LA COSCIENZA
e le prospettive della ricerca
nel campo della Neurofilosofia
Tesi per il Magistero in Scienze Religiose
di:
Enrico M. Vaglieri
Relatore:
prof. Claudio Freschi
Anno Accademico 1999/2000
INDICE
Presentazione - Abstract
Introduzione
Per un nuovo paradigma di indagine della coscienza
parte prima
Definizioni e storia del concetto di coscienza
I Etimologia di "coscienza" e ambiti di significato
Nel senso comune, * - Nella filosofia, * - Nella riflessione morale, * - Nella
psicologia e psicoanalisi, * - Nella riflessione sociale, * - Nelle scienze mediche,
* - Nella letteratura, * - Come disagio esistenziale, * - Nei linguaggi tecnici, * Nelle altre lingue, * - Termini e significati correlati, *
II La coscienza nella riflessione filosofica
III La coscienza nella psicologia, nella psichiatria e nella neurologia
La coscienza nella psichiatria, *
IV La coscienza nell'etica, nel pensiero biblico, nella teologia morale e nella
mistica
La coscienza nel pensiero biblico, * - La coscienza nell'evoluzione della
teologia morale: dalla "sinderesi" alla "conscientia", * - La coscienza nella
mistica, *
V La coscienza nell'occultismo, nell'esoterismo,
nell'indagine sul paranormale
L'ipnosi regressiva e la metempsicosi, *
nella
New
Age
e
1
parte seconda
Neuroscienze e neurofilosofia: le prospettive della ricerca
VI La dimensione della coscienza nelle neuroscienze
Rodolfo Llinas e il funzionamento della coscienza, * - Herber Simon: la
mente, la ricerca e il computer, * - Pierre Changeaux: infanzia e maturità del
cervello, * - La psiconeuroimmunologia, * - È possibile definire l'intelligenza?,
* - Coscienza, sonno e sogno, *
VII La neurofilosofia tra esplorazione e critica epsitemologica: limiti e
potenzialità del dialogo tra neuroscienze e filosofia
Le teorie della coscienza tra concezioni naturalistiche, riduzionismo e
metafisica, * - I "qualia", *
VIII Appunti su alcune teorie contemporanee della coscienza
Ignacio Matte Blanco e la mente asimmetrica, * Daniel C. Dennett e la visione cognitivista della coscienza, * Karl R. Popper e il mondo delle idee, * Fabrizio Desideri e lo sviluppo della coscienza tra l'io e l'altro, *
IX Due tentativi discutibili di teorizzazioni psicologiche della coscienza e
altri assai pregevoli di matrice cristiana
La "psicologia cristiana" di Giovanni Petrocchi, * La "psicologia coscienziale" di Ermelindo Maimone e Fernando Ficoneri, * Una plausibile correlazione tra psicanalisi e verità di fede: alcuni esempi.
Françoise Dolto e "La psicanalisi del Vangelo", * Giacomo Daquino, * - Victor Frankl, *
parte terza
Per una teoria spirituale della coscienza
X La genesi della coscienza umana
XI Dalla sundevresi§ al coscienzialismo: alcune questioni ancora aperte
sulla coscienza
XII Una riflessione personale: la coscienza come "origine" e "unità"
dell'essere umano
Conclusione
Coscienza, salvezza e benessere
Bibliografia
2
Presentazione - Abstract
Nell'introduzione dirò che il concetto di coscienza è presente in tutta la
storia della filosofia e della scienza, molto attuale e vastissimo; ma stanno
cambiando e devono cambiare i paradigmi della ricerca. Più che la conscience
(per dirla con gli inglesi) ora si indaga la consciousness . Quello su cui metterò
l'accento è la necessità di recuperare la dimensione spirituale della coscienza,
senza per questo cadere in anacronistiche nostalgie metafisiche.
Nella parte prima, quella più generale, esamino l'etimo di coscienza, l'uso
del concetto nelle espressioni comuni, che tuttavia contengono molti paradigmi
del concetto filosofico, i termini corrispondenti nelle altre lingue, le espressioni
idiomatiche e la presenza del concetto nella letteratura; poi le definizioni di
coscienza in varie discipline, dalla filosofia (con brevi cenni storici), alla
psicologia (e psicoanalisi), alla psichiatria (medicina, patologie ecc.), fino
all'etica, alla teologia morale, alla mistica e all'esoterismo. Ne uscirà un
inventario di significati del concetto.
Nella parte seconda parlo delle neuroscienze. La ricerca ferve ed è
affascinante. Il materiale più recente l'ho trovato grazie a Internet.
Illustro le prospettive della neurofilosofia che da cinque o dieci anni al
massimo è la nuova frontiera della "scienza della mente". Esse in realtà sono
limitate perché, volendo coniugare la rilfessione filosofica con i risultati delle
ricerche nueroscientifiche, sono ancorate a queste ultime, che in questo
momento non possono ancora dire nulla di definitivo, completo, organico e
soddisfacente sulla coscienza. Nessuno può azzardare una teoria completa;
quindi la neurofilosofia si limita a riflessioni metodologiche ed epistemologiche.
Esamino alcune teorie sulla coscienza - tra tutte quelle esistenti - che mi
hanno colpito: gli studi di Matte Blanco, Dennett, Popper e Desideri. Commento
inoltre due libri anomali, che sono esempi di tentativi di teorizzazione molto
discutibili: poca bibliografa, buone intuizioni di fondo, ma sviluppate in modo
discutibile, percorsi metodologici inefficaci che mi servono per capire cosa
evitare nel cercare una mia strada di indagine e riflessione.
Cito però anche altri studi molto acuti, di matrice cristiana (F. Dolto, V.
Frankl).
lla parte terza, quella più personale, metto a confronto tutti gli stimoli
precedenti.
Cito le ricerche neuropsicologiche sull'origine della coscienza nel bambino
(che unitamente alle indagini dei primi capitoli potebbe formare una sorta di
"storia della coscienza"), perché l'aspetto che indico come "cifra" della
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coscienza è proprio il suo essere "origine" dell'uomo, inteso come totalità, di
essere l'unità radicale, profonda e originante dell'uomo.
Ciò nel tentativo - se non di fondare una teoria della coscienza, cosa oggi
impossibile - di ridare vigore, nell'ambito della neurofilosofia, a una teoria
spirituale della coscienza.
Recupero le riflessioni della filosofia antica (la sunevide§is) e di quella
scolastica (la sinderesi, parte perfetta dell'anima), concetti che appoggiano la
mia tesi della coscienza come "luogo di incontro con l'assoluto". E accenno al
movimento del coscienzialismo.
Nella conclusione dirò quanto la riflessione sulla coscienza possa servire per
migliorare la vita, essere più consapevoli, apprezzare le potenzialità non solo
intellettive e morali, ma anche di esseri-che-si-sanno.
Procederò nell'indagine con andamento concentrico, a partire dalla parola
"coscienza" indagando tutto attorno verso l'universo di significati e di
significato che le appartiene.
Ma, se si osserva da un altro punto di vista, sembrerà l'opposto: da una
quantità ampia di discipline, ambiti di significato e usi del termine, mi muoverò
verso un'unità teorica, un tentativo di visione personale della coscienza, la
coscienza come "origine" totale dell'uomo.
Introduzione
Per un nuovo paradigma di indagine della coscienza
Che cos’è la coscienza?
Nel 1866 Thomas Huxley ha scritto: "Come avvenga che qualcosa di così
notevole come uno stato di coscienza sia il risultato della stimolazione del
tessuto nervoso è tanto inspiegabile quanto la comparsa del Genio nella favola,
quando Aladino strofina la lampada" . Tale considerazione a distanza di oltre
un secolo rimane ancora valida e lo rimarrà, con ogni probabilità, ancora per
molto tempo.
Che cosa è la coscienza?
Di fronte a questa domanda attualmente – e questo è l’assunto di base
della mia dissertazione – nessuno è in grado di fornire una teoria della
coscienza che spieghi esaurientemente e definitivamente la sua natura e il suo
funzionamento.
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L’unica cosa che si può fare oggi è esaminare i diversi tentativi di teorie che
sono stati elaborati, analizzarne i limiti, elaborare riflessioni metodologiche ed
epistemologiche – ed è tutto quello che finora riesce a fare la neurofilosofia.
Ecco spiegata la scelta del titolo della presente ricerca: "La coscienza e le
prospettive della ricerca nel campo della neurofilosofia".
Tuttavia numerosi scienziati sostengono che arriverà il giorno in cui si potrà
descrivere in modo esauriente la natura e il funzionamento della coscienza.
Decisamente quel giorno decreterà il più grande e straordinario passo in
avanti per l’umanità, perché tale scoperta rivoluzionaria – conoscere,
interpretare, utilizzare la mente umana – permetterà interventi, miglioramenti,
progressi attualmente inimmaginabili (se non nella letteratura fantascientifica).
Tali saranno i progressi per l’umanità e le potenzialità di intervento e
innovamento rese possibili, che una parte dell’umanità risulta già spaventata
da questa prospettiva.
Le nuove tecnologie di indagine
Perché si può affermare che si arriverà a conoscere il funzionamento della
mente e della coscienza? "Nel corso degli anni '80, sono diventate disponibili
nella pratica clinica tecniche prive di rischio che permettono di ottenere
immagini del cervello umano in vivo. Questa rivoluzione nella diagnostica per
immagini cominciò con lo sviluppo della tomografia computerizzata (TAC)
all'inizio degli anni '70 seguita dalla tomografia ad emissione di positroni (PET)
e dalla risonanza magnetica nucleare (RMN). Ognuna di queste tecniche ha
dato i suoi contributi specifici: la Tac e la RMN per la produzione di immagini
sofisticate, in vivo, e la PET per le immagini della funzione cerebrale misurate
in termini di attività chimica locale, del metabolismo (cioè l'utilizzazione
dell'ossigeno e del glucosio) e del flusso sanguigno" [Gregory, EOM, 1991, p.
399] .
Attraverso le nuovissime tecnologie di indagine, in primis la Tomografia ad
Emissione di Positroni (PET), nei laboratori si stanno svolgendo studi molto
importanti e si sta raccogliendo una mole ingentissima di osservazioni sul
funzionamento del cervello, alla ricerca della definizione dell’intelligenza e della
mente. È per questo che si intravedono già ora possibilità di teorizzazioni , e si
giustifica la speranza di poter arrivare, prima o poi, a delle teorie efficaci ed
esaurienti.
Ciò non significa necessariamente tornare a una mentalità scientistica e
positivistica. Esistono ormai decine di posizioni teoriche diverse, con molteplici
sfumature, dal dualismo alla negazione della coscienza, dallo spiritualismo al
materialismo puro con una gamma ampia di sfumature - come si vedrà nei
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capitoli dedicati al concetto di coscienza nella neurobiologia, nella medicina e
nella storia delle teorie che hanno cercato di spiegarla.
I molti campi d'indagine sulla coscienza
Della coscienza si occupano molte discipline, scientifiche e umanistiche:
- la filosofia (in particolare la gnoseologia, la filosofia della scienza, la
filosofia morale)
- il senso comune (coscienza come consapevolezza di sé e di ciò che sta
intorno),
- l'etica (coscienza come capacità di valutazione delle azioni),
- la teologia morale (coscienza come immaginaria sede del senso morale
dell'uomo, voce della coscienza, le coscienze illuminate non accettano di
piegarsi), e la mistica
- la psicologia nella sue varie branche di applicazione e di studio,
- la neurobiologia, la medicina (perdere coscienza),
- la giurisprudenza (caso di coscienza, obiezione di coscienza),
- la politica (coscienza civile),
- la sociologia (coscienza di classe),
- la letteratura (flusso di coscienza) ,
senza parlare del campo in continua crescita e così tanto ambiguo qual è
quello dell'esoterismo, la psicologia transpersonale, la New age e i
"neoorientalismi" di vario genere.
Per alcuni di questi campi d'indagine - non certo tutti - vorrei esporre in
estrema sintesi i risultati attuali delle ricerche , per poi dedicarmi a un
approfondimento secondo il punto di vista della filosofia e con un'attenzione
particolare per la neurobiologia.
È evidente dunque come il tema della coscienza metta in gioco una
costellazione di altri temi e termini (tra gli altri mente, anima, intelligenza,
cuore, io, eccetera) che non si possono trascurare, ma che complicano
l’indagine .
Un inventario di significati e definizioni
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È interessante la possibilità di fare un inventario – senza pretesa di
esaustività - delle definizioni di "coscienza", confrontarle e ottenere nuove
indicazioni, almeno di tipo epistemologico o filosofico. E quello filosofico – o
meglio neurofilosofico – sarà il taglio principale della dissertazione.
Non c'è filosofo che non abbia detto la sua sulla coscienza (di veda il
capitolo specifico in cui ne parlo), uniche eccezioni i primi filosofi greci .
I pensatori e gli studiosi, quando si sono avvicinanti al tema della
coscienza, per prima cosa hanno chiarito e rigettato gli errori (atteggiamento
basilare della riflessione filosofica) appartenenti alle epoche precedenti [si veda
Dennett, 1993, Desideri, 1998, ecc.] e poi hanno formulato nuovi tentativi di
teorizzazione della coscienza.
Possiamo però a ragione affermare che niente di ciò che è stato mai detto
sulla coscienza basti a descriverla e spiegarla.
Ma proprio l’aver assunto questo punto di vista costituisce un ulteriore
problema. Perché oggi non è più possibile analizzare la mente prescindendo
dalle neuroscienze.
Gerald Edelman ha dichiarato: "Sono convinto che non sia possibile
comprendere la mente, se non attraverso l’elaborazione di un modello
neuroscientifico fondato su una teoria a base evoluzionistica" [Carli, 1997, p.
8].
La presente dissertazione indaga e appoggia l’approccio multidisciplinare al
problema della coscienza. Tale approccio appare ormai largamente condiviso
ed è l’unica strada che possa portare a solidi risultati in questa indagine.
Ritengo che sia necessario oggi reinterpretare tutto ciò che è stato detto
sulla coscienza in base anche a questo importante criterio: verrà confermato
dalle prossime indagini encefalografiche e neurobiologiche?
Buona parte delle antiche e moderne teorie sulla coscienza rimarranno utili
solo per la storia della filosofia, così che - come avviene per la scienza - anche
le teorie filosofiche possano risultare una buona volta false e falsificabili,
secondo l'insegnamento di K. Popper.
Si sta imponendo dunque una nuova disciplina al posto della filosofia della
coscienza: la neurofilosofia. Ad essa, ai suoi limiti, alle sue prospettive,
dedicherò ampio spazio.
La scelta del tema di questa dissertazione risiede anche nell’importanza che
il concetto di coscienza ha nella riflessione spirituale, religiosa e morale. Come
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a dire che ha contribuito a sviluppare nei secoli la riflessione sulla dignità
dell’essere umano.
La coscienza è un concetto presente in tutta la storia dell'uomo, se non
altro inteso come consapevolezza di sé, dalla riflessione veterotestamentaria
alla religiosità dell'antico Egitto, dal greco "Conosci te stesso" al pensiero
cristiano, dalle religioni orientali alla riflessione umanistica, su su, attraverso
filosofi e pensatori e teologi fino a un emblematico personaggio dei nostri
giorni, discusso ma affascinante, padre Antony De Mello, il cui libro più famoso
(ma non l'ha scritto lui, è solo la redazione di appunti delle sue conferenze) si
intitola originariamente "Awareness" ed è tutto dedicato al risveglio cioè al
"divenire consapevoli di sé".
La coscienza nello sviluppo dell'umanità
Il
concetto
di
coscienza
ovvero
la
percezione
di
sé,
l'autorappresentazione, la riflessione su di sé o tutte le altre definizioni con le
quali la si è descritta - è stato sempre al centro della riflessione umana.
L'indagine su di esso ha attraversato epoche, teorie, con risultati tra i più
diversi (dalla negazione della coscienza alla sua esaltazione metafisica o
ideologica), ma non c'è dubbio che si siano registrati alcuni grandissimi salti di
qualità.
La sua importanza affonda le radici nel concetto di "persona" creato e
sviluppato dal cristianesimo. Si è ingigantita soprattutto dalla fine del
medioevo, con la Riforma e durante i secoli delle guerre di religione. Ha
ricevuto dalla psicanalisi la conferma che prima di ricorrere alla teoria
medioevale (e già platonica) e secentesca della mente che riflette il pensiero di
Dio, vale la pena di indagare nel "profondo", dove si scopre una "vita"
totalmente diversa da quella cosciente (da alcuni definita asimmetrica a
differenza dell'altra che è simmetrica ) e di una natura che tende a riportarci
alle origini e quindi tendenzialmente oltre la storia, oltre l'ambiente, verso
l'istinto, verso il "gene", verso il "divino". Ha una grande rilevanza oggi quando
dobbiamo affrontare scelte etiche e bioetiche complesse: dalla clonazione alla
procreazione artificiale, dalle biotecnologie alle relazioni internazionali.
Il più grande salto di qualità nell'indagine sulla coscienza si registra proprio
oggi, negli ultimi venti anni del secolo XX (gli anni del crollo delle ideologie...),
quando si è potuto iniziare a utilizzare apparecchiature sofisticatissime per
esaminare l'attività cerebrale. Le neuroscienze hanno assunto in ogni direzione
un peso enorme. Decine di laboratori nel mondo stanno utilizzando queste
tecniche di indagine con le quali stanno raccogliendo informazioni
abbondantissime ed estremamente specifiche.
8
Ecco come si potrà in un tempo futuro (non occorreranno secoli, ma forse
solo qualche decina d'anni, data l'accelerazione della ricerca scientifica dovuta
ai calcolatori) perfezionare altissimamente la conoscenza, la teorizzazione e la
definizione di coscienza.
Tuttavia la coscienza rimane un problema e quasi certamente sarà sempre
un problema: non riusciremo mai a capire completamente quel quid in più che
caratterizza la mente.
Si pensi al fatto che si calcola che nel cervello risiedano 100 miliardi di
neuroni e ogni neurone è capace di 10.000 contatti con altre cellule nervose.
Per quanto riguarda la densità, i contatti vengono stimati nell'ordine di 500
milioni per millimetro cubo di sostanza grigia. E si è calcolato che tutte le fibre
di un solo cervello unite insieme, danno la lunghezza di 500.000 chilometri .
La corteccia cerebrale ricopre i due emisferi e ha uno spessore di tre
millimetri; se fosse distesa avrebbe la superficie di quattro fogli di carta da
lettera.
Una finestra sull'anima
Lo studioso francese Jean-Pierre Changeux, in una recente libro scritto a
quattro mani con Paul Ricoeur , afferma che i nuovi strumenti quali la
tomografia a emissione di positroni, la risonanza magnetica e gli sviluppi
dell’encefalografia hanno aperto una "finestra sull'anima" tale che "se si fosse
messa la testa di santa Teresa d'Avila nell’apparecchio per la tomografia
durante le sue estasi mistiche, si sarebbe capito se aveva, sì o no, delle
allucinazioni o se era, più o meno, in preda a crisi epilettiche" [cfr Avvenire, 6
maggio 1999, p. 21].
L’obiettivo delle ricerche di Changeaux potrebbe essere "andare alle radici
del pensiero al di fuori di ogni metafisica". Infatti, per esempio, per Changeux,
il premio Nobel John Eccles è "uno degli ultimi neurobiologi a credere nella
separazione tra mente e cervello (per Eccles mente era sinonimo di anima),
mentre è necessario il massimo rigore critico verso qualsiasi segno dello
Spirito, sia pure anche hegelianamente inteso.
Ricoeur obietta a Changeux che, utilizzando in modo così discriminato la
nozione di allucinazione, si ha un discorso neuronale ricco e un discorso
psicologico povero.
Invece bisogna trovare le intersezioni tra il neuronale e lo psichico.
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Ma è possibile? Sì se le rispondenze sono semplici, se entra in campo la
coscienza, quella che Ricoeur chiama "esperienza integrale", una esperienza
psicologica talmente globale da risultare neurobiologicamente indecifrabile.
Infatti la complessità entro cui ci si muove è "strabiliante".
Changeux ammette che il contributo delle neuroscienze è modesto se
riferito all'elaborazione di una morale.
"Qualcuno potrebbe sostenere che, nonostante gli sviluppi [...] della nostra
capacità di ricostruire una mappa funzionale del cervello umano, è
virtualmente impossibile che la PET riveli gli elementi neuronali coinvolti in
questi cambiamenti e quindi essi contribuiscono poco alla nostra comprensione
di come il cervello funziona. Sembra giusto presumere, tuttavia, che una volta
che la PET ha identificato sicuramente una specifica area del cervello umano
responsabile di un ben definito tipo di funzione, [...] si può ricorrere ad altre
tecniche neurobiologiche per studiare l'esatta natura del processo. Sia i
ricercatori clinici che gli studiosi del cervello si avvantaggeranno di
un'interazione complementare di questo genere" [Gregory, EOM, 1991, pp.
403-404].
In questi anni sta avvenendo qualcosa di importante, sta iniziando
l'indagine neurologica che influenzerà e trasformerà completamente le ricerche
dando enormi contributi per risolvere il mind-body problem .
In particolare gli ultimi dieci/venti anni del XX secolo hanno visto una
produzione enorme di (tentativi di) teorie unitarie della coscienza e del
problema del rapporto mente-cervello.
Si è scoperto, per esempio, che l'ascolto di un racconto in una lingua
sconosciuta mostra attive solo le cortecce auditive mentre lo stesso racconto,
ripetuto nella lingua nota, accende un gran numero di aree cerebrali.
Esiste nella nostra corteccia una "geografia della comprensione" vera e
propria.
La coscienza tra ricerca scientifica e riflessione teologica
Il tema della coscienza è il più attuale per le neuroscienze e la filosofia e
tante altre discipline correlate o conseguenti.
Ian Barbour, docente di fisica e teologia del Carleton College, Minnesota,
erede forse del pensiero di Teillhard de Chardin, ha detto recentemente: "La
scienza solleva questioni etiche alle quali da sola non è in grado di rispondere.
Questo è vero sia per la fisica che per la biologia. Si pensi alle sfide della
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genetica o dell'intelligenza artificiale. Oggi le maggiori minacce alla dignità
umana vengono da questi ambiti di ricerca, perché la clonazione, la
manipolazione genetica e la robotica sfidano la nostra comprensione della
natura umana. Ma l'essere umano è più del suo codice genetico. Siamo
potentemente influenzati dai nostri geni, ma siamo anche persone responsabili.
Il Dna non spiega ogni cosa, e il nostro cervello non è un computer" [cfr
Avvenire, 6 maggio 1999, p. 21].
Alla ricerca di creare una relazione e una collaborazione tra scienze e
teologia, Ian Barbour, impegnato in ciò da moltissimi anni, propone che il
dialogo tra le due comunità, quella scientifica e quella religiosa, si basi su uno
dei tanti modelli teologici che la cristianità ha offerto per pensare Dio e il
mondo: la process theology, la teologia del processo. "Questa teologia parla di
Dio come un partecipante attivo nella comunità cosmica. Creazione e
redenzione sono due aspetti di una sola azione divina che non è ancora finita.
Dunque possiamo parlare di una storia che, come un arco, include da una
parte il pilastro della creazione del cosmo, dalle particelle elementari
all'evoluzione degli esseri viventi, e dall'altra il pilastro dell'alleanza biblica e di
Cristo, con un posto in esso per le storie delle altre tradizioni religiose" [cfr
Avvenire, 6 maggio 1999, p. 21].
E continua "La "teologia del processo" offre una comprensione ecologica ed
evolutiva della natura come sistema dinamico e aperto, caratterizzato da
diversi livelli di organizzazione, attività ed esperienza. Evita ogni dualismo tra
mente e corpo, tra umanità e natura, tra mascolinità e femminilità. E offre la
più ampia base per una responsabilità verso il creato" [cfr ibidem].
Queste idee Barbour le ha elaborate soprattutto in due libri: La religione
nell'età della scienza (1990) e L'etica nell'età della tecnologia (1993).
Il progresso medico ha permesso una rinnovata speranza nella ricerca sulla
natura della coscienza ma anche altri interessanti sviluppi, per esempio la
definizione del problema spinoso di cosa sia e di quando avvenga precisamente
la morte. Tale ricerca ha una rilevanza clinica urgentissima in tema di espianti
di organi vitali.
Sarà anche molto importante conoscere i risultati del Progetto genoma, che
a detta dei più ottimisti, saranno forse disponibili già tra una decina d'anni e
potranno essere utilizzati in ogni campo della medicina e delle scienze del
corpo umano, compresa la neurologia. E proprio l’intescambio tra le
acquisizioni dell’indagine sulla corteccia cerebrale e le conoscenza genetiche
permetterà straordinari progressi alla cosiddetta scienza della mente.
L'argomento stesso di questa dissertazione costringe a non poter dire nulla
di nuovo, fintanto che le nuove apparecchiature e le ricerche già così numerose
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non forniranno dati e interpretazioni efficaci. Ma credo che i risultati non si
faranno attendere molto. Bisognerà metterli insieme e interpretarli.
Secondo i ricercatori si potrebbe localizzare con precisione la sede
dell’intelligenza umana, senza ricadere nella pretesa di trovare un luogo nel
cervello per ogni dimensione dell’intelligenza, dell’anima o della mente. E
senza trascurare l’assunto universalmente accettato, secondo cui la mente è il
risultato di un’attività integrata e associativa di moltissime parti della corteccia
cerebrale .
È da auspicare dunque che la filosofia incontri di nuovo la scienza e sposi
un metodo empirico, senza tradire quanto appreso nei millenni sulla
trascendenza dell’uomo. Era già successo molte volte, con Aristotele, alla fine
del medioevo (R. Bacone), nell'illuminismo e ora, dopo la pausa dell'idealismo
(Hegel), nel XX secolo.
Ma è necessario un nuovo paradigma di indagine. Proprio a illustrare
questa necessità è dedicata la presente ricerca.
La difficoltà dell’indagine sulla coscienza
Secondo R. L. Gregory [Gregory, 1991, pp. 181-186] la coscienza "è la
proprietà allo stesso tempo più ovvia e più misteriosa della nostra mente. Da
un lato, che cosa potrebbe essere più certo o evidente per ciascuno di noi del
fatto di essere un soggetto di esperienze, di godere di percezioni e sensazioni,
di provare dolore, di avere idee e di decidere in maniera consapevole? D'altra
parte, che cosa mai può essere la coscienza? Come possono i corpi fisici nel
mondo fisico contenere un simile fenomeno? La scienza ha rivelato i segreti di
molti fenomeni naturali inizialmente misteriosi - il magnetismo, la fotosintesi,
la digestione, anche la riproduzione - ma la coscienza sembra profondamente
differente da tutti questi … Qualsiasi caso particolare di coscienza sembra
avere un osservatore favorito o privilegiato, il cui accesso al fenomeno è del
tutto diverso, e migliore, rispetto a quello di qualsiasi altro, indipendentemente
dagli strumenti che egli possiede.
Per questo e altri motivi, non solo fino a ora non abbiamo una valida teoria
della coscienza, ma anche manchiamo di una descrizione di base chiara e non
controversa del fenomeno presunto" [Gregory, 1991, p. 181].
Alcuni sono arrivati al punto di negare che ci sia qualcosa defínibile con
questo termine. Evidentemente la concezione che noi abbiamo di essa è
lacunosa e si devono riconsiderare le assunzioni che ci inducono a supporre che
esista un fenomeno unico e familiare.
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Il problema principale dunque è quello epistemologico: qual è il modo
giusto di indagare la coscienza?
Una teoria generale accettabile sulla posizione della mente nella gerarchia
naturale deve necessariamente e sistematicamente correlare tre fattori
apparentementre disparati: l'organizzazione funzionale, la costituzione fisica e
l'apparenza soggettiva. Al momento sappiamo qualcosa di come quersti tre
fattori siano correlati nella percezione sensoriale dlel'uomo e, piuù in generale,
nella percezione del dolore dei mammiferi. Abbiamo inoltre una visione parziale
di altri aspetti dell'attività mentale, tanto nell'uomo che ina ltri animali.
"Eppure non abbiamo ancora neanche un embrione di teoria generale che
spieghi perché una determinata operazione fisica del sistema nervoso centrale
umano produca un determinato tipo di vita cosciente. Fino a quando la teoria
della mente non includerà una teoria della coscienza, saremo sprovvisti di basi
per disquisire sulla possibilità o impossibilità di creare sostrati fisici della mente
alternativi, diversi dai familiari esempi biologici. E attualmente non abbiamo
idea di cosa sia in generale alla base del prodursi di processi coscienti" .
Un ambito molto interessante da indagare - lo farò nel primo capitolo - è
quello delle descrizioni implicite nel significato quotidiano del termine.
Quando si prende in considerazione il problema della coscienza vengono
sollevate domande sconcertanti: gli altri animali sono dotati di coscienza? Essi
sono coscienti nel nostro stesso modo? Un computer o un robot può essere
cosciente? Una persona può avere pensieri inconsci, o dolori o sensazioni o
percezioni inconsce? Un bambino è cosciente al momento della nascita o
prima? Quando sogniamo siamo coscienti? Un essere umano può contenere in
un solo cervello più di un soggetto o ego o agente cosciente?
Certamente, risposte valide a queste domande dipenderanno soprattutto
dalle scoperte sperimentali sulle abilità comportamentali e sulle circostanze
interne delle varie entità che si propongono come ipotetici candidati per la
coscienza, ma per ognuno di questi reperti sperimentali possiamo chiedere:
qual è la sua importanza per il problema della coscienza e perché? Queste
domande non sono direttamente empiriche, ma concettuali, e la risposta ad
esse non si presenta in alternativa o in contrapposizione alla risposta a
domande empiriche, ma come un loro presupposto essenziale, o almeno un
loro accompagnamento.
Punto di vista "interno" ed "esterno" sulla coscienza
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"Il nostro comune concetto di coscienza sembra legato a due serie distinte
di considerazioni che possono essere grossolanamente indicate con le
espressioni "dall'interno" e "dall'esterno".
Dall'interno la nostra stessa coscienza sembra ovvia e consistente:
sappiamo che attorno a noi e anche all'interno del nostro corpo avvengono
molti eventi di cui siamo del tutto inconsapevoli o incoscienti, ma nulla
potrebbe essere conosciuto più intimamente da noi di quelle cose di cui siamo
individualmente coscienti. Quelle cose di cui sono cosciente e il modo in cui ne
sono cosciente determinano in che cosa consiste essere me stesso. Io so in un
modo che nessun altro può provare che cosa significa essere me stesso.
Dall'interno, la coscienza sembra essere un fenomeno tutto o nulla, una luce
interna che è accesa o spenta. È vero che talvolta siamo assonnati o distratti o
addormentati, e occasionalmente possiamo anche godere di una coscienza
abnormemente aumentata, ma quando siamo coscienti, il fatto di essere
coscienti non ammette gradazioni" [Gregory, 1991, p. 182].
Secondo una certa prospettiva la coscienza sembra essere una proprietà
che separa l'universo in due tipi di "cose" profondamente diverse: quelle che la
possiedono e quelle che non la possiedono. Quelle che la possiedono sono
soggetti, esseri per i quali le cose possono essere in un modo o in un altro,
esseri che hanno un significato. Non ha nessun significato essere un mattone o
un calcolatore tascabile o una mela; queste cose hanno un interno, ma non il
tipo giusto di interno, nessuna vita interiore, nessun punto di vista.
"Quando si considerano questi altri (altre persone o altre creature), le si
considerano necessariamente dall'esterno, e allora varie loro proprietà
osservabili e definibili ci colpiscono in quanto rilevanti per la questione della
loro coscienza. Gli esseri reagiscono con discernimento agli eventi che cadono
sotto i loro sensi: riconoscono oggetti, evitano circostanze dolorose, imparano,
progettano, e risolvono problemi. Manifestano intelligenza". Ma mettere la
questione in questo modo potrebbe essere considerato un modo di
pregiudicare il problema. Parlare dei loro "sensi" o di circostanze "dolorose", ad
esempio, suggerisce che abbiamo già risolto il problema della coscienza.
"L'ovvia supposizione è che i vari indici "esterni" siano segni o sintomi più o
meno affidabili della presenza di quel qualcosa che ogni soggetto cosciente
conosce dal- l'interno. Ma come si potrebbe confermare questo? Si tratta del
famoso "problema delle altre menti". Sembra che nel proprio caso personale si
possa osservare direttamente la coincidenza della vita interna con i propri
talenti, osservabili all'esterno, di discriminazione percettiva, di analisi
introspettiva, di azione intelligente e così via. Ma se ognuno di noi vuole
progredire rigorosamente oltre il solipsismo, dobbiamo riuscire a fare qualcosa
che è apparentemente impossibile: confermare la coincidenza tra l'interno e
l'esterno negli altri. Il fatto che essi ci dicano che anche nei loro casi personali
questi aspetti coincidono, non serve, formalmente, poiché non ci dà altro che
14
un'ulteriore prova della coincidenza dell'esterno con l'interno: le capacità
percettive e così via vanno normalmente di pari passo con le capacità di analisi
"introspettiva". Se un robot abilmente progettato potesse (apparentemente)
parlarci della sua vita interiore (potesse cioè produrre tutti i suoni appropriati
nei contesti appropriati), sarebbe corretto ammetterlo nel gruppo di
privilegiati? Forse sì, ma come potremmo dire di non essere ingannati? In
questo caso la domanda da porsi sembra: quella speciale luce interna è
davvero accesa o all'interno non c'è altro che buio? E questa domanda sembra
senza risposta. Quindi, forse abbiamo già fatto un passo falso" [Gregory, 1991,
pp. 181-182].
L’uso dei pronomi "noi" e "nostro" e la tranquilla accettazione di essi, rivela
che noi non prendiamo sul serio il problema delle altre menti, per lo meno per
noi stessi e per gli esseri umani a cui normalmente ci associamo.
Unica possibilità: l'indagine empirica
Un recente tentativo di definire la coscienza in termini oggettivi è quello di
E.R. John (1997), secondo il quale la coscienza è "un processo in cui
informazioni su singole modalità multiple di sensazione e percezione vengono
combinate in una rappresentazione multidimensionale unificata dello stato del
sistema e del suo ambiente, e integrate con informazioni sulle memorie e le
necessità dell'organismo, generando reazioni emotive e programmi di
comportamento per adattare l'organismo al suo ambiente".
Stabilire che questo processo interno ha luogo in un particolare organismo
è presumibilmente un compito difficile, ma chiaramente empirico. Supponiamo
che sia completato con successo per qualche essere: tale essere è, secondo
questa descrizione, cosciente. Qualsiasi appropriata spiegazione scientifica del
fenomeno della coscienza deve inevitabilmente prendere questa decisione
dottrinaria di pretendere che il fenomeno sia considerato come obiettivamente
osservabile, ma ci si può ancora chiedere se, una volta fatto questo passo, il
fenomeno veramente misterioso non sfugga.
Per John Locke, e per molti filosofi dopo di lui niente era più essenziale per
la mente della coscienza, e più in particolare dell'autocoscienza. La mente con
tutte le sue attività e i suoi processi era considerata trasparente a se stessa;
nulla era nascosto alla sua visione interna. Per vedere che cosa succedeva
nella mente di una persona, bastava soltanto "guardare" - "guardare
introspettivamente" - e i limiti di quello che si scopriva in questo modo erano
rappresentati dai confini stessi della mente. La nozione di pensiero o
percezione inconscia non era nemmeno presa in considerazione, oppure, se lo
era, era scartata come una sciocchezza incoerente e contraddittoria.
15
John Locke, l'incomprensibilità dell'inconscio…
Per Locke, in realtà, restava un serio problema, quello di come descrivere
tutte le memorie di un individuo come presenti con continuità nella sua mente,
anche quando non erano "presentate alla coscienza" con continuità.
L'influenza di questo punto di vista è stata così grande che quando
Sigmund Freud inizialmente ipotizzò l'esistenza di processi mentali inconsci, la
sua proposta si scontrò generalmente con un atteggiamento di aspro rifiuto e
incomprensione: non era soltanto un oltraggio al buon senso, ma anche una
contraddizione, affermare che ci potessero essere idee e desideri inconsci,
sentimenti inconsci di odio, schemi inconsci di autodifesa e vendetta. Ma Freud
si guadagnò dei seguaci. Infatti, quando si vide che questo modo di pensare
avrebbe permesso di spiegare psicopatologie altrimenti inesplicabili, questa
"impossibilità concettuale diventò un punto di vista perfettamente accettabile
per i teorici [Gregory, 1991, p. 183].
Il nuovo modo di pensare era anche rafforzato da un elemento a suo
sostegno: ci si potrebbe appellare a una variazione per lo meno blanda del
credo di Locke immaginando che questi pensieri, desideri e schemi "inconsci"
appartengano all'altro se stesso presente nella psiche. Proprio come io posso
tenere segreti a te i miei schemi, così il mio es può avere dei segreti rispetto al
mio io.
"Siamo arrivati ad accettare senza la minima traccia di incertezza una serie
di affermazioni riguardo al fatto che l'analisi delle informazioni avviene dentro
di noi anche se è assolutamente inaccessibile all'introspezione. Non si tratta
dell'attività inconscia repressa del tipo di quella scoperta da Freud, attività
svolta al di fuori della "vista" della coscienza, ma semplicemente attività
mentale che è in qualche modo sotto o al di là dell'ambito della coscienza.
Freud sostenne che le sue teorie e le sue osservazioni cliniche gli davano il
diritto di passare sopra alle sincere negazioni dei suoi pazienti riguardo a quello
che stava succedendo nelle loro menti. Analogamente, lo psicologo cognitivo
sfoggia prove sperimentali, modelli e teorie, per dimostrare che le persone
sono coinvolte in processi sorprendentemente sofisticati di ragionamento, di
cui non riescono a dare nessuna descrizione introspettiva. Non solo le menti
sono inaccessibili a chi è all'esterno; certe attività mentali sono più accessibili a
chi è all'esterno che non ai veri "proprietari" di quelle menti!" [Gregory, 1991,
p. 184].
Nelle nuove teorizzazioni, tuttavia, gli elementi di sostegno sono stati
scartati. Benché le nuove teorie abbondino di metafore deliberatamente
fantasiose - con sottosistemi che inviano messaggi avanti e indietro, chiedendo
aiuto, obbedendo e offrendo informazioni - i veri sottosistemi sono considerati
in modo non problematico come pezzi non consci del macchinario organico,
16
assolutamente privi di un punto di vista o di una vita interna, come un rene o
una rotula. Certamente l'avvento di computer "privi di mente" ma "intelligenti"
ha svolto un ruolo fondamentale in questa ulteriore dissoluzione della visione di
Locke.
… e l'incomprensibilità della coscienza
Ma ora l'estremismo di Locke è stato rovesciato; se, prima, l'idea vera e
propria di un'attività mentale inconscia sembrava incomprensibile, ora stiamo
perdendo le nostre certezze sull'idea vera e propria di attività mentale conscia.
A che cosa serve la coscienza, se un’analisi delle informazioni assolutamente
inconscia, in realtà priva di soggetto, è in linea di principio capace di
raggiungere tutti gli obiettivi per i quali si suppone che esistano le menti
coscienti?
Se le teorie della psicologia cognitiva possono essere vere per noi, esse
possono essere vere anche per degli zombie o per dei robot, e sembra che le
teorie non riescano a distinguerci da essi. Come è possibile che una semplice
analisi di informazioni priva di soggetto (del tipo di quella che, come si è
recentemente scoperto, ha luogo in noi) si sommi o crei quella particolare
proprietà a cui viene così vividamente contrapposta? Il contrasto, infatti, non è
stato superato.
Karl Lashley ha provocatoriamente suggerito che "nessuna attività della
mente è mai conscia", affermazione con cui intendeva richiamare l’attenzione
sull'impossibilità di accedere all'analisi che sappiamo deve necessariamente
aver luogo quando pensiamo. Può sembrare a prima vista che l'osservazione di
Lashley annunci l'abbandono della coscienza come fenomeno di interesse
psicologico, ma il suo vero effetto è esattamente l'opposto. Richiama
inevitabilmente la nostra attenzione sulla differenza tra tutta l'analisi inconscia
delle informazioni - senza la quale indubbiamente non ci potrebbe essere
esperienza cosciente - e il pensiero conscio in sé, che è in qualche modo
direttamente accessibile.
Accessibile da parte di che cosa o da parte di chi? Dire che è accessibile da
parte di qualche sottosistema del cervello non equivale ancora a distinguerlo
da attività ed eventi inconsci, che sono pure accessibili da parte di vari
sottosistemi del cervello. Se qualche sottosistema particolare e speciale meriti
di essere chiamato se stesso, è tutt'altro che ovvio. Qualche caratteristica dei
suoi particolari scambi con il resto del sistema nervoso lo renderebbe degno di
tale nome?
Questo problema è ancora il problema delle menti degli altri, riproposto
come problema serio ora che la psicologia ha cominciato ad analizzare la
mente umana nelle sue componenti funzionali. Questo appare in modo
17
eclatante nei famosi casi di cervello diviso (cfr per esempio Gazzaniga, 1998;
Glickstein, 1992, Vallortigara, 1997).
"Le nostre uniche capacità mentali potrebbero essere ben prodotte da
minute e circoscritte reti neuronali; e tuttavia il nostro cervello altamente
modularizzato genera in ognuno di noi la sensazione di integrazione e unità.
Come può accadere, dal momento che siamo una collezione di moduli
specializzati?
La risposta può essere questa: l'emisfero sinistro cerca spiegazioni del
perché gli eventi si verifichino. Il vantaggio di un tale sistema è ovvio. Andando
oltre la semplice osservazione dei fatti e domandando perché si siano verificati,
un cervello può affrontare meglio quegli stessi eventi, qualora dovessero
riproporsi.
Riconoscere i punti di forza e di debolezza di ogni emisfero ci ha indotti a
riflettere sulle basi della mente. Dopo anni di affascinante ricerca sul cervello
diviso, è evidente come l'inventivo cervello sinistro, incline all'interpretazione,
abbai un'esperienza cosciente assai diversa dal veridico e "letterale" emisfero
destra. Per questo entrambi gli emisferi possono essere visti come coscienti, la
coscienza del cervello sinistro sorpassa di gran lunga quella del cervello destro.
E ciò solleva un'altra serie di questioni che basterà a tenerci occupati per altri
trent'anni" [Gazzaniga, 1998, p. 47].
Coscienza e cervelli divisi
"Non c'è niente di veramente problematico nell'accettare il fatto che le
persone che hanno subito una sezione completa del corpo calloso abbiano due
menti in un certo senso indipendenti. Non è problematico perché ci siamo
abituati a pensare alla mente di una persona come un'organizzazione di sottomenti comunicanti tra di loro. In questo caso, le linee di comunicazione sono
state semplicemente interrotte, rendendo particolarmente saliente l'apparente
ruolo di mente delle singole parti.
Ma ciò che resta del tutto problematico è se ambedue le sotto-menti
"hanno una vita interna". Secondo un punto di vista, non c'è motivo di
accordare una coscienza (una "vita interna" piena) all'emisfero non dominante,
poiché tutto ciò che è stato dimostrato si limita al fatto che quell'emisfero,
come molti altri sottosistemi cognitivi inconsci, può analizzare un gran numero
di informazioni e controllare in modo intelligente certi comportamenti.
Se accordiamo una coscienza di "vita interna" piena all'emisfero non
dominante (o, più propriamente, alla persona il cui cervello è l'emisfero non
dominante), che cosa si potrà dire di tutti gli altri sottosistemi di analisi delle
informazioni ipotizzati dalla teoria attuale? Deve essere di nuovo raccolto il
18
suggerimento di Locke, a costo di popolare, in senso quasi letterale, le nostre
teste di innumerevoli soggetti di esperienze?" [Gregory, 1991, p. 185].
Gregory cita gli esperimenti di J. R. Lackner e M. Garrett su "ciò che si
potrebbe chiamare un canale inconscio di comprensione delle frasi" per mezzo
di test di ascolto dicotico (i soggetti prestano ascolto, per mezzo di cuffie, a
due canali diversi).
L'influenza del canale trascurato sull'interpretazione del segnale a cui si era
prestato attenzione può essere spiegata soltanto in base all'ipotesi che il canale
trascurato sia analizzato direttamente a un livello semantico - cioè che il
segnale trascurato venga comunque compreso - ma questa è apparentemente
una comprensione inconscia di frasi!
O si dovrebbe dire che è una prova della presenza nei soggetti di almeno
due coscienze diverse e solo parzialmente comunicanti? Se chiediamo ai
soggetti in che cosa consisteva comprendere il canale trascurato, essi
risponderanno, sinceramente, che per loro non significava niente, erano
praticamente inconsapevoli di quella frase. Ma forse, come viene spesso
suggerito dai pazienti con cervello diviso, c'è in effetti qualcun altro a cui
dovrebbe essere rivolta la nostra domanda: il soggetto che ha compreso
coscientemente la frase e ha trasmesso un segno del suo significato al
soggetto che risponde alle nostre domande".
Sembra proprio che siamo tornati alla domanda senza risposta, il che
suggerisce che dovremmo trovare un modo diverso di considerare la
situazione.
Gegory prende in esame l'ipotesi "per cui ciò che abbiamo ritenuto un unico
fenomeno consista in realtà di due fenomeni piuttosto diversi: il tipo di
coscienza che è intrinsecamente legata alla capacità di esprimere nella propria
lingua naturale che cosa sta succedendo; e il tipo di coscienza che consiste
semplicemente in un'analisi intelligente delle informazioni.
In base a questa proposta, l'aggiunta della capacità di dare "deserizioni
introspettive" cambia il fenomeno, per cui quando ci chiediamo che cosa può
dirci un delfino o un cane, o che cosa può dirci un emisfero non dominante, se
solo potessero parlare, ci interroghiamo su un fenomeno radicalmente diverso
dal fenomeno che esiste in assenza di tale capacità linguistica.
"La differenza tra mente e materia e le modalità di interpretazione tra le
due hanno sfidato e frustrato la comprensione umana fin da quando per la
prima volta l'uomo ha incominciato a riflettere sulla propria natura e sul
significato dell'esistenza.
19
La comune, ingenua impressione che noi usiamo la mente per dare inizio
alle nostre azioni fisiche e per controllarle, è stata da lungo tempo rifiutata
pressoché universalmente dalla scienza, in base alla dottrina del materialismo
scientifico, che afferma che è possibile spiegare esaurientemente il cervello, il
comportamento e la realtà in termini esclusivamente fisici, senza alcun
riferimento ad agenti mentali o soggettivi.
Quanto più le neuroscienze sono progredite nello spiegare l'elettrofisiologia,
la chimica e l'anatomia dell'attività cerebrale, tanto maggiore è diventata
l'apparente dicotomia tra mente e cervello, e tanto più inconcepibile il fatto che
lo svolgimento delle funzioni cerebrali possa essere influenzato in qualsiasi
modo dalle qualità soggettive dell'esperienza interiore" [Gregory, 1991, p.
186].
Le principali posizioni teoriche negli ultimi 50 anni
Negli anni '50 la filosofia materialistica fu portata a un nuovo estremo con
la cosiddetta "teoria di identità psicofisica (o tra mente e cervello)". Nella
semantica corrispondente, si affermava che non esiste alcuna differenza tra
mente e cervello, che essi sono un tutt'uno, e il fatto che sembrino due cose
diverse è soltanto un'apparenza, perché abbiamo usato linguaggi e prospettive
diverse nelle nostre descrizioni obiettive e soggettive. Secondo questa teoria
dell'identità, non c'è nessun rapporto mente-cervello; esso si riduce
semplicemente a uno psuedoproblema, che presumibilmente si può risolvere
con un corretto approccio linguistico.
La posizione materialista, come si è sviluppata alla fine degli anni '60, fu
esposta da D.M. Armstrong, uno dei suoi principali sostenitori, come "l'idea che
noi possiamo dare una spiegazione completa dell'uomo in termini puramente
fisico-chimici",
con
una
"descrizione
puramente
elettrochimica
del
funzionamento del cervello". "La mente non è altro che il cervello"; "La vita è
un fenomeno puramente fisicochimico"; "Sembra che l'uomo non sia altro che
un oggetto fisico, dotato di proprietà soltanto fisiche".
Il riconoscimento che per le neuroscienze la coscienza è superflua fu
espresso nel 1964 dal premio Nobel Sir John Eceles: "possiamo in linea di
principio spiegare tutte le nostre attività di ricezione e di azione in termini di
attività di circuiti neuronali; e di conseguenza la coscienza sembra
assolutamente inutile! Come neurofisiologi, nei nostri tentativi di spiegare
come funziona il sistema nervoso, semplicemente non sappiamo che fare della
coscienza".
Come diretta reazione contro il punto di vista materialista, verso la metà
degli anni '60 emerse una versione modificata, mentalistica, del concetto di
20
coscienza e del rapporto mente-cervello. Nei tentativi di spiegare l'unità e
(oppure) la dualità dell'esperienza cosciente osservata dopo disconnessione
chirurgica degli emisferi cerebrali, si favorisce un'interpretazione della mente
cosciente secondo cui l'unità soggettiva e il significato soggettivo erano
concepiti generalmente come derivati prima di tutto operativi o funzionali.
Si postulava che un processo cerebrale acquisisse un significato soggettivo
grazie alle modalità secondo cui agiva nel contesto della dinamica cerebrale, e
non perché fosse una copia neurale, una trasformazione, o una
rappresentazione isomorfica o topologica dell'oggetto immaginato. Questo
concetto operativo del significato soggettivo necessariamente comportava un
impatto funzionale, e perciò causale, dei fenomeni soggettivi nella dinamica del
controllo cerebrale. I fenomeni coscienti erano interpretati come proprietà
dinamiche emergenti dell'attività cerebrale stessa. Rispetto ai meccanismi
neurali da cui erano costituiti, i fenomeni soggettivi erano per definizione
"diversi, più numerosi, non equivalenti" ad essi.
L'infrastruttura neurale di qualsiasi processo cerebrale mediatore della
consapevolezza cosciente, consta di elementi all'interno di elementi e di forze
all'interno di forze, che vanno da particelle subnucleari e subatomiche, ai livelli
più bassi, sempre più in alto attraverso sistemi molecolari e cellulari fino ai
sistemi neurali, dai più semplici ai più complessi. A ogni livello di questa
gerarchia, gli elementi sono dipendenti e controllati dalle proprietà pervasive di
organizzazione dei sistemi più ampi in cui sono incorporati.
L'interpretazione olistica
Le proprietà olistiche del sistema a ogni livello di organizzazione hanno i
loro propri ruoli causali di regolazione, che interagiscono al loro rispettivo
livello, ma esercitano anche un controllo sui loro componenti a valle, e nello
stesso tempo determinano le proprietà del sistema di cui fanno parte. Viene
postulato che ai livelli cerebrali superiori queste proprietà emergenti del
sistema comprendono i fenomeni dell'esperienza interiore, come emergenti di
ordine superiore nella gerarchia cerebrale degli elementi di controllo.
Interpretati come proprietà olistiche dinamiche di livello superiore, si
ritiene che i fenomeni mentali controllino i loro componenti biofisici, molecolari,
atomici e altri sottoelementi nello stesso modo in cui l'intero organismo nel suo
complesso controlla il corso e il destino dei suoi singoli organi e cellule, o
esattamente come la molecola, in quanto entità, guida tutti gli atomi e gli
elettroni che la compongono e altre parti subatomiche e subnucleari attraverso
un preciso ordine spazio-temporale in una reazione chimica.
Come avviene di regola per i rapporti tra le parti e il tutto, si riconosce una
reciproca interazione tra gli elementi neurali e mentali: la fisiologia del cervello
determina gli effetti mentali, come generalmente si conviene; ma anche la
21
neurofisiologia, nello stesso tempo, è a sua volta governata dalle proprietà
soggettive superiori degli eventi mentali che la pervadono. Questi
interagiscono al loro proprio livello, e in conseguenza di ciò attivano i loro
costituenti secondari nell'attività cerebrale. Benché in parte determinate dalle
proprietà dei loro componenti neurali, le proprietà soggettive sono determinate
anche dalla disposizione spaziale e temporale dei componenti stessi. Perciò,
anche le proprietà spazio-temporali essenziali, nidificate l'una dentro l'altra,
dell'infrastruttura neuronale, così come gli elementi di massa-energia, devono
essere inclusi nella spiegazione causale.
Il risultante modello di mente-cervello, in cui la mente agisce sul cervello e
il cervello sulla mente, viene classificato come "interazionista", in contrasto con
il "parallelismo" mente-cervello o l'identità mente-cervello. Il termine
"interazione", tuttavia, non è ottimale per indicare il tipo di rapporto proposto,
in cui i fenomeni mentali sono descritti principalmente come se
sopravvivessero, anziché intervenissero, nel processo fisiologico. Si pensa che
la mente muova la materia del cervello e governi, controlli e guidi gli eventi
neurali e chimici senza interagire con i componenti a livello dei componenti
stessi, proprio come un organismo può guidare e controllare il decorso
temporo-spaziale dei suoi atomi e tessuti senza interagire direttamente con
essi.
In questo modello modificato del rapporto mente-cervello, la coscienza
diventa una componente operativa integrante della funzione cerebrale, un
fenomeno autonomo a pieno diritto, non riducibile a meccanismi elettrochimici.
Esercitando un'influenza causale di livello elevato sulla direzione e il controllo
del comportamento, la mente cosciente non è più qualcosa che possa essere
ignorato dalle neuroscienze ogniqualvolta si richieda una spiegazione
dell'attività cosciente. Si concede all'esperienza soggettiva un'utilità e un
motivo d'essere per il fatto di avere un ruolo causale centrale, imprescindibile,
nella funzione cerebrale. Si fornisce così un motivo razionale per l'evoluzione
della mente in un mondo fisico.
Un nuovo paradigma di indagine sulla coscienza
La nuova visione mentalistica della coscienza come elemento causale si
colloca in diretta contrapposizione ai principi fondamentali della filosofia
comportamentistica-materialistica. Le due impostazioni esplicative sono
diametralmente opposte e si escludono reciprocamente.
Negli anni '70, durante la cosiddetta rivoluzione della "coscienza" o
"mentalista" (indicata anche come la rivoluzione "cognitiva", "umanista" o la
"terza" rivoluzione), la nuova interpretazione mentalista prevalse sul
comportamentismo come paradigma dominante della psicologia.
22
Il passaggio dal comportamentismo al mentalismo, o cognitivismo, consiste
in un passaggio a una forma fondamentale diversa di determinismo causale. Il
tradizionale microdeterminismo dell'era materialista-comportamentista che
enfatizza il controllo causale dal basso verso l'alto, cedette il passo a un
paradigma in cui si dà priorità a un controllo emergente dall'alto verso il basso,
esercitato dalle forze superiori, più evolute, della natura sopra le meno
evolute. Nel cervello, questo significa un controllo verso il basso dell'elemento
mentale sul neuronale. Tuttavia, il principio del controllo emergente verso il
basso (indicato anche come "interazione emergente" o "determinismo
emergente") vale per tutti i sistemi gerarchici in ogni scienza.
Il nuovo mentalismo, combinando principi di due teorie precedentemente
contrastanti, tende a conciliare poli che in passato erano opposti, come mente
e materia, fisico e metafìsico, determinismo e libera scelta, così come "è" e
"dovrebbe", fatto e valore, in una visione unificata della mente, del cervello e
dell'uomo nella natura. La nuova posizione sembra metafisica nel suo
riconoscimento degli eventi neurali, nell'attribuire ai fenomeni soggettivi
un'influenza causale e nel collocare la mente in una posizione di controllo al di
sopra della materia del cervello.
Nello stesso tempo, l'interpretazione appare materialistica in quanto
definisce i fenomeni mentali come costituiti da elementi fisici e come
inseparabili dai substrati neurali. Poiché non è né tradizionalmente dualistico
né fisicalistico, il nuovo paradigma rnentalista viene considerato
rappresentativo di una terza posizione filosofica distinta: è emergentista,
funzionalista, interazionista e monista.
Nei nuovi termini mentalisti, la scienza non postula più che tutte le
operazioni del cervello e il comportamento siano determinate in modo
meccanicistico o fisico-chimico, come nella tradizionale filosofia materialista.
Benché i meccanismi neuro-elettro-chimici sostengano e aiutino a determinare
un dato corso d'azione, la scelta dell'azione viene largamente determinata a
livelli superiori, dagli eventi mentali coscienti. La scelta volontaria comporta
l'influenza causale delle priorità dei valori soggettivi, mentre i desideri, i
sentimenti e altri fattori mentali personali sopravanzano le forze supplementari
della sottostruttura neurale. In altre parole, noi facciamo quello che
soggettivamente desideriamo fare. In questo nuovo sistema, le decisioni
liberamente prese sono tuttora causate o determinate, ma raggiungono gradi
di libertà e di autocontrollo di gran lunga superiori a quelli del classico
determiniamo meccanicistico.
Il cambiamento degli anni '70 nella condizione scientifica e nel trattamento
dell'esperienza cosciente ha implicazioni filosofiche e umanistiche, oltre che
scientifiche, di vasta portata. Al cervello delle scienze sperimentali è stata
restituita la mente. Il mondo qualitativo, colorito e ricco di valori,
dell'esperienza interiore, escluso per lungo tempo dall'ambito della scienza
dalla dottrina comportamentista-materialistica, è stato restaurato. Il soggettivo
non è più al di fuori dell'attenzione della scienza obiettiva, né è più qualcosa
23
tutto sommato irrducibile, in linea di principio, alla neurofisiologia. Viene
proposta un'impostazione logico deterministica per quelle discipline che
trattano direttamente l'esperienza soggettiva, come la psicologia cognitiva,
clinica e umanistica.
La teoria scientifica si è finalmente adeguata alle impressioni
dell'esperienza comune: di fatto noi usiamo la mente per iniziare a controllare
le nostre azioni fisiche.
Ricerche sull’uomo e sugli animali
È in un certo senso paradossale che gli studi più produttivi sulle funzioni
cerebrali derivino probabilmente da ricerche sugli animali, il cui
comportamento può essere studiato con una raffinatezza sempre maggiore,
ma che non sono in grado di comunicare con noi in modo molto fluente. Al
contrario, gli studi sulle funzioni cerebrali derivati dalla clinica dipendono
spesso proprio da quei metodi di comunicazione che ci è impossibile usare con
gli animali. Infatti, la maggior parte della valutazione clinica delle capacità
psicologiche di pazienti umani implica un notevole scambio verbale tra il
paziente e l'esaminatore, che si esprime spesso in una forma ideata
appositamente per rilevare le alterazioni del paziente.
"Si possono citare vari esempi, nei quali le differenze tra i risultati delle
ricerche sull'uomo e sugli animali sono apparse così grandi da suggerire che i
cervelli degli animali debbano essere organizzati in un modo qualitativamente
diverso rispetto ai cervelli umani, nonostante la loro strettissima somiglianza
anatomica" [Gregory, 1991, p. 187].
Studiando la visione e la memoria degli animali, si presume spesso che le
domande che vengono rivolte ai pazienti umani vengano semplicemente
trasformate in una forma equivalente, per quanto un po' più complicata da
trasmettere. Vista più da vicino, tuttavia, la somiglianza è tutt'altro che stretta.
L'animale rivela le sue capacità dimostrando di saper fare delle discriminazioni
tra stimoli o eventi, come di solito è stato addestrato a dimostrare seguendo
qualche regola particolare, e per cui viene ricompensato. Anche il soggetto
umano, naturalmente, discrimina tra stimoli o eventi; ma spesso il clinico non
studia la discriminazione in quanto tale, ma piuttosto ciò che il soggetto dice a
proposito di essa, come ad esempio: "Sì, ora vedo la luce" oppure: "Posso
vedere la lettera A nell'ultima riga".
Anche quando la risposta verbale sembra essere soltanto qualcosa di
superfluo, o una facile soluzione per comunicare la risposta discriminativa,
possono sorgere seri problemi se il paziente, pur non essendo in grado di
fornire un suo commento, è tuttavia capace di fare la discriminazione rilevante.
24
Se si trova insomma nelle stesse condizioni di limitazione in cui si trova un
animale quando vogliamo studiare le sue capacità visive. Ci riferiamo qui non
tanto alla difficoltà relativamente banale di un soggetto che ha, ad esempio,
un'alterazione della meccanica o dell'organizzazione del linguaggio parlato.
Anche se un soggetto umano è in grado di comunicare liberamente ed
efficacemente, tuttavia egli può essere inconsapevole della sua stessa capacità
di discriminazione e perciò può non aver nulla da comunicare come commento.
parte prima
Definizioni e storia del concetto di coscienza
I
Etimologia di "coscienza" e ambiti di significato
"Prima quaestio fit de terminis" dicevano i medioevali. Dedico qualche
spazio al termine "coscienza", alla sua origine, definizione, al suo uso, ai suoi
significati nei vari ambiti della cultura, della scienza, della vita. Come fonti ho
utilizzato un'ampia serie di vocabolari, lessici specialistici ed enciclopedie di cui
in bibliografia si trova un elenco completo .
Riporto anche alcuni aforismi celebri o meno celebri, ma comunque
stimolanti, sulla coscienza .
Etimologia del termine
Coscienza deriva dal latino conscientiam, astratto di conscire "essere
consapevole" [Devoto, 1968, p. 106] derivato di consciens coscientis, participio
presente di conscire, "essere consapevole", composto da cum- rafforzativo e
scire "sapere".
In italiano la parola ricorre dal XIII secolo [DISC, 1997]. È sostantivo
singolare femminile, ha le varianti antiche o letterarie "conscienza" e
"conscienzia".
25
Per inventariare i molteplici significati e usi del termine coscienza , nel
linguaggio comune e in quelli specialistici, ho utilizzato alcuni, tra i moltissimi
vocabolari dizionari e lessici esistenti, sia di tipo generale o enciclopedico, sia
quelli dedicati a discipline specifiche. Senza nominarli tutti (ma solo dove sia il
caso) rimando alla sezione della bibliografia di questa dissertazione dedicata
appunto a "Vocabolari, Enciclopedie, Lessici, Dizionari, Manuali".
Ho distinto almeno nove ambiti di significato: uno del senso comune, uno
filosofico, uno morale, uno psicologico, uno sociale, uno neuroscientifico, uno
letterario, uno esistenziale, infine i significati tecnici specifici.
PRIMO AMBITO DI SIGNIFICATO: NEL SENSO COMUNE
Per iniziare, secondo il vocabolario di G. Devoto e G. C. Oli [Devoto-Oli,
1992, p. 762] coscienza è "la facoltà immediata di avvertire, comprendere,
valutare i fatti che si verificano nella sfera dell'esperienza individuale o si
prospettano in un futuro più o meno vicino: aver piena coscienza della gravità
del momento".
Un'altra definizione appartenente al senso comune: "Coscienza, termine
che indica la consapevolezza riflessiva che l'uomo ha di tutti i propri stati e
attività mentali: sensazioni, idee, sentimenti, volizioni, ecc.; spesso, però, il
termine designa semplicemente il complesso degli stati e delle attività mentali
di cui l'uomo è consapevole. In quest'ultima accezione è stata di volta in volta
assimilata al "pensiero", allo "spirito", all'"interiorità", e così via" [EE, p. 809].
Qui si fa risaltare il "sapere di sé" e la complessità della struttura identitaria
dell'uomo.
Più generalmente è la consapevolezza che l'uomo ha di se stesso, delle
proprie azioni: "il primo svegliarsi d'una coscienza dentro il torpore della natura
" (E. Cecchi)
È sinonimo di conoscenza: perder la coscienza; fatto che è nella coscienza
di tutti; aver la vaga coscienza di qualcosa, averne qualche sentore o sospetto.
Significa anche consapevolezza valutativa, capacità di rendersi conto:
prendere coscienza delle difficoltà, aver l’esatta c. dei propri limiti, delle
proprie possibilità, dei propri limiti; e averne una vaga coscienza,
un'impressione, una sensazione confusa
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SECONDO AMBITO DI SIGNIFICATO: NELLA FILOSOFIA
Il vocabolario on-line della Garzanti ricorda che coscienza ha un significato
generale legato alla riflessione filosofica e psicologica secondo il quale sta per
"consapevolezza di sé e del mondo esterno; è la funzione psichica in cui si
riassume ogni esperienza conoscitiva del soggetto"; in senso più generico,
l'insieme delle facoltà e delle attività psicofisiche;
Sulla definizione di coscienza nella filosofia rimando al prossimo capitolo
della presente tesi, dove sintetizzo l'evoluzione del concetto nella storia della
filosofia, dalle origini alle teorie contemporanee.
In breve, però, si potrebbe dire che coscienza nel linguaggio filosofico in
generale indica il rapporto dell'io interno con se stesso (autocoscienza) e per il
quale egli può conoscersi e dare di sé un giudizio immediato e sicuro,
scoprendovi nello stesso tempo il fondamento di ogni altra certezza.
Coscienza come nome e sostanza dell'originaria identità personale, fucina
della biografia di ciascuno, sede di rientro, ricreativa della consistenza
personale.
Autocoscienza
È interessante considerare anche il termine "autocoscienza" dal momento
che è considerato alla stregua di coscienza [cfr EFG2, 1997, p. 75]
Autocoscienza è "la consapevolezza, sul piano teoretico e su quello pratico,
che il soggetto ha di se stesso" [cfr Devoto-Oli, 1992, p. 262]
Autocoscienza è coscienza di sé; consapevolezza dei propri atti, dei propri
stati interiori da [http://www.garzanti.it].
Nella riflessione filosofia di Immanuel Kant "autocoscienza" assume un
significato particolare: è la coscienza logica che l'io ha di sé come soggetto di
pensiero.
E nella filosofia idealistica viene intesa come un ente sostanziale che è a
fondamento sia del pensiero sia della realtà
Nella psicologia autocoscienza è l'esperienza analitica o genericamente
psicologica del proprio io.
Aforismi filosofici sulla coscienza
La coscienza è fondamentalmente una successione di riconoscimenti di
forme (R. Thom).
27
Coscienza: espressione tautologica di sensazione (J.S. Miti).
La coscienza: il sentimento che l'io ha di se stesso (T. Jouffroy).
Il campo delle nostre sensazioni e percezioni sensoriali, di cui non siamo
consci, anche se indubbiamente possiamo dedurre di possederle, vale a dire il
campo delle idee oscure dell'uomo è immenso. Le idee chiare, al contrario,
coprono un numero infinitamente limitato di punti aperti alla coscienza; di
modo che in effetti sulla grande mappa del nostro spirito solo pochi punti sono
illuminati (I. Kant).
La coscienza è l'ultimo e il più recente sviluppo dell'organico e, di
conseguenza, il meno finito e il meno potente di questi sviluppi. Ogni
estensione del sapere nasce dalla trasformazione dell'inconscio in conscio. La
grande attività fondamentale è inconscia. Perché è stretto lo spazio della
coscienza umana (L.L. Whyte).
Identica è la coscienza con l'autocoscienza, cioè distinta e una insieme,
come la vita e il pensiero (B. Croce).
L'autocoscienza e la coscienza degli altri sono inseparabili a priori (E.
Husserl).
Se io rifletto su di me, nella mia autocoscienza mi ritrovo vivente nel
mondo (E. Husserl).
Coscienza di sé: quella operazione delle spirito con cui distinguiamo il
nostro essere dalle idee che ci occupano, così sapendo con chiarezza quali cose
stiamo facendo e che cosa ha luogo in noi (J.G. Sulzer).
Coscienza: intuizione per mezzo della quale l'uomo sente in una certa
maniera ed in modo immediato i propri stati e le proprie azioni via via che li
vive (M. Leenhardt).
La coscienza è quella facoltà dell'uomo di contemplare ciò che passa in lui,
di assistere alla sua propria esistenza, di essere, per così dire, spettatore di se
medesimo (F.P. Guizot).
Il tempo è il nome che date voi ai moti della coscienza. Ogni avvenimento
che potrebbe accadere nello spazio e nel tempo accade ora, subito,
immediatamente. Non c’è passato, non c’è futuro. Solo il presente, anche se
noi dobbiamo usare un linguaggio basato sul tempo quando parliamo (R. Bach,
Uno).
