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ISTITUZIONI DI LOGICA (a. a. 2006-7)
(Prof. Mauro Mariani)
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Testi in programma ed indicazioni bibliografiche
Aristotele
I testi in programma sono:
De Interpretatione, capp. 1-8
Analitici Primi, Libro I, capp. 1-2; 4-7.
Edizioni degli Analitici Primi:
- Laterza (comprende l'intero Organon).
- UTET ( a cura di Marcello Zanatta), UTET 1996 (comprende l'intero Organon)
- Loffredo, traduzione e commento di M. Mignucci, Loffredo 1969
- Prior Analytics, (traduzione, note e commento di R Smith), Hackett Publishing Company 1989.
- Organon, (Introduzione, scelta e commento a cura di Vittorio Sainati), Le Monnier 1971.
Edizioni del De Interpretatione
- Laterza (comprende l'intero Organon).
- UTET ( a cura di Marcello Zanatta), UTET 1996 (comprende l'intero Organon)
- BUR, Della Interpretazione, (commento di M. Zanatta), Rizzoli 1992.
- Aristotle's Categories and De Interpretatione (traduzione, note e commento di J. L. Ackrill),
Oxford 1963
- Organon, (Introduzione, scelta e commento a cura di Vittorio Sainati), Le Monner 1971.
Introduzioni generali ad Aristotele (consigliate, ma non in programma)
W. D. Ross, Aristotele, Feltrinelli 1976
J. L. Ackrill, Aristotele, Il Mulino 1993
E. Berti, Le ragioni di Aristotele, Laterza 1989.
Leibniz
Il testo in programma, tratto dal secondo volume di
Leibniz, Scritti di Logica, a cura di F. Barone, Laterza 1992), è
Ricerche generalisull'analisi delle nozioni e delle verità (Generales Inquisitiones), pp. 271-325;
Introduzioni generali a Leibniz (consigliate, ma non in programma).
V. Mathieu, Introduzione a Leibniz, Bari 1976 (Collana "I Filosofi" Laterza)
M. Mugnai, Introduzione alla filosofia di Leibniz, Torino 2001 (PBE, Einaudi)
Frege
Introduzioni generali a Frege (consigliate, ma non in programma)
A. Kenny, G. Frege, Einaudi 2003
M. Mariani, Frege, Bari 1999 (Collana "I Filosofi" Laterza).
Poiché i testi di Leibniz e Frege non sono reperibili in libreria, è possibile acquistarne una copia
presso la copisteria ARPAGAUS in P.zza Dante.
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ARISTOTELE
1. CONSIDERAZIONI GENERALI
1. 1 Due modi di concepire la logica
Come quasi tutte le opere di Aristotele che ci sono pervenute (con a sola eccezione di alcuni
frammenti di opere giovanili), i trattati logici conosciuti nel loro insieme come "ORGANON" non
sono opere scritte per la pubblicazione, ma scritti che circolavano all'interno del Liceo per uso
didattico e di ricerca. Dopo la morte di Aristotele le sue opere praticamente finirono per scomparire,
e furono ritrovate in Asia Minore solo nel I secolo prima di Cristo durante le guerre mitridatiche:
portate prima ad Atene e poi a Roma furono ordinate in maniera sistematica da Andronico da Rodi
e rese finalmente pubbliche. Dunque l'ordinamento delle opere di Aristotele è il frutto di
un'operazione editoriale, i cui criteri furono quelli di renderle quanto più possibile sistematiche, non
l'ordine (ammesso che ce ne fosse uno) dato loro dall'autore.
La sequenze delle opere aristoteliche fu dunque questa
- Organon (opere "logiche");
- opere scientifiche (fisica, cosmologia, psicologia, biologia, ecc.);
- metafisica (in greco Meta; ta; fusikav – quello che viene dopo le opere di scienza naturale), una
serie di trattati incentrati sulla nozione di "essere", che culminano nella trattazione del Motore
Immobile, ossia nella "teologia";
- opere etiche, politiche, retoriche, di teoria della letteratura.
In questa sequenza le opere logiche occupano il primo posto in quanto strumento (in greco appunto
"organon") di uso universale. A sua volta anche l'Organon è suddiviso in vari trattati e strutturato in
maniera sistematica:
- Categorie: si occupa del significato dei termini che compaiono nel discorso, distinguendo i vari
tipi di soggetti e predicati;
- De Interpretatione, si occupa del modo in cui è strutturato l'enunciato (in particolare quello
apofantico – ossia suscettibile di essere vero o falso) a partire dai termini;
- Analitici Primi, si occupa del ragionamento deduttivo, sillogismo, nella sua generalità;
- Analitici Secondi, si occupa del sillogismo scientifico, ossia del sillogismo che parte da premesse
necessariamente vere;
- Topici, si occupa del sillogismo dialettico, ossia del sillogismo che parte da premesse
semplicemente che vengono accettate per la loro verosimiglianza o per il fatto di essere
comunemente accettate (common wisdom – direbbero gli inglesi) oppure ancora per essere state
sostenute da persone autorevoli (in greco tali proposizioni sono dette e[ndoxa);
- Confutazioni Sofistiche, si occupa dei ragionamenti che hanno l'apparenza di essere validi senza
esserlo, attraverso i quali si può ottenere una confutazione apparente.
[[Osservazione marginale, ma di un certo interesse per chi studia filosofia. Che cosa sono le
categorie? "Categoria" in greco significa "predicato", ed in effetti le categorie sono innanzitutto una
classificazione dei vari tipi di predicati: dato un soggetto come ad esempio Socrate possiamo dire
che cos'è, di che qualità è, di che dimensioni è, in che luogo è, etc., ossia predicarne l'essenza, la
qualità, la quantità, il dove, etc. In altre parole, date tutte le possibili proposizioni che vertono sopra
un determinato soggetto, Aristotele divide tutti i predicati (categorie) che vi compaiono in un certo
numero di classi, ognuna delle quali è una classe di predicati]]
Questa immagine tradizionale non è però, con ogni probabilità, attendibile (come ha mostrato in
maniera abbastanza convincente W. Jaeger nei suoi volumi, "Aristotele" e "Studien zur
Entstehungsgeschichte der Metaphysik" – Studi sulla storia dello sviluppo della 'Metafisica'). E'
infatti possibile trovare, all'interno del Corpus dei trattati aristotelici posizioni divergenti riguardanti
le stesse questioni, fatto che testimonia come l'opera di Aristotele non sia quell'enciclopedia
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sistematica che la tradizione ci presenta. In particolare, per quel che riguarda la logica, è possibile
rintracciare due concezioni distinte:
- la prima, testimoniata soprattutto dai due Analitici, è un sistema di regole deduttive (i sillogismi
appunto) piuttosto ristretto, ma la cui validità è al di là di ogni dubbio: lo scopo di questo sistema
di regole è innanzitutto fornire i mezzi logici attraverso cui in una scienza deduttivamente
organizzata si ricavano i teoremi dai principi primi;
- la seconda, testimoniata soprattutto dai Topici e dalle Confutazioni, costituisce un sistema di
regole più ampio, ma meno rigoroso, delle quali è possibile servirsi nella discussione razionale.
Per capire bene la differenza tra queste due concezioni è necessario fare un passo indietro.
Nell'Accademia Platonica una parte importante della pratica filosofica consisteva nella dialettica,
ossia in una tecnica attraverso la quale si cercava di sostenere o confutare varie tesi. I Topici, scritti
quando Aristotele faceva ancora parte dell'Accademia, rappresentano una sorta di manuale sul
modo di condurre queste discussioni. Da quello che risulta dai Topici stessi, una discussione era
strutturata in questo modo
- un Rispondente (R) deve difendere una certa proposizione (tesi), mentre un Domandante (D) ha
il compito di mostrare che la proposizione in questione non è valida;
- per ottenere il suo scopo D deve ottenere da R l'assenso a certe altre proposizioni che D stesso
propone e mostrare che ciò che consegue dalle proposizioni cui R dà il suo assenso contraddice
la tesi sostenuta da R stesso;
- se questo riesce la tesi risulta confutata, in caso contrario risulta confermata.
Si tratta in un certo senso di un gioco, e, come per tutti i giochi, è necessario che vi siano regole
condivise, in particolare (anche se non esclusivamente) regole che stabiliscano se da determinate
proposizioni segua o non segua una data conseguenza, regole che stabiliscano quando uno è
obbligato a dare il suo assenso e regole che stabiliscano quando una data tesi debba ritenersi
confutata.
E' opportuno osservare che il gioco dialettico può anche essere nella forma di una
formulazione di una ricerca, ossia in forma interrogativa (ad esempio "Il mondo è eterno oppure
no?"). In questo caso R assume la difesa di una delle due alternative: se essa viene confutata il
risultato dell'indagine sarà a favore dell'altra, in caso contrario sarà a favore dell'alternativa difesa).
Esempio banale, ma non troppo.
Tesi di R: "Tutti i coraggiosi sono virtuosi"
D ottiene l'assenso alle seguenti proposizioni
"Nessun ladro è virtuoso"
"Qualche ladro è coraggioso"
Poiché dalle proposizioni alle quali R ha dato l'assenso segue
"Qualche coraggioso non è virtuoso"
la tesi di R risulta confutata.
Supponiamo ora che R rifiuti il suo assenso a "Qualche ladro è coraggioso": se D è però in grado di
esibire un esempio di ladro coraggioso, R non può più rifiutare il suo assenso. Supponiamo invece
che R rifiuti il suo assenso a "Nessun ladro è virtuoso": allora D può operare per induzione e fornire
esempi di ladri privi di virtù; se R non è in grado di opporre esempi contrari di ladri virtuosi (tipo
Robin Hood), allora R deve dare il suo assenso.
In questo esempio, per quanto semplice, sono coinvolte una gran quantità di regole. Innanzitutto il
sillogismo (come vedremo un FELAPTON di terza figura) che obbliga chi ha dato l'assenso a
"Nessun ladro è virtuoso"
"Qualche ladro è coraggioso"
a dare l'assenso anche a
"Qualche coraggioso non è virtuoso".
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In secondo luogo le regole in base alle quali si è obbligati a dare l'assenso ad un determinato tipo di
proposizione.
