalla sala operatoria, veniva sistemato in reparto ed affidato a controllo medico, con l'assistenza degli infermieri. Dopo alcune ore, si riscontrava improvviso aggravamento delle condizioni del paziente, che poco dopo decedeva. In sede di indagini preliminari si individuava la causa della morte in un fenomeno emorragico dipeso da cattiva chiusura della arteria in fase operatoria e non diagnosticato tempestivamente in fase post operatoria. Sia l’automobilista che i sanitari, venivano rinviati a giudizio con l’addebito di cooperazione colposa in omicidio colposo4. Il primo problema che si pone, è quello di accertare se tra il primario, il suo aiuto e l’automobilista, sia configurabile una cooperazione colposa. Prendiamo in considerazione le condotte di ciascuno di detti soggetti e vediamo innanzi tutte se siano, sul piano oggettivo causali e colpose rispetto all’evento. Per quanto riguarda l’automobilista, la sua condotta è causale rispetto all’evento poiché le lesioni riportate dal ciclomotorista, non furono lievi, 4 Cass. pen. Sez. IV, 18.06.1999 (26.05.1999), n. 8006 pres. Viola G. 113 tanto è vero che questi fu sottoposto ad intervento chirurgico per l’asportazione della milza che si era rotta a seguito dell’incidente. Quindi fu la gravità delle lesioni a rendere necessario l’intervento chirurgico. Ciò impediva di riconoscere la successiva colpa medica come situazione eccezionale, atipica, imprevedibile idonea ex art. 41, 2º comma ad interrompere il nesso causale tra la condotta dell’automobilista e la morte dell’uomo. L’automobilista era inoltre in colpa, per aver percorso la strada in senso vietato. Per quanto riguarda la condotta del primario, che sia causale rispetto all’evento, non pare dubbio. Infatti, è vero che la morte era dovuta ad un fenomeno emorragico non diagnosticato tempestivamente nella fase post operatoria, ma l’emorragia era dipesa dalla cattiva chiusura dell’arteria da lui eseguita. Per quanto riguarda invece la colpa, poteva il primario fare affidamento sul fatto che il medico alle cui cure il paziente fu affidato dopo l’operazione, eseguisse il controllo dovuto con scrupolosa attenzione e con diligenza, tanto da accorgersi dell’emorragia (conseguita alla cattiva chiusura dell’arteria) e salvare la vita al paziente (andando quindi a neutralizzare le conseguenze dannose derivate dal comportamento colposo del collega)? La Corte di Cassazione, ha espresso sul punto, due condivisibili principi: 1. in caso di successione in posizione di garanzia, colui al quale altri succeda, non si libera da eventuali responsabilità riconducibili alla sua condotta, facendo affidamento sull’adempimento del proprio dovere da parte del successore; 114 2. non si può ipotizzare affidamento quando colui che si affida sia in colpa per avere violato determinate norme di condotta, e, ciononostante, confidi che altri che gli succede nella posizione di garanzia elimini la violazione e ponga rimedio a conseguenze negative di sua colpa già estrinsecata. Questi due principi, sono altrettanti due limiti al principio di affidamento. Il primario, cioè, non poteva invocare a sua discolpa il principio di affidamento sia perché egli essendo in colpa, (per non aver chiuso bene, a causa di negligenza, l’arteria), non poteva confidare nel fatto che il medico che gli succedeva nella posizione di garanzia, eliminasse la violazione, ponendo rimedio alle conseguenze della sua colpa; sia perché in qualità di garante primario, non si liberava, a causa della successione, da eventuali responsabilità riconducibili alla sua condotta. Per quanto infine riguarda la condotta dell’aiuto del primario, i giudici sia di primo che di secondo grado, hanno affermato che vi fu anche sua colpa, nonostante che alla difettosa chiusura del vaso sanguigno aveva proceduto materialmente il primario. All’aiuto fu contestato di non essersi attivato per ovviare all’errore commesso dal capo équipe. Poteva l’aiuto primario, invocare il principio di affidamento nei confronti del suo superiore? Al riguardo, la Corte di Cassazione, ha enunciato due condivisibili principi: 1. l’errore materiale di uno dei compartecipi, avallato e non corretto da un altro componente dell’équipe presente, partecipe e corresponsabile, nella libera distribuzione di compiti in una operazione effettuata in 115 coppia, è sostegno di colpa anche del secondo componente, pur non avendo costui commesso in concreto l’errore materiale causa dell’evento lesivo. 2. La corresponsabilità dell’èquipe chirurgica, anche omissiva per qualcuno dei componenti, è insita nel significato e nella funzione dell’équipe: se questa è ritenuta necessaria ed utilizzata per una determinata operazione ed evidentemente per il grado di difficoltà della operazione, non può prescindersi dalla assunzione di responsabilità da parte di tutti i componenti dell’équipe e non può valutarsi la colpa come se l’operatore sia uno solo. Questi due principi escludono che il principio di affidamento possa operare a favore del medico che, pur avendo preso parte all’équipe, non abbia posto materialmente in essere l’errore che è stato causa dell’evento, ma che tuttavia era presente quando l’errore è stato posto in essere e che non si è accorto, per sua negligenza, dello stesso e non lo ha corretto. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha precisato che va verificato e spiegato se l’intervento correttivo, omesso nel contesto operativo, era possibile. Per quanto riguarda l’elemento soggettivo della cooperazione colposa, anche se, tanto l’automobilista che il primario sono entrambi rimproverabili per l’avvenuta violazione di regole cautelari, non sembra che si configuri la consapevolezza di partecipare alla condotta di altri, che insieme con la propria, è stata causa dell’evento non voluto. Piuttosto, sembra essersi verificata, una mera coincidenza di più azioni colpose, causatrici dell’evento, 116 tra loro indipendenti o, quanto meno, non collegate da un vincolo psicologico tra le persone che le hanno commesse. In nessuno dei casi esaminati, il principio di affidamento è riuscito a trovare concreta applicazione, poiché, i giudici tanto di legittimità che di merito, vuoi per la pericolosità connessa ad ogni intervento chirurgico, vuoi per l’importanza dei beni giuridici coinvolti, hanno sempre finito per individuare dei limiti all’operatività dello stesso. 117 COOPERAZIONE COLPOSA E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO IN MATERIA ANTINFORTUNISTICA PREMESSA Nel capitolo secondo si è visto come nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, di fatto, il principio di affidamento non riesca mai ad eludere la colpa del datore di lavoro, qualora si verifichi un infortunio sul lavoro, in danno del dipendente. Ciò, si è detto, è dovuto in primo luogo, al fatto che il datore di lavoro riveste una posizione di garanzia nei confronti del lavoratore, avente per contenuto il controllo della rispondenza della condotta del prestatore d’opera alle regole di diligenza delle quali il medesimo è destinatario, ed ha per di più, l’obbligo di proteggere il lavoratore, attraverso l’adozione delle misure antinfortunistiche richieste dalla legge, dalla sua stessa negligenza, imprudenza ed imperizia. Tuttavia, è possibile che il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, non sia diretto. Potrebbe darsi, cioè, che il datore di lavoro si trovi a capo di una struttura imprenditoriale articolata e complessa e che quindi si renda necessaria una ripartizione organizzativa di compiti da affidare a dei collaboratori. Qualora, infatti, l’imprenditore fosse personalmente tenuto ad adempiere a tutta la serie di obblighi imposti dalla legislazione del lavoro, è stato giustamente osservato, che si determinerebbe la trasformazione della 118 funzione imprenditoriale in una mera attività amministrativa, dalla quale resterebbe forzatamente estranea l’organizzazione dei fattori della produzione, che pure ne è il momento caratterizzante non solo sul piano economico, ma su quello dei valori giuridici. Il titolare dell’impresa, pertanto, non potendo abbracciare tutti i settori della complessa organizzazione aziendale, si può trovare nella necessità di delegare alcune attività, creando delle posizioni di garanzia sostitutive. Ed è qui che si inserisce il problema della delega di funzioni. Con il presente lavoro non si intende cercare di sciogliere tutti i nodi problematici che, soprattutto in dottrina, sono emersi sull’argomento1, ma solo stabilire che tipo di rapporto intercorra tra la delega di funzioni ed il principio di affidamento in materia antinfortunistica e cioè stabilire se il delegante, di 1 Tuttavia, si tiene a