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TERZO AMBITO DI SIGNIFICATO: NELLA RIFLESSIONE MORALE
Nel Dizionario di scienze dell'educazione [DSE, 1997, p. 246] la coscienza
morale "comprende: i processi cognitivi, cioè il momento di valutazione delle
proprie intenzioni e azioni (conoscenza dei principi e delle norme); l'aspetto
comportamentale (agire moralmente o evitare i comportamenti proibiti); la
risonanza emotiva che il soggetto sperimenta prima, durante e a seguito del
proprio comportamento. Lo sviluppo della coscienza segue il processo di
maturazione della persona".
Coscienza è la valutazione morale del proprio agire, spesso intesa come
criterio supremo della moralità nelle espressioni: agire con coscienza (o
secondo coscienza); essere di c. elastica, venire a compromessi con la propria
c.; avere, non avere c.; esame di c., in coscienza.
Si tratta dell'esame delle proprie azioni sotto il profilo morale e religioso
(specialmente come preparazione al sacramento della penitenza);
Sentirsi, avere la c. tranquilla, pulita: non sentirsi colpevole di nulla; per
scarico, per sgravio di c., per evitare il benché minimo rimorso futuro; togliersi
un peso dalla coscienza, mettersi la coscienza a posto, in pace, eliminare il
senso di colpa, riparando a un errore o a un'omissione, liberarsi da un rimorso.
Avere qualcosa sulla c., sentirsi colpevole;
Mettersi qualcosa sulla c., commettere un fallo più o meno grave (ma
mettersi qualcuno sulla c., addirittura ammazzarlo);
Aver la c. sporca, essere colpevole; una cattiva coscienza, un peso sulla
coscienza, sentire la responsabilità di una qualche colpa;
Si metta una mano sulla c., esortazione rispettosa a considerare le proprie
responsabilità o a riconoscere eventuali torti;
Caso di c., quesito di ordine morale che un soggetto ponga a se stesso.
Essere senza coscienza, privo di scrupoli
Agire contro coscienza, contro le proprie convinzioni morali; venire a patti
con la (propria) coscienza, scendere a compromessi con i propri principi morali,
un caso di coscienza, da giudicarsi in base al proprio senso morale.
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Sentimento, consapevolezza del bene e del male, conoscenza dei valori
morali che ciascun individuo (in quanto capace di ripiegarsi su sé stesso e farsi
consapevole di sé nei propri rapporti con gli altri) ha dei valori morali:
coscienza limpida, retta; scrupolo, rimorso di coscienza; esame, obiezione di
coscienza, agire secondo coscienza, fare come la coscienza detta, ascoltare la
voce della coscienza, seguire un preciso dettato etico
Ancora il Devoto Oli ricorda che coscienza è la zona o contenuto spirituale
rispetto a cui fanno capo e sono valutate le opere individuali: la tranquillità
della c. era l'elemento più importante per la felicità (Svevo); custodire
qualcosa nell’intimo della propria c.
Coscienza è ogni individuo come entità morale: un'epoca di travaglio per le
coscienze più sensibili.
E ancora probità, rettitudine, umanità: gente senza c.; oggi non c'è più la
c. di una volta.
Coscienza si riferisce alla personalità morale, spirito, mente: educò la
coscienza di molti; un maestro, una guida delle coscienze.
In tutta coscienza, sta per sinceramente, onestamente.
Nella teologia morale
In teologia morale, coscienza è il giudizio pratico e immediato che
l'intelletto, alla luce di principi morali generali, pronuncia sui singoli atti
concreti.
Coscienza naturale è quella che si basa su norme di etica naturale;
soprannaturale quella che poggia sulla legge rivelata da Dio agli uomini.
Il termine coscienza è comunemente usato per designare lo strato più
profondo della personalità dell'uomo da cui trae origine la moralità. Esso è
poco presente nella Bibbia che privilegia altri termini come "cuore" e "spirito"
[Piana, EC, 1997, p. 191].
San Paolo fa ripetutamente ricorso alla coscienza per sottolineare
l'esigenza di un principio interiore come criterio di discernimento dell'agire
umano. Questa esigenza è peraltro al centro del messaggio della Rivelazione
ed è fortemente ribadita da Gesù nella sua predicazione. I profeti richiamano
spesso l'uomo all'importanza dell'atteggiamento interiore, mentre Gesù insiste
sul fatto che a contaminare l'uomo non è ciò che entra in lui, ma ciò che esce
dal profondo del suo essere (Mt 15,11).
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Rispetto ai principi morali cui s'ispira, si parla di coscienza vera, quando il
suo giudizio coincide con i principi; coscienza falsa, se nel giudizio ne differisce
e in questo caso sarà incolpevole o colpevole se il soggetto nel giudicare avrà
messo o meno la necessaria diligenza.
Nei confronti dell'assenso ci può essere coscienza certa o coscienza dubbia:
solo la c. certa può costituire regola vera di moralità per gli atti umani [GE,
1973 p. 493].
Matrimonio di coscienza (detto anche matrimonio occulto), il matrimonio
canonico celebrato senza pubblicazioni e alla sola presenza del parroco (o
sacerdote delegato dal vescovo) .
Aforismi sulla coscienza morale
Si lavano, si grattano: tentano di raggiungere la propria coscienza. J. Joyce
La coscienza: è la sostanza più elastica del mondo: oggi non copre la tana
di una talpa, domani copre una montagna. E. Bulwer-Lytton
Taluni mandano la propria coscienza al bordello e conservano il proprio
contegno in regola. M. de Montaigne
Coscienza morale: l'ideale misura del valore di ogni realtà empirica (W.
Windelband).
Coscienza morale: ciò che si sa senza che si sia mai appreso o pensato
(Wang Yang-Ming).
Il principio dell'autocoscienza: la scienza più profonda si apprende vivendo
(Sant'Agostino)
Coscienza significa esitazione o scelta (H. Bergson).
La coscienza può essere considerata come una specie di manifestazione
interna, di rivelazione divina; e la rivelazione o la parola di Dio può esprimersi
nella voce stessa della coscienza (M.F.P. Maine de Biran).
Tutti i mortali fuggono dalla loro volontà e dal loro io verso gli inconsci, si
addossano la volgarità del vino e della buffoneria pur di liberarsi, per un poco
almeno, dell'autocoscienza (Scelalledin Rumi).
La coscienza è la custode, nell'individuo, delle norme che la comunità ha
messo a punto per la propria conservazione (W.S. Maugham).
QUARTO AMBITO DI SIGNIFICATO: NELLA PSICOLOGIA E PSICOANALISI
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Coscienza nella psicologia è l'insieme dei processi psichici attraverso cui
l'individuo riesce a organizzare il proprio comportamento intenzionale,
mantenendo il controllo dei propri processi di pensiero e delle attività
conoscitive sull'ambiente (attenzione, vigilanza, attività percettive ed
esplorative).
Da un punto di vista neurofisiologico, lo stato di c. viene sostenuto da certe
strutture a livello del sistema nervoso centrale, quali soprattutto la sostanza
reticolare e il sistema talamico di proiezione. All'attivazione derivata da tali
strutture corrispondono precisi indici neurofisiologici (elettroencefalografici,
riflesso psicogalvanico, ecc.), che consentono di determinare lo stato di c.,
nello stato di vigilanza, nel sonno, nel coma (in cui si ha abolizione della c.).
Anche per questi significati, relativi ai linguaggi della psicologia e
psicoanalisi si rimanda ad uno dei successivi capitoli dove si approfondirà il
tema.
"Nell'ottica psicologica, con il termine coscienza si fa riferimento tanto al
fatto di essere consapevoli (aspetto psicologico) quanto al fatto di essere
responsabili" [DSE, 1997, p. 246].
Il con-sapere o con-scire esprimono un sapere di sé molto profondo o certo
o riflettuto, d'altra parte la coscienza è legata anche a un rispondere, a un
rimandare la consapevolezza di sé, capace di azione, di reazione. La coscienza
dunque descrive la capacità umana di giudicare le azioni, di scavare dentro di
sé e nei fatti. "In quest'ottica, la coscienza rappresenta il centro decisionale e
dell'imputabilità delle azioni umane" [DSE, 1997, p. 247].
"La coscienza Psicologica ("rendersi conto") è una struttura organizzativa
che comprende, contemporaneamente, l'essere oggetto e l'essere soggetto del
proprio vissuto" [DSE, 1997, p. 246]. Dove il riferimento per comprendere la
coscienza è il vissuto personale.
Nella psicanalisi, il termine viene usato sia per designare il livello conscio
della vita psichica, in contrapposizione a preconscio e inconscio, sia soprattutto
per designare l'insieme delle norme comportamentali acquisite dal bambino
nella strutturazione della sua personalità.
Si usa anche l'espressione coscienza di donna, coscienza di uomo moderno.
Aforismi sulla coscienza in psicologia
Coscienza: è la vita psichica di un dato momento (K. Jaspers).
Coscienza: l'organizzatore coerente dei processi psichici (S. Freud).
32
QUINTO AMBITO DI SIGNIFICATO: NELLA RIFLESSIONE SOCIALE
Nel linguaggio istituzionale, dell’amministrazione pubblica si usano le
espressioni obiezione di coscienza e obiettore di coscienza, legate a libertà di
coscienza, che è il diritto di sentire e professare opinioni o fedi religiose senza
restrizione, impedimento o reazione da parte dell'autorità politica, ovvero la
facoltà del pensare, dello scegliere, contro cui capita di opprimere le c.,
soffocarne la libertà di scelta.
Signfica anche impegno, senso di responsabilità, serietà, impegno nel
compiere il proprio dovere o nell'eseguire un lavoro: un lavoro condotto con c.,
un uomo di coscienza; lavorare, studiare con coscienza; coscienza
professionale;
Coscienza significa sensibilità di fronte a un determinato problema:
coscienza civile, politica e coscienziosità sta scrupolosità nell'adempimento del
dovere: un medico di coscienza, metter coscienza nel proprio lavoro.
Coscienza sta anche per competenza, capacità, consapevolezza fondata su
fattori educativi, tradizionali, storici e congiunta a un solido impegno: c.
linguistica; manca ancora una vera e propria c. civile; c. operaia, c. politica, c.
sportiva.
Si usa anche coscienza storica come memoria, responsabilità del passato e
del futuro.
Sensibilità a certi fatti e certi problemi, alla nazionalità, identità culturale:
avere una c, nazionale, europea; c. di classe; c. collettiva; c. patriottica; c.
linguistica.
Infiammare le coscienze, trasmettere entusiasmo, spingere all'azione.
La coscienza di classe è la consapevolezza dell'appartenenza a una
determinata classe sociale.
È anche la conoscenza delle condizioni politiche, economiche e sociali in cui
versa la classe alla quale si appartiene, e dei diritti e delle rivendicazioni che
essa per conseguenza può o deve avanzare nei confronti dell'intera società.
È la determinazione a tutelare gli interessi della propria classe, anche in
contrasto o in lotta con gli interessi delle altre. Il concetto di coscienza di
classe appartiene soprattutto alla tradizione socialista e al pensiero di
ispirazione marxista, e in tale ambito ha trovato diverse elaborazioni
33
successive; esso viene di preferenza riferito al prolet.ariato e alla sua necessità
di organizzarsi coscientemente per il raggiungimento dei suoi obiettivi, ma
viene anche usato in riferimento alle classi dominanti.
Aforismi sulla "coscienza di classe"
Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al
contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza (K. Marx).
La riforma della coscienza: consiste solo nel far sì che il mondo si renda
conto della sua stessa coscienza, nel risvegliarlo dal sogno che sogna su se
stesso, nello spiegargli le sue proprie azioni (K. Marx).
Quasi tutto ciò che si trova nelle coscienze individuali viene dalla società
(E. Durkheim).
La coscienza parla unicamente e costantemente nel modo del silenzio (M.
Heidegger).
E non vuoi capire che la tua coscienza significa appunto gli altri dentro di
te? (L. Pirandello).
La coscienza consiste nella "co-scienza", ma proprio nel senso che la
coscienza individuale può esistere soltanto in presenza della coscienza sociale e
del linguaggio, che ne costituisce il reale sostrato (K.N. Leont'ev).
Sono più che mai dell'opinione che oggi ci si possa permettere un'esistenza
degna di un essere umano soltanto al margini della società (H. Arendt).
SESTO AMBITO DI SIGNIFICATO: NELLE SCIENZE MEDICHE
La neurologia clinica definisce la coscienza come il complesso delle funzioni
cerebrali superiori consistenti, in ultima analisi, nella presa di significato dei
messaggi afferenti al sistema nervoso centrale e nella concezione mentale di
quelli efferenti da trasmettere alla perifieria [Mathe - Richet, 1983, p. 870].
Nel linguaggio medico coscienza significa senso, sensi, conoscenza:
perdere coscienza, svenire; riprendere, riacquistare coscienza, rinvenire,
ritornare in sé.
Va notata però l'ambiguità dell'uso: in realtà quando si è svenuti, così
come quando si dorme la mente non è annullata ma continua a lavorare.
Dovremmo parlare di un diverso "stato di coscienza".
Del concetto di coscienza nelle scienze mediche tratterò più ampiamente
nel capitolo III.
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SETTIMO AMBITO DI SIGNIFICATO: NELLA LETTERATURA
Il "flusso di coscienza"
Il flusso di coscienza (stream of consciousness) è un modo di scrivere
moderno, basato sugli influssi che ha avuto in letteratura la teoria della
psicanalisi di Sigmund Freud.
Caratteristica del flusso di coscienza è la sintassi libera, senza (o quasi)
punteggiatura, poiché tende a ricostruire fedelmente i processi logici che
avvengono nella mente umana durante la formazione del pensiero .
Anche se i primi tentativi (prima di Freud) risalgono al Viaggio
Sentimentale di Lawrence Sterne, è solo con l'opera di James Joyce che questa
tecnica conosce la propria maturità. Lo stile dello stream of conscousness è
stato utilizzato anche da Wirginia Woolf, Henry James e William Faulkner. In
Italia ha utilizzato questa tecnica Italo Svevo.
James Joyce
Joyce è uno dei grandi inventori del romanzo moderno, tutto costruito sul
flusso di coscienza. Le sue opere segnano lo sviluppo del flusso di coscienza a
partire da Gente di Dublino (The Dubliners), dove Joyce adotta uno pseudonarratore in terza persona che serve solo per segnalare azioni e riferire
fedelmente i pensieri del protagonista.
Nell’Ulisse (1922) che è l'Odissea del XX secolo, epos d'una giornata
qualunque delll'ebreo irlandese Leopold Bloom, agente di commercio, si
realizza la "distruzione" del narratore: esistono solo i pensieri (in prima
persona) dei protagonisti .
Altrettanto
rivoluzionario
la
Veglia
di
Finnegan
(1939),
nella
sovrapposizione di lessici diversi e nella tecnica del monologo interiore, tesa a
dimostrare la ciclicità della storia.
Italo Svevo
Il romanzo più famoso di Svevo è del 1923, La coscienza di Zeno e con
esso Svevo raggiunge la notorietà. La storia di Zeno si identifica con la presa di
coscienza che tutti gli uomini sono egoisti e meschini, che la vita è un assurdo
e inutile gioco e che il mondo stesso è malato: forse solo un'esplosione enorme
potrà rinnovarlo, liberandolo dagli esseri inutili e dalla malattia.
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Zeno, il protagonista, nega di essere mai stato malato e anzi, generalizza
la malattia a tutto il mondo sostenendo che chi si sentiva sano era malato e
viceversa: la salute è la condizione di chi possiede certezza, princìpi, quindi,
constatata la vanità di questi, Zeno conclude che sarebbe stato meglio "guarire
dalla salute". La sua quindi, non era una malattia, ma solo uno stato che gli ha
permesso una visione più lucida della realtà. Il finale è apocalittico, infatti
l’unico modo per guarire il mondo può essere soltanto una violenta esplosione
che trasformi la terra in nebulosa.
La critica letteraria ha messo in risalto il valore del capolavoro di Svevo .
"Com'era stata più bella la mia vita che non quella dei cosiddetti sani", si
sorprende a pensare il vecchio Zeno Cosini. Ed è proprio l'aggettivo "cosiddetti"
che sbalordisce il lettore di oggi, è un'anticipazione convinta di certe tematiche
antipsichiatriche e liberatorie che si sarebbero affermate, tra successi e
contraddizioni, solo trent'anni dopo. La coscienza di Zeno è anche la coscienza
della precarietà della lingua in cui lo scrittore si esprime, la consapevolezza di
trovarsi fuori dai canoni della letteratura posteriore.
Ciò che unifica la meccanica sociale mercantile-borghese ed l'ambiguità
della psiche è l'ironia, la disincantata "scienza della vita", la coscienza. La
coscienza di Zeno Cosini è, appunto, la sola scienza che egli possieda, ed il solo
suo disperato ed inalienabile bene.
Il buonsenso laico e borghese di Svevo, come la sua matrice culturale, non
possono essere confusi col decadentismo analitico che circola nelle pagine di
Proust. Piuttosto, comune ad entrambi gli scrittori è l'esigenza di apprestarsi
nuovi moduli di lavoro fondati sull'autobiografia come momento di sintesi
rispetto alla frantumazione dell'esperienza; per cui tutt'e due i grandi
romanzieri della crisi della coscienza borghese corrodono qualcosa di più che
una tecnica letteraria, agiscono in un certo senso al di là della letteratura.
Assai più letterato di loro risultava invece Joyce.
Virginia Woolf
Scrittrice inglese (Londra 1882- Ouse River 1941). Crebbe in mezzo alla
élite intellettuale dei Gruppo di Bloomsbury ed ebbe un'educazione raffinata e
liberale. Con il marito, il saggista L. Woolf, fondò e diresse la Hogarth Press.
Contro i canoni narrativi vittoriani, elaborò la teoria secondo cui tutto è materia
adatta al racconto, compresi i sentimenti più complessi o i pensieri più
reconditi.
Esordì con La crociera (1915) e con Notte e giorno (1919), concepiti ancora
secondo la tradizione realistica ottocentesca; ma con La camera di Giacobbe
(1922) il suo lirismo introspettivo assume già le forti caratteristiche personali
degli scritti posteriori.
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In La signora Dalloway (1925) e in Gita al faro (1927) il suo metodo di
analisi sottile delle coscienze appare pienamente realizzato grazie alla
conquistata armonia fra struttura narrativa e simbolismo poetico; in Orlando
(1928), il suo libro di maggior successo, la narrazione risulta invece meno
densa.
Le onde (1931) sviluppa all'estremo il monologo introspettivo della Woolf e
chiude anche la sua felice stagione narrativa aprendo un periodo di crisi e
d'incertezza che la condurrà al suicidio nelle acque dei fiume Ouse.
Le migliori pagine critiche della Woolf sono state raccolte in Per le vie di
Londra (1963).
Importante è anche il suo diario, pubblicato postumo nel 1953.
Henry James
James, scrittore statunitense (New York 1843 - Londra 1916), fratello di
William James. La sua opera narrativa, imperniata sul contrasto che scaturisce
dall'incontro della mentalità americana con quella europea, è caratterizzata da
una acutissima analisi psicologica, con una tecnica che, privilegiando gli
avvenimenti interiori rispetto a quelli esterni, ha influenzato notevolmente la
letteratura contemporanea.
Le sue opere: Rodrigo Hudson (1876), L'Americano (1877), Daisy Willer
(1879), Ritratto di signora (1871), Le Bostoniane (1886), La principessa
Casamassima (1886), Il carteggio Aspern (1888), La musa tragica (1890), Le
spoglie di Poynton (1897), Le ali della colomba (1 902), Gli ambasciatori
(1903), La coppa dorata (1904).
William Faulkner
I romanzi di Faulkner, anch'egli statunitense (New Albany, Mississippi,
1897 - Oxford, Mississippi, 1962), sono ambientati nel profondo Sud degli Stati
Uniti, chiuso nel suo orgoglio e nella sua miseria, aggrappato allo schiavismo e
ai ricordi d'un grande passato.
Premio Nobel nel 1949. Le sue opere principali sono: La paga del soldato
(1926), Sartoris (1929), L'urlo e il furore (1929), Santuario (1931), Luce
d'agosto (1932), Assalonne, Assalonne! (1936), Il borgo (1940), Non si fruga
nella polvere (1948), Requiem per una monaca (195 1), Una favola (1954), La
città (1957), Il palazzo (1959), I saccheggiatori (1962).
Nel 1942 ha scritto la raccolta di racconti Scendi Mosé.
37
OTTAVO AMBITO DI SIGNIFICATO: LA COSCIENZA COME DISAGIO
ESISTENZIALE
Esiste un ambito del significato di coscienza che potremmo definire del
disagio esistenziale.
Per esso ho reperito solo riflessioni e aforismi di autori celebri. C'è dunque
lo spazio per una riflessione, che però non voglio sviluppare in questa sede.
Coscienza: è una parola che fa paura (H. Ey).
Evita la troppa coscienza (M.L. Spaziani).
Nella condizione d'essere coscienti c'è un continuo disagio (M. MerleauPonty).
La malafede è l'essenza stessa della coscienza (M. Merleau-Ponty).
L'uomo per il semplice fatto di essere uomo, di avere cioè coscienza di sé
è, in confronto all'asino o al granchio, un animale malato. La coscienza è
malattia (M. de Unamuno).
Così la coscienza ci rende tutti vili (W. Shakespeare)
Sono già vent'anni che ho messo in dubbio l'esistenza di quel qualcosa
chiamata "co- scienza" [ …]. Mi sembra sia giunto per tutti il tempo di
prescindere apertamente da essa (W. James).
Ciò che chiamiamo coscienza non è altro che vanità interiore (G. Flaubert).
Mi sembra che ciò che chiamate "piena coscienza" è un caso limite che non
si raggiunge mai (A. Einstein).
Interrogarsi - non è proprio conoscere
e non è proprio non conoscere –
È una condizione magnifica ma cupa
Chi non l'ha esperimentata non ha vissuto
(E. Dickinson).
NONO AMBITO DI SIGNIFICATO: NEI LINGUAGGI TECNICI
Esiste un significato di coscienza che appartiene al linguaggio tipografico:
uomo di coscienza è l'operaio della tipografia al quale è affidata la cura del
materiale di composizione.
38
NELLE ALTRE LINGUE
Specifico alcuni significati che i termini corrispondenti a "coscienza" hanno
nelle altre lingue europee. Si tratta di significati specifici, particolari e
interessanti. Trascuro tutti significati uguali a quelli del concetto italiano. Inizio
dalle lingue antiche.
"Coscienza" nel greco antico e nel latino, e il petto come sede della
coscienza
Analizzerò il concetto di coscienza nella cultura greca più estesamente nel
capitolo II, riprendendo il tema negli ultimi capitoli (l'XI in particolare i termini
sunevide§is e sunthvrh§is).
Qui cito solo uno studio molto interessante di R. B. Onians il cui titolo
originale era "The Origins of European Thought about the Body, The mind, The
Soul, The World, Time, and Fate". Dall'analisi di moltissime opere classiche,
liriche, tragiche, epiche, Onians ricava informazioni interessantissime
sull'origine del concetto di coscienza in rapporto con il corpo, e precisamente
con i polmoni, sede della respirazione. Anche in latino è interessante il
raffronto tra sapere "aver linfa, succo innato", il petto a l'avere coscienza. La
sede della coscienza dunque era, per gli antichi, il petto .
In latino conscientia ha diversi significati; ma in generale significa
coscienza, conoscenza, cognizione che si ha d'una cosa in comune con altri
(cum-scire) [Castiglioni-Mariotti, 1979, p. 257].
Una piccola antologia di frasi: "riunioni tenute lontano dalla conoscenza di
troppi" (Livio); in Tacito: "hai la connivenza di Augusto", "la complicità della
congiura"; "adsumptis in conscientiam", presi a confidenti; "il disegno e la
conoscenza di delitti" (Cicerone).
Nel significato di coscienza, piena coscienza, convinzione, intimo senso;
coscienza (morale), consapevolezza: "dalla consapevolezza che hanno delle
forze nostre e loro" e "per la coscienza della loro inferiorità" (Livio); "salva
conscientia", salva la mia convinzione e "salva bona conscientia" (Seneca);
"coscienza d'esser vissuto rettamente" e "conscientia scelerum, delictorum",
coscienza dei propri delitti (Cicerone); "ex nulla conscientia de culpa" nella
coscienza della mia innocenza (Sallustio).
Nel significato di coscienza, l'intimo giudizio del bene o del male compiuto,
onde conscientia = buona o cattiva coscienza: in Cicerone (e altri) "magna vis
est consciientiae", grande è la forza della coscienza, "conscientiae fretus",
fìdando nella buona coscienza e "conscientia morderi", sentire il rimorso della
39
coscienza e anche "coscientia animi", la propria coscienza, il grido della
coscienza, "animi conscientia excruciari" essere tormentato dal rimorso,
"conscientiae melficiorum" i rimorsi dei delitti; "ne quis modestiam in
coscienziata duceret" perché nessuno prendesse per colpa il mio riserbo,
Sallustio; con agg. "bona, mala conscientia", buona, cattiva coscienza,
Quintiliano e altri.
Infine, Cicerone ci ha lasciato un bellissimo aforisma sulla coscienza:
"Sublata conscientia, iacent omnia" (De natura deorum, 3, 85).
I siginficati di coscienza nelle lingue Inglese, Tedesco e Francese
È da notare che in inglese esistono due termini per "coscienza", solo che
uno indica quella morale, conscience, un senso interno che conosce la
differenza tra il bene e il male, l'altro quella cognitiva, consciousness (sinonimo
di awareness), essere consapevole, lucidità di mente conoscenza, la condizione
di essere abile a pensare, sentire, capire quel che sta accadendo
Aware significa per informato, conscio, consapevole, anche prevenuto.
Altro sinonimo di consciousness è knowledge.
Significati specifici: conscience clause, nel linguaggio legale è una clausola
di riserva morale in un atto, per esempio per motivi religiosi; deroga prevista.
Conscience money, restituzione anonima o oblazione di una somma dovuta
al fisco, per scaricare la coscienza, e anche for conscience' sake, per sgravio di
coscienza.
Dello stream of consciousness (nel rapporto tra letteratura e psicologia) ho
già detto.
Anche in tedesco esistono due termini: gewissen che sta per coscienza
morale e bewustsein che sta per consapevolezza, conoscenza.
Il francese conscience oltre a significati simili a quelli dlel'italiano ha
interessanti usi del lessico tecnologico: conscience è la piastra di protezione del
tornitore.
Inoltre - forse parallelamente al significato tecnico in italiano che ho citato
(uomo di coscienza) - ha un uso nel linguaggio della tipografia: mettre en
conscience, far eseguire un lavoro alla giornata.
40
TERMINI E CONCETTI CORRELATI
È interessante - come ho anticipato nell'introduzione della presente
dissertazione - analizzare alcuni altri termini che sono strettamente correlati
con quello di "coscienza". Essi sono molto numerosi.
Un possibile elenco potrebbe essere il seguente: autocoscienza , mente,
anima, spirito , cuore , pensiero, intelligenza, conoscenza, consapevolezza, io ,
idea, rappresentazione, identità, interiorità, personalità, vissuto, sensazione,
emozione, sentimento, sonno, profondo, e anche morte, differenza tra uomo e
animale, intelligenza artificiale, immaginario collettivo, e molti altri.
Non potendo sviluppare in questa sede un'indagine completa di tutti i
termini (nei vari capitoli ne tratto alcuni) mi limito a indagarne alcuni. Da ciò si
vedrà quanto sia rivelatore il confronto e quanto si possa ricavare dalla
sovrapposizione dei concetti, che è sempre avvenuta e di cui ora si può dare
conto (lo farò negli ultimi capitoli).
Mente
Deriva dal lat. mente(m), da una radice *men- indicante in generale
l'attività del pensiero.
È l'insieme delle facoltà intellettive che permettono all'uomo di conoscere la
realtà, di pensare e di giudicare (spesso in contrapposizione a corpo o a
cuore): affaticare, riposare la mente; mente sana in corpo sano; ragionare con
la mente e non col cuore da [http://www.garzanti.it e Devoto-Oli, 1992, p.
1818]
A mente fresca, riposata, quando è pienamente efficiente, ricca di energie
dopo il riposo; a mente lucida, quando non è stanca ed è sgombra di pensieri e
preoccupazioni; malato di mente, chi presenta alterazioni delle facoltà mentali.
Presunta sede o direzione dei principi e processi intellettivi e pratici in cui
l'attività del pensiero ha luogo; testa, capo: che cosa ti salta in mente?; non mi
passa neppure per la mente, non ci penso affatto; far mente locale,
concentrare il pensiero su un determinato argomento; applicare la mente a un
problema;. Amor che ne la mente mi ragiona (Dante); Apri la mente a quel
ch'io ti paleso (Dante).
È una particolare attitudine, inclinazione mentale: avere una mente
riflessiva, speculativa, calcolatrice.
41
Sta per intelligenza, capacità intellettiva: mente acuta, ottusa; ristrettezza
di mente; uscire di mente perdere la ragione, uscire di senno.
Il complesso delle possibilità e dei contenuti intellettuali e spirituali
dell'individuo: educazione della mente; mens sana in corpore sano; avere una
mente fervida, illuminata, angusta, ottusa. "Le nate a vaneggiar menti mortali"
(Foscolo).
Per metonimia, la persona in possesso della particolare capacità mentale
indicata dall'aggettivo: è una bella mente, una mente aperta, una mente
bislacca.
Sta per pensiero, attenzione: essere altrove con la mente; applicare la
mente a qualcosa, rivolgerle l'attenzione; fare mente locale, accentrare il
proprio pensiero intorno a un dato argomento, a una data cosa.
E anche per volontà, proposito, intenzione: avere in mente una cosa, avere
intenzione di farla; mettersi, ficcarsi in mente di fare qualcosa, ostinarsi nel
volerla fare; levarsi qualcosa dalla mente, dissuadersi da un proposito.
Indica la capacità o l'ambito della memoria: imparare, sapere, dire a
mente; tenere a mente, ricordare; tornare alla mente, a mente, in mente, di
cosa che si era dimenticata; mi è uscito, passato, scappato, di mente, non mi
viene in mente (o alla m.), non ricordo, me ne sono dimenticato.
È il complesso delle idee, delle cognizioni di una persona; anche, la persona
stessa fornita di determinate qualità: educare la mente; le più belle menti del
secolo; è una mente geniale, bislacca.
Infine si dice il braccio e la mente per indicare chi esegue materialmente
un'impresa e chi la organizza e dirige.
Dunque anche in questo caso siamo di fronte a un termine che ha vasti
confini di signifcato e ampia possibilità sinonimica.
Anima
Etimologia: dal latino anima(m), affine al greco avnemo§, "soffio", "alito".
Principio immateriale della vita nell'uomo, contrapposta al corpo e
tradizionalmente ritenuta immortale o addirittura partecipe del divino [DevotoOli, 1992, p. 139].
Ha molti significarti diversi: descrive il modo di dedicarsi a qualcosa
(intensamente), il morire o il tenersi in vita, sinonimo di vita stessa quindi;
essenza o impulso fondamentale; sinonimo dei sentimenti e propositi più intimi
42
di una persona (gli occhi sono lo specchio dell'anima, leggere in fondo
all'anima, arrivare all'anima)
Anima sta per "persona" (non c'era anima viva), è il principio vitale che
sorregge in unità e armonia i corpi (e anche il mondo: anima del mondo).
È la sede intima della sostanza vitale del corpo o semplicemente
dell'"intimo" o "interiore".
Interessante il significato tecnico nella liuteria del legnetto cilindrico
all'interno della cassa dei violini che, nel punto su cui fa forza il ponticello,
unisce il fondo al coperchio assicurando una efficace trasmissione delle
vibrazioni a tutto lo strumento..
Spirito
Termine con cui si traduce il greco pnéuma, che nella più antica accezione
significava "respiro", "aria", "soffio animatore" (in lat. spiritus).
Gli stoici intesero lo pnéuma come energia che dà la vita a tutta la realtà,
principio vitale, "anima del mondo"; la medicina antica e medievale lo concepì
come sostanza materiale mobile e sottilissima (lo spiritus corporeus o
animalis), e ancora Cartesio, nel Trattato sulle passioni dell'anima, considerava
gli "spiriti animali", prodotti dal sangue e inviati al cervello dalle arterie, il
fondamento fisiologico dell'attività psichica.
Sin dalle origini, tuttavia, il pensiero cristiano intende lo pnéuma anche in
senso immateriale, come soffio divino animatore dell'universo (in questa
accezione verrà ripreso da Bruno nel rinascimento) e infine come anima di Dio
e poi dell'uomo (già in Filone l'Ebreo, quindi in Origene e in san Paolo, che
contrappone lo "spirito" alla "carne").
La teologia e la filosofia cristiane parlano pertanto, oltre che dello Spirito
Santo, di "spiriti puri" (Dio e gli angeli) e di "spiriti infiniti", dai quali si
distinguono gli "spiriti finiti", cioè le anime umane.
Quest'ultima contrapposizione si trova ancora teorizzata nella filosofia
moderna da Leibniz (Monadologia) e da Berkeley (Trattato sui principi della
conoscenza umana), mentre Cartesio usa il termine "spirito" come sinonimo di
sostanza pensante.
Nel pensiero illuministico, invece, lo spirito si distingue dall'anima:
quest'ultima, nella sua realtà psichica, deriva dalla natura, mentre il primo è
inteso come prodotto dell'educazione e dei costumi sociali (Helvétius, Sullo
spirito; ma si pensi anche allo "spirito delle leggi" indagato da Montesquieu)
[EGF2, 1997, pp. 1098-1099].
43
Nel contempo il termine, come oggetto di scienze occulte e cioè nel senso
del moderne "spiritismo", trova elaborazione in Swedenborg e in altri,
suscitando la reazione critica di Kant nel saggio I sogni di un visionario (ovvero
"di uno che vede spiriti") del 1766.
Per parte sua, Kant usa il termine "spirito" nella Critica del giudizio e nella
Antropologia per designare il potere produttivo e l'originalità creativa della
ragione, e in questa accezione il termine ispirò la filosofia romantica (in
particolare Schelling), che ne fece tuttavia un uso metafisico ben oltre i limiti
formali dei criticismo kantiano.
Da qui (ma anche dalla tradizione illuministica di Montesquieu) deriva la
prima accezione hegeliana dei concetto di spirito (Geist) elaborata da Hegel
nella Fenomenologia dello spirito del 1807 e poi allargata a sistema
complessivo nell'Enciclopedia, con le distinzioni tra spirito soggettivo, oggettivo
e assoluto.
La straordinaria ampiezza e profondità speculativa che si accompagna alla
utilizzazione hegeliana del concetto si trasmise alle successive riprese dello
hegelismo (in particolare alla "filosofia dello spirito" di B. Croce, con la
quadripartizione dello spirito nelle categorie dei "distinti", e alla Teoria generale
dello spirito come atto puro di G. Cyentile); ma tale influenza si esercitò,
sebbene in forma più indiretta, anche sulla distinzione tra "scienze dello
spirito" e "scienze della natura" proposta alla fine dell'Ottocento da W.
Windelband, che riprendeva la problematico sviluppata da W. Dilthey nella
Introduzione alle scienze dello spirito. Entro tale clima posthegeliano è da porsi
anche lo spiritualismo di H. Lotze.
Altra natura e origine speculativa presentano invece sia la corrente dello
spiritualismo, che si rifà alla tradizione cristiano-medievale, a Cartesio, Pascal
e Maine de Biran, sia la filosofia dei valori di M. Scheler e ll problema
dell'essere spirituale di N. Hartmann, che si ispirano alla fenomenologia
husserliana.
Lo spiritualismo
Lo spiritualismo ha intenti polemici verso il positivismo, lo scientismo e il
materialismo, ai quali oppone un ritorno alla metafisica di ispirazione cristianoagostiniana.
Nell'800 furono Rosmini e Gioberti a recuperare l'interiorità coscienziale
agostiniana e la trascendenza dell'essere divino e a rivendicare la verità del
pensiero e del carattere complessivamente spirituale della realtà.
44
Nel nostro secolo la tradizione spiritualistica si è precisata in due correnti,
che ne hanno espressamente rivendicato il nome e la tematica essenziale.
La prima è sorta in Francia nel 1934 con la collane "Filosofia dello spirito"
fondata da L Levelle e R. Le Senne, nei quali il tradizionale intimismo
spiritualistico si intreccia con le istanze del contemporaneo esistenzialismo,
inteso però in accordo con i valori cristiani.
La seconda corrente è sorta, negli stessi anni, in Italia, sia come
opposizione all'idealismo neohegeliano e al suo immanentismo (ma anche
come sviluppo originale di taluni aspetti dell'attualismo di Gentile), sia come
differenziazione dalla neoscolastica. Con quest'ultima lo spiritualismo italiano
(principalmente rappresentato da A. Carlini, il suo iniziatore, A. Guzzo, L.
Stefanini, F. Battaglia, M. F. Sciacca e R. Lazzarini) ha in comune l'ispirazione
cristiana e cattolica e la tesi della trascendenza di Dio, ma se ne distingue per
il ricorso all'atto dello spirito soggettivo anziché alla nozione oggettiva
dell'essere come punto di partenza del filosofare, e per il metodo dell'analisi
dell'interiorità, preferito all'inferenza razionale (di tradizione tomistica) dei
neoscolastici.
II
La coscienza nella riflessione filosofica
Propongo una rapida carrellata - non potrebbe essere altrimenti - come in
tutti questi primi capitoli della dissertazione, dello sviluppo del concetto di
coscienza nella storia della filosofia.
Mi propongo di soffermarmi solo sugli autori che mi hanno colpito di più,
dal momento che non è lo scopo di questa dissertazione analizzare in modo
approfondito ed esaustivo la presenza e l'evoluzione del concetto di coscienza
nel pensiero filosofico. Al massimo posso inventariare una serie di posizioni
teoriche, di riflessioni e proposizioni analitiche sulla coscienza.
Il concetto di coscienza nella filosofia antica: gli stoici e Plotino
L'origine del concetto di coscienza, nell'ambito della storia della filosofia si
può far risalire alle correnti tardo-antiche dello stoicismo e del neoplatonismo,
45
per le quali la coscienza coincide con l'interiorità, il colloquio dell'anima con se
stessa, e quando questo avviene si ha l'uomo saggio, libero dalle passioni e
dagli interessi mondani [EGF2, 1997, pp. 219-220].
Il concetto era invece pressoché assente in Platone a Aristotele [EE, p.
809].
Nell'antichità la parola coscienza (gr. sunevidesi§), era usata per designare
il contrasto tra interiorità ed esteriorità; apparve la prima volta con lo
stoicismo, che stabilì il privilegio della sfera dell'anima nei confronti del mondo
delle cose.
In una fondazione ontologica, il tema è al centro della speculazione neoplatonica. Il rapporto privato dell'uomo con se stesso, il ritorno a se stesso,
vale per Plotino a rappresentare il volgersi a quella unità da cui emerge il
molteplice del mondo sensibile. Il raccogliersi in sé non è un ritiro
dall'oggettività nella soggettività, ma anzi l'uscita dall'individualità
frammentaria e il congiungimento dell'anima con la sua origine in Dio.
Il concetto di coscienza nel cristianesimo: Agostino d'Ippona e Tommaso
d'Aquino
Nel cristianesimo l'opposizione tra lo spirito e la carne, nella misura in cui
la riduzione impersonale al centro del tutto propria del neo-platonismo è
sostituita dall'affermazione del valore irriducibile dell'anima individuale, vale
ancor più a indicare l'interiorità dell'uomo come luogo della Verità e della Vita.
Dio è presente nell'uomo spirituale e a esso si rivela.
Il primato dello spirituale viene ripreso da Agostino e sviluppato
potentemente in molte opere, tanto che tutto il cristianesimo ne ha risentito e
ne risente fino a oggi, basti pensare a espressioni tutt'ora dense di pregnanza
come "voce della coscienza" (ogni buon vocabolario o lessico italiano contiene
decine di espressioni comuni legate a "coscienza").
Per Agostino la verità esiste solo "in interiore". Ma il significato morale di
coscienza aveva prima di Agostino ben altri padri, come san Paolo, per il quale
la coscienza è la fonte immediata di una conoscenza certa dei principi che
definiscono la rettitudine del volere . Se poi il comportamento sarà diverso da
quanto dettato dalla coscienza ciò dipenderà dalla debolezza dalla viziosità o da
tentazioni del Maligno. S. Agostino è l'interprete del principio cristiano
dell'"inabitare" della Verità nell'anima (immagine di essa).
Il cristianesimo ha pure elaborato il concetto generale di coscienza con S.
Tommaso.
46
Egli intende per coscienza (con-scire) l'applicazione del sapere a un atto,
per giudicare se c'è o non c'è, ma soprattutto se è retto o non lo è.
In tal modo la coscienza è ciò mediante cui, sapendo della rettitudine delle
azioni, si è spinti, anzi, obbligati, a compiere o non compiere un atto; oppure,
esaminando un atto compiuto, si è scusati o accusati.
IL CONCETTO DI COSCIENZA NELLA FILOSOFIA RINASCIMENTALE E
MODERNA
Il passaggio al concetto speculativo moderno vero e proprio di coscienza è
mediato dalla filosofia di Tommaso Campanella. Per quest'ultimo esiste una
conoscenza innata di sé che tutte le persone hanno e che condiziona la
conoscenza che acquisiscono delle altre cose.
R. Cartesio e il problema anima-corpo
Ma è con Cartesio che la nozione di coscienza viene chiarita nei caratteri coi
quali sarà definitivamente accolta nella filosofia occidentale. Il "cogito ergo
sum" è l'auto-evidenza esistenziale del pensiero; circa i fatti del corpo non si
ha certezza, ma circa gli stati interni (intendere, volere, immaginare, sentire)
espressi dal termine cogito si ha certezza assoluta.
Di vedere o camminare non si è sicuri di per sé (può trattarsi di qualcosa di
simile al sogno), ma perché la sicurezza è nella mente stessa che sente.
La nozione di coscienza è qui definitivamente giunta a raccogliere tutta la
sfera dell'io e ne è l'auto-evidenza. L'io è ormai un'entità cui si contrappone il
mondo esterno ed è un'entità assolutamente vera perché immediatamente
presente a se stessa, a differenza del mondo che compare sempre nella sua
mediazione.
"A ben guardare, sotto il cosiddetto problema anima-corpo si celano tre
diversi problemi, che riguardano: 1) il rapporto metafisico fra materia
inorganica e vita; 2) il rapporto psicofisico fra processi fisiologici ed esperienze
psichiche; 3) il rapporto psicologico fra comportamento istintivo e razionale.
I moderni tentativi di risolvere il problema anima-corpo fanno capo a
Cartesio (1596-1650) e alla sua teoria delle due "sostanze". Essi però
riguardano quasi esclusivamente il rapporto psicofisico (punto 2), senza
peraltro puntualizzarne a fondo la problematica e definirla nei confronti di
quella relativa ai rapporto metafisico e psicologico (punti 1 e 2).
47
In Cartesio c'è una contrapposizione netta tra il mondo della coscienza (res
cogitans) ed il mondo del corpo (res extensa), soggetto come un automa a
funzionare secondo leggi fisiche […]. Secondo questa concezione, nell'uomo
l'anima e il corpo esercitano l'uno sull'altro un'influenza reciproca e la sede del
loro incontro è rappresentata dall'unico organo impari dell'encefalo, ossia la
ghiandola pineale (o epifisi, "conarium")" [Hofstätter, 1966, p. 187].
Scriveva infatti Cartesio: "Io accetto che esista un'influenza reciproca tra
coscienza e corpo, ma non di uguale qualità, nel senso che la coscienza
essendo originante dell'uomo intero, compreso il corpo, imprime su di esso
un'influenza ab origine non paragonabile a quella che il copro e le altre
dimensioni dell'uomo possono esercitare sulla coscienza, che continua a
esistere anche dopo la nascita dell'uomo e perciò può ricevere
condizionamenti, ma similmente a come una madre che educa un figlio fino a
portarlo alla maturità può da quello essere condizionata. Eppure lo ha generato
e nutrito e allevato fino a renderlo autonomo da sé".
R. Cartesio e l'"io"
È a partire da Cartesio che assume una rilevanza fondamentale in filosofia
un altro concetto, quello di "io" . La prima conoscenza sicura che si presenta a
chi guidi ordinatamente i propri pensieri non concerne gli oggetti esterni, ma
l'esistenza di un soggetto pensante, cioè di un "io" (è il noto cogito ergo sum).
Tutto il concetto di Io andrebbe sviluppato e analizzata, da Cartesio in poi,
parallelamente a questo della coscienza, su su fino a Nietzsche che lo ritiene
una finzione e che come nozione non ha alcuna validità teorica o pratica.
Nella filosofia moderna, dal XVII secolo in poi, coscienza ha il significato di
"consapevolezza soggettiva", di sé e dei propri contenuti mentali. Per Cartesio
di noi stessi, in quanto coscienza, siamo certi direttamente e indubitabilmente
(cfr le Meditazioni metafisiche, I e II); similmente in tutto l'empirismo inglese
fino a Hume che riteneva il solipsismo inconfutabile teoreticamente: anche se
col mio pensiero mi spingo fino ai limiti dell'universo, non perciò esco dalla mia
coscienza, avendo sempre a che fare o con "impressioni" sensibili o con "idee"
della ragione (cfr Trattato sulla natura umana).
M. de Montaigne, J. Locke, D. Hume e G. W. Leibniz
Per Montaigne la cosiddetta voce della coscienza non è nient'altro che
l'insieme dei principi o opinioni che nei diversi ambienti sociali vengono
inculcati nelle menti ancora tenere dei fanciulli, come regola e norme di ciò che
48
è retto e giusto. Ma dimenticando come li hanno appresi, gli uomini
considerano tali principi come "naturali", non derivati dall'esterno quando li
ritrovano dentro di sé.
Tale posizione viene ribadita con forza anche da Locke nella polemica
contro i platonici della scuola di Cambridge, che sostenevano il carattere innato
e intuitivo dei principi morali [EGF2, 1997, p. 220].
Secondo Locke il rapporto del soggetto con l'oggetto esterno cade
interamente nella sfera della coscienza, la quale non attinge altro che idee; noi
non conosciamo le cose, ma le loro idee, e la filosofia non fa un passo al di là
della coscienza.
È "coscienza" l'espressione adoperata da Hume per negare ogni esistenza
esterna e ridurre la realtà a percezione.
Parallelamente a tale dottrina empiristica della coscienza la filosofia di
Leibniz assume il concetto di coscienza (appercezione) in senso spiritualistico.
L'intera vita della monade, che è sostanza spirituale, è interna a essa. È
pensando a noi che pensiamo all'essere, alla sostanza, al semplice e al
composto, all'immaterialità, a Dio stesso.
L'"idea" in François-Marie A. Voltaire
Nel Dizionario filosofico di Voltarie alla voce Idée, troviamo spunti
interessanti.
"Che cos'è un'idea? È un'immagine che si proietta nel mio cervello.
Tutti i vostri pensieri sono dunque immagini? Certamente. Perché le idee
più astratte non sono altro che conseguenze di tutti gli oggetti che ho veduto.
Pronuncio il nome di essere in generale, solo perché ho conosciuto esseri
particolari. Pronuncio il nome di infinito solo perché, avendo visto i limiti degli
oggetti finiti, allontano il più possibile questi limiti con la mia immaginazione.
Insomma, ho idee, solo perché ho in testa immagini.
Qual è il pittore che ce le dipinge? Non sono io stesso, perché non sono un
buon pittore: colui che mi ha creato, è anche quello che fa le mie idee.
Sareste dunque del parere di Malebranche, il quale diceva che noi vediamo
tutto in Dio?
Son ben sicuro che, se non vediamo le cose propriamente nella Divinità, le
vediamo certo nella sua azione onnipotente.
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Ma come si manifesta questa azione? Vi ho già detto cento volte nelle
nostre conversazioni che non ne sapevo nulla, e che Dio non ha detto il suo
segreto a nessuno. Ignoro quale forza fa battere il mio cuore e correre il mio
sangue nelle vene; ignoro il principio di tutti i miei movimenti; e vorreste che
vi dicessi in qual modo posso sentire e pensare? Non è giusto.
Ma sapete almeno se la vostra facoltà di avere idee va unita all'estensione?
Non so. È vero che Taziano, nel suo discorso ai Greci, dice che l'anima è
manifestamente corporea; e Ireneo (libro 11, 25) dice che il Signore ha
insegnato che le anime conservano l'aspetto del corpo, per conservarne la
memoria.
Tertulliano assicura, nel suo libro II sull'Anima, che è corpo; Arnobio,
Lattanzio, Ilario, Gregorio di Nissa, Ambrogio, non hanno diversa opinione.
Oggi si afferma che altri Padri della chiesa pensano che l'anima non ha
estensione e seguono in ciò la dottrina di Platone; ma è cosa assai dubbia .
Quanto a me, non oso dare nessun parere: vedo difficoltà insuperabili nell'uno
e nell’altro sistema; dopo averci pensato tutta la vita, mi trovo esattamente al
punto di partenza.
Era meglio dunque non pensarci su tanto.
È vero: colui che gode la vita è più saggio di quello che passa il tempo
riflettere, o almeno è più felice. Ma che volete? Non dipendeva da me ricevere
né respingere tutte le idee che sono venute nel mio cervello per combattersi e
contrastarsi e hanno scelto le mie cellule midollari come campo di battaglia.
Quando si furono ben combattute, non ho raccolto dalle loro spoglie che
incertezza.
È triste avere tante idee, e non conoscere con precisione la natura delle
idee.
È triste. Assai più triste, e molto più stupido, è credere di sapere ciò che
non si sa" .
Immanuel Kant
Kant, avvalendosi della sua distinzione fra trascendentale ed empirico, ha
cercato di superare il carattere puramente "interioristico" della coscienza,
intendendo la coscienza di qualcosa come la presenza di un contenuto
empirico. Avere coscienza di una rappresentazione è sempre aver coscienza
empirica della propria esistenza, cioè essere determinati da qualcosa che non
si identifica con noi.
50
Kant distingue la "coscienza empirica", diversa, nei diversi uomini, dalla
"coscienza in generale" o appercezioni pura, cioè l'"Io penso", pura funzione di
conoscenza, universale.
"L'appercezione pura o trascendentale è la possibilità del rapporto fra
coscienza empirica (o l'io empirico) e l'oggetto. Tuttavia nella prima edizione
della Critica della ragion pura (1781) l'io di cui si ha coscienza
nell'appercezione pura viene qualificato come "io stabile e permanente che
costituisce il correlato di tutte le nostre rappresentazioni" ed è solo nella
seconda edizione (1787) che a tale io spetterà una pura funzione formale,
priva di realtà propria, rimanendo tuttavia la condizione di ogni conoscenza. In
ogni caso in Kant risulta definitivamente invertito il rapporto di derivazione e
fondazione tra coscienza riflessiva e autocoscienza, ma solo nella seconda
definizione kantiana l'io autocosciente è un io infinito e privo di potere creativo,
un io che ordina e organizza un materiale fenomenico dato. Nell'accettare o
meno questa restrizione si dividono nettamente le strade della filosofia
trascendentale e dell'idealismo, che, incentrandosi sulla immanenza totale della
coscienza, tematizza l'autocoscienza propria di un principio infinito, condizione
di ogni realtà.
Kant nella Critica della ragion pratica, pone al centro della sua etica la
coscienza intesa come voce interiore, in contrasto con le inclinazioni sensibili
da cui siamo affetti. In accordo con Rousseau, Kant ritiene assoluto il valore
della legge morale e accessibile a tutti gli uomini.
Tale concezione, così duratura nel tempo, è stata contestata da tutte le
forme di relativismo morale susseguitesi dal rinascimento ad oggi.
Dalla concezione kantiana prende avvio il successivo idealismo tedesco,
con l'Io assoluto di Fichte e del primo Schelling; ma con differenze radicali
rispetto a Kant: infatti per l'idealismo la coscienza è l'Io empirico che si ritrova
limitato dal Non-Io, mentre l'Io assoluto, principio originario che "pone" il NonIo al fine di potersi determinare per contrasto, è del tutto al di qua della
coscienza e viene attinto solo dalla riflessione filosofica.
Così, Fichte si applica al tema dell'autocoscienza come coscienza immediata
(non riflessiva) dell'avere coscienza, in quanto atto di un io assoluto, e assume
il concetto kantiano puramente funzionale come un concetto quasi sostanziale:
l'io infinito, principio non solo della conoscenza ma anche della realtà, e
principio non nel senso di condizione, ma di forza o attività produttiva che
producendosi produce il non-io.
Georg W. F. Hegel
Muovendo da tale elaborazione, Hegel nella Fenomenologia (1807) afferma
come compito ulteriore della filosofia l'elaborazione concettuale del contenuto
51
della coscienza reale affinché acquisti verità e realtà portandosi all'altezza del
soggetto assoluto: ogni coscienza, anche come autoconsapevolezza e
autocertezza (riflessiva o immediata), implica infatti per Hegel il rapporto della
coscienza con qualcosa che è sempre altro dalla coscienza stessa, mentre
l'autocoscienza intesa come concetto o come spirito elimina tale relazione
alienata.
La prima delle sei sezioni della Fenomenologia dello spirito è proprio
dedicata alla Coscienza. Hegel elenca varie forme di realismo più o meno
ingenuo, rivendicando al funzione costitutiva del pensiero nei confronti
dell'oggettività e quindi la funzione di mediazione di contro all'opinione che la
verità sia data invece dall'immediatezza.
L'autocoscienza (ossia la coscienza si sé propria dell'uomo) si presenta
quale identità di opposti: l'Io-soggetto e l'Io-oggetto sono il medesimo Io che
da se stesso si duplica; si ha quindi una differenza che insieme è identità
La risoluzione del rapporto fra coscienza e autocoscienza si pone come un
generale rimprovero mosso a tutta la filosofia precedente per avere elaborato
mere filosofie della coscienza. Tuttavia in Hegel l'assolutizzazione dello spirito
in quanto autofondato e libero da rapporti di alienazione propri della coscienza
va di pari passo con una peculiare considerazione genetica di tale
autofondazione: su ciò potranno lavorare le dottrine a vario titolo
antimetafisiche che, operando dall'interno la dissoluzione del sistema
hegeliano, riporteranno rapidamente la concezione del rapporto coscienzaautocoscienza al suo stadio preidealistico" [EGF2, 1981, p. 178].
Per Hegel il filosofare, come elaborazione concettuale di quel contenuto
iniziale che è la coscienza soggettiva - la quale in tale attività si fa verità
assoluta, Spirito - è lo stesso processo della realtà che si fa realtà assoluta. E'
questo il concetto dell'autocoscienza, cioè di un principio che autocreandosi
crea tutta la realtà.
La "coscienza infelice" in Hegel
La "coscienza infelice" è la figura che nella Fenomenologia dello spirito ha
per referente la religione ebraica e cristiana. L'infelicità di questa forma di
coscienza deriva dal suo sentirsi come inessenziale di fronte all'Assoluto, cioè
al Dio trascendente, senza tuttavia riuscire a negarsi in esso, come pur
vorrebbe. Hegel presenta i tentativi tutti destinati al fallimento, che la
coscienza infelice metterebbe in atto a questo scopo:la devozione
sentimentale, una sorta di misticismo; l'operare nel mondo, inteso come dolore
verso Dio; e infine la mortificazione di sé, nell'ascetismo inattivo. Non
riuscendo però ad annullarsi, la coscienza continua a soffrire l'alterità che
permane fra lei e il divino. Questa infelicità verrà superata solo allorché la
52
coscienza ritroverà il divino nel mondo e in se stessa, ossia si scoprirà come
ragione, realizzando quell'unità con l'Assoluto che fin allora le era mancata.
Questa interpretazione è dunque una interpretazione della fede in un Dio
personale e trascendente come una forma di "alienazione" dell'uomo da se
stesso. Tale idea verrà poi sviluppata dalla cosiddetta sinistra hegeliana.
Se per gli empiristi la conoscenza non poteva uscire dalla sfera della
coscienza (le cose stesse perdono ogni realtà indipendente dalla percezione, il
loro esse si riduce al loro percipi, Berkeley), tale concezione è criticata da Kant
per il quale la conoscenza degli stati di coscienza si avvale delle stesse
modalità della conoscenza degli oggetti sensibili, perciò vanno usati gli stessi
metodi di indagine. È così che cade l'esito idealistico degli empiristi e non
fornendo più conoscenze privilegiate, la coscienza, che s'è vista sottrarre il
proprio carattere di sfera autonoma, si riduce a semplice consapevolezza e
perde gran parte del suo interesse filosofico, a parte la parentesi idealistica
tedesca (in Fichte la realtà esterna è interamente risolta in coscienza [EE, p.
809].
Il solipsismo tra il XVII e il XX secolo
Il solipsismo, che sostiene l'evidenza assoluta, ma anche invalicabile, dell'io
singolo (solus ipse) o dei contenuti di coscienza, dando luogo a un idealismo
soggettivo che nega la realtà (o la possibilità di dimostrare e attingere la
realtà) del mondo esterno e degli altri soggetti, fu sostenuto da Malebranche e
Berkeley, i quali consideravano indispensabile il ricorso a Dio come unico
garante dell'oggettività del conoscere. Per Cartesio invece il solipsismo ha una
funzione più propriamente metodologica: l'evidenza interiore è la base per la
dimostrazione razionale dell'esistenza di Dio e del mondo.
In seguito il solipsismo fu giudicato teoreticamente inconfutabile ma
insostenibile in sede morale da Fichte e Schopenhauer. Ma ripreso da Husserl
per il quale l'io, proprio tornando in sé, si scopre costituito dagli altri io, sicché
intersoggettività sarebbe più originaria e fondante rispetto alla soggettività
singola (cfr Meditazioni cartesiane, 5).
Il solipsismo ha continuato ad affascinare i filosofi fino al nostro secolo. Per
Wittgenstein (solipsismo linguistico) "i limiti del mio linguaggio sono i limiti del
mondo", tesi fondamentale del Tractatus logico-philosophicus.
Per R. Carnap (in La struttura logica del mondo) il fondamento del
conoscere è il "flusso d'esperienza", anonima presenza che precede la
distinzione dell'io e della cosa. Questo "puro c'è" dell'esperienza è pertanto un
dato coscienziale originario, valicabile solo per analogia e somiglianza.
53
Il tema è stato ripreso e ridiscusso dai neopositivisti e da B. Russell [EGF2,
1997, pp. 1085-1086].
IL CONCETTO DI COSCIENZA NELLA FILOSOFIA DEL '900
Friedrich W. Nietzsche
Nel primo aforisma di Umano troppo umano Nietzsche sviluppo il suo
programma di critica della razionalità socratica della società occidentale:
occorre una "chimica delle idee e dei sentimenti morali, religiosi ed estetici"
che mostri come "i colori più magnifici" derivino da materiali bassi e spregiati,
cioè impulsi ed interessi egoistici.
In questo Nietzsche assomiglia a Marx e Freud con i quali condivide la
volontà di mettere in luce le basi materiali (economiche o istintuali) di ogni
produzione spirituale, ma "è erroneo ritenere che il suo discorso miri a indicare
una verità elementare a cui debbano essere riportate (per demistificarle) le
"menzogne" dell'ideologia e i prodotti della sublimazione. La "chimica" di
Nietzsche scopre invece che non c'è alcuna verità base, giacché anche la
credenza nel valore della verità è, appunto, una credenza storicamente
condizionata; l'evidenza che ci fa ritenere vera una proposizione, del resto, non
è segno di una sua verità, ma è solo segno che quella proposizione corrisponde
meglio di altre ai condizionamenti psicologici e sociali che ci dominano.
La coscienza a cui l'evidenza si impone non è nulla di immediato, ma già il
risultato di un gioco di influenze e di un equilibrio gerarchico di forze
contrastanti. Tutto ciò che di volta in volta si presenta come verità è solo il
configurarsi, provvisoriamente stabile, di rapporti di forze, sia nella società,
dove prevale un certo criterio del vero imposto da questo o quel gruppo, sia
nel singolo, dove prevale l'uno o l'altro impulso, secondo una gerarchia che
dipende anche dalle gerarchie sociali […]
I sensi (significati e direzioni) che vengono attribuiti alla storia sono
anch'essi prospettive interne al gioco di forze della "volontà di potenza".
Questa però non si muove secondo un senso unitario.
Su questa base l'idea dell'eterno ritorno sembra avere, per Nietzsche, non
tanto la funzione di affermare la circolarità del tempo, quanto piuttosto quella
di negarne la linearità; di negare, cioè, che il corso storico vada verso un fine
che trascende i singoli momenti di esso, come ha sempre voluto la metafisica
platonico-cristiana.
54
Ogni momento del tempo, quindi ogni esistenza singola in ogni suo attimo,
ha tutto il suo senso in sé. […] Occorre liberare il gioco delle forze, costruendo
un'esistenza dove ogni momento possieda tutto intero il suo senso" [EGF2,
1997, pp. 795-796]. "Nel nostro secolo, la nozione di coscienza, nel senso di
consapevolezza di sé e degli oggetti ai quali essa si rivolga, è importante
soprattutto in Husserl e poi in alcune varianti dell'esistenzialismo, per esempio
in K. Jaspers e J. P. Sartre.
L'aspetto per cui la coscienza è sempre coscienza di qualcosa, ossia ha
necessariamente un oggetto quale termine di riferimento, è definito da Husserl
come la sua "intenzionalità" (termine di lontana derivazione scolastica), nelle
Idee per una fenomenologia pura. Questa concezione con la relativa
terminologia è penetrata largamente nel pensiero tedesco del nostro secolo.
Per Sartre (L'essere e il nulla) la coscienza è "essere per sé" o presenza a
sé (distinzione di sé da sé; è negatività e libertà, in quanto essenzialmente
progettualità rivolta al futuro, di contro all'"essere in sé" delle cose. Tra
l'essere e la coscienza c'è un'opposizione irresolubile. La coscienza si definisce
come "non-essere"; ed è quindi "l'essere per cui il nulla viene al mondo", nel
senso che ogni negazione che s'incontri nell'esperienza dipende dall'attività
negatrice originaria della coscienza.
Alla certezza interiore come pretesa via d'accesso diretto alla verità
vengono oggi contrapposti i metodi propri delle scienze, teoriche o empiriche.
La complessa problematica logica che ne deriva occupa una posizione
centrale nelle filosofie che, come l'empirismo logico, muovono appunto dal
riconoscimento che nelle scienze esistenti e nei loro progressi è data l'unica
possibilità di conoscenza affidabile.
Il punto estremo di questa critica è rappresentato dal comportamentismo, il
quale, proprio sul terreno dei fenomeni psichici, rifiuta le pretese conoscitive
del ricorso all'interiorità e propone in alternativa una metodologia fondata sui
dati oggettivamente osservabili, nella convinzione che l'introspezione sia una
fonte di autoinganno.
L'introspezione quale modo di conoscenza dei fenomeni psichici è
contestata, su un altro versante, dalla psicanalisi, secondo la quale la genesi
profonda di tali fenomeni sfugge alla normale consapevolezza del soggetto"
[EGF2, 1997, p. 221].
La concezione della coscienza come rapporto con l'esterno è stata ripresa
su altre basi, in questo secolo, dalla fenomenologia.
La fenomenologia ed Edmund Husserl
55
Per Husserl la coscienza è intenzionalità, cioè trascendimento nei confronti
dell'oggetto. Essa è costituita di esperienze vissute, che sono la sua sostanza e
posizione assoluta. Invece la filosofia romantica aveva concepito la totale
immanenza della realtà nella coscienza.
Nelle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica
(1913 1 1952) Husserl propone il metodo della "riduzione fenomenologica"
("sospensione del giudizio" o epoché) per attingere la dimensione in cui i
fenomeni si manifestano in piena "evidenza" ("in carne ed ossa") e come
"datità originarie". L'epoché pone tra parentesi sia i giudizi del senso comune
(pregiudizi) sia le teorie scientifiche. Operata tale riduzione ciò che emerge
come "residuo fenomenologico" è il campo trascendentale della coscienza pura
(par. 49).
Le realtà psichiche (il terzo degli strati fondamentali della realtà, dopo le
cose materiali e le nature animali) non sono una molteplicità irrisolta di
soggetti singoli, ma una intersoggettività originaria.
La sfera della coscienza trascendentale non è né il cogito solipsistico
cartesiano, né, dice Husserl, l'Io puro di Fichte; è piuttosto un Noi
intersoggettivo che si dispiega in un operare comune di cui il linguaggio, la
società e la storia sono le più dirette manifestazioni (Meditazioni cartesiane,
parr. 55-60) [EGF2, 1997, p. 512].
Husserl nega la coscienza come cosa e la ribadisce come atto, un originario
fuori-di-sé o, come dice Merleau-Ponty, una trascendenza.
Martin Heidegger e Karl Jaspers
Lo spiritualismo del sec. XIX persegue dal canto suo l'ideale della coscienza
come manifestazione dell'infinito, sottolineando però il rapporto non necessario
fra i due termini.
L'esistenzialismo rappresenta invece una svolta radicale. Esso fa
l'esperienza drammatica dell'impossibilità e pure della necessità del
trascendimento della coscienza.
Questo modo di vedere è condiviso da Jaspers, Sartre, Heidegger.
La filosofia, a differenza delle scienza, si rivolge all'esistenza in quanto
unità di soggetto e oggetto; ogni esistenza infatti è la sua stessa situazione nel
mondo: "Il mio io è identico con il luogo della realtà in cui mi trovo".
Ciò conduce ai temi di colpa (ogni esistenza sconta fatalmente la parzialità
ineliminabile che la caratterizza), libertà (ma di fatto io devo scegliere e sono
già scelto dalla situazione storica, la libertà si riduce all'accettazione del proprio
56
destino, secondo il motto nietzschiano "divieni ciò che sei") e comunicazione
(che risulta in ultima analisi impossibile)
[EGF2, 1997, pp.575-6].
Sulla stessa linea si muovono Heidegger ("L'Esserci, in virtù del suo modo
fondamentale di essere, è già sempre "fuori", presso l'ente che incontra in un
mondo già sempre scoperto") e Sartre ("L'essere della coscienza, in quanto
coscienza, è di esistere a distanza da sé, come presenza a sé, e questo niente
di distanza che l'essere porta nel suo essere è il nulla").
Per Heidegger la trascendenza verso il mondo è l'essenza della soggettività
stessa; trascendere è progettare un atteggiamento nel mondo. Ma il mondo
ricomprende in sé il soggetto che si trova gettato così in esso e sottoposto alle
sue condizioni. Di conseguenza la coscienza s'identificherà con il tentativo di
mettersi in rapporto con qualcosa che è destinata allo scacco.
Il teorema dell'intenzionalità della coscienza che Husserl aveva preso da
Brentano è infine ripercorso da Jaspers per il quale "l'essere della coscienza
non è come quello delle cose, ma la sua essenza è nell'essere diretto
intenzionalmente agli oggetti", ma la coscienza riflette anche su di sé
ponendosi come autocoscienza: "l'"io penso" e l'"io penso che penso"
coincidono in modo da non poter esistere l'uno senza l'altro" [DPL, 1992, pp.
236-237].
Dunque questa ipotesi fenomenologico-esistenzialista rifiuta la riduzione
dell'uomo a coscienza e concepisce l'individuo come un essere-nel-mondo,
dove il mondo è pensato come costitutivo dell'essenza umana.
Nella visione marxista la persona (e dunque la coscienza) è la risultante dei
rapporti che l'uomo ha con la natura e con i propri simili.
Jean-Paul Sartre
A partire dal concetto husserliano di intenzionalità della coscienza, Sartre
credeva in una trascendenza ineliminabile della coscienza verso il mondo e le
cose. Al centro della psicologia fenomenologica egli voleva la funzione
immaginativa (L'immaginario, 1940) perché ciò permette di evidenziare la
proprietà della coscienza di distanziarsi dalle cose e dai fatti, annullando la
totalità dell'esistente in vista di significati che la coscienza liberamente pone.