In terzo luogo infine la regola in base alla quale "Tutti i coraggiosi sono virtuosi" è confutata
quando è stato dato l'assenso a "Qualche coraggioso non è virtuoso".
Non tutte queste regole sono logicamente necessarie. Naturalmente FERISON lo è, ma la regola in
base alla quale bisogna dare l'assenso ad una proposizione universale se lo si dà ad una certa
quantità di casi concreti non è logicamente ineccepibile, anche se corrisponde ad un tipo di
ragionamento che si utilizza costantemente e che non è ritenuto una fallacia.
In questo esempio la regola deduttiva utilizzata è sillogistica, ma non è sempre così.
Supponiamo che in una discussione R. non voglia dare il suo assenso alla proposizione
"Il coraggio è una virtù"
D può richiede l'assenso di R alle seguenti proposizioni
"La viltà è il contrario del coraggio"
"Il vizio è il contrario della virtù
"La viltà è un vizio";
Se R concede l'assenso a queste proposizioni, allora deve concedere l'assenso anche a
"Il coraggio è una virtù"
sulla base della seguente regola
"Se A [viltà] e B [coraggio] sono contrari e da A segue C [vizio], allora da B segue il contrario di C
[virtù]"
ma quest'ultima regola non è riducibile a sillogismo.
1.2. Il termine "logica".
E' noto che Aristotele non utilizza il sostantivo "logica", ma parla, secondo i casi, di "dialettica"
(quando si riferisce alla logica dei "Topici") o di "analitica" (quando si riferisce alla sillogistica).
Utilizza tuttavia l'aggettivo "logico". In Top. A 14, 105b18 e sgg. Aristotele distingue infatti tre tipi
di formulazione di una ricerca; logica, fisica, etica. L'esempio di una ricerca logica è "Esiste
un'unica scienza dei contrari o no?" In questo caso "logico" significa "del tutto generale", ossia una
formulazione logica deve essere trattata senza fare riferimento alle nozioni proprie di una data
scienza, o di una data regione dell'essere. L'esempio citato lo mostra chiaramente: per Aristotele (e
per la filosofia greca in genere) i contrari sono pervasivi (di contrari si parla, tra l'altro, nelle scienze
naturali per spiegare il processo di generazione e corruzione e in etica per spiegare la nozione di
"medietà"), e dunque se formuliamo una ricerca che non riguarda una determinata coppia di
contrari, ma i contrari in genere, formuliamo una ricerca che è logica perché ha il carattere
dell'assoluta generalità.
In ogni caso per Aristotele "dialettica" e "analitica" non possono essere considerate scienze.
La suddivisione delle scienze infatti è basata sul tipo di enti di cui qualcosa è scienza. In Met. E 1 le
scienze teoriche sono divise, sulla base di ciò di cui parlano, in fisica, matematica, teologia (la
prima si occupa di ciò che è capace di movimento, la seconda di ciò che è immobile, ma non esiste
separatamente, la terza di ciò che, come il Motore Immobile, è immobile e separato); la logica,
proprio per la sua generalità, non possiede un ambito specifico e quindi non può essere considerata
una scienza, ma uno strumento (da qui il nome "organon") che si utilizza nella pratica scientifica.
2. DE INTERPRETATIONE.
2.1 L'opera in generale
Il De Interpretatione a prima vista sembra essere un'opera scarsamente unitaria. Sommariamente il
suo contenuto può essere così sintetizzato:
Capp. 1-4
Semantica (cosa sono nome, verbo ed enunciato; e cosa significano).
6
Capp. 5-7
Teoria dell'enunciato e della costruzione delle coppie di enunciati costituite da
un'affermazione e dalla negazione corrispondente (coppia antifatica).
Cap. 9
Il problema dei futuri contingenti con l'emergere del tema della modalità.
Capp. 12-13 Definizioni delle modalità, costruzione degli enunciati contenenti modalità e delle
coppie antifatiche composte da enunciati modali.
Capp. 8,10-11, 14 Questioni varie riguardanti le condizioni in cui è possibile parlare di un singolo
enunciato.
Secondo un'interpretazione abbastanza diffusa (che trova la sua migliore espressione nel libro di V.
Sainati, Storia dell'Organon aristotelico) il De Interpretatione è composto da due nuclei, principali,
il primo costituito dai capp. 1- 7 (semantica e costruzione dell'enunciato), ed il secondo costituito
dai capp. 9 e 12-13, nei quali emerge il tema della modalità come conseguenza del problema posto
dai futuri contingenti. Gli altri capitoli sono una raccolta di osservazioni sparse più o meno
pertinenti.
Secondo un'interpretazione più recente sostenuta da Whitaker (cfr. Aristotle's De
Intepretatione, Oxford 1966) il trattato è invece unitario ed ha come tema quello della costruzione
della coppia antifatica, e delle eccezioni apparenti o reali alla regola:
"In ogni coppia antifatica uno ed un solo enunciato è vero e uno e un solo enunciato è falso".
Tale eccezioni cono costituite principalmente dal caso dei futuri contingenti (gli enunciati
riguardanti un avvenimento futuro sembrano essere attualmente privi di valore di verità), da quello
degli enunciati solo apparentemente unitari (con i quali la coppia antifatica non può essere costituita
perché la negazione di un enunciato non unitario è ambigua) e da quello degli enunciati modali (su
cui torneremo); e sono appunto trattate nei capitoli successivi al settimo.
A differenza delle altre opere logiche di Aristotele (in particolare i due Analitici e i Topici) il
titolo di quest'opera non compare nel Corpus aristotelico, anche se già i commentatori antichi
facevano riferimento a quest'opera con questo titolo: per cui vale la pena chiedersene il significato.
In greco il titolo è Peri; eJrmhneiva": ora, eJrmhneuvw significa "far capire il proprio pensiero",
"esporre", "dichiarare". Di questo titolo sono dunque possibili almeno due interpretazioni. In base
alla prima, poiché l'enunciato esprime il nostro pensiero, il significato del titolo dovrebbe essere
"Dell'enunciato"; ma questo è un uso che non si riscontra in Aristotele, dove invece si riferisce in
generale all'espressione linguistica (o anche alla comunicazione animale) – quindi appare più
ragionevole supporre che voglia dire "Dell'espressione" o addirittura "Del linguaggio". In tal caso,
però, il titolo è in evidente contrasto con l'interpretazione data da Whitaker: ed in effetti questo
autore approfitta del fatto che il titolo Peri; eJrmhneiva" non compare nel Corpus aristotelico per
metterne in dubbio l'autenticità.
2.2 Capitolo primo.
I punti essenziali del capitolo sono i seguenti:
1)
le voci significative si riferiscono direttamente alle affezioni dell'anima ed indirettamente
alle cose.
2)
la distinzione tra significare ed essere vero.
A sua volta 1) può essere così articolato:
1.1) le voci significative sono simboli delle affezioni dell'anima e i segni scritti simboli delle voci
(il termine "simbolo" – che in greco indica innanzitutto congruenza convenzionale –
suggerisce, come sarà poi reso esplicito nel secondo capitolo, il carattere convenzionale che,
secondo Aristotele, il linguaggio ha);
1.2) le voci e i segni scritti variano da comunità linguistica a comunità linguistica (il che
conferma la convenzionalità del linguaggio), ma le affezioni dell'animo sono uguali per tutti;
1.3) le affezioni dell'animo hanno un rapporto di somiglianza con le cose, il che garantisce che il
nostro linguaggio parli non della nostra anima ma del mondo.
Nelle successive polemiche contro questa immagine del linguaggio è stato spesso sottolineato il
carattere totalmente idiosincratico (cioè privato) delle affezioni dell'anima e quindi la loro assoluta
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irrilevanza semantica. Per Aristotele, tuttavia, il processo attraverso cui l'anima acquisisce i suoi
contenuti è un processo naturale (descritto nel De Anima), proprio della specie umana, e la sua
naturalità (che in Aristotele è opposta alla convenzionalità) garantisce la sostanziale identità per
tutti dei contenuti stessi.
2) può essere invece così articolato:
2.1) la verità e la falsità riguardano innanzitutto il pensiero e solo mediatamente gli enunciati
(apofantici) che esprimono il pensiero stesso;
2.2) la verità e la falsità consistono nell'unire e nel separare i nostri contenuti mentali in accordo
con l'unione e la separazione delle cose che ad essi corrispondono: di conseguenza un
pensiero isolato – e la voce ad esso corrispondente – non possono avere un valore di verità.
Perché ciò sia possibile è necessario che al nome venga aggiunto qualcosa d'altro, ad
esempio "è" o "non è".
2.3) esistono voci significative che non si riferiscono a nulla di esistente, ma solo ad affezioni
dell'animo cui non corrisponde nulla. Questo comporta evidentemente una rottura del
parallelismo tra affezioni dell'animo e cose, ma Aristotele non spiega qui come questo sia
possibile.
A proposito di 2) sono opportune alcune osservazioni:
- La nozione di vero e falso cui Aristotele fa qui riferimento è sostanzialmente quella che troviamo
così definita nella Metafisica e che è conosciuta come 'teoria corrispondentista della verità":
falso è dire di ciò che è che non è e di ciò che non è che è; vero dire di ciò che è che è e di ciò
che non è che non è (IV 7);
il vero e il falso in relazione alle cose consiste nel loro essere unite o separate, quindi dice il vero
chi ritiene separato ciò che è separato e unito ciò che è unito, e il falso che pensa che le cose
stiano in maniera diversa da come stanno effettivamente (IX 10).
- La teoria sostenuta da Aristotele è in aperta polemica con l'idea sostenuta dal filosofo Cratilo nel
Cratilo di Platone che un termine isolato abbia di per sé un contenuto di verità, ossia che esistano
i veri nomi delle cose, conoscendo i quali si sa già qualcosa della cosa nominata. Si vede qui lo
stretto legame tra la teoria della verità e il convenzionalismo: se il nome ha un contenuto di
verità, il nome non può essere totalmente arbitrario.
- Per completezza bisogna dire che per Aristotele (cfr. soprattutto il già citato Met. IX 10) la verità
e la falsità possono riguardare anche ciò che è privo di composizione, e che in questo caso la
verità consiste nella semplice enunciazione. Si tratta però di una questione complessa che qui
non possiamo affrontare.