sottolineare che da illustre dottrina (MANTOVANI, il principio di affidamento nella teoria del reato colposo) il principio di affidamento viene ad essere utilizzato per dare un fondamento dogmatico all’esenzione da responsabilità dell’obbligato primario – delegante, purchè la delega sia valida ed efficace sia nel suo momento genetico ( perchè diversamente non sorgerebbe neppure una legittima aspettativa), sia nel suo momento funzionale (perchè altrimenti l’aspettativa stessa verrebbe meno): “sicchè, tanto nei casi nei quali l’aspettativa promanante la detta disciplina sia bloccata nella sua insorgenza dall’assenza della possibilità di ottemperarvi dal suo destinatario; quanto in quelli in cui essa venga rimossa da circostanze concrete atte a comprovare il suo mancato rispetto, la riconoscibilità dell'inosservanza della disciplina de qua, da parte di coloro che ne sono destinatari, si traduce per il garante primario in via mediata, ossia per il tramite della riconoscibilità dell'inadempimento degli obblighi che tale disciplina riversa sui garanti ulteriori, nella riconoscibilità degli eventi che l'effettivo assolvimento di quegli obblighi era preordinato a prevenire. In tale prospettiva, la delega esclude la colpa del garante originario, a favore del quale l'affidamento sia valutabile, mentre non vale ad escluderlo dal novero dei destinatari del precetto penale; inoltre, «... l'obbligo del garante primario di intervenire a fronte delle conosciute o conoscibili violazioni del c.d. delegato, lungi dal potersi identificare a priori come un "residuo non delegabile" (del contenuto) dell'obbligo facente capo al garante originario-delegante, non rappresenta alcunché di diverso dal risultato prodotto, in capo al medesimo, dal venir meno di un affidamento tutelabile circa l'effettiva osservanza, da parte di un garante ulteriore, della disciplina che gli assegna in via esclusiva l'assolvimento di determinati obblighi prevenzionistici. La rimozione di tale affidamento, infatti, non può che comportare la piena riespansione, a suo carico, degli obblighi (di diligenza) distribuiti a mezzo della disciplina, della quale è nota, o quantomeno riconoscibile, l'inosservanza». 119 fatto, possa invocare il principio di affidamento a sua discolpa nei confronti del delegato, e se si, quando. Per far questo però, si pone come necessario, chiarire, quanto meno, quali siano i requisiti in presenza dei quali, la giurisprudenza ritiene che la delega sia efficace. PARAGRAFO I: I REQUISITI DI EFFICACIA DELLA DELEGA DI FUNZIONI SECONDO LA GIURISPRUDENZA Si è detto che accanto al datore di lavoro agiscano altri soggetti con funzioni sussidiarie; pertanto, in caso di violazione della legge che comporta una responsabilità penale, è necessario verificare se tale responsabilità sia attribuibile in via esclusiva all'imprenditore oppure al dipendente delegato formalmente al controllo e gestione di un determinato settore produttivo, ovvero se tra i due vi sia una responsabilità concorrente. La giurisprudenza ha affrontato e risolto questa problematica con l'istituto della delega di funzioni che si ha quando il garante originario con atto formale attribuisce ad altri soggetti determinate funzioni, quali ad es. garantire il rispetto e l'osservanza della normativa antinfortunistica. Per effetto della delega, il garante originario adempie ai doveri di diligenza che su di esso incombono per il tramite del soggetto delegato. L’operazione è giustificata dalla necessità di realizzare, con soddisfacente approssimazione, una coincidenza tra responsabilità penale e concreta 120 articolazione dei poteri decisionali nelle strutture dotate di una certa complessità. Da un lato, ciò corrisponde ad un evidente interesse delle imprese, quale quello di evitare che il datore di lavoro sia continuamente chiamato in causa per comportamenti o per eventi che ricadono al di fuori della propria sfera di azione, spesso lontana dal momento della produzione e concentrata sulla funzione di amministrazione e di indirizzo generale dell’impresa. Dall’altro, vi è l’esigenza dell’ordinamento di permettere comunque l’individuazione di soggetti responsabili per la eventuale violazione delle disposizioni prevenzionali e per gli infortuni che a queste violazioni sono collegabili. La delega di funzioni comporta l'esclusiva responsabilità del soggetto delegato e la conseguente esclusione di una concorrente responsabilità del delegante soltanto in presenza delle seguenti condizioni-presupposti: a) innanzi tutto occorre un ATTO FORMALE DI DELEGA2 nel quale siano precisati i compiti del soggetto delegato. La Corte di Cassazione, sul punto, si è così espressa: “ il titolare dell'impresa di dimensioni industriali, è esonerato da responsabilità penale quando abbia delegato formalmente, nell'ambito dell'organizzazione dell'azienda, determinati compiti ad un preposto3. Intanto si richiede che la delega, perché possa produrre effetti scriminanti in favore di chi la conferisce, debba essere esplicita. La semplice articolazione organizzativa, con l’affidamento di compiti di direzione o sorveglianza dell’attività produttiva non esime dalla responsabilità il datore di lavoro, in mancanza di una delega specificamente riferita all’attuazione di misure prevenzionali. La delega deve, poi, essere volontariamente accettata dal destinatario. Senza questa consapevole e volontaria assunzione delle attribuzioni delegate non si ha esonero dalla responsabilità penale del delegante. La delega deve essere fatto per iscritto. 3 Cass. Pen. sez. III, 94/198381 2 121 b) La delega di funzioni è ammessa nell'ambito di DIMENSIONI IMPRESE DI NOTEVOLI o nell'ambito di aziende con organizzazione piramidale. Il S.C., al riguardo, ha affermato che: “l'amministratore o il legale rappresentante di una società di notevoli dimensioni deve essere ritenuto esente da ogni responsabilità in merito alle infrazioni ed alle violazioni di legge verificatesi nell'esercizio dell'impresa allorchè, in concreto, egli abbia preposto ai vari servizi e settori soggetti qualificati e idonei”4. c) Il SOGGETTO DELEGATO deve essere tecnicamente sia professionalmente È DELEGATO; PERSONA IDONEA e cioè sia CAPACE DI SVOLGERE L'ATTIVITÀ CUI ciò implica da parte del datore di lavoro non soltanto una particolare attenzione nella scelta del delegato, ma anche il dovere di formare professionalmente il delegato. Solitamente le grandi imprese organizzano corsi di formazione e aggiornamento destinati a quei lavoratori che in base alla particolare funzione a cui sono delegati devono essere resi edotti in merito. Sull'argomento la Suprema Corte così si è espressa: “la responsabilità del datore di lavoro per violazione delle norme antinfortunistiche, viene meno qualora si faccia coadiuvare da un dirigente all'uopo preposto, persona che deve essere tecnicamente affidabile”5; ed ancora: “all'imprenditore che abbia soddisfatto l'obbligo impostogli dall'art. 17 d..P.R. 7/01/56, n. 164, di nominare un preposto per sovraintendere determinate specifiche operazioni, designando una persona capace ed idonea a sostenere il 4 5 Cass. Pen. sez. IlI 961172040 Cass. Pen. sez. IV, 611011995, n. 12297 122 ruolo assegnatogli, non può essere addebitato l'evento dannoso che si sia verificato per inosservanza delle disposizioni che regolano quelle specifiche operazioni”6. Sempre il S.C. ha statuito che “in tema di infortunio sul lavoro l'imprenditore non va esente da responsabilità penale solo perché abbia delegato ad un capo cantiere l'apprestamento delle antinfortunistiche, dovendo comunque dimostrare che la persona delegata sia qualificata e capace7”; ed ancora: “in materia di responsabilità colposa, il committente dei lavori dati in appalto deve adeguare la sua condotta a due fondamentali regole di diligenza e prudenza: a) scegliere l'appaltatore e più in generale il soggetto al quale affida l'incarico, accertando che la persona a cui si rivolge sia non soltanto munita dei titoli di idoneità prescritti dalla legge, ma anche della capacità tecnica e professionale, proporzionata al tipo astratto di attività commissionata ed alle concrete modalità di espletamento della stessa8”. Oltre alla idoneità tecnica e professionale del delegato, occorre che il datore di lavoro fornisca tutti gli strumenti tecnici necessari affinché il delegato possa assolvere alle funzioni cui è preposto. Infatti, proprio in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la giurisprudenza ha sempre riconosciuto la responsabilità dell'imprenditore, a prescindere dall'eventuale delega, quando l'infortunio è da attribuire non tanto all'attuazione di questa o di quella misura, ma più in generale ad una