Con questi studi Sartre cominciò a fissare i capisaldi della sua ontologia
fenomenologica, fondata sulla complementarità contraddittoria dell'essere della
coscienza (il "per-sé"), come libertà assoluta che dà significato globale ai dati
della situazione, e dell'essere del mondo (l'"in-sé" o Essere per antonomasia),
57
come realtà fattuale massiccia e opaca, che è il supporto e il residuo irriducibile
dell'attività intenzionale della coscienza
In L'essere e il nulla il rapporto con l'altro si configura negativamente come
reciproca riduzione a oggetto (a "in-sé") fin dall'esperienza primaria dello
sguardo, per cui "l'essenza del rapporto tra le coscienze è il conflitto".
La sintesi di in-sé e per-sé, che corrisponde all'idea di Dio, assoluta libertà
e insieme assoluta necessità, è impossibile. Esiste una equivalenza negativa
delle scelte, ovvero uno scacco ontologico dell'esistenza [EGF2, 1997, p.1011].
Henri Bergson
Di Bergson mi occupo più estesamente dato l'interesse della sua riflessione
filosofica. Egli è autore di una teoria dell'evoluzione fondata sulla dimensione
spirituale della vita umana che esercitò una profonda influenza su molte
discipline.
Oltre che alla filosofia si interessò alla matematica e alla fisica, che coniugò
con la filosofia della scienza e la riflessione sul problema del tempo. Insegnò
nei licei, all'École Normale Supérieure e al Collège de France.
Nella sua tesi di dottorato Saggio sui dati immediati della coscienza (1889),
criticava l'applicazione alla coscienza di una concezione del tempo
deterministica e positivistica. Solo la "durata" intesa come sequenza di
momenti qualitativamente connessi tra loro e non quantificabili, è in grado di
cogliere l'io nella sua interezza.
Nelle opere successive analizzò il rapporto tra mente e corpo (Materia e
memoria, 1896) e il problema dell'esistenza umana all'interno dell'evoluzione
intesa come energia pura, élan vital, forza vitale libera da implicazioni
finalistiche o deterministe (L'evoluzione creatrice, 1907).
Membro dell'Accademia di Francia si occupò di affari esteri, politica e
problemi morali e religiosi; si convertì al cattolicesimo ma rifiutò il battesimo
per non tradire la sua origine ebraica al tempo della persecuzione.
Negli ultimi vent'anni della propria vita pubblicò unicamente Le due fonti
della morale e della religione (1932), in cui estese le sue concezioni alla
morale, alla religione e alla società. Premio Nobel per la letteratura, morì a
Parigi nel 1941.
Bergson contrappose alla concezione razionalistica del positivismo una
visione della conoscenza e della vita fondata su diversi livelli dello spirito e su
58
diversi piani conoscitivi. All'apice di questi livelli non è l'intelligenza, che ci offre
soltanto
rappresentazioni
superficiali,
convenzionali,
utili
ma
non
corrispondenti alla realtà delle cose; la vera attività conoscitiva è l'intuizione,
che ci permette di cogliere l'essenza del reale, della natura come del nostro Io.
La vera realtà della natura e dello spirito non può essere colta attraverso le
artificiose schematizzazioni delle scienze ma deve essere appresa
intuitivamente nel suo divenire, nel suo flusso ininterrotto.
Al concetto di tempo "spazializzato" della scienza, artificialmente diviso in
momenti distinti, egli contrappose il tempo come durata, come flusso
ininterrotto, come processo che non può essere quantificato ma soltanto
vissuto dalla spirito. Così tutta la vita viene interpretata come evoluzione
continua, come proiezione della realtà e dello spirito verso forme sempre
nuove, in una perenne attività creativa.
E' la coscienza, attraverso la sua capacità di conservare nella memoria gli
oggetti e poi di giustapporli in una successione ordinata, che crea il tempo
omogeneo. Ogni termine assume per la nostra coscienza un duplice aspetto:
uno sempre identico a se stesso, poiché pensiamo all'identità dell'oggetto
esterno, l'altro specifico, perché l'addizione di questo termine dà luogo a una
nuova organizzazione dell'insieme. Distinguiamo due forme di molteplicità, due
valutazioni molto diverse della durata, due aspetti della vita cosciente l'uno
netto, preciso, ma impersonale; l'altro confuso, infinitamente mobile e
inesprimibile, poiché il linguaggio non potrebbe coglierlo senza fissarne la
mobilità, e nemmeno adattarlo alla sua forma banale senza farlo cadere nel
dominio comune.
Bergson in Saggio sui dati immediati della coscienza (1889) si propone una
descrizione degli stati di coscienza in presa diretta, cioè mediante
l'introspezione e in polemica con la psicologia sperimentale positivistica, che
pretende di rapportare i dati interni della coscienza ai fatti fisici esterni. Ma i
fatti psichici vivono in una dimensione qualitativa che non è rapportabile a
quella quantitativa dei fatti fisici (si può misurare uno stimolo, ma non una
sensazione).
Il tempo concretamente vissuto dalla coscienza, per esempio, è una
"durata" reale in cui lo stato psichico presente conserva il processo dal quale
proviene ed è insieme qualcosa di nuovo.
Intuizione e stati della coscienza in Bergson
Non c'è soluzione di continuità tra gli stati della coscienza: essi si
compenetrano dando vita a un amalgama in continua evoluzione. "Al di sotto
[…] vi è un flusso continuo, non comparabile a nulla di ciò che ho visto fluire. È
59
una successione di stati, ciascuno dei quali preannunzia quello che lo segue e
contiene quello che lo precede. In verità essi non costituiscono stati molteplici
se non quando son già passato oltre ad essi, e mi rivolgo indietro per
osservarne la traccia […]. In realtà, nessuno di essi comincia o finisce, tutti si
prolungano gli uni negli altri. È, se si vuole, lo svolgersi di un rotolo, perché
non c'è essere vivente che non si senta arrivare, a poco a poco, al termine
della parte che deve recitare […]. Ma è anche, altrettanto, un arrotolarsi
continuo, come quello d'un filo su un gomitolo, poiché il nostro passato ci
segue, e s'ingrossa senza sosta del presente che raccoglie sul suo cammino:
coscienza significa memoria" [Bergson, 1971, p. 48].
Ed è questo movimento reale e vissuto che la scienza non può spiegare con
i suoi concetti astratti e rigidi. Lo scopo del filosofo è quello di aiutare l'uomo a
scavare nella propria coscienza.
A causa poi di un analogo intellettualismo concettuale, la scienza (e anche
il senso comune) da sempre si imbatte in dualismi irresolubili: materia-spirito,
estensione-pensiero, necessità-libertà. Bergson affronta tale problema in
Materia e Memoria (1896). È la memoria pura e spirituale a caratterizzare la
vita profonda della coscienza: essa raccoglie tutto il nostro passato e lo
conserva nel fondo della psiche. Il corpo però, e in particolare il cervello, si
incarica di limitare la memoria totale, imponendo la dimenticanza di taluni
contenuti e l'oblio. Il cervello è dunque un organo di traduzione e di
collegamento: da un lato esso traduce l'attività della coscienza in movimento
(nel cervello non c'è il pensiero ma solo il "movimento esteriorizzato" del
pensiero), dall'altro collega la coscienza con la realtà esterna, e anzitutto con
quella prima cosa che per l'io è il corpo.
Spirito e corpo possono essere espressi dunque come memoria e
percezione. La prima raccoglie la totalità della vita vissuta nella sua
spontaneità e creatività; la seconda si concentra sul presente, sulle necessità
pratiche dell'azione.
Per quanto riguarda l'evoluzione, tema caro a Bergson, egli respinge sia il
modello evoluzionistico spenceriano (cioè il determinismo), sia l'evoluzionismo
finalistico, perché entrambi negano la spontaneità e la novità del processo
reale. Dopo la pianta viene l'animale che ha l'istinto, ma l'uomo lo sopravanza
con l'intelligenza, che è la strada che avvia l'uomo verso la coscienza e il
concetto. La scienza è il traguardo estremo di questo progressivo raffinamento.
Ma l'intelligenza può sempre tornare all'istinto, accompagnato dalla
coscienza. In Introduzione alla metafisica Bergson definisce così l'intuizione:
"quella simpatia mediante la quale ci si inserisce nell'interiorità di un oggetto
per coincidere con ciò che c'è in esso di unico".
60
L'intuizione diviene così l'organo di una reale conoscenza partecipativa, che
si esprime nell'arte se diretta all'individuale, e nella metafisica se rivolta alla
totalità della vita presa nel suo slancio vitale, La metafisica è pertanto la
"scienza che si propone di superare la barriera dei simboli" costruiti dal
linguaggio comune e dall'intelletto scientifico.
Al rischio che il progresso tecnologico spinga l'uomo "verso la soddisfazione
dei desideri più grossolani" Bergson oppone la speranza in un nuovo salto
evolutivo della specie, consistente in un nuovo misticismo, che facendo leva
sulla forza dell'intuizione e della tecnica si traduca in un moderno "amore
universale e attivo" [EGF2, 1997, pp. 105-106].
"Senza dubbio, nessuna immagine rende perfettamente il senso originale
che ho dello scorrere di me stesso. Ma neppure è necessario che cerchi di
renderlo. A chi non sia capace di darsi da sé l'intuizione della durata che
costituisce il suo essere, nulla la darà mai, non i concetti più che le immagini.
L'unica mira del filosofo deve essere, qui, provocare un certo lavoro che, nella
maggior parte degli uomini, le abitudini mentali più utili alla vita tendono a
bloccare (Le esigenze vitali tendono a portare l'attenzione verso i livelli
superficiali, spaziali, della coscienza, impedendole di concentrarsi in un una
sensibilità profonda e simpatetica verso l'oggetto, nota del traduttore)"
[Bergson, 1971, p. 50].
Fondamentale, e chiave di ogni altro, fu l'interesse per il problema della
coscienza, e per il ruolo dell'inconscio. Era il problema implicito nel titolo stesso
del primo libro di Bergson, l'Essai sur les données immédiates de la conscience,
in cui si tentava di distinguere tra una "vita psichica superficiale", a cui poteva
essere applicata la logica scientifica dello spazio e del numero, e una vita della
coscienza più profonda, in cui il vero io seguiva una sua propria logica" [Stuart
Hughes, 1967, p. 68-9].
Bergson nel movimento intellettuale della fine del secolo scorso si collocava
all'ala estrema "intuizionista", aggressivamente antipositivista.
Maurice Merleau-Ponty
Anche per Merleau-Ponty l'essere-nel-mondo, costitutivo dell'esistenza, è
rapporto tra coscienza e mondo; ma a differenza di Sartre egli pensa che quel
rapporto non è interpretato adeguatamente attraverso la contrapposizione tra
per-sé e in-sé, che sembra riproporre il tradizionale dualismo cartesiano tra res
cogitans e res extensa e sopravvalutare soggettivisticamente la libertà di
coscienza.
Soggetto e oggetto, io e mondo, libertà e necessità, non vanno visti nei
termini antitetici della filosofia classica e delle sue soluzioni unilaterali
(materialismo e idealismo).
61
"L’anima pensa secondo il corpo, non secondo se stessa" (in L’Occhio e lo
Spirito).
Seguendo le indicazioni dell'ultimo Husserl, Merleau-Ponty identifica il
luogo fondamentale dell'esistenza nell'esperienza vissuta della percezione dove
soggetto e oggetto, coscienza e mondo si costituiscono in un rapporto di
implicazione reciproca, di scambio e interazione che la fenomenologia deve
restituire nella sua ambiguità originaria (La struttura del comportamento,
1942) [EGF2, 1997, pp.575-6].
Pierre Teilhard de Chardin e F. Tipler
Teilhard de Chardin definiva la comparsa della vita cosciente sul pianeta
come il processo tramite il quale il mondo estroflette un occhio per guardarsi,
immagine che ricorda le visioni del cabalista rinascimentale ebreo Jizchad Lurja
(1532-1575).
Formenti ricorda che secondo Lurja la creazione del mondo consiste nel
ritiro di Dio; ciò lascia un vuoto in cui si dispiega liberamente la storia del
mondo; solo la comparsa dell'uomo consente di ristabilire una presenza divina
[Formenti, 1999, pp. 186-187].
Con la comparsa della specie umana la Terra si risveglia, si fabbrica un
cervello rispetto al quale i singoli esseri umani svolgono la funzione di cellule
nervose. La genesi di questa Mente collettiva (che anticipa il concetto di Mente
che verrà elaborato anni dopo da Gregory Bateson) richiede tuttavia un
passaggio ulteriore, vale a dire, che l'evoluzione culturale e lo sviluppo
tecnologico diano vita alla "noosfera". Con questo termine, Teilhard de Chardin
definisce quel complesso di energie biologiche spiritualizzate (potenziali
intellettuali individuali e collettivi, sistemi e codici di comunicazione,
conoscenze, linguaggi, tecnologie ecc.) che costituiscono una sorta di
"superidentità" della specie, un sistema pensante composto da elementi sia
biologici sia artificiali. Non appena tale "massa pensante" avrà raggiunto un
punto critico, che Teilhard de Chardin chiamava punto Omega, la Creatura
Planetaria avrà completato il suo processo di formazione, la Teogenesi sarà
compiuta. A partire da quel momento, la Terrà non sarà più solo coperta da
una miriade di granuli di pensiero: si sarà trasformata in un'unica sfera
pensante.
La materia originaria, secondo Teilhard, contiene già in sé la "coscienza"
come elemento organizzativo, per cui l'evoluzione si configura come un
processo non puramente deterministico, ma anche teologico.
62
L'uomo non è ancora tuttavia il punto finale: l'universo, e in esso l'uomo e
la sua storia, tendono a un "punto omega": il Cristo cosmico, punto di
aggregazione di tutta l'umanità ("cristosfera").
Stato il fisico Frank Tipler ha riprendere recentemente il concetto di Punto
Omega, sostenendo che tutta la vita coscienze finirà per convergere in una
supermente che assumerà il controllo del cosmo e annullerà la morte termica.
Dio, con inversione temporale tipicamente gnostica, non sta all'inizio ma alla
fine dei tempi. Si veda anche la concezione di Lurja"[Formenti, 1999, p. 187
n.].
ALCUNE VOCI DEL DIBATTITO ATTUALE IN ITALIA
Gianni Vattimo e il pensiero debole
Nietzsche, l'autore che insieme a Heidegger ha posto le basi
dell'ermeneutica filosofica contemporanea, vedeva nella dissoluzione dei
fondamenti il principio di una duplice emancipazione: sia come liberazione dal
simbolico, dalle credenze metafisiche, sia come liberazione del simbolico, cioè
come possibilità di sperimentazione di nuove forme di vita e di pensiero.
Di qui la necessità per la filosofia di rinunciare a qualsiasi ruolo fondativo e
di configurarsi piuttosto come un "pensiero debole" e come una "ontologia
dell'attualità", capace di accompagnare e di edificare l'umanità in un mondo
che non ha ormai bisogno di assoluti.
La storia non porta verso il meglio, come nel perfettismo illuminista e
idealista, ma si allontana dal peggio; l'anamnesi storica di questo
allontanamento ha il valore di una teodicea indebolita e di una terapia [EGF2,
1997, pp. 1189 ss.].
A mio parere la posizione di Vattimo è importante per la ricerca del nuovo
paradigma di teorizzazione; è una posizione da cui non si può prescindere.
Romano Guardini
Un intero saggio ha dedicato alla coscienza Romano Guardini, ma
intendendola quasi esclusivamente nell'ambito della religione, del rapporto
dell'uomo con Dio.
63
Secondo Guardini "coscienza è, anzitutto, quell'organo, per mezzo del
quale io rispondo al bene e divento consapevole di questo: "Il bene esiste; ha
un'importanza assoluta; il fine ultimo della mia esistenza è legato a esso […].
La coscienza è anche la porta, per la quale l'eterno entra nel tempo [la
sottolineatura è mia, n.d.r.]. È la culla della storia. Solo dalla coscienza sgorga
"storia", la quale significa ben altro che non un processo naturale. Storia
significa che, in seguito a libera opera umana, qualche cosa di eterno si compie
entro il tempo" [Guardini, 1997, p. 25-6].
Coscienza significa quindi "qualche cosa di grande; una realtà creativa,
capace di vedere e di attuare qualche cosa che prima non esisteva ancora; di
dar forma al bene eterno nel corso del tempo; di generare in certo modo
qualcosa di infinito e semplice insieme nella forma limitata dell'azione. E a ciò
tutto si presta come materia: tutto il contenuto della vita, ogni cosa, ogni
avvenimento […]. Questa coscienza è ciò che abbiamo di più nostro" [Guardini,
1997, p. 33].
E ancora la coscienza è "un atto vitale, in cui opera e influisce tutto quello
che io sono, anche il mio stesso desiderio" [Guardini, 1997, p. 36].
"Quello che alla superficie significa coscienza morale, nelle sue ultime radici
è il "fondo dell'anima", la "scintilla dell'anima". […] La coscienza è dunque
l'organo per la realtà vivente e per il contatto con Dio; per ciò che Dio ci
chiede" [Guardini, 1997, p. 38-9].
"Dio non è un concetto, un'idea, un sentimento, un'esigenza sociologica.
Dio è reale; è la realtà assoluta. […] Questo significa: Dio ci circonda, ci
avvolge, ci penetra. Egli è presente nel più profondo del nostro intimo. Là,
dove il nostro essere confina interiormente, quasi a dire, col nulla, sta la mano
di Dio e ci regge. Là egli ci parla. […] Non come un alcunché di impersonale,
ma con un "io", al quale è possibile rispondere con un "tu". Dio parla dunque
dentro di noi" [Guardini, 1997, p. 40-1].
""Coscienza" non significa affatto soltanto un organo etico; a ciò l'ha ridotta
appena l'età moderna e più che altrove, a quanto sembra, stranamente nei
paesi di lingua tedesca. In sé e per sé "coscienza" significa l'organo che coglie
il dover essere in genere, ciò che è degno di essere, con manifesta tendenza
all'aspetto religioso. Si può dimostrare storicamente che parola e significato di
"coscienza" sono in rapporto con gli ultimi strati della coscienza religiosa: col
"fondo dell'anima" e con l'acies animae." [Guardini, 1997, p. 52].
"Ecco qui un compito da assolvere. Bisogna creare, ampliare, munire di
volta lo spazio interiore. Il mondo interiore deve venir dischiuso" [Guardini,
1997, p. 58].
Angelo Crescini
64
Su che cosa sia la coscienza si è interrogato Angelo Crescini in una
conferenza del 1992.
"In che cosa di distingue il riconoscimento che è proprio degli animali dal
riconoscimento che è tipico dell'uomo? Rispondere a questa domanda significa
arrivare al concetto di soggetto alla seconda potenza, ossia al concetto di
coscienza. Nell'uomo il soggetto alla prima persona, ossia la struttura da cui
scaturisce il riconoscimento delle cose presenti viene a sua volta riconosciuto:
si raggiunge allora il riconoscimento del fondamento dei riconoscimenti"
[Crescini, 1992, p. 5].
"La spiegazione di che cosa è la coscienza è anche la spiegazione della sua
dinamicità.
Riconoscere una cosa, infatti, come abbiamo visto, significa saperla
distinguere da tutte le altre cose: in questa diversa distinzione dalle altre cose
sta la sua essenza, la sua sostanza. Ma allora significa che ogni cosa per essere
se stessa deve uscire fuori di se stessa per trovare nella sua differenza dalle
altre cose la sua identità, per diventare se stessa. […] Questa dinamicità
dunque della coscienza costituisce la coscienza stessa" [Crescini, 1992, p. 78].
"La ricerca scientifica, che è parte importante della coscienza umana in
generale, è nella sua struttura di carattere evolutivo. Essa consiste infatti nel
progressivo avvicinamento delle strutture immaginate alle strutture della realtà
dalle quali quelle ricevono la loro ispirazione e la loro energia. Si tratta di un
dinamismo che non è costitutivo della coscienza, ma soltanto del suo
progresso, della sua evoluzione. […] Ogni essere vivente infatti si trova sempre
in una fase di adattamento all'ambiente, un adattamento che non è mai
completo" [Crescini, 1992, p. 12].
Vittorio Hoesle
La filosofia non si è ancora svincolata dalla metafisica, mentre questo
passaggio è necessario per poter arrivare a un incontro tra le discipline delle
scienze umane e quelle matematico-scientifiche.
Un esempio troviamo nelle tesi di Vittorio Hoesle [Hoesle, 1992],
"Riuscire a comunicare con esseri dotati di ragione ma che magari hanno
una base biologica diversa dalla nostra sarebbe la più grande vittoria dello
spirito sulla natura.
Esseri pensanti che vivono in qualche
avrebbero una ragione uguale alla nostra?
luogo
lontano
dell'universo,
65
"Sono convinto che esiste un'unica ragione - sostiene Hoesle - Credo che
esistano forti argomenti trascendentali per dimostrare che non possono
esistere più ragioni e sono perfino convinto che questi esseri, magari dopo un
certo tempo - anche noi abbiamo impiegato molto tempo - arriverebbero a una
filosofia molto simile a quella dell'idealismo oggettivo.
Esiste un unico logos nell'universo al quale noi partecipiamo e se esistono
altri esseri razionali anche loro devono partecipare allo stesso logos e devono
essere in grado di arrivare a delle conclusioni simili alle nostre nell'ambito della
scienza e credo anche nell'ambito dell'etica e della filosofia.
Kant era convinto che l'imperativo categorico sia valido per ogni essere
razionale e dunque anche per possibili altri esseri razionali al di là dell'uomo,
mentre credeva, e anche qui credo che abbia ragione, che l'estetica sia valida
in verità solo per esseri appartenenti alla stessa specie … a causa della base
biologica. … L'arte è basata non solo sulla ragione, ma anche sull'apparato
sensitivo e perciò su qualcosa di più contingente, mentre credo che l'etica, la
scienza e anche la filosofia siano basate sulla ragione pura [Hoesle, 1992].
Ma possiamo chiederci: cosa è la ragione pura kantiana agli occhi della
neurofilosofia?
La difesa di tale concetto idealistico non è un ostacolo a una teorizzazione
multidisciplinare della mente in rapporto al cervello?
Non esistono argomenti forti contro la possibilità che possano esistere
macchine autocoscienti create artificialmente dall'uomo, anche se ritengo
siamo ancora lontanissimi dal poterlo fare.
Come i bambini si rendono indipendenti dagli adulti a una certa età - e se
non avviene è grave - così gli automi se avessero davvero un'autocoscienza
dovrebbero lottare per ottenere il riconoscimento della loro autocoscienza. La
grandezza del film di Stanley Kubrik, 2001 Odissea nello spazio, è stata proprio
nel rappresentare il processo del computer Hal che vuole sia riconosciuta la sua
autocoscienza.
Nel mondo inanimato incomincia a esserci un pensiero interiore (Hoesle)
In principio dovrebbe essere possibile arrivare a un rapporto di uguaglianza
di diritto con questi esseri [Hoesle, 1992]. Delle tre grandi cesure che ci sono
nell'essere, quella tra inorganico e organico, quella tra animale e uomo e quella
tra inanimato e animato, la più misteriosa allo stato d'oggi è quella tra animato
e inanimato. Noi siamo convinti che nel regno animale, non sappiamo bene
dove, succede qualcosa di assolutamente strabiliante: si sviluppa una
dimensione interiore [Hoesle, 1992].
66
Hoesle ammette dunque che è impossibile spiegare la natura e l'origine
della dimensione interiore umana. È qualcosa che attualmente ancora
dobbiamo definire "miracolo".
Nella storia della filosofia ci sono state posizioni estreme, specifica Hoesle,
rispetto a questa posizione media, che cioè nel mondo inanimato comincia a
esserci un pensiero interiore.
Leibniz è convinto che tutto abbia un'anima, anche gli atomi hanno un
momento di interiorità, nell'uomo si raggiunge il massimo livello con
l'autocoscienza.
Dall'altra parte
l'autocoscienza.
Cartesio
è
convinto
che
solo
gli
uomini
abbiano
Gli animali non hanno neanche dimensione interiore. Sono solo macchine
che funzionano.
Né la posizione di Leibniz né quella di Cartesio sono idealmente
inconsistenti né possono essere falsificate perché il problema della dimensione
interiore non è un problema empirico come gli altri dove io posso misurare. La
dimensione interna di un'altra persona per definizione non mi è accessibile in
maniera immediata, io posso solo per analogia dedurre che lui abbia una
dimensione interiore. Ma io non sento il dolore dell'altro [Hoesle, 1992].
Cartesio aveva una posizione che ormai quasi più nessuno sostiene.Per non
cadere nel dualismo, negava la dimensione interiore agli animali.
Ci sono invece ancora pensatori Leibniziani, convinti che tutto abbia
un'anima, con argomenti non stupidi a favore.
Noi non sappiamo esattamente cosa sente un'altra persona e perciò il
solipsismo che nega che esistano altre persone con soggettività, è una
posizione che sembra in primo grado assurda - e lo è anche in ultimo grado ma non è immediatamente inconsistente. Similmente come facciamo a sapere
che i computer non sentono niente? Non c'è finora una risposta veramente
assoluta a questa domanda [Hoesle, 1992].
Hoesle dice che Popper e Eccles nel libro che hanno scritto insieme
sostengono la tesi che la dimensione interiore, ciò che noi chiamiamo anima,
non potrà mai essere spiegata in maniera naturalista, ma è ontologicamente
irriducibile alle entità fisiche.
"Io non sono convinto che abbiano ragione. La cosa che mi irrita in questa
concezione è che in questa maniera la cesura essenziale dell'essere non è più
quella tra uomo e animale, ma cade dentro al mondo animale; la cesura si
troverebbe lì dove sono esistiti i primi esseri con una dimensione interiore.
67
Konrad Lorenz ha scritto: "Gli animali hanno una dimensione interiore'", lui che
ha vissuto tutta la vita con gli animali, inizia il libro scrivendo: "Non lo so,
perché se lo sapessi avrei risolto il problema dell'anima e del corpo"" [Hoesle,
1992].
Nella tradizione spesso la parola coscienza è stata usata come sinonimo di
sensazione.
L'io esiste solo se uno sa dire "io". All'io appartiene essenzialmente
l'autocoscienza dell'io. Se l'io non dice a se stesso "io" allora è un lui. Questa è
la maggiore cesura tra uomini e animali. Perfino il bambino piccolo solo a tre
anni riesce a dire "io". Questa capacità di tematizzare se stesso è il distintivo
dell'uomo. Ciò è tipico della nostra cultura occidentale, l'io è la prima persona.
L'autocoscienza è una struttura riflessiva. Nell'autocoscienza c'è la capacità
di tematizzare ciò che sta succedendo. È una relazione autocritica su quello che
si sta percependo; essere in grado di mettere in dubbio le proprie sensazioni.
Essa ha un significato anche a livello sociale: autoconsapevolezza di me e del
mio valore, del mio rapporto con gli altri uomini, i miei doveri, la dimensione
etica: infatti l'uomo, a differenza degli animali può frenare i propri istinti.
SCHEMA DELLE TEORIE CONTEMPORANEE SULLA COSCIENZA
Possiamo delineare in modo schematico le principali idee formulate
nell'ultimo decennio del secolo scorso, prima che esse fossero ulteriormente
elaborate nei primi anni del Novecento.
E così come la letteratura (H. Hesse, A. Gide, M. Proust, T. Mann) e il
mondo della cultura di inizio secolo risentirono delle idee di "vedere
attraverso", del "sondaggio in profondità" che venivano da Bergson e da Freud
e Jung, ma anche dell'intuizione come unica possibilità di avvicinamento alla
verità che altrimenti è contraddittoria, misteriosa e inspiegabile, sarebbe
altrettanto bello poter fare ora e vedere quali idee stanno influenzando la
cultura mondiale odierna nella riflessione sulla coscienza.
Nella filosofia contemporanea il rapporto tra il soggetto e i suoi stati di
coscienza, anziché costituire il presupposto della conoscenza, diventa un
oggetto di indagine tra gli altri. In questa prospettiva, le "teorie della
coscienza" che sono state proposte sono numerose; si ricordano qui le
principali [EE, p. 810].
a) La teoria dell'intenzionalità Secondo questa teoria, formulata da
Brentano e successivamente ripresa e sviluppata da Husserl, i fenomeni
mentali sono caratterizzati dalla loro "esistenza intenzionale", cioè dal loro
riferirsi a un contenuto, dalla loro "direzione verso un oggetto". È però
necessario definire i tratti distintivi dell'intenzionalità; la contemporanea analisi
68
logica del linguaggio ha messo in luce la possibilità di reperire questi tratti tra
le proprietà logiche degli enunciati che descrivono fenomeni mentali (enunciati
del tipo "X crede che…", "X pensa che…" ecc.).
b) La teoria strumentalistica di Dewey concepisce la coscienza come "quella
fase di un sistema di significati che, in un dato momento, subisce un
raddrizzamento di direzione"; se chiamiamo "spirito" il sistema di significati in
questione, la coscienza ci rivela come la fase in cui il sistema dato, incontrando
un ostacolo di qualsiasi natura, si ristruttura e si riorganizza, tramite
l'insorgere di idee e direttive funzionali, in vista dell'adattamento
dell'organismo cosciente all'ambiente cicostante.
c) La teoria comportamentista Si tratta della teoria più radicalmente
riduzionistica nei confronti della coscienza, che viene concepita come serie di
disposizioni comportamentali, dove i comportamenti in questione vengono
ridotti a risposte interamente determinate dalle caratteristiche fisiche
dell'ambiente circostante. La coscienza come mondo dei "significati" e dei
"valori" viene quindi globalmente negata: significati e valori vanno spiegati in
termini meccanicistici.
d) La
cerebrali.
filosofica
dall'altro
problema
teoria neurofisiologica La coscienza è una successione di processi
Questa teoria, se da un lato pone numerose questioni di natura
(soprattutto in relazione al problema dei rapporti mente-corpo),
va annoverata tra le risposte più specificamente psicologiche al
della coscienza" [EE, p. 810].
La scienza può prescindere dalla metafisica?
Si intende generalmente per metafisica la speculazione filosofica al di là dei
limiti attuali o anche solo apparentemente possibili della scienza, e
l'elaborazione di sistemi più o meno astratti al fine di spiegare origini e scopi,
fenomeni della mente e della materia e il posto dell'uomo nell'universo. Il
termine "metafisica" ha la sua origine semplicemente da quei libri di Aristotele
che venivano collocati in sequenza dopo la sua Fisica.
Il significato peggiorativo di "oscuro" e "esageratamente speculativo" è
recente, specialmente dopo i tentativi di A.J. Ayer e altri di dimostrare che la
metafisica è assolutamente priva di senso.
Un punto controverso è in che misura la scienza è, o può essere, libera
dalla metafisica. Ci potrebbero sempre essere assunzioni teoriche non
verificate, o addirittura mai verificabili, che sono necessarie per interpretare gli
esperimenti. Queste assunzioni sono (per definizione) metafisiche, in quanto
esse non sono verificabili attraverso l'osservazione o l'esperimento, e quindi
sono essenzialmente speculative.
69
Kant sostenne, soprattutto nella sua opera Prolegomeni ad ogni futura
metafisica (1783), che il tempo e lo spazio sono categorie della mente, e che è
impossibile concepire il mondo fisico senza tali categorie a priori. Si pensa
spesso, d'altra parte, che l'empirismo sia esente da assunzioni metafisiche, per
lo meno per i filosofi operazionisti, che ritengono che tutta la conoscenza derivi
dall'osservazione, e in particolare dall'accordo e il disaccordo osservato tra
procedimenti sperimentali definiti formalmente e misure. Questo è
essenzialmente l'obiettivo e l'asserzione di Karl Popper per una conoscenza
obiettiva. Un punto di vista attuale molto diverso, sviluppato soprattutto dai
filosofi americani Norwood Russell Hanson e Thomas Kuhn, è che non esiste
nulla di simile a un linguaggio d'osservazione neutro, privo di teoria, che
semplicemente registri "i fatti"; anche le osservazioni e gli esperimenti più
semplici devono essere fatti nel contesto di assunzioni teoriche complesse.
Poiché queste assunzioni non possono essere obiettivamente verificate o
dimostrate operativamente, si potrebbe dire che sono metafisiche e questo
porta a un relativismo più o meno estremo, che rifiuta la nozione di "fatti bruti"
e dati di osservazione "obiettivi" [Gregory, EOM, 1991, p. 557].
III
La coscienza nella psicologia,
nella psichiatria e nella neurologia
Anche in questo capitolo, dove analizzo la presenza del concetto di
coscienza nella psicologia e nelle scienze mediche (neurologia clinica), non ho
la pretesa di svolgere un'analisi esaustiva e approfondita. Mi basta inquadrare
l'importanza della "coscienza" in queste scienze, per poi spostare l'attenzione
sulla neurofilosofia.
Ogni riconoscimento è sempre "presa di coscienza".
Il problema di fondo è quello della coscienza, quest'oggetto dimenticato
dalla scienza, che a stento di osa definire, se non alludendo ad essa come
proprietà stessa della vita e che quindi necessariamente si articola in vari
livelli, dalla coscienza primaria o "coscienza-corpo" fino alla coscienza riflessiva
o coscienza della coscienza.
Né tanto meno è definibile la coscienza di sé: "L'immagine di sé,
l'immagine nello specchio, io non so ancora esattamente cosa sia: è una
70
manifestazione, è un esercizio? Per me la questione resta aperta" [Farneti Carlini, 1981, pp. 85-86].
Definizione di coscienza nella psicologia
G. Benedetti ha riassunto in cinque punti fondamentali la struttura della
coscienza:
a) la coscienza è il risultato di attività neuroniche complesse che debbono
svolgersi selettivamente per l'azione inibitrice contemporanea su altri sistemi
neuronici che, funzionando, impedirebbero la selettività delle prime. La
selettività
si
manifesta
nell'elettroencefalogramma
con
i
fatti
di
desincronizzazione;
b) gli impulsi che sfociano nel fatto percettivo cosciente si svolgono
attraverso circuiti centro-periferici che, attivando la periferia sensoriale,
realizzano un feed-back centro-perifero-centrale;
c) per il riconoscimento, nel fatto percettivo entrano in attività zone
corticali che conservano la traccia degli avvenimenti passati;
d) per giungere alla consapevolezza che quello che sta avvenendo si svolge
nella "propria" mente è necessaria l'acquisizione dell'Io, per la quale occorre
che entrino in attività le zone encefaliche che assicurano il cosiddetto "schema
corporeo";
e) l'attività dell'analisi percettiva di queste afferenze a livello corticale
presuppone la loro integrazione in schemi ideo-verbali che approdano al
linguaggio.
A questa descrizione neurofisiologica, G. Benedetti aggiunge una
definizione fenomenologica della coscienza centrata su tre componenti
fondamentali:
a) la consapevolezza della sensibilità;
71
b) la consapevolezza di sé con percezione interna organizzata in un
complesso stabile che è l'Io;
c) la capacità di questo io di estendersi mediante i processi mnemonici nel
passato, e mediante quelli di anticipazione nel futuro [DPL, 1992, p. 234].
Sigmund Freud
La teoria psicanalitica si è costituita rifiutando di definire la psiche in
termini di coscienza, e a questo proposito S. Freud scrive: "Che parte rimane
nella nostra esposizione alla coscienza? Nient'altro che quella di organo di
senso per la percezione di qualità psichiche".
Ma anche se marginalizzata, la coscienza ha costituito anche per Freud il
punto di partenza per la giustificazione di un inconscio che è il risultato di
un'inferenza a partire dalla lacunosità degli atti di coscienza "non danno luogo
a serie in sé conchiuse e ininterrotte" [DPL, 1992, p. 237].
Per Freud la coscienza è lo strumento del dominio parentale poiché è
fornita dall'autorità ambientale e rappresenta un insieme di direttive mediante
il quale il bambino viene "ammaestrato". Non è innata, ma conseguenza della
formazione del Super-io dal quale ha origine anche la morale conscia. La
morale, proprio perché corrisponde alla interiorizzazione dei principi e delle
restrizioni ambientali, è quindi d'origine "esterna" e imposta all'individuo,
almeno all'inizio della vita.
Nell'ottica freudiana, la maggior parte degli uomini non avrebbe una
capacità di autentica vita morale, poiché sarebbe patrimonio di pochi avere un
Io forte, capace di sottrarsi al dominio delle pulsioni istintuali .
Carl Gustav Jung
Per C. G. Jung lo psichico non coincide con la coscienza, che invece è
legata all'Io: "La coscienza è la funzione o attività che mantiene il rapporto di
contenuti psichici con l'Io. La coscienza non è identica con la psiche". "Per "Io"
intendo un complesso di rappresentazioni che per me costituisce il centro del
campo della mia coscienza e che mi sembra possedere un alto grado di
continuità e di identità con se stesso" [DPL, 1992, pp. 237-238].
Il pensiero di Jung appartiene a quel grande filone trasversale alla storia
del pensiero filosofico e psicologico, in base al quale la coscienza è uno
strumento della persona, dell'uomo, dell'individuo, e non già un' "origine" .
72
La corrente fenomenologica qualitativa e quella dell'entità fisiologica
Il concetto di coscienza si è evoluto parallelamente allo sviluppo della
filosofia, della psicologia e della neurofisiologia. Ciascuna di queste discipline
ha di volta in volta messo l'accento sugli aspetti soggettivi, su quelli
comportamentali, o su quelli fisiologici della coscienza.
In senso moderno, il termine è stato introdotto da G. W Leibniz che distinse
da un lato le petites perceptions, cioè la somma degli stimoli subliminali, e
dall'altro l'apperception attraverso cui le percezioni arrivano a livello cosciente.
Questa distinzione contiene l'ipotesi di una soglia sensitiva suscettibile di
sperimentazione psicofisica, e la separazione tra contenuti psichici avvertiti
coscientemente e contenuti preconsci" [DPL, 1992, p. 234].
"Due posizioni" specificatesi nella seconda metà dell''800 sono esemplari
per le direzioni assunte dallo studio della coscienza: come fenomeno
qualitativo della psiche, o come entità fisiologica neurofisiologicamente
localizzabile.
E infatti i successivi studi precisano la descrizione neurofisiologica della
coscienza ma anche una descrizione fenomenologica.
"Lo studio empirico della coscienza è centrato principalmente su due ordini
di problemi; gli uni attinenti alle caratteristiche dello stato in cui noi
possediamo coscienza di noi stessi e del nostro ambiente, gli altri riguardanti il
genere dei processi interni al nostro organismo dei quali possiamo acquistare
coscienza. L'opposto di "coscienza" e "incoscienza" nel primo caso, "inconscio"
nel secondo. Un terzo ordine di problemi si riferisce alla nozione che ognuno di
noi ha del proprio essere ("autocoscienza" o coscienza di sé) a differenza di
quella che se ne fanno le altre persone osservandolo dall'esterno" [Hofstätter,
1966, p. 49].
Sono dunque tre le prospettive pricipali da cui viene esaminato il problema
della coscienza dalla moderna ricerca neuropsicologica:
a.
incoscienza);
la coscienza intesa come vigilanza (ecco perché l'opposto è
b.
la coscienza degli eventi che si svolgono all'interno dell'organismo
(l'opposto è l'inconscio);
c.
l'autocoscienza o coscienza di sé.
73
Non si discute più sulla "sede" della coscienza, che ormai appare un falso
problema, piuttosto, in campo neurofisiologico, ci si chiede qual è la sede dei
meccanismi regolatori dei livelli di coscienza.
Sperimentalmente si è potuto conoscere le sedi delle varie funzioni mentali
però si è sempre dovuto concludere che l'attività cosciente è una funzione
complessiva, basata su associzioni.
Infatti la corteccia associativa costituisce una parte preponderante (lo si
osserva più evidentemente nell'uomo).
Le aree associative sono estesissime nell'uomo, più degli altri animali. Così
alcuni studiosi sostengono che la quantità è tale che costituisce da sé una
qualità differente; altri invece sostengono è una qualità intrinsecamente
diversa che produce uno stato di coscienza diverso.
Infatti per abolire le facoltà coscienti devono esserci lesioni estese o
generali (come quelle metaboliche o tossiche) mentre una lesione parziale o
locale non abolisce le funzioni associative. Base dell'attività e della "qualità
associativa" è la grande presenza di materia bianca (fasci nervosi di
collegamento) nel cervello.
Stimolo e reazione
Da un punto di vista biologico l'intero fenomeno "coscienza" si svolge
completamente tra gli apparati recettori e quelli effettori dell'organismo. La
conseguenza dell'attivazione di un effettore si chiama reazione, per quanto
sarebbe più appropriato indicarla come azione, giacché il termine "reagire"
presuppone che l'attività effettrice sia coordinata a quella recettrice da un
rapporto sempre fisso e perfettamente conoscibile.
Gli schemi interpretativi con i quali si cerca di esprimere la relazione
esistente tra i processi a livello corporeo e quelli psichici costituiscono l'oggetto
del cosiddetto problema anima-corpo, il quale, a dire il vero, rientra più
nell'ambito della filosofia che in quello della psicologia empirica o della biologia.
Queste ultime discipline, rinunciando alla pretesa di chiarire la vera essenza del
fatto coscienza, si rivolgono semplicemente alle condizioni che ne permettono
la comparsa [Hofstätter, 1966, p. 341-2].
Lo schema corporeo
74
Lo schema corporeo, ritenuto necessario per un adeguata attività motoria
nello spazio, per la definizione e l'organizzazione, oltre che per la
interpretazione del mondo, fonda anche la distinzione di sé dall'altro, è il primo
nucleo del processo di costituzione dell'identità personale.
In particolare, quando lo psicologo genetico si riferisce alle tappe
fondamentali di questa costruzione, poiché di costruzione si tratta e non certo
di un semplice e gratuito dato originario, intende soprattutto sottolineare
l'evoluzione che si verifica fra la nascita del bambino e il raggiungimento della
coscienza di sé, ossia della capacità simbolica e dell'individuazione dell'altro
quali si manifestano nel riconoscimento dell'immagine del proprio corpo nello
specchio. Per quanto quest'ultimo processo non risulti di più facile definizione,
tanto che alcuni (Zazzo) lo ritengono una semplice prova dell'esistenza della
coscienza, mentre altri (Lacan) vi intravedono la condizione stessa attraverso
cui la coscienza si costituisce, si è potuto tuttavia tentare una delineazione
della genesi dello schema corporeo [Farneti - Carlini, 1981, pp. 83-84].
La specchio e la nascita della psicologia
Sull'importanza dello specchio e su quanto incida profondamente nella
psiche ha scritto una bellissima pagina lo psichiatra Vittorino Andreoli: "Lo
specchio è il confidente più segreto di ciascun giovane, maschio o femmina. Si
tratta di una delle invenzioni che hanno cambiato la storia dell'umanità e
dovrebbe essere ricordata tra le grandi tappe quali l'introduzione della ruota o
del cannocchiale. Forse è allo specchio che si può far risalire la nascita della
psicologia e naturalmente della psicopatologia. Alla mitologia non poteva
sfuggire questo fenomeno e in Narciso ha disegnato uno dei primi drammi
dell'umanità: il sentirsi bello. In Narciso questa presa di coscienza è stata fonte
di morte. Altrettanto drammatica è la percezione opposta, mostruosa. Con lo
specchio sono nati i complessi, i desideri e persino la chirurgia estetica. I
giovani del tempo presente hanno specchi dappertutto e di dimensioni tali da
riflettere tutto il corpo" [Giovani, pp. 106-107].
Cultura e cervello plastico
"Insomma la biologia nella sua evoluzione segue una strada, descritta a
grandi linee da Darwin, che non ha nulla a che fare con l'evoluzione culturale.
Ogni aspetto dell'attività umana si lega al cervello, ma mentre i comportamenti
fissati sono regolati da un encefalo deterministico, la cultura è correlata
all'encefalo plastico, che ha la capacità di strutturarsi e modificarsi sulla base di
stimoli esterni e dunque sull'esperienza.
C'è quindi un'evoluzione che si lega alle mutazioni genetiche (evoluzione
biologica) e una che invece si lega alla plasticità cerebrale e all'esperienza
75
(evoluzione culturale). I termini, biologia e cultura, sono antinomici, ma dentro
al cervello rappresentano due modalità di organizzazione delle reti neuronali e
non, come si ammette, essenze distinte: anima e copro, cervello e mente [qui
cita V. Andreoli, La terza via della psichiatria, 1980, Mondadori, Milano. N.d.r.].
Le grandi trasformazioni culturali sono dovute ai processi di apprendimento che
altro non sono se non strutturazioni del cervello plastico mosse da esperienze
nuove. La cultura è precaria e si può persino perderla. I cambiamenti di
ambiente comportano sempre un cambiamento culturale e comportamentale"
[Andreoli, 1995, p. 216].
L'analisi transazionale di Berne (Stati dell’io)
A mio parere esiste un interessantissimo spazio di ricerca a partire dalla
tripartizione degli stati dell'io che sta alla base del pensiero di E. Berne:
Bambino Adulto e Genitore .
Dei tre stati quello meno riempito di contenuti, analizzato è quello
dell'Adulto, a cui si attribuisce un "potere" particolare, equilibrio, maturità,
eccetera.
Non sarebbe difficile credo scoprire in tale visione agganci con una visione
metafisica dell'interiorità o anche la possibilità di un collegamento forte tra
Adulto e "potere della coscienza". È una ricerca tutta da sviluppare.
Psicologia analitica e mitologia
Il rapporto tra mitologia e analisi della coscienza è sempre stato importante
nella psicanalisi. Un lavoro importante legato proprio alla coscienza - e
specificamente alla sua nascita, tema che mi è caro - è quello di Erich
Neumann, filosofo, medico e allievo di C. G. Jung, Storia delle origini della
coscienza . In esso l'autore offre uno studio sistematico della mitologia, con la
finalità non secondaria di appoggio allo psicoterapeuta per una teoria evolutiva
della coscienza in cui la storia dello sviluppo psichico individuale coincide con la
storia dello sviluppo psichico collettivo dell'umanità, in quanto entrambi
percorrono i medesimi stadi archetipici che Neumann descrive: dall'Uroboros, il
grande rotondo, e la Grande Madre, alla separazione dai genitori, dall'eroe che
combatte contro il drago all'uccisione di padre e madre, alla trasformazione
(Osiride).
LA COSCIENZA NELLA PSICHIATRIA
76
Il Dizionario di psichiatria della Oxford Univeristy Press precisa che
coscienza è un termine impiegato in modi vari e controversi in filosofia,
psicologia e psichiatria.
"È la presenza della mente a se stessa nell'atto di apprendere e di
giudicare, e la conseguente "conosciuta unità" di ciò che è "consaputo", ossia
di ciò che è attualmente presente alla mente" (Centro di Studi Filosofici di
Gallarate) [DPI, 1970, pp. 164-165].
La definizione riportata sottolinea soprattutto due aspetti del concetto di
coscienza: l'aspetto riflessivo ("presenza della mente a se stessa") e l'aspetto
integrativo ("conosciuta unità di ciò che è consaputo": tutti i fatti psichici di cui
il soggetto è consapevole in un certo momento - percezioni, affetti, pensieri,
volizioni - sono vissuti come un insieme unitario, che è l'unità del soggetto
stesso).
È difficile concepire la coscienza come una "funzione" distinta, secondo il
modello della psicologia atomistica; essa appare piuttosto come una
caratteristica di base, modale, di tutti i processi psichici.
In psichiatria si parla soprattutto di stato di coscienza; è un concetto
descrittivo che si riferisce al complesso dei contenuti psichici presenti alla
mente in un certo momento e al modo in cui vengono vissuti. Nella valutazione
dello stato di coscienza si distinguono, classicamente, il "grado di lucidità"
(chiarezza con cui i contenuti vengono esperiti) e la "estensione del campo di
coscienza" (quantità complessiva dei contenuti coscienti).
Stati di coscienza
I due stati di coscienza più nettamente differenziati nei soggetti normali
sono la veglia e il sonno.
Lo studio delle alterazioni dello stato di coscienza si è rivelato prezioso per
comprendere la natura della coscienza normale.
Quel che segue è detto da un punto di vista clinico.
Lo stato di coscienza normale vien detto vigile, quando il soggetto è lucido,
presente a sé e all'ambiente e consapevole della distinzione di tre livelli di
interazione: l'interazione fra l'Io (inteso come soggettività riflessiva) e il corpo;
quella fra il corpo e il mondo esterno; e quella fra il mondo esterno (in
particolare le persone, intese come soggetti altri) e il soggetto interessato.
Si ha assenza di stato di coscienza nel sonno (permanendo però un certo
grado di scambi con l'ambiente) nel coma anche nella forma più leggera (1°
77
grado) in cui c'è risposta riflessa a stimoli dolorosi. Nel coma, anche la forma
leggera, c'è abolizione della coscienza.
Nella psicosi i tre livelli di interazione non sono chiaramente distinti dalla
coscienza.
Si parla di "alterazione lucida" della coscienza quando (come in alcune
psicosi o intossicazioni acute da allucinogeni) non c'è una diminuzione della
vigilanza e il soggetto, pur essendo normalmente presente all'ambiente, non
interpreta correttamente il rapporto fra Io, corpo, mondo esterno.
Si parla invece di torpore o letargia (come nella sonnolenza), confusione
(errori grossolani nella valutazione dei dati percettivi con disorientamento e
falsi riconoscimenti) e crepuscolo (diminuzione selettiva, come nel
sonnanbulismo) quando c'è una riduzione della vigilanza, che si traduce in una
riduzione della quantità di scambi che avvengono fra il soggetto e l'ambiente.
Nello stupore vi è immobilità e apatia e il soggetto reagisce solo a stimoli
dolorosi.
Si parla infine di onirismo o oniroidismo quando lo stato confusionale si
arricchisce di automatismi e fenomeni allucinatori (simili a quelli del sonno) e
dello stato ipnoide [EE, p. 810].
Alterazioni patologiche degli stati di coscienza
Più precisamente si descrivono quattro alterazioni patologiche principali
dello stato di coscienza:
stato ipnoide o torpore, indicato anche come ottundimento, offuscamento,
obnubilamento, ecc., condizione in cui la coscienza è alterata in modo tale che
solo stimoli molto forti possono provocare una reazione; si manifesta
clinicamente nello stato di torpore e in condizioni normali nel dormiveglia; vi è
un'alterazione puramente quantitativa con ideazione e reazioni torpide ma la
distinzione tra realtà e fantasia è mantenuta;
stato crepuscolare: si manifesta clinicamente nello stato crepuscolare
orientato e, in condizioni paranormali, nel sonnabulismo; vi è un
restringimento del campo di azione della coscienza che si esplica solo su un
limitato ambito ideoaffettivo; il soggetto agisce come un automa, capace di
eseguire solo funzioni in relazione a un determinato scopo; alcuni autori di
lingua tedesca usano l'espressione "stato di coscienza ristretta";
78
stato oniroide: si manifesta, clinicamente, nello stato oniroide; vi è
un'alterazione della coscienza "qualitativa" più che "quantitativa"; lo stato di
coscienza non è frammentato, come nell'amenza , né ristretto a pochi temi di
esperienze come nel crpuscolo, ma mutato per la pressnza di una vivace
produzione delirante fantastica e di alterazioni psicosensoriali, che si
mescolano all'esperienza della realtà obiettiva esterna e interna; il malato ha
buona o discreta possibilità di orientamento nel tempo, nello spazio e nelle
persone, a eccezione degli elementi elaborati e strutturati dalle sue credenze
fantastiche, rinforzate da allucinazioni, illusioni e interpretazioni morbose della
realtà e dei ricordi;
stato onirico: si manifesta clinicamente nello stato crepuscolare onirico (o
stato crepuscolare disorientato) e nello stato amenziale, disturbo analogo al
precedente ma assai più accentuato; il paziente è disorientato, l'ideazione
parcellare, e non c'è nessuna distinzione fra realtà e fantasia.
Per alcuni autori l'espressione stato confusionale si riferisce solo a questi
ultimi casi (i più gravi); invece per altri autori indica, in generale, ogni stato di
alterazione della coscienza.
Assenze epilettiche, sincopi, lipotimie, si configurano come sospensioni
perdite totali, ittali della coscienza, in genere fugaci. Una perdita completa e
durevole della coscienza dalla quale il paziente non può essere risvegliato
mediante stimoli, anche energici, si osserva nel coma.
Il termine stupore, indica un disturbo psicomotorio e non della coscienza. Il
concetto di coscienza non va confuso con quello di vigilanza che ha un
significato più limitato, prevalentemente quantitativo, e si riferisce alle basi
neurofisiologiche della coscienza stessa.
Coscienza dell'Io
Concetto di K. Jaspers usato soprattutto nella psichiatria tedesca (ted.:
Ichbewusstsein). Indica "il modo" nel quale l'lo è consapevole di se stesso;
Jaspers vi riconosce quattro caratteristiche formali:
a) attività dell'Io, in senso lato (ogni attività psichica cosciente ha un
"contenuto in Io", un "carattere personale", è riferita all'Io: Io percepisco, Io
sento);
b) coscienza dell'unità: Io sono uno;
c) coscienza dell'identità: Io sono sempre Io;
79
d) sentimento dell'Io contrapposto al mondo esterno.
Rientrano fra i disturbi della coscienza dell'Io, così intesa, i fenomeni di
deperso- nalizzazione.
Coscienza morale (conscience)
Quelle strutturazioni psichiche che si oppongono alla libera espressione
delle azioni istintuali. È collegata agli atteggiamenti morali, estetici ed etici
dell'individuo. Secondo Freud quando gli atteggiamenti, i divieti e i comandi dei
genitori prendono posto nell'inconscio per formare il Super-Io, quest'ultimo
diventa la coscienza morale.
Più avanti nello sviluppo, quando il bambino comincia a emulare altre
persone, fuori della cerchia familiare e si forma un ideale dell'Io, acquista
un'altra coscienza.
Tra le due, tuttavia, esiste continuità.
La funzione della coscienza è di ammonire l'Io al fine di evitare le
sofferenze provocate da profondi sentimenti di colpa.
"La coscienza diventa patologica quando (a) funziona in modo troppo rigido
o troppo automatico, sicché il giudizio realistico sul l'esito reale di azioni intese
viene disturbato ("Super-Io arcaico'", oppure (b) quando avviene la
disintegrazione verso il "panico" e si sperimenta un senso maggiore o minore
di annichilimento totale invece di un segnale di avvertimento, cosa questa che
accade nelle depressioni gravi" .
Coscienza e malattie mentali
"La grande maggioranza delle malattie mentali, nella misura in cui queste
non sono di natura organica ben determinata, è dovuta a una disintegrazione
della coscienza causata da un'invasione irresistibile di contenuti inconsci"
(Jung).
Ciò significa che il materiale proveniente dall'inconscio causa più o meno
gradualmente la rottura e la disintegrazione dei contenuti della coscienza.
Coscienza doppia [double, dual consciousness]: molti considerano questa
espressione sinonimo di "scissione della personalità": la scissione della
coscienza implica che l'individuo viva, alternativamente, ora come una persona
e ora come un'altra, ma mai come due persone simultaneamente [DPI, 1970,
p. 541].
80
Obnubilamento della coscienza: Quando una persona appare perfettamente
coscia di sé e di iò che la circonda, oritentata nel tempo e nello spazio si dice
che ha il suo "sensorio" è integro.
Al contrario c'è Obnubilamento della coscienza quando appare disorientata
e confusa; si dice che ha sensorio alterato. Sensorium (dal lat.), indica la sede
centrale delle sensazioni localizzata nella circonvoluzione parietale ascendente,
ma occasionalmente l'intero apparato sensariale.
Coscienza di malattia è la consapevolezza del paziente di essere malato.
Sempre presente nelle nevrosi, manca spesso, invece, nelle psicosi.
Coscienza
dell'uomo.
primitiva:
tipo
di
Super-Io
derivato
dal
passato
arcaico
Scissione della coscienza: Quando un insieme di esperienze, una
rappresentazione mentale, esistono, come per esempio nell'isteria,
essenzialmente isolate nella coscienza, senza associazioni con altri contenuti
della coscienza stessa, si dice che vi è una scissione della coscienza. È una
delle (tante) forme di "difesa" dell'"Io".
NEUROLOGIA, COSCIENZA, MALATTIA MENTALE, E FARMACOLOGIA
Sarebbe molto interessante esaminare la dimensione della coscienza in
rapporto alla malattia mentale: coscienza e pazzia. Come anche gli effetti dei
farmaci sulla coscienza.
Com'è la coscienza del pazzo? Perché arriviamo a pensare di essere tutti un
po' pazzi? E a dire che forse i pazzi vedono meglio dei sani?
Infine per l'aspetto neurologico della coscienza, che strettamente inteso
esulerebbe dagli obiettivi della presente ricerca, rimando a un ottimo
recentissimo e completo trattato di neurobiologia, quello di W. Nolte .
IV
La coscienza nell'etica, nel pensiero biblico
nella teologia morale e nella mistica
81
"Per coscienza morale si intende quell'insieme di processi cognitivi ed
emozionali che sono alla base della formazione di una guida interiore che
regola la condotta individuale, in armonia con i valori riconosciuti dal gruppo
sociale di appartenenza.
I processi cognitivi sono indispensabili per la conoscenza delle norme e per
la valutazione della conformità delle proprie azioni alle medesime; i processi
emozionali, come la paura, la colpa e la vergogna, sembrano necessari, in una
prima fase detta "eteronoma", alla promozione di comportamenti conformi"
[DPL, 1992, p. 238].
Montaigne faceva osservare che "le leggi della coscienza, che noi pensiamo
traggano origine dalla natura, nascono, in effetti, dalla consuetudine: ogni
uomo, onorando nel suo intimo le opinioni e i costumi sanzionati e recepiti nel
proprio ambiente, non riesce a disfarsene senza rimorsi, né adeguarvisi senza
compiacimento" (Essais, I, 23).
Della rilevanza che ha l'ambito di significato morale per il concetto di
coscienza ho già detto anche nel capitolo primo. Ne ho esaminato la pregnanza
semantica nell'ambito morale.
Qui ora specificherò soprattutto l'importanza del concetto nella storia del
pensiero teologico morale cristiano.
De esso emerge una fondamentale chiarificazione culturale: la distinzione
nel concetto di coscienza di due dimensioni: coscienza fondamentale e
coscienza attuale - come le chiama A. Valsecchi [DETM, 1985, pp. 166-182] l'una come nucleo originario della totalità della persona umana, l'altra come
funzione derivata di discernimento morale.
Tale distinzione è di grande attualità e permette, a mio parere, la
possibilità di rifondare una riflessione spirituale della coscienza. Ma osserviamo
da dove deriva tale distinzione.
La coscienza nella Gaudium et spes
È molto interessante un passo di un fondamentale documento del Concilio
Vaticano II, Gaudium et spes dove leggiamo: "La coscienza è il nucleo più
segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce
risuona nell'intimità propria. [...] Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si
uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità
tanti problemi morali. Quanto più prevale la coscienza retta, tanto più le
82
persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di
conformarsi alle norme oggettive della moralità
"Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi,
ma alla quale invece deve obbedire. [...] La coscienza è il nucleo più segreto e
il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona
nell'intimità propria. [...] Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli
altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi
morali. Quanto più prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi
sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme
oggettive della moralità".
Il problema della coscienza è diventato dunque un fenomeno centrale dei
nostro tempo; e anche nella riflessione morale cristiana sta riscuotendo una
singolarissima attenzione. Alla lunga, doveva essere questo lo sbocco di un
processo di "coscientizzazione" che è rilevabile anche nell'ambito della nostra
cultura occidentale.
Essa è passata da una esaltazione unilaterale della legge oggettiva (la
legge della polis o lo jus dello Stato romano, ma anche il logos universale della
filosofia stoica, di cui la coscienza dovrebbe semplicemente essere un'eco e un
riflesso, se non addirittura una "serva"), a fasi successive di sempre più netta
responsabilizzazione della persona e di valorizzazione dei carattere originario
della sua coscienza [DETM, 1985, p. 166].
Alcuni fattori sono intervenuti oggi ad acuire e accelerate i dibattiti sulla
coscienza, ad esempio, il diffondersi del pluralismo ideologico e la sensibilità
sempre più vasta e profonda ai metodi democratici; il relativizzarsi delle norme
oggettive e assolute, a vantaggio del contesto culturale in cui l'uomo vive (è
questo il frutto della riflessione funzionalista e strutturalista) e della storia
dinamica di questo contesto (apporto, tra i più cospicui, della riflessione
marxista).
Un'analoga svalutazione dell'oggettività morale è venuta dallo studio (è
soprattutto la psicanalisi che l'ha condotto) dei processi e dinamismi psicologici
che sorreggono e spiegano il formarsi delle nostre idealità morali, all'interno
della storia concreta di ogni persona e dei rapporti affettivi più profondi e
primari nei quali si è svolta.
Senza dire della rapidità di trasformazioni che caratterizza la vita del nostro
secolo, e fatalmente emargina i dettati giuridici e canonici, incapaci di
adeguarsi altrettanto rapidamente alle mutazioni: non senza causa lo stesso
Magistero della Chiesa ha cominciato ad affidare esplicitamente alla coscienza
dei singoli fedeli la decisione del comportamento da assumere su problemi non
piccoli, come quelli riguardanti l'impegno politico-sociale o certi aspetti della
vita familiare.
83
L'attualità e il fervore di tutti questi sviluppi impongono ai teologi moralisti
un accresciuto impegno di analisi e di costruzione teologica attorno al tema
della coscienza; e in pari tempo indicano la difficoltà e spiegano il carattere
provvisorio dei risultati a cui potrebbe giungere.
LA COSCIENZA NEL PENSIERO BIBLICO
Il tema della coscienza costituisce un punto nodale dell'esperienza umana
quale si rileva nella parola biblica, anche se il termine "coscienza" si trova solo
rarissime volte nell'AT (Ecl 10,20; Sp 17,10); e neppure una volta ricorre nei
Vangeli.
Al contrario, 31 volte lo si ritrova negli scritti apostolici; più precisamente,
21 volte in S. Paolo, e le altre 10 volte in bocca a S. Paolo (come in At 23,1;
24,16), ovvero in scritti strettamente imparentati sotto il profilo dottrinale o
lessicale con le lettere paoline (come nell'epistola agli Ebrei e nella prima di
Pietro).
Si è dunque tentati di pensare che la dottrina della coscienza sia una novità
dell'Apostolo delle genti: una tra le non poche originalità del suo pensiero
morale. Ciò è, per molti aspetti, vero. Fu S. Paolo a elaborare perfettamente la
nozione di coscienza come regola di vita: utilizzando senz'altro certi concetti
della filosofia ellenistica del suo tempo (quella "popolare" e moraleggiante
soprattutto, ove confluiva in pratica l'insegnamento delle varie scuole); e
arricchendoli dei numerosi apporti che gli provenivano dalla sua formazione
giudaica (in particolare, la ricchissima nozione biblica di "cuore") e della sua
teologia cristiana: qui, infatti, la dottrina della coscienza veniva a contatto con
quelle del primato della carità, dell'inabitazione dello Spirito Santo, dell'attesa
escatologica [DETM, 1985, p. 168].
Ma sarebbe sbagliato esasperare l'originalità paolina perché il messaggio di
Cristo appare, contro il conformismo tradizionale, come un perentorio appello
alla coscienza.
Dunque, pur non trovando nella Bibbia prima di S. Paolo, il termine di
"coscienza", se ne trovano i contenuti, come del resto avviene anche per il
pensiero ellenistico - ove il termine è rarissimo - ma vi si incontra, espressa in
altri modi, una ricca tematica sulla coscienza.
La coscienza nell'Antico Testamento
84
L'assenza del concetto di coscienza in senso preciso nell'Antico
Terstamento "non è una lacuna in un contesto tanto esistenziale e concreto,
dove l'uomo è visto sempre nella totalità del suo rapporto con Dio" . Chiamato
all'alleanza con Dio, anzi costituito esistenzialmente da essa, l'uomo dell'AT è
in continuo ascolto della divina Parola: Parola che gli si rivolge, lo penetra e lo
investe, lo rende consapevole del significato di ogni sua attività; ascolto, nel
quale l'uomo trova la sua sapienza e il discernimento tra il bene e il male:
"custodisco nel cuore la tua Parola, per non peccare contro di te" (Sal 119,11).
L'esigenza morale scaturisce essenzialmente da un tale incontro fra Parola di
Dio e ascolto obbediente dell'uomo, e ogni giudizio etico appare il frutto della
vitale percezione di valori che quell'incontro mette in movimento [DETM, 1985,
p. 167].
Il "cuore" all'origine dell'uomo
Il "cuore" è appunto questa costitutiva interiorità dell'uomo, ove la Parola
di Dio giunge come un giudizio (Gn 3,8ss; Gs 14,7; 1 Sm 24,6; 2 Sm 24,10;
Ecl 7,22; Gb 27,6): cuore contrito, cuore "nuovo", cuore convertito, se accoglie
quella Parola, divenendo la fonte intima di ogni risoluzione religiosa e d'ogni
valutazione morale (cfr Dt 4,39; 30, 6-8; 1Re 3,9; 8,38; Is 51,7; 57,15), cuore
indurito, sordo, ottenebrato, se la Parola non vi risuona più e i valori morali, di
conseguenza, non vi sono più riconosciuti (Ez 2,3-4; Zc 7,12; Sal 95,8-10).
Così, tutta la condotta dipende dalla decisione del cuore: Dio si ama con il
cuore (Dt 6,5) e lo si tradisce con il cuore (Ez 6,9); e "il cuore vigile alla voce
di Dio o convertito dal suo perdono è testimone del valore morale della
condotta dell'uomo alla presenza di Dio".
È allora esatto concludere che, pur non trovando nell'AT un termine
specifico per indicare la coscienza, vi sono tuttavia riscontrabili e notevoli i
fenomeni descrittivi di questo fatto originario. V'è poi da ricordare un dato
rilevantissimo, anche se implicito, soprattutto in quei testi nei quali il "cuore
nuovo" è un dono che appare fatto all'intero popolo d'Israele. Il singolo, cioè,
non è in primo piano: sono in primo piano la comunità e gli eventi salutari che
ne costituiscono la storia. E perciò, quel che il cuore suggerisce al pio israelita,
non è un mistico dettame divino che vi risuoni; è invece una parola ascoltata
dalla tradizione comunitaria a cui quell'uomo appartiene: e non come semplice
richiamo di un precetto dato una volta per tutte (sarà questa l'interpretazione
letteralistica e riduttiva dei farisei), ma come proposta raccolta dal vivo della
storia salvifica di cui egli fa parte.
La coscienza nei Vangeli
85
Ciò vale anche per i Vangeli. Basta pensare al profondo processo di
interiorizzazione cui è sottoposta la vita morale nell'insegnamento di Gesù, e al
ruolo che vi assume il cuore, come testimone del valore etico e luogo ove si
intrinseca la volontà di Dio.
Il discorso della montagna richiede come fondamento dell'agire morale
un'interiore decisione che va ben oltre la semplice fedeltà a determinati
precetti: povertà secondo lo spirito; purezza di cuore, poiché appunto da esso
nasce il peccato e ogni attaccamento alle cose terrene; occhio semplice e
luminoso che rischiari intimamente tutta la condotta (Mt 5,3.8.28; 6,19-23).
Questa insistenza a porre nel cuore il centro della vita morale, è cosa
caratteristica nelle parole del Maestro, egli stesso "dolce e umile di cuore" (Mt
11,28-30). Non devono essere in ordine le azioni, come era la preoccupazione
dei Farisei, ma la sede più profonda della nuova giustizia, il cuore: lì vien
seminata e deve fruttificare la Parola di Dio (Mt 13,19), e solo da un cuore
puro si possono trarre le buone azioni, le parole buone, il perdono
misericordioso e quanto più conta nella legge, la giustizia, la misericordia, la
fedeltà (Mt 12,34, 18,35; 23,23-26); mentre a nulla varrebbe osservare la
legge con la precisione più minuziosa, se poi il cuore è accecato e maligno:
poiché da una simile fonte impura rigurgita ogni cattivo pensiero e ogni azione
immonda che imbratta l'uomo e, buona solo all'apparenza, è abominevole a
Dio (Mt 9,4; 15,18-20; Mr 7,18-23; Lc 16,15).