2.3 Capitolo secondo
I punti essenziali del capitolo sono i seguenti:
1)
Il nome è una voce significativa secondo convenzione nella quale il tempo non viene
espresso;
2)
Il nome è l'unità minima di significato, ossia nessuna sua parte è significativa
3)
i termini come "non uomo" non sono veri e propri nomi, ma "nomi indefiniti" perché non
significano nulla di determinato (un non uomo può essere qualunque cosa che non è uomo,
quindi non esiste nessuna affezione dell'animo determinata di cui "non uomo" è simbolo).
Riguardo al convenzionalismo espresso da 1) ho già detto qualcosa trattando del primo capitolo, ma
aggiungerò ora alcune osservazioni
- Nel Cratilo platonico sono contrapposte la tesi convenzionalista e quella che esistono i nomi
esatti, trovare i quali è però compito arduo: non è chiarissimo quale sia la posizione di Platone,
ma Aristotele prende chiaramente posizione a favore del convenzionalismo;
- Aristotele contrappone "convenzione" a "natura", anzi potremmo dire che il convenzionale è
definito come non naturale. Questo distingue il linguaggio umano da quello degli altri animali, i
cui suoni manifestano qualcosa (che è nell'animo degli animali), ma che non sono simboli,
perché lo stesso suono esprime sempre la stessa affezione dell'anima per tutti gli animali di una
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data specie. Non solo, ma anche nel caso degli uomini bisogna distinguere il linguaggio
articolato dai suoni inarticolati, ad esempio le grida di dolore, i quali, avendo un legame naturale
con le affezioni dell'anima, non sono simboli.
Riguardo a 2) bisogna distinguere due casi:
2.1) Nessuna parte del nome, anche se di per sé sarebbe significativa, nel contesto del nome
significa qualcosa: ad esempio se uno si chiama "Bellagamba" non è una gamba e non è
neppure detto che sia titolare di un paio di belle gambe;
2.2) Nel caso dei nomi composti il significato delle parti componenti contribuisce di solito a
quello del nome composto, ma il significato del nome composto non è dato dalla somma del
significato delle parti componenti. Ad esempio un antico nome della giraffa era
"camelopardo" perché questo animale aveva qualcosa (le macchie) del leopardo e qualcosa
del cammello: "camelo" e "pardo" in "camelopardo" non hanno quindi il loro significato
standard, ma con il loro significato contribuiscono a formare il significato di "camelopardo"
(il quale non è in ogni caso riducibile alla somma dei significati delle sue pari).
2.4 Capitolo terzo.
I punti essenziali del capitolo sono i seguenti:
1)
Il verbo significa in più il tempo ed è segno delle cose che sono dette di un'altro. Ad esempio
"corsa" è un nome, ma "corre" è un verbo perché, oltre a riferirsi alla corsa, contiene
l'indicazione temporale "ora" e l'indicazione che la corsa appartiene ad un soggetto (anche se
la corsa appartiene sempre ad un soggetto, quando "corsa" è soggetto, ad esempio in "La
corsa è lenta", non c'è nessuna indicazione del fatto che la corsa appartiene a qualcosa d'altro
– la forma linguistica è analoga a quella di "Socrate è bianco", e Socrate non appartiene a
nulla)
2)
La funzione del verbo "essere" Come risulta chiaro anche da un'osservazione incidentale in
De Int. 12, 21b9-10 ("non fa nessuna differenza dire che l'uomo cammina o l'uomo è
camminante") ogni enunciato elementare del tipo "Socrate corre" o "Socrate non corre" può
essere posto in forma partecipiale, ossia, rispettivamente, "Socrate è corrente" e "Socrate
non è corrente". In questa forma il verbo "è" ha la funzione di copula, quindi, delle varie
funzioni del verbo mantiene quella di significare il tempo e quella di indicare l'appartenenza
ma perde quella di essere un nome (l'essere o il non essere non è segno di una cosa). Si
potrebbe invece pensare che, anche se "è" non significa una cosa la forma partecipiale
"essente" lo debba fare (esattamente come "corrente"). Tuttavia per Aristotele – a differenza
di Platone o Parmenide – l'essere come cosa non esiste. L'essere infatti per Aristotele non ha
un'accezione univoca, ma si dice in molti modi: ad esempio l'essere per una sostanza come
Socrate vuol dire qualcosa di diverso rispetto ad una qualità (innanzitutto Socrate esiste
separatamente mentre la qualità è sempre qualità di qualcosa).
2.5 Capitolo quarto
I punti principali del capitolo sono:
1)
La definizione di "discorso" unitario come voce significativa, le cui parti sono ancora
significative, ma non come discorso, piuttosto come nome o verbo (ad esempio "Socrate
corre" è dotato di significato, e lo sono anche le sue parti, ma esse non sono enunciati.
2)
L'importantissima distinzione tra il discorso apofantico (dichiarativo) che è suscettibile di
essere vero o falso (ricordo comunque che la verità e la falsità risiedono innanzitutto nella
combinazione delle affezioni dell'anima), ed altri tipi di discorso per i quali vale la
definizione data, ma che non posseggono un valore di verità (ad esempio un comando o una
preghiera.
2.6 Capitolo quinto
9
Il tema principale di questo capitolo è quello del discorso semplice (o unitario, cioè non composto
da o non riducibile a una molteplicità di discorsi). Un discorso semplice è quella in cui una cosa è
affermata o negata di un'altra, ed è quindi necessario che sia composto da un verbo o dalla flessione
di un verbo; oppure è un discorso unitario per collegamento, ossia è ottenuto unendo tramite
congiunzioni altri discorsi. Esempi:
- "Socrate è bianco" è un discorso unitario che afferma una cosa di una cosa;
- "Socrate è bianco e musico" non è un discorso unitario, ma è riducibile a due discorsi unitari,
"Socrate è bianco" e "Socrate è musico";
- "Socrate è bianco e Socrate è musico" è un discorso unitario per collegamento;
- "Socrate è bianco. Socrate è musico" non è un discorso unitario.
Un problema più complesso (che qui è solo sfiorato, ma che sarà affrontato nei capp. 8 e soprattutto
11) è dato dai discorsi, che talvolta hanno l'apparenza di essere unitari, in cui una cosa è detta di più
cose, oppure più cose sono dette di una. Esempi:
- se coniassimo la parola "mantuomo" per significare sia il mantello che l'uomo, allora l'enunciato
"Il mantuomo è bianco" non sarebbe unitario perché equivale ai due enunciati semplici "Il
mantello è bianco" e "L'uomo è bianco";
- "Socrate è musico bianco" non è unitario perché è anch'esso riducibile ai due discorsi unitari
"Socrate è bianco" e "Socrate è musico"
- un'eccezione sembra essere la definizione: se "Socrate è musico bianco" non è unitario, perché
"L'uomo è animale terrestre bipede" invece lo è? Evidentemente perché la definizione (nella
fattispecie "animale terrestre bipede") è un predicato unitario anche se composto di diversi nomi.
Ma come si giustifica l'unitarietà della definizione? Questo problema ha sempre assillato
Aristotele che ne ha dato diverse soluzioni, ma non possiamo affrontare qui la complicata
questione (un esempio di soluzione si trova comunque in Met. VII 12).
2.7 Capitolo sesto
I punti principali del capitolo sono:
1)
La distinzione tra affermazione e negazione;
2)
La definizione di coppia antifatica
A proposito di 1) osserviamo che per Aristotele la negazione, definita come un'enunciazione in cui
qualcosa è separato da qualcosa, sembra essere interna. La distinzione tra negazione esterna e
interna è infatti la seguente:
esterna: dato un enunciato la negazione viene posta all'esterno dell'enunciato stesso: l'enunciato così
ottenuto dice che quanto asserito dall'enunciato di partenza non sussiste. Ad esempio, dato "Socrate
è bianco" la negazione esterna sarà qualcosa del tipo "non si dà il caso che Socrate sia bianco".
interna: la negazione interna si costruisce ponendo una particella negativa all'interno di un
enunciato affermativo, allo scopo di negare l'esistenza del legame tra predicato e soggetto che
l'enunciato affermativo esprime.
Il fatto che la negazione sia interna spiega l'osservazione all'inizio del capitolo 5, ossia che il
primo discorso enunciativo è l'asserzione: se la negazione è interna può essere costruita solo a
partire da un enunciato affermativo.
A proposito di 2). Siano A e B rispettivamente un soggetto ed un predicato: allora ad ogni
affermazione "A è B" si contrappone la negazione "A non è B", e viceversa. Una coppia antifatica è
la coppia costituita dall'affermazione e dalla negazione così contrapposte, ossia la coppia antifatica
è costituita da due enunciati che rispettivamente affermano e negano la stessa cosa della stessa cosa.
Prima di proseguire è necessario introdurre alcuni principi logici:
Principio di (Non) Contraddizione(PNC): E' impossibile che la stessa cosa insieme appartenga e
non appartenga ad una stessa cosa (cfr. Met. IV 3, 1005b29-30).
Principio del Terzo Escluso (PTE): E' impossibile che tra i due contraddittori vi sia qualcosa di
intermedio, ma è sempre necessario affermare o negare una cosa di una cosa (cfr. Met. IV 7,
1011b23-4 )
10
[Gi stessi due principi sono espressi in forma più stringata in Analitici Secondi I,11,
rispettivamente:
E' impossibile affermare e negare nello stesso tempo (77a10);
Data una qualsiasi cosa è necessario affermare o negare (77a22).
Principio di Bivalenza (PB): Ogni enunciato dichiarativo o è vero o è falso.]
PTE e PB appaiono a prima vista equivalenti. Lasciando da parte per il momento la distinzione tra
negazione interna ed esterna, PTE può essere formalizzato così (dove p è un enunciato qualunque):
p o non p
Ora, in base alla definizione aristotelica di verità (cfr. 2.2), valgono:
(a)
Vp se e solo se p
(b)
Fp se e solo se non p (infatti dicendo p dico il falso se e solo se quanto asserito da p non
sussiste, ossia se vale non-p)
Da questo segue immediatamente che
p o non p
se e solo se Vp o Fp.
In pratica PTE e PB dicono la stessa cosa, soltanto nel primo non si fa esplicita menzione della
verità e della falsità.