situazione di assoluta Cass. Pen. sez. IV, 10/3/1995, n.4432 Cass. Pen. sez. IV, 1810311986 8 Cas. Pen. sez.II 921189173 6 7 123 inadeguatezza degli impianti in relazione alle esigenze di tutela della integrità fisica dei lavoratori. d) Il soggetto delegato deve avere GARANZIA. DI FATTO ASSUNTO LA POSIZIONE DI Sull'argomento la giurisprudenza non è unanime in quanto un orientamento ritiene necessario che la delega si traduca in un atto formale, mentre altro orientamento giurisprudenziale (minoritario) attribuisce responsabilità penale al delegato anche in assenza di delega formale. In tal senso si è espressa la Pretura di Tolmezzo, che ha ritenuto essere responsabile del reato di cui agli artt. 590 c.p. e 7 d.lg. n. 626/'94 il soggetto che, pur senza essere investito di delega da parte del datore di lavoro, svolga le funzioni di preposto ed abbia assunto in concreto il compito di accompagnare un lavoratore autonomo in un sopralluogo al fine di predisporre un preventivo di spesa. e) Condizione strettamente collegata al presupposto di cui sopra, affinché si possa parlare di esclusiva responsabilità penale del soggetto delegato, è che questi agisca con la massima autonomia, nel senso che al delegato devono essere trasferiti tutti i poteri concernenti l'organizzazione del settore produttivo cui è preposto ovvero tutti i poteri in ordine all'espletamento delle funzioni cui è delegato; ciò implica che il datore di lavoro non deve ingerirsi nelle mansioni affidate al delegato. Il concetto di autonomia comprende anche la disponibilità, da parte del delegato, dei mezzi finanziari necessari per l'espletamento dei poteri attribuitigli. In assenza di tale autonomia di spesa, rimane comunque l'esclusiva responsabilità del delegato solo 124 qualora questi non si attivi per richiedere a chi ha poteri di spesa l'acquisto di ciò che serve per garantire la sicurezza sul luogo di lavoro. In tal senso si è espresso il T.A.R. Umbria, che ha ritenuto che: “il dipendente nominato "datore di lavoro" ai sensi del d.lg. 626/'94 e dunque responsabile della sicurezza sul lavoro dei propri subordinati, qualora disponga di poteri di gestione ma non di autonomia di spesa, potrà incorrere in responsabilità solo ove non richieda a chi ha poteri di spesa l'acquisto di ciò che serve per scongiurare incidenti 9”. Questo è anche l’orientamento seguito dalla Corte di Cassazione, che così si è espressa: “in tema di lesioni colpose per violazione di norme antinfortunistiche qualora la Corte di Cassazione, ai fini dell'accertamento della responsabilità del direttore dello stabilimento ovvero del capo reparto sub delegato, abbia richiesto al Giudice di rinvio di accertare se il predetto direttore aveva il potere di organizzare diversamente il lavoro, disponendo dei necessari mezzi finanziari, ed il Giudice di rinvio abbia accertato che tali mezzi economici erano nella disponibilità del direttore dello stabilimento (per i poteri attribuitigli dal regolamento aziendale e per l'ampiezza della preposizione institoria), escludendo che il subdelegato godesse di capacità di spesa e disponibilità finanziaria, è irrilevante accertare quali fossero i compiti del capo reparto, la cui responsabilità resta esclusa per l'indisponibilità dei mezzi finanziari”10. Ed ancora, il Pretore di Milano, ha statuito che: “il legale rappresentante ed amministratore delegato di un grande 9 T.A.R. Umbria 11/11/1998 n.1032 Cass. Pen. sez. III, 15/12/1997, n. 1769 10 125 gruppo industriale non è responsabile per l'infortunio di un dipendente verificatosi in uno stabilimento periferico e causato dalla mancanza di un dispositivo di protezione, quando vi sia un responsabile dell'unità produttiva che sia dotato di un budget di cui possa autonomamente disporre”11. Orbene, solo in presenza delle cinque condizioni sopra esposte, la responsabilità del delegato fa venire meno la concorrente responsabilità dell'imprenditore (delegante). Tuttavia è necessario precisare che, anche nell'ipotesi di delega di funzioni la responsabilità dell'imprenditore non viene meno se egli non osserva il potere-dovere di controllo sull'operato dei propri dipendenti, ciò a cui è sempre tenuto in quanto (dominus) titolare dell'impresa, ovvero se è a conoscenza di inadempimenti del soggetto delegato e non vi pone rimedio12. In tal senso si è espressa la Corte di Cassazione: “la responsabilità del datore di lavoro per violazione delle norme antinfortunistiche, qualora si faccia coadiuvare da un dirigente nel controllo delle modalità di esecuzione del lavoro e in quello per il rispetto delle citate norme, viene meno solo se … controlli che colui al quale ha conferitola delega la usi concretamente”13; ed ancora : “sull'imprenditore stesso incombe l'obbligo di controllare che la persona capace e qualificata da lui delegata adempia regolarmente alle funzioni delegategli”14. Pretore di Milano 4/11/1998 Non avendo la delega una rilevanza scriminante in ordine alla posizione del dante causa, questi conserva la propria qualità di garante in ordine al rispetto della normativa in materia di sicurezza del lavoro: muta semplicemente il contenuto dell’obbligo, che diviene quello di vigilare acchè i dipendenti non si sottraggano all’adempimento delle prescrizioni e degli ordini ricevuti. 13 Cass. Pen. sez. IV, 6/10/1995, n.12297 14 Cass. Pen. sez. V, 85/090614 11 12 126 PARAGRAFO II: DELEGA DI FUNZIONI E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO Qualora si accerti che, di fatto, tutti i sopra enunciati requisiti di efficacia della delega siano presenti, sembra logico poter concludere che il delegante, potrà confidare sul fatto che il delegato, adempia con diligenza alle funzioni che gli sono state delegate, nel rispetto delle norme antinfortunistiche a lui rivolte, senza avere, quindi, il dovere di prevedere i comportamenti colposi del delegato e di neutralizzarne le conseguenze. Dall’esame di casi pratici15, sembra però, che i giudici per affermare la responsabilità penale del delegante, si preoccupino di accertare che la delega, nel caso di specie, sia priva di uno o più degli elementi necessari alla sua efficacia, senza ricorrere al principio dell’affidamento, che viene invocato, invece, solo nella relazione tra datore di lavoro o suo alter ego e lavoratore, ma che, come già detto nel capitolo secondo, non riesce mai a trovare concreta applicazione. Così ad esempio, in un caso, nel quale un operaio mentre lavorava sospeso su di una impalcatura, era precipitato dalla stessa ed era morto. Furono imputati nel delitto di omicidio colposo il presidente dell’impresa edile, il direttore generale, il direttore dei lavori ed il capo cantiere. I giudici di merito, ritennero la penale responsabilità del presidente, che aveva ritenuto di rispettare la norma che gli imponeva l’attuazione delle misure di sicurezza Cfr: Cass. Sez. IV, 22 aprile 2004, n. 18638 pres. Battisti; Cass. pen. Sez. IV, 2 ottobre 2003, n. 37470, pres. Olivieri; Cass. pen. Sez. IV, 31 dicembre 2003, n. 49492, Dessì ; Cass. Pen. Sez IV, 2 ottobre 2003, n. 37470, Boncompagni; pretura penale di Milano, 18 marzo 1993; Pretura pen. Milano 16 aprile 1996, Tanara; Pretura pen. Roma, 18 ottobre 1984, Fiasconaro; Cass. pen. Sez. IV, 28 aprile 1990, n. 6201; Amendola; Cass. pen. Sez., IV, 31 marzo 1990, n. 4437 15 127 in un cantiere dove operavano oltre 300 persone, occupante un’area di alcuni ettari, delegando a tal fine un semplice geometra (con la qualifica di capo cantiere) il quale, non solo non poteva essere, secondo i giudici, responsabilizzato poiché rivestiva la qualità di preposto e non di dirigente, ma non avrebbe comunque potuto svolgere tale funzione sia perché incaricato di numerose altre incombenze, sia perché, in pratica, tale funzione era inadeguata alle sue concrete possibilità, sia in ultimo perché, sottoposto all’autorità di altre persone, in ogni caso nessuna iniziativa avrebbe potuto adottare per l’attuazione delle misure antinfortunistiche, che, per la loro estensione e complessità, non potevano che riguardare in ultima analisi l’organizzazione del lavoro di tutto il cantiere. Secondo i giudici, inoltre, la delega di funzioni antinfortunistiche contenuta nel mandato del capo cantiere, non solo era illegittima, ma risultava puramente formale e tesa solo a creare una sorta di “capro espiatorio” nel caso fossero accaduti infortuni sul lavoro. Considerazioni analoghe, secondo i giudici potevano essere fatte per il direttore dei lavori che pur avendo la qualifica di dirigente come direttore di cantiere, in pratica, non aveva ricevuto alcuna attribuzione specifica di mansioni antinfortunistiche, ma solo attribuzioni connesse all’andamento produttivo dell’azienda. Per quel che riguardava invece il direttore generale, per sua stessa ammissione, aveva avuto “carta bianca” dal presidente e in tale sua posizione i giudici ritennero che avesse la concreta, effettiva e sostanziale possibilità di provvedere alle misure antinfortunistiche che erano state, di fatto, disattese. 