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NOTA A CASSAZIONE PENALE, 17 gennaio 2012, n. 1428
a cura di Laura Messina
La Cassazione si sofferma ancora una volta sul tema della cooperazione colposa e sulla
differenza fra detto istituto e il concorso di cause colpose indipendenti.
Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione affronta il tema della cooperazione
colposa- già oggetto di attenzione da parte della giurisprudenza in diverse interessanti sentenze
degli ultimi anni- preoccupandosi di delineare la disciplina di cui all’art. 113 c.p. e di tracciare il
sottile confine fra il detto istituto e quello del concorso di cause colpose indipendenti.
Com’è noto, l’articolo 113 c.p. è una norma inserita dal Legislatore del 1930 nel Capo III (del
Libro I) dedicato al concorso di persone nel reato, sconosciuta sotto la vigenza del precedente
codice. Se infatti, attualmente, secondo la dottrina di maggioranza, la cooperazione nel delitto
colposo altro non è se non la forma colposa del concorso di persone nel delitto colposo, sotto
la vigenza del Codice Zanardelli era diffusa l’opinione opposta volta a negare la stessa
possibilità teorica di concepire una tale figura di compartecipazione criminosa. Le
argomentazioni in tal senso si fondavano principalmente sulla sostenuta incompatibilità logica
tra la necessaria mancanza di volontà del fatto colposo ed il concorso di persone, fondato,
invece, sull’accordo (sul ―concerto‖ dei concorrenti secondo Carrara).
La fattispecie delinata dall’articolo 113 c.p. pone una serie di problemi a livello interpretativo
che sono stati oggetto di dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza, da ultimo anche con la
sentenza in commento.
Resta, infatti, incerto se la norma svolga funzione solo di disciplina od anche incriminatrice; se
cioè sia destinata ad attribuire rilevanza penale a comportamenti colposi atipici rispetto alle
fattispecie monosoggettive di parte speciale, non punibili in assenza di una norma ad hoc
estensiva della punibilità, ovvero — relegata su di un piano meramente disciplinatorio — sia
diretta ad assoggettare ad un particolare trattamento penale fatti già autonomamente
sanzionabili in base alle fattispecie di parte speciale.
A tal fine, è necessario partire dalla distizione fra reati cc.dd. ―a forma vincolata’’ o di ―mera
condotta’’ e reati causalmente orientati. Relativamente ai primi la norma in esame- secondo la
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dottrina maggioritaria- svolge una indubbia funzione incriminatrice, consentendo la punizione
di comportamenti di mera agevolazione di un fatto colposo altrui altrimenti non perseguibili in
quanto tali. Si afferma, dunque, la compatibilità logica tra il reato colposo e le fattispecie a
forma vincolata, stante anche la presenza nel codice penale di svariate norme incriminatrici di
condotte colpose a forma vincolata.
Più discusso è, al contrario, il ruolo che l’art. 113 c.p. svolgerebbe in relazione alle fattispecie
casualmente orientate o a forma libera. Parte della dottrina attribuisce alla norma una funzione
incriminatrice anche per queste fattispecie. Tuttavia, secondo altra tesi, per ciò che concerne i
reati a forma libera, l’articolo 113 c.p. non potrebbe fungere da mezzo per estendere l’area della
punibilità a condotte prive di efficacia causale ed, inoltre, prive del requisito, proprio della colpa
in senso normativo, della violazione del dovere oggettivo di diligenza, che deve sussistere non
solo sul piano dell’elemento soggettivo, ma già sul piano della tipicità del fatto colposo
(Fiandaca – Musco).
Sulla questione l’orientamento della giurisprudenza più recente (cfr. Cass. pen. 2/12/2008 n.
1786; Cass. pen. 20496/2009), richiamato anche dalla pronuncia in esame che vi aderisce,
sembra nel senso di prestare adesione alla teoria della funzione incriminatrice della disciplina
della cooperazione rispetto all’ambito segnato dal concorso di cause colpose indipendenti, da
cui deriva il riconoscimento della rilevanza penale di ―condotte atipiche, agevolatrici, incomplete, di
semplice partecipazione‖ che, per avere concludente significato penale, avrebbero bisogno di
coniugarsi con altre condotte, di per sé rilevanti.
Secondo la sentenza in esame, tra l’altro, tale indirizzo interpretativo troverebbe conferma ―nella
disciplina degli articoli 113, co. 2, e 114 c.p., i quali prevedono, nell’ambito delle fattispecie di cooperazione,
l’aggravamento di pena per il soggetto che ha assunto un ruolo preponderante e, simmetricamente, la diminuzione
della pena per l’agente che abbia apportato un contributo di minima importanza: quest’ultima previsione,
evocando condotte di modesta significatività, si riferirebbe proprio a comportamenti che sono sforniti di tipicità
colposa e quindi non autosufficienti ai fini della affermazione di responsabilità in base alle norme incriminatrici
di parte speciale‖.
La quarta sezione della Corte di Cassazione, richiamando integralmente all’uopo altre pronunce
in tal senso della stessa sezione, ha ritenuto che l’effetto estensivo dell’incriminazione operato
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dall’art. 113 c.p. si configuri sicuramente nei reati commissivi mediante omissione, per
incriminare l’apporto fornito all’omissione del garante dal soggetto non gravato dall’obbligo di
impedimento dell’evento.