Torniamo ora alla coppia antifatica. In base alla definizione che ne dà Aristotele, da PTE e
da PNC segue che di una coppia antifatica esattamente un membro deve valere (essere vero) ed
esattamente un membro deve non valere (essere falso): infatti in base a PTE deve valere uno dei
due membri, ed in base a PNC non possono valere entrambi. Ma il modo in cui è stata definita la
coppia antifatica sembra ammettere alcune eccezioni a questo principio.
Come Aristotele dice all'inizio del capitolo 7 le cose possono essere individuali (come
Socrate) o universali (come Uomo) e predicarsi per natura di una molteplicità; e un enunciato può
avere per soggetto un termine universale o un termine individuale. Consideriamo ora le seguenti
coppie antifatiche, costruite tutte attraverso la negazione interna:
(i)
Socrate è bianco
Socrate non è bianco
(ii)
Uomo è bianco
Uomo non è bianco
(iii) Ogni uomo è bianco
Ogni uomo non è bianco
(iv)
Qualche uomo è bianco
Qualche uomo non è bianco
(v)
Socrate domani berrà la cicuta
Socrate domani non berrà la cicuta
(ii)-(v) sembrano costituire eccezioni al principio della coppia antifatica: (ii) e (iv) perché entrambi i
membri possono essere veri, (iii) perché entrambi i membri possono essere falsi, (v) – come
vedremo più avanti – perché entrambi i termini sembrano privi di valore di verità. I capp. 7 e 9
tratteranno con queste eccezioni e mostreranno in che misura sono apparenti o reali.
2.8 Capitolo settimo
Abbiamo già visto che il capitolo si apre con la distinzione tra universali ed individuali. Questa
distinzione riguarda esplicitamente le cose, non i termini linguistici: Aristotele, infatti, non è un
nominalista (ossia non ritiene che si possa parlare di universali solo in senso linguistico, ossia come
parole utilizzate per riferirsi ad una molteplicità di individui, ma che, al di là di ciò, non hanno
nessun riferimento proprio), ma ritiene che ai termini universali corrisponda qualcosa che va al di là
degli individui che cadono sotto l'universale stesso (che cosa sia questo "qualcosa" è una questione
complessa che non è possibile affrontare in questa sede). Ne consegue che non è del tutto corretto
parlare di enunciati – che sono entità linguistiche – come contenenti universali, ma la cosa va intesa
cum grano salis: un enunciato può contenere un termine linguistico universale, cui corrisponde una
cosa universale.
Gli enunciati aventi come soggetto un universale sono innanzitutto di due tipi:
(a)
enunciati nei quali il predicato si predica (o non si predica) in forma universale del soggetto
universale, ossia in cui il predicato appartiene o non appartiene all'intera estensione
dell'universale soggetto. Si tratta di enunciati di uno di questi due tipi
Ogni A è B
(Universale Affermativa, in breve U.A.)
11
Nessun A è B
(Universale Negativa, in breve U.N.)
enunciati nei quali il predicato si predica (o non si predica) di un universale, ma non in
forma universale, ossia nei quali non è espresso se il predicato appartiene o non appartiene
all'intera estensione dell'universale soggetto. Si tratti di enunciati di uno di questi due tipi:
AèB
A non è B
(tali enunciati sono detti anche indefiniti, perché non è esattamente definito l'ambito di
predicazione del predicato).
Ora, "Ogni A è B" e "Nessun A è B" possono essere entrambi falsi (ed ovviamente non possono
essere entrambi veri), e quindi non costituiscono una coppia antifatica, nonostante il fatto che
"Nessun A è B" sia sostanzialmente equivalente a "Ogni A non è B". Per costruire la corretta
antifasi di "Ogni A è B" bisogna dunque negare non l'appartenenza di B all'universale A, ma che
l'appartenenza di B ad A sia universale, ossia riguardi l'intera estensione di A. La corretta antifasi di
"Ogni A è B" sarà dunque
(Non ogni) A è B
ossia
Qualche A non B
(Particolare Negativa, in breve P.N)
(N. B. "Qualche" qui significa "non ogni" e quindi non viene escluso il caso in cui B non appartiene
a nessun A)
Analogamente la corretta antifasi di "Nessun A è B" sarà costruita in questo modo
(Non nessun) A è B
ossia
Qualche A è B
(Particolare affermativa, in breve P.A.)
(N. B. "Qualche" qui significa "non nessuno" e quindi non viene escluso il caso in cui B appartiene
ad ogni A)
[Osservazione terminologica importante: universale e particolare sono dette quantità di un
enunciato, mentre affermativo e negativo sono dette qualità]
I casi (cfr. 2.7)
(iii) Ogni uomo è bianco
Ogni uomo non è bianco
(iv)
Qualche uomo è bianco
Qualche uomo non è bianco
non costituiscono dunque una vera eccezione al principio della coppia antifatica, ma solo coppie
antifatiche costruite male. Le vere coppie antifatiche sono, come abbiamo visto
(b)
Ogni uomo è bianco
Qualche uomo non è bianco
Qualche uomo è bianco
Nessun uomo è bianco
In base ad una tradizione che risale almeno a Boezio è usuale schematizzare le relazioni tra questi
enunciati tramite un "quadrato":
U.A
U.N.
P.A
P.N.
i cui vertici opposti sono occupate dalle coppie antifatiche (U.A – P.N; U.N. – P.A.). Le altre
relazioni tra questi enunciati, di cui solo la prima è esplicitamente riconosciuta (la seconda è
riconosciuta ma non ha un nome) da Aristotele in questo capitolo, sono:
12
contrarietà
tra U.A. e U.N. (possono essere entrambe false, ma non entrambe vere)
subcontrarietà
tra P.A. e P.N. (possono essere entrambe vere, ma non entrambe false)
subalternazione
la particolare segue logicamente dall'universale della stessa qualità
C'è ancora una questione che va affrontata sia pure brevemente. In Categorie 10, 13b27-35
viene posto il problema della coppia antifatica il cui soggetto non esiste. Se uno pensa, abbastanza
ragionevolmente, che se il soggetto non esiste gli enunciati che predicano qualcosa di questo
soggetto sono tutti falsi, allora una simile coppia sembra costituire un'eccezione al principio della
coppia antifatica. Aristotele sostiene tuttavia che tale eccezione non è reale, perché, qualora il
soggetto non esista, l'enunciato affermativo è falso e quello negativo è vero (dal punto di vista
aristotelico questa è una posizione coerente: se infatti un enunciato negativo esprime il fatto che il
predicato è separato dal soggetto, un soggetto non esistente è separato da tutti i possibili predicati, e
quindi tutti gli enunciati negativi sono veri). Così se Socrate non esiste, "Socrate è sano" è falso,
mentre "Socrate non è sano" è vero. Se ora estendiamo questo modo di vedere le cose anche ai
soggetti universali risulta che se A non esiste le affermative sono false e le negative vere.
Gli enunciati indefiniti (caso (b)) costituiscono invece una reale eccezione al principio della
coppia antifatica, ma non si tratta di una cosa molto importante. Ed infatti negli Analitici gli
enunciati indefiniti saranno equiparati alle particolari della stessa qualità.
2.9 Cenno sui futuri contingenti (capitolo nono)
Gli enunciati di cui si occupa la logica aristotelica (e quella antica in generale) contengono
l'indicazione del tempo (ricordate che il verbo è caratterizzato dal fatto di significare in aggiunta il
tempo)eventualmente aggiungendo avverbi temporali, e sono perciò soggetti a cambiare valore di
verità in dipendenza dal momento in cui vengono proferiti (pensate ad esempio a "Sta piovendo").
Questo vuol dire che non è possibile stabilire in assoluto se un enunciato è vero o falso, ma solo se è
vero o falso in un dato tempo.
[[Al contrario nella logica moderna prevale – anche se non è esclusiva - l'idea che gli enunciati non
debbano contenere elementi soggetti a cambiare di significato con il cambiare delle circostanze: in
particolare un enunciato contenente, implicitamente o esplicitamente, avverbi temporali va
regimentato sostituendo l'avverbio con un'indicazione univoca costituita da una data. In questo
modo anche la sua verità o falsità diventa assoluta e non dipendente dal contesto di emissione
dell'enunciato. Ad esempio invece di "Oggi piove" pronunciato a Pisa il 20 ottobre 2006 diremo
"A Pisa il 20 ottobre 2006 sta piovendo" e questo enunciato è sempre stato e sempre sarà vero o
falso.]]
Consideriamo "Socrate domani berrà la cicuta" e supponiamo che il fatto espresso da questo
enunciato sia effettivamente contingente, ossia sia ancora indeterminato se accadrà o non accadrà
(Socrate sta ancora discutendo con Critone). Si potrebbe allora sostenere che se oggi l'enunciato in
questione fosse vero o falso, allora oggi sarebbe già determinato se Socrate berrà o non berrà
domani la cicuta, e quindi l'avvenimento non sarebbe realmente contingente. Torniamo infatti a
2.7 ed all'equivalenze
(a)
Vp se e solo se p
(b)
Fp se e solo se non p
le quali nella fattispecie diventerebbero
(a)'
Voggi S. berrà la cicuta se e solo se Socrate domani berrà la cicuta
(b)'
Foggi S. berrà la cicuta se e solo se Socrate domani non berrà la cicuta.
Se dunque è già vero o falso oggi che Socrate domani berrà la cicuta, l'avvenimento dovrà
necessariamente avere luogo o necessariamente non avere luogo.
Dobbiamo perciò negare validità a (a)' e (b)', introducendo nello stesso tempo un terzo
valore di verità oltre a V e F, ad esempio I (diciamo "incerto") e attribuendolo oggi a "Socrate
domani berrà la cicuta". In tal caso "Socrate domani berrà la cicuta" e "Socrate domani non berrà la
cicuta" costituiscono un'eccezione al principio della coppia antifatica. Inoltre, PTE (nella forma "p
o non p") resta valido, perché il fatto che Socrate beva la cicuta o non lo beva è in ogni tempo
13
necessario per ragioni puramente logiche, anche se resta incerto quale delle due possibilità si
realizzerà. Ma PB cessa di essere valido, perché "S. domani berrà la cicuta" oggi non è né vero né
falso; e questo è reso possibile dal fatto che (a)' e (b)', che permetterebbero di mostrare
l'equivalenza tra PTE e PB, non sono in questo caso validi.