128 Tale responsabilità, tuttavia, non esimeva quella del presidente, che consapevole della posizione inadempiente assunta dal direttore generale, avrebbe dovuto intervenire per ristabilire nel cantiere, e nell’azienda tutta, un principio di legalità per il rispetto delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro. Secondo i giudici, non riconoscere questo obbligo del presidente, equivaleva a consentirgli, a dispetto di ogni logica ed equità, di determinare previamente un responsabile per eludere gli obblighi che gli competevano direttamente per legge. Considerando che, nel caso de quo, i giudici di merito hanno individuato i seguenti criteri di attribuzione di responsabilità o corresponsabilità in tema di infortuni sul lavoro : “1) la delega da parte dell’imprenditore deve essere vera ed effettiva, tale da comportare il trasferimento di tutti i poteri dell’imprenditore e deve riguardare un intero settore o unità produttiva; 2) la delega deve essere tale da escludere un’effettiva partecipazione dell’imprenditore all’organizzazione del lavoro; 3) la delega deve essere fatta a persona qualificata, cioè a persona idonea e competente; 4) l’imprenditore non deve comunque essere a conoscenza della mancata osservanza delle misure antinfortunistiche nel settore affidato ad altri16”, ne consegue che la Di recente la Corte di Cassazione ha statuito che: “ in materia di infortuni sul lavoro, gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro, possono essere delegati, con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al datore di lavoro. Tuttavia, il relativo atto di delega deve essere espresso, in equivoco e certo e deve investire persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento che abbia accettato lo specifico incarico, fermo comunque l’obbligo per il datore di lavoro di vigilare e di controllare che il delegato usi poi concretamente la delega secondo quanto la legge prescrive. Così Cass. pen. Sez. IV 12.01.2005 n. 12230 ed ancora : « la responsabilità del datore di lavoro per violazione delle norme antinfortunistiche, qualora si faccia coadiuvare da un dirigente nel controllo delle modalità di esecuzione del lavoro ed in quello per il rispetto delle citate norme, viene meno solo se trasferisca alla persona nominata, che deve essere tecnicamente affidabile, i suoi poteri 16 129 delega conferita al capo cantiere, non poteva essere efficace per mancanza dei detti requisiti, pertanto, in via di principio, il presidente, non avrebbe potuto invocare il principio di affidamento a sua discolpa nei confronti del preposto. Per quel che riguarda, poi, la delega conferita al direttore del cantiere, anche questa doveva considerarsi inefficacie e pertanto, il principio di affidamento, qualora invocato, non sarebbe valso ad escludere la colpa del presidente. I giudici, tuttavia, sono giunti ad affermare la responsabilità del presidente ed ad assolvere il capo cantiere e il direttore del cantiere, dopo aver accertato che la delega conferita era priva dei suoi fondamentali requisiti. Pertanto, sempre in linea di principio, si può dire che l’assenza di tutti i criteri di efficacia della delega, funga da limite al principio di affidamento. In un altro caso, un dipendente, durante i lavori di costruzione di una galleria, si era posto alla guida di una pala meccanica, ed aveva effettuato lo scarico della terra dall’alto di un attiguo viadotto. Durante uno scarico, la pala meccanica si era ribaltata ed era precipitata da una altezza di circa m. 7, trascinando il dipendente che era stato schiacciato dal pesante mezzo ed era deceduto. Venivano tratti a giudizio il procuratore generale della società e direttore dei lavori, il direttore del cantiere ed il capo imbocco del cantiere, per rispondere, a titolo di cooperazione, di omicidio colposo. In primo ed in anche in tema di osservanza delle disposizioni in materia di infortuni sul lavoro. Così App. Milano Sez. II 17.06.2005 la Corte di Cassazione, inoltre, ha affermato che “in materia di infortuni sul lavoro, il principio in forza del quale il datore di lavoro può trasferire la propria posizione di garanzia circa gli obblighi di prevenzione e sorveglianza imposti dalla normativa antinfortunistica solo attraverso un provvedimento formale di delega ad altro soggetto subentrante con esplicita indicazione delle funzioni ed esplicita accettazione, va contemperato, quando tale principio debba trovare attuazione in un’impresa di grandi dimensioni, con la necessità di accertare, in concreto, l’effettiva situazione della gerarchia delle responsabilità all’interno delle posizioni di vertice, così da verificare la predisposizione, da parte del datore di lavoro di adeguato organigramma dirigenziale ed esecutivo il cui corretto funzionamento esonera l’imprenditore da responsabilità di livello intermedio e finale”. 130 secondo grado tutti gli imputati furono assolti per non aver commesso il fatto, in quanto i giudici ritennero che, da parte loro, non fosse stata violata alcuna norma antinfortunistica e che la responsabilità dell’accaduto fosse da addebitare esclusivamente alla colpa della vittima. La Corte di Cassazione ha ritenuto invece che al procuratore e legale rappresentante della società spettava l’obbligo di adottare le misure volte ad assicurare la stabilità della pala meccanica, trattandosi di misura che andava adottata a livello direttivo ed organizzativo fin dall’apertura del cantiere quando si acquistano e si introducono le macchine e si creano i turni di lavoro e le condizioni per lo scambio delle mansioni. Secondo i giudici di legittimità, la Corte di merito aveva escluso apoditticamente la responsabilità del procuratore della società, senza aver dato la dimostrazione precisa ed in equivoca della devoluzione ad un collaboratore qualificato delle incombenze direttive, in particolare, di quelle relative all’adozione delle misure antinfortunistiche. Poiché a volte, ha ritenuto la S.C., la delega delle mansioni può essere artificiosa e diretta soltanto ad esonerare il titolare dell’impresa dalla personale osservanza di norme penalmente sanzionate, occorreva accertare che la eventuale delega fosse la conseguenza della effettiva organizzazione dell’impresa e che al delegato fossero conferiti i più ampi poteri organizzativi e decisionali con la fornitura dei mezzi per attuare gli incarichi. Nel caso in esame non risultava, inoltre, che il capo cantiere ed il capo imbocco del cantiere fossero stati gli alter ego dell’imprenditore e neppure che fossero dei dirigenti inferiori dotati di ampi poteri per impedire che il lavoro potesse svolgersi in spregio alle norme infortunistiche. Essi non 131 potevano, pertanto, aver assunto l’obbligo dell’imprenditore di adottare tutte le misure che erano necessarie per la tutela dell’integrità fisica dei lavoratori ma avevano soltanto il dovere di sorvegliare l’esecuzione del lavoro ed assicurare l’uso concreto dei mezzi antinfortunistici specie di quelli già predisposti o derivanti dalle condizioni di pericolo in cui si svolgeva il lavoro17. Il S.C. ha statuito, a riguardo, che “ le attribuzioni e le competenze relative all’attuazione delle misure di sicurezza possono di fatto competere anziché al titolare dell’impresa sociale ai dirigenti ed ai preposti, ma, ai fini dello spostamento della responsabilità occorre che in concreto sia chiaramente dimostrata la devoluzione dall’imprenditore ad un collaboratore dell’impresa delle incombenze direttamente inerenti all’adozione e sorveglianza delle misure di prevenzione. Inoltre, la devoluzione deve essere anche conseguenza della effettiva organizzazione del lavoro dell’impresa e deve essere fatta in favore di delegato esperto al quale bisogna conferire poteri e mezzi per l’attuazione dei compiti.” Nel caso di specie, una tale dimostrazione mancava, pertanto il procuratore della società, non avrebbe potuto addurre a sua discolpa il principio di affidamento nei confronti del dirigente di cantiere e del capo cantiere, per non avergli devoluto quelle funzioni direttamente inerenti all’adozione delle 17 La Corte di Cassazione, in un caso di infortunio occorso all’addetto alla macchina denominata “lupa” durante l’operazione di “lisciatura manuale effettuata durante il funzionamento della macchina stessa, secondo una prassi illegittima instaurata in fabbrica con il tacito assenso del preposto, in violazione della prescrizione ex art. 49 commi primo e terzo d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547, ha statuito che: “in tema di prevenzione infortuni, il datore di lavoro deve controllare che il preposto, nell’esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli; ne consegue che, qualora nell’esercizio dell’attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi contra legem, foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di lesioni colpose aggravata dalla violazione delle norme antinfortunistiche”. Così Cass. pen. Sez. IV 22 aprile 2004. 