Da un tale messaggio balza chiaramente che il giudizio sulla bontà o meno
della nostra condotta è interiore, viene elaborato in quella profondità personale
da cui essa procede, il cuore: ed è un giudizio a cui non si può sfuggire.
Ma risulta altresì chiaro che questa fonte interiore può inquinarsi, questo
intimo foro giudicante può lasciarsi corrompere, quest'occhio scrutatore può
essere accecato (Mt 6,23ss; Lc 11,35: "Bada che la luce che è in te non si
spenga: quanto sarebbe grande la tua tenebra!"). Tragica ambivalenza del
cuore: dà il valore etico all'azione, e insieme può farsi complice dell'iniquità. È
qui che comincia chiaramente a delinearsi l'esigenza di una continua
conversione del cuore: di una educazione della coscienza (usiamo pure questo
termine ignoto ai Vangeli) che avvenga sotto lo sguardo di Dio, e quindi nella
verità.
E anche in Gesù il criterio per la purità del cuore non è un richiamarsi
astratto e quasi individuale all'originaria Parola di Dio: anche i farisei potevano
richiamarsi a questa Parola e osservarla con scrupolosa sincerità, come
senz'altro facevano per la legge del sabato. Ma è la fedeltà al rivelarsi di Dio
nella storia viva della comunità che Egli chiama alla salvezza. Si onora Dio non
semplicemente, in modo quasi ripetitivo, osservandone un precetto; ma
secondo il senso che esso assume nella continua novità della storia (la novità,
ora, è Cristo, signore anche del sabato: Mt 12,1-8 e par.). Il "giudizio su ciò
che è giusto" non si elabora in un confronto estrinseco con la legge: bensì "da
se stessi", e cercando di discernere l'"ora presente" (Lc 12, 54-57) attraverso i
86
suoi "segni" (Mt 16,1-3). La coscienza, proprio perché si modella su un evento
prima che su un precetto, non è una semplice memoria: è memoria e
creatività. È un aspetto già in parte rilevato nell'AT, e che sarà ancora più
preciso nell'insegnamento di S. Paolo [DETM, 1985, p. 173].
La coscienza nel pensiero paolino
È con Paolo che il termine "coscienza" entra nel vocabolario cristiano: una
novità di grande rilevanza. Ma non era nuova l'antropologia soprannaturale nel
cui ampio contesto la dottrina sulla sunevidesi§ riceveva tutta la sua originalità
e ricchezza.
L'uomo "nuovo", di cui parla continuamente l'Apostolo, è l'uomo "in Cristo"
(formula carissima a S. Paolo): in un senso ben più alto di quello puramente
psicologico, secondo una condizione che qualifica la nuova creatura all'incirca
nel modo in cui ogni cosa non esiste che in dipendenza dal suo creatore. Ma
ovviamente questa situazione esistenziale implica pure una percezione
fondamentale di sé, che è anche intuizione di una nuova realtà morale: vale a
dire, del vitale riferirsi di ogni nostra azione, proprio perché nuova, a Cristo,
come a principio ontologico e a fine morale, al suo "pensiero" proprio, al suo
più intimo "spirito", al suo "sentimento di carità". Termini tutti che, pur con
una propria sfumatura, sono concretamente coincidenti e interscambiabíli:
vivere "in Cristo", "secondo il suo Spirito", compresi del suo pensiero, chiamati
alla sua carità, sono formule analoghe per esprimere l'accadimento
fondamentale (la propria "reazione" in Cristo) in quanto comporta un'istanza
morale radicalmente nuova.
È la fede che rivela quell'accadimento e questa istanza: o, che è lo stesso,
è la coscienza: una "buona coscienza" (2Co 1,12; 1Tm 1, 5,19; 1Pt 3,16; Eb
13,18), una "coscienza pura" (1Tm 3,9; 2Tm 1,3), una coscienza "emendata
col sangue di Cristo" (Eb 9,12).
"Fede", "coscienza" e "cuore"
La "fede" si identifica con una tale "coscienza": al punto che il ripudio della
buona coscienza è un naufragio nella fede (1Tm 1,5).
Vediamo dunque che per Paolo (che per primo usa questo termine) la
"coscienza" ricopre il ruolo che era assegnato al "cuore" nella precedente
riflessione biblica (anche se meno chiaramente): è l'intimo soggettivo
esprimersi, al centro dell'io, della trasformazione salvifica operatasi in noi; è la
profonda e sintetica presa di coscienza, possibile nella fede, del proprio
esistere in Cristo e dell'istanza morale costitutivamente nuova che ne
scaturisce.[DETM, 1985, p. 174].
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È un concetto globale di coscienza che la successiva riflessione cristiana ha
spesso lasciato cadere, come ha lasciato cadere la nozione biblica di "cuore":
esso va premesso alla comune nozione di coscienza come funzione delle
singole valutazioni etiche e come insieme di giudizi morali conseguenti.
Anche la nozione "popolare" di coscienza, come testimone o giudice
interiore delle proprie azioni personali, è esposta dall'Apostolo. In Romani 2,15
egli scrive che i pagani "mostrano scritta nei loro cuori la realtà della legge,
poiché ad essa rendono concorde testimonianza la loro coscienza e quei
pensieri che, succedendosi a vicenda, ora li accusano ora li difendono":
l'immagine di un dibattimento nell'intimo tribunale della coscienza è molto
eloquente.
La testimonianza interiore della coscienza si compie, secondo Rm 9,1,
"nello Spirito Santo": componente nuova dei giudizio di coscienza, che esprime
a livello concreto e operativo l'originalità propria della coscienza cristiana come
fondamentale percezione e assunzione della salvezza compiuta in ciascuno da
Cristo.
È la stessa "testimonianza della nostra coscienza" che S. Paolo oppone ai
Corinti (2Co 1,12) per difendersi dalla loro accusa di incostanza: come opporrà
la sua coscienza "perfetta" ed "intemerata" alle imputazioni processuali di
Gerusalemme e di Cesarea (At 23,1; 24,16).
Le qualificazioni date alla coscienza in queste ultime citazioni, richiamano
quelle già note delle lettere pastorali di coscienza "buona" e "pura". E
incontestabilmente, oltre al significato fondamentale già indicato, esse
segnalano pure quella nota di rettitudine e verità che la coscienza, come
funzione di discernimento morale, deve senz'altro possedere. È per questo che
una "cattiva coscienza" (Eb 10,22), una "coscienza macchiata" e "segnata dal
marchio (di Satana)" - sono espressioni anch'esse presenti nelle lettere
pastorali (Tt 1,15; 2Tm 1,3) -, una coscienza cioè connivente col male, non
potrebbe fungere da giudice e testimone veritiero: sarebbe semplicemente il
segno e il frutto dell'incredulità o dell'apostasia dalla fede. La buona coscienza
si costruisce nella fedeltà alla comunità e alla storia della salvezza, la quale è
entrata oramai con la risurrezione di Cristo nel suo momento decisivo.
Ma che dire della coscienza che è fuori dalla verità, per debolezza o errore?
È un'ipotesi, per noi molto ovvia, ma che nel pensiero biblico appare solo con
S. Paolo: e proprio qui, nell'affermare il diritto - come noi lo chiamiamo - della
coscienza erronea, l'Apostolo ha lasciato l'impronta della sua forte personalità.
La prima occasione di affrontare il problema S. Paolo l'ebbe nella cosiddetta
questione degli "idolotiti" (1Co 8). Potevano mangiare carne sacrificata agli
idoli, o non era partecipare a un culto idolatrico?
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La risposta di Paolo è perentoria: se ne può mangiare, perché gli idoli non
sono niente. Tuttavia, si deve badare a due cose: se qualcuno ritiene che quel
mangiare sia un atto idolatrico, non lo deve fare; e anche i "forti" devono
astenersene, se il loro esempio fosse di inciampo ai fratelli più "deboli" nel
seguire la loro personale convinzione di coscienza.
Occorre perciò rispettare la coscienza altrui, quand'anche non sia nella
verità: la libertà che nasce da una coscienza convinta non è una libertà
completa che non ammetta ingerenze. Se mai - ed è l'elemento che l'apostolo
aggiunge nel risolvere la seconda questione: quella degli alimenti impuri (Rm
14) - occorre adoperarsi per avere una "convinzione sicura". Dalla "scienza"
sappiamo che non vi sono cose impure; e tuttavia vi sono fedeli titubanti e
incerti, ai quali anche la cosa più onesta può sembrare compromettente: sono
bensì nel vero, ma senza convinzione interiore e maturata, avendo invece il
dubbio di fare cosa disonesta: ebbene, "se colui che è nel dubbio, mangia, è
condannato, non avendo agito con convinzione; tutto ciò che non è fatto con
sicurezza di coscienza, è peccato".
La coscienza come primato, soggetto solo alla carità
È quindi determinante la convinzione intima che si ha davanti a Dio: è un
diritto inviolabile, che assegna alla coscienza convinta un primato assoluto.
Tale, almeno, se considerato come primato della persona.
Se Newman pone la coscienza al di sopra dell'autorità, non proclama nulla
di nuovo rispetto al permanente magistero della Chiesa. La coscienza, come
insegna il Concilio, "è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si
trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria" [Piana, EC, 1997,
p. 191].
Ma essa ha un'istanza superiore e universale, alla quale deve coordinarsi e
subordinarsi: la carità fraterna. In termini a noi più familiari, "l'affermazione
può essere così espressa: l'istanza personale diviene assoluta nel momento in
cui ha assunto l'istanza interpersonale": la libertà che la coscienza
sommamente possiede in base alla sua "scienza", non può attuarsi "se non nel
rispetto della coscienza altrui, sia pure debole, e nell'edificazione per mezzo
della carità" [Molinaro, 1971, pp. 25-26].
"Il giudizio di coscienza si estende su tutto, guida la vita intera: non ci sono
scelte che sfuggono alla sua responsabilità. Però la buona coscienza non è
quella uniforme, ugualmente puntigliosa su tutto, bensì quella che nasce da un
centro da un criterio di fondo (i biblisti direbbero "il canone del canone") a cui
sente il bisogno di continuamente riferirsi nelle sue valutazioni: la carità" (B.
Maggioni).
89
Resta comunque la forte affermazione di Paolo, che cioè la coscienza è
obbligante anche se oggettivamente erronea: affermazione che ha anche il
merito di togliere al discorso sulla coscienza ogni carattere mitico. "Se è vero
che essa rivela la voce di Dio, è anche vero che potrebbe oggettivamente
sbagliare: la voce di Dio non si affaccia alla coscienza in modo miracolistico; si
affaccia nell'autenticità dell'uomo, nella normalità, e ne accetta il limite" (B.
Maggioni).
La prima
dell'uomo
dimensione
della
coscienza
morale:
struttura
"originaria"
Dal quadro biblico tracciato il dato più rilevante che emerge è la
considerazione della coscienza a un duplice livello di profondità.
Anzitutto la coscienza appare come l'evento centrale dell'interiorità
cristiana, attraverso il quale l'intera persona si coglie come esistente in un
nuovo rapporto ontologico (con Dio in Gesù Cristo) e di conseguenza intuisce e
decide il nuovo ordine di valori etici che ne deriva. È il momento globale e
fondamentale della coscienza come "struttura morale originaria": cuore
pulsante da cui poi scaturisce ogni particolare esercizio di interiore valutazione
etica.
La seconda dimensione della coscienza morale: "funzione" di discernimento
e giudizio
L'altro piano, meno profondo, della coscienza è similmente presente in tutti
quei testi biblici nei quali è descritta come funzione specifica del discernimento
e giudizio morale sulla propria condotta e vengono indicate le qualità per cui è
autenticamente normativa (veridicità e fermo convincimento).
Questa duplice considerazione della coscienza (come elemento originario
dell'uomo o come funzione derivata di discernimento) è presente nella storia
del pensiero cristiano, ma il secondo aspetto ha finito per prevalere fino a
diventare l'unico nella teologia postridentina e nelle discussioni che hanno
portato all'organizzazione dell'attuale trattato De conscientia.
Distinguere, nell'esposizione storica, i due aspetti della dottrina sulla
coscienza, equivale perciò grosso modo a dividere quella storia in due fasi: una
più antica e una più recente.
LA COSCIENZA NELL'EVOLUZIONE DELLA TEOLOGIA MORALE:
90
DALLA SINDERESI ALLA CONSCIENTIA
Una storia dell'insegnamento tradizionale cristiano sulla coscienza è ancora
da scrivere. Esistono però numerosi studi monografici che illuminano l'uno o
l'altro momento di quella storia [DETM, 1985, p. 181, n. 13].
Nella riflessione più antica la coscienza è ritenuta l'evento centrale della
soggettività cristiana. Ed è proprio questo aspetto che, secondo me, andrebbe
recuperato oggi ed è ancora di grandissima attualità. Ma bisogna saper
superare la visione funzionalistica della coscienza nella riflessione morale.
Origene
Per Origene la coscienza emerge come interiorità da cui fiorisce tutta
l'attività religiosa e morale: "sede della coscienza funzionale, base degli affetti
dell'anima, intimo testimonio dei fenomeni religiosi, centro della vita morale e
quindi anche dei peccati, camera segreta delle più ascose emozioni". Si
evidenzia in tal modo il carattere essenzialmente pneumatico della coscienza:
la sunevidesi§, addirittura, si identifica con il pneuma: con la realtà che
costituisce più autenticamente l'uomo salvato, nella quale egli si coglie come
"vivente nello spirito" e ove si compie quell'interiorizzarsi del comprendere e
dell'agire che costituisce la peculiare novità dell'esistenza cristiana.
In Girolamo (commento a Ez 1,1), ove la sunthvrh§is (termine da cui verrà
quell'altro di sinderesi) o "scintilla conscientiae" è presentata come la parte
suprema dell'uomo, "spirito" che corregge e guida la ragione e l'appetito,
interiorità specifica che conseguentemente è fonte di inestinguibili giudizi sul
bene e sul male.
Agostino: l'uomo è la sua coscienza
E soprattutto in Agostino: "se l'essenza dell'uomo è l'interiorità, la
coscienza come interiorità dell'uomo lo definisce nella sua qualità centrale:
l'uomo è la sua coscienza, ritrova se stesso nella sua coscienza, che contiene e
gli detta la norma del valore morale".
Nell'insegnamento agostiniano
un
testo
fondamentale
è
quello
dell'Enarratio in Ps. CXLV (PL 37,1887): qui la coscienza appare la parte più
riposta e più spirituale dell'anima, quella che si identifica con l'uomo interiore;
la "mens superior" già sin d'ora "inhaerens Domino et suspirans in illum",
aperta perciò a vedere quel che si deve temere, desiderare, cercare, lodare ed
amare. Per questo, se molte volte coscienza e cuore si identificano, altre volte
la coscienza appare il centro del cuore, "ventre dell'uomo interiore" (In Johan.
7,37-59.- PL 35,1643). Abisso "in cui abita Dio, di essa unico teste ("forte tu
non invenis aliquid in conscientia tua, et invenit ille qui melius videt, cuius
acies divina penetrat altiora", Sermo 93: PL 38,578), essa ha l'unica "sedes
91
Dei": "qui nullo capitur loco, cui sedes est conscientia piorum" (Enar. in Ps.
XLV: PL 36,520); e Dio vi irrompe come "testis, iudex, approbator, adiutor,
coronator" (Enar. in Ps. CXXXIV: PL 37,1476) [DETM, 1985, p. 171].
In conclusione, una concezione globale e unitaria della coscienza, che
identifica la coscienza con l'"io" più delicato e più unificante, più consapevole e
più essenziale, dell'uomo nuovo e non si sofferma sul frammentarismo delle
distinzioni, che invece pulluleranno nei trattati degli ultimi secoli (tra i vari tipi
di coscienza e le varie "doti" che la connotano).
In questa visione globale va posta la concezione che ne deriva della
coscienza come funzione di valutazione etica, educata a discernere e decidere
il bene dal male. Si cercherebbero invano, negli scritti patristici, le nostre
precise definizioni; ma è tuttavia presente in essi una chiara dottrina
sull'educazione della coscienza.
Per Agostino, ad esempio, non una coscienza qualsiasi può guidarci; ma
solo quella illuminata dalla Scrittura, dalla fede, da Dio: solo la "bona
conscientia": da cui proviene la "tranquillitas cordis" (Sermo 270: PL 31,1242),
e che è "magnum gaudium piorum" (Enar. in Ps. LIII: PL 36,625) e rifugio
rassicurante di ogni oppresso ("ubi est requies? saltem in cubiculo cordis ut
tollas te ad interiora conscientiae tuae", Enar. in Ps. XXXV: PL 36,344).
Al contrario, l'oscurità amata rende gradatamente più languido l'occhio
dell'anima: e così illanguidito, l'uomo si trova non solo impigliato ma sepolto in
quella coscienza cui ha rifiutato il compito di guida.
Ambrogio
È, però, S. Ambrogio l'autore che si è più lungamente soffermato sugli
aspetti derivati della coscienza: almeno nella sua opera morale più rilevante, e
cioè il De officiis ministrorum. Qui, compito della coscienza è discernere il
merito del giusto e del peccatore (1,44); è un atto interno di ogni singolo
uomo, così da potersi dire suo giudizio (1,45; 11,2), sua testimonianza (1,18)
percepita dai sensi interni (11,2), per cui l'uomo è consapevole degli atti
compiuti (1,18,21); ad essa soltanto è riservato il giudizio sul valore morale
delle azioni eseguite, sicché l'uomo, indipendentemente dal giudizio altrui, è
innocente o colpevole di fronte a se stesso (1,18,21,45-46,233,236). La
tranquillità della coscienza è cibo che sazia veramente (1,163), è il vero bene
(1,236), a confronto del quale la voluttà dei corpo e tutto ciò che è giudicato
bene dal secolo scompare allo stesso modo della luce della luna e delle stesse
stelle al sorger del sole (11,1); è una soavità interiore che vince ogni
sofferenza (11,10,12, 19). Per il peccatore, invece, la ferita della coscienza è
tormento (111,24), è tomba che esala cattivi odori (1, 45-46). Nel compiere il
suo incarico di giudice, comunque, la coscienza non può essere né ingannata
né corrotta (1, 44,233): a questa condizione, essa è vera legge e norma per il
92
giusto, al quale non occorre più la promulgazione di una legge e la
comminazione di una sanzione (III,31).
LA SCOLASTICA E LE DUE CONCEZIONI DELLA COSCIENZA
La riflessione della Scolastica, e particolarmente quella della scuola
domenicana, cercherà di riunire le due concezioni (originaria e derivata) di
coscienza nella dottrina, che distingue tra sinderesi e coscienza.
La sinderesi è la coscienza originaria, innata e sintetica percezione dei
valori morali dell'esistenza cristiana.
Invece la conscientia è un atto che applica quella unitaria e dinamica
intuizione ai casi e alle azioni concrete. Ma già in questa teologia, come poi
soprattutto nella riflessione posteriore, l'accento viene posto sempre più
distintamente sulla conscientia: e cioè, sulla coscienza come funzione o come
atto applicativo, ai singoli comportamenti, di quel dinamisrno vitale che si pone
come radicale "presa di coscienza" del senso e dell'orientamento del proprio
esistere cristiano.
A provocare questo spostamento di interesse era stata la controversia tra
Bernardo e Abelardo: testimone, il primo, della concezione più antica, globale e
pneumatica, della coscienza; artefice, il secondo, di una considerazione
innovata di essa, che ne metteva in luce il valore specifico di funzione etica
mediatrice.
I punti da cui partono i due illustri avversari sono molto distanti; come, del
resto, è immensamente diverso l'ambiente culturale e spirituale al quale
appartengono.
Bernardo di Chiaravalle
Bernardo è monaco. La teologia monastica profondamente alimentata dalla
Scrittura, in stretta dipendenza dalla letteratura patristica, diffida di un impiego
troppo esteso della dialettica, mentre vuole per l'approfondimento del
messaggio rivelato disposizioni di umiltà e semplicità, di orante rispetto per il
mistero: ed è con tale metodo che si accosta preferibilmente, tra i molti oggetti
teologici, alla inesauribile problematica dell'unione dell'anima con Dio.
Proprio la coscienza - la coscienza umile e purificata, la coscienza devota e
sottomessa - è il luogo ove si svolge questo intimo dialogo dell'uomo con Dio,
questo farsi presente di Dio e questo elevarsi dell'uomo all'unione con lui.
93
Così il tema della coscienza diventa tra i più cari a questi uomini,
attentissimi ai fatti interiori: è sintomatico che esistano due trattati
pseudobernardini sulla coscienza, e un De conscientia di Pietro di Celle. Sono le
prime opere nella letteratura cristiana che portino questo titolo. Una coscienza
che sia specchio terso della luce di Dio, l'eco fedele della sua voce, il testimone veridico della sua presenza - ecco la coscienza cristiana. Una coscienza
"vera", che sia la perfetta corrispondenza soggettiva dell'oggettiva volontà di
Dio.
E questi uomini moltiplicano le immagini: S. Bruno, Pietro di Celle,
Guiberto, Tornmaso cistercense, Ruperto di Deutz, non si fermano neppure
dinanzi a rappresentazioni ardite e peregrine, per "dipingere" questo segreto e
puro recesso della coscienza, ove si consuma l'unione con Dio. E c'è un campo
in particolare dal quale attingono le loro allegorie - quasi trasfigurando (o
sublimando) in altri termini spirituali quel che la vocazione aveva loro imposto
di lasciare: la vita nuziale.
E questo pure è sintomatico, per chi conosca con quanta profondità e
frequenza l'amore nuziale sia diventato, per i mistici, l'immagine, insieme più
semplice e più alta, dell'unione nostra con Dio.
I mistici medievali e la coscienza come "sposa"
Questa "buona coscienza" è dunque la più bella delle donne, la regina
preparata a ricevere il re; è sicura e irreprensibile come una sposa forte e
fedele; "bona coniux in cubili": è l'inseparabile sposa che ti accoglie nel suo
abbraccio pieno di pace (mentre "mala uxor" è la cattiva coscienza: donna
insopportabile e iniqua): è la moglie gloriosa nel cui bacio lo sposo si allieta. La
buona coscienza è la camera nuziale; o anche, è il talamo nuziale (invero, nella
fantasia descrittiva di questi monaci austeri anche nel sonno, un giaciglio
abbastanza povero e spoglio): il "talamus Dei", il "tectus Celestis sponsi" che
ha per materasso la purità, per guanciale la tranquillità e per coperta (ecco
tutto!) la sicurezza.
La coscienza retta è come la fanciulla ancora acerba ("quia ubera nondum
habet per- lectionis"), eppure già amata e in attesa di pervenire, in cielo, "ad
contubernium Dei".
Si capisce, in questa concezione della coscienza, quanto appaia necessario
che essa sia in tutto monda e fedele a Dio, goda cioè di una verità completa:
come vi si potrebbero compiere gli sponsali con Dio, se essa fosse difettosa e
sordida? Ma non potrebbe accadere - dice Bernardo - che la coscienza, senza
sua colpa si inganni? Che ritenga un bene ciò che in realtà non è bene?
Sarebbe, essa, in tal caso, ugualmente retta, e quello ugualmente un bene?
94
La questione a Bernardo era stata posta da alcuni monaci di Chartres:
poiché - essi avevano scritto - quando si crede di far male, pur agendo bene, ci
si dice che la nostra azione è cattiva, alla stessa maniera si dovrà dire che
un'azione è buona quando è compiuta in buona fede, anche se fosse in se
stessa cattiva.
Non è così, risponde Bernardo: non basta la buona fede; occorre la verità:
come potrebbe passare per vera agli occhi del Dio della verità, una coscienza
falsa, sia pure in buona fede? È perciò ugualmente peccato, benché meno
grave, anche il male compiuto in buona fede.
Tutta la tradizione monastica, con la suddetta concezione mistica della
coscienza, era lì a suggerire questa risposta per noi non più comprensibile - se
è viziata da qualche male, lo sappia o non lo sappia, la coscienza non può più
essere il trarnite d'una mistica unione con Dio. E possiamo anche capirlo. Ma
non potremo mai capire l'oggettivismo di S. Bemardo, non appena il problema
si ponga nei suoi termini più strettamente morali.
Abelardo
Non lo comprese neppure Abelardo. In realtà, questo teologo
spregiudicato, che concluderà la sua tumultuosa giornata a Cluny, raddolcito
dall'ineffabile bontà di Pietro il Venerabile, era vissuto spiritualmente sempre al
di fuori dell'ambiente monastico, a contatto invece con le nuove correnti di
pensiero che facevano il loro ingresso nelle scuole urbane. Ed era stato
essenzialmente un "moralista", nel senso più moderno della parola: estraneo
alle dottrine (come alle esperienze) mistiche, attento invece ai problemi etici
nella loro accezione più precisa.
Uno di questi, molto antico, riguardava appunto il peccato di ignoranza: se
cioè l'ignoranza sia un peccato, e ancora, se essa scusi dal peccato. Già
Gregorio Magno aveva parlato, molti secoli prima, di un peccato "quod
ignorantia perpetratur", accanto a quelli che si commettono "aut infirmitate aut
studio": peccato meno grave degli altri, ma pur esso peccato e bisognoso del
perdono divino; e citava S. Paolo (1Tm 1,13): "prima bestemmiatore e
persecutore e violento, ho ottenuto da Dio misericordia per aver agito per
ignoranza, non avendo ancora la fede".
La questione si era poi complicata negli scrittori successivi, spostandoci su
altri tre casi a cui la Scrittura accennava: il peccato di Eva "sedotta dal
serpente" (Gn 3,13); il peccato dei crocefissori di Cristo che, secondo le parole
di Gesù in croce, non sapevano quel che facevano; e il peccato di tutti i
persecutori dei cristiani, convinti, come aveva indicato il Maestro, "di fare con
ciò cosa gradita a Dio" (Gv 16,2).
95
Che pensare di questi, e in genere di tutti i peccati commessi ignorandone
la malizia? Uno spirito critico come Abelardo non poteva non reagire ad ogni
concezione puramente materiale del peccato: ciò che si commette per
ignoranza non è peccato, essendo essenziale al peccato l'intenzione di peccare;
e sono perciò irresponsabili gli uccisori di Cristo, e i lapidatori di Stefano e ogni
altro persecutore dei cristiani che agisca in buona fede.
Furono certamente queste estensioni, senza delicatezza e sfumature (ma la
souplesse non era nello stile di Abelardo) a provocare l'accusa presso
Bernardo, il riconosciuto custode dell'ortodossia dell'epoca.
Tommaso D'Aquino
Ma, a parte le esagerazioni polemiche, Abelardo aveva visto giusto: e di lì a
un secolo Tornmaso d'Aquino gli darà sostanzialmente ragione, pur
introducendo nella questione tutte le distinzioni richieste, tra buona fede e
buona fede, più o meno colpevole e perciò più o meno scusante dal peccato.
Nella visione antropologica di S. Tommaso l'uomo, creato a immagine di
Dio di cui imita la libera creatività, si costruisce attivamente attraverso il suo
potere di autodecisione: e così, la coscienza non si risolve ad essere una
semplice applicazione meccanica di principi alle contingenze della vita, ma è un
inventare di volta in volta il modo con cui l'uomo risponde alla sua qualità di
immagine di Dio, realizzando se stesso nella verità.
Nel frattempo, tuttavia, quasi tutta la dottrina monastica sulla coscienza
era andata perdendosi: e ciò non fu totalmente positivo.
La controversia tra Bernardo e Abelardo è senza dubbio tra i fatti culturali
più rilevanti, che abbiano provocato il passaggio da una considerazione
fondamentale della coscienza a un'altra più articolata e specifica. Ed è
quest'ultima che troviamo presente, non solo nella teologia scolastica in
maniera sempre più significativa (come già si è accennato), ma soprattutto
nelle elaborazioni successive e in particolare nella teologia post-tridentina.
LA TEOLOGIA POST-TRIDENTINA: LA COSCIENZA RIDOTTA A "FUNZIONE
DI DISCERNIMENTO"
Nella teologia post-tridentina, la coscienza diviene un semplice organo di
risonanza di una legge morale concepita più come un dato che come un
compito, organo chiamato a fungere da giudice nella controversia tra libertà e
legge.
96
Acquistano in tal modo importanza fondamentale le leggi procedurali che la
coscienza deve seguire per varare una sentenza giusta, e in particolare una
sentenza certa.
È un dibattito che è opportuno sintetizzare: non solo per l'importanza che
assunse nel tempo coinvolgendo in una grave crisi per tutto il secolo XVII e la
prima metà del XVIII, la teologia morale, e che non cessò di farsi sentire anche
in seguito; ma soprattutto perché esso ha fissato a lungo l'attenzione dei
moralisti sul solo senso derivato della coscienza, come insieme di singoli e
distinti giudizi etici.
Il probabilismo
Il punto di partenza era stato fornito dal domenicano Bartolomeo di
Medina, il quale nel 1577 aveva stabilito il principio del probabilismo: "si est
opinio probabilis (quam scil. asserunt viri sapientes et confirmant optima
argumenta), licitum est eam sequi, licet opposita probabilior sit". Il principio
ebbe successo e fu accolto da altri grandi teologi che lo perfezionarono,
precisarono e applicarono a molti casi discussi. Esso del resto era di grande
utilità. Si trattava di offrire una regola che permettesse dì uscire dal dubbio e
di agire in tutti quei casi nei quali esistevano delle soluzioni molto contrastanti.
In simili casi, si diceva, era lecito seguire quell'opinione che apparisse
veramente probabile, anche se la contraria era ugualmente probabile o
addirittura più probabile. Non si trattava, in fondo, che di applicare un principio
più generale e indiscusso: "lex dubia non obligat".
Fin qui non v'era motivo di allarmarsi e nessuno osò contraddire il
probabilismo, se non altro per il grande prestigio di cui godevano i teologi che
lo avevano sostenuto.
Il lassismo
Se non che col tempo, quel principio, già maneggiato con minore
circospezione da qualcuno dei noti autori di Institutiones della prima metà del
secolo XVII, venne da altri tamente allargato e.finì per degenerare in un nuovo
principio, che fu poi detto del lassismo: che cioè, come norma morale nelle
questioni discusse poteva prendersi qualunque opinione la quale avesse anche
una minima probabilità di essere nel vero, fosse pure questa probabilità
soltanto estrinseca, fondata sul pensiero anche di un solo autore.
Responsabili principali di questo grave fraintendimento furono parecchi di
quei "casuisti" che, fin dalla metà del secolo XVII, compilarono numerosi
97
manuali di resolutiones, in cui venivano allineate interminabili liste di "casi"
(ingegnosi, talora, e persino bizzarri) e indicando per ciascuno di essi, senza
molto discernimento, le sentenze proposte dagli autori, comprese le più spinte.
Non era rilassatezza morale a condurre questi uomini alle loro posizioni
(erano tutti personalmente molto austeri e pii), ma piuttosto, oltre al gusto
della casistica, che trovava facile alimento nel confronto delle varie probabilità,
una preoccupazione di indulgenza e di raddolcimento che servissero alla fine
alla salvezza delle anime.
Il giansenismo
La reazione, si sa, venne in gran parte dall'arnbiente giansenista. E fu
reazione per molti aspetti provvidenziale; ma anche poco onesta, perché sotto
il pretesto di combattere il lassismo iniziò a colpire la compagnia di Gesù; e
comunque eccessiva, sicché finì per sostituire al le- galismo dell'opinione il
legalismo della legge.
Intervenne anche Pascal (con le sue Provinciali) che mise a nudo con la sua
satira tagliente il falso legalismo casuista, ove lo spirito era soffocato dalla
lettera.
Si diede però avvio a una morale eccessivamente rigida, la cui regola fissa
è che il più sicuro (tutior) sia sempre obbligatorio, e quindi alla fine
ugualmente esteriore e legalista. Ed è difficile dire se abbiano provocato
maggiori danni, nella elaborazione successiva della nostra disciplina teologica,
lo spirito casuista o quello tuziorista.
Intervennero le condanne. Ma la condanna degli errori non poteva bastare.
Occorreva sostituire ai principi del lassismo e del rigorismo un sistema che
permettesse di risolvere il dubbio nei molti casi discussi.
Probabilioristi e probabilisti
Il problema era sentito come urgente, lontani come si era da un ricupero
della dottrina tomista sulla virtù della prudenza; e del resto, la ricerca di un
buon "sistema" poteva passare per una operazione di prudenza. Non fu così. La
polemica, infatti, non ancora sedatasi tra lassisti e rigoristi, si riaccese più
spregiudicatamente violenta (e raggiunse persino i toni dell'ingiuria, nel primo
mezzo secolo XVIII, tra domenicani probabilioristi, accusati di rigorismo, e
gesuiti probabilisti, accusati di lassismo
Fu in Italia che divampò più acre il dibattito. La teologia morale non
guadagnò nulla da simili polemiche; al contrario, esse incoraggiavano il
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pericolo della decadenza morale già favorita dal clima del secolo e del
rigorismo giansenista.
S. Alfonso
Fu S. Alfonso a ricondurre il problema della certezza della coscienza alla
sua sede vera, quella della interiore prudenzialità dei giudizio. Non fu infatti
l'elaborazione di un nuovo sistema, l'equiprobabilismo, per quanta verità
teoretica esso contenesse, a placare gli animi, ma fu la riflessione morale
dell'intelligenza cristiana attenta al complesso dei valori in gioco, a definire la
crisi. Infatti, i casi di coscienza risolti da S. Alfonso, col ricorso ai principi
indiretti della probabilità vennero successivamente diminuendo nelle varie
edizioni della sua Theologia Moralis e alla fine risultarono pochissimi.
Al contrario, per la grande parte di essi egli avanzò una sentenza
personale, impegnandosi in una ricerca interiore e persuasiva della verità e
mettendo a profitto la sua eccezionale acutezza, erudizione e prudenza, ben
più che applicando il "sistema" da lui escogitato.
ALCUNE RIFLESSIONI TEOLOGICHE
Dalla carrellata storica sullo sviluppo del concetto di coscienza nella storia
del pensiero cristiano, si può ricavare l'importanza che assumono
nell'elaborazione di un corretto giudizio di coscienza le vie dell'interiorità e
della prudenzialità.
Il risultato più cospicuo delle riflessioni di Abelardo è che la soggettività del
giudizio acquista valore determinante, poi il problema va risolto attraverso un
prudente confronto dei valori in causa, che nessuna applicazione indiretta di
"sistemi" può surrogare. È il dato che emerge nitidamente anche ripensando
l'insegnamento biblico sulla coscienza come funzione del discernimento etico.
La complessità di una visione globale della coscienza
Il concetto di "coscienza attuale e cioè funzione tipica di interiori giudizi
morali, anche ricuperato nella genuinità e ricchezza che l'estrinsecismo dei
"sistemi" ha compromesso, non traduce ancora interamente la complessità
dell'insegnamento biblico e di molta parte della riflessione patristica: qui infatti,
sulla coscienza attuale, che ne deriva, prende rilievo una coscienza
"fondamentale", la quale si presenta come il momento sintetico e risolutivo
99
dell'esprimersi della storia della
soggettiva" [DETM, 1985, p. 180].
salvezza,
per
ciascuno,
in
esperienza
È una visione globale, come più volte si è detto, che va ricuperata; né
basta a esprimerla integralmente la dottrina pure importante (e anch'essa
quasi dimenticata) della sinderesi, elaborata dalla teologia scolastica.
Forse un complemento verrebbe se si accostasse questo tema a quello
dell'opzione fondamentale.
Coscienza e opzione fondamentale
La coscienza fondamentale appare come la radicale presa di coscienza,
semplicissima e ricchissima, dell'orientamento e del contenuto dell'opzione
fondamentale.
In questo senso si può dire che essa è il luogo essenziale ove si fa conscia,
come giudizio e come valore, la storia salvifica in cui dobbiamo dar prova di noi
stessi; come giudizio, che fonda ogni altra conseguente valutazione etica; e
come valore, che si pone come sorgente di ogni altra specifica obbligazione.
Ha ragione allora A. Molinaro che scrive che essa "si deve porre nel fondo
dell'anima, al centro dell'uomo, là dove l'uomo trova la sua natura autentica essa lo abbraccia tutto intero, tendenza e realizzazione conscia del bene che in
ultima analisi è il Bene assoluto".
Per un altro verso si può affermare che il giudizio "fondamentale" di
coscienza è compiuto in vista dell'opzione fondamentale: "l'ideale intuito
diventa progetto di azione". In ogni caso, la coscienza fondamentale "è la luce
nella quale noi elaboriamo i giudizi particolari di coscienza, ossia i dettami
destinati a dirigere i singoli atti concreti in modo che questi rispondano e si
conformino alle esigenze di ciò che abbiamo giudicato essere il senso o il fine
totale della nostra vita", così come l'opzione fondamentale "è il criterio di
valore che determina l'apprezzamento dei motivi che presiedono alla scelta
degli atti particolari" [Molinaro, 1971, pp. 54-55].
Coscienza del singolo e coscienza comunitaria
Su questo sfondo si collocano i problemi più particolari della coscienza
"attuale", primo tra tutti il problema del raffronto tra la coscienza individuale e
la "coscienza della comunità", che serve a riconoscere e illuminare ogni altro.
100
La riflessione della teologia morale insegna che la presa di coscienza, la
decisione di coscienza, la testimonianza di coscienza sono momenti di una
maturazione della responsabilità individuale, che emerge dal discorso cristiano
sulla coscienza nel suo complesso: è un apporto che si reca dal singolo alla
comunità; ma è anche un affrancamento e una maturazione del singolo,
quando la comunità (che non sarebbe più tale) tendesse a inglobarlo in
comportamenti stereotipi e convenzionali.
Il cristiano sta di fronte alle molteplici proposte che provengono dalla
comunità, ciascuna delle quali, sebbene in misura diversa, è tramite di valori.
"Parole" trasmesse, gesti sacramentali, suggerimenti dell'amicizia, interventi
dell'autorità, convenzioni sociali, rapporti di lavoro, leggi e direttive, e così via:
la fitta rete, cioè, di segni, istituzioni, parole, da cui il cristiano è portato a
discernere le pressioni del suo egoismo (la "carne", in gergo paolino) dagli
impulsi dello Spirito ("la legge dello Spirito di vita in Cristo Gesù", Rm 8,2).
La "capacità di rispondere" (responsabilità) alla multiformità dell'appello
morale non si improvvisa; e d'altra parte può e deve strutturarsi in
disposizione permanente (è allora che nel vocabolario scolastico, si parla di
prudenza), a condizione che il cristiano non rinunci mai a interpellarsi da capo
nei momenti in cui nuove e più pressanti proposte morali si presentano alla sua
coscienza. La riflessione personale è dunque costantemente necessaria per la
formazione di prudenti giudizi di coscienza. Tale riflessione include anche il
dovere di prestare attenzione all'autorità (secondo la misura e qualità del suo
intervento); e include la possibilità di riferirsi, per raggiungere una provvisoria
ma sufficiente sicurezza, all'"opinione probabile", quando il problema che si
pone non abbia ancora raggiunto nella dottrina una luce definitiva.
La coscienza ispirata
La coscienza personale dev'essere confrontata con la comunità, essa
consegue il suo pieno valore di norma quando il suo giudizio è accolto,
ratificato, difeso, promosso dalla comunità gerarchicamente strutturata.
Ma il pensiero tradizionale cristiano non ha temuto di avanzare l'ipotesi
della "ispirazione profetica" per spiegare taluni comportamenti diversamente
condannabili. Esistono casi così singolari o situazioni di coscienza talora così
drammatiche, che la loro soluzione non possa trovarsi se non nell'immediata (e
immancabile) illuminazione dello Spirito Santo.
Sempre tenendo conto che lo Spirito è superiore a qualunque lettera; che
non si può sistematicamente rifiutare il "profetismo" nella vita morale, che si
deve dar spazio alla "coscienza ispirata".
È un discorso delicato, evidentemente; eppure ogni cristiano sa che nella
vita morale talvolta "è in gioco un agire insolito della coscienza che in tono
101
imperioso reclama obbedienza a un appello divino": è quanto scrive Walter
Nigg circa la decisione che portò S. Nicola di Flüe ad abbandonare la moglie e i
dieci figli (l'ultimo era ancora atteso), il 16 ottobre 1467, per farsi randagio e
pellegrino.
Decidere se in questi casi si tratti di "coscienza erronea" o di "coscienza
ispirata", non è possibile per noi al momento. S. Agostino, ad esempio, a
proposito delle vergini cristiane che si diedero la morte, sembra partire
dall'ipotesi che siano incorse in un abbaglio, del resto comprensibile e
scusabile; ma subito si chiede se non vi fosse, invece, un'ispirazione divina:
"Che dire se hanno compiuto quel gesto non per umano errore, ma per un
comando divino; non già per essersi ingannate, ma per aver obbedito?" 24.
L'interrogativo non riceve risposta ed è il medesimo dinanzi al quale ci si
deve arrestare anche per altri casi, nei quali l'ipotesi di una ispirazione
profetica è senza dubbio legittima, ma appartiene al segreto di Dio se si sia
verificata di fatto.
La coscienza personale di fronte al diritto e alle ideologie
Esigenze di confronto e ínterazione tra coscienza e comunità si rilevano
anche sul piano dell'azione e dei diritto. L'urgenza, ad esempio, dell'incontro
sul piano operativo e della carità, nonostante la divergenza delle ideologie a cui
ci si ispira, mette in luce quella altrettanto grave di una matura fedeltà alla
propria coscienza, senza la quale non verrebbero evitati i rischi di
quell'incontro. Ancor più complessa è la questione di come conciliare i "diritti
della coscienza erronea" con il rispetto delle esigenze del bene comune.
Talune istituzioni infatti hanno una rilevanza sociale troppo grande per
poter essere affidate alle sole valutazioni soggettive della coscienza (ed è un
limite doloroso per ogni legge quello di dover ridurre la libertà del singolo per
un più alto interesse comune).
Sembra tuttavia che non si possa dare a priori una risposta assoluta per
l'uno o per l'altro dei due termini in conflitto (coscienza e bene comune). Essi
in realtà sono tra loro complementari e in continua tensione. Si dovrà, volta
per volta, ricercare quella soluzione che meglio assicuri il rispetto della
coscienza e la prosecuzione del bene della comunità: e non stupisce il fatto che
le soluzioni possano essere parzialmente diverse secondo le diversità dei
problemi in causa, dei momenti storici e degli ambienti culturali nei quali essi si
pongono.
L'attenzione del singolo alla coscienza comunitaria non può prescindere dal
fatto che questa è sottoposta a un divenire storico che va via via configurando
l'ideale morale (in questo caso si parla dell'ideale cristiano) in senso sempre
più esplicito e completo.
102
La coscienza personale tra norme eterne e tempo storico
La morale cristiana ha delle norme eterne, principi immutabili e sempre
uguali, validi in ogni caso, regole intemporali e in certo modo esteriori
all'odierna economia di salvezza.
Ma nello stesso tempo, la morale cristiana ha pure, nelle sue stesse norme,
un aspetto profondamente temporale: essa infatti "si riferisce ad una storia già
avvenuta, a quella ancora presente e a quella che avverrà nel futuro, dei
rapporti tra Dio e l'uomo, e alla partecipazione attiva dell'uomo a questa
storia".
Ed è dalla indagine sulla morale evangelica che si possono distinguere due
categorie di insegnamenti morali: nella predicazione di Gesù si incontrano
norme intemporali che non sono essenzialmente legate alla presente economia
e conserverebbero il loro significato fondamentale anche al di fuori di essa: tali
sono le esortazioni a imitare la santità di Dio, ad obbedire alla sua volontà, a
praticare le opere buone, e altre ancora.
Si incontrano però anche norme strettamente legate all'economia attuale
ed esse sono totalmente penetrate dalla coscienza che questo mondo "è
invecchiato" e che gli ultimi fini sono ormai imminenti. Tali sono, ad esempio,
le esortazioni alla rinuncia (le cui forme sono diverse, ma sempre radicali, ai
beni terrestri, alla famiglia, ai propri diritti), e altre ancora. Tali norme,
essendo dominate - quale più quale meno, ma tutte profondamente - dalla
prospettiva escatologica, sono meno valide in vista di una morale concreta e
specifica per la fase terrena del Regno di Dio, ma piuttosto rappresentano
l'ideale morale di una umanità ormai prossima agli ultimi eventi.
Si direbbe che, nel dare queste norme, Gesù, per effetto di un
raccorciamento simile a quello di ogni profezia in genere, abbia
provvisoriamente lasciato nell'ombra il periodo intermedio tra l'inaugurazione e
la consumazione del Regno, per sottolinearne fortemente l'urgenza in vista e
nell'imminenza dell'ultimo ritorno di Cristo giudice.
LA COSCIENZA NELLA MISTICA
Secondo Stercal "Non vi è operazione mistica al di fuori di una
trasformazione vitale della coscienza". Così Ch. A. Bernard sintetizza lo stretto
rapporto tra esperienza mistica e coscienza testimoniato dai mistici" [Stercal,
DIM, 1998, p. 362].
103
Dio nella sua realtà sostanziale è presente nel fondo dell'anima non meno
di quanto essa sia presente a se stessa [A. Gardeil, citato in Stercal, DIM,
1998, p. 362].
La teologia manualistica parla di "dilatazione della coscienza", o, con
linguaggio più tecnico, "iperestesia dello spirito e del cuore" per definire gli
effetti che l'esperienza mistica produce. Essi consistono in una consapevolezza
"delle operazioni straordinarie, nuove, elevate" che accompagnano l'esperienza
mistica, e dei "loro oggetti", cioè della "realtà soprannaturale percettibile in
modo nuovo", anche nella forma della "sua privazione o carenza".
Le nuove acquisizioni della psicologia e della teologia richiedono, oggi, un
approfondimento e una riformulazione del complesso rapporto tra esperienza
mistica e coscienza.
In questa prospettiva appare indispensabile un'attenta rilettura dei testi
mistici. Essi offrono alcuni punti di riferimento fondamentali [Stercal, DIM,
1998, p. 362-363]:
- L'inizio dell'esperienza mistica è comunemente caratterizzato da un
cammino di purificazione che sembra condurre a una perdita della coscienza di
sé, ma che, in realtà - come afferma un testo anonimo del secolo XIV - sfocia
nell'"essere rivestito della consapevolezza di Dio";
- Ciò non comporta il rifiuto di sé, ma il rifiuto o il superamento di ciò che
allontana da Dio. Ne La nube della non-conoscenza leggiamo: "cerca di
sopprimere ogni conoscenza o coscienza di qualsiasi cosa che sta al di sotto di
Dio";
- I mistici utilizzano spesso un linguaggio che sembra alludere a una
perdita o a un annullamento di sé di fronte alla trascendenza di Dio, ma, in
realtà, quella esperienza conduce a una più profonda relazione con Dio;
- Questa nuova e più profonda relazione con Dio consente al mistico di
acquisire una più profonda coscienza, allo stesso tempo, di sé e di Dio. Come
afferma sinteticamente anche l'Imitazione di Cristo: "Cercando soltanto te e
con amore puro, ho trovato allo stesso tempo e me stesso e te";
- Per quanto riguarda la coscienza morale Tommaso d'Aquino chiarisce
come l'esperienza morale predisponga alla vita contemplativa, ma non ne
costituisca l'elemento essenziale: "il fine della vita contemplativa è la
considerazione della verità. [...] Le virtù morali, però, impediscono la violenza
delle passioni e calmano il tumulto delle occupazioni esterne, perciò
appartengono come predisposizioni alla vita contemplativa" (Summa
Theologiae II-II, q. 180, a. 2).
104
L'uomo è la coscienza del Dio alienato
Gianni Baget Bozzo ha condotto una riflessione radicale sulla coscienza
mistica.
"La coscienza dell'uomo vive la tensione tra l'essere eterno e l'essere
mortale, vive cioè i contrari che costituiscono l'alienazione divina. L'uomo è la
coscienza del Dio alienato. Per questo la coscienza dell'uomo è essenzialmente
una coscienza mistica, una coscienza protesa tra due termini assoluti: l'Eternità
e il Nulla" [Baget Bozzo, 1984, pp. 27 ss.].
La mistica rende possibile l'esperienza di ciò che è l'uomo, nella sua
dimensione infinita, quella che emerge nella coscienza della solitudine, della
finitezza incompiuta e aperta.
La coscienza mistica, in quanto coscienza della Risurrezione come
possibilità, è appunto esperienza di fede poiché essa vive il tempo quotidiano
sotto la presenza contestuale dei due termini di riferimento ma senza poter
mai possedere la necessità della loro fusione. La radice della coscienza mistica
è il dolore di esistere: aver posto come proprio oggetto i due termini contrari la
conduce alla lacerazione dolorosa tra di essi.
V
La coscienza nell'occultismo, nell'esoterismo,
nella New Age e nell'indagine sul paranormale
Il presupposto dell'occultismo è che esista una natura nascosta, "al di là
della comune coscienza conoscitiva", un qualcosa di "essenziale-vitale che si
vorrebbe vivo e invece sembra perduto" . Ecco come si arriva a teorizzare la
coscienza occulta.
Guglielmo Marino nell'opera omonima raccoglie numerosissime riflessioni
sulla coscienza (di alterno valore e interesse), soprattutto nel "Quinto
convegno: psicosintesi e coscienza", nel quale cita lo Zen e le teorie di Roberto
Assagioli e molto altro, con uno stile a tratti oracolare, ermetico ed esotico. È
impossibile dar conto compiutamente delle teorie di Marino. Cito solo alcuni
spunti: "Quando la psichiatria sarà diventata psicologia applicata scopriremo
con stupore un mondo che ora non possiamo neppure supporre o immaginare.
105
Riusciremo a diventare talmente padroni di tutte le parti del nostro cervello
che, praticamente, il novanta per cento delle invenzioni del progresso odierno
resteranno (sic) inutilizzate, perché il pensiero telepatico è più rapido del
telegramma. Il giorno in cui l'uomo potrà disintegrare il suo corpo, non avrà
più bisogno di aerei a reazione" (p. 205-206).
Passa in rassegna alcuni autori (Freud non va bene, Jung sì, Adler poteva
fare meglio, Marx è una stortura mentale, eccetera) per arrivare - molte
pagine dopo - a un "Colloquio con la propria coscienza" (Ottavo convegno,
Commedia in un atto; personaggi: Ognuno; Personalità; e Coscienza, sorella di
Personalità) nel complesso divertente per il suo valore scenico più che filosofico
(pp. 259-271).
Nel libro può capitare di incontrare affermazioni interessanti come "Amore
è la più alta coscienza interiore cui l'uomo possa adire" (p. 207) sui cui in
seguito però l'autore si sofferma a elucubrare.
In questo breve viaggio tra testi esoterici ho incontrato un altro testo che
dimostra l'importanza del concetto di coscienza nell'esoterismo: La coscienza
parla di Ramesh S. Balsekar , già direttore generale della Bank of India, in
seguito discepolo di un guru (Nisargadatta Maharaj) che lo ha portato "a
sperimentare dopo pochi mesi la Grazie della comprensione intuitiva".
Il messaggio di base dell'opera (stesa sotto forma di dialogo, come nella
tradizione sapienziale), è che "Tutto ciò che c'è, è coscienza" con la postilla che
"la comprensione intuitiva di queste poche parole è quel che segna la
differenza tra il cercatore e il jnani , tra chi desidera raggiungere l'illuminazione
e chi può arrendersi totalmente a Cio che È, al gioco (lila) dell'universo, avendo
compreso che non esiste un 'io' che possa illuminarsi".
Un passo tra gli altri, dà l'idea del tono apodittico, del retroterra e della
direzione teorica: "Dio e la Coscienza sono la stessa cosa? Se non lo sono qual
è la differenza?" domanda l'interlocutore di Balsekar. Risposta "Nessuna. Non
c'è differenza. Sono solo nomi. Assoluto, Nirvana, Dio, Soggetto eterno,
Consapevolezza… comunque tu voglia chiamarlo. Tutto ciò che c'è, è Quello. Il
nome che gli dai è irrilevante " (p. 249).
Sul problema della natura della coscienza, del suo rapporto con Dio,
tornerò più avanti tentando ragionamenti con ben altri strumenti analitici e
prudenza metodologica. Balsekar è uno dei tanti autori che più scrive (270
pagine) e meno convince.
È importante considerare le critiche che gli scienziati muovono agli
"indagatori del paranormale". Una bella sintesi di tali obiezioni, oltre al libro
ben noto di Piero Angela, Viaggio nel paranormale, , è un sito del Comitato
italiano per il Controllo delle Affermazioni nel Paranormale (CICAP) che mette a
106
confronto i risultati della moderna scienza del cervello con le affermazioni del
paranormale, tra cui le percezioni extra-sensoriali e la coscienza pre-natale e
post-mortem. Mette in guardia cioè dal credere facilmente in "menti
universali", reincarnazioni, al famoso "90 per cento inutilizzato della mente"
che definisce "ruota di scorta cerebrale, che fa la fortuna di psicologi poco seri
e dei loro corsi di auto-miglioramento; che va bene come metafora del fatto
che pochi di noi sfruttano pienamente i propri talenti, ma non deve servire
come rifugio per gli occultisti che cercano una base neurale per il miracoloso".
Contro il fraintendimento dell'occultismo si schiera V. Frankl. All'idea che
esista un sapere inconscio di Dio, che porterebbe a un inconscio onnisciente o
perlomeno capace di conoscere più dell'Io stesso, egli oppone che in realtà non
soltanto l'"inconscio non è divino, ma neppure gli appartiene alcun attributo
divino" [Frankl, 1990, p. 74]. Tale fraintendimento si deve a una metafisica
precipitosa e niente affatto ponderata.
La coscienza nell'esoterismo
Il concetto di coscienza ha un grande spazio nell'esoterismo, che si basa
tutto sul tentativo si ampliare la conoscenza interiore.
Cito uno solo tra gli innumerabili materiali che si possono reperire
sull'utilizzazione esoterica della coscienza. È un sito Internet: "Vita universale.
La via interiore per adempiere passo dopo passo i (sic) Dieci Comandamenti e
il Discorso della Montagna" .
"La via Interiore ci aiuta a riprendere coscienza del nostro vero essere,
dell'eredità divina insita in ognuno di noi. Possiamo così liberarci da
aggressività, da odio, inimicizia, dall'abitudine di giudicare gli altri". Così
appoggiandosi - in modo sfacciato e fondamentalista - al nome di Gesù Cristo
viene proposto il "Il decorso della Via Interiore" che deve iniziare con "corso
preparatorio per ampliare la coscienza secondo il cristianesimo delle origini,
nella consapevolezza di Geù, il Cristo […] a questo corso seguono i i quattro
livelli della scuola intensiva": il livello dell'Ordine, il livello della Volontà, il
livello della Sapienza, il livello della Serietà. Segue la pubblicità al libro La vita
Interiore ("pagg 1390"…), alle musi-cassette con esercizi di interiorizzazione e
musica per il sottofondo e videocassetta con le spiegazioni per gli esercizi. Il
tutto con prezzi per in vista e offerte (senza sconto)!
Tutto ciò ricorda molto il fenomeno della New Age, che ha attraversato non
solo la musica, le arti, la filosofia e la religione, ma anche il mondo
dell'indagine scientifica (o parascientifica).
107
Sullo sconfinato e indelimitabile mondo della New Age rimando
direttamente allo studio recentissimo, completo e efficacissimo di M.
Introvigne, il massimo studioso italiano di nuove religioni, New Age & Next Age
.
La psicologia transpersonale
"La psicologia transpersonale si è imposta come una "quarta forza", dopo la
psicanalisi freudiana, il comportamentismo e la psicologia dinamica. La
prospettiva inaugurata da questa recente tendenza vuole ampliare gli orizzonti
della ricerca psicologica, estendendo l'esperienza della vita interiore a nuove
dimensioni di conoscenza, come la creatività, la saggezza orientale e
occidentale e un benessere psicofisico e olistico". Così definisce la "psicologia
transpersonale" un testo introduttivo di Arturo De Luca .
I nuovi modelli di conoscenza e di esperienza sono quelli del cosiddetto
"Potenziale umano" , una gamma assai vasta di capacità che normalmente noi
non usiamo nella vita quotidiana.
"La psicologia transpersonale si è sviluppata sulla scia della psicologia
umanistica, una tendenza moderna che negli anno '60 aprì nuovi orizzonti della
crescita personale, grazie all'opera di Abraham Maslow e Anthony J. Suitch"
[De Luca, 1995, p. 3].
De Luca ricorda anche Ken Wilber e il suo "modello dello spettro", "un
tentativo ambizioso di unificare tutti gli stati di coscienza e i livelli di realtà in
una concezione in cui i contrari coincidono" (p. 5).
Come lavora la psicologia transpersonale? "Affianca al lavora analitico e di
scandaglio della sfera inconscia personale un nuovo approccio alle cosiddette
regioni transpersonali […] Sono utilizzate varie tecniche: la visualizzazione, il
dialogo con le "maschere" dell'anima e con i nostri conflitti, l'immersione nei
sogni e nelle fantasie, la drammatizzazione. Tutte queste procedure devono
essere, tuttavia, unificate in vista del raggiungimento di una sintesi finale:
l'espansione della consapevolezza" (p. 7).
Ciò fa pensare che in ciò vi sia un fondamento di pretesa neo-gnostica.
Attualmente sono numerosissimi i siti web dedicati a questa disciplina,
alcuni con un'aura di serietà, altri molto meno credibili.
Livelli di coscienza e "Human Consciousness Project"
108
Uno interessante, giusto per fare un esempio, è quello dell'Associazione
Italiana di Psicologia Transpersonale (Aipt) dove viene citato lo "Human
Consciousness Project", "uno sforzo volto a realizzare una mappa dei vari stadi
della coscienza umana, che testimoni come lo stato dell'io ordinario,
considerato sano e normale, è in realtà distorto e illusorio, e come ogni essere
umano possieda nel suo inconscio potenzialità di conoscenza e di virtù che,
attualizzate nella coscienza, cambiano l'idea separata e limitata di sé, del
mondo e del significato dell'esistenza, producendo benessere e azione retta" (si
veda http://www.mclink.it/assoc/aipt/ page22.html).
Tale progetto viene detto - senza modestia - più importante dello "Human
Genome Project". Dico senza modestia, non perché non creda anch'io che
l'analisi della psiche e dell'interiorità sia più importante dell'aspetto biologico
dell'uomo (e forse in ciò sono inconsapevole erede della metafisica), ma perché
gli strumenti di analisi e di studio proposti dalla psicologia transpersonale e
tutto l'ambiente in cui pesca, a cui viene proposto e da cui viene propugnato,
ha spesso poco di scientifico, razionale, sistematico.
"Lo stato di coscienza vigile o lucido è caratterizzato dalla consapevolezza
di sé e dall'attenzione all'ambiente, che sono le strutture fondamentali della
vita psichica [...] qualsiasi disturbo [...] influisce su tali strutture,
determinando un arretramento ai livelli inferiori della vita psichica con
manifestazioni che vanno dal torpore allo stato crepuscolare, confusionale o
comatoso" [DPL, 1992, p. 235].
Tali differenziazioni in livelli di vita psichica o stati di coscienza, sono alla
base delle discipline di meditazione di origine orientale e ad esse alle recenti
ricerche neurologiche si riallaccia la psicologia transpersonale.
Nel libro di De Luca c'è un elenco esplicito degli stati di coscienza, che
sarebbero ventiquattro: fantasticherie (rêverie), meditazione, contemplazione,
concentrazione, ispirazione, intuizione, attivazione, stato ipnagogico, stato
ipnoide, ipnosi, sonnambulismo, assopimento, sonno, risveglio naturale,
risveglio brusco, perdita della cognizione di spazio e tempo, scissione della
coscienza, sub-personalità, distacco dal corpo, ansia e angoscia, stato di shock,
regressione, estasi, esperienza mistica [De Luca, 1995, pp. 86-88].
Ciò è molto interessante ed è encomiabile lo sforzo di analizzare il più
precisamente possibile la vita della coscienza in tutte le sue fasi e dimensioni,
purtroppo nell'opera in questione le definizioni sono vaghe, danno per acquisiti
fenomeni che in realtà sono discussi e non si utilizza e indica bibliografia
scientifica.
L'IPNOSI REGRESSIVA E LA METEMPSICOSI
109
Siamo già vissuti nel passato? Vivremo ancora nel futuro? Da migliaia di
anni gli uomini si pongono queste domande, senza però trovare una risposta
sicura. Sottoposti a ipnosi, molti individui "regrediscono nel passato",
ricordando - o credendo di ricordare - esperienze di vite precedenti, spesso
appartenenti a epoche lontanissime. Chi rivista il proprio passato prova
nostalgia e rimpianto, ma, tornato al presente, si scopre più incline ad
accettarlo.
Raymond A. Moody jr., che ha insegnato etica, logica e filosofia del
linguaggio e si è poi laureato in medicina, dedicando anni di ricerca e indagine
alle cosiddette "esperienze di pre-morte" (NDE, Near Death Experencies) ,
ammette che "non è facile trarre conclusioni scientifiche dalla mia ricerca, per
sua stessa natura aneddotica, in quanto si basa sui racconti della gente.
Spesso non c'è modo di verificare questi racconti … Così come, in definitiva,
non c'è modo di spiegarsi tutti i fattori psicologici connessi: fino a che punto
queste cognizioni sono "roba vecchia" relegata nel subcosciente? Fino a che
punto si tratta di problemi reconditi che si manifestano come vite precedenti?
Veramente non c'è modo di stabilirlo.
Non esistono prove per la reincarnazione
Dopo tanto lavoro mi piacerebbe poter segnalare qualcosa che davvero
costituisse la prova della reincarnazione, ma non sono in grado di fare una
simile istanza. Come sottolineano i filosofi del metodo scientifico: "le istanze
straordinarie richiedono prove straordinarie". Per quanto riguarda la
reincarnazione, nessuno finora ha fornito prove del genere.
La mente umana è allettata dall'idea della reincarnazione, perché questa
conferisce alla vita il senso di un processo conoscitivo" .
"Tuttavia, proprio perché ci piacerebbe credere nella reincarnazione,
dobbiamo essere estremamente guardinghi di fronte alle osservazioni e ai dati
che ci vengono riferiti e che apparentemente appoggiano questa fede" [Moody,
1990, p. 208].
"Come medico non posso né escludere né sostenere che le regressioni
siano la prova della reincarnazione. Ci sono psicologi e psichiatri convinti che si
tratti di drammi creati dalla mente per affrontare meglio certe situazioni. A me
piace definirlo il linguaggio dell'inconscio. Un linguaggio che tratta i problemi
metaforicamente, invece che direttamente. Per creare queste metafore la
mente attinge a tutte le risorse possibili" [Moody, 1990, p. 93].
Le spiegazioni possibili della regressione al passato
110
"Secondo me, le esperienze regressive sono più comprensibili se viste nel
contesto della realizzazione del processo storico da parte dell'umanità". Alla
domanda: "Se si facesse un processo per stabilire se esista o meno la
reincarnazione, cosa concluderebbe la giuria? Credo che il verdetto sarebbe a
favore della reincarnazione: in fondo, queste esperienze regressive sono
troppo stupefacenti per poter avere una spiegazione diversa. A livello
personale, l'esperienza ha alterato il mio modo di pensare" [Moody, 1990, pp.
209-210].
Tra le possibili spiegazioni della regressione al passato Moody ricorda la
criptomesia: "il ricordo di qualcosa che era sepolto nei recessi della memoria quando riaffiorano, questi dati emergono come prodotti creativi, i che significa
che ci sembrano creati da noi, e non ripescati dalla memoria" (pp. 155 ss.); la
xenoglossia: "ci sono persone che, sottoposte a ipnosi regressiva, cominciano a
parlare una lingua "diversa", a volte si tratta di una lingua comprensibile, come
il francese o il tedesco, altre volte è una lingua che non si capisce, anzi non è
affatto una lingua ma soltanto un"farfugliamento"" (pp. 160 ss.); e anche il
sonno ipnagogico: la condizione mentale a metà tra la veglia e il sonno, "noto
come stato di dormiveglia, nel quale non si è né addormentati né del tutto
svegli e nel quale si hanno allucinazioni che sono diverse dai sogni, l'individuo
osserva ciò che il subconscio gli somministra, ma è tuttavia consapevole della
realtà che lo circonda" (pp. 162 ss.), tale condizione viene detta anche dei
cosiddetti "sogni lucidi" .
"Troviamo in questi tre fenomeni la spiegazione di tutte le regressioni al
passato? Credo di no. Per quanto contribuiscano a spiegare certe
caratteristiche insite nella ricerca di una vita precedente, questi fenomeni sono
presenti in minima percentuale, in tali esperienze" [Moody, 1990, p. 165].
"Oggi la comunità medica è pronta ad ammettere che c'è una gran parte
del rapporto mente/corpo che ci sfugge, e ad ammettere l'esistenza di una
quantità di fenomeni affascinanti, dei quali solo alcuni possono essere
riprodotti in laboratorio", quali, per esempio, le stimmate, la "morte da
malocchio" e le ipnosi regressive [Moody, 1990, pp. 73 ss.].
Sul rapporto tra regressione e terapia mentale Moody specifica "I terapeuti
della regressione che credono nella reincarnazione hanno una visione
metafisica della malattia", inoltre il fatto che "la regressione al passato riesca a
curare certi malesseri fisici fa pensare che si tratti piuttosto di disturbi mentali
del tipo delle fobie" [Moody, 1990, pp. 76-77].
Sul rapporto tra indagine sulla reincarnazione e pensiero cristiano Moody è
consapevole delle difficoltà, ma "la reincarnazione non intende affatto farsi
beffe del pensiero cristiano che parla di ricompensa e castigo, di paradiso e
d'inferno. Piuttosto, la reincarnazione offre la speranza del rinnovamento in
una vita successiva imperniata sulla convinzione che ogni inizio venga da una
fine, e così via. Tale convinzione è l'antitesi del pensiero cristiano [Moody,
1990, pp. 121-122].
111
parte seconda
Neuroscienze e neurofilosofia:
le prospettive della ricerca
VI
La dimensione della coscienza nelle neuroscienze
Che cosa significa essere dotati di una mente, essere consapevoli, avere
coscienza di sé? A tali questioni fino a poco tempo fa erano soliti rispondere i
filosofi. Gli scienziati di fronte al problema della mente, si ritraevano timorosi.
Ma l’avvento delle neuroscienze sembra aver capovolto tale prospettiva. Negli
ultimi anni le conoscenze sul cervello hanno cominciato ad accumularsi a un
ritmo esplosivo
Si sono moltiplicate ricerche - per citarne alcune - sul metabolismo del
cervello [cfr Pellegri, 1999]; sulla sindrome di Williams [cfr Lenhoff – Wang –
Greenber – Bellugi, 1999] che sembrano poter aiutare a capire il modo in cui è
organizzato il cervello ma permetteranno anche di vedere sotto una nuova luce
i "ritardati mentali"; sulle sinapsi e i meccanismi della memoria (cfr D’Angelo –
Rossi – Taglietti, 1999); sulla memoria e l’apprendimento delle lingue [cfr
Aglioti – Fabbro, 1999]; sui disturbi del comportamento (attention-deficit
hyperactivity disorder, ADHD) e le disfunzioni genetiche dello sviluppo di
circuiti cerebrali [cfr Barkley, 1999].
Ed è tale oggi la mole di ricerche, pubblicazioni, teorie (più o meno
abbozzate), risultati sperimentali da mettere in difficoltà - anche se le
propsettive di buona riuscita perciò stesso si fanno maggiori - chi voglia
raccapezzarsi sulle direzioni che il mondo scinetifico sta prendendo nella sua
ricerca di comprensione del funzionamentero del cervello e della mente umani.
Un'idea delle varie posizioni, della ocmplessità degli studi e della inconciliabilità
di alcune posizioni si può avere dalla lettura dell'antologia di brevi saggi sulla
112
nerurobiologia, sull'intelligenza artificale e la scienza della mente L'automa
spirituale. Menti cervelli e computer a cura di G. Giorello e P. Strata .
L’oggetto più complicato dell’universo, il nostro cervello, comincia a svelare
i propri segreti.
Ma è scientificamente possibile comprendere la mente?