Questa, a grandi linee, è l'interpretazione tradizionale di De Int. 9. Accanto a questa vi sono
molte altre interpretazioni, ma io ho esposto questa per mostrare in che modo è possibile mantenere
PTE (e PNC naturalmente) e rifiutare nello sesso tempo la bivalenza.
3 ANALITICI PRIMI
3.1 Definizione di sillogismo (capitolo primo)
Le prime righe del capitolo definiscono l'ambito della ricerca: essa ha come argomento la
dimostrazione (peri; ajpovdeixin) e fa parte della scienza dimostrativa (intendo in questo modo il
genitivo ejpisthvmh" ajpodeiktikh'"). Questa osservazione suscita parecchie perplessità
- con ajpovdeixi" Aristotele intende di solito "dimostrazione", ossia un sillogismo le cui premesse
sono vere (anzi, come argomenterà negli Analitici Secondi, addirittura necessarie), ma un
sillogismo in genere rappresenta, come vedremo, una derivazione logica da premesse delle quali
non si assume la verità o la falsità – si direbbe dunque che, contrariamente alle apparenze, la
ricerca non riguardi il sillogismo in genere, ma solo la dimostrazione1;
- la ricerca non fa parte della scienza dimostrativa, nel senso che costituisce una particolare
scienza dimostrativa2, ma ne fa parte perché la nozione di dimostrazione è indispensabile per
poter strutturare in maniera dimostrativa la scienza (la "logica" come strumento (organon), non
come scienza).
Poiché gli Analitici Secondi riguardano la scienza deduttiva in genere, questa affermazione iniziale
farebbe pensare (come alcuni commentatori hanno sostenuto) che i quattro libri dei due Analitici
sono un'opera unica sistematica: i primi due libri trattano l'aspetto formale della scienza, gli altri del
modo in cui la scienza è costituita. Sia come sia una cosa sembra abbastanza chiara: anche se il vero
obiettivo di Aristotele è studiare la dimostrazione scientifica, il primo passo in questo studio è
studiare la nozione di derivazione in genere, specificando in che cosa la dimostrazione ha in più
rispetto alla derivazione in genere.
Il termine che Aristotele utilizza per derivazione è "sillogismo". In An. Pr. I 1, 24a18-20
Aristotele lo definisce in questo modo:
"un discorso in cui, poste certe cose, segue (sumbaivnei) di necessità qualcosa di diverso da ciò
che è stato stabilito per il fatto che queste cose sono".
In questa definizione Aristotele evidenzia alcune caratteristiche della sua concezione di
conseguenza logica:
- la conclusione dipende esclusivamente dalle premesse che sono state assunte (le premesse sono
causa della conclusione);
- una volta assunte le premesse la conclusione segue di necessità;
- le premesse sono semplicemente "poste", senza presupporne la verità;
- la derivazione della conclusione dalle premesse deve essere produttiva, ossia la conclusione deve
essere differente dalle premesse.
Quello che, almeno in apparenza, viene tralasciato è però il fatto forse più importante, ossia il
carattere formale del rapporto di conseguenza logica, ossia il fatto che la necessità del nesso tra
1
Cfr. ad esempio An. Pr. A 4, 25b26-31, dove si dice che il sillogismo è più ampio della dimostrazione.
Questo sarebbe impossibile perché nell'epistemologia aristotelica ogni scienza particolare riguarda una determinata
regione dell'essere. Per la verità nella Metafisica (cfr. soprattutto il libro IV) Arostotele parla di una scienza dell'essere
in quanto essere, che perciò riguarderebbe tutto ciò che è: in effetti lo studio di alcuni principi logici , come PTE o
PNC, è considerato da Aristotele (nel suddetto libro IV) come facente parte di questa scienza dell'essere in quanto
essere
2
14
premesse e conclusione dipende solo dalla loro struttura e non ha nulla a che fare con il loro
contenuto. Consideriamo ad esempio queste due derivazioni
Ogni mammifero è animale
Ogni ranuncolo è giallo
Ogni uomo è mammifero
Nessun ranuncolo è rosso
Ogni uomo è animale
Innanzitutto distinguiamo nelle premesse e nella conclusione i sostantivi che si riferiscono alle cose
di cui premesse e conclusione parlano (i termini) dalle altre parti del discorso, cioè quantificatori
(come "tutti", "nessuno") e copule che stabiliscono le relazioni tra i sostantivi [[nella logica
medioevale i primi saranno detti "categoremi" e le seconde "sincategoremi" – con espressione più
moderna "costanti logiche"]]. La validità della prima derivazione non dipende dal significato dei
categoremi in essa contenuti, ma solo da quello delle costanti logiche, mentre la validità della
seconda dipende dal significato di "rosso" e di "giallo". Si può evidenziare questa differenza
sostituendo in maniera uniforme i categoremi con lettere schematiche:
Ogni B è A
Ogni C è B resta valido, mentre
Ogni B è A
evidentemente non lo è.
Ogni C è A
Nessun B è C
In effetti nella costruzione della sua sillogistica Aristotele utilizza sistematicamente le lettere
schematiche per evidenziare che il nesso necessario tra le premesse e la conclusione dipende
unicamente dalla loro struttura e non da ciò che esse esprimono.
Il punto su cui Aristotele insiste maggiormente è il fatto che le premesse sono causa della
conclusione. Nelle righe che seguono immediatamente la definizione di sillogismo egli spiega "per
il fatto che queste cose [le premesse] sono" (tw'/ tau'ta ei\nai) con "a causa di queste cose" (dia;
tau'ta)3; e a sua volta spiega "a causa di queste cose" dicendo che "non c'è bisogno di nessun o{ro"
(?termine?) esterno perché si generi il necessario". Ho messo "termine" tra punti interrogativi
perché la traduzione presenta un problema: o{ro" in questo primo capitolo degli Analitici Primi
significa termine, ossia ciò in cui un'enunciato viene analizzato (cfr. I 1, 24a16-8), mentre in altri
capitoli il suo significato è "premessa" (cfr. ad esempio I 7, 29a21 e I 8, 29b33). La cosa più
naturale sembrerebbe, data la vicinanza delle occorrenze, tradurre anche qui o{ro" con "termine";
tuttavia la traduzione con "premessa" produce un significato migliore. Infatti nella derivazione
Ogni ranuncolo è giallo
Nessun ranuncolo è rosso
bisogna inserire la premessa "Nessun giallo è rosso" perché la conclusione segua di necessità dalle
premesse allo stesso modo in cui "Ogni uomo è animale" segue nell'altra derivazione, ossia a causa
delle strutture delle premesse non del loro contenuto. Se questa interpretazione è corretta, allora
Aristotele, pur non parlandone esplicitamente, ha in mente, nella definizione di sillogismo, proprio
la necessità formale.
Un altro punto importante è che, in generale, non si richiede che le premesse siano vere.
Infatti si traggono conclusioni da assunzioni che sappiamo essere false (come nelle dimostrazioni
per assurdo di cui parlerò più avanti), o della cui verità non siamo sicuri, allo stesso modo in cui se
ne traggono da assunzioni che sappiamo essere vere. La differenza è che, mentre la verità delle
premesse garantisce, in una derivazione eseguita correttamente, la verità della conclusione, se le
premesse non sono vere il valore di verità della conclusione resta del tutto indeterminato. Infatti,
anche se la conclusione, a seconda dei termini che compaiono nella derivazione, può essere talvolta
vera, la sua verità non viene garantita dalle premesse, casomai dal confronto diretto con la realtà.
Ad esempio nel sillogismo
Ogni gatto è animale
3
Va detto che in una definizione analoga di sillogismo in Top. I 1, 100a25-7, al posto di diav con l'accusativo c'è diav
con il genetico, il cui significato è "attraverso", "tramite" (cfr. anche Confutazioni Sofistiche 1, 164b27-165a2). La
differenza non è però molto rilevante: il punto è in entrambi i casi che la conclusione dipende esclusivamente dalle
premesse.
15
Ogni uomo è gatto
Ogni uomo è animale
la conclusione, derivata da una premessa vera e da una falsa, è vera perché le cose stanno come dice
la conclusione stessa, ovviamente non per il fatto di derivare da premesse di cui una è falsa.
Aristotele studierà estesamente la derivazione da premesse false in An. Pr. II 2-4
Infine il carattere produttivo della derivazione. Se la clausola "qualcosa di diverso" non
fosse stata introdotta, allora anche una derivazione come "Da  e  segue " sarebbe rientrata nella
definizione di sillogismo; ed in effetti le definizioni moderne di conseguenza logica sono in genere
tali che la derivazione precedente è considerata valida. Per Aristotele, invece, una caratteristica
irrinunciabile della derivazione è che la conclusione stabilisca nuovi rapporti tra i termini che
compaiono nelle premesse, dove "nuovo" va inteso in senso pregnante, ossia una conclusione è
nuova se in essa entrano in rapporto diretto termini che appartenevano a premesse diverse (e quindi
non erano in rapporto diretto). Anticipando alcune cose che dirò più avanti, la regola di
conversione
"Ogni B è A" si converte in "Qualche A è B"
non è considerata una conseguenza logica rientrante nella definizione di sillogismo perché la
conclusione è sì sintatticamente differente dalla premessa, ma, contenendo gli stessi termini della
premessa da convertire, non esprime nulla di realmente nuovo.
Al contrario in un sillogismo come
Ogni B è A
Ogni C è B
Ogni C è A
i termini che compaiono nella conclusione non erano tra di loro in rapporto in nessuna delle
premesse, e quindi la conclusione non è contenuta implicitamente in nessuna delle due premesse,
prese separatamente, ma solo nella loro combinazione.
Dopo la definizione di sillogismo Aristotele distingue tra sillogismi perfetti ed imperfetti
(cfr. I 1, 24a22-26):
"Chiamo perfetto il sillogismo che non ha bisogno di nient'altro oltre a ciò che è stato assunto
perché si manifesti il necessario, imperfetto quello che ha bisogno di una o più cose, che sono
necessarie attraverso i termini su cui le premesse vertono, ma non sono stati assunti attraverso le
premesse"
Un sillogismo perfetto è dunque un sillogismo in cui la necessità del fatto che la conclusione segua
dalle premesse appare immediatamente manifesta ("non si richiede nient'altro perché si manifesti il
necessario"). E' opportuno (perché la cosa ha dato luogo a molti fraintendimenti) sottolineare la
differenza tra "si generi il necessario" nella definizione di sillogismo e "si manifesti il necessario"
nella definizione di sillogismo perfetto: nel sillogismo imperfetto, infatti, il necessario si genera allo
stesso modo che in quello perfetto (ossia esiste lo stesso nesso necessario tra premesse e
conclusione), ma non è evidente come in quello perfetto.