132 misure antinfortunistiche. Anche in questo caso, pertanto, seppur in via astratta, l’inefficacia della delega di funzioni si configura quale limite al principio di affidamento. In un altro caso, ancora, un operaio era salito su di un tubo, collocato a notevole altezza ed inidoneo a sostenerlo nell’esecuzione del lavoro che gli era stato assegnato e rientrante nell’ambito dei suoi compiti e funzioni. Mentre l’operaio era intento a svolgere il suo lavoro in piedi sul tubo, questo cedeva e l’operaio cadeva riportando lesioni personali gravi. Venivano rinviati a giudizio il dirigente responsabile della sicurezza ed il preposto. I giudici di merito hanno ritenuto che senza dubbio, era da ritenere la penale responsabilità dell’obbligato alla sicurezza per aver dato l’ordine generico di compiere un’operazione complessa e rischiosa; per aver omesso di predisporre l’analisi ed il progetto delle sequenze operative al fine di valutare la praticabilità nei termini di sicurezza imposta della legge; per aver abbandonato il lavoratore nella fase in cui più attenta doveva essere la soprintendenza dell’obbligato alla sicurezza. Per quanto riguarda il preposto, questi, invece, fu assolto per non aver commesso il fatto poiché i giudici hanno ritenuto che: “in caso di fatto colposo commesso con la violazione delle norme antinfortunistiche, la responsabilità degli imprenditori dirigenti, sovraintendenti alle attività lavorative non è ravvisabile solamente quando i compiti organizzativi siano stati effettivamente delegati ad altra persona qualificata e capace, che abbia liberamente accettata la delega e sempre che tale delega risulti giudizialmente provata. Nel caso di specie tale delega a persona idonea ed accettante era risultata sfornita di ogni prova. In 133 particolare nessun cenno alla competenza tecnica del preposto ed alla effettività dei suoi compiti di intervento. Non emergeva la prospettazione di una seria preparazione delle operazioni più complesse a cura di un idoneo soggetto tecnicamente preparato. In definitiva, il preposto non era apparso in condizioni di effettivamente dirigere l’attività dei lavoratori. Anche in questo caso, quindi, il dirigente, non avrebbe potuto invocare a sua discolpa il principio di affidamento, non avendo conferito al preposto una efficace delega. Si può ribadire, pertanto, che la mancanza dei requisiti necessari all’efficacia della delega funge da limite al principio di affidamento. In un altro caso, infine, un operaio di una ditta subappaltatrice dei lavori di rifacimento di una facciata di un edificio di civile abitazione, in ossequio ad una prassi invalsa nel cantiere, veniva sollevato mediante un argano elettrico destinato esclusivamente al carico e scarico dei materiali, da tale condotta ne derivava la morte per caduta del dipendente. Imputati, per il delitto di cui all’art. 589.2 comma c.p. in cooperazione colposa tra loro (ex. Art. 113 c.p.) furono: l’amministratrice della società, il capocantiere e l’appaltante. I giudici di merito, hanno ritenuto che la legale rappresentante della impresa sub appaltatrice, pur essendo priva di personale competenza tecnica in materia di sicurezza, fosse responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, per aver trascurato di conferire ad una persona provvista dei necessari requisiti, un’apposita delega per l’apprestamento delle prescritte misure prevenzionali e per l’esercizio di un’adeguata vigilanza sulla loro effettiva applicazione, così indirettamente consentendo che venissero adottate in 134 cantiere, per difetto di opportuni controlli, manovre e prassi irregolari (sollevamento di persone con apparecchiature inidonee) da cui è derivata la morte di un lavoratore. Inutilmente quindi l’imputata, avrebbe potuto invocare a sua difesa il principio di affidamento, essendo del tutto mancante una delega di funzioni. Corresponsabile dell’evento mortale fu sia il capo cantiere della ditta subappaltatrice, il quale, in qualità di preposto di fatto, pur essendo consapevole della pericolosità di una manovra irregolare eseguita mediante l’impiego di un’apparecchiatura inidonea, non era intervenuto ad impedirla, ma anzi l’aveva favorita con il proprio tacito consenso, che il committente, il quale si era ingerito nello svolgimento dei lavori e, pertanto, aveva di fatto assunto la responsabilità all’interno del cantiere soprattutto in ordine all’osservanza della normativa antinfortunistica. A riguardo i giudici hanno statuito che: “benché per l’esecuzione dei lavori oggetto d’appalto o subappalto, l’obbligo dell’apprestamento delle misure prevenzionali richieste dalla legge gravi sull’impresa appaltatrice o subappaltatrice, tuttavia, qualora la ditta appaltante o subappaltante, oltre a fornire una parte delle apparecchiature, si ingerisca attraverso un proprio direttore di cantiere nell’organizzazione, direzione e controllo dei lavori appaltati, non può, ritenersi esente da responsabilità per avere omesso di impedire l’esecuzione di manovre pericolose di cui aveva conoscenza e da cui poi è derivata la morte di un operaio della ditta sub appaltatrice”. Il committente, pertanto, non avrebbe potuto invocare a sua discolpa il principio di affidamento nei confronti dell’impresa subappaltatrice, poiché si 135 era ingerito nella direzione e nel controllo dei lavori appaltati. Su di lui gravava l’obbligo di impedire l’esecuzione di manovre pericolose delle quali aveva conoscenza, obbligo al quale non aveva adempiuto. Dal caso in esame, si può evincere, che un ulteriore limite al principio di affidamento può essere individuato nella ingerenza nella direzione e nel controllo dei lavori appaltati, sicchè l’impresa committente non potrà più difendersi affermando che grava sull’impresa appaltatrice l’obbligo di apprestare le misure di prevenzione richieste dalla legge e che quindi confidava nel fatto che quest’ultima avesse con diligenza adempiuto ai suoi doveri, qualora si ingerisca nell’organizzazione esecuzione e controllo dei lavori appaltati. 136 COOPERAZIONE COLPOSA E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO NELLA CIRCOLAZIONE STRADALE PREMESSA In materia di circolazione stradale, è più probabile che un incidente sia cagionato da un concorso di cause colpose indipendenti, piuttosto che dalla cooperazione di più persone. Tuttavia, i giudici di legittimità e di merito, si sono occupati di casi di gare di velocità non autorizzate tra autoveicoli o ciclomotori, ed anche di ipotesi di incauto affidamento di veicolo a persona che si sapeva essere priva di patente. Nell’uno e nell’altro caso, si pongono due ordini di problemi: 1. stabilire se, qualora a seguito della gara o dell’ incauto affidamento, si verifichi un incidente a cui consegua la morte o le lesioni personali di terzi, coloro che hanno preso parte alla gara di velocità da un lato, l’affidante e l’affidatario dall’altro, siano imputabili pur il delitto loro ascritto a titolo di cooperazione colposa. 2. Stabilire da un lato, se coloro che hanno preso parte alla gara di velocità, ma non hanno materialmente cagionato l’incidente, possano a propria discolpa invocare il principio di affidamento, nei confronti di chi invece ha materialmente cagionato l’incidente; dall’altro se l’affidante possa invocare a sua discolpa il principio di affidamento nei confronti dell’affidatario. 