Pari efficacia incriminatrice, secondo la Corte, è stata ritenuta rispetto alle condotte inosservanti
di una regola cautelare di condotta attinente all’obbligo di controllare ed impedire le altrui
condotte colpose: la Corte aderisce a quella dottrina che ha ravvisato una funzione
incriminatrice dell’art. 113 c.p. rispetto a comportamenti che costituiscono violazione di
obblighi di ―natura secondaria‖ (Cognetta). La Corte di Cassazione, ha poi osservato che ―meno
definita appare la vasta area in cui è presente una condotta che, priva di compiutezza, di fisionomia definita
nell’ottica della tipicità colposa se isolatamente considerata, si integra con altre dando luogo alla fattispecie
causale colposa. Mentre la condotta tipica dà luogo alla violazione della regola cautelare eziologica, quella del
partecipe, come ritenuto da autorevole dottrina, si connota per essere pericolosa in una guisa ancora
indeterminata. A tali condotte viene solitamente attribuita valenza in chiave agevolatrice. A tale ambito
sembrano riferirsi non solo l’intitolazione dell’art. 113 c.p., che evoca il concetto di cooperazione colposa distinto
da quello di concorso doloso; ma anche i lavori preparatori, quando si parla di scientia maleficii, di
consapevolezza di concorrere con la propria all’altrui azione, di fascio di volontà cooperanti nel porre in essere il
fatto incriminato‖.
Con riferimento al diverso problema del confine fra il concorso colposo di cui all’articolo 113
c.p. e la figura del concorso di cause indipendenti, la dottrina di maggioranza ritiene che il tratto
distintivo risieda nella necessaria sussistenza, quale requisito strutturale della fattispecie, di un
legame psicologico con l’agire altrui (cd. colpa di partecipazione). Nel concorso di cause
colpose indipendenti l’evento è, invece, il frutto di una coincidenza di più azioni od omissioni
non collegate tra loro da alcun vincolo subiettivo (sicchè, ogni azione od omissione resta
imputabile come fatto a sé stante, comportando separate responsabilità per distinti reati).
Secondo la sentenza in esame, infatti, il collante fra le diverse condotte che delinea la
cooperazione ai sensi dell’articolo 113 c.p. è costituito dalla ―consapevolezza di cooperare con altri‖
sebbene la stessa Corte riconosca che sono invece incerti i confini entro i quali tale
consapevolezza deve estendersi. E’, infatti, discusso in dottrina se tale consapevolezza debba o
meno estendersi sino a cogliere il carattere colposo della condotta altrui.
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Richiamando sempre la medesima sentenza n. 1786 del 2.12.2008, la Corte ritiene, esaminando
le tesi che si contendono il campo, che quella che sostiene la necessità della mera
consapevolezza, in capo al partecipe, della convergenza della propria condotta a quella altrui
implica il rischio di creare un’eccesiva dilatazione dell’imputazione, mentre la opposta
concezione che richiede la consapevolezza del carattere colposo dell’altrui comportamento reca
il rischio opposto di svuotare di significato la norma e di renderla inutile, una tale
consapevolezza potendo implicare un comportamento penalmente rilevante già in via
autonoma.
In particolare, il criterio per definire il fondamento ed i limiti della colpa di cooperazione è stato
individuato dalla Corte nel concetto di ―interazione prudente‖ (Garofoli).
Secondo la Corte, infatti, occorre individuare con rigore, sul piano fenomenico, le condotte che
si pongono tra loro in cooperazione. Occorre cioè che ―il coinvolgimento integrato di più soggetti sia
imposto dalla legge, da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, o almeno sia contingenza
oggettivamente definita senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza. In tali situazioni,
l’intreccio cooperativo, il comune coinvolgimento nella gestione del rischio giustifica la penale rilevanza di condotte
che, come si è accennato, sebbene atipiche, incomplete, di semplice partecipazione, si coniugano, si compenetrano
con altre condotte tipiche. In tutte tali situazioni ciascun agente dovrà agire tenendo conto del ruolo e della
condotta altrui. Si genera così un legame ed un’integrazione tra le condotte che opera non solo sul piano
dell’azione, ma anche sul regime cautelare, richiedendo a ciascuno di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla
condotta degli altri soggetti coinvolti nel contesto. Tale pretesa d’interazione prudente individua il canone per
definire il fondamento ed i limiti della colpa di cooperazione. La stessa pretesa giustifica la deviazione rispetto al
principio di affidamento e di autoresponsabilità, insita nell’idea di cooperazione colposa‖.
Con riguardo al caso sottoposto al suo esame, la Suprema Corte ritiene, facendo applicazione
dei detti principi, che l’imputato ed il proprietario di un terreno fossero consapevolmente
coinvolti nella comune procedura volta all'attivazione delle fiamme per la pulizia del terreno
stesso. Cosicché, anche se l'imputato non aveva avviato le fiamme, ma solo praticato dei solchi
nel terreno in un contesto che tuttavia era altamente pericoloso per la presenza del vento che
favoriva l'incontrollata propagazione delle fiamme, egli poneva in essere una parte della
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procedura; procedura considerata nel complesso pericolosa, tanto da giustificarne la sua
responsabilità ai sensi dell’art. 113 c.p..
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