[[E' opportuno leggere la parte delimitata da asterischi dopo avere letto i paragrafi successivi]]
**Ma perché i sillogismi perfetti sono evidenti? Le teorie in materia sono molte, ma qui mi limiterò
ad illustrare quella che fa riferimento al cosiddetto dictum de omni et de nullo. Alla fine del capitolo
(24b28-30) Aristotele definisce in questo modo la predicazione universale:
"diciamo 'si predica di ogni' quando non è possibile trovare qualcosa che fa parte del soggetto di cui
l'altro non sarà detto; e 'di nessuno' in maniera analoga [ossia quando non è possibile trovare
qualcosa che fa parte del soggetto di cui l'altro si predichi]."
A partire da ciò è possibile definire la predicazione particolare, dal momento che le particolari sono
le contraddittorie delle universali. Per cui:
"diciamo che 'si predica di qualche' quando è possibile trovare qualcosa che fa parte del soggetto di
cui l'altro sarà detto e 'di qualche non si predica' quando è possibile qualcosa che fa parte del
soggetto di cui l'altro non sarà detto."
16
Consideriamo ora i sillogismi di prima figura
- BARBARA: se non è possibile trovare un B di cui A non si dice, poiché tutti i C sono dei B,
allora non è possibile trovare un C di cui A non si dice;
- DARII: se non è possibile trovare un B di cui A non si dice, poiché alcuni C sono dei B, allora
non è possibile che A non si dica di questi C, e quindi è possibile trovare un C di cui A si dice;
- CELARENT: se non è possibile trovare un B di cui A si dice, poiché tutti i C sono dei B, allora
non è possibile trovare un C di cui A si dice;
- FERIO: se non è possibile trovare un B di cui A si dice, poiché alcuni C sono dei B, allora non è
possibile che A si dica di questi C, e quindi è possibile trovare un C di cui A non si dice.
Naturalmente non si tratta di una dimostrazione, ma solo dell'illustrazione del fatto che la validità
dei sillogismi di prima figura riposa sul significato degli enunciati che vi compaiono. Si potrebbe
obiettare che Aristotele introduce esplicitamente solo il significato delle premesse universali, e che
questo non ci autorizza ad estendere la parafrasi anche ai sillogismi particolari di prima figura. Si
può rispondere che, come abbiamo visto, il significato delle particolari è implicito in quello delle
universali; e che in ogni caso, come, vedremo in 3.4, tramite dimostrazione per assurdo è possibile
ridurre anche DARII e FERIO a CELARENT, quindi è sufficiente l'evidenza dei sillogismi
universali di prima figura.
Veniamo ora ai sillogismi imperfetti. Poiché la validità dei sillogismi imperfetti non è
manifesta è necessario renderla evidente mostrando che se i sillogismi perfetti sono conclusivi,
allora lo sono anche quelli imperfetti. Questa procedura viene comunemente detta "riduzione" e
verrà descritta in seguito. Prendiamo la riduzione di CESARE (da AeB e CaB segue CeA): AeB si
converte in BeA; da BeA, CaB segue per CELARENT CeA. In tale riduzione compare l'enunciato
BeA che non fa parte delle premesse di CESARE né deriva sillogisticamente dalle suddette
premesse (infatti deriva per conversione da AeB), ma che è necessario a causa del nesso tra A e B
espresso dalla premessa di CESARE AeB. Dunque, le cose di cui c'è bisogno perché si manifesti il
necessario sono l'enunciato (o gli enunciati) utilizzati nella riduzione, che non sono assunti tramite
le premesse del sillogismo da ridurre perché non ne derivano sillogisticamente, ma la cui necessità
(date le premesse) appare manifesta attraverso i termini contenuti nelle premesse (ad esempio
quanto asserito dall'enunciato BeA è già implicito nel fatto, asserito dalla premessa AeB, che A e B
sono termini disgiunti).
Contro questa interpretazione si può obiettare che tiene conto solo delle riduzioni per
conversione e non di quelle per reductio all'assurdo (in cui l'enunciato utilizzato è la contraddittoria
di una delle premesse del sillogismo da ridurre). Questo è vero, ma è possibile che Aristotele, data
la difficoltà di descrivere in maniera generale le procedure di riduzione, si sia limitato a definire il
sillogismo imperfetto con riferimento alla sola riduzione per conversione.**
3.2 Le regole di conversione (capitolo secondo) – reductio all'assurdo
Convertire una premessa significa scambiare tra loro soggetto e predicato, mantenendo la qualità
delle premesse, ma cambiandone eventualmente la quantità: il risultato della conversione di una
premessa  è detto "conversa" di . Dal punto di vista sintattico è quindi possibile convertire in
vari modi ogni premessa, ma solo alcune di queste conversioni sono valide, ossia sono tali che la
conversa segue di necessità dalla premessa che viene convertita. Abbiamo così le seguenti
Regole di conversione
BaA si converte in AiB (per accidens)
BiA si converte in AiB (semplice o simpliciter)
BeA si converte in AeB (semplice o simpliciter)
BoA non si converte.
dove, seguendo l'uso medioevale, le lettere a, e, i, o indicano rispettivamente che la premessa è U.A,
U.N., P.A. o P.N., mentre le maiuscole A, B, C sono variabili che stanno per i termini; la lettera
17
maiuscola a sinistra sta per il termine soggetto, quella a destra per il termine predicato. Ad esempio
BaA significa "Ogni B è A".
Aristotele "dimostra" la validità di queste regole mediante reductio ad absurdum. In generale se si
deve dimostrare che
da  segue  (dove  è un insieme di premesse)
possiamo assumere non  e dimostrare che da  e non  segue la contraddittoria di una delle
premesse contenute in .Questo mostra che non  è incompatibile con ; d'altra parte per PTE o 
o non  deve in ogni caso valere: quindi, poiché una volta assunte le premesse , non  non è
ammissibile, date le premesse  deve necessariamente valere 
In molti casi, soprattutto quando la reductio è utilizzata in una scienza dimostrativa, ciò che
segue da  e non  non è la contraddittoria di una delle premesse contenute in , ma qualcosa di
palesemente assurdo o di cui, comunque, è già stata dimostrata la falsità (ad esempio nella celebre
dimostrazione e assurdo dell'incommensurabilità di lato e diagonale di un quadrato la conseguenza
assurda è che i numeri pari sono anche dispari).
Torniamo alle conversioni. Le dimostrazioni di Aristotele sono semplici ma sollevano una
difficoltà. Infatti:
- per dimostrare che da BeA segue AeB, si assume la contraddittoria di quest'ultima, ossia AiB, da
cui per conversione segue BiA che è la contraddittoria di BeA;
- per dimostrare che da BaA segue AiB, si assume la contraddittoria di quest'ultima, ossia AeB, da
cui per conversione segue BeA che è la contraria di BaA e quindi è incompatibile con BaA
stessa;
- per dimostrare che da BiA segue AiB, si assume la contraddittoria di quest'ultima, ossia AeB, da
cui per conversione segue BeA che è la contraddittoria di BiA.
Il problema è che queste dimostrazioni nel loro complesso sono circolari. La prima, infatti, dimostra
la validità della conversione dell'U.N. tramite la validità di quella della P.A.; mentre la terza
dimostra la validità della conversione della P.A. tramite la validità di quella dell'U.N.
Gli interpreti hanno discusso molto su questa imperfezione sistemica della sillogistica
aristotelica ed hanno cercato in vari modi di emendarla. Non mi occuperò di questi tentativi, e mi
limiterò a richiamare l'attenzione sul fatto che Aristotele afferma ripetutamente che non si dà
sillogismo se non sono presenti almeno due premesse. In effetti le regole di conversione non sono
produttive perché, come abbiamo visto, non stabiliscono nuovi rapporti tra i termini che compaiono
nelle premesse. Questo potrebbe spiegare il poco interesse in una trattazione sistematica delle
conversioni: agli occhi di Aristotele quelle che io ho chiamato dimostrazioni forse non lo sono in
senso forte, si tratta piuttosto di illustrazioni tese a convincerci che tali regole valgono. Quello che
in realtà Aristotele dimostra è che le tre regole di conversione o sono tutte valide o non lo è nessuna,
quindi è sufficiente avere un'intuizione riguardante la validità di una di esse per accettarle tutte.
[[Ma questa – tengo a precisare – è solo un'ipotesi non confermata, né credo confermabile, dai testi
aristotelici]].
3.3
Figure e modi
Come dovrebbe essere chiaro da quanto detto nel paragrafo precedente, Aristotele prende in
considerazione unicamente i quattro tipi di enunciato (o premessa) che costituiscono il quadrato di
De Int. 7. Abbiamo anche visto che un sillogismo deve essere produttivo in senso pregnante: questo
significa che sono necessarie almeno tre termini e quindi almeno due premesse. Si tratta dunque di
vedere se e a quali condizioni da due premesse del tipo preso in considerazione da Aristotele può
seguire qualcosa sillogisticamente. Una condizione evidentemente necessaria è che le due premesse
abbiano un solo termine in comune (che verrà detto medio): se non ne avessero nessuno sarebbero
totalmente irrelate e quindi dalla loro combinazione non potrebbe venire fuori nulla; se ne avessero
più di uno, i termini sarebbero due e verrebbe meno la produttività del sillogismo. Ad esempio da
AaB e BaA conseguirebbe AaA, dove in effetti A non è messo in relazione a se stesso nelle
premesse, ma che è un enunciato privo di contenuto.
18
Aristotele analizza dunque in maniera molto generale quali conclusioni possono essere tratte
da coppie di premesse così costruite. Per fare ciò, dati tre termini A, B, C, dove B funge da medio,
Aristotele osserva che è possibile disporre il medio B in relazione ad A e C in tre modi differenti :
in mezzo agli altri due:
C – B – A;
a destra degli altri due
A–C–B;
a sinistra degli altri due
B – A – C.