137 PARAGRAFO I: GARA DI VELOCITÀ E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO Iniziando dal primo problema, e con riferimento alla gara di velocità, i giudici tanto di merito che di legittimità, sono sempre giunti ad accertare che le condotte dei partecipanti, sul piano oggettivo, sono causali e colpose rispetto all’evento. Che la condotta di chi cagiona materialmente l’incidente lesivo o mortale, sia causale rispetto all’evento, non pare dubbio, infatti eliminandola mentalmente, l’evento viene meno. Che la stessa condotta sia anche colposa, è dimostrato dal fatto che sempre, in questi casi, vengono superati, da parte di tutti i gareggianti, i limiti di velocità consentiti, non viene rispettata la distanza di sicurezza, vengono compiute manovre pericolose (come il sorpasso in curva, o l’invasione dell’opposta corsia di marcia) per cercare di sorpassare il compagno, antagonista nella sfida. La Corte di Cassazione ha precisato che “sfida” significa proprio reciproco incitamento a correre per superare l’avversario e vincere. Per quel che riguarda, invece, la condotta di chi partecipa alla gara, ma non cagiona materialmente l’incidente, potrebbe ritenersi che, la stessa, non sia causale condizionale rispetto all’evento, ma costituisca un contributo di mera agevolazione all’incidente. Non è questo, però, l’orientamento seguito dai giudici sia di legittimità che di merito. Il S.C., ha infatti affermato sul punto che “ se durante una gara di velocità non autorizzata uno dei partecipanti, a causa della velocità eccessiva o comunque, di imprudenti o imperite manovre eseguite nel gareggiare, incorra in un incidente produttivo di danni a sé o a 138 terzi, sussiste la responsabilità anche degli altri partecipanti alla gara, in quanto, in tal caso, si verifica, nell’aspetto di induzione ad un comportamento imprudente, l’ipotesi di cui all’art. 113 c.p., la quale si concreta non soltanto con la partecipazione materiale ma anche con la determinazione o induzione, con qualunque mezzo, al comportamento antigiuridico che, nella ipotesi della gara di velocità, si esprime mediante la vicendevole sollecitazione agonistica che ciascun contendente determina negli altri partecipanti”. Il S.C., in un’altra sentenza ha affermato che “lo sfidato col partecipare alla competizione, col rafforzare il proposito dell’altro all’azione antigiuridica risponde dell’evento cagionato dallo sfidante”, ed ha proseguito, “l’imputato anche se non è stato l’autore materiale dei luttuosi eventi, ne deve rispondere per la sua partecipazione soggettiva alla azione che li ha determinati, per aver prestato adesione alla condotta imprudente e violatrice delle norme del codice della strada”. La Suprema Corte ha statuito anche che: “il fatto che l’imputato non abbia cagionato materialmente lo scontro, non ha nessuna rilevanza per escludere il nesso di causalità ravvisabile ex art. 113 c.p.. Lo stimolo della partecipazione alla gara di velocità e la sua guida altamente imprudente si inseriscono come antecedenti causali dell’evento”. Nel caso di specie, a seguito di una gara di velocità non autorizzata, alla quale presero parte due soggetti, uno alla guida di una Lancia Thema, l’altro alla guida di un Alfa Romeo 164, si verificò un incidente mortale tra la Lancia Thema ed una Lancia Prisma. La prima vettura che percorreva la strada contro mano, era andata ad urtare frontalmente e con estrema violenza, a causa dell’elevata velocità tenuta, la 139 seconda vettura. A seguito della collisione erano deceduti all’istante il conducente della Lancia Tema, il conducente della Lancia Prisma e due trasportati sull’autovettura condotta da quest’ultimo. Al conducente dell’Alfa Romeo fu addebitato di aver cooperato ex art. 113 c.p. nel determinare la collisione tra le due autovetture. Per quel che riguarda poi la colpa, sempre, coloro che partecipano ad una gara di velocità tengono un comportamento altamente imprudente ed inosservante delle norme che regolano la circolazione stradale. La Corte di Cassazione ha affermato che “costituisce motivo di colpa il fatto stesso di accettare una gara di velocità tra veicoli su strada pubblica”. Sempre il Supremo Collegio ha stabilito che “ è ravvisabile la cooperazione nel delitto colposo, a norma dell’art. 113 c.p., nella concorde psichica partecipazione ad una condotta imprudente, negligente ed inosservante di regolamenti ed ordini”. Nella specie, fu affermata la concorrente responsabilità di tutti i partecipanti ad una divisata ed attuata gara di velocità su ciclomotori svoltasi su strada stretta, con fondo accidentato e priva di illuminazione. Per quel che riguarda invece l’elemento soggettivo della cooperazione colposa, ovvero l’interazione consapevole delle condotte, i giudici di merito si sono così espressi: “nella produzione di un evento lesivo la colpa di un soggetto può concorrere con la colpa di un altro soggetto. Se tra le due condotte vi è un legame soggettivo, nel quale sia possibile individuare la presenza dell’elemento psicologico che caratterizza la partecipazione, si ha l’ipotesi della cooperazione colposa prevista dall’art. 113 c.p.. Se, invece, tra i vari soggetti manca la consapevolezza di agire in comune, si ha l’ipotesi delle 140 cause colpose indipendenti e ciascuno degli agenti risponde dell’evento colposo realizzato nei limiti del proprio rapporto”. Applicando esattamente questi principi, ad un caso nel quale, a seguito di gara di velocità tra due autoveicoli, su strada pubblica, una delle due autovetture in gara, nel percorrere una curva a velocità eccessiva, aveva sbandato, abbattuto la rete di protezione e precipitata in mare, fatto al quale era conseguito la morte del conducente e del trasportato, i giudici ritennero che l’imputato (ovvero il conducente dell’altra autovettura in gara) accettando la sfida e gareggiando, aveva contribuito a porre in essere una situazione di pericolo, ed aveva coscientemente e volontariamente aderito alla inosservanza di regole di comune prudenza e diligenza quali quelle di non procedere ad una velocità eccessiva non consentita dalle condizioni del luogo e dalla tortuosità e angustia del percorso. La Corte di Cassazione ha affermato in un'altra sentenza che “la cooperazione nel delitto colposo di cui all’art. 113 c.p. si verifica quando più persone pongono in essere una data autonoma condotta nella reciproca consapevolezza di contribuire all’azione od omissione altrui che sfocia nella produzione dell’evento non voluto”. Questo principio è stato applicato in un caso, nel quale i giudici di merito dedussero che si fosse svolta una gara di velocità, dall’altissima velocità tenuta dai due veicoli che vi presero parte, velocità di gran lunga superiore al limite dei 60 km/h; dalla circostanza che uno dei due veicoli aveva invaso l’opposta corsia di marcia, chiaro segno di volere sorpassare l’altro automezzo; dal fatto che le due vetture si tallonavano fra loro, a brevissima distanza l’una dall’altra; dall’inosservanza della 141 distanza di sicurezza. I giudici ritennero che ciascun partecipe fosse ben consapevole che la propria azione confluiva nell’azione altrui che determinò l’evento non voluto. Condivisibile secondo i giudici di legittimità, è poi l’esclusione della necessità di un accordo preventivo tra i soggetti, potendo una gara di velocità essere nata anche estemporaneamente sulla strada1. In definitiva, ogni qual volta, duo o più soggetti, prendono parte ad una gara di velocità non autorizzata, non importa se si tratti di una decisione programmata o attuata per emulazione nel corso della guida, qualora si verifichi un incidente lesivo o mortale, sempre si configura una responsabilità a titolo di cooperazione colposa di tutti i partecipanti. Rimane da dire sul secondo problema esposto all’inizio del presente capitolo e cioè: coloro che non hanno cagionato materialmente l’incidente, possono invocare a propria discolpa il principio di affidamento? In altri termini, può il principio de quo servire ad escludere la colpa di chi partecipa alla gara, ma non cagiona materialmente l’incidente? Alla domanda deve essere data risposta negativa, infatti avendo più sopra, messo in evidenza che sempre tutti i partecipanti violano delle norme di prudenza e di diligenza, ne consegue che in questi casi sempre verrà ad operare un limite al principio di affidamento e cioè: il principio di affidamento non può essere invocato quando colui che si affida, sia in colpa per aver violato determinate norme precauzionali o per avere omesso determinate condotte. 