Uno dei maggiori esperti al mondo è Geral Edelman, premio Nobel per la
fisiologia e la medicina (1972), direttore del Neurosciences Institute di San
Diego, che propone un approccio pluridisciplinare al problema del mentale, che
coinvolge la fisica, l’embriologia, la morfologia, la medicina, la psicologia.
L’epoca moderna ha rimosso la mente dalla natura
"La biologia … rientra nel campo della ricerca quando vi rientrano le altre
scienze. Ma essa non può certo dispensarci da un approccio filosofico al
problema del mentale.
Con Galileo, e poi con Cartesio, l’epoca moderna ha rimosso la mente dalla
natura. La fisica matematizzante di Galileo si è sviluppata dalla critica
dell’eredità aristotelica e ha concepito l’universo come un oggetto descrivibile e
osservabile. … Persino oggi, dopo la rivoluzione einsteiniana e l’avvento della
meccanica quantistica, la procedura galileiana non è stata spazzata via. [Ma]
per fare fisica non si deve tener conto della coscienza e delle motivazioni
dell’osservatore. La mente resta ben lontana dalla natura. … È nel corso del XX
secolo che la fisiologia e la psicologia hanno riportato la mente nella natura. E
soltanto recentemente, con l’avvento delle neuroscienze, il cervello e la mente
dell’uomo sembrano disvelarsi nella loro estrema complessità, biologica,
psicologia e filosofica" [Carli, 1997, pp. 8-9].
La scienza del cervello, e della mente, deve necessariamente stabilire delle
relazioni con la filosofia. … [Ma] non tutte le teorie filosofiche riguardanti la
mente sono condivisibili dalla prospettiva scientifica … ipotesi di tipo
trascendentale o metafisico, poiché i fatti stessi della biologia ci portano a
concludere che la mente non è trascendentale. E non sono condivisibili le teorie
funzionaliste, che sostengono uno stretto parallelismo tra la mente e il
programma di un calcolatore".
Osservando le ramificazioni dei neuroni e i loro collegamenti sinaptici "si
deve riconoscere che l’organizzazione e il funzionamento del cervello umano
non hanno nulla a che vedere con una centrale telefonica, né con un
calcolatore. … Il computer non è un modello del cervello. … Tuttavia il
computer è senza dubbio uno strumento essenziale per fornire una
modellizzazione del cervello. … Darwin 4, la versione più recente del nostro
robot, … è in grado di compiere operazioni caratteristiche della coscienza
113
primaria, e nulla ci impedisce di pensare che in futuro potremo produrre una
coscienza superiore artificiale.
"Se consideriamo il nostro cervello secondo la teoria di Darwin lo possiamo
vedere come l’evoluzione di una popolazione di neuroni, nella quale
sopravvivono quelli che sono in grado di adattarsi ai cambiamenti
dell’ambiente esterno. … I fatti stanno oltre i modelli meccanici della mente, e
la questione centrale della mente e della coscienza sta nell’individualità: ogni
individuo ha una propria storia, unica e irripetibile, e questa non può essere
simulata da un calcolatore" [Carli, 1997, p. 9].
"La nascita di nuove discipline scientifiche e lo sviluppo di nuove visioni del
mondo sono spesso dovuti e determinati dall’utilizzo di nuove tecniche
sperimentali. Le concezioni del cervello e della mente dipendono dalle nostre
capacità di esaminare sperimentalmente il sistema nervoso, e la neuroscienza
è un ottimo esempio di questa dialettica tra esperimento e teoria. … Le
tecniche tradizionali di elettrofisiologia permettono di studiare l’attività
contemporanea solo di un numero molto limitato di neuroni. Per questa
ragione, la messa a punto di tecniche sperimentali per l’analisi di reti nervose,
note in letteratura come tecniche di multisite recording o registrazione
simultanea, costituisce una delle frontiere più affascinanti nell’evoluzione delle
neuroscienze. … Lo sviluppo di moderni fotosensori e di opportune sonde
chimiche permette … di ottenere immagini che caratterizzano l’attività elettrica
di molti neuroni simultaneamente e che consentono di studiare la dinamica di
una rete nervosa" [Canepari – Torre, 1996, p. 82].
Tali tecniche sono note come tecniche di imaging, e l’idea di applicarle alle
dinamica dei processi biologici risale agli anni settanta.
"Alla luce delle nuove prospettive di indagine sperimentale … si possono
prevedere, nel prossimo futuro, significativi progressi nella nostra
comprensione di come il cervello funzioni e come nozioni astratte possano
risultare rilevanti per le neuroscienze" [Canepari – Torre, 1996, p. 87].
Lo stesso ottimismo è condiviso da altri ricercatori "Non è eccessivamente
ottimistico ritenere che nei prossimi anni potremo chiarire del tutto uno tra gli
enigmi più difficili e affascinanti della moderna scienza della mente e del
cervello": il perché ci sia la lateralizzazione nei vertebrati, come si sia
sviluppata, differenziata tra le varie razze animali e che funzioni abbia
[Vallortigara – Bisazza, 1997, p. 63].
La Tomografia ad Emissione di Positroni (PET)
Fornisco una breve descrizione delle tecniche diagnostiche e di ricerca
citate nell'introduzione: la PET, la RMN e gli sviluppi dell'elettroencefalografia
(microelettrodi).
114
Nella Tomografia ad Emissione di Positroni (Positron emission tomography)
vengono somministrati al paziente dei composti fisiologici contenenti opportuni
isotopi radioattivi, che non sono dannosi perché la loro radioattività è minima e
di brevissima durata.
In questi composti alcuni atomi sono stati sostituiti ("marcatura") dai
corrispondenti isotopi radioattivi, dotati di molto breve emivita (periodo di
dimezzamento della quantità nell'organismo e della durata dell'emissione
radioattiva), di qualche minuto al massimo.
"Gli atomi radioattivi utilizzati nella PET decadono emettendo positroni ... [i
quali] perdono la loro energia cinetica dopo breve percorso e raggiunto lo stato
di riposo interagiscono con gli elettroni. Le due particelle vengono annullate e
la loro massa viene convertita in due fotoni" [Gregory, EOM, 1991, p. 400 ss.]
che vengono rilevati da una apposita apparecchiatura (che registra solo i fotoni
emessi contemporaneamente) e indicano la presenza della sostanza marcata
radioattivamente.
Con una apparecchiatura computerizzata e tomografica - che produce
immagini del corpo per singoli strati o a tre dimensioni - si mette in evidenza la
localizzazione esatta della porzione cerebrale in funzione dove la sostanza
marcata è concentrata.
E ciò perché le aree attive consumano una maggiore quantità di sangue,
ossigeno e sostanze nutritive ed energetiche, tra le quali quelle marcate che
emettono positroni.
Il risultato è che si ottiene una correlazione anatomo-funzionale tra una
determinata attività del soggetto e l'area cerebrale dove essa si svolge.
La Risonanza Magnetica Nucleare (RMN)
È chiamata anche Risonanza Magnetica Funzionale. Con essa, come con la
semplice TAC (Tomografia Assiale Computerizzata) ma con migliore
definizione, si ottengono solo immagini morfologiche e non dinamiche, ovvero
senza informazioni sull'attività.
Solo con la PET, che si avvale delle nozioni anatomiche e radiologiche delle
altre tecniche di indagine cerebrale (TAC, RNM), si può oggi, avviare una
efficace mappatura del cervello.
Un esempio, che pare scherzoso eppure è estremamente serio, è quello di
un'indagine recentemente conclusa sul solletico. Si voleva capire per capire
come mai se veniamo solleticati nei punti sensibili (pianta dei piedi o ascelle),
non riusciamo a trattenere le risate mentre l'autosolletico non fuinziona. Sara
115
Jayne Blakemore, neuroscienziata dell'Università di Londra ha sottoposto al
solletico di piume, dita meccaniche e altri strumenti per quattro giorni sei
soggetti (volontari…) tenendoli collegati a una macchina per la Risonanza
Magnetica. La conclusione è che il solletico autoinflitto non funziona perché
manca l'elemento sorpresa: la parte del cervello che cura il coordinamento dei
movimenti (il cervelletto) manda un messaggio a quella dove risiede la
sensibilità al solletico (la corteccia frontale) chiedendo - in parole povere - di
ignorare lo stimolo .
L'Elettroencefalogramma
L'elettroencefalogramma invece registra l'attività elettrica cerebrale,
traducendola in onde su un grafico, che sono caratteristiche di attività
spontanee o stimolate, di stati di coscienza, di certe condizioni patologiche, ma
senza distinguere pensieri o emozioni, o aree interessate.
Si esegue appliacndo degli elettrodi sul cuoio capelluto e derivandone le
correnti cerebrali; oppure a cranio aperto, cogliendo l'opportunità di interventi
neurochirurgici, inserendo dei microelettrodi nelle zone cerebrali delle quali si
intende determinare la funzione. Stimolandole con opportune correnti se ne
osserva l'effetto e si può anche lavorare con la collaborazione del paziente
sveglio, sfruttando la insensibilità dolorifica - apparentemente paradossale del tessuto cerebrale.
"Una gran parte delle nostre attività quotidiane viene svolta senza una
consapevolezza diretta: anzi, sarebbe poco economico dover riflettere su
processi che possono essere trattati in modo automatico, una volta che sono
diventati compiti di routine come, ad esempio la costrizione pupillare o
l'accomodazione del cristallino dell'occhio. Il cervello può riservarsi soltanto
una piccola parte delle sue capacità per quelle attività che costituiscono
globalmente il materiale per l'analisi introspettiva dei processi mentali. Lo
studio dei pazienti con "visione cieca", o della memoria inconscia, o dei pazienti
con cervello diviso, non soltanto evidenzia quali aspetti della percezione, della
memoria e di altre attività "cognitive" possono essere separate dalla coscienza,
ma può anche permettere un'analisi empirica dei confini funzionali di queste
aree" [Gregory, EOM, 1991, p. 330].
La corteccia cerebrale (3 millimetri di spessore) contiene almeno 100
miliardi di cellule nervose. Il resto dei due emisferi è composto da filamenti
(assoni o cilindrassi) che si sviluppano tra la gestazione del feto e i primi due
anni di vita.
La cosa interessante è che il 90% dei collegamenti tra le cellule si sviluppa
dopo la nascita, entro i primi due anni di vita, proprio nel periodo in cui si
sviluppa, prende forma, si evidenzia la coscienza.
116
Dunque ancora una volta appare l'inseparabile fondazione neuronale della
coscienza.
Per il suo sviluppo concorre naturalmente il corredo genetico - e per questo
tutte le coscienze si assomigliano e tutti gli uomini ce l'hanno, intesa in senso
etico o estetico o cognitivo - ma anche l'ambiente - e per questo ogni
coscienza è infinitamente diversa dalle altre.
Un senso primordiale
"Si comincia a capire che la metafora (inadeguata) del cervello come
elaboratore d'informazione dev'essere allargata a dismisura: è il corpo (anzi il
corpo immerso nel suo più ampio contesto, anzi è l'universo stesso) a essere
un elaboratore d'informazione. Non solo, ma è anche un produttore di senso,
un senso primordiale, radicato nelle particelle e negli atomi della fisica, nelle
pietre, nei pianeti, nelle molecole e negli organi della biologia; un senso che
precedette di molto la coscienza, un senso che attendeva fin dall'inizio dei
tempi di essere salutato dall'intelligenza del mondo quando fosse diventata
consapevole, attraverso l'evoluzione, nell'uomo. Con l'uomo, il mondo
estroflette un occhio e si guarda" [Longo, 1999, p. 33].
Ciò ricorda molto
precedentemente.
il
pensiero
di
T.
De
Chardin,
che
ho
citato
La storia della civiltà (in particolare della scienza) occidentale si può
interpretare come un lungo tentativo di tradurre l'intelligenza e il senso
preconsci, primordiali e radicati nel corpo nelle forme e nel linguaggio
dell'intelligenza e del senso riflessi, consapevoli e, da ultimo, razionali e
distaccati. E ciò che accade a livello filogenetico e storico accade a livello
ontogenetico: venuto al mondo con un corpo che sa adoperare, solo più tardi
l'individuo ne comprende e ne regola l'uso in modo riflesso e cosciente; ma il
corpo aveva il suo senso e uso prima che fosse avvertito. Lo stesso accade per
la capacità linguistica: perché la grammatica segue l'uso della lingua; e via
dicendo" [Longo, 1999, p. 33].
La corteccia cerebrale come costante biologica nei mammiferi
La corteccia cerebrale umana è uno strato di cellule nervose e tessuti di
sostegno ripiegato in profonde circonvoluzioni. Insieme alle sue fibre di
connessione, essa occupa buona parte del volume dell'encefalo umano. Tutti i
mammiferi ne sono provvisti e il suo spessore è una delle grandi costanti
biologiche. Per esempio, sebbene l'elefante abbia un cervello centinaia di volte
più grande di quello di un topo, la sua corteccia è solo tre volte più spessa
[Glickstein, 1992, p. 62].
117
Oggi sappiamo che le diverse aree corticali differiscono per struttura e
funzione, ma per raggiungere l'attuale livello di conoscenze sono stati
necessari secoli e secoli di ricerche, e molto è ancora da scoprire.
Comprendere la storia di tale evoluzione può aiutare a trovare una soluzione ai
problemi tuttora aperti.
"L'unità base, il neurone, non differisce nelle sue proprietà essenziali nelle
forme animali più semplici e nelle più complesse: è dotato della capacità di
andare incontro a modifiche reversibili sotto la pressioni di fattori esterni" [Levi
Montalcini, 1999, p. 45].
Però "Le specie inferiori possono imparare ad associare solo una ristretta
gamma di stimoli; gli esseri umani sono in grado di associare qualsiasi cosa
percepiscano" [Levi Montalcini, 1999, p. 58].
Un esempio di pseudoscienza: la frenologia
La storia della scienza e delle ricerche neurologiche ci insegna come sia
facile cadere nelle tentazione del riduzionismo, della semplificazione indebita e
fuorviante. Per esempio la vicenda della frenologia, che fu fondata da Franz
Gall e dai suoi discepoli, agli inizi del XIX secolo.
Gall riteneva che le differenze nello sviluppo della corteccia influissero sulla
conformazione del cranio. In altri termini era convinto che se a una certa
regione del cervello corrispondeva una determinata facoltà, ne doveva
conseguire un ampliamento dell’area corticale in questione nonché la
formazione di una prominenza nella parte corrispondente del cranio.
La frenologia era una pseudoscienza che, per un primitivo grossolano
tentativo di localizzare delle funzioni cerebrali, dallo studio delle prominenze
craniche pretendeva di risalire al carattere, alle capacità intellettive e alla
personalità di un individuo [Glickstein, 1992, p. 64].
RODOLFO LLINAS E IL FUNZIONAMENTO DELLA COSCIENZA
Rodolfo Llinas, neuroscienziato colombiano, che lavora nella New York
University, ha consacrato gran parte della propria vita alla comprensione del
funzionamento del cervello.
Ha studiato le popolazioni neuronali, cioè i vari tipi di neuroni e i loro
raggruppamenti, e attualmente si interessa al funzionamento globale del
cervello umano, studiando i meccanismi della coscienza e il modo in cui il
118
cervello simula la realtà esterna. Ha collaborato con la filosofa Patricia
Churchland.
In I segreti della mente ha sintetizzato il risultato delle sue ricerche sulla
natura neurobiologica e sul funzionamento della coscienza.
Un evento cognitivo unico
In assenza di attività cerebrale - esordisce Llinas - ciascuno di noi è morto.
Il cervello è, dunque, l'elemento essenziale della nostra esistenza, noi siamo il
nostro cervello.
Ma qual è la storia naturale del cervello? Come è diventato ciò che è? La
biologia ci insegna che i soli organismi viventi che hanno sviluppato un cervello
o comunque un sisterma nervoso, anche se rudimentale, sono quelli dotati di
attività motoria. Perfino il verme più semplice, o l'invertebrato marino più
primitivo, ha un sistema nervoso. D'altro canto, le piante non hanno sistema
nervoso. E infatti le piante non hanno neppure attività di locomozione.
Ma perché c'è bisogno di un cervello per muoversi attivamente? Perché noi
siamo costretti a spostarci all'interno di una rappresentazione del mondo
esteriore. Non possiamo andare alla cieca, sarebbe troppo pericoloso. Occorre
avere un'idea di quello che c'è nell'ambiente. Il cervello si è sviluppato per
consentire agli animali di muoversi.
La struttura del sistema nervoso dei vertebrati è lo stessa per tutti: un
cervello, un midollo spinale, dei nervi per attivare i muscoli e degli altri nervi
per trasmettere le sensazioni. I vertebrati superiori hanno, oltre al tatto, il
senso della vista, dell'udito, del gusto e dell'olfatto. Questi sistemi sono tutti
molto simili.
Il problema centrale del funzionamento del cervello è come facciamo a
raccogliere tanti frammenti della realtà per generare un'unica immagine.
Alcune parti del sistema analizzano il colore, altre analizzano il movimento, e
altre ancora analizzano il peso o la sensazione tattile. Come sono integrate
tutte queste sensazioni in un'unica immagine della realtà? Come facciamo a
costruire un evento cognitivo unico?
E' un problema, perché quando si esamina il cervello si scopre che i diversi
sistemi sensoriali sono situati in aree differenti del cervello ed esiste una
grande distanza che separa le diverse aree. Questa distanza è enorme, rispetto
alle minuscole dimensioni di un neurone. Come fanno, quindi, questi neuroni a
trovare questi altri neuroni, per costruire, a partire dalle varie percezioni
sensoriali, un singolo evento?
119
Le sensazioni e il dialogo fra talamo e corteccia
Dall'occhio il nervo ottico si dirige per prima cosa verso un centro,
chiamato talamo; quindi, dal talamo, le fibre ottiche raggiungono la corteccia
visiva. Analogamente per l'orecchio, il segnale uditivo passa per prima cosa
attraverso il talamo e quindi raggiunge la corteccia uditiva.
Al problema di come facciano i neuroni della corteccia uditiva a collegarsi ai
neuroni della corteccia visiva, per informarmi, ad esempio, che ho un uccellino
sulla mano? L'immagine è qui e il suono è lì. Come fanno il suono e l'immagine
a trovarsi? Secondo Llinas ci sono solo due possibilità.
La prima possibilità è che il suono attraversi la corteccia per trovare
l'immagine, o viceversa, ma questo è molto difficile, perché fra due aree della
corteccia ci sono delle connessioni che vanno in tutte le direzioni. Allora, qual è
l'altra possibilità?
Se si cambia punto di vista si vede che il talamo si trova al centro e si può
disegnare la corteccia come un grande cerchio che gli gira attorno. Le
proiezioni del talamo verso la corteccia sono, allora, come i raggi di una ruota
di bicicletta. L'immagine e il suono sono entrambe sulla corteccia, si può
andare direttamente dall'immagine al suono, o viceversa, e le due percezioni
forse si incontreranno da qualche parte sulla corteccia. Questa era la nostra
prima possibilità.
Oppure, se il talamo è al centro, come nel centro di una ruota, la
percezione del suono va verso la corteccia e così l'immagine e la corteccia
rinvierà questi segnali al talamo. Quindi le sensazioni non sono collegate né a
livello della corteccia, né a livello del talamo, bensì in questo dialogo fra il
talamo e la corteccia: dal talamo alla corteccia, quindi di nuovo al talamo, e poi
alla corteccia, e poi al talamo, e così via.
Una cosa interessante a questo proposito è che la distanza fra talamo e
corteccia visiva, fra talamo e corteccia uditiva, fra talamo e corteccia somatosensoriale (quella responsabile della sensazione tattile sulla mia mano) è la
stessa in tutti e tre i casi. Quindi è possibile che uno stesso evento attivi
simultaneamente queste tre regioni corticali.
Ciò permette anche di immaginare un processo di collegamento delle
sensazioni che sia temporale piuttosto che spaziale, poiché le informazioni
situate in diverse aree sensoriali della corteccia possono arrivare
simultaneamente al talamo. Se si sente, ascolta e vede un oggetto
simultaneamente, lo si percepisce come un unico oggetto.
La coscienza da 2 a 40 Hz
120
Come può l'attività dei neuroni essere sincronizzata?
I neuroni hanno un corpo cellulare, un assone e dei dendriti. Se con un
elettrodo si misura l'attività elettrica dei neuroni del talamo, si osserva che essi
scaricano regolarmente a una frequenza variabile a seconda del nostro stato di
coscienza. Ad esempio, quando questi neuroni scaricano a una frequenza di 2
Hz, ossia a 2 cicli al secondo, noi siamo addormentati, cioè non siamo
coscienti.
Quando torniamo coscienti, la frequenza con cui i neuroni del talamo
scaricano aumenta fino a 40 Hz, cioè a un ritmo di 40 cicli al secondo. Ciò
significa che questi neuroni scaricano tutti alla stessa frequenza e quindi in
modo sincrono.
Se un neurone collegato a una regione corticale attiva alcuni neuroni a una
frequenza di 40 Hz e un altro neurone collegato a un'altra regione corticale e
ne attiva alcuni neuroni alla stessa frequenza di 40 Hz, queste due regioni
corticali diventano coordinate nel tempo, cioè i loro neuroni scaricano
simultaneamente a una frequenza di 40 Hz.
In queste condizioni, collegare le diverse sensazioni consiste
nell'individuare i neuroni delle aree corticali che scaricano simultaneamente. E',
quindi, molto facile per il nostro cervello riconoscere le aree corticali sincrone,
ed è proprio questa sincronizzazione temporale a produrre la percezione. "E' la
sincronizzazione a produrre la coerenza".
Un'altra nozione importante è che il talamo è composto da due parti. Oltre
a essere interessante, questa divisione rende le cose più facili da comprendere:
c'è una regione centrale, detta "non-specifica", e una regione periferica, detta
"specifica".
Sistema "specifico" e "non specifico"
Il sistema non-specifico riceve gli stimoli provenienti dal tronco cerebrale,
che controlla il sonno, in generale le funzioni corporee, gli impulsi e
probabilmente anche la capacità di attenzione. Il sistema non-specifico ha
funzioni rivolte verso l'interno: è il "sentire" del corpo.
Il sistema specifico guarda, invece, al mondo esterno e riceve dei segnali
grezzi dall'occhio, dall'orecchio, dalla mano e dalle altre periferiche sensoriali.
Ecco dunque - spiega Llinas - come funziona il sistema talamo-corticale:
ciascun neurone del talamo specifico si connette a un neurone corticale e
scarica a 40 Hz. Però i potenziali d'azione sinaptici così trasmessi a questo
dendrite non sono sufficienti per fare scaricare il neurone corticale. Ci vorrebbe
121
un altro stimolo oltre al primo. Infatti anche nella regione del talamo nonspecifico c'è un neurone che si connette allo stesso dendrite del neurone
corticale e che scarica anch'esso a una frequenza di 40 Hz. Quando i segnali
dei neuroni specifico e non-specifico si sommano, il neurone corticale viene
attivato e può quindi scaricare,cioè rinviare il segnale verso il talamo. Il
movimento di "avanti-e-indietro" tra il talamo e la corteccia è causato dalla
combinazione delle attività specifiche e non-specifiche.
Se subiamo un danno a livello del talamo specifico coinvolto nella visione,
diventiamo ciechi, ma non sordi, perché solo una parte del cervello è
danneggiata: quella che va dal talamo alla corteccia visiva. Analogamente, se
abbiamo una lesione nella regione che collega il talamo alla corteccia uditiva,
non possiamo più sentire, ma continuiamo a vedere. Vi è, dunque, una
separazione tra le sensazioni.
Al contrario, se subiamo un danno nel sistema non-specifico, perdiamo in
un colpo solo la vista, l'udito e il tatto. Il sistema non-specifico è, quindi,
indispensabile al buon funzionamento del sistema specifico.
Dunque: il sistema specifico rappresenta il contenuto del mondo, i colori, le
forme, i movimenti, i suoni, invece il sistema non-specifico rappresenta,
invece, ciò che siamo, ciò che facciamo del contenuto, in altre parole è il
contesto. L'uno osserva il mondo, l'altro osserva noi stessi. Il dialogo fra il
contenuto e il contesto non è altro che la coscienza.
I quanti di coscienza
Come può questo sistema collegare tutte le diverse sensazioni prodotte da
un oggetto, come per esempio un uccello? L'immagine dell'uccello, la
sensazione tattile delle zampe sulla mano e il canto stanno in parti diverse
della corteccia.
Le zampe producono uno stimolo da 40 Hz, il suono produce un altro
stimolo da 40 Hz e l'immagine produce un terzo stimolo da 40 Hz. Sono tre
stimolazioni specifiche ma il cervello non vede ancora l'uccello perché manca la
stimolazione non-specifica.
È la stimolazione non-specifica che produce un movimento a onda nella
corteccia. Se i neuroni delle tre parti, quella tattile, quella uditiva e quella
visiva, scaricano insieme allora si combinano a significare "uccello"
Gli assoni del nucleo non-specifico, invece di andare verso punti specifici
della corteccia, si irradiano in tutte le direzioni. E i suoi neuroni sono
organizzati in modo tale da formare un circuito. Esso funziona per 12,5
millisecondi, e poi ricomincia. L'onda si ripete regolarmente, e ogni volta tutto
quello che nella corteccia oscilla a 40 Hz lo si ritrova lì. Ogni onda è un quanto
di coscienza.
122
L'informazione entra, in modo continuo, per esempio dalla retina, e viene
subito suddivisa in pacchetti. Questi pacchetti sono quanti di coscienza.
È come quando si va al cinerma: si vede qualcuno a cavallo, o che spara
con una pistola, non lo si percepisce come un insieme di immagini, ma come
un evento continuo. Ciò significa che il cervello non è in grado di distinguere
tra una sequenza di immagini e un evento continuo.
Pertanto quando si innesca un'onda, si ottiene un'immagine, se ne innesca
un'altra e si ottiene un'altra immagine e così via.. La coscienza, la cognizione,
è un insieme di immagini che si succedono le une alle altre come in un film. I
sistemi specifico e non-specifico mettono in comunicazione tutte le parti del
cervello: dal talamo alla corteccia, dalla corteccia al talamo, con un'onda ogni
12,5 millisecondi.
Il cervello è un emulatore della realtà
All'interno del cervello ci sono molti miliardi di neuroni. E' un numero
enorme, eppure, il sistema funziona come un singolo evento funzionale: la
coscienza.
Ed è interessante che in realtà sono molto pochi i neruoni dedicati alla
vista, all'udito o al tatto. La maggior parte dei neuroni del cervello non si
occupa del mondo esterno. Queste e altre considerazioni ci fanno ritenere che
il cervello sia, fondamentalmente, un sistema chiuso.
"I colori - spiega Llinas - in realtà non esistono indipendentemente da noi,
ma sono l'interpretazione che il nostro cervello fa di particolari informazioni
provenienti dalla retina. Anche i suoni non esistono, ma sono la nostra
interpretazione delle vibrazioni dell'aria. Analogamente, il tatto è qualcosa che
noi produciamo in seguito alla deformazione della pelle.
Tutto questo ci dice che il nostro cervello è un emulatore della realtà,
qualcosa che si è evoluto nel tempo per "imitare" ciò che esiste al di fuori di
noi, o, in altre parole, per costruire una storia. Ma gli elementi di questa storia
esistono da prima della nostra nascita, poiché nessuno ci insegna a vedere i
colori, né a sentire il dolore o le altre sensazioni. Queste facoltà nascono con
noi, proprio come il naso, le orecchie e il corpo. Noi siamo come una coscienza
equipaggiata con un sistema di sensazioni! Il nostro cervello è, dunque, un
emulatore che genera una realtà e che ne verifica l'affidabilità servendosi delle
sensazioni" [R. Llinas, I segreti della mente, 1998].
HERBERT SIMON: LA MENTE, LA RICERCA E IL COMPUTER
123
Herbert Simon, oltre a essere un economista, è uno studioso di scienze
politiche, un esperto di scienze dell'informazione e uno psicologo. Il filo di
congiunzione tra tutte le sue ricerche è stato l'interesse per i processi
decisionali e di risoluzione di problemi nell'uomo. Ha inventato e sviluppato la
teoria della "razionalità limitata", che rimette in discussione la teoria
economica tradizionale, secondo la quale i soggetti economici prendono
decisioni in modo "ottimale". Per questo studio nel 1978 gli è stato conferito il
premio Nobel l'economia. È stato tra i primi a comprendere che i computer
possono essere utilizzati per simulare i processi di pensiero umano.
I suoi studi (dedicati, peraltro, a molti fenomeni cognitivi diversi, tra cui la
risoluzione di problemi, la memoria, l'apprendimento, il ragionamento
dell'esperto e del principiante, e il ragionamento e la creatività scientifici)
hanno rivoluzionato i fondamenti della psicologia cognitiva. Essi sono all'origine
di un nuovo modo di simulare ciò che accade nella mente dell'uomo: la
cosiddetta "rivoluzione cognitiva".
Si è occupato ampiamente dunque delle analogie e le differenze fra
intelligenza del computer e umana e della psicologia della risoluzione di
problemi e natura dell'expertise.
"Il nostro cervello contiene miliardi di neuroni, e un numero ancora più
grande di connessioni tra neuroni. E' un oggetto molto complesso. Il nostro
obiettivo è, in fondo, lo stesso di tutte le discipline scientifiche: prendere
qualcosa che non capiamo e dirci: "Ci deve pur essere un ordine,
un'organizzazione interna in assenza della quale questa cosa non potrebbe
funzionare: cerchiamo di scoprirla". Quando scopriremo il suo ordine nascosto,
allora questa cosa ci sembrerà più semplice; non meno stupefacente, né meno
efficace di prima, ma semplicemente più comprensibile. Questo è lo scopo delle
nostre ricerche sulla mente e sul cervello".
Mente e cervello
Secondo Simon "i primi computer utilizzavano schede perforate come
supporto dell'informazione. Questo ci fornisce una metafora delle relazioni fra
la mente e il cervello: il cervello è un oggetto fisico, come il cartone della
scheda, la mente, invece, elabora delle forme, che sono dei simboli e che
corrispondono alla configurazione dei fori sulla scheda. La mente è, dunque,
rappresentata dalla configurazione dei fori, e non è possibile avere quella
configurazione in assenza della scheda di cartone.
Llinas è di parere diverso: "Io sono il mio corpo, i miei pensieri, i miei
movimenti, i quali sono a loro volta il risultato del lavoro del mio cervello. Io
sono il mio cervello al lavoro.
124
Quando mi addormento, e non sto sognando, io scompaio, non esisto più.
Il cervello sta facendo qualcos'altro. Non sta producendo me. Quando sogno,
produce me usando una certa frequenza. Quando sono sveglio, utilizza un'altra
frequenza".
Non vi è, dunque, dicotomia fra mente e cervello. "Non posso nemmeno
immaginare che cosa potrebbe significare la parola "mente" in assenza del
cervello, poiché la mente è uno stato funzionale del cervello.
Credo che siccome la gente non vuole morire, perché la vita è
meravigliosa, perché essere coscienti è meraviglioso, si è davvero tentati di
separare la mente dal corpo. Così si può negoziare: se saremo stati buoni,
andremo là, se saremo stati cattivi, andremo da un'altra parte".
Ma c'è un problema più fondamentale: c'è relativamente poca differenza
tra un corpo vivo e un corpo morto.
"Si può credere che ciò che noi siamo non si trovi all'interno del nostro
corpo, perché, vivo o morto, il nostro corpo resta lo stesso. Ma questa
impressione denota, in realtà, solo l'incapacità degli esseri umani di distinguere
fra un corpo morto e uno vivo. Storicamente questo senso di inadeguatezza ha
impregnato la nostra cultura, la nostra religione e la nostra letteratura, e per
questo motivo ragioniamo in questo modo" [H. Simon, I segreti della mente,
1998].
La mente e il computer
Qualcuno come Herbert Simon (e tutti i cosiddettti "computazionisti")
ritiene che il computer rappresenti in modo abbastanza utile il funzionamento
del cervello: "tutto mi porta a credere che la mente funzioni come un
computer, che sia un tipo particolare di computer, fatto di materiali diversi dai
computer che conosciamo". La maggior parte dei computer attuali ha
un'architettura centralizzata, l'architettura di Von Neumann, che funziona in
modo prevalentemente seriale. La maggior parte delle attività umane non può
essere facilmente suddivisa in un'esecuzione parallela, poiché generalmente
alcune cose devono essere fatte prima di altre, per cui l'esecuzione in serie è
spesso più appropriata. Malgrado l'entusiasmo di molti per i computer
altamente paralleli, la progettazione di queste macchine è stata molto lunga e
ci sono molti esempi di computer paralleli che non funzionano per niente.
Perciò io credo (se non si tiene conto del parallelismo di funzionamento
della retina e degli organi di senso), che il computer di Von Neumann non sia,
in prima battuta, una cattiva approssimazione dell'architettura complessiva del
cervello umano".
125
Ma molti altri studiosi sono di parere esattamente opposto.
Secondo Rodney Brooks: "ci siamo lasciati fuorviare un po' troppo dalla
metafora del computer, che distingue tra software e hardware. I sistemi
biologici non fanno questa distinzione: la funzione dipende fortemente
dall'ambiente in cui essa ha luogo.
Questa metafora del cervello-macchina è davvero pericolosa. C'è stata
un'epoca in cui il cervello era considerato un sistema idrodinamico, poi è
diventato una macchina a vapore. Quando ero bambino lo si paragonava a una
centrale telefonica! Poi è diventato un computer, poi un computer che opera in
parallelo. Tra un po' diventerà internet!
La tecnologia più complessa viene sempre presa in prestito per l'ultima
metafora del cervello, e non c'è mai fine. In futuro vedremo sorgere altre
metafore in parallelo all'emergere di tecnologie sempre più complesse e
affascinanti".
James McClelland ritiene che "il cervello è una macchina che non
assomiglia a nessun computer. Se è vero che un computer tradizionale può
simulare i ragionamenti logici e algoritmici, io non credo che i processi di
pensiero umani siano sempre logici e algoritmici. Penso, al contrario, che
questi processi siano spesso paralleli, interattivi, sintetici e costruttivi. Tutto ciò
fà sì che, anche se il cervello è una macchina, esso sia molto diverso da un
computer qualunque". Della stessa opinione è Jean Pierre Changeux.
E Llinas aggiunge: "i computer non possiedono un'immagine di se stessi,
non sono concepiti per avere un'immagine di se stessi, sono fatti solo per
elaborare i dati che noi diamo loro, per immagazzinarli e modificarli. Essi
comprendono la sintassi, ma non la semantica, dal momento che non
capiscono quello che fanno. E non comprendono quello che fanno, poiché la
loro esistenza non dipende da ciò" [I segreti della mente, 1998].
Il pericolo del "riduzionismo"
Un tema assai dibattuto è se la comprensione della mente e la descrizione
dei suoi meccanismi possano, in un modo o nell'altro, ridurre il valore
dell'unicità della specie umana.
"Quando Darwin stabilì che tutti gli organismi avevano avuto origine da
un'unica forma di vita - ironizza Herbert Simon - molti hanno pensato che ciò
avrebbe sminuito gli esseri umani. Negli Stati Uniti ci sono ancora persone che
la pensano così, ma la maggior parte di noi non è angustiata dall'idea di avere
un antenato in comune con le altre creature viventi di questo mondo. L'errore
sta nel credere che l'unicità sia importante e che essa sia la fonte del valore
126
dell'uomo. Dovremmo pensare meno alla nostra unicità e più al fatto che
facciamo parte di un universo molto più grande, di un pianeta molto più vasto,
che accoglie molte altre creature".
E aggiunge: "Credo che comprendere noi stessi, e apprezzare i meravigliosi
meccanismi che ci animano, non porti in alcun caso a sminuire la nostra
umanità".
Sui rischi del "riduzionismo" Jean-Pierre Changeux: scrive che "la
conoscenza viene sempre acquisita eliminando e riducendo, in modo da isolare
uno specifico oggetto di studio. In questo senso, ogni impresa scientifica è
necessariamente "riduzionista". Ma non amo che la parola "riduzionismo" sia
usata negativamente per descrivere gli studi sul cervello, poiché ogni tentativo
di comprendere il mondo, ogni impresa scientifica, comporta l'eliminazione e la
semplificazione di informazioni, al fine di scoprire nuove strutture"
Stephen Kosslyn si definisce "materialista non-riduzionista". "E' un po'
come in architettura: non si può parlare di archi, o confrontare lo stile
georgiano con un altro stile parlando solamente di mattoni, pietre e malta. E
non si può costruire un grattacielo solo con i mattoni. Non si potrà sostituire un
discorso sulle rappresentazioni, sugli obiettivi, sui desideri eccetera, con un
discorso sui neuroni, i flussi ionici eccetera. Non credo sia neppure possibile
pensare che un giorno saremo in grado di sostituire un discorso sulla mente
con un discorso sul cervello".
ALCUNE QUESTIONI APERTE
Il mio cervello può comprendermi?
Dalla bella opera multidmediale I segreti della mente traggo molto spunti
per considerare alcune questioni aperte.
Secondo Herbert Simon comprendere il funzionamento teorico della mente,
come si fa in psicologia, ci consente di conoscere i meccanismi del sé. Però
"per capire perché io faccio quello che faccio in ogni dato momento, avrei
bisogno di avere molti più dati di quelli che possiedo sui contenuti esatti della
mia mente, e supporre che essi possano essere completamente accessibili.
Anche se avessi una buona teoria della mente, non credo che sarei in grado di
comprendere il mio proprio comportamento, non più di quanto un fisico che
possiede una buona teoria sui metalli possa prevedere se un pezzo d'acciaio sia
sul punto di rompersi. Sono elaborazioni a livelli di precisione differenti, le quali
richiedono insiemi di dati completamente diversi per funzionare".
127
Esiste il libero arbitrio?
Sempre secondo Herbert Simon l'esistenza del libero arbitrio dipende dal
modo in cui lo si definisce. "Certe persone lo spiegano con l'indeterminazione
quantica, il fatto che le equazioni quantistiche di Heisenberg lascino un certo
margine di incertezza. Io non vedo il rapporto con il libero arbitrio: libero
arbitrio vorrebbe, dunque, dire che i miei atomi possono competere con me?
Dov'è allora il mio libero arbitrio? Forse nel fatto che sono un prodotto del
caso? Ma questo non è il libero arbitrio!
Il libero arbitrio è il fatto che "io" possiedo certe caratteristiche e un certo
numero di conoscenze che riflettono le esperienze della mia vita, io costituisco
un "sistema" in grado di scegliere a ogni dato momento tra più soluzioni, come
ad esempio parlare o tacere. Io trovo sempre più facile parlare che non
starmene zitto! E' questo il mio libero arbitrio; il fatto che "io", ossia l'insieme
degli elementi presenti nella mia testa, possa fare questa scelta. E questa
scelta è il risultato dell'esecuzione di un certo numero di "regole" che non sono
né dettate dal caso, né il prodotto dell'indeterminazione quantica. Ecco, questa
è la mia idea del libero arbitrio".
Secondo Jean-Pierre Changeux: "il nostro cervello contiene una sorta di
spazio per la coscienza, nel quale vengono prese le decisioni. Queste decisioni
derivano da una sintesi fra i segnali provenienti dal mondo esterno e dalla
memoria, in relazione al "sé". Di conseguenza, vengono compiute delle scelte.
"Se è questo ciò che si dice libero arbitrio, allora sì, sono d'accordo che
esista. L'espressione "libero arbitrio" può avere diversi significati. Mi piace la
definizione di Spinoza: "Gli esseri umani pensano di essere liberi fino a quando
sono inconsapevoli delle cause che li determinano"".
Anche secondo James McClelland i comportamenti umani siano totalmente
non-deterministici e sono il risultato dell'incontro spontaneo di un gran numero
di influenze esterne con le condizioni psicologiche del momento,e il risultato
può essere un comportamento quasi completamente casuale. "Perciò, ci può
venire un'idea in qualsiasi momento, per delle ragioni non determinate: era
una delle tante idee possibili in quel momento, ma la sua gestazione non era
preordinata, né completamente predeterminata a priori.
Ciò non implica tanto un libero arbitrio, quanto una mancanza di
determinismo".
La mente è ben adattata all'ambiente esterno?
128
Anche questo è un tema su cui attualmente si dibatte grandemente.
Quanto è davvero evoluta e abile la mente umana?
Per alcuni la mente umana è straordinariamente ben adattata al suo
ambiente e in ogni momento trova il modo per avere a disposizione le
informazioni più appropriate. "Quando si deve prendere una decisione,
generalmente la scelta operata dalla mente è la più saggia possibile. I limiti
che talvolta si osservano nel pensiero umano sono, di fatto, il risultato della
concentrazione della mente sulle informazioni più rilevanti ai fini della decisione
da prendere" (John Anderson).
Secondo Eric Kandel, "anche se i nostri processi mentali sono altamente
imperfetti, noi possediamo delle capacità straordinarie, che non possono che
suscitare stupore e ammirazione. Sono convinto che queste capacità
continueranno a stupirci per i prossimi cinquanta o cento anni".
Il cervello riesce a costruirsi una rappresentazione degli oggetti e della loro
posizione nello spazio visivo esterno a partire da segnali variabili e poco
definiti, e lo fa in un modo al quale nessun sistema robotico attuale può
nemmeno avvicinarsi. Inoltre, riesce a calcolare traiettorie nello spazio, che ci
permettono di evitare di investire oggetti e di provocare catastrofi quando ci
muoviamo nell'ambiente.
Noi risolviamo in continuazione problemi di equilibrio dinamico e di
interpretazione di segnali ambigui: problemi che ogni informatico ben conosce
come quasi del tutto irrisolvibili con le tecnologie attuali.
"Perciò dobbiamo tenere bene a mente queste nostre capacità, che,
nonostante le molte imperfezioni, sarebbe utile considerare come delle
procedure potenzialmente ottimali".
Fino a che punto quello che noi oggi chiediamo alla nostra mente
corrisponde a ciò per cui essa si è evoluta?
Secondo David Servan-Schreiber è notevole che, dal punto di vista
mentale, cognitivo ed emozionale, i nostri antenati avessero una vita
radicalmente diversa dalla nostra, ma che, ciò nondimeno, oggi l'uomo si trova
a dover fare i conti con lo stesso bagaglio anatomico e biologico di cui
disponevano loro.
"E' assolutamente improbabile che il nostro cervello si sia evoluto per
ricordare i numeri telefonici; esso non è mai stato sottoposto a pressioni
evolutive per ottenere prestazioni di questo tipo. Questa necessità ha avuto
inizio circa settant'anni fa, ed è davvero improbabile che abbia esercitato un
impatto di alcun tipo sui nostri geni. E' chiaro che il nostro cervello, proprio
come i ritmi e le modalità del nostro sonno, si è evoluto per far fronte a
circostanze molto diverse da quelle a cui noi lo esponiamo oggi.
129
Ma allora, il cervello è o non è un organo altamente adattato?
Naturalmente lo è, ma non per il tipo di società in cui stiamo vivendo.
Possiamo constatare questi difetti e le conseguenze di questa discrepanza nella
nostra vita di tutti i giorni, dal jetlag all'insonnia cronica, all'iperstimolazione
esercitata su di noi dalla televisione e dalla pubblicità, ai comportamenti sociali
anormali derivanti dalla promiscuità delle interazioni umane e dalla rottura
delle leggi tradizionali di organizzazione gerarchica e sociale".
Rodney Brooks, invece, pensa che l'intelligenza umana, essendo il prodotto
di un'evoluzione in un ambiente complesso, popolato di numerose altre specie
e moltissimi esseri umani, non è assolutamente ottimale. Essa è
semplicemente il risultato di adattamenti locali a condizioni specifiche,
incontrate nel corso dell'evoluzione.
"Sono certo che esistono cose a cui l'uomo è completamente incapace di
pensare, su cui non sa ragionare e che non arriva a comprendere; cose che
forse altre specie, da qualche parte dell'universo, sono in grado di fare e
capire. Viceversa, queste creature potrebbero magari vivere in società
tecnologiche, ma essere del tutto incapaci di pensare a certe cose su cui noi
invece riflettiamo normalmente. Come potrebbe anche darsi che certe specie
siano migliori di noi sotto tutti i punti di vista".
È comunque un problema difficile da affrontare perché "nulla è davvero
ottimale se si definiscono le alternative in modo sufficientemente ampio"
(Herbert Simon). "Il nostro è un mondo molto complicato, di cui la nostra
coscienza vede solo una minima parte. Perfino in questa stanza, per la maggior
parte del tempo noi ignoriamo gran parte degli oggetti presenti.
Noi non ottimizziamo niente, semplicemente decidiamo cosa occorre fare e
troviamo il modo per farlo. A volte troviamo delle buone soluzioni, a volte delle
soluzioni meno buone, e cerchiamo di adottare le migliori. Ma la parola
"optimum" in questa nostra vita non ha molto senso.
Quel che possiamo dire, a proposito della mente, è che essa è ben adattata
nella misura in cui, finora, l'evoluzione è riuscita a renderla tale. E questo ha
consentito, nel bene e nel male, a sei o sette miliardi di persone di vivere
simultaneamente sulla faccia della Terra, almeno fino ad ora. Perciò, in questo
senso, la storia della mente è la storia di un successo. D'altra parte, se si
misura questo successo considerando la velocità alla quale gli esseri umani si
uccidono fra loro, beh, allora si potrebbero trovare dei margini di
miglioramento. In verità, non saprei proprio con quale criterio valutare questo
successo".
JEAN-PIERRE CHANGEAUX: INFANZIA E MATURITÀ DEL CERVELLO
130
Jean-Pierre Changeux ha compiuto i suoi studi in scienze naturali alla
Scuola Normale Superiore di Parigi e ha conseguito il dottorato di ricerca sotto
la guida del premio Nobel Jacques Monod. Dal 1975 è titolare della cattedra di
comunicazione cellulare presso il Collegio di Francia di Parigi e dirige il
laboratorio di neurologia molecolare all'Istituto Pasteur. Ha scittto L'uomo
neurone
Le sue ricerche stabiliscono un legame fra la scienza di base, la biologia e
la medicina, contribuendo alla comprensione dei meccanismi fondamentali
della vita. Esse hanno, inoltre, importanti implicazioni per le applicazioni
cliniche e la farmacologia. E' stato il primo scienziato a isolare il recettore di un
neurotrasmettitore. Inoltre, in collaborazione con Antoine Dranchin, ha
dimostrato come la rete di neuroni del cervello si sviluppi moltiplicando le
connessioni tra le cellule nervose e successivamente eliminando, per "selezione
selettiva", quelle ridondanti [I segreti della mente, 1998].
L'infanzia del cervello
A uno stadio precoce dello sviluppo cerebrale appare una struttura
primitiva: la placca neurale. Essa si ripiega rapidamente su se stessa formando
una sorta di tubo, che in seguito andrà a suddividersi in più vescicole. Durante
questa fase, chiamata "neurulazione", le cellule che sono i precursori dei futuri
neuroni si moltiplicano in modo estremamente veloce. Vi è, dunque, una prima
fase, nella quale si assiste all'acquisizione della forma generale del cervello, e
alla proliferazione e al differenziamento delle cellule nervose.
Aprendo un cranio, vi si trova dentro un cervello. Il cervello è un organo
che pesa circa 1,4 kg e che presenta molte circonvoluzioni, pressoché identiche
in ogni essere umano. In tutti gli esseri umani il cervello ha una forma molto
simile, caratteristica della nostra specie. È, invece, molto diverso da quello
degli orangutan, degli scimpanzé e dei macachi.
Il cervello è una macchina estremamente complessa, di fronte alla quale
non possiamo che stupirci. Il nostro cervello non viene costruito, come un
computer,
assemblando
circuiti
prefissati.
Piuttosto,
si
sviluppa
progressivamente, passando attraverso diversi stadi. Durante questo processo
di sviluppo, il cervello umano è in costante interazione con il mondo esterno e
tale interazione consente l'imprinting culturale: l'acquisizione del linguaggio,
l'apprendimento di regole di condotta e di sistemi morali e simbolici.
Lo sviluppo delle connessioni neuronali
131
Una delle caratteristiche delle cellule nervose è che, una volta formate, non
si dividono più. Non appena si differenziano, al termine della divisione
cellulare, esse cominciano a sviluppare connessioni l'una con l'altra. Queste
connessioni non sono lineari: somigliano piuttosto a piccoli alberi, i cui rami
crescono progressivamente durante lo sviluppo del cervello. Di conseguenza, la
rete delle connessioni diventa sempre più complessa nel corso dello sviluppo,
in particolare dopo l'infanzia.
Lo sviluppo delle connessioni neurali è graduale. L'estremità distale di una
connessione in via di sviluppo ha forma conica. E' una sorta di ricognitore che
consente alla connessione in crescita di trovare la propria strada. Questa
struttura è chiamata "cono di crescita". Mentre si muove, il cono di crescita
"tasta" le cellule in cui si imbatte, finché non raggiunge e riconosce le proprie
cellule bersaglio. Dopo averle riconosciute, il cono si connette ad esse
formando una sinapsi.
Le caratteristiche delle cellule bersaglio di un dato neurone sono in
prevalenza determinate a livello genetico. Ad esempio, i motoneuroni del
midollo spinale si connettono sempre a specifici muscoli scheletrici. Può,
tuttavia, succedere che un dato neurone riconosca più cellule bersaglio di uno
stesso tipo. Vi è, dunque, un certo grado sulla destinazione finale di questo
neurone.
Per risolvere questo problema, il neurone si connette a un numero di cellule
superiore rispetto a quello necessario nello stadio adulto. Esiste, pertanto, un
primo stadio nel quale vengono stabilite troppe connessioni, seguito da uno
stadio successivo nel quale le connessioni superflue vengono eliminate. In altre
parole, la rete delle connessioni dell'adulto viene "stabilizzata" e le sinapsi che
"sopravvivono" sono selezionate durante lo sviluppo.
L'esperienza seleziona le connessioni
Una volta che il cono di crescita ha raggiunto la sua destinazione e che si
sono formate diverse connessioni sinaptiche funzionali, alcune di queste
connessioni devono essere selettivamente eliminate.
Tale eliminazione è controllata dall'attività del sistema nervoso durante lo
sviluppo. Ad esempio, se si paralizza un muscolo, il numero di sinapsi stabilite
sulle sue fibre non diminuisce. Se, però, si stimola il motoneurone di tale
muscolo, alcune di quelle sinapsi scompaiono. Questo dimostra che
l'eliminazione delle sinapsi è controllata dall'attività del sistema nervoso
durante lo sviluppo del cervello.
Un fenomeno simile si verifica durante lo sviluppo del sistema visivo. Ogni
qualvolta viene alterata la competizione fra i due occhi, alcune sinapsi che nello
sviluppo normale avrebbero dovuto essere eliminate sono, invece, mantenute.
132
Questo accade soprattutto nel caso in cui uno dei due occhi è cieco. Pertanto,
se l'occhio ha attività anormale o nulla la funzione dei neuroni visivi risulta
alterata.
Anche dopo la nascita continuano a formarsi nuove connessioni sinaptiche.
In effetti, il 90% delle sinapsi della corteccia cerebrale si instaura tra la nascita
e i due anni d'età.
Una conseguenza di questo sviluppo cerebrale prolungato dopo la nascita è
che il cervello di un bambino interagisce con il proprio ambiente sociale e
culturale per un tempo straordinariamente lungo.
Ciò permette molti tipi di interazione. Alla nascita il bambino comincia a
mettersi in relazione con i propri genitori, poi l'interazione si estende
gradualmente ad altri bambini, creando così le prime relazioni sociali. In
questa fase il bambino impara anche a camminare, a riconoscere i genitori e il
proprio ambiente sociale. Si trova immerso nel linguaggio, che a poco a poco
impara a riprodurre egli stesso. Il suo cervello gradualmente apprende come
assegnare simboli alle immagini presenti nell'ambiente. Impara, inoltre, regole
di condotta morale, ed è possibile che anche il senso estetico si sviluppi in
quest'età.
Lo sviluppo continua fino alla morte
Changeaux sostiente che Il cervello non è una struttura stabile che resta
immutata dalla nascita alla morte. Al contrario, si evolve costantemente. Si
forma in età prenatale. Dopo la nascita lo sviluppo continua con
l'apprendimento delle capacità cognitive fondamentali, come il linguaggio e il
senso morale.
Il cervello normale raggiunge la funzionalità ottimale nell'età adulta. Con
l'invecchiamento, tuttavia, alcune capacità, come la memoria per i nomi, si
alterano. Probabilmente tali alterazioni aiutano le persone anziane a vedere il
mondo in un modo più semplice e coerente. Un possibile beneficio di tale
semplificazione nel cervello che invecchia è la migliore organizzazione di alcuni
pensieri e azioni. Pertanto, il cervello possiede a ogni età capacità appropriate
all'interazione con il proprio ambiente.
Tipi di memoria e acquisizione dei linguaggio
"La memoria non è un sistema unitario, ma piuttosto un mosaico di
sistemi. Nell'ambito della memoria a lungo termine, per esempio, si distingue
133
la memoria dichiarativa da quella procedurale. La memoria dichiarativa
comprende informazioni riguardanti specifici fatti ed episodi (memoria
episodica) e conoscenze enciclopediche (memoria semantica). Le informazioni
contenute in questo tipo di memoria sono accessibili all'introspezione (memoria
esplicita) e possono essere verbalizzate (recupero consapevole). L'acquisizione
di nuove informazioni di tipo episodico e semantico sembra legata
all'ippocampo e alle porzioni mediali del lobo temporale. Una volta fissate,
queste informazioni vengono depositate nelle aree corticali associative
temporo-parietali.
La capacità di apprendere procedure che richiedono contemporaneamente
un bagaglio di conoscenze e un'abilità motoria come, per esempio, il gioco del
tennis, rappresenta un tipo di memoria che tipicamente si instaura tramite
ripetizioni del compito e non richiede consapevolezza (memoria implicita).
Questo
meccanismo
implicito
è
probabilmente
anche
alla
base
dell'apprendimento della lingua materna" [Aglioti – Fabbro, 1999, p. 58].
LA NEUROPSICOLOGIA
Oggi esiste una branca che si avvale delle immense conoscenze della
biologia e soprattutto della neurobiologia mettendole in collegamento con la
ricerca psicologica: si chiama neuropsicologia.
"La neurofisiologia e la psicologia sperimentale sono diverse per metodo e
per oggetto di studio. In comune hanno solo il carattere rigorosamente
scientifico della ricerca che rinuncia a interpretazioni non verificabili. La
neurofisiologia, infatti, è lo studio delle strutture nervose, mentre la psicologia
sperimentale è lo studio del comportamento in condizioni rigorosamente
definite. La loro sintesi è giustificata da due fatti: da un lato la neurofisiologia
dei fenomeni psichici richiede la definizione di situazioni psicologiche
sperimentali, senza le quali non è possibile studiare, da un punto di vista
nerufisiologico, il comportamento; dall'altro la psicologia sperimentale, che
formula leggi sul comportamento a partire dall'osservazione, trova nella
neurofisiologia la possibilità di confrontare le sue ipotesi strutturali, di
modificare i suoi assunti e di concepire nuovi esperimenti. [...]
Ponendosi ai confini tra il somatico e lo psichico, nel tentativo di superare
questo dualismo che non ha consentito una comprensione dell'uomo nella sua
integrità, la neuropsicologia apre nuovi punti di vista che pongono alternative e
problemi che passano trasversalmente rispetto a quelli che prima costituivano
due settori nettamente separati.
Per questo le sue zone di confine sono anche zone di apertura verso la
medicina psicosomatica nel tentativo di chiarire quei meccanismi psicobiologici
finora letti solo nelle coordinate della psicologia dinamica; [...] verso la filosofia
134
a cui offre basi sperimentali per la soluzione di alcuni problemi connessi alle
strutture causali, spaziali e temporali dell'esistenza umana.
Queste aperture sono legittimate dalla persuasione che l'attività mentale
non solo va sempre più studiata con metodi fisiologici simili a quelli della
ricerca biologica, ma anche che essa, per la sua stessa complessità di sviluppo,
impone un'evoluzione dei metodi di ricerca che tengano continuamente conto
del fenomeno comunicativo e di integrazione individuale a cui i meccanismi
fisiologici sottesi approdano. Non più dunque l'organo o l'organismo in
isolamento, ma l'interazione dell'organismo con gli altri organismi e l'ambiente
a partire dal quale si tenta di risalire ai meccanismi che sono alla base di
questo rapporto" [DPL, 1992, pp. 607-608] .
A tale nuova prospettiva appartiene anche la psicobiologia (A. Meyer) che
punta all'"integrazione" dell'organismo, la psicofarmacologia (nata negli anni
'50 ma che peraltro oggi non suscita più i grandi entusiasmi del primo
ventennio di di studi), la psicofisica che studia il rapporto tra stimoli e risposte,
la psicofisiologia che studia le realzioni tra processi mentali e sistema nervoso,
e la psicosomatica.
RITA LEVI MONTALCINI
Rita Levi Montalicini ritiene che "rimane tuttora insoluto quello che è stato
definito il problema numero uno che riguarda l'uomo: la comprensione delle
modalità funzionali della mente .[...]La conoscenza della funzione del proprio
cervello ha affascinato l'uomo sin da epoche remote della civilità". E, citando
Francis Crick, aggiunge "per l'uomo non esiste ricerca scientifica più
importante di quella che ha per oggetto il suo cervello. La nostra visione
dell'universo è astrattamente legata ad essa. Ancora più che la conoscenza
dell'universo è di fondamentale importanza pervenire alla conoscenza del
nostro cervello, che non soltanto è la chiave di comprensione dell'universo
stesso, ma è anche quella per poter penetrare e capire le modalità di funzione
della mente umana".
È dunque necessario "capire il rapporto fra le basi morfologico-funzionali e
le attività mentali" [Levi Montalcini, 1999, p. 122-123]. "Negli ultimi decenni
l'approccio al problema cervello-mente è diventato interdisciplinare e coinvolge
la psicologia, l'informatica, la filosofia, la linguistica e le neuroscienze; esso è
rappresentato dalle scienze cognitive che mirano a fornire un apporto decisivo
alla filosofia della mente.
Ma contemporaneamente hanno assunto un ruolo decisivo nei settori
scientifici, tecnologici, economici e dei servizi in tutto i Paesi ad alto sviluppo
culturale e tecnologico. Le loro applicazioni sono in crescita nel campo
135
educativo, nell'interazione uomo-computer e in genere uomo-artefatti
teconologici, nello sviluppo delle tecnologie dell'informazioone e della
comunicazione, nel prendere decisioni, nel formulare e attuare scelte politiche
e nel campo dei disturbi del comportamento.
L'interesse nei risultati conseguiti è legato sia dal loro apporto nella
conoscenza delle componenti e delle funzioni dei circuiti cerebrali, sia al fatto
che tale conoscenza ha diretta attinenza all'affronto di grandi problematiche
sociali quali la devianza, il disagio psichico diffuso, la convivenza multietnica,
l'handicap, la formazione giovanile" [Levi Montalcini, 1999, p. 126-127].
LA PSICONEUROIMMUNOLOGIA
Al Congresso "The early human life" organizzato dall'Istituto di ginecologia
e ostetricia dell'Università Cattolica di Roma, sono state divulgate delle
stupefacenti scoperte che confermano l'importanza delle ricerche in quel
terreno di incontro pluridisciplinare che è la psiconeuroimmunologia.
Gli scienziati hanno confermato che una madre viene modificata dalla
gravidanza in modo permanente dalla presenza del figlio, di cui "eredita" in
certo qual modo alcune caratteristiche e, attraverso il figlio, anche dal padre
del bambino. Che il figlio erediti il cinquanta per cento del suo patrimonio
genetico dalla madre e che nella sua vita uterina "senta" il mondo esterno
attraverso il corpo materno - che quindi condiziona in modo sostanziale la vita
del feto - sono dati di fatto acquisiti. Sorprende invece apprendere che anche
la madre subisce alcune modificazioni a lungo termine dalla gravidanza proprio
dalla "persona" del figlio e, indirettamente, anche del marito.
"Abbiamo le prove - spiega il professor Salvatore Mancuso - che, sin dalla
quinta settimana di gestazione, vale a dire quando la donna si accorge di
essere incinta, passano dall'embrione alla madre un'infinità di messaggi,
attraverso sostanze chimiche quali ormoni, citochine, linfochine ,
neurotrasmettitori eccetera. Tali informazioni servono a far adattare
l'organismo della madre alla presenza del nuovo essere. In più è stato
riscontrato che l'embrione manda anche cellule staminali che, grazie alla
tolleiranza inununitaria della madre verso il figlio, vanno a colonizzare il
midollo materno, da cui non si separano più. Anzi, da qui nascono linfociti per
tutto il resto della vita della donna".
Ma anche prima della quinta settimana, sin dal concepimento partono
messaggi e succede qualcosa di importante a livello psiconeuroimmunologico.
"Anche durante la prima fase di suddivisione cellulare, quando l'embrione
transita attraverso le tube, avvengono trasmissioni per contatto con i tessuti
dove l'embrione si muove. Poi, dopo l'impianto in utero, il dialogo si fa più
intenso per via ematica e cellule e sostanze chimiche entrano nel circolo
sanguigno della madre.
136
Infine cellule staminali del figlio passano alla madre in grande quantità sia
al momento del parto, naturale o cesareo, sia in caso di aborto. Queste cellule
si impiantano nel midollo della madre e producono linfociti, che hanno
un'origine comune con le cellule del sistema nervoso centrale, hanno recettori
per i neurotrasmettitori e possono far passare messaggi che il sistema nervoso
materno capta.
Si apre un territorio di ricerca stupefacente: sono informazioni di enorme
importanza sulle prime fasi della vita".
Quando si fa distinzione tra embrione e pre-embrione si compie un errore
grossolano: in una fase così iniziale non si può certo parlare di sistema nervoso
centrale, ma i messaggi che vengono mandati dall'embrione alla madre
esprimono manifestazioni proprie della specie umana. E vengono usati
strumenti che sono sostanze chimiche molto specializzate e cellule totipotenti
come le staminali. Occorre ricordare che se mancasse la comunicazione,
l'organismo materno rifiuterebbe l'embrione.
Il dialogo permette l'accoglienza perfetta di un organismo estraneo per il
50% dal patrimonio genetico della madre. Infatti queste sostanze chimiche
esprimono le esigenze nutrizionali e metaboliche dell'embrione alla madre e ne
provocano una depressione immunitaria e una tolleranza che permettono
l'accoglienza del nuovo essere.
Le cellule staminali sono state trovate nella madre anche trenta anni dopo
il parto. Si può dire che, invece delle quaranta settimane canoniche, la
gravidanza dura tutta la vita della donna.
E deve far riflettere anche circa le ipotesi di utero "in affítto": in questo
caso la madre che ospita l'embrione accoglie un essere che ha il patrimonio
genetico estraneo per il 100% e che la "rnodifícherà" per il resto della vita. Non
abbiamo idea delle conseguenze a distanza di tali operazioni. E nuove
domande si pongono anche per le tecniche di fecondazione artificiale di tipo
eterologo".
Un dialogo a distanza
Stupisce anche l'idea che qualcosa del padre si trasferisca nella madre.
"Sono territori ancora da esplorare nelle loro potenzialità. Certo si impone
una riflessione su un nuovo modo di intendere la gravidanza. Si crea
indubbiamente un legame stretto anche tra donna e uomo, perché il figlio ha
per un 50% le caratteristiche genetiche del padre. E le cellule staminali
ematopoietiche (che sono state ritrovate anche nel fegato della madre come
epatociti) vanno nel midollo e producono cellule figlie, linfociti, che sintetizzano
137
citochine, e neurotrasmettitori con la capacità di dialogare con il sistema
nervoso centrale materno.
È un po' come se i "pensieri" del figlio passassero alla madre persino tanti
anni dopo la sua nascita" .
Questo è solo un esempio delle grandi possibilità di indagine che ha la
psiconeuroimmunologia , la scienza che studia i rapporti tra psiche, cervello e
sistema immunitario e con quello ormonale. Tale disciplina, nata una quindicina
di anni fa, ha procurato una grande rivoluzione che cambierà a fondo la
medicina. Ma solo oggi è giunta a risultati davvero strabilianti.
Nei laboratori di ricerca e nelle università più avanzate del mondo si è
dimostrato in modo chiaro che il cervello è in grado di influenzare il sistema
immunitario e che a sua volta, fatto ancor più sorprendente, quest'ultimo fa
sentire i suoi effetti sul cervello. Sono state decifrate anche le "parole" di
questo dialogo interno al nostro corpo: si tratta di piccole molecole, dette
"neuropeptidi", che vengono rilasciate e captate sia dalle cellule nervose sia da
quelle immunitarie ed endocrine.
La portata di questa rivoluzione non sta solo nel rappresentare un punto
d'incontro tra le ricerche della medicina organica e quelle della psicosomatica,
ma nell'interpretare in modo nuovo vecchie malattie (infettive, cardiache,
infiammatorie, metaboliche, tumorali) e nel suggerire più appropriate terapie.
"Il misterioso "salto dalla mente al corpo", come lo definiva la vecchia
psicoanalisi, e che è stato l’assillo dei filosofi per migliaia di anni; in seguito,
della medicina psicosomatica e, in generale, di tutti coloro che si sono occupati
dello studio dei rapporti tra mente, cervello e funzioni dell’organismo, sembra
avviarsi a considerazioni sempre più stimolanti.
Negli ambienti in cui ci si occupa di "psiconeuroimmunologia", un nome
chilometrico per definire una disciplina che fa da "ponte" tra territori che
apparivano separati, c’è aria di grande fermento. […] Tenuto conto che non è
più possibile parlare di singola causa nello sviluppo di una malattia – fosse
anche l’influenza – gli studi confermano sempre più il ruolo centrale dello
stress emozionale nel determinare le modificazioni delle risposte immunitarie.
[…] Il sistema immunitario non sarà quindi un "secondo cervello", come
qualcuno aveva azzardato, ma è legittimo considerarlo un ulteriore aspetto del
sistema nervoso centrale "disperso" a livello viscerale e macromolecolare
[Garzia, 1997, pp. 22-23].
Specificità e plasticità
138
S. Rose si è occupato del problema se è la funzione che determina la via,
cioè i collegamenti si sviluppano nel processo che il soggetto compie attraverso
l'interazione con il mondo esterno, o se invece è la via che determina la
funzione, cioè i collegamenti tra neuroni sono geneticamente determinati
[Rose, 1976, p. 193].
Rose dice che sembrerebbe a propri più probabile la prima ipotesi. Invece
esperimenti condotti sugli anfibi, nei quali sono consentiti dalla capacità delle
fibre nervose recise di rigenerarsi, dimostrano come valida la seconda ipotesi la via determina la funzione - poiché le fibre recise ricrescono ritrovando con
precisione le loro iniziali connessioni.
Nei mammiferi, le cui fibre nervose non hanno tale proprietà di ricrescita,
non è possibile verificare la determinazione genetica dello sviluppo delle
connessioni. Tuttavia prove indirette e considerazioni sull'importanza di tali
proprietà del sistema nervose, che certamente dovrebbero essersi conservate
nell'evoluzione, fanno propendere per la seconda ipotesi anche nell'uomo.
Tuttavia secondo Rose la specificità va intesa meno rigidamente, nel senso
che alle vie geneticamente prestabilite può aggiungersi un enorme numero di
ulteriori collegamenti determinatisi con la funzione.
La plasticità è più importante della specificità per il funzionamento del
cervello: permette l'apprendimento e la memoria e conferisce identità e unicità
all'individuo (nei pensieri, nelle emozioni e nei comportamenti).
"La specificità determina la specie e la popolazione; la plasticità
l'insostituibilità e unicità dell'individuo e la capacità evolutiva sociale" [Rose,
1976, p. 201]. La specificità crea l'uguaglianza di due gemelli monoovulari, la
plasticità li differenzia.
Plasticità e coscienza sono correlate e aumentano a mano a mano che si
sale nella scala evolutiva e si raggiunge l'uomo, la cui singolarità è maggiore di
quelle del cane o della scimmia.