Utilizzando ora x e y come variabili per le lettere a, e, i, o (che, come abbiamo visto, indicano che la
premessa in cui compaiono è rispettivamente U.A, U.N., P.A. o P.N.) e tenendo conto che il medio
B deve comparire in entrambe le premesse, a queste tre disposizioni dei termini corrispondono
nell'ordine i seguenti tre schemi di premesse
CxB, ByA
prima figura;
AxB, CyB
seconda figura;
BxA, ByC
terza figura.
Ognuno di questi schemi dà luogo ad una delle tre figure sillogistiche. All'interno di ognuna di
queste figure ogni possibile sostituzione delle variabili x e y con le lettere schematiche a, e, i, o (x e
y possono essere sostituite dalla stessa lettera) definisce una coppia di premesse sillogistiche. La
conclusione (se ce n'è una – ovviamente non tutte le coppie sono conclusive) dovrà avere una forma
standard e contenere i termini C ed A, uno in qualità di soggetto e l'altro in quella di predicato; non
solo, ma la forma standard prevede che si decida una volta per tutte quale dei due sarà il soggetto e
quale il predicato. Con quale criterio?
Prima di proseguire è necessaria una piccola digressione. Per ragioni di chiarezza espositiva
ho formulato le premesse sillogistiche nella forma "A è B". Aristotele, invece, utilizza abitualmente
il linguaggio dell'"appartenere a", ed invece di dire, in generale, "A è B" dice "B appartiene ad A".
Di conseguenza le tre posizioni del medio saranno in realtà
in mezzo agli altri due:
A – B – C;
a destra degli altri due
B–A–C;
a sinistra degli altri due
A – C – B.
Torniamo ora al criterio per individuare soggetto e predicato della conclusione. Alla fine di
3.1 ho esposto i sillogismi di prima figura sulla base del dictum de omni et de nullo in modo tale da
farne risaltare l'evidenza. Se consideriamo ad esempio BARBARA (esposto nel linguaggio
dell'"appartenere": se non è possibile trovare un B cui A non appartiene, allora, poiché B appartiene
a tutti i C, non è possibile trovare un C cui A non appartiene) si vede subito questo modo di
formulare i sillogismi richiede che il soggetto della conclusione sia il termine posto a destra ed il
predicato quello posto a sinistra. In poche parole la perfezione dei sillogismi di prima figura si
giustifica solo strutturando in questa maniera la conclusione.
Consideriamo ora la seconda figura. Si ottiene spostando il medio a sinistra degli altri due
termini e mantenendo l'ordine in cui questi ultimi comparivano nella prima figura. Dunque,
- nella seconda figura il soggetto della conclusione sarà quello che nello schema B – A – C è più
lontano dal medio B, ossia C, ed il predicato quello più vicino, ossia A.
Analogamente la terza figura si ottiene spostando il medio a destra degli altri due termini e
mantenendo l'ordine in cui questi ultimi comparivano nella prima figura. Dunque,
- nella terza figura il soggetto della conclusione sarà quello che nello schema A – C – B è più
vicino al medio B, ossia C, ed il predicato quello più lontano, ossia A.
I termini C e A (rispettivamente soggetto e predicato della conclusione) saranno detti estremi, C
sarà detto termine (o estremo) minore, A termine (o estremo) maggiore.
Se associamo ad una coppia di premesse in una data figura una delle possibili conclusioni in
forma standard otteniamo un modo sillogistico: se la conclusione segue logicamente dalle
premesse sarà un modo valido, in caso contrario un modo non valido.
Per ogni figura Aristotele stabilisce quali sono i modi validi e quelli non validi. Nella prima
figura esistono quattro modi validi, i quali costituiscono i sillogismi perfetti: abbiamo visto che la
19
perfezione di un sillogismo significa che la necessità della conclusione è manifesta, ed ho suggerito
in precedenza una possibile ragione per questa evidenza. I sillogismi validi nelle altre due figure
sono imperfetti, e per rendere manifesta la necessità della conclusione Aristotele li riduce alla prima
tramite seguendo le procedure che verranno descritte nel prossimo paragrafo.
La perfezione di alcuni modi della prima figura e le procedure di riduzione ci garantiscono
che alcuni modi delle altre due figure sono validi, ma non ci possono garantire che tutti gli altri non
lo siano. Per dimostrare che effettivamente non lo sono Aristotele utilizza il cosiddetto metodo dei
controesempi, basato sull'idea che se un sillogismo è valido, allora per ogni tripla di termini che
viene sostituita alle lettere è impossibile le premesse siano vere e la conclusione falsa. Data dunque
una coppia di premesse sillogistiche <, > (di cui si vuole dimostrare che non sono conclusive)
Aristotele procede individuando due triple di termini da sostituire alle lettere schematiche in  e ,
tali che:
- gli enunciati che risultano dalla sostituzione in  e  delle lettere con i termini della prima tripla
sono veri;
- gli enunciati che risultano dalla sostituzione in  e  delle lettere con i termini della seconda
tripla sono ancora veri;
- i termini che nella prima tripla corrispondono agli estremi sono tali che l'U.A. in cui tali termini
compaiono è vera;
- i termini che nella seconda tripla corrispondono agli estremi sono tali che l'U.N. in cui tali
termini compaiono è vera.
Prendiamo come esempio la coppia sillogistica di prima figura
BaA
CeB.
Ogni possibile conclusione dovrebbe avere la forma CxA (lasciando impregiudicata qualità e
quantità della conclusione). Come triple di termini (corrispondenti nell'ordine a C, B, A) prendiamo
gatto – uomo – animale
pietra – uomo – animale.
La sostituzione dei termini delle triple alle lettere corrispondenti darà rispettivamente
Ogni uomo è animale
Ogni uomo è animale
Nessun gatto è uomo
Nessuna pietra è uomo
Nel primo caso è vero "Ogni gatto è animale", nel secondo "Nessuna pietra è animale".
Questo mostra che la coppia BaA, CeB
- non può avere come conclusione CeA o CoA perché sostituendo alla lettere i termini della prima
tripla le premesse risulterebbero vere, ma la conclusione falsa;
- non può avere come conclusione CaA o CiA perché sostituendo alle lettere i termini della
seconda tripla le premesse risulterebbero vere, ma la conclusione falsa.
Dal momento che nessuno dei 4 modi che possono essere costruiti a partire dalla coppia BaA, CeB
è valido, questa coppia di premesse non è conclusiva.
3.4 Sommario delle tre figure sillogistiche e della relative conversioni
Questo è l'elenco dei modi validi.
Prima figura
BaA
BeA
BaA
BeA
CaB
CaB
CiB
CiB
CaA
CeA
CiA
CoA
BARBARA
CELARENT
DARII
FERIO
Seconda figura
AeB
CaB
CeA
AaB
CeB
CeA
AeB
CiB
CoA
AaB
CoB
CoA
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CESARE
CAMESTRES
FESTINO
BAROCO
Terza figura
BaA
BaC
CiA
DARAPTI
BeA
BaC
CoA
FELAPTON
BaA
BiC
CiA
DATISI
BiA
BaC
CiA
DISAMIS
BeA
BiC
CoA
FERISON
BoA
BaC
CoA
BOCARDO
Ridurre alla prima figura un sillogismo di seconda o terza figura significa dimostrare che tale
sillogismo è valido se lo è il sillogismo di prima figura cui è stato ridotto. In generale la procedura è
la seguente
- se il sillogismo da ridurre è "Da ,  segue ", una delle premesse viene convertita in modo da
ottenere una coppia di premesse strutturate come in un sillogismo di prima figura: dato che le
leggi di conversione sono logicamente valide, la seconda coppia di premesse segue logicamente
dalla prima;
- dalla seconda coppia di premesse si ricava (in prima figura) la conclusione ;
- poiché da ,  segue la seconda coppia di premesse e da quest'ultima segue , allora la
transitività della relazione "seguire da" comporta che da ,  segue .
Illustriamo la procedura con un esempio. Dato CESARE, convertendo la premessa maggiore AeB
in BeA e mantenendo la premessa minore CaB, si ottiene la coppia di premesse BeA, CaB da cui
segue per CELARENT CeA.
Riduzione schematica dei sillogismi:
CESARE: AeB si converte in BeA; da BeA, CaB segue per CELARENT CeA.
CAMESTRES: CeB si converte in BeC; permutando l'ordine delle premesse per CELARENT da
BeC e AaB segue AeC, e da questa CeA ancora per conversione.
FESTINO: AeB si converte in BeA; per FERIO da BeA, CiB segue CoA.
DARAPTI: BaC si converte in CiB; da BaA e CiB per DARII segue CiA.
FELAPTON: BaC si converte in CiB; da BeA e CiB per FERIO segue CoA.
DATISI: BiC si converte in CiB; da BaA e CiB per DARII segue CiA.
DISAMIS: BiA si converte in AiB; permutando l'ordine delle premesse da BaC e AiB per DARII
segue AiC, e da questa ancora per conversione CiA.
FERISON: BiC si converte in CiB; da BeA e CiB per FERIO segue CoA.
Restano fuori BAROCO e BOCARDO per i quali la riduzione per conversione non è
possibile (solo la premessa U.A è convertibile per accidens, ma questo non dà luogo ad una coppia
di premesse che concludono validamente in prima figura – in realtà in nessuna figura). Si utilizza
perciò la reductio all'assurdo. Ho già descritto in precedenza in che cosa consiste la reductio, ma è
opportuno riprenderne qui l'illustrazione adattandola alla riduzione dei sillogismi:
Se si deve dimostrare
da ,  segue 
possiamo assumere non  e dimostrare (tramite un sillogismo di prima figura)
da , non  segue non 
oppure
da , non  segue non 
[tali sillogismi vengono anche detti "sillogismi ausiliari"]
21
Questo dimostra che non  è incompatibile con le premesse  e ; d'altra parte per PTE o  o non
 deve in ogni caso valere: quindi, poiché una volta assunte  e , non  non è ammissibile, deve
necessariamente valere 
E' possibile ora ridurre anche BAROCO e BOCARDO alla prima figura.