1 così Cass. 20.10.1995 n. 100; cass. 14.11.1980 n. 1586; cass 13.10.2004. n.40205 142 PARAGRAFO II: INCAUTO AFFIDAMENTO E PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO Cerchiamo ora di chiarire se le conclusioni raggiunte in materia di gara di velocità non autorizzata, possono essere estese alle ipotesi di incauto affidamento. Anche con riguardo ai casi di incauto affidamento, per stabilire se tra affidante ed affidatario sia configurabile, nell’ipotesi in cui venga cagionato un incidente mortale o lesivo dall’affidatario ma con il veicolo messogli a disposizione dall’affidante, o del quale l’affidante era tenuto ad impedire l’impossessamento da parte dell’affidatario, una cooperazione colposa, è necessario accertare che sul piano oggettivo le condotte di entrambi siano state causali e colpose rispetto all’evento. Sul piano soggettivo, invece, è necessario accertare che entrambi i soggetti siano rimproverabili per la violazione di regole cautelari, volte a prevenire eventi del tipo di quello verificatosi e che sussista il quid pluris della cooperazione, e cioè l’interazione consapevole delle condotte. Che la condotta dell’affidatario, che pur privo di patente, si ponga alla guida di un autoveicolo, e per imperizia cagioni un incidente a terzi, sia causale rispetto all’evento, non pare dubbio. Andando ad eliminare mentalmente quella condotta, infatti, l’evento viene meno. Che anche, però, la condotta dell’affidante sia condicio sine qua non dell’evento, e prima ancora della condotta dell’affidatario, non è da mettere in dubbio. Andando ad eliminare mentalmente la condotta dell’affidante, viene meno, infatti, la condotta 143 dell’affidatario e quindi l’evento. La condotta dell’affidante, pertanto, si pone come antecedente causale dell’evento. Così si sono orientati i giudici sia di merito che di legittimità, in un caso nel quale un datore di lavoro, aveva affidato la propria autovettura ad un dipendente, pur sapendo che questi era sfornito di patente e stava facendo scuola per conseguirla, affinché si fosse recato a chiamare un tale che si trovava a circa 200/300 m di distanza. L’affidatario durante il tragitto, aveva investito, a causa di imperizia consistita in una mancata e tempestiva azione frenante, un bambino che attraversava di corsa la strada, causandone la morte. In un altro caso poi, è stata ritenuta causale rispetto all’evento la condotta di un padre che aveva omesso di collocare le chiavi del suo motofurgone, in un luogo ove il figlio non avesse potuto trovarle. Il fatto che il padre, con la dovuta diligenza, non avesse evitato che il figlio si impossessasse della chiave, si poneva come antecedente causale dell’evento. Nel caso di specie il figlio, alla guida del motofurgone, aveva per imperizia investito una vespa, cagionando lesioni personali al conducente della stessa. Le condotte, tanto dell’affidante quanto dell’affidatario, inoltre, si pongono sempre in contrasto con regole cautelari volte ad evitare eventi del tipo di quello verificatosi. Per quel che riguarda la condotta dell’affidante, basti pensare che l’incauto affidamento di veicolo a persona sprovvista della patente di guida, integra un fatto contravvenzionale. Non può mettersi, pertanto in dubbio, che tale condotta viola una regola a contenuto cautelare. 144 La Corte di Cassazione, inoltre, in riferimento alla condotta dell’affidante, in un caso in cui un tale, aveva affidato una macchina operatrice di sua proprietà a persona che sapeva senza patente, e a tale incauto affidamento era conseguito l’investimento mortale di un ragazzo, e ciò a causa di imperizia nell’effettuare la manovra di retromarcia, ha ritenuto che “costituisce imprudenza, oltre che inosservanza di leggi scritte, l’affidare una macchina, per la cui guida sia prescritta la patente, a persona che sia priva di essa. Invero, il semplice fatto di mettere la guida di un veicolo a disposizione di una persona non abilitata, costituisce una situazione di pericolo per la incolumità dei cittadini”. Per quel che riguarda poi la condotta dell’affidatario, già integra gli estremi della colpa il mettersi alla guida di un motofurgone, automobile, macchina operatrice, ecc.. pur essendo sprovvisto di patente di guida. I giudici di merito, inoltre, hanno sempre accertato la violazione di qualche altra regola cautelare da parte dello stesso. Così infatti in un caso2 nel quale vennero a collisione un automobile, guidata da persona priva di patente ed una vespa. A seguito dello scontro, il ciclomotorista decedette. I giudici di merito accertarono che il conducente dell’autovettura oltre che essersi messo alla guida dell’auto pur essendo privo di patente, aveva proceduto a velocità eccessiva, non aveva mantenuto la propria destra, aveva invaso l’opposta mezzeria con deviazione a sinistra, non aveva data la precedenza al ciclomotore proveniente da destra. In un altro caso3, i giudici di merito, hanno accertato che l’affidatario era in colpa perché, avendo notato la 2 3 cfr cass. Sez. IV, 14 aprile 1996, in Arch. Giur. Circ. e sin. Strad. 1997 Cfr. Cass Sez. IV 11 marzo 1998 in Giust. Pen. 1999 145 presenza degli agenti della polizia stradale sulla strada provinciale, alla quale era diretto, e temendo di essere colto in flagrante contravvenzione di guida senza patente, effettuò la retromarcia ad elevata velocità e senza prendere minimamente cura di accertarsi della presenza di altri utenti della strada, ponendo, così, in essere una condotta imprudente ed imperita allo stesso tempo. Per quel che infine, riguarda l’elemento soggettivo, sempre i giudici hanno ritenuto rimproverabili i soggetti per la violazione di regole cautelari volte ad evitare incidenti del tipo di quello verificatosi e sempre è stato ritenuto che vi fosse stata la consapevolezza di partecipare alla condotta altrui, che insieme con la propria, fu causa dell’evento non voluto. Sul punto la Corte di Cassazione ha osservato che “ quella di affidamento di veicolo a persona inesperta di guida, è una ipotesi di scuola di cooperazione nel reato colposo derivante dalla guida del veicolo affidato. Nella cooperazione nel delitto colposo, invero, gli autori dell’evento hanno la consapevolezza di contribuire all’azione altrui, altrimenti si ha concorso di cause indipendenti; e nell’affidamento incauto di un veicolo la cooperazione nel delitto colposo ricorre, concretandosi la detta consapevolezza, quando il fatto colposo è derivato da imperizia nella guida”. Per quel che riguarda, invece, il problema dell’applicabilità del principio di affidamento a casi di incauto affidamento, c’è da chiedersi se l’affidante possa a sua discolpa invocare il principio in esame nei confronti dell’affidatario. Anche in questo caso deve essere richiamato un limite al principio di affidamento, ovvero quello per il quale il principio della fiducia non può 146 essere invocato da chi, con una sua condotta già autonomamente qualificabile come negligente, imprudente o imperita, ha provocato egli stesso una reazione scorretta da parte di un terzo. Il criterio in questione ha, lo si ripete ancora una volta, la funzione di delimitare gli obblighi di diligenza che un soggetto è tenuto ad osservare, ma non si può dilatare fino al punto da ritenere che si possa agire imprudentemente affidandosi alla diligenza altrui. A ben guardare, un altro limite al principio di affidamento può essere richiamato e cioè: il principio in questione non può essere invocato in tutte quelle ipotesi in cui le circostanze concrete siano tali da escludere che si possa confidare sul diligente comportamento altrui. Senza dubbio, l’affidante consapevole che l’affidatario sia privo di patente, non potrà confidare in una guida, da parte sua, perita, prudente e diligente. Si può quindi concludere che tanto nelle ipotesi di gara di velocità non autorizzata, quanto nell’ipotesi di incauto affidamento, sempre si configura una cooperazione colposa, qualora a seguito della gara o dell’incauto affidamento venga cagionato un incidente lesivo o mortale, e mai il principio di affidamento riesce a trovare applicazione concreta, perchè sempre si configura qualche suo limite. 147 SECONDA CRITICA ALLA TEORIA DI RISICATO: LA COOPERAZIONE COLPOSA NON PUÒ ESSERE UN LIMITE AL PRINCIPIO DI AFFIDAMENTO Secondo parte della dottrina4, la consapevole interazione tra le condotte dei concorrenti, che nel terzo capitolo si è visto essere l’elemento soggettivo della cooperazione colposa, consentirebbe di superare con slancio e senza residue perplessità il principio di affidamento. La consapevolezza di cooperare con altri, cioè, ponendosi come indispensabile elemento di coesione del fascio di volontà insieme operanti, nella produzione dell’evento, farebbe si che l’intero fatto sia proprio, al tempo stesso, dell’autore e del partecipe e che dunque l’uno non assuma più rispetto all’altro la veste di terzo. Ad esemplificazione di tale assunto, viene fatto l’esempio dell’incauto affidamento: del sinistro causato dalla totale imperizia del guidatore non abilitato, il proprietario (affidante) dell’auto è responsabile, a titolo di concorso colposo, non tanto per il fatto che le circostanze del caso concreto operino da limite al principio di affidamento e facciano sorgere a suo carico un preciso e distinto dovere di prevenzione, quanto piuttosto perché è come se lui stesso, si fosse messo alla guida della propria auto senza essere fornito di patente di guida. In altre parole, il fatto (incidente mortale) grazie all’interazione