"Come a livello di comportamento così a livello neuronale la plasticità deve
modificare il cervello in termini di architettura, biochimismo e risposte
elettriche", tutti verificati sperimentalmente con la registrazione di potenziali
elettrici "d'azione", elettroencefalogramma, evoluzione della struttura
microscopica con lo sviluppo dell'individuo.
Il difficile è determinare la misura dell'influenza dell'ambiente rispetto a
quella della determinazione genetica. E anche come grandi differenze
individuali nel comportamento, intellettuali, morali o sociali, siano codificate nel
cervello sulla base di differenze strutturali assai piccole da soggetto a soggetto
(peso, volume, numero, tipi e disposizione dei neuroni, eccetera) praticamente
identiche [Rose, 1976, p. 202].
139
E tale problema rimarrà aperto ancora a lungo.
Va però chiarito che polemica eredo-ambientale può essere superata dalla
considerazione che esiste una sorta di terzo elemento, ovvero che il fattore
genetico (nonostante la sua fissità) è dotato anche di un potenziale di
variabilità nella gamma di risposte ai diversi stimoli ambientali.
Alleanza delle aree cerebrali
Su quale sia la sede della coscienza indagano un po' tutti.
"I risultati di una recente ricerca pubblicata su Nature e svolta da un
gruppo di ricercatori francesi del Laboratorio di neuroscienze cognitive
dell'ospedale Salpetrière di Parigi, suggeriscono che la coscienza potrebbe
emergere dalla momentanea alleanza di un insieme di aree cerebrali coinvolte
in un determinato compito, da una comune attenzione a un particolare aspetto
della realtà. L'intreccio tra attenzione e coscienza risulta dai dati di numerose
ricerche sull'attenzione selettiva".
In che modo la coscienza si focalizza su un particolare aspetto della realtà?
Secondo numerosi psicologi e scienziati cognitivi l'attenzione guiderebbe il
contenuto della coscienza e la coscienza, a sua volta, guiderebbe l'attenzione
in una sorta di moto circolare. La coscienza, anziché essere il frutto di un piano
ordinato, ordito dalla corteccia frontale, emergerebbe dal caos, dalle
configurazioni che derivano dalle momentanee alleanze delle parti del cervello
coinvolte in una particolare funzione" .
La coscienza comanda il corpo
"Analizzando la coscienza, essa si presenta come "continua", estesa a tutto
il periodo di veglia dell'uomo, "autoeccitantesi" perché possiede una costante
eccitazione interna, quindi "autonoma" e "indipendente", e "non più evolvibile"
perché più che coscienza di sé non può essere. Tutto ciò pone l'uomo,
possessore di questa coscienza, in un punto (o posto) del suo corpo da cui
vede il corpo come una realtà che gli è esterna anche se vi è dentro, perché lo
usa come un oggetto qualunque della sua esperienza quotidiana e lo comanda
come crede in rapporto a motivazioni sue che possono coincidere, ma il più
delle volte non coincidono affatto, con le emozioni del corpo o le sono
diametralmente opposte […] Il determinismo che domina il corpo le è
completamente estraneo.
Se la coscienza è una realtà biologica cerebrale, la prima definizione da
accettare è che l'uomo non è più un animale; lo era fino alla scimmia, ma il
salto dalla scimmia all'uomo non è più paragonabile ai passaggi precedenti
140
perché l'uomo nella realtà cerebrale della sua coscienza ha raggiunto uno
stadio evolutivo concettualmente e praticamente antitetico a quello della
scimmia. L'uomo è un "individuo" e questa sua realtà, conclusa e definitiva, è
tale da porlo "fuori" del concetto solito di specie" .
Il cervello è soggetto o oggetto?
A proposito del dilemma se il cervello, in cui nasce e si sviluppa la
coscienza, debba essere considerato "oggetto" (come il corpo in cui è
contenuto) o "soggetto" (come la sua funzione) Franco De Carli conclude che si
deve "necessariamente" pensare "che l'evoluzione col cervello ha creato un
"corpo" nel corpo in cui è contenuto. […] In realtà l'uomo è composto,
indipendentemente da come appare, da due corpi, uno dentro l'altro, il primo e
più importante formato dal cervello e dalla sua funzione della coscienza, il
secondo da tutto il resto del corpo con i suoi organi […] L'evoluzione ha
finalmente realizzato nell'uomo un "corpo" che realmente e funzionalmente si è
separato dal corpo animale sia perché lo vede e lo domina, sia perché vive in
sé una legge di libertà che il corpo ignora; è una libertà dal determinismo del
corpo, anche se la coscienza non è libera dal determinismo delle sue
motivazioni" .
È POSSIBILE DEFINIRE L'INTELLIGENZA?
All'inizio del '900 si presupponeva che ci fosse un'intelligenza "generale"
riducibile a un solo fattore, il cosiddetto "fattore g". Il modello si rivelò subito
un "abito" mentale troppo stretto. Negli anni '30 Luois Thurstone, della Chicago
University, postulava un'intelligenza fatta di almeno sette "vettori" indipendenti
(che negli anni '60 salirono a 150). Oggi Robert Sternberg, della Yale
university, propone un'intelligenza triarchica: fatta di abilità di calcolo,
sensibilità al contesto, reattività al nuovo.
Ma la teoria più popolare l'ha elaborata venti anni fa Howard Gardner,
docente di psicologia da Harvard, postulando otto intelligenze multiple, dalle
tradizionali (linguistica, logico-matematica, spaziale) ad altre radicalmente
nuove: cinestesica (eccellenza nella coordinazione dei movimenti, propria di
atleti e danzatori), musicale, emozionale (di due tipi), naturalistica (un
esempio Darwin).
E ora cerca di completare l'opera definendo una nona intelligenza: quella
"esistenziale", propria di filosofi e capi spirituali, da Kierkegaard al Dalai Lama .
141
La mente divisa in due
Ma anche se non possediamo una definizione esaustiva e onnicomprensiva
dell'intelligenza siamo ormai ben informati sulle specializzazioni dei due
emisferi cerebrali (che comandano le metà opposte del corpo) e sulla
distribuzione delle varie abilità cognitive.
Appartengono all'emisfero destro le abilità matematica, musicale e visivospaziale (che alimenta il talento artistico) ; all'emisfero sinistro invece l'abilità
razionale e linguistica. Per esempio è stato notato che, rispetto alla media della
popolazione, ci sono più mancini tra i musicisti, gli artisti e i matematici.
La divisione dei compiti chiarisce pure il fenomeno dei savant, i ritardati
con formidabili abilità e di bambini prodigio con talenti sbilanciati: bravissimi in
arte, calcolo o musica, molto indietro nell'espressione verbale, nella lettura e
nella scrittura.
Una spiegazione che è stata fornita è che se si produce un danno cerebrale
nel periodo prenatale - per esempio per un eccesso di testosterone in circolo e viene danneggiato l'emisfero sinistro, quello destro compensa con un
ipersviluppo.
L'intelligenza emotiva
Nel 1996 lo psicologo americano Daniel Goleman ha teorizzato l'intelligenza
emotiva e l'ha divulgato in un libro che è ormai divenuto un bestseller
internazionale e capostipite di numerose pubblicazioni dello stesso filone, ma
dedicate a situazioni concrete e particolari .
Goleman è arrivato alla sua formulazione (ispirato da un grande
ricercatore, Joseph LeDoux, autore di un libro dedicato alla neurobiologia delle
emozioni, Il cervello emotivo ) innestando nel campo della psicometria classica
alcune variabili legate allo studio della personalità. Anche se non esisterà mai
un valido "quoziente d'intelligenza emotiva" perché gli studi sulla personalità
eseguiti con l'analisi fattoriale non presuppongono criteri di uniformità
scientifica, una delle analisi più interessanti di Goleman, su un gruppo di
dipendenti della AT&T (compagnia dei telefoni americana) ha portato risultati
sorprendenti. Anche se ciascun dipendente era stato assunto superando
brillantemente i classici test del Quoziente Intellettivo (quindi il campione era
omogeneo), le carriere si erano poi differenziate fortemente.Dunque il
successo dipendeva, più che dal Q.I., da un'altra intelligenza, quella emotiva,
ossia la capacità di rapporti interpersonali, empatia, resistenza allo stress che
costituisce l'impasto da cui nasce la personalità.
L'intelligenza quindi sfuma nel carattere.
142
E sembra che sia un fattore per buona parte (ma non del tutto)
ambientale: un bambino sottoposto a molti stimoli culturali potrà mostrare un
incremento del Q.I., anche se lento.
E la costellazione di studi e ricerche si allarga, dall'Intelligenza matematica
al Codice dell'anima in un fioritura che fa ben sperare .
Se fosse possibile, cosa dovremmo cambiare dell'intelligenza umana? A
questa domanda lo sicenziato Herbert Simon ha risposto: "Penso che
aumenterei un poco la memoria a breve termine. Ampliarla in modo indefinito
non sarebbe, però, una cosa buona, perché comunque non possiamo prestare
attenzione a più di una piccola porzione per volta. Sì, potrei fare questo.
Oppure potrebbe essere utile accelerare certe funzioni, perché no? Ciò
potrebbe rendere più rapida la nostra intelligenza.
Non sono veramente entusiasta all'idea di accelerare l'intelligenza umana.
Ne abbiamo già abbastanza. Quando penso ai problemi che abbiamo in questo
mondo, che ritengo siano già parecchi, non sono certo che essi possano essere
risolti con più intelligenza. Sono sempre rimasto sorpreso dal peso che si dà ai
test d'intelligenza. Forse dovremmo fare più test sul carattere, dare più
importanza ai valori. Se io dovessi migliorare la specie umana, lavorerei prima
di tutto in questa direzione" .
L'ABC dell'apprendimento e della memoria
Da un recentissimo articolo di Le scienze possiamo ricavare informazione
sullo stato delle ricerche sull'intelligenza "Il cervello umano possiede
approssimativamente cento miliardi di cellule nervose, o neuroni, collegati gli
uni agli altri in una trama articolata che consente lo sviluppo di una notevole
varietà di attributi mentali e cognitivi come la memoria, l'intelligenza, le
emozioni e la personalità.
Le basi per la comprensione dei meccanismi molecolari e genetici
dell'apprendimento e della memoria furono poste nel 1949, quando lo
psicologo canadese Donald O. Hebb elaborò un'idea semplice ma profonda per
spiegare in che modo i ricordi vengono rappresentati e conservati nel cervello.
In quella che è oggi conosciuta come "regola dell'apprendimento di Hebb",
egli ipotizzò che un ricordo si produce quando due neuroni collegati fra loro
sono attivi contemporaneamente in modo tale da rafforzare la sinapsi, cioè il
sito di contatto fra le due cellule. Nella sinapsi l'informazione, sotto forma di
molecole chiamate neurotrasmettitori, fluisce dalla cosiddetta cellula
presinaptica verso la cellula postsinaptica.
143
Nel 1973 Timothy V. P. Bliss e Terje Lomo, che lavoravano nel laboratorio
di Per Andersen all'Università di Oslo, scoprirono un modello sperimentale che
sembrava confermare le caratteristiche salienti della teoria di Hebb. Essi
notarono che le cellule nervose di una regione del cervello chiamata ippocampo
stabilivano connessioni più forti quando erano stimolate da una serie di impulsi
elettrici ad alta frequenza. Questo rafforzamento sinaptico - un fenomeno
conosciuto come potenziamento a lungo termine (LTP) - può durare per ore,
giorni o persino settimane. Il fatto che l'LTP si manifesti nell'ippocampo è
particolarmente affascinante perché questa struttura cerebrale è cruciale per la
formazione della memoria, sia nell'uomo sia negli animali.
Studi successivi compiuti da Mark F. Bear dello Howard Hughes Medical
Institute della Brown University e da altri scienziati dimostrarono che,
applicando uno stimolo a bassa frequenza agli stessi circuiti nervosi
dell'ippocampo, si induceva una riduzione prolungata della forza delle
connessioni sinaptiche locali. Tale riduzione è a sua volta duratura ed è
conosciuta come "depressione a lungo termine" (LTD), sebbene non abbia nulla
a che vedere con la depressione clinica.
Il rafforzarsi e l'indebolirsi delle connessioni sinaptiche attraverso processi
simili all'LTP e all'LTD sono ora ritenuti i principali meccanismi responsabili
della conservazione e dell'eliminazione delle informazioni acquisite nel cervello.
Oggi sappiamo che l'LTP e l'LTD si presentano in molte forme diverse e che si
verificano in altre regioni cerebrali oltre all'ippocampo, come la neocorteccia o materia grigia - e l'amigdala, una struttura coinvolta nella formazione delle
emozioni" [Tsien, 2000, p. 50].
"I nostri esperimenti con i topi Doogie hanno confermato chiaramente le
previsioni della teoria di Hebb, indicando anche che il recettore NMDA è un
importante interruttore molecolare in molte forme di apprendimento e
memoria. Ma nonostante il ruolo centrale dei recettori NMDA in un'ampia
gamma di processi cognitivi e di memoria probabilmente queste molecole non
sono le sole a essere coinvolte: nei prossimi anni ne saranno senza dubbio
identificate molte altre, con specifiche funzioni" [Tsien, 2000, p. 53]
Alcuni si domandano se tali "scoperte implicano che presto potremo creare
con l'ingegneria genetica bambini più intelligenti o mettere a punto pillole che
renderanno tutti geniali. La risposta pura e semplice è: no; e oltretutto, lo
vorremmo veramente?" [Tsien, 2000, p. 54].
Tre nobel per la ricerca sul cervello
È interessante che uno dei premi nobel del 2000, quello Per la fisiologia e la
medicina, sia andato a tre studiosi, A. Carlsson, P. Greengard e E. Kandel,
autori di scoperte sul trasferimento dei segnali nel sistema nervoso, che sono
144
definite "cruciali per una comprensione della funzione normale del cervello",
ma anche delle malattie che i difetti di trasmissione dei segnali possono
provocare.
Le loro ricerche sono un tipico esempio del materiale che i neurofisiologi e
neurobiologi riescono aprodurre oggi, accelerando di molto la costruzione
dell'enorme palazzo che sarà la teoria completa della coscienza.
È necessario, dunque, che si osservi con attenzione lo sviluppo di tutte
queste ricerche.
Eric Kandel per esempio ha spiegato il funzionamento della memoria a
breve e a lungo termine, arrivando alla conclusione che "si può dire che la
nostra memoria sia basata sulle sinapsi" e sui loro cambiamenti di forma e
funzione.
"Anche se la strada verso una comprensione delle funzioni complesse della
memoria è ancora lunga … ora è possibile studiare, per esmpio, come le
immagini complesse di memoria sono immagazzinate nel nostro sistema
nervoso e come è possibile ricreare la memoria degli eventi più in anticipo" .
COSCIENZA, SONNO E SOGNO
Dal punto di vista neurofisiologico lo stato di veglia e di sonno sono
governati da due sistemi cerebrali fra di loro antagonisti (e che non
costituiscono centri ben delimitati).
Capire il funzionamento del cervello è una delle sfide più difficili per la
scienza, ma negli ultimi decenni si sono scoperte parecchie cose. Lo studio del
cervello avviene ormai a vari livelli: si cerca di capire più a fondo la struttura
nervosa, il ruolo delle varie aree, il meccanismo dei neurotrasmettitori, le
connessioni tra le zone diverse, le "gerarchie" dei sistemi, la biochimica che
regola le varie interazioni, ecc.
Il sonno è una delle tante e complesse funzioni cerebrali, combinazione di
"interruttori" che stimolano, inibiscono, modulano il passaggio degli impulsi
nervosi, senza che sia conivolto mai un solo centro .
I ricercatori non hanno ancora capito definitivamente perché sia necessario
dormire.
"Nato forse nel corso dell'evoluzione come strategia di risparmio
energetico, poiché permette di abbassare nella notte il metabolismo e la
temperatura, il sonno ha assunto un ruolo e ha quindi un significato più
profondo, che ancora non si riesce a "leggere" ma che certemente esprime
primarie esigenze del cervello, più che dell'organismo" [Angela, 1994, p. 52].
145
Fra i vari centri cerebrali coinvolti nel sonno, uno è quello strategico,
l'ipotalamo, che è una parte del cervello che deriva da un lungo percorso
evolutivo. È difficile conoscere i percorsi seguiti, all'interno del cervello, dai vari
passaggi nervosi, chimici, ormonali. Tuttavia, si ritiene che dall'ipotalamo parta
un flusso di segnali verso una delle parti più primitive del cervello: il tronco. Da
qui come in un sistema a cascata sembrano partire altri due flussi, uno verso
verso la vicina zona che presiede allo stato di veglia, l'altro a quella del talamo
il quale, in ultima analisi, riduce il flusso di segnali tra la corteccia e il resto del
cervello. Così si ottiene l'addormentamento.
Ma il sonno non è un fenomeno passivo: in realtà il cervello non "dorme"
mai, semplicemente, funzione in modo diverso, disattivando alcuni
"interruttori" e attivandone altri.
Un tema molto interessante è la funzionalità del sonno nei neonati (ma
anche nei feti) e nei fanciulli .
I meccanismi del sonno e del sogno saranno capiti meglio solo il giorno in
cui si conosceranno meglio anche i meccanismi del pensiero. Ecco come questi
studi si aiutano e influenzano a vicenda.
La privazione di sonno
Gli esperimenti nell'uomo di privazione del sonno hanno portato a
conoscenze molto interessanti: per esempio dopo cinque giorni di privazione
del sonno la capacità di resistere al sonno migliora notevolmente (Fifth day
turning point) per un adattamento ignoto. Nel corso della privazione si osserva
sempre uno scadimento delle funzioni percettive, cognitive, psicomotorie,
tremori delle mani, atassia della marcia, ecc.
Il fenomeno più caratteristico della privazione di sonno è rappresentato
dall'insorgenza di brevi (pochi secondi) attacchi di sonno leggero (lapses o
micro-lapses). Dopo 100 ore circa di mancanza assoluta di sonno compare una
grande sindrome psicotica acuta [DPI, 1970, pp. 729-730]
Il sonno paradosso (REM)
La durata del sonno paradosso (sonno REM, rapido o desincronizzato) è
massima subito dopo la nascita, poi diminuisce gradatamente.
La soppressione selettiva del sonno paradosso per alcune notti provoca, in
seguito, un suo aumento compensatorio, che è inquieto con sogni agitati.
146
Le sostanze psicotrope riducono le fasi REM, la loro soppressione porta a
un aumento compensatorio con disturbi del sonno e incubi.Nonostante si
ritenga universalmente fondamentale per l'uomo il sonno REM, la cui perdita
viene compensata, il suo ruolo fisiologico è ancora poco conosciuto, ma alcuni
lo mettono in rapporto con la più intensa irrorazione cerebrale.
Tutti sognano: oggi è accertato che chiunque, svegliato al momento giusto,
riferirebbe un sogno. Non è stata ancora dimostrata, invece, sperimentalmente
la necessità psicologica dei sogni [DPI, 1970, p. 723]
IL SOGNO
Un recente articolo su Focus di R. Procenzano presenta gli ultimi risultati
della ricerca psicologica e neurologica sui sogni .
Il sogno è la terza attività della mente; si è calcolato che una persona
mediamente trascorre 50 mila ore a dormire, pari a sei anni della vita. Il
sognare è un'attività diversa dal ragionare coscientemente (veglia) o dormire
un sonno profondo.
Nell'antichità il sonno era considerato fondamentale per comunicare con le
divinità, da cui si sviluppò l'arte dell'interpretazione dei sogni. Si riteneva che i
sogni avessero il potere di scacciare le avversità, accrescere la fertilità, portare
prede ai cacciatori e valore ai guerrieri; li si pensava capaci di predire il futuro,
curare le malattie, veicolare rivelazioni spirituali. Gli antichi cercavano
costantemente di "incubare" i sogni da cui si attendevano quei doni, e a tal fine
dormivano in luoghi sacri e solitari (templi o recessi naturali) e seguivano
appositi rituali.
Questa disciplina fisica e spirituale li predisponeva e rendeva specialmente
ricettivi alla vivida intensità dei sogni. Era una pratica comune in Grecia e in
tutta l'Europa pagana ma anche presso i primi cristiani che dormivano vicino ai
sepolcri dei santi e dei martiri sperando di ricevere guariginone e pacificazione.
Nell'estremo oriente (la Cina del XIV secolo per esempio) c'erano templi per
"sognatori".
Per i popoli nomadi il sogno ha effetti radicali sulla vita (nelle tradizioni dei
nomadi che vivono sul delta dei Nilo bisogna indossare un turbante prima di
andare a dormire, per impedire che in sogno l'anima lasci il corpo, e i Masai del
Kenya credono che non si debba svegliare una persona che sogna perché il suo
spirito potrebbe non riuscire a tornare nel corpo). Fino al secolo scorso i
membri di alcune tribù pellerossa, se sognavano di essere morsi da un
serpente, al risveglio si curavano la ferita nel punto dove doveva trovarsi.
Il potere del sogno sta proprio nella sua somiglianza con la realtà: durante
il sonno l'inganno è così perfetto che la nostra coscienza scambia gli
147
avvenimenti creati dal cervello "sognante" per realtà. Alcuni esperti parlano di
cortocircuito mentale: la corteccia cerebrale è attiva (anche di più che durante
la veglia ) ma non riesce a confrontare le immagini e gli stimoli che genera da
sé con ciò che succede all'esterno. Si comporta cioè come se avesse le
"allucinazioni". "In realtà il cervello non dorme mai. Durante tutte le fasi del
sonno si svolge la cosiddetta attività pensiero-simile, più frequente dei sogni.
La mente, insomma, continua a lavorare su fatti, considerazioni, avvenimenti
delle giornate precedenti. Ma che legame ci sia tra questi pensieri
inconsapevoli e i sogni, ancora non si sa" afferma Carlo Cipolli, docente di
psicologia all'università di Bologna e studioso della vita onirica.
I sogni sono ancora una mistero
Si è scoperto che i pensieri notturni sono spesso legati da un filo logico, e
che anche i sogni sono "coerenti" tra loro: ci sono similitudini sia tra le
costruzioni oniriche di una stessa notte sia tra quelle di notti successive. Non
ce ne rendiamo conto perché in genere ricordiamo solo l'ultimo sogno, quello
che si verifica mezz'ora al massimo prima del risveglio. Ma durante le otto ore
di sonno, il cervello genera almeno una decina di sogni. Eppure per la scienza i
sogni sono ancora in gran parte un mistero.
"Fino a pochi anni fa si credeva che ognuno di noi sognasse solo durante i
cosiddetti periodi REM: fasi di sonno leggero caratterizzate da rapidi movimenti
degli occhi (Rapid Eye Movement). Ce ne sono quattro o cinque ogni notte.
Invece abbiamo verificato in laboratorio che spesso si sogna anche nelle fasi di
sonno tra una REM e l'altra, e a volte si tratta di sogni molto movimentati,
come quelli tipici della fase REM" racconta Vincenzo Natale, ricercatore
all'università di Bologna, dove si eseguono esperimenti sistematici
I ricercatori possono svegliare i soggetti (volontari) a qualunque ora della
notte (in fase REM oppure no) e chiedere loro che cosa stavano sognando.
Spesso raccolgono racconti pieni di particolari, che però il sognatore la mattina
dopo non ricorda per nulla (l'unica eccezione è l'ultimo sogno della notte, che
rimane nella memoria pochi minuti).
Il cervello ricorda tutti i sogni che ha fatto
"In laboratorio si può verificare facilmente che il cervello ricorda tutti i
sogni che ha fatto: basta far riascoltare al volontario l'inizio del racconto
registrato del suo sogno raccolto, poniamo, alle due di notte, per far sì che egli
si ricordi tutto il sogno. Poi gli si fa riascoltare quello delle quattro di notte e si
ottiene lo stesso risultato, poi quello delle cinque e così via" fa notare Cipolli .
Insomma, possediamo la memoria di tutti nostri sogni (e sono milioni) ma non
la chiave per accedervi.
148
Negli ultimi anni alcuni scienziati hanno cominciato a guardare "dentro" il
cervello di chi sogna: Pierre Maquet, ricercatore all'università di Liegi, ha
sottoposto a una PET (tomografia a emissione di positroni) alcuni volontari
dormienti per verificare quali aree cerebrali fossero attive durante il sonno.
"Abbiamo scoperto che durante le fasi REM molti impulsi nervosi partono dalla
zona del ponte, in profondità nel cervello, e bombardano la corteccia e alcune
zone limbiche, sedi delle emozioni. Nelle fasi intermedie invece sono più attive
le zone associative frontali e parietali, sedi dei ragionamento" spiega lo
scienziato belga.
Gli impulsi tipici della fase REM darebbero perciò luogo ai sogni più
"movimentati": la corteccia si trova a dover dar senso a una specie di
tempesta elettrica, e lo fa creando un sogno, cioè assemblando nel modo più
coerente possibile frammenti di immagini e di sensazioni che si trovano già
nella memoria, prese dalla vita reale.
In altre fasi del sonno, invece, predominerebbero i pensieri. Ma questo non
spiega la presenza di sogni bizzarri o incubi movimentati anche in fasi diverse
dalla REM.
Ora gli scienziati prevedono ricerche congiunte, da effettuare con la PET ma
svegliando il soggetto di tanto in tanto per chiedergli che cosa ha sognato, in
modo da abbinare il tipo di attività cerebrale al tipo di sogno.
A cosa serve sognare?
Una cosa è certa: sognare è necessario. Sono stati condotti esperimenti su
volontari che venivano svegliati non appena gli strumenti registravano i
movimenti oculari tipici del sogno. Per impedire ai soggetti di sognare sono
stati necessari fino a 20 risvegli all'ora, uno ogni tre minuti. E quando
finalmente si permetteva loro di dormire, il cervello dei volontari sognava il
triplo del solito, doveva recuperare.
La vita onirica, dunque, è un bisogno fisiologico, come mangiare. Ma a cosa
serve? Per il momento a questa domanda rispondono solo teorie.
Secondo il neurobiologo M. Jouvet sognare servirebbe al cervello per fare il
"rodaggio" ad alcuni istinti prima di usarli nella vita reale. Il neonato passa
molto del suo tempo a sognare: già a due giorni di vita il suo viso nel sonno
ripete espressioni (disgusto, sorpresa, gioia) che il bebè è assolutamente
incapace di fare da sveglio. E a mano a mano che il neonato apprende la
mimica facciale, essa non compare più nel sonno. Quasi che il cervello dovesse
prima ripassare la "lezione", per poi poterla utizzare davvero. Secondo altri, i
sogni della fase REM sarebbero il risultato della trasformazione di un sonno
frammentato (tipico di molti animali) in uno continuo: un residuo
149
dell'evoluzione senza nessuno scopo particolare tranne quello di accorgersi più
facilmente se ci sono predatori in giro (il sonno REM è leggero anche se pieno
di sogni).
Altri studiosi ritengono che durante il sonno, e nel sogno in particolare, il
cervello faccia "manutenzione": elimini le informazioni inutili e ridondanti dalla
memoria e registri invece quelle più necessarie, apprese da poco. Un gruppo di
ricercatori americani di Harvard ha dimostrato che occorrono almeno sei ore di
sonno per ricordare le nozioni appena apprese.
Qualcuno arriva ad affermare che ogni sogno abbia uno scopo particolare
(una volta archiviare dati, un'altra volta cancellare informazioni o riabbinarle
ad altre già presenti) e che il cervello elabori una sceneggiatura adatta a quel
fine prendendo dalla memoria i personaggi e gli scenari più appropriati. E
quando il cervello non riesce a tessere una storia adatta allo scopo, si ha il
risveglio improvviso. Teorie come questa sono affascinanti ma non
dimostrabili.
I sogni sono prodotti (non del tutto casuali) dell'attività elettrica della
mente. E non sono privi di significato: gli psichiatri hanno stabilito che in
alcune fasi della vita (quelle di passaggio) ci sono sogni tipici, che hanno lo
scopo di aiutare la persona a "girare pagina" più facilmente. I maschi intorno
agli otto anni sognano abbastanza spesso di fare la lotta con animali o con
alcuni mostri fantastici. Sogni come questo rafforzano la fiducia in se stessi e li
aiutano ad aumentare l'indipendenza: è emerso da un'indagine di F. Battisti
(università di Cassino) sui sogni di mille bambini italiani. Un'analoga ricerca,
condotta sulle donne in attesa del primo figlio, ha dimostrato che verso la fine
della gravidanza sono comuni i sogni in cui il bambino ha già due o tre anni:
corre e sa muoversi da solo. Servono a preparare la futura mamma alla
"separazione" dal feto che avverrà con la nascita.
E i sogni ricorrenti come volare, cadere o non riuscire a scappare? Cadere è
un sogno tipico della fase di addormentamento: forse "si cade" perché la
mente perde il controllo sul mondo esterno. Volare e non riuscire a muoversi
sono invece sensazioni causate, dicono gli studiosi, dalla paralisi muscolare di
tutto il corpo: fenomeno tipico della fase REM.
Sui sogni è molto interessante (e semplice, pur se completo: è un libro di
divulgazione scientifica) il libro di P. Angela I misteri del sonno (soprattutto i
capitoli dal IV al IX) .
I "sogni lucidi"
150
Esiste un sito molto interessante (http://www.lucidity.com) interamente
dedicato ai sogni lucidi ("Che cosa sono e come imparare a farli") con una
sezione sulle esperienze paranormali come l'OOBE (Out of body experencies) o
le cosiddette "esperienze di pre-morte", NDE (Near death experencies) e altro.
Le esperienze di pre-morte vengono generalmente riferite da soggetti
risvegliati dal coma: essi testimoniano esperienze talmente ricche di sensazioni
da essere "indicibili" con linguaggio umano; essi avrebbero provato
l'esperienza - per riassumere in uno schema generale le innumerevoli
testimonianze (ed è proprio questo aspetto, dell'essere così numerose eppure
tutte simili, che dà loro una patente di serietà in quanto fenomeno
antropologico) - di vedersi usciti dal proprio corpo, di galleggiare, di
attraversare una sorta di "tunnel", ed entrare in un ambiente di "pace" e di
luce, incontrare un "essere di luce", vedere gli episodi più importanti della vita
"come in un film", incontrare una barriera oltre al quale non ci sarebbe ritorno
e infine l'essersi risvegliati nel corpo .
Alcuni ricercatori oggi cercano di spingersi molto in là nella ricerca sul
sonno e sui sogni: tentano non solo di condizionare ma anche di "teleguidare" i
sogni. È il campo dei cosiddetti sogni lucidi. Per sogno lucido si intende un
sogno in cui il dormiente è consapevole che quello che sta vivendo è un sogno.
Si sta cercando di capire se, con individui particolarmente soggetti a questo
tipo di esperienza e ben allenati, sia possibile aumentare il grado di
consapevolezza, in modo da poterli aiutare a "guidare" in una certa misura il
sogno. Ma i risultati di queste ricerche, pur affascinanti, sono ancora lontani
dall'essere convincenti .
D. Fontana ribadisce l'importanza dei sogni: "La comparsa nei sogni di
antiche memorie e il comprovato valore terapeutico dell'interpretazione dei
sogni confermano il valore guida che può assumere per noi l'esperienza
notturna" .
Sull'importanza dei sogni e in particolare sui "sogni ad occhi aperti" è
interessante il libro di Ethel S. Person - che ha uno stesso titolo . "Sogni a
occhi aperti e fantasticherie sono virtualmente onnipresenti e fluttuano dentro
e fuori dalla consapevolezza […] ma non sono mai lontane dal nostro Sé più
intimo. Le fantasie ci dicono qualcosa su chi siamo veramente: è questa una
delle ragioni per cui siamo riluttanti a condividerle con un estraneo" [Person,
1998, p. 4]. La Person ribadisce che proprio "tramite l'indagine di Freud sui
sogni, la psicoanalisi si è evoluta da metodo di trattamento a teoria generale
della mente, a psicologia del profondo che concepisce la mente come un
continuum che si articola dall'inconscio al preconscio alla coscienza: e questa
suddivisione della psiche corrisponde a ciò che percepiamo - e accettiamo - a
livello di coscienza personale" [Person, 1998, p. 92].
151
VII
La neurofilosofia
potenzialità
tra
esplorazione
e
critica
epistemologica:
limiti
e
del dialogo tra neuroscienze e filosofia
TRADIZIONE E INNOVAZIONE
Tutto il pensiero filosofico è interessante e importante, ma inevitabilmente
fa parte della "tradizione" e rischia di far pesare il suo ipse dixit di fronte
all'innovazione.
Noi oggi dobbiamo adeguare il pensiero filosofico alle ricerche scientifiche e
alla consapevolezza culturale di oggi. Ciò significa che tutti i pensatori fino al
'600, grandi o piccoli, sono stati solo una sorta di "mitologia filosofica",
essendo ancora al di fuori del pensiero scientifico.
Solo quelli che sono venuti dopo il '600 sono consapevoli di un certo modo
di indagare filosoficamente. Ma neanche essi possono costituire materia solida
per una ricerca attuale di filosofia, sopratutto di "filosofia cognitiva" perché
tutti hanno formulato ipotesi al di fuori del campo neurobiologico.
Quindi in sostanza, tutti i filosofi prima del '900 sono "tradizione" e devono
essere ascoltati solo come spunto, solo come passato storico della filosofia,
come primordi, antesignani, creatori e scopritori di archetipi.
Solo nel '900 (un esempio per tutti, Popper) ci sono stati filosofi che hanno
cercato di coniugare l'indagine metafisica, con le ricerche neurologiche più
avanzate, le conoscenze scientifiche con l'istanza teologica.
Ci può essere solo neurofilosofia
Ritengo che nessuna filosofia, d'ora in poi, può prescindere dall'aspetto
neurobiologico e che il futuro della filosofia è unicamente quello della
neurofilosofia.
152
Con ciò non voglio restringere l'indagine filosofica al campo cognitivo, né
intendo ridurre la filosofia alla neurobiologia, né intendo cancellare secoli di
meravigliose costruzioni filosofiche.
Cerco invece una sintesi, sinergie, confronto e dialogo tra le varie discipline
(quello che ho cercato di fare con questa tesi).
Penso che un'indagine filosofica deve assolutamente tener conto, in via
preliminare, di alcuni aspetti: il linguaggio (interpretazione), la coscienza, la
conoscenza, la visione del mondo legata alla biografia di chi guarda al mondo
(psicologia), la situazione sociale, culturale, internazionale del paese di chi
pensa...
Così, forse, è possibile dare spazio all'innovazione, alla luce della (e senza
distruggerla) innovazione.
La neurofilosofia ha una sua dignità riconosciuta, lo testimonia Dennett:
"Churchland rappresenta il primo esempio di "neurofilosofo" (si veda il suo
libro del 1986 Neurophilosophy: Toward a Unified Science of Mind/Brain)" .
LE TEORIE DELLA COSCIENZA
RIDUZIONISMO E METAFISICA
TRA
CONCEZIONI
NATURALISTICHE,
Da un prezioso articolo di S. Nannini pubblicato su Internet, che dovrebbe
diventare presto un saggio pubblicato per i tipi della Laterza, traggo i seguenti
interessantissimi spunti sulle concezioni oggi possibili a cavallo tra filosofia e
scienze cognitive.
È un tratto comune a tutte le odierne concezioni naturalistiche della
conoscenza considerare quest'ultima come un fenomeno integralmente
naturale che può essere spiegato senza residui dalla psicologia scientifica, dalla
biologia, dalla chimica o dalla fisica: i processi cognitivi, possibili solo in animali
dotati di un sistema nervoso centrale altamente sviluppato, sono il prodotto di
una lunghissima evoluzione biologica che ha il proprio punto d'origine nella
coordinazione senso-motoria; essi svolgono la funzione biologica di adattare il
comportamento dell'organismo all'ambiente esterno al fine di aumentare le
probabilità di sopravvivenza.
Tali concezioni naturalistiche della conoscenza trovano una delle loro
principali fonti nella filosofia di W. v. O. Quine . Secondo quest'ultimo
l'epistemologia non può e non deve essere una disciplina normativa che
autorizza il filosofo a chiarire a priori quale debba essere il corretto modo di
153
procedere della scienza. L'epistemologia può essere solo una descrizione del
modo nel quale gli uomini sono effettivamente capaci di conoscere la realtà.
L'epistemologia, da branca della filosofia, come sempre è stata considerata,
o anche da logica della scienza, come gli empiristi logici l'hanno intesa, deve
divenire essa stessa una scienza empirica: la "scienza dei processi cognitivi",
ramo della psicologia scientifica.
La psicologia scientifica alla quale Quine pensava, negli anni Sessanta, di
ridurre l'epistemologia era ancora il comportamentismo. A dire il vero ciò era
abbastanza anacronistico, perché il comportamentismo era entrato in crisi
profonda già verso la fine degli anni Cinquanta ad opera di linguisti come N.
Chomsky e di psicologi come G. A. Miller. Ma, se al comportamentismo
sostituiamo la "psicologia cognitiva" o qualsiasi altra scienza naturale (la
neurobiologia, la chimica ecc.) e le affidiamo l'antico compito, un tempo
filosofico, di chiarire che cosa sia la conoscenza, restiamo ancora fedeli
all'essenziale della posizione di Quine: pensiamo ancora che l'epistemologia, in
quanto disciplina filosofica, debba scomparire a vantaggio di una scienza
naturale (o quanto meno empirica) dei processi cognitivi; ossia aderiamo ad
una dottrina filosofica (più precisamente meta-epistemologica) che può essere
chiamata "naturalismo epistemologico forte".
Tuttavia già l'accenno precedente al carattere meta-epistemologico della
dottrina di Quine fa comprendere come non sia facile per il naturalista liberarsi
di ogni residuo filosofico-normativo non riducibile in termini empirici. Proprio
perciò alcuni naturalisti, pur seguendo fino ad un certo punto Quine,
preferiscono aderire ad una qualche forma di "naturalismo epistemologico
debole" (o "naturalismo cooperativo"), secondo la quale occorre distinguere
l'indagine scientifico-descrittiva intorno all'origine naturale dei processi
cognitivi dalla ricostruzione filosofico-normativa sui loro titoli di validità, ma i
due punti di vista, sebbene diversi, devono integrarsi e sorreggersi
reciprocamente.
Naturalismo epistemologico e naturalismo ontologico
Molti seguaci di Quine ritengono essenziale restare rigorosamente fedeli al
carattere unicamente epistemologico del naturalismo del maestro senza fare
alcuna concessione ad un naturalismo ontologico, che inevitabilmente
assumerebbe un carattere materialistico. Essi pretendono che la scienza debba
essere assolutamente scevra di presupposti a priori su ciò che effettivamente
esiste e sulla sua natura. Esiste tutto ciò che può essere oggetto d'indagine
empirica; ed esso ha tutte e sole le caratteristiche che le teorie scientifiche
stesse gli attribuiscono per poterlo spiegare e prevedere. Posizione questa che
può ricongiungersi con il relativismo cognitivo di quei post-empiristi che
pensano esistano tanti mondi reali diversi quante sono le teorie scientifiche.
154
Per giustificare questa posizione assolutamente scevra di presupposti
ontologici a priori (tutti egualmente sospetti, non importa se di carattere
materialistico o spiritualistico), si fa spesso riferimento al saggio Relatività
ontologica di Quine (1969). Se si legge, tuttavia, che cosa egli ha scritto ad es.
in un saggio successivo, Il posto dei pragmatisti nell'empirismo (1981), in
polemica con i pragmatisti stessi e gli idealisti, vediamo che egli non è affatto
un relativista e non sembra rinunciare, quale presupposto necessario del fare
scienza, ad un'ontologia filosofica di tipo realista: "Per James e gli idealisti
europei ciò che ho chiamato realtà consisteva più che altro nella sensazione.
Per i filosofi naturalisti come me, invece, gli oggetti fisici sono reali, fino alla
più ipotetica delle particelle, sebbene il riconoscimento di essi sia soggetto,
come tutta la scienza, a correzione. Posso sostenere questa linea ontologica di
realismo un po' ingenuo e poco elaborato e allo stesso tempo posso salutare
l'uomo come soprattutto l'autore, piuttosto che lo scopritore, della verità.
Posso sostenere i due punti insieme perché la verità scientifica relativa agli
oggetti fisici è ancora la verità, per tutti gli uomini che ne sono autori. Nel mio
naturalismo, non riconosco verità più elevata di quella che la scienza fornisce o
ricerca (…). Parliamo sempre all'interno del nostro sistema attuale quando
attribuiamo la verità; e non possiamo fare altrimenti. Il nostro sistema cambia,
certo, e quando ciò avviene noi non diciamo che la verità cambia con esso, ma
che noi abbiamo prima erroneamente pensato che qualcosa fosse vero e che
poi abbiamo migliorato le nostre conoscenze. Fallibilismo è la parola d'ordine,
non relativismo. Fallibilismo e naturalismo".
Il naturalismo di Quine non è, dunque, affatto relativistico. Il titolo del suo
saggio Relatività ontologica non deve trarre in inganno. Nessuna teoria
scientifica, certo, può descrivere il mondo "così com'è"; lo descriverà sempre e
inevitabilmente entro una certa cornice teorica, compresa un'ontologia, che un
domani dovrà forse essere rivista. Ma, se lo sarà, ciò non avverrà
semplicemente perché gli uomini avranno arbitrariamente cambiato il loro
modo di guardare al mondo, bensì perché si saranno accorti che il vecchio
modo era inadeguato rispetto ad una mai conclusa ricerca della verità.
Insomma, appena parlo del mondo non posso farlo che in un modo theoryladen, storicamente datato e soggetto a revisione; ma l'ideale (mai
completamente raggiungibile e tuttavia progressivamente avvicinabile) che
guida la mia ricerca continua ad essere quello di conoscere il mondo com'è e
non come io me lo invento!
Ammettere l'inevitabilità di una qualche ontologia filosofica come
presupposto
della
ricerca
scientifica
non
significa
certo
tornare
automaticamente alla vecchia metafisica. Sebbene, come vedremo tra poco, le
odierne teorie ontologiche riguardo al rapporto tra la mente ed il corpo
riprendano più o meno consapevolmente (ma comunque con sorprendente
fedeltà) le dottrine sull'anima già presenti nell'antichità, tuttavia esse, quando
siano concepite come semplice cornice teorica di sfondo delle attuali scienze
cognitive, cessano di essere delle verità a priori per divenire dei semplici
155
presupposti teorici che i risultati sperimentali possono sempre, in linea di
principio, costringerci a rivedere o abbandonare. Tali presupposti sono solo più
generali e cruciali rispetto a teorie scientifiche più particolari. Non possono
quindi essere smentiti facilmente, mediante singoli esperimenti. Nondimeno,
poiché la loro funzione è quella di guidare la ricerca scientifica, essi devono
essere abbandonati quando, alla lunga, risultino infruttuosi o ne esistano
comunque di preferibili.
Livelli d'analisi e scienze cognitive
Una qualche forma di ontologia filosofica è utile per le scienze cognitive?
Alcuni eminenti studiosi, che pur perseguono tenacemente e coerentemente un
programma di "naturalizzazione della mente" (cioè di spiegazione dei fenomeni
mentali mediante le neuroscienze e le simulazioni compiute con reti neurali
artificiali), lo negano con forza. Penso che abbiano torto, perché, se non si
presuppone la riducibilità ontologica degli stati mentali a stati cerebrali, diviene
assolutamente ingiustificato spiegare i fenomeni mentali stessi in termini
neurologici.
Inoltre le varie scienze cognitive individuano oggetti diversi. Costituiscono
essi altrettanti livelli di realtà reciprocamente irriducibili oppure tali oggetti
sono soltanto ridescrizioni diverse, livelli d'analisi diversi, di un'unica e
medesima realtà? E, in quest'ultima ipotesi, qual è la natura di tale realtà?
Vediamo anzitutto quali siano questi livelli d'analisi delle scienze cognitive:
Fenomeni culturali, storici e sociali (antropologia cognitiva, scienze sociali,
storia, linguistica);
Stati mentali individuali (folk psychology, behavioural sciences, psicologia
scientifica intelligenza artificiale e teoria computazionale della mente);
Reti neurali artificiali (connessionismo);
Fenomeni neurologici (neuroscienze);
Basi fisiche e chimiche dei fenomeni neurologici (fisica e chimica).
La relazione tra questi livelli d'analisi può essere considerata secondo un
approccio riduzionistico o antiriduzionistico. Inoltre il riduzionismo può essere
ontologico o metodologico.
Pertanto si danno quattro approcci fondamentali al riduzionismo:
* Riduzionismo ontologico e metodologico La sola vera realtà è quella fisica
e le sole vere spiegazioni di tutti i fenomeni sono quelle date in termini fisici. In
altre parole, in primo luogo, i livelli superiori d'analisi sono solo differenti
156
descrizioni di fenomeni che possono essere descritti anche in termini fisici
(almeno in linea di principio); in secondo luogo, le spiegazioni date da scienze
che siano differenti dalla fisica possono essere praticamente utili o addirittura
indispensabili, ma esse sono valide solo se sono traducibili, almeno in linea di
principio, in termini fisici.
* Riduzionismo ontologico e antiriduzionismo metodologico La sola vera
realtà è quella fisica, ma alcune proprietà funzionali di certi sistemi fisici
possono essere descritte e spiegate solo da linguaggi che appartengono a livelli
d'analisi più alti. Le teorie che sono formulate in linguaggi di livello più alto
possono essere intraducibili in linguaggi di livello più basso.
* Antiriduzionismo ontologico e riduzionismo metodologico Questa teoria,
sebbene sembri prima facie piuttosto bizzarra, è stata sostenuta da taluni
"emergentisti", secondo i quali, da un lato, la mente dopo il suo emergere dalla
materia nel corso dell'evoluzione biologica non è più riducibile ad essa e
costituisce un regno autonomo; e tuttavia, dall'altro lato, anche questo regno
può essere studiato scientificamente con metodi analoghi a quelli adottati dalle
scienze naturali.
* Antiriduzionismo ontologico e metodologico I livelli d'analisi rispecchiano
differenti livelli di realtà, che possono essere descritti e spiegati solo da
linguaggi reciprocamente intraducibili. Inoltre un tale pluralismo ontologico si
presenta in due differenti versioni:
Alcuni pluralisti ontologici ammettono livelli di realtà più alti la cui esistenza
è indipendente dall'esistenza di livelli di realtà più bassi (si pensi a tutti coloro
che credono nell'immortalità dell'anima): pluralismo senza correlazione
completa..
Altri pluralisti ontologici ritengono che i livelli di realtà più alti siano
ontologicamente irriducibili a quelli più bassi, ma emergano da questi ultimi e
possano esistere solo se sono da essi "sostenuti": pluralismo con correlazione
completa..
Il "problema mente-corpo"
L'essere riduzionisti o antiriduzionisti tra una coppia di livelli non implica
l'esserlo anche riguardo a qualsiasi altra coppia. Ad esempio quasi nessuno
oggigiorno nega la riducibilità ontologica (si noti, solo ontologica, non
metodologica) dei fenomeni socio-culturali ad insiemi di azioni, atteggiamenti e
stati mentali individuali (più i loro effetti nel mondo materiale): le guerre ad
es. non ci sarebbero senza i soldati; esistono le persone in carne ed ossa, non
la Società, la Cultura o lo Spirito. Molto più controverso è ancor oggi, invece,
se gli stati mentali individuali siano a no, a loro volta, ontologicamente
riducibili a processi fisico-chimici (prevalentemente localizzati nei cervelli).
157
Riguardo a questo rapporto, che è noto come il "problema mente-corpo", sono
state sostenute dall'antichità ad oggi, trascurando ovviamente ogni dettaglio e
semplificando all'osso, le seguenti teorie:
- Dualismo o pluralismo (Platone, Agostino ed il pensiero cristiano in
genere, Descartes, F. Brentano, K.R. Popper, D. Chalmers ecc.): mente e
corpo sono due "cose" distinte.
- Materialismo (gli atomisti, Gassendi, Hobbes, alcuni illuministi, i positivisti
tedeschi, il fisicalismo, la teoria dell'identità mente-corpo, il materialismo dello
stato centrale): gli stati mentali sono ontologicamente riducibili a stati fisici
(prevalentemente cerebrali).
- Funzionalismo e cognitivismo (l'ilomorfismo di Aristotele, varie forme del
funzionalismo contemporaneo, inclusa la cosiddetta "teoria computazionale
della mente" o "analogia mente-computer"): l'anima è la forma del corpo; gli
stati mentali sono stati funzionali implementati da stati cerebrali.
- Monismo neutrale e "teoria del doppio aspetto" (Spinoza, T.G. Fechner, E.
Mach, W. James, B. Russell, P.F. Strawson): alcune sostanze (o, in Spinoza,
l'unica sostanza esistente) sono in se stesse né mentali né fisiche, ma possono
avere proprietà o aspetti sia mentali che fisici.
- Eliminativismo (W.v.O. Quine, P. Feyerabend, R. Rorty, P.M. Stich, P.M.
Churchland e P.S. Churchland): il linguaggio della folk psychology deve essere
abbandonato in favore di concetti tratti dalle neuroscienze. L'eliminativismo è
una forma recente e radicale di naturalismo materialistico.
Queste prime cinque teorie compaiono nella filosofia antica, moderna e
contemporanea, inclusa la filosofia analitica e post-analitica, sebbene in forme
molto varie e differenziate.
- Idealismo trascendentale fenomenologico (Husserl): il Soggetto
Trascendentale non è un oggetto tra gli altri: è "l'occhio" al quale gli oggetti
appaiono e per il quale essi sono oggetti. Il mondo esiste solo in quanto è
"visto" dal Soggetto Trascendentale.
- Analisi esistenziale ed ermeneutica (M. Heidegger, H. Gadamer ecc.): la
forma d'essere che è tipica dell'uomo (l'esistenza o Dasein propria di un ente
"gettato" nel mondo) non può essere studiata empiricamente, ma solo
analizzata da quei filosofi che sono capaci d'intendere (soprattutto nei poeti) la
"Voce dell'Essere".
Queste due teorie contemporanee sono alternative alle teorie analitiche
della mente e anche alle ultime due posizioni classiche (in declino al giorno
d'oggi) rappresentate da:
158
- Idealismo (i neoplatonici, Leibniz, Berkeley, Fichte, Schelling, Hegel,
ecc.): la materia non ha un'esistenza indipendente dalle menti; gli oggetti
materiali esistono nella misura in cui sono pensati da una mente.
- Spiritualismo (F.P. Main de Biran, E. Boutroux, W. Wundt, H. Bergson
ecc.): un misto di dualismo e idealismo.
Teorie che rifiutano il problema metafisico mente-corpo
Tuttavia un nuovo approccio riguardo alla natura della mente fu introdotto
da Locke e Hume nella filosofia moderna. Questo approccio, basato sulla teoria
generale che ogni sostanza possa essere intesa come una collezione delle idee
delle proprietà che le appartengono, determinò il rifiuto del problema mentecorpo concepito come il problema metafisico della relazione fra due sostanze.
Una mente, al pari di un corpo, è concepita solo come una collezione d'idee.
Perciò i filosofi non sono interessati all'insolubile problema della natura della
mente, ma al problema empirico della determinazione delle leggi di
associazione fra le idee così come i fisici sono interessati alla gravitazione
universale di Newton. Questo atteggiamento verso la metafisica, scaturente
dall'empirismo classico, è stato sviluppato dai filosofi analitici nel Novecento ed
è stato fatto proprio dagli empiristi logici e dai comportamentisti nell'ambito
della filosofia della mente (dove esso è venuto a convergere con l'analogo
punto di vista dei neokantiani, che ripetevano la famosa teoria di Kant secondo
la quale l'anima non può essere conosciuta).
Pertanto si possono aggiungere alle nove soluzioni ontologiche del
problema mente-corpo summenzionate i seguenti quattro modi di rifiutarlo in
quanto problema metafisico e quindi insolubile:
- Empirismo classico (Locke e Hume).
- Idealismo trascendentale classico (Kant e i neokantiani).
- Empirismo logico (M. Schlick, R. Carnap ecc.).
- Comportamentismo analitico (L. Wittgenstein e G. Ryle).
Il "comportamentismo logico" degli empiristi logici, pur avendo molti punti
di contatto con il comportamentismo analitico di Ryle, si fonde con il
fisicalismo, cioè con una forma di materialismo che, ad avviso di Carnap e degli
altri empiristi logici che l'hanno sostenuta negli anni Trenta, sarebbe
completamente non metafisica.
Questo completo rifiuto della metafisica, o più precisamente dell'ontologia
filosofica, tuttavia, è divenuto sempre più contestato tra i filosofi analitici o
postanalitici negli ultimi quarant'anni: per un verso Quine, come abbiamo
159
visto, ha riabilitato, sia pur entro limiti precisi, l'ontologia; e per altro verso le
scienze cognitive affermatesi a partire dagli anni Sessanta , sebbene fondino
tutte le loro teorie sul comportamento osservabile, non pensano, come i
comportamentisti, che sia non scientifico occuparsi di stati soggettivi e
coscienti, ma credono al contrario che sia essenziale formulare ipotesi sui
processi interni che avvengono nella mente. Pertanto il problema della natura
degli stati mentali è tornato ad essere dibattuto.
Il "naturalismo cognitivo"
Le scienze cognitive, che già sono inclini per la loro origine
anticomportamentistica a riflettere sulla natura degli stati mentali concepiti
come stati interni e non direttamente osservabili degli esseri umani, trovano in
tale riflessione il modo più semplice e conveniente per dare una base
ontologica a quella interdisciplinarità che è la loro peculiare caratteristica
metodologica. Se, in particolare, i differenti fenomeni che sono oggetto
rispettivamente delle neuroscienze e della psicologia scientifica non sono che
ridescrizioni, a vari livelli d'analisi, di una medesima realtà, allora la tendenza
naturalistica a costruire un'unica scienza naturale della mente e dell'uomo
trova un solido fondamento in un'ontologia fisicalistica. Buona parte delle
odierne scienze cognitive presuppongono perciò, più o meno implicitamente,
delle concezioni generali sul rapporto tra mente e corpo.
Muovendo dalla convinzione che tali concezioni generali riprendano, sia pur
in forme nuove, alcune delle soluzioni tradizionalmente date al "problema
mente-corpo", possiamo formulare quattro principi accettati, anche se talvolta
solo implicitamente, dalla maggior parte delle tendenze naturalistiche
dominanti nelle scienze cognitive e chiameremo l'insieme di questi principi
"naturalismo cognitivo".
Tutte le soluzioni intuitivamente non naturalistiche rifiutano (o comunque
violano) almeno uno dei quattro principi in questione, mentre tutte le soluzioni
palesemente naturalistiche li rispettano
I quattro principi potrebbero dimostrare che cognitivisti e eliminativisti,
sebbene siano oggi in polemica tra loro, quando la loro disputa venga
considerata in una prospettiva storica più ampia, risulterebbero difendere due
teorie che, per quanto diverse, sono comunque entrambe naturalistiche. Per
sottolineare questo punto parliamo di "naturalismo cognitivo debole" e
"naturalismo cognitivo forte".
- Primo principio - La mente (così come la coscienza, lo spirito o la
soggettività) fa parte del mondo reale.
- Secondo principio - La natura costituisce l'intero mondo reale. Pertanto
(da [1] e [2]) la mente, la coscienza e la soggettività fanno parte della natura.
160
- Terzo principio - La natura può essere conosciuta solo dalle scienze
empiriche. Nessuna parte della natura può essere conosciuta a priori (o
mediante metodi diversi da quelli delle scienze empiriche). Pertanto la mente,
la coscienza e la soggettività, in quanto appartenenti alla natura, possono
essere conosciute solo per mezzo di scienze empiriche.
- Quarto principio - L'universo fisico è un sistema "chiuso". Ogni evento
fisico può essere spiegato, deterministicamente (come nella meccanica
classica) o probabilisticamente (come nella meccanica quantistica), in termini
puramente fisici. In una prospettiva naturalistica i fenomeni descritti ai livelli
d'analisi più alti sono ontologicamente riducibili ai fenomeni fisici e, perciò, non
possono essere cause o effetti di questi ultimi (almeno se si accetta la tesi di
Hume secondo la quale la causa e l'effetto devono essere logicamente
indipendenti l'una dall'altro): altrimenti uno stato mentale, ad esempio,
potrebbe essere la causa di quegli eventi cerebrali dei quali è una semplice
ridescrizione.
Teorie non naturalistiche
Alla luce dei quattro principi summenzionati Nannini elenca le più
importanti teorie non naturalistiche.
Il dualismo o pluralismo è la più antica teoria alternativa al naturalismo (si
pensi a Platone). Ma, dal momento che non tutte le forme di dualismo sono
incompatibili con il naturalismo, è necessaria una distinzione preliminare tra di
esse:
Dualismo metodologico Il modo
mentali ed i fenomeni culturali è
conosciuti gli eventi naturali. Questa
principio solo dai comportamentisti
cognitivo.
nel quale vengono conosciuti gli stati
diverso dal modo nel quale vengono
forma di dualismo è rifiutata in linea di
ed è compatibile con il naturalismo
Dualismo
concettuale
intensionale
Pensiero
e
materia
sono
fenomenologicamente distinti, ma può darsi che, per ogni predicato
psicologico, vi sia un predicato fisico avente la stessa estensione. Questa forma
di dualismo è perciò compatibile con la "teoria dell'identità tra mente e corpo"
(vale a dire, con il materialismo).
Dualismo concettuale estensionale Nessun predicato psicologico può avere
la stessa estensione di un qualsiasi predicato fisico. Le descrizioni e spiegazioni
psicologiche non sono traducibili in termini fisici o biologici. Sebbene ogni
singolo stato o evento mentale possa essere identico ad un certo stato o
evento fisico, non si dà nessuna identità permanente fra tipi di stati o eventi
mentali e tipi di stati o eventi fisici. Questa forma di dualismo è compatibile
161
con la "teoria dell'identità delle occorrenze", ma non lo è con la "teoria
dell'identità dei tipi" e perciò è contraria a quella forma forte del naturalismo
che, come vedremo, cerca di collegare la psicologia alle neuroscienze.
Il dualismo o pluralismo ontologico può essere suddiviso nel modo
seguente: Dualismo delle proprietà, Dualismo delle sostanze.
Entrambe le forme di dualismo ontologico devono rendere conto di un certo
grado (almeno) di correlazione tra il mentale ed il fisico: se voglio alzare il
braccio, esso di solito si solleva. Questa correlazione può essere spiegata dai
dualisti in tre modi diversi:
Interazionismo Un evento fisico può essere la causa di un evento mentale e
viceversa (ad es. Descartes e K.R. Popper).
Parallelismo Non c'è nessuna relazione di causa ed effetto tra il fisico ed il
mentale. La loro correlazione è dovuta ad una terza causa (si pensi, ad es.,
all'unicità della sostanza di Spinoza, all'occasionalismo di Malebranche o alla
"armonia prestabilita" di Leibniz). Il parallelismo è una dottrina molto
implausibile al giorno d'oggi, anche se potrebbe essere compatibile con certe
forme di dualismo delle proprietà combinate con il monismo neutrale.
Epifenomenismo Un evento cerebrale può causare l'emergere di uno stato
mentale, ma quest'ultimo non può retroagire sul corpo.
Sebbene negare un certo grado di correlazione tra la vita mentale ed i
movimenti corporei negli esseri umani sia impossibile, tuttavia alcuni dualisti
ammettono solo una correlazione parziale fra il mentale ed il fisico, mentre altri
pensano che questa correlazione sia completa, vale a dire senza eccezioni:
ogni evento mentale è correlato ad un certo evento cerebrale. Tale
correlazione può essere dovuta o ad una interazione causale in entrambe le
direzioni (dal fisico al mentale e dal mentale al fisico) o ad un'azione del fisico
sul mentale, ma non viceversa, oppure al parallelismo tra fisico e mentale. In
base alle distinzioni precedenti si danno perciò due forme di dualismo
ontologico (trasversali rispetto al dualismo delle sostanze e delle proprietà):
Dualismo ontologico senza correlazione completa Alcuni stati mentali
possono non avere alcun correlato cerebrale (Cartesio).
Dualismo (o pluralismo) ontologico con correlazione completa e interazione
Mente e corpo sono irriducibili l'una all'altro. Nondimeno stati fisici identici sono
necessariamente accompagnati da stati mentali identici. Questa correlazione è
dovuta sia all'azione causale del fisico sul mentale sia viceversa all'azione del
mentale sul fisico (interazionismo): alcuni stati mentali sono correlati ad eventi
fisici perché sono essi che li producono nel cervello (il mio atto volontario è
accompagnato dall'eccitazione di certi neuroni della corteccia cerebrale perché
è il mio libero arbitrio che produce quell'eccitazione come effetto fisico di una
causa mentale) .
162
Dualismo ontologico con correlazione completa, ma senza interazione
bidirezionale La correlazione fra il mentale ed il fisico è dovuta a parallelismo o
epifenomenismo. Non si dà nessuna causazione del mentale sul fisico: perciò la
loro correlazione è compatibile con il concepire l'universo fisico come un
sistema chiuso (ma l'esistenza del libero arbitrio, nel senso richiesto dai
libertarians, non è più possibile). L'epifenomenismo è una teoria ancora
presente, sebbene minoritaria, tra i filosofi contemporanei .
Il dualismo ontologico è contrario, in quasi tutte le sue forme, al
naturalismo cognitivo, poiché rifiuta tre dei suoi quattro principi fondamentali.
Infatti è sì vero che i dualisti ontologici ammettono che il mentale e la
soggettività fanno parte del mondo reale (primo principio del naturalismo
cognitivo), ma negano per lo più che il mentale e la soggettività siano
fenomeni naturali (secondo principio), a meno che non si sia disposti a definire
la natura in un senso molto più lato di quello usuale. Questo è evidente almeno
nel caso del dualismo ontologico senza correlazione completa: uno spirito che
può esistere senza il corpo ed è immortale non fa sicuramente parte della
natura! Inoltre chi pensa che il mentale sia fuori della natura è incline a
rifiutare anche il terzo principio del naturalismo cognitivo: vale a dire, è incline
a pensare che i fenomeni spirituali possono essere spiegati solo a priori,
filosoficamente, non attraverso le scienze empiriche. Infine un dualista
ontologico che sia interazionista, anche se accetta la correlazione completa tra
fisico e mentale, necessariamente rifiuta il carattere chiuso del mondo fisico
(quarto principio del naturalismo cognitivo), dal momento che ritiene che gli
eventi mentali possano causare eventi fisici: ad esempio, pensa che i
movimenti volontari del suo corpo annoverino almeno un evento mentale
irriducibile fra le loro cause, vale a dire una sua "volizione" (Popper).
L'epifenomenismo ed il parallelismo, invece, sono forme di dualismo
ontologico compatibili con il naturalismo cognitivo (il problema qui è la loro
plausibilità alla luce del "rasoio di Ockham").
Monismo anomalo Il monismo anomalo non è un'ipotesi scientifica (a
differenza di quanto pensano della teoria dell'identità dei tipi i suoi difensori),
ma una verità filosofica che può essere provata mediante argomenti a priori. Di
conseguenza il monismo anomalo sembra rifiutare il terzo principio del
naturalismo cognitivo, il principio secondo il quale la psicologia, da un punto di
vista metodologico, è una normale scienza empirica al pari della fisica. Per
questa ragione il monismo anomalo, sebbene possa essere visto come una
forma di materialismo (o di monismo neutrale), non è una forma di
naturalismo cognitivo.
L'idealismo trascendentale fenomenologico vale a dire l'idealismo di
Husserl, è profondamente antinaturalistico. È evidente infatti che la
fenomenologia di Husserl rifiuta sia il primo che il terzo principio del
naturalismo cognitivo.
163
Analisi esistenziale ed ermeneutica. Queste si teorie si contrappongono, nel
complesso, all'idea che anche la mente, lo spirito e più in generale il mondo
umano e storico-sociale possano (e, anzi, debbano) essere studiati con i
metodi delle scienze empiriche. Pertanto esse rifiutano quanto meno il terzo
principio del naturalismo cognitivo.
Idealismo e spiritualismo sono filosofie in declino al giorno d'oggi e non
sono molto importanti per la filosofia contemporanea della mente. Ad ogni
modo sono decisamente antinaturalistiche. Nessun idealista potrebbe accettare
l'idea che lo spirito faccia parte della natura (secondo principio del naturalismo
cognitivo). L'idealismo ed il naturalismo sono reciprocamente in contrasto
anche riguardo al terzo principio del naturalismo cognitivo stesso: nessun
idealista ha mai affidato la conoscenza dello spirito alle scienze empiriche.
Teorie naturalistiche
Veniamo alle teorie naturalistiche. Il naturalismo cognitivo implica, in tutte
le sue forme, il rifiuto del dualismo (o pluralismo) ontologico interazionistico.
Inoltre, sebbene sia in linea di principio compatibile con forme deboli di
dualismo ontologico come l'epifenomenismo o il parallelismo, implica di solito il
riduzionismo ontologico: esso perciò è monistico e più precisamente
materialistico in senso lato. Per i naturalisti l'unica vera realtà è la realtà fisica.
Le istituzioni sociali e i fenomeni culturali (incluso il linguaggio) possono
esistere solo nella misura in cui sono realizzati dai comportamenti e dagli stati
mentali di persone in carne ed ossa. Gli stati mentali, a loro volta, possono
esistere solo se sono implementati da stati cerebrali.
Il riduzionismo ontologico dei naturalisti è tuttavia difficilmente
accompagnato da un completo riduzionismo metodologico, perché quest'ultimo
è praticamente impossibile. Ad esempio, chi può pretendere seriamente di
spiegare l'andamento della borsa di Milano in un certo giorno ricostruendo i
processi subatomici che sono avvenuti nel cervello di tutti gli esseri umani il cui
comportamento in tutto il mondo ha contribuito a determinare un tale
andamento?!
Il naturalismo cognitivo è definito non solo dal riduzionismo ontologico del
primo e secondo principio, ma anche da due principi chiaramente metodologici
ed epistemologici come il terzo ed il quarto. Tuttavia il terzo principio del
naturalismo cognitivo (secondo il quale ogni fatto, non importa se mentale,
culturale, biologico o fisico, deve essere studiato da una scienza empirica),
sebbene accettato da tutti i naturalisti, è da loro diversamente interpretato a
seconda del differente livello d'analisi (e perciò della differente scienza
empirica) che essi preferiscono per lo studio dei fenomeni psicologici (o sociali
e culturali). Ricompare qui una tendenza più debole o più marcata verso il
riduzionismo metodologico, che è qui da intendersi non come il progetto
(impossibile a realizzarsi, abbiamo visto) di ridurre completamente ogni
164
scienza alla fisica, ma, più semplicemente, come la tendenza a servirsi di teorie
scientifiche che appartengono ad un basso livello d'analisi per spiegare
fenomeni di livello più alto. Diviene cruciale perciò, per distinguere le differenti
forme di naturalismo cognitivo, la relazione che la linguistica e la psicologia
cognitiva intrattengono con le neuroscienze. È riguardo a questa relazione che
si può distinguere il naturalismo cognitivo debole dal naturalismo cognitivo
forte.
Naturalismo cognitivo debole e naturalismo cognitivo forte
Il naturalismo cognitivo debole è una cornice teorica per le scienze
cognitive che, sebbene includa l'accettazione del riduzionismo ontologico e di
tutti e quattro i principi del naturalismo cognitivo, non solo difende
l'antiriduzionismo metodologico, ma sottolinea che lo studio del linguaggio e
degli stati mentali è possibile anche qualora nulla si sappia degli stati cerebrali
dai quali gli stati mentali stessi sono "implementati". Le teorie seguenti sono
gli esempi più importanti di questa forma di naturalismo:
Linguistica trasformazionale e generativa (N. Chomsky)
Funzionalismo (primo Putnam).
Teoria computazionale della mente (J. Fodor)
Il naturalismo cognitivo forte è una teoria secondo la quale le attività
mentali, in generale, e l'intelligenza, in particolare, sono abilità (o l'esercizio di
abilità) che consentono ad un organismo di meglio adattarsi al suo ambiente.