BAROCO: si assume la contraddittoria della conclusione, ossia CaA; per BARBARA da AaB e
CaA segue CaB, che contraddice l'altra premessa CoB.
BOCARDO: si assume la contraddittoria della conclusione CaA; per BARBARA da CaA e BaC
segue BaA, che contraddice l'altra premessa BoA.
In realtà tramite dimostrazione per assurdo è possibile ridurre anche DARII e FERIO a
CELARENT, per cui tutti i sillogismi risultano riducibili ai sillogismi di prima figura con premesse
universali, ossia BARBARA e CELARENT
DARII: si assume la contraddittoria della conclusione CeA e la si converte in AeC; da AeC e BaA
segue per CELARENT BeC, la cui conversa CeB contraddice l'altra premessa CiB.
FERIO: si assume la contraddittoria della conclusione CaA e si converte in AeB la premessa BeA;
da AeB e CaA segue per CELARENT CeB, che contraddice l'altra premessa CiB.
[Significato del nome medioevale dei sillogismi]
Le vocali indicano quantità e qualità, nell'ordine, delle premesse e della conclusione.
La consonante iniziale, nei sillogismi di seconda e terza figura, indica a quale sillogismo della
prima devono essere ridotti oppure quale sillogismo ausiliario si utilizza nella reductio all'assurdo.
La consonante S che segue una vocale indica che nella riduzione alla prima figura la premessa o la
conclusione contrassegnata da quella vocale vanno convertite simpliciter.
La consonante P che segue una vocale indica che nella riduzione alla prima figura la premessa o la
conclusione contrassegnata da quella vocale va convertita per accidens.
La consonante M indica che nella riduzione alla prima figura l'ordine delle premesse deve essere
permutato
La presenza contemporanea della C (non iniziale) e della R indica che la riduzione alla prima figura
avviene per reductio all'assurdo: la R segue la lettera che contrassegna la premessa che viene
assunta nella reductio, la C segue la lettera che contrassegna la premessa la cui contraddittoria è la
conclusione del sillogismo ausiliario nella reductio.
Due esempi
D
si riduce a DARII
I
la premessa maggiore è P.A.
S
nella riduzione alla prima figura la premessa maggiore si converte simpliciter
A
la premessa minore è U.A.
M
nella riduzione alla prima figura le premesse sono permutate
I
la conclusione è P.A.
S
nella riduzione alla prima figura la conclusione si converte simpliciter
B
A
R
O
C
O
il sillogismo ausiliario è BARBARA
la premessa maggiore è U.A
la premessa maggiore è premessa anche nel sillogismo ausiliario
la premessa minore è P.N.
il sillogismo ausiliario ha come conclusione la contraddittoria della premessa minore
la conclusione è P.N.
3.5
La dimostrazione per e[kqesi" (expositio, esposizione)
Nel capitolo 6, 28a22 e seguenti Aristotele introduce, a proposito di DARAPTI, una nuova
procedura di riduzione (appunto la cosiddetta esposizione). Dato DARAPTI
22
BaA
BaC
CiA
la procedura di riduzione consiste nel prendere uno dei B, diciamo D, e nell'osservare che, in base
alle premesse, sia A che C appartengono a D e che quindi A appartiene a qualche C. Questo tipo di
dimostrazione ha sollevato molte perplessità, in particolare è stata accusata di petitio: infatti
ricavare dall'assunzione "A e C appartengono a D" la conclusione "Qualche C è A" sembra essere
giustificato solo attraverso un'applicazione di DARAPTI e quindi essere inutulizzabile nella
riduzione di DARAPTI stesso.
Torniamo però alla definizione di "si predica di ogni" di cui abbiamo parlato in 3.1 (ed alle
definizioni collegate). Le premesse di DARAPTI saranno allora esprimibili in questo modo: "non è
possibile trovare qualcosa che fa parte di B di cui sia A che C non siano detti"; se ora D è uno dei B,
allora A è detto di D, ossia D è uno dei A: d'altra parte C è detto di D, quindi è possibile trovare
uno degli A di cui C viene detto. Se le cose stanno così è la stessa definizione delle premesse che
giustifica la dimostrazione per esposizione. Si potrebbe obiettare che allora (almeno in base
all'ipotesi che la perfezione dei sillogismi di prima figura dipenda dal modo in cui definiamo le
premesse) anche DARAPTI sarebbe perfetto; ma questo non è vero perché, in relazione a
DARAPTI è stato necessario introdurre un nuovo termine, quello esposto, e quindi, in base alla
definizione di sillogismo perfetto e imperfetto, DARAPTI non è un sillogismo perfetto.
3.6
I modi indiretti e la quarta figura
Nel cap. 7 Aristotele accenna ai modi indiretti della prima figura, cioè ai modi le cui premesse sono
strutturate come nella prima figura, ma in cui la conclusione ha come soggetto il termine maggiore
e come predicato il termine minore. Tali modi – 5 in tutto - si ottengono i primi tre tramite
conversione della conclusione di un modo di prima figura normale, gli altri due si riducono invece
alla prima figura normale tramite doppia conversione delle premesse e permutazione delle stesse. I
modi validi sono i seguenti
BaA
CaB
AiC
BARALIPTON
BeA
CaB
AeC
CELANTES
BaA
CeB
AoC
FAPESMO4
BiA
CeB
AoC
FRISESOMORUM
BaA
CiB
AiC
DABITIS
FAPESMO: BaA si converte in AiB, CeB si converte in BeC; permutando l'ordine delle premsse da
BeC e AiB per FERIO si ottiene AoC.
FRISESOMORUM: BiA si converte in AiB, CeB si converte in BeC; permutando l'ordine delle
premsse da BeC e AiB per FERIO si ottiene AoC.
Se nei precedenti sillogismi si permuta l'ordine delle premesse si ottengono 5 sillogismi che
hanno la stessa conclusione dei precedenti, ma tali che il medio è soggetto della premessa minore e
predicato di quella maggiore (mentre nella prima figura è vero il contrario). Questi modi saranno
detti (ma solo dopo Aristotele) costituire la quarta figura. La ragione per cui Aristotele non ha
riconosciuto la quarta figura è abbastanza evidente: come si è visto in 3.3, le possibilità di
strutturare tre termini sono solo tre, e Aristotele definisce predicato e soggetto della conclusione a
4
Abbiamo già visto, trattando del medodo di refutazione tramite controesempi , che dalla coppia CeB, BaA non segue
nessuna conclusione della forma CxA (il che per l'appunto non esclude la possibilità di una conclusione avente la forma
AxC).
23
partire da ognuna di queste possibili strutturazioni. In altre parole la definizione di termine
maggiore e minore non fa parte della strutturazione stessa, per cui non è possibile distinguere una
prima da una quarta figura sulla base del diverso modo di ordinare gli estremi nella conclusione. Al
contrario Aristotele sulla base dello schema della prima figura individua due possibilità diverse di
ordinare gli estremi nella conclusione, e nel secondo caso parla di modi indiretti.
3.7 I "limiti" della sillogistica aristotelica.
Consideriamo una semplice regola di derivazione comunemente usata (nota come Modus polena):
Se p allora q
p
q
La validità di questa regola dipende innanzitutto dal significato della congiunzione "Se... allora":
posto che il suo significato sia (in prima approssimazione è sufficiente) "in ogni circostanza in cui si
dà il caso che p si dà anche il caso che q", se si dà il caso che p deve darsi anche il caso che q. E non
dipende dagli enunciati che vi compaiono: l'uso di p e q come variabili per enunciati ha infatti la
stessa funzione dell'uso delle lettere come variabili per termini nella sillogistica, e quindi neppure
dalla struttura degli enunciati coinvolti. Dal momento che la struttura degli enunciati non è
rilevante, questa regola non trova ovviamente posto nella sillogistica, o meglio vi trova un posto del
tutto marginale, come risulta da An. Pro A 23, 41a37-b1. Aristotele parla qui di sillogismi
"ipotetici" (ex uJpoqevsew")5, nei quali, invece di dimostrare sillogisticamente (in senso stretto,
ossia tramite i modi validi nelle tre figure), ciò che ci si era proposti di dimostrare, si dimostra
qualcosa d'altro, a partire dal quale, per accordo o per un'altra ipotesi, si arriva alla conclusione
cercata. Il Modus Ponens rientra a pieno titolo tra i sillogismi ipotetici: per dimostrare q è possibile
dimostrare al suo posto p, purché si sia disposti ad accordare q una volta dimostrato p.
Tuttavia Aristotele non prova nemmeno a studiare, da un punto di vista formale e
sistematico, il tipo di conseguenza logica la cui validità dipende, come nel caso del Modus Ponens,
dal significato delle congiunzioni. Lo studio di questo tipo di derivazioni sarà invece al centro della
logica stoica. Secondo la tradizione i 5 schemi basilari di derivazione (tradizionalmente conosciuti
come anapodittici sono appunto per Crisippo:
Modus Ponens
Modus Tollens (Se p allora q, ma non q, dunque non p)
non (p e q), p, dunque non q
p aut q, p, dunque non q
p aut q, non q, dunque p,
dai quali vengono ricavati numerosi altri schemi.
Per gli Stoici questo tipo di schemi di derivazione era quello basilare, e tramite essi si poteva
giustificare anche la validità dei sillogismi aristotelici. Al contrario per gli aristotelici gli schemi
d'inferenza degli Stoici avevano solo una funzione ausiliaria nel quadro della sillogistica. La disputa
risultò piuttosto sterile, e le due tradizioni finirono, nel Medioevo, per rimanere entrambe, ma, per
così dire, una estranea all'altra6. Solo nell'epoca moderna si realizzò la loro fusione, da cui ebbe
origine quella parte basilare della logica moderna conosciuta come calcolo dei predicati.
Un'altro limite della logica aristotelica è il privilegiamento della forma "soggetto-predicato". (cfr. la
mia Introduzione a Frege, p. 4).
5
Ci sarebbe molro da dire sull'uso del termine "ipotesi", ma in questa sede basta limitarsi al significato di "qualcosa
assunto ai fini di raggiungere una determinara conclusione".
6
Grande influenza eebbe a questo proposito l'opera di Severino Boezio (VI secolo d. C.) trattò gli schemi di inferenza
stoici (ma da un punto di vista sostanzialmente aristotelico) nell'opera De syllogismis hypoteticis.