consapevole delle condotte, diventa “proprio” al tempo stesso, dell’affidante e dell’affidatario, ed è come se l’affidante stesso, si sia messo alla guida della propria auto senza essere fornito di patente. Ecco 4 Cfr: RISICATO, il concorso..cit. pag. 165 ss. 148 allora superato il principio di affidamento, senza bisogno di chiamare in causa i suoi limiti per escludere la sua applicazione. In questo senso la cooperazione colposa, fungerebbe da limite al principio di affidamento. Alla scrivente, sembra che la dottrina qui criticata, riconosca alla consapevole interazione tra le condotte dei concorrenti, la funzione di rendere colposa una condotta che altrimenti non lo sarebbe, poiché, parte dal presupposto che nella cooperazione colposa in un delitto causalmente orientato, si possa configurare una condotta di partecipazione causale rispetto all’evento, ma non colposa, in quanto, non direttamente in contrasto con una regola cautelare specificamente diretta ad evitare eventi del medesimo tipo di quello cagionato, in altre parole, una condotta atipica. Sulla atipicità della condotta nel concorso colposo nei delitti causalmente orientati, chi scrive, ha già avuto modo di dire nel capitolo secondo. Tuttavia, si tiene a ribadire, anche in questa sede, che poichè nella cooperazione colposa nei delitti di evento a forma libera ( ed è in tali fattispecie che il disvalore penale si incentra tutto nella causazione dell’evento lesivo, mentre risultano indifferenti le modalità di condotta concretamente tenute dall’agente) la condotta di partecipazione è sempre causale e colposa rispetto all’evento, ed infatti tanto i giudici di merito che di legittimità, in tutti i casi che sono stati esaminati, hanno ritenuto la penale responsabilità del partecipe solo dopo aver accertato che la sua condotta, autonomamente, si poneva in contrasto con una regola cautelare e mai hanno affermato che è il contesto di cooperazione a rendere penalmente rilevante un contributo di 149 partecipazione irrilevante in chiave monosoggettiva, perchè penalmente neutro, la funzione della consapevole interazione tra le condotte dei concorrenti, non sarà quella di supplire all’atipicità originaria del fatto del partecipe, ma sarà quella più modesta, di distinguere le ipotesi di cooperazione colposa da quelle di concorso di cause colpose indipendenti, con conseguenze di natura esclusivamente disciplinare. Non può essere condiviso, pertanto, l’assunto secondo il quale “in mancanza del contesto consapevole di interazione, la condotta dotata di pericolosità astratta ed indeterminata rispetto all’evento concretamente realizzatosi non può considerarsi in via di principio punibile”, in quanto o la condotta di partecipazione viola una regola cautelare volta ad evitare l’evento che in concreto si è verificato, ed allora l’imputato sarà punibile, o, viceversa, nell’ipotesi in cui non violi alcuna regola cautelare, l’imputato dovrà essere assolto. Riprendendo l’esempio dell’incauto affidamento, è chiaro che l’affidante è incriminabile non perché in forza della consapevole interazione tra le condotte è come se lui stesso si fosse messo alla guida della vettura senza patente, ma è incriminabile poiché con la sua condotta viola una regola cautelare volta ad evitare eventi del tipo di quello verificatosi. Entrambi i partecipi concorrono a causare l’evento non voluto, ciascuno con una condotta causale, colposa, quindi tipica, e pertanto, incriminabile sulla base della norma incriminatrice di parte speciale. Che poi vi sia stata interazione consapevole delle condotte, è servito a qualificare il caso come cooperazione colposa e quindi ad applicare l’art. 113 in funzione di mera 150 disciplina. L’affidante, inoltre, non può invocare a sua discolpa il principio di affidamento, non perché è come se lui stesso avesse commesso il fatto, ma perché, autonomamente, viola una regola cautelare che gli impedisce di poter poi confidare nel comportamento diligente altrui. Secondo la scrivente, quindi, il principio in questione dovrebbe essere relazionato non con l’elemento soggettivo della cooperazione colposa ma con la misura oggettiva della colpa cioè con la violazione della regola cautelare di condotta. Il principio di affidamento, si è detto, vale ad escludere la colpa, ma in che modo? Si tratta di stabilire se il partecipe abbia o meno violato una regola cautelare, ed il principio di affidamento viene invocato proprio per dimostrare che nessuna regola di condotta è stata violata dall’agente, poiché egli non aveva l’obbligo di prevedere e prevenire le conseguenze dannose derivanti dalle manchevolezze altrui, potendo confidare nel fatto che gli altri coagenti, si sarebbero comportati in modo diligente ed accorto. Tuttavia, qualora nel caso concreto, si accerti che l’agente ha di per sé violato una regola cautelare di condotta volta a prevenire eventi del tipo di quello verificatosi (si pensi all’affidante, nell’incauto affidamento; o al partecipe, nella gara di velocità, o al datore di lavoro che omette di adeguare l’ambiente di lavoro a tutte le misure di sicurezza dalla legge prescritte; o al medico che pur avendone avuto la possibilità, non elimina la fonte di pericolo per il paziente, confidando che ciò venga fatto dal collega che gli succede nella posizione di garanzia) lo stesso, non potrà mai difendersi invocando il 151 principio di affidamento, poiché la sua applicazione sarà sempre esclusa dall’eccezione, in forza della quale, non può parlarsi di affidamento quando colui che si affida sia in colpa per avere violato determinate norme precauzionali o per avere omesso determinate condotte e, ciononostante, confidi che altri, elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione. Qualora, invece, si accerti, che l’agente, riveste una posizione di controllo e sorveglianza o nei confronti della vittima, (si pensi al caso emblematico del datore di lavoro) o nei confronti degli altri agenti, rispetto a lui subordinati, con i quali ha svolto una attività comune (si pensi ad un medico capo équipe che è chiamato a dirigere e coordinare le prestazioni poste in essere dai collaboratori) è la stessa posizione di controllo che finisce per escludere la possibilità di invocare il principio di affidamento. Con riferimento, poi, all’attività medico chirurgica in équipe, si è visto come secondo la dottrina la regola generale da cui andrebbero prese le mosse è la seguente: ogni partecipante ad una attività medica di équipe risponde solo del corretto adempimento dei doveri di diligenza e di perizia inerenti ai compiti che gli sono specificamente affidati, perché solo in questa maniera ciascun membro del gruppo è lasciato libero, nell’interesse del paziente, di adempiere in modo soddisfacente alle proprie mansioni. Questa regola trova il suo punto di forza proprio nel principio di affidamento, tuttavia, di fatto, la giurisprudenza è giunta ad affermare che, pur comportando una netta suddivisione di competenze, il lavoro in équipe determina, un reciproco obbligo di sorveglianza e di intervento, dal momento che il collegamento funzionale ed ambientale tra le attività svolte, determinato proprio dal fatto 152 di lavorare in gruppo, consente al singolo partecipante di constatare eventuali condotte altrui scorrette o inadeguate o di rilevare, addirittura, veri e propri errori di condotta. Un obbligo di questo tipo grava, naturalmente, su tutti e ciascuno i componenti dell’équipe. Ecco allora che, anche in questo caso, diviene, di fatto, impossibile invocare il principio di affidamento. In definitiva, il principio di affidamento, non riuscendo mai a trovare concreta applicazione, non sarà in grado di escludere la colpa del partecipe. Ne consegue anche, che il problema di stabilire se la cooperazione colposa funga da limite al principio di affidamento, diviene un problema meramente teorico, proprio perché il principio in esame trova applicazione nel nostro ordinamento solo come principio astratto che poi, in concreto, viene sempre superato da qualche suo limite. 153 BIBLIOGRAFIA MANTOVANI M. Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Giuffrè editore 1997 ALBEGGIANI F. I reati di agevolazione colposa. Giuffrè editore 1984 SEMINARA S. Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Giuffrè editore 1987 PEDRAZZI C. Il concorso di persone nel reato, Priulla editore 1953 STORTONI L. Agevolazione e concorso di persone nel reato, CEDAM 1981 GALLO M. Lineamenti di una teoria sul concorso di persone nel reato, Giuffrè editore 1957 LATAGLIATA A:R. I principi del concorso di persone nel reato, Morano editore 1965 154 GIUNTA F. 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