Esse si sono formate e mantenute per selezione naturale nel corso
dell'evoluzione biologica per la ragione che incrementavano le probabilità di
sopravvivenza degli individui che le possedevano. La loro base comune è la
"coordinazione senso-motoria".
L'intelligenza umana, che dipende in alto grado dalla capacità di parlare, è
solo il prolungamento evolutivo di abilità che già erano presenti negli animali
(fra queste abilità la vista ha un'importanza cruciale, perché permette il
riconoscimento della preda o dei predatori con grande precisione e a distanza).
Pertanto lo psicologo cognitivo non può spiegare il funzionamento della mente
umana senza sfruttare il patrimonio via via crescente di conoscenze sul
funzionamento del cervello offerto dai neuroscienziati.
Oltre che dalle neuroscienze un aiuto prezioso per lo psicologo può venire
anche dal "connessionismo" (reti neurali artificiali). Infatti i neuroscienziati
possono sì chiarire per mezzo di "neuroimmagini" quali potenziali elettrici
vengano evocati e quali aree della corteccia siano eccitate allorché vengono
eseguite determinate attività linguistiche o motorie, ma conoscono molto poco
riguardo al ruolo giuocato in tali prestazioni del cervello dal modo nel quale
165
esso è "cablato", vale a dire dal modo nel quale un cervello, in quanto rete di
neuroni, produce il giusto "pattern di attivazione" dei motoneuroni quando
riceva un certo input sensoriale (in questo campo l'unica cosa chiara è che il
cervello non può funzionare come un computer digitale). Le reti neurali
artificiali, invece, consentono di formulare quanto meno una prima ipotesi
riguardo al modo nel quale il cervello funziona in quanto sistema di neuroni e
perciò riguardo al modo nel quale esso processa l'informazione sensoriale.
Pertanto, secondo il naturalismo cognitivo forte, il legame della psicologia (e
anche della filosofia) con le neuroscienze diviene sempre più stretto.
Questa forma di naturalismo si presenta oggi principalmente sotto le tre
forme seguenti:
1) La teoria dell'identità dei tipi (insieme alla sua variante nota come
materialismo dello stato centrale), a differenza della teoria dell'identità delle
occorrenze, è una forma di naturalismo forte, dal momento che i suoi
sostenitori considerano l'identità degli stati o eventi mentali con degli stati o
eventi fisici come una ipotesi scientifica suggerita da una correlazione costante
tra fenomeni ripetibili di un certo genere che ulteriori risultati sperimentali
forniti dalla psicologia e dalle neuroscienze possono confermare o falsificare.
2) L'eliminativismo, sebbene appartenga insieme alla teoria dell'identità
alla grande corrente del materialismo in senso stretto e sottolinei il legame
della psicologia e della filosofia con le neuroscienze, si contraddistingue però
dalla teoria dell'identità, perché considera i concetti psicologici tratti dalla folk
psychology come troppo rozzi e inadeguati, perciò, alla costruzione di una
scienza della mente. E' impossibile scoprire il correlato cerebrale al quale un
certo stato mentale dovrebbe essere identico, se lo stato cerebrale è descritto
nel linguaggio sofisticato delle neuroscienze e lo stato mentale nel linguaggio
approssimativo della folk psychology. Gli eliminativisti non negano l'esistenza
della coscienza (come i loro oppositori quasi sempre ritengono, attribuendo
loro una tesi ridicola); essi affermano piuttosto che, ad esempio, il concetto
corrente di dolore è troppo vago e perciò non può essere correlato ad alcun
concetto delle neuroscienze che abbia la medesima estensione. Più in generale
la psicologia e la filosofia devono rivedere il loro linguaggio ed i loro concetti
alla luce delle neuroscienze, se vogliono avere con esse un rapporto di
coevoluzione .
3) Il "naturalismo biologico" di J. Searle. Questi concepisce la coscienza
come una proprietà biologica emergente, dovuta ai "poteri causali" del
cervello, e pretende con ciò di avere mandato in soffitta la vecchia alternativa
tra dualismo e materialismo: la coscienza è una proprietà naturale, ma al
tempo stesso introduce nel mondo una dimensione soggettiva irriducibile in
termini materialistici. È dubbio, tuttavia, che la posizione di Searle sia chiara e
non oscilli incoerentemente tra monismo e dualismo delle proprietà.
166
I "QUALIA"
Dedico un po' di spazio a un tema molto caro alla neurofilosofia e sul quale
i neurofilosofi dibattono argutamente e aspramente: i "qualia"
Il termine latino qualia (plurale di quale) è entrato nell'uso filosofico per
analogia con il termine quanta (singolare quantum). Un quantum è una
quantità; specificare un quantum significa riferirsi a una quantità di energia,
massa, velocità e via dicendo. L'idea di un quale, viceversa, è, come indica il
nome, qualitativa, invece che quantitativa. Specificare un quale significa
indicare come è una certa cosa, fare riferimento irriducibile al carattere
fenomenologico della nostra esperienza, al modo in cui le cose appaiono al
soggetto cosciente. Esempi di qualia sono il profumo del caffè appena macinato
o il gusto dell’ananas; tali esperienze hanno un carattere spiccatamente
fenomenologico di cui tutti abbiamo esperienza ma che è, sembra, molto
difficile da descrivere. La ricerca sulla natura, fenomenologia e probabile
origine causale dei qualia è diventato un importante terreno di indagine per la
recente filosofia della mente [Gregory, EOM, 1991, p. 766].
Secondo i riduzionisti i qualia posono essere pienamente spiegati in termini
degli eventi neurofisiologici del cervello e delle sue interazioni con l’ambiente.
Secondo la teoria che va sotto il nome di epifenomenalismo, i qualia sono
dipendenti per causalità o "susseguenti" a eventi cerebrali, ma non possono
puramente e semplicemente essere identificati con tali eventi.
Secondo il punto di vista dualistico, i qualia sono indipendenti dalla fisica e
appartengono al regno autonomo, non fisico, della mente.
L'universo, così come è descritto dalla scienza moderna, è concepito per lo
più in termini quantitativi, in risposta alla domanda quantum? cioè quanto? Ma
è notevole il fatto che la maggior parte dei modi più comuni che usiamo per
descrivere il nostro ambiente non sono quantitavi, ma qualitativi: le descrizioni
relative rispondono alla domanda Quale?, Com'è?
C'è un antico dibattito filosofico sul problema se tali qualità siano
veramente inerenti agli oggetti o se siano semplicemente effetti soggettivi
nella mente dell'osservatore.
John Locke sistematizzò (ma non l'aveva inventata) una distinzione fra
qualità primarie e secondarie [Gregory, EOM, 1991, pp. 766-767].
Le qualità primarie corrispondono grosso modo ai quanta scientificamente
misurabili, comprendono forma, grandezza e numero, e si suppongono inerenti
agli oggetti.
Le qualità secondarie, come colore, dolcezza ecc., sono piuttosto differenti:
le idee che ne abbiamo noi, secondo Locke, non assomigliano direttamente ad
167
alcunché negli oggetti stessi, ma sono solamente il risultato del modo in cui gli
oggetti influiscono sui nostri sensi per mezzo delle loro qualità primarie.
Alcuni filosofi non si sono fidati della distinzione fra qualità primarie e
secondarie, osservando che le nostre attribuzioni di colore, non meno delle
nostre attribuzioni di misura, sono una funzione di regole di linguaggio
perfettamente lineari e obiettive, così che è giusto dire che il sole è
"veramente" giallo, così come è giusto dire che è "veramente" sferico. Ma
rimane alla nostra sensazione di qualità, come quella di "giallezza", un
carattere speciale soggettivo o fenomenologico che sembra dipendere in parte
dal particolare apparato sensorio del quale è provvista la nostra specie e che
non è lo stesso per tutti gli individui.
Così è possibile immaginare che degli extraterrestri forniti di tipi di organi
differenti possano percepire la luce di una certa lunghezza d'onda in modi
radicalmente differenti da noi, fino al punto che la nozione umana di "giallezza"
sarebbe inaccessibile per loro. Questa linea di pensiero dà un sostegno all'idea
che ci sia veramente qualcosa di "soggettivo" nelle qualità sensoriali, come
l’essere rosso o dolce; le nozioni di quadrato o sferico, per contro, non
sembrano analogamente legate al "modo" sensorio particolare nei cui termini
sono sentite.
A parte le questioni di soggettività, c'è il problema se i quale come il color
rosso o la dolcezza possano utilmente figurare nelle spiegazioni scientifiche.
Robertl Boil, che scriveva intorno al 1650, faceva osservare che se vuoi sapere
perché la neve abbaglia, non serve che ti dicano che ha la "qualità del
candore". Simili accuse di vacuità delle spiegazioni furono rivolte contro la
teoria scolastica che i corpi cadono a causa di un'inerente qualità di gravitas o
pesantezza. È per questo tipo di ragione che Cartesio insisteva che le
spiegazioni scientifiche dovrebbero rifarsi a "null'altro che non sia ciò che gli
studiosi di geometria chiamano quantità e prendono come oggetto delle loro
dimostrazioni, cioè quello a cui si può applicare qualsiasi tipo di divisione,
forma e moto" (I principi della filosofia, 1644). Tuttavia, mentre questo punto
di vista quantitativo è senza dubbio stato frutturoso per la fisica, la sua
applicazione alla psicologia è più discutiblie.
Le qualità sensibili sono una parte inevitabile del paesaggio psicologico;
qualsiasi comprensione della nostra vita mentale deve, sembra, comprendere
qualche rapporto su che vuol dire per noi vedere i colori, annusare gli odori e
così via [Gregory, EOM, 1991, p. 767].
VIII
168
Appunti su alcune teorie contemporanee
della coscienza
IGNACIO MATTE BLANCO E LA MENTE ASIMMETRICA
In questo capitolo e nei seguenti raccolgo riflessioni di e su quattro autori
contemporanei. Non ho assolutamente la pretesa di illustrare le loro opere e le
loro teorie che in alcuni casi (come quello di Matte Blanco, sono interi
universi…). Ma voglio solo indicare una serie di spunti tratti dalle loro indagini,
che mi sono sembrati interessanti e che mi hanno portato - come farò negli
ultimi capitoli - a elaborare alcune mie riflessioni.
Il primo autore di cui mi occupo è Ignacio Matte Blanco (Santiago del Cile
1908 - Roma 1995). Psichiatra e psicoanalista cileno, laureatosi in medicina in
Cile, si è poi specializzato in psichiatria a Londra dove ha condotto il training
psicoanalitico., ha operato anche in Italia.
Nella sua opera maggiore L'inconscio come insiemi infiniti (1975) Matte
Blanco ha proposto un ripensamento sistematico dell'epistemologia
psicoanalitica attraverso i risultati della logica matematica.
In contrapposizione con le teorie della psicologia dell'Io di scuola
americana, che tendevano a isolare l'inconscio facendone un mero contenitore
di elementi rimossi, Matte Bianco ritiene che ciascun atto psichico sia il frutto
di entrambe le funzioni, conscia e inconscia, le quali mettono capo a strutture
logiche differenti ma unite (tesi della "bi-logica") all'interno del medesimo
apparato psichico.
Mentre la logica cosciente risponde ai principi noti della logica classica e
razionalistica che da Aristotele giunge alle procedure scientifiche, quella
inconscia - da cui deriva la precedente - si definisce nei termini con cui Freud
descrisse il processo primario.
Matte Blanco non condivide del tutto la posizione che potremmo definire
"pessimistica" di Freud che nel 1900 aveva scritto che "la vera realtà psichica
nella sua più intima natura è altrettanto sconosciuta a noi come la realtà del
mondo esterno ed è a noi presentata dai dati della coscienza in modo
altrettanto incompleto, quanto il mondo esterno dalle indicazioni dei nostri
organi di senso" [p. 73].
"La riflessione di Matte Blanco si sviluppa come un portare alle loro naturali
(o estreme?) conseguenze le rivoluzionarie intuizioni di Freud sull'inconscio, il
tutto alla luce dell'osservazione clinica sopratutto con riferimento alle
manifestazioni schizofreniche" [P. Bria, in Matte Blanco (Introduzione), 1981].
169
La logica inconscia è regolata da:
a) il principio di generalizzazione, per cui l'inconscio tratta l'elemento
individuale come se esso fosse membro di un insieme che contiene altri
elementi, e questo insieme, a sua volta, come sottoinsieme di un altro insieme
e così via all'infinito;
b) il principio di simmetria, secondo il quale l'inconscio tratta le relazioni
asimmetriche come se fossero simmetriche, per cui per es. "x è padre di y"
implica "y è padre di x".
Il risultato di questi due principi dà luogo all'abolizione della successione
spazio- temporale, alla negazione dei principio di non-contraddizione,
all'identità tra la parte e il tutto.
Dato che la logica conscia e quella inconscia di fatto coesistono e solo la
prevalenza quantitativa della prima sulla seconda differenzia la normalità dalla
follia, la terapia consiste nel ridistribuire più equilibratamente gli elementi tra
conscio e inconscio e non nell'"eliminare" l'inconscio.
"Essere simmetrico" ed "essere asimmetrico"
Per spiegare la natura dell'essere simmetrico e di quello asimmetrico Matte
Blanco chiarisce che "non avrei nulla da obiettare se qualcuno chiamasse
l'essere simmetrico "inconscio per sua natura", "inconscio strutturale" o
semplicemente "inconscio". Allo stesso modo, l'essere asimmetrico potrebbe
esser chiamato "l'essere che si manifesta nella coscienza" o semplicemente
"coscienza". Ritorneremmo, così, ai vecchi termini di Freud, "coscienza" e
"inconscio", purché sia in ogni caso chiaro che quando adoperiamo questi
termini ci stiamo riferendo ai due modi di essere, caratterizzati dall'uso
rispettivo di relazioni asimmetriche e simmetriche e non stiamo indicando
qualità coscienti o inconsce. In tutto il libro userò, in effetti, l'espressione
"inconscio" estensivamente, nel senso di essere asimmetrico" [p. 108].
"Con le relazioni simmetriche non è possibile stabilire una differenza tra
cose individuali; quindi l'individuo è, in tal caso, identico alla classe. Il pensiero
richiede relazioni asimmetriche. E così pure la coscienza. Le potenzialità della
classe o, in altre parole, il numero di valori che la funzione proposizionale può
assumere è infinito. Esse non possono, quindi, venir simultaneamente
comprese nella coscienza umana.
"Il pensiero è un processo, qualcosa in cui una cosa segue l'altra. La
coscienza umana assume una cosa dopo l'altra. Nulla, tuttavia, ci impedisce di
concepire una forma di coscienza che può cogliere simultaneamente un
numero infinito di cose. Se così fosse, l'essere simmetrico potrebbe entrare ed
170
essere colto in toto dalla coscienza. Per riprendere il paragone del bicchiere
dipinto: perché ciò sia possibile la coscienza dovrebbe avere infinite
dimensioni. In tal caso l'essere simmetrico riuscirebbe ad entrare in questa
coscienza di infinite dimensioni. Ma ciò non rientra nella realtà umana ed è
perciò estraneo ai fini della scienza. Forse potrebbe corrispondere alla
coscienza di Dio. Pensiero ed essere verrebbero allora a coincidere" [pp. 109110].
"Ogni fenomeno mentale è psico-fisico. [...] le dimensioni dello spaziotempo [...] sono in contatto immediato con il nostro intelletto che anche "si
muove" in esse." [p. 215].
Misurare i fenomeni psichici
Sulla possibilità di indagare, misurare i fenomeni psichici Matte Blanco
dichiara che "la stella più distante, la caverna più profonda della terra e la più
sfuggente particella di un atomo sono più pubbliche, più vicine alla nostra
osservazione di un pensiero o di un sentimento che non comunichiamo" [p.
216].
"Le conseguenze concettuali derivano dalla visione dei processi mentali qui
discussa sembrano significative [...]. Anche a prima vista si può constatare che
le infinte possibilità di misurazione inerenti ai processi mentali portano ad una
conseguenza piuttosto paradossale: è effettivamente impossibile, al presente,
misurare processi così densi di possibilità interne. Se, però, ricordiamo che il
concetto matematico di integrazione può essere concepito come la somma di
un numero infinito di infinitesimi, non c'è bisogno di sentire la via sbarrata per
sempre. [...] L'idea di attribuire ai processi psichici una intrinseca non
misurabilità si è dimostrata, alla luce di quanto sopra, insoddisfacente. [...]
l'alternativa degli psicologi sperimentali appare ugualmente insoddisfacente
[...] Ambedue possono essere superate con l'introduzione del concetto di
insiemi infiniti. [...] In alcuni dei suoi aspetti, molti dei quali sono esattamente
quelli studiati dalla psicoanalisi, la mente può essere trattata come una
collezione di insiemi infiniti" [p. 234].
"Un'altra osservazione che è alla portata di ogni persona che faccia
introspezione.Essa riguarda un caso che in alcuni casi di nevrosi ansiosa può
manifestarsi in forma drammatica.
Quando pensiamo esercitiamo tutta la nostra attività cosciente. Quando,
però, ci soffermiamo a considerare il processo stesso del pensiero e pensiamo
che siamo noi che stiamo pensando, quando in altre parole cerchiamo di
cogliere questa importantissima caratteristica dell'essere cosciente nella sua
interezza, nella sua pienezza, troviamo cha la nostra coscienza è qualcosa di
fugace, di mai completamente afferrato. [...] quando vogliamo diventare
pienamente consci del nostro essere consci, la nostra coscienza di essere
171
consci si annebbia. Possiamo diventare consci di essere consci solo in un modo
tangenziale, passeggero, fugace; non possiamo fermarci e restare a
contemplare la piena estensione della nostra comprensione, almeno non
possiamo farlo in condizioni normali, poiché per cogliere la nostra attenzione il
pensiero deve muoversi da un punto all'altro.
È interessante paragonare queste osservazioni con quelle fatte dai
neurofisiologi. Quando vediamo, i nostri occhi non sono mai fermi [...] Se
cerchiamo di osservare solo un punto e lo fissiamo la nostra visione diventa
confusa: per vedere dobbiamo muovere gli occhi. Ci troviamo esattamente
nella stessa situazione nel caso della "visione mentale" della coscienza. [...]
alcune caratteristiche peculiari osservate nei nevrotici ossessivi che possono in
verità essere chiamate disturbi del funzionamento della coscienza, per quanto
non siano mai stati classificati tra i disturbi classici della coscienza.
Un nevrotico ossessivo chiude la porta di casa, fa alcuni passi e si chiede se
ha veramnte chiuso o meno la porta. [...] Fa ogni sforzo per fare appello alla
sua introspezione (retrospettiva) con la massima chiarezza possibile. Cerca di
fissare quel momento nella sua mente ma più cerca più fugace diventa il
momento e più gli sfugge. [...]
Sembrerebbe che la certezza sia colta e sentita come tale solo se riusciamo
ad accettare la qualità fugace del momento in cui la stiamo cogliendo." [pp.
256-257].
"Per la nostra coscienza (umana) "essere" equivale ad "accadere". Eppure
abbiamo imparato a conoscere essere senza alcun avvenimento. Che cos'è
questo essere immobile in noi? Non possiamo comprenderlo poiché
comprendere è un avvenimento (asimmetrico). Lo "viviamo"? La difficoltà è
che la vita è anche asimmetrica: il suo concetto presuppone avvenimento.
L'unica risposta sembra essere che noi siamo (un) essere. Essere un essere è
estremamente "oscuro" poiché la "luce", sia essa fisica o simbolica
(propriamente "la luce dell'intelletto") appartiene al regno dell'avvenimento.
Diciamo perciò: in qualche senso oscuro siamo. [...] Così essere un essere o
"essere: 'essere' " è il massimo che possiamo dire, finora, di esso. Si rimane
frustrati. Ma, forse, quando noi siamo, sperimentiamo che cosa è essere.
Questa, però, dovrebbe essere "un'esperienza che non è un avvenimento"" [p.
354].
"La sensazione appare inizialmente nella coscienza maculare in uno stato
puro, nudo, per così dire. Ciò succede solo per un istante fugace; subito dopo
viene rivestita o ricoperta dallo stabilimento di relazioni senza il quale non
sembra essere in grado di rimanere nella coscienza maculare. [...] In sé la
sensazione-sentimento è sperimentata come un'unità indivisibile non come una
sequenza e come tale essa è al di fuori della successione o tempo e non si
presta al lavoro della coscienza maculare, che si sposta nel tempo, con
considerazioni successive prima di un aspetto poi di un altro. Il pensiero
accade o si dispiega, la sensazione è" [pp. 260-261].
172
"Se, però, consideriamo il tempo in cui si esercita l'introspezione, dobbiamo
concludere che l'introspezione è sempre un'attività retrospettiva. Queste due
caratteristiche sono sempre indissolubilmente legate."
"Possiamo quindi concludere che pensiero ed emozione hanno qualcosa in
comune che possiamo descrivere approssimativamente dicendo che vi è
pensiero nell'emozione ed emozione nel pensiero" [p. 316].
La natura della coscienza
"Sebbene sia vero che la coscienza non si riveli che tramite un oggetto
della coscienza, un pensiero, questo non significa necessariamente che
l'oggetto è la sola cosa che sia "lì". L'uomo invisibile della storia di Wells era
"lì" eppure non si rendeva visibile se non coperto da qualche materiale opaco.
La coscienza può essere paragonata all'uomo invisibile e gli oggetti della
coscienza - pensieri - al materiale opaco che ne rivela l'esistenza. La forma del
materiale opaco implica l'uomo invisibile e lo rivela; e l'uomo invisibile dà a
questo materiale la sua forma. Qualcosa di simile è vero per la coscienza.
Questa parola è un nome adoperato per designare un'astrazione costituita
dall'insieme delle attività - pensieri - per mezzo delle quali e in cui allo stesso
tempo gli oggetti della coscienza - anche pensieri - si rivelano. In questo senso
James sembra essere nel giusto quando afferma che la coscienza rappresenta
una funzione; forse, però, si potrebbe aggiungere qualcosa di più, sebbene
bisogna riconoscere che la questione viene, in definitiva, a dipendere dal
significato che si attribuisce alla parola "entità" e "funzione". [...] invece di
argomentare a favore dell'uno o dell'altro termine (o di ambedue) cercherò di
spiegare ciò che ho in mente. La coscienza può essere paragonata ad una
coppia di specchi paralleli che stanno uno di fronte all'altro. Se nessun oggetto
vi si riflette, allora uno specchio riflette l'altro e viceversa; il primo riflette il
riflesso di se stesso nel secondo e il secondo riflette il riflesso di se stesso nel
primo e così via all'infinito. Se, però, nessun oggetto si interpone tra gli
specchi non si vede nessuno di questi riflessi, mentre quando fa la sua
comparsa un oggetto ci rendiamo conto del numero infinito di riflessi.
La coscienza e i suoi oggetti sono della stessa natura, cioè pensieri ma
assolvono funzioni differenti; la prima quella di essere consapevole dei secondi
e i secondi quella di essere consapevoli di qualche realtà esterna. Sono
complementari: gli oggetti - pensieri - rivelano l'esistenza della coscienza e
quest'ultima, a sua volta, dà forma a quegli oggetti cosituiti dai pensieri,
poiché i pensieri sono pensieri in quanto la funzione della coscienza è
strutturata in termini di pensieri.
In altre parole i pensieri non esisterebbero se, in qualche modo, essi non si
riflettessero nei pensieri della coscienza, che costituiscono la vera struttura
della coscienza. Sembra una qualità essenziale al pensiero umano il fatto di
173
essere riflesso nella coscienza. I pensieri non possono esistere senza il loro
riflettersi nella coscienza, almeno come possibilità se non sempre come
attualità.
La differenza tra i pensieri chiamati oggetti della coscienza e i pensieri
chiamati coscienza sta, probabilmente, nel loro orientamento: verso qualcosa
di esterno nel caso dei pensieri "ordinari" e verso se stessi nel caso dei pensieri
della coscienza.
Bisogna, tuttavia, riconoscere che non appena i pensieri si rivolgono verso
se stessi, cioè diventano "pensieri di coscienza", essi non possono evitare di
trattare se stessi come esterni a se stessi.
L'attività asimmetrica (e l'attività della coscienza è attività asimmetrica)
non può evitare la separazione inerente alla contiguità e alla successione
poiché queste due nozioni sono essenziali alla nozione di essere esterno.
Eppure questa "riflessività" dei pensieri, che stabilisce la differenza tra
pensieri come oggetti della coscienza e pensieri come coscienza, tende verso
una misteriosa unità indivisibile di questi pensieri che noi vediamo come
appartenenti a due categorie diverse.
Forse la nascita della coscienza è "situata" proprio al punto esatto di
incontro dei modi simmetrico e asimmetrico e sarebbe questa la ragione di
questa strana elusività del fenomeno della coscienza: quando lo descriviamo lo
impoveriamo poiché lasciamo fuori, nelle nostre descrizioni, gli aspetti
simmetrici che sono essenziali alla coscienza stessa.
Ma forse, dopo tutto, l'aspetto simmetrico della coscienza si rivela nelle
nostre descrizioni attraverso il riferimento all'infinita riflessività della coscienza
su se stessa, che ci appare così strana e misteriosa. Forse questo è un altro
esempio del fatto che abbiamo già notato e vedremo ancora di nuovo: ogni
qualvolta la ragione asimmetrica si trova di fronte all'essere simmetrico, la
cosa migliore che può fare è descriverlo come un insieme infinito. L'infinita
"riflessività" della coscienza su se stessa è un caso di insieme infinito.
Tutto ciò, credo, potrebbe essere oggetto di ulteriore ricerca. Forse se
riusciamo a sciogliere questo mistero, saremo molto più in grado di capire la
capacità di coscienza che possiede l'essere simmetrico" [pp. 251-253].
Uomo e società
"La nozione di conflitto intrapsichico, che è così centrale nella concezione
analitica, può essere vista sotto una nuova luce se esaminata dal punto di vista
della bipolarità simmetrico-asimmetrico [...] In termini generali, il contrasto tra
l'aspetto dell'uomo per cui egli è un solo essere con tutti gli altri esseri e l'altro
174
aspetto, per cui egli è separato e indipendente dagli altri, è all'origine della
patologia mentale. In termini biologici possiamo parlare del contrasto tra la
tendenza ad essere un sincizio e la tendenza ad essere una cellula.
In questo senso è interessante considerare che il concetto di comunità e di
organismo sociale rappresenta il punto d'incontro tra ambedue gli aspetti,
poiché da un certo punto di vista questo concetto comporta quello degli
individui che formano il gruppo e da un altro indica la fondamentale unità di
tutti gli esseri umani. Forse questa è la base dell'importanza fondamentale
della visione dell'uomo come essere sociale: il punto di incontro tra
individualità (asimmetria) e simmetria onniconclusiva" [pp. 352-354].
Insomma, quando e dove si applica il principio di simmetria scompaiono lo
spazio, il tempo, le distinzioni tra parte e tutto, tra individuo e classe, tra
individui, tra cose singole; e scompare anche il principio di non-contraddizione
[P. Bria, in Matte Blanco (Introduzione), 1981, p. XXXIV].
Ma "il solo spazio che ha qualche significato per i nostri sensi è lo spazio
tridimensionale o, più precisamente, gli oggetti tridimensionali" [p. 500].
Psicanalisi ed epistemologia
Bria conclude l'introduzione al saggio di Matte Blanco citando la risposta
che quest'ultimo ha dato in un'intervista sul "futuro" della psicoanalisi e
dell'epistemologia.
"Essa rappresenta - sostiene Bria - la sintesi più profonda ed efficace del
suo intero pensiero:
D. Che cosa può offrire la psicoanalisi per una epistemologia del futuro?
R. L'identità tra simbolo e cosa simbolizzata, profondamente inconscia,
suggerisce una visione dell'essere come unico, indivisibile, omogeneo
(Parmenide), in contrasto e costante intreccio con quella del pensare, che fa
distinzioni senza fine tra gli esseri e negli esseri; epistemologia bi-modale e bilogica. Così, nel mezzo delle agitazioni dell'amore e dell'odio, sentite
inconsciamente come infinite, l'uomo è anche abisso insondabile di pace totale.
Tutto ciò porta all'infinito come struttura bi-logica, perciò ad una nuova
fondazione della matematica, quindi della scienza, del mondo e della società:
uomini diversi ed un solo essere.
Infine, tutti misteriosamente immersi in Dio invisibile, con diversi nomi
umani - Bellezza, Bontà, Scienza, Società politica ideale e Dio - ma, in fondo,
Jahveh impensabile, essenzialmente inconoscibile, ineffabile" [P. Bria, in Matte
Blanco (Introduzione), 1981, p. CVII].
175
DANIEL C. DENNETT E LA VISIONE COGNITIVISTA DELLA COSCIENZA
Daniel C. Dennett si è occupato ampiamente della coscienza pubblicando
numerosi saggi e articoli nei quali propone analisi sistematiche e stringenti ma
esposte con uno stile gradevole e divertente. Per esempio è addirittura
spassoso quando critica i trabocchetti filosofici ed epistemologici che il
complesso tema della coscienza fornisce (si vedano per esempio le assurdità
del "teatro cartesiano"), salvo però caderci lui stesso.
Infatti il suo indirizzo cognitivista lo porta a costruire una teoria
complessiva sulla coscienza esponendosi perciò stesso a numerose critiche, dal
momento che attualmente nessuno è in grado di fornire una teoria
soddisfacente che spieghi la natura e il funzionamento della coscienza.
L'obiettivo di Dennett è abbastanza chiaro: "Nei capitoli seguenti [...]
spiegherò i vari fenomeni che compongono ciò che chiamiamo coscienza,
mostrando come essi siano tutti degli effetti fisici delle attività del cervello,
come queste attività si siano evolute e come facciano sorgere le illusioni sui
loro poteri e le loro proprietà" [Dennett, 1993, p. 25] .
Eppure ammetteva che "la coscienza umana è praticamente l'ultimo
mistero che ancora sopravvive. Un mistero è un fenomeno sul quale la gente
non sa - ancora - come ragionare. Con la coscienza ci troviamo ancora nella
confusione più completa [...] E, come con tutti i precedenti misteri, ci sono
molti che insistono - e sperano - che non ci sarà mai una demistificazione della
coscienza" [Dennett, 1993, p. 31-2].
Ma "c’è il vago sospetto che la caratteristica più attraente della sostanza
mentale sia la sua promessa di essere così misteriosa da tenere la scienza in
scacco per sempre " [Dennett, 1993, p. 49d].
Egli sa che la sua spiegazione della coscienza è tutt’altro che completa. "Si
potrebbe perfino dire che è stata solo un inizio, ma è un inizio, perché rompe
l’incantesimo creato dalle idee che fanno sembrare impossibile una spiegazione
della coscienza. Io non ho sostituito una teoria metaforica, il Teatro Cartesiano,
con una teoria non metaforica (letterale, scientifica). Tutto quello che ho fatto,
realmente, è stato di sostituire una famiglia di immagini e metafore con
un’altra: ho rimpiazzato il Teatro, il Testimone, l’autore Centrale, il Figmento
con un Software, le Macchine Virtuali, le Versioni Molteplici, un Pandemonio di
Homunculi. È solo una guerra di metafore, potresti dire - ma le metafore non
sono "solo" metafore; le metafore sono gli strumenti del pensiero. Nessuno
può riflettere sulla coscienza senza di esse, così è importante equipaggiarsi con
il migliore insieme disponibile di strumenti" [Dennett, 1993, p. 508].
Dennett critica l'atteggiamento di dire che la coscienza è ciò che conta, e
poi aggrapparsi a dottrine sulla coscienza che impediscono "sistematicamente"
176
di ottenere qualsiasi ragguaglio sul perché essa conta" [Dennett, 1993, p.
502].
Ma ha fiducia, una genuina fiducia positivistica, perché "naturalmente ci
deve essere qualcosa che viene "lasciato fuori" - altrimenti non avremmo
iniziato a spiegare". E "il fatto che qualcosa venga lasciato fuori non è una
caratteristica delle spiegazioni mancate, ma delle spiegazioni riuscite"
[Dennett, 1993, p. 507].
Per formulare la sua teoria Dennett utilizza il concetto di mema.
"Intuitivamente queste sono delle unità culturali più o meno identificabili: le
unità sono gli elementi più piccoli che replicano se stessi con affidabilità e
fecondità. Dawkins conia un termine per tali unità: memi - unità di
trasmissione culturale o unità di imitazione" [Dennett, 1993, p. 227].
Sono tre i mezzi che hanno contribuito al progetto della coscienza umana l’evoluzione genetica, la plasticità fenotipica e l’evoluzione memetica - ognuno
a suo tempo e a una velocità crescente [Dennett, 1993, p. 235].
Discipline a confronto
Sulla necessità che una teoria della coscienza sia eclettica e su come i vari
addetti ai lavori facciano fatica ad accettare gli sconfinamenti ironizza Dennett
raccontando un aneddoto. Quelli dell’Intelligenza Artificiale chiedono a Dan
"Perché sprechi il tuo tempo a parlare con i neuroscienziati? Non danno
importanza ai "processi informazionali" e si preoccupano solo di dove essi
avvengano, e di quali neurotrasmettitori siano implicati [...], ma non hanno la
minima idea sui requisiti computazionali delle funzioni cognitive superiori".
Ma "perché - domandano i neuroscienziati - sprechi il tuo tempo con le
fantasie dell’Intelligenza Artificiale? Quelli non fanno altro che inventare
innumerevoli marchingegni e affermano cose di un’ignoranza imperdonabile sul
cervello".
Gli psicologi cognitivi, nel frattempo, sono accusati di mettere assieme dei
modelli privi sia di plausibilità biologica sia di dimostrati poteri computazionali;
gli antropologi non riconoscerebbero un modello anche se lo vedessero, e i
filosofi, come tutti sanno, non fanno altro che riciclare i panni sporchi degli
altri, mettendo in guardia da confusioni che essi stessi hanno creato, in
un'arena priva sia di dati che di teorie empiricamente verificabili.
Con tutti questi idioti che lavorano al problema, non stupisce che la
coscienza sia ancora un mistero" [Dennett, 1993, p. 284-5].
177
La coscienza come "macchina virtuale di memi che reimpiega il cervello"
Ecco la teoria di Dennett: "L'ipotesi che difenderò è che la coscienza umana
è essa stessa un enorme complesso di memi (o più esattamente, di effetti
provocati dai memi nel cervello) che si può comprendere egregiamente
pensando al funzionamento di una macchina virtuale "neumanniana"
implementata sull’architettura parallela di un cervello che non era progettato
per attività del genere. I poteri di questa macchina virtuale accrescono
notevolmente i sottostanti poteri dell’hardware su cui gira, ma nello stesso
tempo molte delle sue caratteristiche più strane, e soprattutto delle sue
limitazioni, possono essere spiegate come prodotti collaterali dei kludge che
rendono possibile questa strana ma efficace riutilizzazione di un organo già
esistente per nuovi scopi" [Dennett, 1993, p. 236-7].
I fenomeni della coscienza umana sono stati spiegati in termini di
operazioni di una "macchina virtuale", una sorta di programma informatico
evoluto (e evolventesi) che plasma le attività del cervello. Non esiste un Teatro
Cartesiano; esistono solo Molteplici Versioni composte da processi di fissazione
di contenuti che giocano vari ruoli semi-indipendenti nella più vasta economia
tramite la quale il cervello controlla il viaggio del corpo umano attraverso la
vita. La convinzione straordinariamente persistente che ci sia un Teatro
Cartesiano è il risultato di una varietà di illusioni cognitive che sono state ora
esposte e spiegate. I "qualia" sono complessi stati disposizionali del cervello e
il sé (altrimenti noto come il Pubblico del Teatro Cartesiano, l’Autore Centrale o
il Testimone) si rivela essere una valida astrazione, una finzione teorica
piuttosto che un osservatore interno o un boss.
Se il sé è soltanto il Centro di Gravità Narrativa, e se tutti i fenomeni della
coscienza umano sono "soltanto" i prodotti delle attività di una macchina
virtuale realizzata nelle connessioni incredibilmente modificabili del cervello
umano, allora, in linea di principio, un robot opportunamente programmato,
con un cervello costitutito da un calcolatore a base di silicio, sarebbe cosciente,
avrebbe un sé [Dennett, 1993, p. 480].
"Poiché ha trovato difficile - spiega Dennett - immaginare come un robot
possa essere cosciente, il mio amico è stato riluttante ad immaginare un robot
che fosse cosciente [...] Ma è altrettanto difficile immaginare come un cervello
umano organico possa sorreggere la coscienza. Come potrebbe un complicato
ammasso di interazioni elettrochimiche tra miliardi di neuroni equivalere alle
esperienze coscienti? Eppure noi immaginiamo facilmente che gli esseri umani
siano coscienti.
Come è possibile che il cervello sia la sede della coscienza? Questa è stata
di solito considerata dai filosofi una domanda retorica, un invito a pensare che
la sua risposta si collochi oltre la comprensione umana. Uno dei compiti
principali di questo libro è stato quello di demolire tale presupposizione. Io ho
178
sostenuto che puoi immaginare come tutto questo ammasso complicato di
attività nel cervello equivalga all’esperienza cosciente" [1993, p. 482].
La coscienza è il prodotto delle nostre rappresentazioni
Secondo Dennett noi siamo costantemente impegnati a presentare noi
stessi agli altri, e a noi stessi, e quindi a rappresentare noi stessi - tramite il
linguaggio e i gesti, internamente ed esternamente. Quando diamo libero
accesso a queste parole, questi veicoli di memi, esse tendono a prendere il
sopravvento, a crearci, utilizzando il materiale grezzo che trovano nei nostri
cervelli.
La nostra tattica fondamentale di auto-protezione, di auto-controllo e di
auto-definizione non è quella di tessere ragnatele o quella di costruire dighe,
ma quella di raccontare storie, e più in particolare di architettare e controllare
la storia che raccontiamo agli altri - e a noi stessi - su chi siamo. I nostri
racconti vengono tessuti, ma per lo più noi non li tessiamo; essi ci tessono. La
nostra coscienza umana - la nostra individualità narrativa - è un loro prodotto,
non la loro fonte.
La coscienza e i sé
"E dov’è la cosa a cui si riferisce la tua auto-rappresentazione? È ovunque
tu sia. E cos’è questa cosa? È nulla di più, e nulla di meno, che il tuo centro di
gravità narrativa" [Dennett, 1993, p. 477].
Dennet giunge all'affermazione paradossale secondo cui due o tre o
diciassette sé per corpo non è davvero metafisicamente più stravagante di un
sé per corpo. Anche uno è troppo!.
"I sé non sono anime-perle che esistono indipendentemente, ma risultati
dei processi sociali che ci creano e, come altri prodotti del genere, soggetti a
improvvisi mutamenti di status.
"Se ciò che sei è questa organizzazione dell’informazione che ha strutturato
il sistema di controllo del tuo corpo (o, per dirlo nel modo più usuale e
provocatorio, se ciò che sei è il programma che gira nel tuo calcolatore
cerebrale), allora potresti in linea di principio sopravvivere alla morte del tuo
corpo, così come un programma può conservarsi intatto anche dopo che sia
stato distrutto il calcolatore sul quale è stato creato ed eseguito per la prima
volta" [Dennett, 1993, p. 478-9].
L’idea di un sé (o di una persona o, anche, di un’anima) distinto dal
cervello o dal corpo è profondamente radicata nel nostro modo di parlare, e
179
quindi nel nostro modo di pensare. "Io ho un cervello". Questo sembra un
modo di esprimersi completamente accettabile. E non sembra significare
semplicemente "Questo corpo ha un cervello" (e un cuore, e due polmoni, ecc.)
o "Questo cervello ha se stesso". Ma "il guaio con i cervelli è che, quando ci
guardi dentro, scopri che non c’è nessuno in casa. Nessuna parte del cervello è
il pensatore che effettivamente o lo sventurato che sente il dolore, e il cervello
nel suo insieme non sembra essere un candidato migliore per questo ruolo
speciale" [Dennett, 1993, pp. 40-41].
"Nel cervello non esiste una cellula o un gruppo di cellule in una tale
preminenza anatomica o funzionale da poter sembrare la chiave di volta o il
centro di gravità dell’intero sistema, (William James, 1890).
Non esiste un singolo punto nel cervello verso il quale tutte le informazioni
vengono incanalate" [1993, pp. 119-120].
"Poiché la cognizione e il controllo - e quindi la coscienza - è distribuita in
tutta l’area del cervello, non è possibile scegliere nessun momento preciso
come quello in cui avviene l’evento cosciente" [1993, p. 193].
Coscienza e linguaggio
"Il linguaggio gioca un ruolo enorme nella strutturazione di una mente
umana; quindi non dovremmo supporre che la mente di una creatura priva di
linguaggio - e che non ha in realtà alcun bisogno di esso - sia strutturata nelle
stesse maniere" [Dennett, 1993, p. 498].
"Il linguaggio infetta i nostri pensieri e ne altera la flessione a ogni livello.
Le parole nel nostro vocabolario sono dei catalizzatori che possono far
precipitare contenuti specifici quando una parte del cervello prova a
comunicare con un’altra. Nulla di tutto ciò ha il minimo senso se continuiamo a
pensare alla mente come idealmente razionale e perfettamente unificata e
trasparente a se stessa. A che cosa serve parlare a noi stessi, se si conosce già
cosa si intende dire?" [Dennett, 1993, p. 335-6].
Se non potessi parlare a me stesso, non avrei modo di conoscere quello
che stavo pensando.
E
d'altronde,
"come
sappiamo,
gran
parte
dell’elaborazione
dell’informazione nei sistemi nervosi è completamente inconscia " [Dennett,
1993, p. 495].
Cervelli e computer
180
I due registri, in cui possono comparire solo un’istruzione e un valore alla
volta, costituiscono la celebre "strozzatura di Neumann", il luogo angusto in cui
tutte le attività del sistema devono passare in fila indiana. In un calcolatore
veloce, si possono svolgere milioni di operazioni al secondo che collegate
insieme producono gli effetti apparentemente magici che l’utente osserva. Tutti
i calcolatori numerici sono i diretti discendenti di questo schema progettuale.
Queste nuove ed affascinanti macchine di von Neumann furono chiamate
"giganteschi cervelli elettronici", ma esse erano in realtà gigantesche menti
elettroniche, imitazioni elettroniche - decise semplificazioni - di quel che
William James chiamò flusso di coscienza, la tortuosa sequenza di contenuti
mentali coscienza meravigliosamente descritta da James Joyce nei suoi
romanzi.
L’architettura del cervello, al contrario, è massicciamente parallela, con
milioni di canali operazionali simultaneamente attivi. "Ciò che dobbiamo capire
è come un fenomeno seriale Joyceano (o come ho detto "neumanniano") possa
esistere, con tutte le sua familiarità peculiarità, nel tumulto parallelo del
cervello" [Dennett, 1993, p. 241].
L'eterofenomenologia
"Possiamo paragonare il compito dell’eterofenomenologo di interpretare il
comportamento dei soggetti con quello del lettore di interpretare un’opera
narrativa" [Dennett, 1993, p. 93]. Che non è un modo normale di trattare le
persone, come produttori di finzioni narrative, ma questo è lo statuto
dell’eterofenomenologia per Dennett.
"Ovunque esiste una mente cosciente, esiste un punto di vista. [...] Una
mente cosciente è un osservatore, che recepisce un sottoinsieme limitato di
tutte le informazioni esistenti; un osservatore che recepisce le informazioni
disponibili in una sequenza particolare (più o meno) continua di tempi e luoghi
nell’universo" [Dennett, 1993, p. 119].
Secondo il modello delle Molteplici Versioni, ogni tipo di percezione - in
verità, ogni tipo di pensiero o attività mentale - è compiuto nel cervello da un
processo parallelo e a piste multiple di interpretazione ed elaborazione dei dati
sensoriali in ingresso. Le informazioni che entrano nel sistema nervoso sono
sotto continua "revisione editoriale".
La revisione orwelliana
"La possibilità di una revisione (orwelliana) post-esperienziale mette in luce
una delle nostre più fondamentali distinzioni: quella tra apparenza e realtà.
[...] Una revisione orwelliana non è l’unico modo per ingannare i posteri. Un
181
altro consiste nell’inscenare processi farseschi, presentando trascrizioni
accurate di false testimonianze e finte confessioni, e integrandole con prove
abilmente contraffatte. Un tale stratagemma si potrebbe chiamare staliniano"
[Dennett, 1993, p. 135-6].
I cervelli più sosfisticati nel mondo animale, grazie alla loro plasticità, sono
capaci "non solo di anticipazioni stereotipate, ma anche di adattarsi a linee di
tendenza. Ma per un controllo veramente potente, hai bisogno di una macchina
anticipatrice che si riprogetta radicalmente in pochi millisecondi.
Secondo Edelman uno fra i caratteri più sorprendenti della coscienza è la
sua continuità. Ciò, per Dennett è completamente sbagliato. "Uno fra i caratteri
più sorprendenti della coscienza è la sua discontinuità" [Dennett, 1993, p.
395]. "Stai negando allora che la coscienza sia un qualcosa di pieno? - hanno
chiesto a Dennett. - Sì, infatti. La coscienza è lacunosa e sparsa, e non
contiene neanche la metà delle cose che la gente pensa" [Dennett, 1993, p.
407].
KARL RAIMUND POPPER E IL MONDO DELLE IDEE
Il filosofo austriaco Karl Raimund Popper (Vienna 1902 - Londra 1994), pur
essendosi formato a stretto contatto con il circolo di Vienna, non ne fece mai
effettivamente parte e la sua prima opera, Logica della scoperta scientifica
(1934), ne rappresenta una critica radicale.
Popper parte dalla critica bruniana del procedimento induttivo secondo la
quale è impossibile giungere logicamente a una conclusione universale
partendo dall'analisi di una somma di casi particolari. Se nessun numero di
esempi confermati può giustificare la verità di una proposizione universale, un
solo esempio contrario consente invece di dimostrarne la falsità, cioè di
procedere alla sua "falsificazione".
È quindi la falsificabilità e non la verificabilità che costituisce il tratto
caratteristico delle teorie scientifiche. È la direzione stessa dell'indagine che
viene in tal modo invertita: non si muove dai fatti alla costruzione delle teorie,
ma dalle teorie al loro controllo mediante i fatti.
E poiché questo controllo avviene traendo deduttivarnente dalle teorie le
loro conseguenze, Popper designa il metodo da lui proposto come "ipoteticodeduttivo"
Dunque una teoria, nella migliore delle ipotesi, può essere assunta soltanto
provvisoriamente come vera, poiché in realtà essa conserva sempre un
carattere ipotetico e congetturale e può quindi sempre venir confutata da
controlli futuri.
182
Popper ha anche sostenuto l'esistenza di una verità assoluta che costituisce
la meta (sia pure come ideale regolativo nel senso kantiano) del cammino della
scienza (Congetture e confutazioni, 1962). Ha proposto perfino una teoria della
conoscenza che ha parecchi punti di contatto con il platonismo tradizionale e
cioè la teoria della conoscenza oggettiva o teoria del "mondo 3" (Conoscenza
oggettiva, 1972) [EGF2, 1997, pp. 880-881].
Un'importanza che nella sua epistemologia riveste il principio di
contraddizione della logica classica ha condotto Popper a una presa di
posizione polemica nei confronti del metodo dia- lettico. In Che cos'è la
dialettica (1937) ha sostenuto che il rifiuto dei principio di contraddizione rende
impossibile ogni indagine scientifica e razionale in genere, poiché è fa- cile
mostrare che, da una coppia di asserzioni tra loro contraddittorie, è possibile
dedurre lo- gicarnente qualsiasi asserzione.
Per il razionalismo critico popperiano non esistono contraddizioni nella
natura delle cose, ma soltanto nel pensiero, e la conoscenza scientifica deve
evitare le contraddizioni proprio per poter cogliere l'oggetto, proponendo delle
congetture e controllandole deduttivamente (presupponendo quindi la validità
dei principio di contraddizione).
L'insieme di queste sue conlcusioni mi pare una piattaforma metodologica
imprescindibile per chi voglia perseguire lo studio della coscienza. Ecco perché,
anche in questo caso mi soffermo un po' su questo autore e ne cito alcuni passi
più utili alla mia ricerca.
Un programma di ricerca metafisico
Nelle sue opere più recenti Popper ha sostenuto che l'impresa scientifica è
irrealizzabile se non si svolge sotto le direttive di un "programma di ricerca
metafisico".
Tali programmi indicano alla scienza i problemi rilevanti, la direzione che la
ricerca deve assumere, il tipo di spiegazione soddisfacente, il grado di
profondità raggiunto da una teoria. Essi si collocano così all'inizio e alla fine del
processo scientifico, dapprima come selettori di problemi e poi come criteri di
valutazione dei risultati conseguiti.
La stessa epistemologia di Popper è impensabile senza presupporre un
programma di ricerca metafisica: la fede speculativa professata è il realismo
metafisico, che postula l'esistenza di leggi naturali, cioè regolarità strutturali
che soggiacciono al mondo fenomenico.
Popper dichiara di non credere più alla demarcazione tra scienza e
metafisica, sia perché idee e problemi metafisici hanno determinato per secoli
lo sviluppo della scienza assumendo la funzione di idee regolative, sia perché
183
alcuni programmi di ricerca metafisici, come l'atomismo, si sono gradualmente
trasformati in teorie scientifiche.
Non possiamo accettare indiscriminatamente ogni metafisica: si tratterà
piuttosto di valutarne la fecondità nei confronti della situazione problematica
con cui la teoria interagisce e la capacità di promuovere lo sviluppo della
scienza.
Della sua stessa teoria Popper è pronto a fare verifica.. In La conoscenza e
il problema corpo-mente, scrive: "Devo avvertire che la teoria provvisoria che
intendo proporre non solo è provvisoria, ma non è nemmeno propriamente una
teoria se confrontata, per esempio, con le teorie della fisica. È, in ogni caso,
una teoria controllabile, e ha passato alcuni controlli in un modo che ha
superato tutte le mie aspettative. Per coloro che hanno familiarità con la storia
della filosofia, non devo nemmeno sottolineare quanto sia del tutto
insoddisfacente ciò che sul nostro problema è stato detto finora. È soltanto in
confronto a certi tentativi più primitivi che credo di aver qualcosa da offrire"
[Popper, 1996, p. 141] .
Popper ironizza sulla pretesa di inconfutabilità di tante teorie moderne.
"Molte persone ritengono, erroneamente, che una teoria inconfutabile debba
essere vera. […] Tutte queste teorie sono inconfutabili, e questa circostanza
sembra aver fortemente impressionato alcuni filosofi - Wittgenstein, per
esempio. Tuttavia, le teorie che asseriscono esattamente l'opposto sono
altrettanto inconfutabili - un fatto che dovrebbe insospettirci. Come ho detto
spesso, è un errore pensare che l'inconfutabilità sia una virtù per una teoria.
L'inconfutabilità non è una virtù, ma un difetto" [1996, p. 144].
"È chiaro che sia il solipsismo sia la teoria di Berkeley - detta "idealismo" risolvono il problema corpo-mente, perché asseriscono che non esistono corpi.
Anche il materialismo o il fisicalismo o il comportamentismo radicale risolvono
il problema corpo-mente. Ma lo fanno utilizzando lo stratagemma opposto. Essi
asseriscono che non esistono le menti, che non esistono né stati mentali né
stati di coscienza. E sostengono che non vi è intelligenza, ma soltanto corpi che
si comportano come se fossero intelligenti - per esempio, pronunciando
emissioni verbali più o meno intelligenti […]" [1996, p. 145].
"Posso descrivermi come un dualista cartesiano. Di fatto sto addirittura
facendo più di Cartesio: sono un pluralista, poiché accetto la realtà anche di un
terzo mondo […]. Con mondo 3 intendo, più o meno, il mondo dei prodotti
delle menti umane" [1996, p. 15].
"Io sono in questo senso un pluralista, e non aprirei mai una controversia
in favore della teoria secondo cui vi sono soltanto tre mondi. Potete
suddividerli quanto vi pare, e tali suddivisioni potrebbero rivelarsi importanti
per certi problemi" [1996, pp. 158-159].
184
Popper si schiera contro il solipsismo, all'interno del suo metodo di
indagine. "Un argomento analogamente non conclusivo contro il solipsismo ma che a me è sufficiente - sarebbe il seguente. Quando leggo Shakespeare, o
ascolto uno dei grandi compositori, o ammiro un'opera di Michelangelo, sono
ben consapevole del fatto che queste cose vanno ben al di là di qualunque cosa
io possa mai produrre. Secondo la teoria solipsistica, tuttavia, soltanto io esisto
- cosicché nel sognare queste cose io ne sono, di fatto, il creatore. Ciò è per
me del tutto inaccettabile. Pertanto, ne concludo, devono esistere altre menti,
e il solipsismo deve essere falso. Naturalmente questo argomento non è
conclusivo. Ma, come ho detto in precedenza, è sufficiente per me. Di fatto,
per credere seriamente nel solipsismo dobbiamo essere megalomani. Un
argomento non conclusivo di questo genere viene chiamato argomento ad
hominem. Non un argomento conclusivo ma, in effetti, un appello da uomo a
uomo." [1996, p. 143].
Il significato biologico della mente
Secondo Popper, le varie correnti filosofiche e i loro discutibili risultati nel
teorizzare la coscienza suggeriscono che "per comprendere la mente o la
coscienza, e la loro relazione con la fisiologia dell'organismo, dovremmo
adottare un punto di vista biologico e chiedere: quel è il significato biologico
della mente? Che cosa fa la mente per l'organismo?
Tutte queste teorie mi hanno portato a quella che potrei forse chiamare
una nuova teoria della mente e dell'io. Inizierò con l'osservare che il mondo
della coscienza è tanto poco omogeneo quanto il mondo 1 o il mondo 3.
Vi è la differenza di genere nota a tutti noi fra stati di coscienza […]
La mia prima e fondamentale congettura può, quindi, essere formulata
come segue. Parlare di corpo e di mente è fuorviante, poiché nel regno animale
vi sono molti tipi e livelli di coscienza diversi. […] La mia seconda congettura è
la seguente. Possiamo distinguere fra una piena coscienza - ossia la forma più
alta della coscienza umana - e forme più basse, che possono differire in modo
consistente.
Sorge adesso il problema del significato biologico di questi vari livelli di
coscienza. È un problema a cui è difficile rispondere. Qui tutto, più o meno, è
speculativo - anche l'esistenza di una forma di coscienza più bassa, o animale.
[…]
Per rispondere mediante congetture alla domanda sul significato biologico
della coscienza introdurrò due idee: l'idea di gerarchia dei controlli e l'idea di
controllo plastico. […]
185
In tutti gli animali che si muovono liberamente, vi è un controllo centrale
dei movimenti. Quest'ultimo controllo, apparentemente, è il più alto della
gerarchia. La mia congettura è che gli stati mentali sono connessi con questo
sistema di controllo centrale più elevato, e che contribuiscono a rendere questo
sistema più plastico" [1996, pp. 148 e ss.].
"Chiamiamo i pericoli e gli oggetti pericolosi "biologicamente negativi", e le
opportunità "biologicamente positive". Gli organi di molti animali sono costruiti
in modo da distinguere fra queste due classi. Il che vuol dire che essi
interpretano o decodificano gli stimoli che incontrano. […] Questo sistema che ha una base anatomica - è in prima istanza rigido.
La mia congettura è che, attraverso l'evoluzione emergente, si presentano
in primo luogo sentimenti vaghi. per diventare, attraverso ulteriori passi
dell'evoluzione emergente, sentimenti di dolore e di piacere. Essi hanno, in
generale, un carattere anticipatorio. A loro volta, divengono la base di un
sistema di interpretazione o di decodifica dei segnali di livello più alto. E da
questi possono svilupparsi interpretazioni anticipatorie e provvisorie di una
situazione. Significherebbe il provare in modo provvisorio movimenti possibili o
reazioni possibili, senza dover effettuare subito realmente i movimenti. questo
dovrebbe implicare un qualche tipo di immaginazione. […] Questo, dunque, è il
modo in cui la coscienza interagisce con il corpo" [1996, p. 151].
"Quello che ho tratteggiato fino a questo punto è una sorta di sfondo
evoluzionistico generale della mia nuova teoria congetturale della mente
umana o dell'ego umano. Prima però di passare a questa teoria, voglio
sottolineare che la relazione fra stati mentali e stati fisici è […]
fondamentalmente la stessa di quella fra sistemi di controllo e sistemi
controllati - in particolare con il feedback dal sistema controllato al sistema di
controllo. Si tratta cioè di un'interazione.
La coscienza contiene molti residui di forme più basse di coscienza è
pertanto qualcosa di estremamente complesso. La famosa idea del flusso di
coscienza è tutto sommato troppo semplice" [1996, p. 152].
Popper cita le sperimentazioni eseguite su pazienti ai quali era stato
sezionato il corpo calloso, esse gli servono per confermare la localizzazione del
controllo gerarchico superiore della coscienza: in quei pazienti se la parte
destra non entrava in gioco non potevano dare nessuna spiegazione delle
reazioni della parte sinistra. "Questi movimenti rimangono inconsci poiché non
vengono riferiti al centro del linguaggio" [1996, p. 177].
La coscienza è nei centri di linguaggio
"Vengo adesso alla formulazione della mia teoria della piena coscienza e
dell'ego o del sé. Ho cinque tesi principali.
186
1) La piena coscienza è ancorata nel mondo 3 - il mondo del linguaggio
umano e delle teorie.
2) Il sé, o l'ego, è impossibile senza la comprensione intuitiva di alcune
teorie del mondo 3, lo spazio, il tempo le persone e il loro corpi.
3) Il problema cartesiano della collocazione della piena coscienza o del sé
pensante è lontano dall'essere privo di senso. La mia congettura è che
l'interazione del sé col cervello sia localizzata nei centri del linguaggio" [1996,
p. 153].
"Nello sviluppo del bambino, l'ego o sé o autocoscienza si sviluppa con le
funzioni più alte del linguaggio" [1996, p. 174].
"Senza disposizioni innate - disposizioni ad imparare - non potremmo mai
imparare alcunché. Il punto decisivo è la disposizione innata ad imparare un
linguaggio: questo ci fornisce la chiave per il terzo mondo" [1996, pp. 27-28].
"Il problema corpo-mente era infatti il problema della relazione tra i mondi
1 e 2" [1996, p. 18].
Intelligenza animale e artificiale
Alla domanda che gli viene rivolta, citando la teoria di Lewis Mumford
secondo cui le macchine vengono prima del linguaggio, Popper risponde che
"tutto depone a favore del fatto che le macchine vengono molto tardi,
soprattutto del fatto che nemmeno la più semplice delle macchine mostra alcun
segno di trinceramento genetico. E il linguaggio è geneticamente trincerato […]
Così troviamo in primo luogo, probabilmente, il linguaggio. E troviamo
un'incredibile evoluzione dell'immaginazione" [1996, p. 167].
"Gli animali possiedono un senso dello spazio altamente sviluppato […] e
un orologio interno. Essi sono, io sostengo, anche coscienti. Ma quel che
manca loro - e tutto ciò è una congettura, naturalmente - è la capacità di
vedere sé stessi come qualcosa che si estende nel tempo e nello spazio e che
agisce nel tempo e nello spazio. […] la loro coscienza è diretta dai loro stati
interiori verso eventi significativi al di fuori di loro […]. Al contrario, la piena
coscienza di sé contiene, come una delle sue componenti, una conoscenza di
noi stessi che va indietro nel tempo, almeno per un breve periodo" [1996, pp.
171-172].
FABRIZIO DESIDERI E LO SVILUPPO DELLA COSCIENZA TRA L'"IO" E
L'"ALTRO"
187
Molto interessante è la ricerca sulla coscienza condotta da Fabrizio Desideri
.
Per lui "nessuna ambizione di offrire qualcosa come una teoria o un sistema
della coscienza, Porprio a tale proposito, come si vedrà, termini come teoria e
sistema divengono alquanto problematici. Nessuna preoccupazione, d'altra
parte, di fornire un'esauriente ricognizione storico-filosofica del problema o una
descrizione del quadro attuale della discussione, tanto complicato quanto
abbastanza noto nei suoi lineamenti essenziali" [Desideri, 1998, p. 9-10].
"È possibile interrogare la coscienza? Il mio punto di vista in quest’indagine
suona volutamente diverso da una domanda del tipo: "È possibile sapere che
cos’è la coscienza?", con tutto quel che segue. Ciò per il motivo che quel che
segue si muoverebbe, in questa seconda posizione del problema,
obbligatoriamente già in una direzione: Toward a Science of Consciousness,
per citare il titolo di un importante meeting di studiosi di ogni disciplina e
indirizzo (anche se con una netta prevalenza di neurofisiologi, psicologi
cognitivisti e ricercatori nel campo dell’Intelligenza Artificiale) che si è tenuto
nel 1994 e nel 1996 a Tucson in Arizona . Rispetto a tale direzione, ci si può
arrestare, si può proseguire in un senso o nell’altro (connessionismo,
funzionalismo, eliminativismo, interazionismo e persino dualismo)" [Desideri,
1998, p. 11].
Egli, analizzando alcuni autori (Husserl, Wittgenstein, Derrida e altri) mette
l'accento sull'aspetto dell'ascolto, non tanto di tipo morale, quanto di relazione
riflessiva tra io, sé e altri sé. "L’ascolto viene qui inteso sia come
l'atteggiamento da assumere nella propria ricerca, sia come una proprietà
essenziale della cosa stessa: quella proprietà senza la quale la coscienza non
solo non sarebbe pensabile, ma non sarebbe nemmeno possibile" [Desideri,
1998, p. 10].
"Quella di interrogarsi non è forse una proprietà essenziale della coscienza?
[...] La possibilità per la coscienza di funzionare consisterebbe proprio
nell'ignoranza rispetto a sé, e dunque nel dover sintonizzare il proprio canale
introspettivo verso i fenomeni di superficie. È una questione, insomma, di
rapporto tra efficienza ed economia" [Desideri, 1998, p. 26].
La coscienza = guardare l'atto del guardare
"Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche sembra sfiorare la medesima
questione rimasta insoluta nel Carmide platonico [...] e la sfiora, si potrebbe
dire, dopo aver attraversato le aporie dell'introspezione. Il volgere l'attenzione
alla coscienza non si presenta, insomma, come un guardarsi dentro, ma
188
piuttosto come un tentativo di guardare l'atto stesso del guardare: un tentativo
veramente paradossale - contro ogni evidente apparenza - di considerare
dall'esterno l'internità della coscienza a se stessa" [Desideri, 1998, p. 29].
"C'è coscienza in quanto c'è relazione a sé: autorelazione. Ma identificare
coscienza e autoreferenzialità sarebbe un passo affrettato [...] Il fatto è che
con tale identificazione si tralascia di mettere in questione il senso stesso
dell'autoriferirsi, o tutt'al più lo si identifica tacitamente con l'autoricorsività di
un processo [...] con una tale domanda l'ente o il sistema mostra di potersi
mettere
in
questione
e
quindi
problematizza
il
senso
stesso
dell'autoriferimento" [Desideri, 1998, p. 13].
Desideri ricorda i diversi esiti possibili della teorizzazione della coscienza:
dal funzionalismo di Putnam ("il software del cervello può funzionare anche
altrove"), che poi però ha smantellato la sua posizione, al connessionismo della
Churchland ("la coscienza può essere riprodotta con calcoli in parallelo, rete di
connessioni!) [Desideri, 1998, p. 13 in n.].
Poi c'è la proposta di soluzione agnostica del problema della coscienza di
Colin McGinn ("la mente non è trasparente a se stessa"). Desideri li definisce
"neomisteriani" [1998, p. 20].
L'approccio wittgensteiniano porta invece a dissoluzione della coscienza,
disvelamento del carattere di illusione filosofica del problema tramite un
terapeutico ricorso a un'analisi del nostro comportamento - non solo linguistico
- in sitazioni ordinarie [cfr Desideri, 1998, p. 27].
Coscienza come factum e medium
Il problema della coscienza come lo si intende oggi è un problema di
accesso epistemologico ai contenuti psichici oppure come il problema di un
legame tra psichico e fisico [Desideri, 1998, p. 18]. "Il problema
dell'interrogarsi sembra non potersi declinare altrimenti che nei termini di
Agostino "quaestio mihi factus sum". Ma come sviluppare tale questione, come
discorrerne se, ancor più radicalmente della prima persona singolare, del suo
punto di vista privilegiato, coscienza qui significa innanzitutto il medium al cui
interno ci troviamo già a pensare e a parlare? Il termine del discorso - ciò su
cui esso verte - è nel contempo anche il territorio nel quale ci muoviamo. O, se
si vuole, il factum nel quale non possiamo che disporci" [Desideri, 1998, p.
14].
"Nessun discorso sul metodo può in questo caso presentarsi come esterno
alla vera e propria indagine aperta dall'interrogativo iniziale ("è possibile
interrogare la coscienza").
189
La questione della coscienza appare, così, come del tutto interna alla sua
fattualità, come implicata in quello che abbiamo detto il suo carattere
"mediale" [...]. E a tale fattualità, in certo modo, non potrà aggiungere nulla.
Potrà tutt'al più chiarire quanto avviene e come può avvenire" [Desideri, 1998,
p. 16].
Il lavoro della filosofia "non potrà mai significare l'aggiunta di una
dimensione ulteriore a questo fatto: una sorta di super-coscienza della
coscienza comune. O l'indagine viene a chiarire quanto già si sapeva all'inizio,
oppure deve riconoscere che si era sbagliata circa il suo oggetto. […] Quel che
deve essere afferrato è l'atto stesso del guardarsi" [Desideri, 1998, pp. 16-17].
Altro tema che appassiona Desideri è "il rapporto tra la societas della
mente e l'unità della coscienza" [Desideri, 1998, p. 39-40].
IX
Due tentativi discutibili
di teorizzazioni psicologiche della coscienza
e altri assai pregevoli di matrice cristiana
In questo capitolo cito due ricerche che si presentano particolarmente
promettenti e ambiziose, eppure si rivelano ad una più attenta analisi assai
incomplete, ossia dunque dei modelli in negativo molto istruttivi. Ma nella
parte finale aggiungo anche una panoramica su altre ricerche molto
interessanti e ormai classiche di matrice cristiana.
LA "PSICOLOGIA CRISTIANA" DI GIOVANNI PETROCCHI
L'intento di G. Petrocchi, come egli stesso scrive nel titolo della prima parte
del suo libro , è di "fondare una psicologia scientifica cristiana".
Esordisce scrivendo che "La Psicologia Scientifica Cristiana è la teoria
psicologica fondata da uno, della moltitudine di uomini che costituiscono il
popolo di Dio, un cristiano, il quale, sia per l'iter di studi compiuti che per la
professione che quotidianamente svolge , ha la peculiarità di occuparsi
attivamente, da circa quindici anni, di psichiatria e psicologia.
Essa nasce, nell'intenzione del suo fondatore, dall'esigenza di colmare un
vuoto che, come psicoterapeuta e cristiano, egli stesso - non diversamente da
190
numerosi altri credenti - ha avvertito nel corso degli ultimi anni con particolare
intensità.
Non è difatti disponibile nell'ambito della cultura contemporanea, per
quanti non si riconoscono nei modelli ideologici attuali e, in particolare per
coloro che simpatizzano per gli ideali sanciti da Cristo nel Vangelo, un
movimento psicologico di chiara ispirazione cristiana, a cui poter fare
riferimento per tutte le questioni di natura psicologica e psicopatologica alle
quali fossero a vario titolo interessati.
Effettivamente nel corso degli ultimi anni è sembrato sempre più
consistente il numero dei cristiani che avvertono l'esigenza di un movimento
psicologico più vicino alla proprio sensibilità etica e spirituale; una scuola
psicologica che consenta, cioè, al credente di conoscersi ed occuparsi
attivamente del miglioramento della propria personalità senza dovere, per
questo, vedere messa in discussione la propria fede" (p. 21).
Tale proposito ha una grande dignità ed è molto interessante. Tiene però
poco in considerazione il fatto che ormai da alcuni decenni si è stemperato ed è
in pratica scomparso il vecchio e duro scontro tra psicanalisi e pensiero
cristiano. Per fare solo un esempio, ormai non si contano più le esperienze
terapeutiche che coniugano ricerca della fede e terapia.
Petrocchi denuncia i tempi difficili (stress, consumismo, materialismo, la
scristianizzazione) e la mancanza di un movimento psicologico di ispirazione
cristiana che aiuti per esempio nell'educazione, fornendo un alternativa agli
imperanti sistemi di valori sostenuti da psicanalisi e comportamentismo.
L'obiettivo ideale è di "ispirarsi fin dalle fondamenta alle verità affermate sulla personalità umana - dalla Religione Cristiana, in consonanza ai dati offerti
dalla Rivelazione" (pp. 24-25) ma rimanendo un movimento scientifico
autonomo.
Critica dei presupposti
Un altro aspetto interessante è la premessa metodologica, la dichiarazione
del "credo" su cui si basa la teoria del Petrocchi. In questo egli si appoggia a
riflessioni imperiture di F. Nietzsche: "Si vede che anche la scienza riposa su
una fede, che non esiste affatto una scienza "scevra di presupposti"" e "La
disciplina dello spirito scientifico non comincerebbe forse qui, nel non
concedersi più convinzione alcuna? … Probabilmente è così: resta soltanto da
domandare se, affinché questa disciplina possa avere inizio, non debba esistere
già una condizione, e invero così imperiosa e incondizionata da sacrificare a se
stessa tutte le altre" .
191
"Non esiste, giudicando rigorosamente, alcuna scienza "priva di
presupposti", il pensiero di una scienza siffatta è impensabile, paralogico: una
filosofia, una "fede" deve sempre preesistere, affinché la scienza derivi da essa
una direzione, un senso, un limite, un metodo, un diritto all'esistenza. […] La
scienza è ben lontana dal riposare su se stessa, ha sotto ogni aspetto
innanzitutto bisogno di un ideale di valore, di una potenza creatrice di valori, al
servizio della quale possa credere in se medesima - essa stessa non è creatrice
di valori" ed "è pur sempre una fede metafisica quella su cui riposa la nostra
fede nella scienza" .
Petrocchi cita anche N. Hartmann secondo il quale "ogni teoria che vuole
essere più che semplice descrizione diventa necessariamente metafisica fin dai
primi passi".
Petrocchi cita per alcune scuole filosofiche il credo di fondo.
Si potrebbe aggiungere l'esempio di una scuola che si è affermata con
grande forza, l'Analisi transazionale , che poggia tutta su pochi postulati come
"tutti gli uomini sono uguali", "Nessuno può farmi soffrire se non gliene do il
potere", "Esiste un copione che definiamo all'età di 4 anni a cui obbediamo per
tutta la vita". Il credo dunque indica i valori di fondo della scuola di pensiero e
fornisce una visione del mondo speciale.
Il "credo" su cui la Psicologia Scientifica Cristiana fonda la propria dottrina
psicologica "si identifica nella piena fiducia nella veridicità dell'insegnamento
annunziato sulla psiche dell'uomo da Cristo" e "la componente soggettiva che
ne deriva, consiste nel fermo convincimento del fondamento morale della
psichicità umana, cioè nell'affermazione che i processi posti alla base della
salute tanto quanto della malattia mentale, sono sostanzialmente di natura
etica (pp. 34-35).
Fino a qui, dunque, nelle premesse, tutto il discorso sembra interessante. È
stata posta una sfida attuale e coraggiosa, è stato preso in considerazione un
grande sistema di valori.
Ma cosa ne consegue?
Il fatto cristiano come ideologia
È qui che il Petrocchi comincia a disperdersi, a rallentare l'analisi e al
contempo a sciogliere la briglia della teorizzazione non-scientifica.
A pagina 35 paragona la religione cristiana a una ideologia, perdendo così
la dimensione più profonda del fatto cristiano che si basa su un evento, una
persona, che si vuol credere ancora Viva. Quindi l'affermazione che la
psicologia cristiana non differisce dalle altre psicologie è un tradimento della
192
sostanza dell'esperienza cristiana e viene persa in un colpo la sfida di mettere
in contatto il paradosso salvifico della Risurrezione con gli strumenti analitici e
terapeutici.
Nel primo capitolo della parte seconda Petrocchi comincia a fare uso - un
uso che diverrà sempre più ampio e indiscriminato - della Bibbia: "In nessun
libro la psiche dell'uomo è scandagliata, sezionata, analizzata, attentamente
descritta e soppesata in ogni suo più remoto aspetto come nella Bibbia" (p.
47).
Di essa tiene conto che "non usa un linguaggio sistematizzato", ma può
comunque essere utilizzato come materiale simile a quello che le scienze
psicologiche studiano fin dai loro esordi.
Petrocchi ammette però che "la Bibbia non fornisce una definizione chiara e
sistematica dei costituenti la natura umana" (p. 50).
E nonostante questo, da qui in poi, tutto il libro (oltre 300 pagine) è basato
su dati biblici da cui l'autore parte per costruire schemi, spiegazioni della
mente, della coscienza, dei meccanismi della psiche. Ma non si tratta neppure
di una "psicologizzazione del pensiero biblico", ciò che avrebbe una sua dignità,
dal momento che non esistono analisi accurate dei libri sacri né citazioni di
studi in proposito. Quindi tutto si riduce a una psicologizzazione del pensiero
tradizionale cattolico… Nel complesso si ha l'idea di una teoria poco scientifica,
molto schematica, spiritualista, tradizionale e poco significativamente
psicologica.
Per esempio dal richiamo che Gesù fa della Legge ("Amerai il Signore Dio
tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente" Mt
22,37) Petrocchi deduce una "tripartizione funzionale dell'anima in "cuoremente-spirito"" (p. 57) da cui deduce costellazioni di dimensioni interiori e che
infine usa come impostazione fondamentale per descrivere la struttura della
psiche.
Una lettura moralistica e fondamentalista (ma senza bibliografia)
La declinazione disinvolta di tali termini, senza validi sostegni storici,
teologici, psicologici diventa incontrollata.
È allora che si incomincia a incontrare frasi come "legata a una concezione
fondamentalmente materiale e individualistica della realtà, la coscienza - "idea
di sé" - se staccata dall'azione illuminante dello spirito è, tra l'altro, spontaneo
motivo di rinforzo dell'egoismo dell'inconscio…", dove emergono il sostrato
193
moralistico (peraltro dichiarato nel suo "credo" di fondo) e il ripescaggio
disinvolto di così tanti concetti antichi e tradizionali.
Sembra quasi che il dolore del mondo dipenda dal desiderio della "mente",
proprio della mente, di vedere soffrire gli altri uomini (p. 73).
A p. 208 Petrocchi fornisce uno schema riassuntivo che sancisce
definitivamente l'astruseria della sua teorizzazione. Esso dovrebbe descrivere
la "Psichizzazione del corpo + Somatizzazione dell'anima = unità pneumopsico.somatica", tirando in ballo l'Animo (cuore), l'Io (coscienza = idea di
essere sé), il Sé (spirito = sovraconscio = idea del bene e del male) e
l'Inconscio (idea di poter essere) in varie sfere che si compenetrano.
Altro elemento debole è la bibliografia, ridotta a 28 titoli, di cui quasi metà
testi patristici, scritturistici o medievali, poi tanti di teologia, letteratura e
filosofia e appena qualche grosso nome della storia della psicologia; nessuno
studio clinico, ricerche aggiornate, confronti con altri movimenti o scuole di
pensiero psicologico.
Dunque, questo lavoro di Petrocchi si rifà solo alla Bibbia cadendo in una
logica "fondamentalista" che inquina il metodo di indagine psicologico.
Come si può sostenere che la Bibbia è un'opera di psicologia, quando la
psicologia è nata come scienza (e ancora qualcuno ne discute lo statuto di
"scienza") da neanche due secoli? Come si può sostenere, in un lavoro che ha
pretese scientifiche e addirittura diagnostiche e terapeutiche che Gesù era uno
psicoterapeuta? Dio forse è uno psicologo?
Io mi sentirei di affermare al massimo che Dio non è uno psicologo, ma in
tutte le guarigioni, anche quelle psicanalitiche c'è Dio. Perché Dio è ovunque,
vuole la salvezza, guarisce il sofferente. Ma questo è linguaggio biblico, è
riflessione teologica, è esperienza di fede. Non può aver valore il passaggio
disinvolto tra ambiti così diversi come la psicologia e la teologia.
Il libro è infarcito di moralismo (si veda la parte quarta, capitolo I, d:
"Desiderio e volontà, senso di colpa ed autocritica: una delicata questione
diagnostica") e non offre uno strumento terapeutico valido e stimolante.
LA "PSICOLOGIA COSCIENZIALE" DI E. MAIMONE - F . FICONERI
Per il lavoro di E. Maimone e F. Ficoneri si possono porre obiezioni simili a
quelle già elencate per il lavoro del Petrocchi.
Gli autori - di cui si sa solo che hanno scritto anche il libro La donna fra
cultura e conoscenza - hanno l'ambizione, con gli "otto anni di ricerca
194
personale, tanto silenziosa quanto feconda" di aver realizzato la "nascita di un
nuovo sistema psicologico".
Quella di Maimone e Ficoneri è una teoria complessa, a tratti innovativa, un
tentativo di fondare una psicologia coscienziale, che tiene conto di tanti
risultati dell'indagine psicologica e delle neuroscienze, una psicologia "fondata
sulla realtà informatica naturale".
Il libro nel complesso interessante e coraggioso, è critico verso il mondo
della ricerca, tanto spesso arroccato e poco disponibile al confronto, a battere
strade nuove, ad appoggiare ricerche pionieristiche.
Ha però dei vizi di fondo e dei limiti che ne riducono considerevolmente il
valore, fino a mostrarlo come un lavoro a tratti da principianti, per quanto
riguarda il peso innovativo teorico.
Per esempio la bibliografia è addirittura completamente assente. Sono però
presenti nel testo (252 pagine) o nelle note a piè di pagina citazioni di ricerche
cliniche, rimandi a strumenti diagnostici e di indagine (sul cervello, per
esempio), saggi di padri fondatori della psicologia e altri pensatori. Ai fini di
questa dissertazione l'argomento e la teoria del libro sarebbero utilissimi, ma
non se ne può ricavare molto.
Per gli autori "la coscienza dell'uomo è il collegamento dei collegamenti, un
anello di convergenza delle proiezioni istintuali di base (conservazione,
sessualità, conoscenza), una sintesi cioè tra cognitiva [sic, n.d.r.] ed
affettività. Perché in ultima analisi anche la coscienza è una struttura
neurobiologica, dobbiamo individuare e descrivere un processo di maturazione
coscienziale
a
cui
possiamo
utilmente
riferire
ogni
programma
comportamentale" (p. 149).
Nel "Protocollo esplicativo" gli autori citano con insistenza gli aspetti
genetici e neurologici della mente ("la mente genetica di un sistema vivente"),
si definiscono appartenenti alla corrente del "dualismo interazionistico, interno
all'uomo, di carattere dinamico evolutivo, tra mente genetica e area neuronale"
(p. 16).
Molti cognitivisti dicono che "la personalità dell'uomo è "essenzialmente
appresa" e molti sociologi ed educatori che "si possono formare le coscienze".
Ed è in effetti una tendenza preoccupante, la falsa problematica del cosa dare
e cosa vietare ai cittadini di tutti gli stati. […] dunque noi contestiamo il
contenuto di tali concetti, ribadendo che l'Io non è un pronome, ma un'area
specializzata del cervello, a cui fanno capo tutte le canalizzazioni organiche,
dirette e indirette, nonché genetiche dell'uomo" (p. 23).
"La vita non è comparsa per caso […]. Nell'universo, da noi ritenuto un
grande sistema aperto, scenario di libere aggregazioni, prendono origine i
sistemi viventi, i sistemi chiusi, in cui le relazioni sono vincolate. […] La nostra
195
filosofia della natura ci fa vedere la materia come informazione. […] La realtà
naturale resta per noi una realtà informatica" (pp. 27-28).
Ciò che sorprende è l'uso di questi concetti, ormai classici (da Galileo a S.
Hawkins) come fossero inventati per la prima volta dai due emeriti studiosi.
La "Teoria del sistema chiuso" è l'argomento della prima parte del libro, tra
programmazione evolutiva, mente genetica e pensiero istintivo.
Cervello maschile e cervello femminile
La seconda parte analizza la struttura psicologica dell'uomo, arrivando ad
un'affermazione sorprendente: il cervello delle donne è diverso dal cervello
degli uomini ("Il diverso funzionamento del cervello nei due sessi", capitolo IV,
parte seconda).
Concetto che gli autori ribadiscono nella terza e ultima parte del libro ("La
Psicologia coscienziale"), dove approfondiscono l'aspetto della formazione della
coscienza e del pensiero, della crescita: il processo coscienziale, ovvero un
nuovo concetto di età evolutiva globale.
Sulle differenze tra maschio e femmina insistono a partire dalle strutture
cromosomiche (p. 167 ss.) per arrivare a una distinzione del "processo di
pensiero femminile" dal "processo di pensiero maschile"
È in questa sezione che si lasciano andare ad affermazioni come "Il
pensiero della donna è snello, non appesantito da preoccupazioni formali o
morali…" (p. 195), "Non di rado la femmina diviene grottesca, quando la si
scopre intenta a conciliare degli opposti valori…" (p. 196), "Mentre la giovinetta
risponde sempre in qualche modo ai richiami, l'adolescente maschio spesso
non risponde agli stessi, poiché nemmeno li sente…" (p. 199).
Ed è proprio questa parte, così delicata e che dovrebbe essere innovativa,
che ha la minor giustificazione clinica, scientifica o blibliografica.
Gli autori distinguono varie tipologie di personalità ("prototipi umani") e
arrivano a una dichiarazione definitiva (nel capitolo VII, "Le età coscienziali", p.
210 ss.), riassunta in uno schema - sorprendente e inquietante - sulle fasi di
crescita coscienziale (p.212):
FASI DI CRESCITA COSCIENZIALE
Donna Uomo
3-8 Età magica della fabula sì sì
196
8-10 Età dell'imitazione sì sì
10-12 Età della recitazione sì sì
12-16 Età delle opinioni sì sì
16-25 Età degli ideali sì sì
25-35 Età del senso critico sì sì
35-45 Età dell'analisi sì sì
45-55 Età dell'autonalisi no sì
In base a cosa gli autori hanno suddiviso le età? E come possono
giustificare questa discriminazione tra i sessi? Ci sarebbe da sperare in un
errore tipografico, ma agli autori sanno quello che scrivono: "L'uomo è
potenzialmente in grado di raggiungere la maturità: quella di conservazione,
quella sessuale e quella conoscitiva. Sembra inutile a questo punto ripeterne i
motivi: essi sono stati già ampiamente illustrati nei capitoli sul processo di
pensiero e coscienziale, maschile e femminile.
Per i medesimi motivi, la donna risulta potenzialmente in grado di
raggiunere la sola maturità sessuale; ciò la ancora irrimediabilmente (o
fortunatamente) al partner o al figlio, per l'inserimento coscienziale nella
realtà" (p. 232).
A titolo di informazione, un'altra ricerca, basata su una teoria del cervello,
sembra essere arrivata alla conclusione opposta: la superiorità della donna .
Ciò a dimostrazione di quanta poca univocità, distinzione e chiarezza
sperimentale ci sia in questa materia…
UNA PLAUSIBILE CORRELAZIONE TRA PSICANALISI E VERITÀ DI FEDE.
ALCUNI ESEMPI
Françoise Dolto e "La psicanalisi del vangelo"
Queste mie critiche al lavoro di Giovanni Petrocchi, che potrebbero
sembrare eccessive, trovano una conferma in un lavoro di tutt'altro genere che
197
mostra come, al contrario, sia legittima la sfida di mettere il Vangelo sotto
verifica da parte della psicanalisi e come se ne possa trarre spunti di
grandissimo rilievo teologico, psicanalitico, antropologico e culturale.
È l'opera della psicanalista francese Françoise Dolto, che si presenta in
modo affascinante nel libro che in origine si intitolava appunto: L'évangile au
risque de la psychanalyse .
In esso la Dolto, in dialogo con Gérardin Sévérin, utilizza le parabole dai
vangeli di Luca Marco e Giovanni scoprendo interessantissime notazioni
psicanalitiche che evidenziano la capacità terapeutica di Gesù di Nazareth e i
movimenti interiori e i significati delle relazioni che egli viveva con le persone,
la folla, il Padre.
Toccanti in particolare gli episodi delle risurrezioni che, attraverso la lettura
psicanalitica acquistano significati nuovi, difficilmente udibili nelle tradizionali
sedi di interpretazione della Parola, della figura di Maria, madre di Gesù, e la
sua famiglia e della dimensione dell'amore altruistico (dal buon Samaritano).
Temi che la Dolto analizza acutamente: il desiderio profondo, la
maturazione della persona e il distacco dai genitori, malattia e guarigione, la
società e l'individuo.
Giacomo Daquino
Il libro dello psichiatra e neuropatologo Giacomo Daquino, Religiosità e
psicanalisi , è un buon manuale di psicologia e psicopatologia religiosa, basato
sulla conoscenza della storia delle interpretazioni psicologiche e psicoanalitiche
del fenomeno religioso. Oltre ad analizzare la genesi ed evoluzione della
religiosità e la psicopatologia religiosa con la relativa psicoterapia, esplora il
tema della maturità e immaturità morale (pp. 233 ss.) con ben altro metodo e
senso critico rispetto a quello utilizzato da Petrocchi, Ficoneri e Maimone.
Senza tralasciare il dibattuto argomento del rapporto tra psicoanalisi e cura
spirituale (pp. 269 ss.) , psicanalisi e confessione (pp. 287 ss.).
A proposito della genesi e strutturazione della religiosità Daquino illustra le
varie posizioni (innatista, derivazionista, bisogno di dipendenza, ecc.) a cui non
può allearsi perché tutte "interpretazioni non sostenute da un convincente
materiale scientifico che ne dimostri la validità" e dichiara la sua posizione:
"Anche se la ricerca delle cause psicologiche della religiosità infantile può solo
fornire
ipotesi
interpretative
senza
pretendere
di
poter
spiegare
perentoriamente la genesi del fenomeno, preferiamo pensare che la religiosità
infantile derivi da una "disponibilità religiosa istintiva aspecifica" d'origine
inconscia e quindi intrinseca allo psichismo umano. Infatti nei primi tre-quattro
anni di vita, il bambino manifesta un atteggiamento religioso che ha
198
dell'istintivo e non può essere soltanto dovuto a dei meccanismi di
identificazione e di proiezione e nemmeno connesso all'apprendimento e
all'imitazione" [Daquino, 1980, pp. 59-60]. Nei primi due anni di vita il
bambino non manifesta ancora un sentimento o un pensiero religioso. Solo
verso i tre anni presenta un crescente sviluppo della funzione simbolica che gli
permette di avvicinarsi alla religiosità.
Victor Frankl
Invece Dio nell'inconscio , il libro di Victor Frankl, il fondatore della terza
corrente viennese della psicoterapia, la "logoterapia" (che "per definizione è
una psicoterapia che parte dallo spirituale") vuol mostrare che l'uomo non è
soltanto dominato da un'istintività incosciente, come sostiene Freud, ma è
caratterizzato anche da un inconscio spirituale. Perciò analizza i casi modello
della coscienza morale e dell'interpretazione dei sogni per trovare la realtà di
una religiosità e di un legame con Dio, inconscio dell'uomo, che egli rende con
la formula del "Dio inconscio", da non fraintendere, come esplicitamente
avverte, in senso panteistico.
Per introdurre il tema della trascendenza della coscienza, Frankl cita
un'espressione di Maria von Ebner-Eschenbach: "Sii padrone della tua volontà
e schiavo della tua coscienza". "La coscienza, quale fatto psicologico
immanente, richiama da se stessa la trascendenza: essa viene compresa solo
partendo dalla trascendenza, solo in quanto è essa stessa in certo qual modo
un fenomeno trascendente" (p. 61). "La coscienza diventa comprensibile solo
partendo da una regione che sta al di là del piano umano: ultimamente, la si
comprende solo se l'uomo è visto nella sua creaturalità, nel suo "esserecreato"" (p. 62). La coscienza dunque non è l'ultima (come pensa l'uomo
irreligioso che la prende solo nella sua fatticità psicologica) ma la penultima
istanza (p. 64).
A proposito della coscienza come organo di significato Frankl scrive che "Il
significato non solo deve, ma può essere trovato. La coscienza viene in aiuto
per una tale ricerca. In una parola, la coscienza è un organo di significato. La
coscienza si può definire come la capacità intuitiva di scoprire il significato
univoco e singolare nascosto in ogni situazione. […] La coscienza può talvolta
sviare l'uomo. Non solo: fino all'ultimo momento della sua vita, fino all'istante
di esalare l'ultimo respiro, l'uomo non può mai sapere se effettivamente ha
realizzato il significato della sua vita, oppure se non si è piuttosto ingannato:
ignoramus et ignorabimus. Ciò non vuol dire che non esista la verità. Può
esserci infatti solo una verità. Nessuno però può sapere se sia lui, oppure un
altro, a possederla" (pp. 105-106)
"Mi sono permesso di introdurre una definizione operazionale di Dio ["Dio
nell'inconscio", n.d.r.] talmente neutrale da comprendere anche l'agnosticismo
e l'ateismo. Ciò facendo sono rimasto psichiatra, e confrontandomi con la
199
religione, l'ho considerata come un fenomeno umano, anzi espressione del più
umano dei fenomeni umani, ossia la volontà di significato. La religione infatti
può essere definita come realizzazione di una "volontà di significato ultimo""
(pp. 143-144). In altra pagina infatti Frankl dichiarava uno dei suoi assunti:
che non esiste alcun ateo puro.
parte terza
Per una teoria spirituale della coscienza
X
La genesi della coscienza umana
Il dibattito sull'origine della coscienza nel bambino, sul significato profondo
e "coscienziale" del primo sviluppo neuronale è complesso e ricco di posizioni
opposte.
In questo capitolo cerco di darne conto, mettendo a confronto le opposte
argomentazioni sull'"innatismo" della coscienza.
Sulle potenzialità della mente infantile è appena uscito il libro di Gopnik,
Meltzoff, Kuhl, Tuo figlio è un genio Le straordinarie scoperte della mente
infatile (soprattutto il capitolo 6 "Quel che gli scienziati hanno imparato sul
cervello dei bambini", pp. 215 ss.) che è molto aggiornato e completo, eppure
semplice e molto chiaro a proposito dello sviluppo del cervello e della mente
nei bambini, con anche ottimi consigli su come educare e sviluppare le giovani
menti.
Un'ampia indagine sulla genesi della coscienza umana nell'infanzia è stata
svolta da C. Trevarthen . Tale ricerca risulterà molto utile al mio tentativo
personale di analisi della coscienza che proporrò negli ultimi capitoli di questa
dissertazione.
Nei primi messi di vita le cellule cerebrali continuano a dividersi e
moltiplicarsi e i loro prolungamenti fibrosi stabiliscono i collegamenti: e qui
succede qualcosa di singolare, che non si nota nelle altri parti del corpo
umano: le cellule si sviluppano secondo le condizioni dell'ambiente esterno. È
200
questo l'unico periodo nel quale influssi esterni come per esempio la
percezione che arriva attraverso gli occhi, il naso, il gusto, l'udito e il tatto
intervengono direttamente nella costruzione del cervello, provocando
modificazioni anatomiche e stabilendo collegamenti durevoli fra le cellule che
via via si sviluppano .
Secondo Sperry, la coscienza umana è il principio gerarchicamente più
elevato di organizzazione della mente, identificabile con l'intero ordinamento
spazio-temporale dei cervello; essa è in grado di controllare i sistemi neurali
che compongono la mente, compresi quelli preposti alla raccolta delle
esperienze e all’orientamento finalistico delle azioni in rapporto al mondo. Tale
teoria ha un riscontro pratico nell'osservazione di come funziona la mente di un
bambino. Se, infatti, compito della coscienza è controllare in modo unitario e
coerente tutti i processi cerebrali di livello inferiore, fisiologicamente
automatici, nonché attribuire un valore e un senso alla realtà esperita dai
sensi, allora l'organizzazione della coscienza - almeno nelle sue grandi linee deve necessariamente precedere l'apprendimento acquisto attraverso
l'esperienza, proprio come l'organizzazione degli organi embrionali precede
l'emergere della loro funzionalità.
La coscienza esiste fin dalla nascita?
"È mia convinzione che il sistema fondamentale della mente non possa
formarsi dall'apprendimento, a partire da un sistema sprovvisto all'origine di
tale livello organizzativo, ma che piuttosto la coscienza sia presente e operante
sin dalla nascita, quale principio di attività mentale e di motivazione
all'apprendimento e allo sviluppo mentale stesso. A mio giudizio, inoltre, la
coscienza del bambino attribuisce un valore del tutto particolare alla
comunicazione umana, è cioè strutturata per interagire con la coscienza di altri
essere umani. In questo sembra consistere quella particolare strategia secondo
la quale le funzioni mentali umane crescono nel cervello attraverso
l'apprendimento per imitazione, il gioco collettivo e lo svolgimento di compiti
culturali, sotto la guida degli insegnanti" [Trevarthen, 1991, p. 120].
Nel corso degli ultimi vent'anni, mentre andava affermandosi la cosiddetta
rivoluzione della coscienza la psicologia evolutiva - che indaga ciò di cui è
cosciente il bambino, e la finalità che egli attribuisce all'esperienza - ha
ottenuto notevoli scoperte e ampliato enormemente il proprio campo di ricerca.
Nuove intuizioni in materia di sviluppo comportamentale hanno condotto gli
psicologi a rivedere molte delle assunzioni riduzionistiche circa la natura dei
fenomeni mentali, del linguaggio e dei pensiero razionale.
Fin dagli inizi i pionieri di questa disciplina (Baldwin, Geseli, Wallon, Piaget)
e alcuni esponenti della tendenza psicoanalitica (Melanie, Fairbairn, Winnicott)
201
aprirono la strada a questi sviluppi fornendo i primi dati su vari aspetti del
comportamento infantile che ponevano in luce una notevole e precoce
complessità mentale. Nessuno di loro, tuttavia, era pronto ad accettare che la
coscienza umana avesse origine nella fase prenatale.
La tendenza dominante in psicologia fra gli anni '30 e gli anni '50
considerava il neonato com un insieme di riflessi ciechi, ciscuno dei quali
provocava - come il petardo esplode all'accensione della miccia - un
movimento indotto da un preciso evento fisico, designato come lo stimolo a
una determinata risposta. La ricerca ha dimostrato. invece, che anche appena
nato e con un'esperienza limitatissima del mondo esterno al corpo della madre
il bambino possiede già una consapevolezza unitaria che lo motiva a ricercare
attivamente esperienze conplesse di oggetti reali, a darne una prima
interpretazione e ad apprendere.
La coscienza del neonato è essenzialmente tesa all'esplorazione degli altri
esseri umani, e della madre in particolare, e le reazioni a quest'ultima
costituiscono terreno fertile di ricerca per lo studioso dei processi mentali nel
bambino.
Molto probatori, in questo senso, si sono rivelati i test d'imitazione, molto
semplici ma raramente usati in passato perché ritenuti poco credibili. Verso gli
inizi degli anni '80, alcuni ricercatori scoprivano che neonati di poche ore
riuscivano a imparare per imitazione come mostrare la lingua, muovere le mani
o produrre semplici vocalizzi. In nessun caso poteva trattarsi di un riflesso
semplice o di un "modello fisso di azione": affinché il bambino colleghi
l'esperienza visiva di qualcuno che mostra la lingua con il movimento della
propria, deve associare la motivazione o la sensazione della protrusione
linguale con l'immagine di un'altra persona intenta nello stesso gesto. Poiché il
bambino non è in grado di vedere la propria lingua, bisogna presupporre che
egli compia un'associazione mentale fra la sensazione del movimento della
lingua e la vista dei medesimo movimento nel partner.
Il feto, il neonato e le prime relazioni
Il neonato imita solo le espressioni potenzialmente utili alla comunicazione,
comprese alcune mimiche facciali atte a esprimere emozioni come la sorpresa,
la tristezza o la felicità. Ricorre alle espressioni solo quando queste
costituiscono una sorta di messaggio nella comunicazione. L'imitazione inoltre
è biunivoca, giacché anche la madre imita il bambino, e nel farlo gli insegna a
parlare, intuendo lo sforzo che egli sta sostenendo per dirle qualcosa.
Prima ancora di nascere, il feto riconosce il suono della voce materna ; ciò
fa sì che il neonato preferisca questa voce a quella di ogni altra donna (De
Casper e Fifer). Quanto alla voce paterna, è sicuramente distinta dalle altre e
tuttavia non ancora oggetto di preferenza. Se per la madre è importante
202
sentirsi riconosciuta e ricercata con ogni mezzo, sembra che al bambino
importi soprattutto riconoscerla immediatamente dall'odore e dal suono della
voce. Ben presto, anche l'immagine del volto materno diviene fonte di piacere.
Le reazioni del bambino alla presenza delle persone e della madre in
particolare, sono molto complesse, e tuttavia la sua consapevolezza non si
limita ai soli individui, ma si estende al mondo fisico visivo che egli comincia a
esplorare con movimenti coordinati della testa, degli occhi e delle mani, anche
se la muscolatura, molto immatura, non gli consente di mantenere la posizione
eretta e la testa e le braccia sono ancora malsicure. Con movimenti mirati e
coordinati egli riesce, inoltre, a raggiungere e afferrare un oggetto.
I processi interni al suo giovanissimo cervello, solo parzialmente
sviluppato, raggiungono un notevole livello organizzativo, tanto da consentirgli
di assegnare un fine alle proprie azioni e da guidare i suoi movimenti in un
campo percettivo unitario.
Le componenti principali del meccanismo uditivo sono in grado di informare
la coscienza del feto già un paio di mesi prima della nascita; quanto al sistema
visivo, esso comincia la sua esplosiva differenziazione solo nel periodo
postnatale.
Nel giro di poche settimane, a misura che la vista si acutizza, emerge
un'abilità fondamentale, una capacità tipicamente umana di condividere la
coscienza, da cui dipendono tutte le altre qualità sociali e culturali (Braten,
1988). Si tratta della capacità di condividere con un'altra persona preferibilmente conosciuta, per lo più la madre - un gioco che imita la
conversazione, uno scambio di espressioni definito "protoconversazione", o
conversaione primordiale (Bateson, 1979).
Le vocalizzazioní, ovvero quell'insieme di movimenti "prelinguistici" della
mascella, delle labbra e della lingua, sono in sincronia con movimenti gestuali
delle mani e delle dita, che quasi sempre il bambino effettua con la destra
leggermente più alzata della sinistra (Trevarthen 1986).
Tale comportamento giustifica, in un contesto di scambio interpersonale e
condivisione dei sentimenti, l'uso del termine "protoconversazione".
Sembrerebbe, infatti, che il bambino voglia comunicare alla madre un
messaggio, o una frase, su qualcosa che egli conosce e intende esprimere. La
madre, dal canto suo risponde a tali scoppi espressivi come se il bambino dices
se effettivamente qualcosa, interloquendo a sua volta con frasi tipo: "Oh,
interessante!", "Ma che bella storiella!", "Dai, dammene ancora un'altra!", "Ma
davvero?!". Va ammesso, comunque, che non esiste prova alcuna che il
bambino esprima, nel suo "parlare", delle idee sulla realtà che lo circonda,
anche se indubbiamente agisce come se avesse qualcosa da dire.
Rivolgendosi al bambino, la madre atteggia il volto a espressioni felici,
gioiose e amorevoli, parla con voce carezzevole e pacata, spesso sussurra, usa
203
un tono più alto del normale e si esprime con frasi brevi e cantilenanti. Sono
queste le caratteristiche del linguaggio infantile universale, oggi definito
intuitive motherese ("madrese" intuitivo), che risulta essere lo stesso da
cultura a cultura, da lingua a lingua. In esso vengono infatti stravolti i caratteri
prosodici, tonali e sillabici propri della lingua materna, cosicché tutte le madri
finiscono col parlare con la stessa cadenza e la medesima intonazione (Fernald,
1985).
Nel toccare e carezzare il bambino, le mani della madre si muovono
delicatamente, secondo un ritmo ripetitivo e periodico la cui frequenza
comunica l'intensa carica di affetto che il neonato le ispira; i movimenti del
volto e del capo, i vocalizzi e i movimenti delle mani sono coordinati o
sincronizzati. Essi sono chiaramente regolati da un meccanismo che permette
alla madre di comunicare al bambino gli stati motivazionali dinamici del suo Io
già formato; essa lo aiuta così a modulare questo scambio, anima e sostiene la
sua espressività.
Tuttavia, è il contributo attivo del bambino che determina la scansione e la
durata delle protoconversazioni, che generalmente hanno il ritmo di un adagio.
Il bambino, da parte sua, tende ad avere cicli espressivi della durata di 3-5
secondi e non riesce a sostenere conversazioni vivaci per più di un minuto o
due (Trevarthen e Marwick, 1986).
La descrizione dettagliata di tutte le espressioni di questa sorta di ballo
figurato che è la protoconversazione non lascia dubbi: il gioco è fonte di grande
piacere per la madre come per il bambino (Wolff, 1963), che si trasmettono
sentimenti usando un codice comune. Se al contrario il contatto si rompe,
oppure la madre è nervosa o depressa, il bambino partecipa delle emozioni
negative che minacciano il rapporto, mostrando paura e tristezza o, se
frustrato, addirittura rabbia. Le valenze emotive universali, cui tutti e ovunque
ricorriamo per esternare sensazioni di attrazione o repulsione, per indicare la
gioia di un incontro, la rabbia dell'opposizione o la tristezza di una perdita,
sono immediatamente recepite dal bambino e, come aveva già mostrato
Darwin (1872), non sono quindi oggetto di apprendimento (Trevarthen, 1984,
1990a).
Le emozioni universali sono il ponte naturale fra le menti di qualsiasi età. Il
ruolo del bambino è tutt'altro che passivo. Cadenza e qualità della
protoconversazione sembrano infatti imposte proprio dal suo bisogno di
scoprire il gioco o un racconto, e la madre deve rispondere in un determinato
modo, come il musicista che esegue uno spartito o improvvisa su di un tema
conosciuto per accompagnare un altro musicista.
204
Il fine ultimo della mente umana è la comunicazione
I circuiti mentali e le funzioni cerebrali sono infatti organizzati in un sistema
integrato per esternare gli stati interiori di coscienza e motivazione a un
partner attento, e per osservare e percepire la qualità emotiva delle sue
risposte. Eccellenti studi condotti in vari paesi hanno dimostrato come, nel suo
primo anno di vita, il bambino si dedichi attivamente alla ricerca di conoscenza,
di persone innanzi tutto, quindi di oggetti che. possa manipolare e infilare in
bocca.
I filosofi empiristi hanno a lungo sostenuto che il primato dei sensi spetta al
tatto e che il bambino, quasi fosse cieco, deve esperire per contatto diretto
l'estensione fisica e la consistenza di un oggetto, misurarne la posizione e
l'estensione, prima di poterlo vedere o sentire come separato dal proprio
corpo. Deve cioè costruire il "concetto" degli oggetti e del mondo a partire dalle
sensazioni elementari.
Oggi sappiamo che non è così (Bower, 1974; Spelke, 1985). A soli tre
mesi, quando ancora non è in grado di esplorare perfettamente un oggetto
facendo uso delle mani, perché troppo debole per muovere in maniera
coordinata le pesanti membra, il bambino è capace di collocare gli oggetti nello
spazio e nel tempo e li vede muoversi e cambiare fisionomia senza peraltro
mutare identità.
L'Io coerente e la continuità dell'esperienza nei neonati
Il bambino, dunque, interpreta le informazioni mutevoli trasmessegli dai
sensi come parti di una realtà fenomeníca ad essi esterna, costituita di oggetti
permanenti. Ciò significa che si comporta come se possedesse un Io coerente,
ubicato al centro di tutte le esperienze della realtà sensibile, che segue
contemporaneamente tutti i diversi eventi.
È indubbio che la memoria e la conoscenza di un bambino, al pari del suo
senso del futuro, siano alquanto limitate, eppure la sua vita mentale prevede
già la continuità dell'esperienza, tanto che persino nei neonati si riscontra una
tendenza significativa a verificare nella pratica l'idea che si sono fatti della
struttura e della funzione di un oggetto. Al pari degli altri animali intelligenti, il
bambino gioca con le proprie azioni ed esperienze, ripete con entusiasmo i
movimenti che hanno appena prodotto effetti interessanti, si ferma ad
osservare nuovi oggetti e a verificare con cautela ed attenzione gli effetti dei
suoi movimenti in circostanze inconsuete.
Già a qualche mese, si applica con sforzo e sentimento alla soluzione di
problemi. Così, per esempio, quando è posto nelle condizioni di provocare uno
sfavillio di luci o la rotazione di un oggetto sopra la culla con un movimento
205
volontario - come girare la testa più volte nella stessa direzione, stendere il
braccio fino a un certo punto, o assestare un calcio ben mirato - un bambino di
tre mesi cerca il movimento più adatto perché lo spettacolo si riproduca,
salutando con vocalizzi e risa il risultato atteso, o arrabbiandosi e rattristandosi
se l'apparato non risponde "come dovrebbe" (Papousek, 1987; Watson, 1972).
Persino il neonato, infatti, è in grado di controllare le conseguenze del suo
debole agire, purché venga predisposto un apparato a sua misura, che egli
possa controllare con facilità (De Casper e Carstens, 1981).
La "poppata comunicativa"
Nel caso specifico del neonato, la tecnica più efficace sfrutta un tipo di
movimento che il lattante deve imparare prestissimo a fare: la poppata. I
bambini nascono con la capacità di succhiare il latte in due modi, l'uno volto a
trarre nutrimento dal seno - in cui la bocca del bambino funge da pompa
aspirante del latte materno - e l'altro dedicato alla comunicazione - attraverso
una sorta di codice Morse, trasmesso dalle labbra del bambino al capezzolo
della madre (Wolff, 1966). In questo caso, il bambino esercita lievi pressioni
con le labbra, senza aspirare, realizzando così una poppata di tipo
comunicativo ed esplorativo. Gli esperimentí in cui il neonato poteva usare
questa poppata comunicativa per dare il via (attraverso un interruttore) a
un'esperienza interessante - quale un brano di musica registrata - hanno permesso di dimostrare, per esempio, come il neonato preferisca ascoltare la
registrazione della voce della madre piuttosto che la voce di un'altra donna (De
Casper e Spence, 1986).
Per apprendere nuove modalità di controllo sul proprio comportamento è
indispensabile verificare gli effetti delle proprie azioni. Non sorprende dunque
che una giovane coscienza sia dotata di una curiosità tanto vivace, degna di un
piccolo artista, inventore, esploratore o scienziato. Tuttavia, lo sviluppo del
comportamento ludico mette in luce come la coscienza umana sia dotata di
una forma particolare di autoconsapevolezza che necessita di continuo
incoraggiamento, partecipazione e di una certa dose di giocoso antagonismo da
parte degli altri.
Tutti gli animali socialmente organizzati usano il gioco per provocarsi e
confrontarsi ed esercitano le capacità essenziali di sopravvivenza giocando alla
lotta, a nascondino, a rincorrersi. Il cucciolo di cane e di gatto, l'agnello o il
coniglio "simulano" il combattimento, la caccia e la fuga dal predatore, in una
messa in scena il cui fine è ottenere una risposta dal loro compagno di giochi.
Essi recitano per un pubblico, o per un avversario, anche quando sono soli.
La "coscienza cooperativa"
206
Nel bambino, il gioco sociale è molto complesso e riveste un ruolo capitale
nella formazione di quella "coscienza cooperativa" tipicamente umana, senza la
quale non vi sarebbero apprendimento culturale e uso di simboli (Trevarthen e
Logotheti, 1987). Già a qualche mese, nel gioco relazionale del bambino
intervengono l'umorismo e una penetrante curiosità circa i sentimenti altrui
(Reddy, 1990), aspetti che egli mostra di riservare ai rapporti per lui più
significativi. Nei confronti degli estranei, infatti, si comporta in maniera del
tutto diversa, guardandoli con sospetto e timore, e tentando un approccio
ludico solo successivamente, ma sempre con fare vigile e "formale". In altri
termini, il gioco del bambino, il suo apprendere giocando, è espressione
dell'attaccamento ai familiari, tant'è vero che in un ambiente familiare poco
sereno, in cui mancano amore e gioia, il gioco è raramente fonte
d'apprendimento, il bambino non sviluppa una crescita cognitiva adeguata
(Fraiberg, 1980; Murray, 1988) e, quel che è peggio, perde la sicurezza in se
stesso.
Un esempio immediato di vivacità e creatività infantile è offerto dal
bambino di sei mesi quando interviene nelle filastrocche che la madre canta
per lui. Si è osservato che tali canzoncine hanno una struttura che permane
invariata da lingua a lingua e che il bambino ha tendenza a prediligere, e
quindi a imparare, melodie semplici in cui l'elemento base è una strofa di
quattro versi di movimento andante, e ogni verso ha quattro battute. Anche
se, ovviamente, il bambino non può afferrare il senso delle parole, partecipa
della vitalità e del sentimento narrativo (Stern; Trevarthen, 1987) e quanto
prima impara a compiere qualche movimento d'accompagnamento, come
battere le mani, con grande gioia dei familiari.
Due stati mentali distinti nel primo anno d'età
Il senso di un Io esteriore e pubblico, di un Io sociale, comincia a
manifestarsi verso la fine del primo anno (Stern, 1985), quando il bambino
diventa ogni giorno più abile nell'esplorare e usare gli oggetti e nel trovare
soluzioni ai problemi posti dalla loro combinazione (Wishart e Bower, 1984). In
un primo tempo, questo interesse per le proprietà e l'uso delle cose sembra
rivaleggiare con la comunicazione, tanto che il bambino spesso rífiuta di
giocare con qualcun altro mentre è intento a esplorare un oggetto. Sembra che
esistano due stati mentali distinti, l'uno privato e "cognitivo", l'altro giocoso e
sociale (Trevartììen e Hubley, 1978; Trevarthen, 1980).
In seguito, verso i nove mesi, il bambino smette di interessarsi alle proprie
azioni per concentrarsi preferibilmente su quelle degli altri (Hubley e
Trevarthen, 1979). È una fase di cruciale importanza nello sviluppo della
coscienza umana, che apre la strada alla capacità di condividere un'azione e
allo svolgimento collettivo di un compito, consentendo al bambino di imparare
dagli altri nuove proprietà, valori e usi delle cose. Da qui all'apprendimento
culturale il passo è breve (Trevarthen, 1988).
207
Il linguaggio: forma trasfigurata di coscienza collettiva
Nel secondo anno di vita, il bambino esce dalla prima infanzia, da uno stato
"senza parole", e muove alla conquista di quella forma trasfigurata di coscienza
collettiva che è il linguaggio (Bruner, 1975, 1983; Halliday, 1975).
Indubbiamente, la coscienza non si identifica col linguaggio: chiunque può
rendersi conto di come esista una consapevolezza che non è necessario
descrivere a parole, e di quanto sia comunicativa ed efficace la coscienza muta
del bambino. Nondimeno, l'acquisizione del linguaggio cambia l'oggetto della
comunicazione e del ricordo, espande la coscienza nel tempo e unisce le menti
nella comprensione di realtà lontane dal "qui ed ora".
A due anni, la compagnia dei coetanei è continua occasione di divertimento
perché il bambino, con entusiasmo e creatività, gioca con il significato delle sue
azioni secondo modalità che gli altri possono facilmente interpretare. Negli anni
che seguono, questo gioco si complica, il bambino comincia a "giocare a far
finta che…", calandosi in un'infinità di ruoli e di contenuti immaginari, il cui
sviluppo è strettamente legato alla crescita del lessico (Fein, 1981;
Schwartzman, 1978).
È comunque importante sottolineare che la coscienza del significato
precede la parola. A diciotto mesi, quando ancora non è in grado di parlare in
modo intelligibile, il bambino può prendere il thè con le bambole, o far finta di
essere un cane o una macchina. Il linguaggio inter- viene essenzialmente per
dare un nome a delle idee che hanno già preso forma nel gioco collettivo, con
tutto quel che di comunicativo ha il suo aspetto teatrale (Trevarthen e
Logotheti, 1987). A questa età gli adulti non sono l'unica fonte di
apprendimento. A partire dai due anni, infatti, la trasmissione di idee culturali
è straordinariamente attiva anche fra gli stessi bambini, che proprio attraverso
il gioco stringono le prime amicizie.
E possibile ravvisare nel bambino motivazioni tipicamente umane che
promuovono l'apprendimento delle idee proprie di una società la cui storia e
cosmologia si estendono su generazioni e generazioni e penetrano la
profondità del mondo.
Che persino esseri tanto giovani si sforzino di comunicare valori e di
comprenderli, dimostra quanto la coscienza umana sia motivata a costruire
una realtà culturale.
Se è vero che tali complesse attività psicologiche sono intrinseche alla
struttura e ai processi cerebrali umani, cosa possono dirci le recenti scoperte
della ricerca sul cervello?
208
È possibile, in altri termini, spiegare come il cervello in crescita del
bambino riesca a modulare il proprio sviluppo e capacità di apprendimento
nell'interazione con l'attività mentale di altri cervelli (Trevarthen, 1990)?
Negli ultimi anni, nuovi dati hanno dimostrato quanto fossero sbagliate le
vecchie teorie che consideravano il cervello del bambino un sistema di riflessi
automatici, privo di motivazioni psicologiche di ordine superiore.
L'asimmetria degli emisferi dal quinto mese di gravidanza
Negli anni '70 è stato in primo luogo dimostrato che l'asimmetria propria
dei processi superiori di conoscenza e apprendimento che hanno luogo nei due
emisferi del cervello adulto, soprattutto in quello umano, comincia a delinearsi
già verso la metà della vita del feto (Trevarthen, 1987). Intorno al quinto mese
di gravidanza, compaiono nell'emisfero sinistro i tessuti preposti all'ascolto dei
linguaggio che giungono a piena maturità solo diversi anni dopo la nascita.
Lo studio delle vie neurali dei cervello, inoltre, ha rivelato che i sistemi
sensoriali e motori hanno fasi evolutive diverse, e che ciascuno è composto di
un certo numero di sottosistemi con funzioni di vario tipo. Queste fasi evolutive
potrebbero essere interpretate in termini di un programma di sviluppo del
cervello corrispondente a una sequenza di stadi psicologici emergenti. Le vie
uditive dei tronco cerebrale, per esempio, da cui dipenderebbe la percezione
dell'emozione nella voce, si sviluppano interamente prima della nascita; il
sistema uditivo che raggiunge la corteccia cerebrale, la cui importanza è
massima durante l'apprendimento dei linguaggio, ha invece uno sviluppo lento
che si protrae nella prima infanzia.
Al contrario, tutte le componenti del sistema visivo giungono a maturità più
o meno contemporaneamente durante il primo anno di vita. I sistemi sensoriali
che informano il cervello sulla coordinazione dei movimenti e sulla posizione di
testa, tronco e arti si sviluppano in fase prenatale, a eccezione di due
componenti che maturano invece lentamente dopo la nascita: il cervelletto e le
sue connessioni con la corteccia cerebrale - che si sviluppano durante l'infanzia
parallelamente all'agilità locomotoria - e i sistemi neocorticali che governano il
movimento delle dita e il tatto - i quali evolvono nei primi anni di vita man
mano che il bambino perfeziona la sua capacità di manipolazione. Queste
correlazioni fra elaborazione cerebrale e sviluppo comportamentale sono
incoraggianti, ma le scoperte più sensazionali, e più interessanti in questa
sede, sono quelle relative a determinate funzioni mentali quali la motivaizone,
l'emozione e la generazione di capacità cognitive.
Fra le aree del cervello in cui hanno origine le emozioni figurano sia alcune
componenti delle zone profonde e primitive, sia estensioni più recenti situate
nel proencefalo e soprattutto nei lobi frontale e temporale. I sistemi più antichi
209
compaiono per primi nell'embrione umano, poche settimana dopo l'inizio dello
sviluppo.
Le cellule fondamentali, raggruppate intorno ai nuclei della formazione
reticolare del tronco cerebrale, estendono i loro prolungamenti ai tessuti
ancora indifferenziati delle altre aree. Tali cellule invadono, dunque, le sottili e
rudimentali pareti degli emisferi cerebrali molto prima che si insedino i neuroni
corticali. Le cosiddette aree limbiche o marginali della corteccia sono
estremamente simili a questi sistemi profondi di coordinamento e più tardi, nel
feto, la corteccia limbica si formerà prima della neocorteccia.
Questo significa che le aree del cervello che motiveranno l'azione e
l'apprendimento si sviluppano prima di quelle preposte all'analisi
dell'esperienza e al controllo di azioni più sofisticate.
La coscienza e le emozioni
Ciò suffraga la teoria secondo cui la consapevolezza cosciente e l'azione
volontaria hanno origine in quelle parti della mente preposte alla formazione
degli stati emotivi e cognitivi.
Entusiasmanti conferme a quest'ipotesi vengono dalla ricerca sullo sviluppo
nei cuccioli di gatto dei meccanismi corticali da cui dipende la stereopsi
binoculare, ovvero la capacità di misurare la profondità con entrambi gli occhi.
Questa componente della corteccia visiva giunge a completo sviluppo nelle
prime settimane di vita, ed è frutto di una selezione e stabilizzazione delle
connessioni intercellulari temporanee prodotte in grande eccesso al momento
della nascita. Era già noto che tale selezione richiede un'eccítazione di natura
visiva, dal momento che essa non si verifica se il cucciolo è tenuto al buio o
viene privato di esperienze visive adeguate. Di recente, tuttavia, si è scoperto
che anche stimolando entrambi gli occhi con forme luminose le giuste
connessioni non vengono selezionate se non si soddisfano due condizioni
ulteriori.
In primo luogo, il buon funzionamento dei sistemi motori che sincronizzano
il movimento degli occhi e correggono il cristallino per la messa a fuoco
dell'imrnagine sulle due retine richiede l'attività coordinata dei neuroni del
tronco cerebrale. Inoltre, come hanno mostrato Singer e i suoi colleghi (1982),
le cellule corticali cui spetta il compito cruciale di integrare le informazioni
provenienti da entrambi gli occhi devono essere attivate dalle aree cerebrali
profonde, oltre che dagli occhi stessi. Ciò significa che perché l'oggetto
osservato possa aiutare la corteccia visiva a rifinire le sue connessioni il
cucciolo deve avere il coordinamento necessario e al contempo la motivazione
a vedere. Ovvero, deve provare interesse (per esempio giocando) per ciò che
vede, altrimenti il suo sistema visivo non si svilupperà adeguatamente.
210
Le motivazioni innate e l'apprendimento plasmano la corteccia cerebrale
Tutti questi dati consentono di elaborare una teoria che integri le emozioni
e le motivazioni innate con l'apprendimento percettivo e cognitivo. Ulteriore
conferma giunge dagli studi relativi agli effetti indotti dalla stimolazione
materna sulla crescita cerebrale dei cuccioli di ratto e dei bambini prematuri
(Schanberg e Field, 1987). I meccanismi ormonali essenziali per una crescita
cerebrale normale sarebbero attivati dalla stimolazione tattile operata delle
carezze materne.
Un'altra ricerca ha dimostrato che le aree limbiche del cervello di una
scimmia, le quali maturano prima della neocorteccia, hanno un ruolo
importante nell'interazione sociale, tanto che se vengono danneggiate alla
nascita ne risulta inibito lo sviluppo sociale e cognitivo dei cucciolo, che sarà
affetto da una patologia simile all'autismo nei bambini, e rifuggirà dunque il
contatto sociale chiudendosi in attività coatte ripetitive o in un'inattività totale
(Merjanian, 1986).
Numerose ricerche mostrano quanto il cervello umano sia modificato
dall'esperienza e dall'apprendimento. Così, la corteccia cerebrale di un non
udente è organizzata in maniera diversa da quella di un non vedente, ed
entrambe differiscono dalla corteccia cerebrale di una persona con udito e vista
normali. Il pianista ha sicuramente un sistema motorio diverso da quello di un
suonatore di flauto e i sistemi di entrambi differiranno da quello di un atleta o
di uno scrittore.
Tuttavia, esistono in tutti alcuni principi comuni di apprendimento, fra cui il
bisogno di sostegno emotivo, di insegnamento e di motivazione. Gli
esperimenti sui bambini hanno messo in luce che l'apprendimento umano è
aperto, sin dall'inizio, agli effetti emotivi della comunicazione, mentre le nostre
conoscenze sull'evoluzione cerebrale lasciano supporre che l'influenza selettiva
dell'ambiente sia coordinata e regolata da sistemi motivazionali innati.
"Personalmente - conclude Trevarthen - non ho dubbi sul fatto che la
coscienza umana si sia evoluta per essere condivisa, e che lo sviluppo
cerebrale nel bambino si serva dei sentimenti e delle motivazioni comunicatigli
dagli altri per migliorare quella coscienza che possiede in virtù della sua
organizzazione prenatale. Tale convinzione è perfettamente compatibile con la
teoria di Sperry, per cui la coscienza avrebbe un ruolo causale emergente
"verso il basso" nel controllo del comportamento indotto dalla prassi e
dall'esperienza, e orientato alla realtà. Non sembra quindi esservi ragione per
pensare che le funzioni mentali siano di una natura diversa da quella delle
funzioni del cervello, sistema unitario e unificante all'interno dell'organismo.
Tali funzioni comunicano intensivamente ed estensivamente con le altre menti,
gli altri corpi e gli altri cervelli, nello sforzo di condividere il significato del
mondo" .
211
Immaturità fisiologica del neonato e l'Io corporeo
Rimane vero, come ricordano Farneti e Carlini che "il bambino viene al
mondo in uno stato d'immaturità fisiologica che rende necessario il
proseguimento della simbiosi già realizzata nell'utero; per sopravvivere egli ha
bisogno del rapporto continuo con un altro essere che gli fornisca, oltre al
contatto e al calore, anche il nutrimento e che lo protegga,
contemporaneamente, dai pericoli esterni e da quelli che la sua stessa
immaturità psicomotoria gli creano: è questo un rapporto specificamente
corporeo nel quale il bambino, "massa che si agita", "è agito" dalla
manipolazione degli altri. La sua vita si esprime essenzialmente attraverso
profonde sensazioni interne legate al ritmo inesorabile de bisogni alimentari,
alla necessità dell'equilibrio e di una postura confortevole.
Alcuni psicologi che si sono interessati alle fasi fetali della vita e ai rapporti
fra la vita psichica della madre e quella del bambino che porta in sé, ritengono
- per quanto sia stato ormai appurato che le condizioni psicofisiologiche della
madre esercitano una certa influenza sullo sviluppo del feto - che non si è
ancora in grado di stabilire strette correlazioni fra la vita intrauterina e la
futura evoluzione psichica del bambino, comprese le eventuali manifestazioni
patologiche [Farneti - Carlini, 1981, pp. 17-18].
"Pensiamo ai processi mentali che caratterizzano la diffusione del senso di
Sé per tutto il corpo del bambino, in cui il Sé è alloggiato. Quando il bambino,
una volta che la vista è abbastanza sviluppata, vede il proprio corpo, lo
percepisce come qualunque altro oggetto che si presenti alla sua mente
attraverso l'organo della visione.
Del tutto diverso è l'effetto dell'esperienza percettiva allorché il bambino
tocca il proprio corpo: qui l'esperienza è prodotta da due sensazioni
contemporanee, fatto che può realizzarsi molto presto nella vita, forse già nello
stato intrauterino. La nostra esperienza di adulti quando tocchiamo il nostro
corpo ci fa pensare che una parte di esso, per esempio la mano, si accosta
attivamente a un'altra parte, che prova l'esperienza passiva di essere toccata,
ma questa non è affatto una giustificazione sufficiente per supporre che lo
stesso avvenga nella prima infanzia: venire a contatto col proprio corpo suscita
nel bambino piccolo due sensazioni della stessa qualità, che lo conducono a
distinguere fra Sé e non-Sé, fra il corpo e quello che in seguito diventerà
l'ambiente circostante. Ne deriva che questo fattore contribuisce al processo di
differenziazione strutturale. Inizia così la delimitazione fra il Sé-corpo e il
mondo esterno, il mondo dove si trovano gli oggetti." [Farneti - Carlini, 1981,
p. 203].
212
Nascita biologica e nascita psicologica
Dunque il tema - che a me interessa particolarmente - del momento della
nascita della coscienza (sempre che non sia un falso problema…) vede gli
studiosi su posizioni opposte.
"La nascita biologica e la nascita psicologica non coincidono
temporalmente" sostengono Farneti Carlini, mentre Trevarthen, come abbiamo
visto, era convinto che già nella vita intrauterina il feto mostrasse segnali di
vita psichica.
Mentre la nascita biologica è un evento drammatico, osservabile e ben
circoscritto, la nascita psicologica è un processo intrapsichico che si svolge
lentamente. Agenti principali di questa seconda nascita, di questo "emergere"
dell'individuo come essere separato, provvisto di un proprio, seppur
rudimentale, psichismo, possono senza dubbio considerarsi l'esperienza del
proprio corpo e la figura materna "oggetto d'amore primario".
"Lungi dall'essere un sistema fuso, il bambino è da principio privo di intima
coesione e abbandonato senza il minimo controllo alle influenze più fortuite.
Sotto l'influsso di questa sfera emotiva si stabiliranno molto velocemente delle
connessioni fra le manifestazioni spontanee e le reazioni utili suscitate
nell'ambiente" [Farneti - Carlini, 1981, pp. 238-239].
A sostegno della loro teoria, Farneti Carlini riportano che è stato osservato
con quale precocità il sorriso del bambino risponde a quello della madre.
"L'emozione genera gli impulsi collettivi, la fusione delle coscienze individuali in
una sola anima comune e confusa. Uno scambio psichico più primitivo della
presa di coscienza attraverso cui la persona afferma la sua autonomia. Proprio
nei trasporti passionali, in cui ciascuno si distingue male dagli altri e dalla
scena complessiva in cui si confondono i suoi appetiti, i suoi desideri e il suo
timore, l'individuo percepisce se stesso immediatamente. L'emozione procede
da una vita psichica ancora mal differenziata, e nello stesso tempo i centri
nervosi che regolano le sue manifestazioni così viscerali come motorie
appartengono alle regioni subcorticali del cervello, cioè a un insieme funzionale
assai più anticamente evoluto nella specie che non le operazioni della
rappresentazione e della decisione più esclusivamente imputabili alla corteccia.
Il periodo inziale dello psichismo sembra dunque essere stato di
indifferenziazione fra quello che dipende dalla situazione esterna e quello che
dipende dal soggetto stesso" [Farneti - Carlini, 1981, p. 240].
"Io" e "altro" precoscienti
"L'io di fronte all'altro non ha ancora assunto questa specie di stabilità e di
costanza che noi riteniamo elemento indispensabile della coscienza dell'io, che
213
ci sembra costitutiva della persona. Si potrebbe paragonare il primo stato della
coscienza ad una nebulosa in cui si diffonderebbero senza vera distinzione
azioni sensitivo-motorie di origine endogena o esogena. Nella sua massa
finirebbe col delinearsi un nucleo di condensazione, l'io, ma anche un satellite,
il sub-io, l'altro.. Fra i due la divisione della materia psichica non è
necessariamente costante. Può variare secondo gli individui, secondo l'età ed
anche dinanzi a certe alternative della vita psichica" [Farneti - Carlini, 1981,
pp. 241-242].
"Tutte queste analisi concordano nell'ammettere che non si potrà spiegare
la percezione dell'altro se si presuppongono un io e un altro assolutamente
coscienti di se stessi e che di conseguenza rivendichino una originalità assoluta
in rapporto all'altro che è di fronte a loro. […] Inizialmente ci sarebbe uno stato
di precomunicazione in cui le intenzioni dell'altro agiscono in qualche modo
attraverso il mio corpo e le mie intenzioni agiscono attraverso il corpo
dell'altro" [Farneti - Carlini, 1981, pp. 245-246].
"Le aree del corpo più importanti al fine dell'istituzione di confronti e di
contrapposizioni e al fine della ricognizione individuale del proprio corpo e di
quello degli altri sono il viso e i genitali. Nello stesso tempo, sono le aree più
difficili da vedere per l'individuo stesso" [Farneti - Carlini, 1981, pp. 157-158].
E un'importanza speciale ha la cavità orale, che incorpora gli organi sensoriali
esterni e interni.
Anche L. Ancona sostiene la indistinzione iniziale della coscienza: "Per
interpretare gli inizi della vita mentale possiamo dire che il mondo del neonato
è del tutto privo di oggetti e pertanto di relazioni oggettuali. Si tratta di un
universo che è radicato in un quadro sensoriale, per usare l'espressione di
Piaget (1954), ma nel quale il soggetto non può ancora disporre di coscienza,
di percezioni, di sensazioni, o di qualsiasi altra funzione psichica. Egli è infatti
ancora un'entità non differenziata, dalla quale emergeranno in seguito
progressivamente strutture, funzioni, pulsioni" [Ancona, 1970, p. 132-3].
Le risposte a certe stimolazioni non sono "esperienze coscienti", nelle prime
settimane di vita, ma "semplici processi di recezione, che dimostrano di avere
natura fisiologica piuttosto che psicologica. All'inizio, l'organismo umano non
possiede altro che uno strumento congenito, e certe disposizioni che
rimangono ancora allo stato potenziale; l'uno e le altre sono suscettibili di
successivi processi di maturazione, propri della specie e innati, e di evoluzione,
propri della cultura e dipendenti da uno scambio fra il soggetto e il suo
ambiente. Soltanto la continua reciprocità di relazione con la madre, che
rappresenta la sua prima cultura, e cioè il ciclo emotivo specifico che gli
permetterà di trasformare stimoli senza significato in segnali significativi"
[Ancona, 1970, p. 133].
Le "organizzazioni cenestesiche"
214
"A causa dell'esistenza di una barriera protettiva dagli stimoli, il neonato
nelle sue prime settimane ignora praticamente il mondo esteriore ed è
sensibile solo alle stimolazioni provenienti dai sistemi proprio- ed enterocettivi. Si tratta di esperienze sensoriali che Spitz ha definito col nome di
"organizzazioni cenestesiche"" [Ancona, 1970, p. 136].
"In tal modo si delinea la sequenza progressiva dello sviluppo percettivo,
dalla pura reazione cenestesica alla percezione per contatto, da questa alla
percezione distale, basata sul riconoscimento del segnale gestaltico, semplice
preoggetto e dal preoggetto all'oggetto individualizzato, investito d'amore,
attraverso la percezione diacritica, ogni gradino precede e prepara il
successivo, ne è una condizione ineliminabile, fino al raggiungimento di un
processo percettivo completo, in grado di cogliere anche gli aspetti
transfenomenici delle cose" [Ancona, 1970, p. 139].
Le "fantasie" del neonato
Spitz si è opposto alle ipotesi secondo cui il lattante sarebbe capace, sin dal
primo giorno di vita di processi intrapsichici, di pensieri simbolici, di
meccanismi di difesa e sarebbe già dotato di complesso di Edipo e di super-Io.
Egli fa precisi riferimenti critici al pensiero della cosiddetta scuola di Londra,
rappresentata e fondata da M. Klein, secondo il cui pensiero, le relazioni
oggettuali che l'Io costituisce fin dall'inizio non riguardano solo i contenuti della
realtà, ma anche quelli della fantasia, quindi i cosiddetti "oggetti interni". Gli
oggetti interni sono le fantasie inconsce che si hanno di ciò che è contenuto
coscientemente nella psiche, cioè dell'oggetto realistico; essi esistono sin
dall'inizio, perché sono l'espressione mentale degli istinti [Ancona, 1970, pp.
139-140].
Una posizione rigida contro l'attribuzione di capacità cognitive e
motivazionali al feto si trova nel sito che ho già citato del Controllo delle
Affermazioni nel Paranormale (CICAP) in cui Beyerstein ridicolizza le
"farneticazioni Scientologiche di L. Ron Hubbard circa la vita nell'utero che
iniziarono come fantascienza e sono oggi bollate, appropriatamente, come
religione" .
In conclusione, vediamo dimostrato quanto detto in precedenza, a
proposito della possibilità attuale di formulare una completa teoria della
coscienza, e segnatamente per quel che riguarda il suo sorgere, e cioè che non
è possibile, perché la mole di dati - invero già notevolissima - fornisce
indicazioni contrastanti e non esaustive. Si apre così lo spazio per la possibilità
di accentuare questa o quella posizione. Basterà ricordare che negli anni
215
prossimi venturi si dovranno sottoporre a verifica nuovamente e con
accuratezza le teorie fino a qui formulate.
Le prime impressioni della vita: una programmazione sottovalutata
La mia posizione coincide con quella di Vester che ha scritto: "La maggior
parte del cervello umano è già sviluppata prima della nascita e le cellule
residue e le loro congiunzioni si formano nel breve periodo delle prime
settimane o dei primi mesi di vita. Da quel momento l'accrescimento del
cervello è quindi concluso. Questa fine sorprendentemente precoce della
scissione delle cellule in confronto agli altri organi è però l'unica garanzia del
fatto che un essere vivente possa apprendere qualcosa. Se le cellule del nostro
cervello si moltiplicassero di continuo come per esempio le cellule della
muscolatura o della pelle, allora ne morirebbero contemporaneamente
altrettante e con loro andrebbe persa per sempre anche l'informazione che vi è
immagazzinata, perché la scissione delle cellule implica sì la trasmissione
dell'informazione genetica contenuta nell'acido deossiribonucleico (DNA), ma
non quella delle informazioni acquisite. Naturalmente non ci ricordiamo più
nulla di quei primissimi giorni; però queste prime informazioni ricevute
mediante le sensazioni tattili, olfattive e gustative vengono immagazzinate
come patrimonio durevole quasi come le informazioni genetiche e (ugualmente
nel subconscio o inconscio) in maniera più stabile della maggior parte dei
ricordi consci successivi. Così ognuno di noi lavora ancora oggi con le stesse
cellule nervose che possedeva poco dopo la nascita" .
XI
Dalla sinderesi al coscienzialismo:
alcune questioni ancora aperte
sulla coscienza
In questi ultimi capitoli della dissertazione posso cominciare a trarre
qualche conclusione.
Ho trovato molto interessante ricostruire, nel poco spazio qui a disposizione
e senza pretesa di completezza, la storia del concetto di coscienza ed è emerso
un percorso abbastanza significativo.
216
"Sunevide§is " e "sunthvrh§is" dalla grecia classica al medioevo
Nella Grecia classica c'era la dimensione della sunevide§is, intesa come
coscienza nel senso di consapevolezza, termine usato da Diodoro Siculo, e
Menandro, ripreso dal lessico dei Settanta e da quello neotestamentario.
Derivato da sunoravw, "vedere insieme", "vedere contemporaneamente",
con Platone significa anche "comprendere" e, più tardi, "accorgersi".
Nel medioevo invece si è ripreso un concetto greco, quello della
sunthvrh§is (lat. synteresis) ed ha ricevuto un grande sviluppo concettuale per
opera della filosofia scolastica.
Il greco sunthvrh§is significava "vigilanza (della coscienza)" esame,
conservazione, nome d'azione di sunthrevw "vigilo", composto di sun "con" e
threvw "osservo", ma anche "custodisco", "proteggo", "mantengo" (thvrh§is,
"costodia", "conservazione") [Devoto, 1968, p. 394]. Sunthrevw significa
dunque mantenere attentamente, [th;n gnwvmhn] par! eJauth'/ il proposito in
segreto (Polibio) da [DIGI, 1975, p. 1241]. Nei Settanta significa preservare da
(con l'infinito) e osservare attentamente; nel Nuovo Testamento invece
conservare e conservarsi, in Plutarco, spiare l'occasione di (con l'infinito)
[EGF1, 1981, p. 864].
La sinderesi è ricordata da san Gerolamo nel suo Commento a Ezechiele
come sinonimo di quella parte dell'anima abitualmente definita coscienza (I, c.
I).
In san Tommaso essa mantiene il senso originario di tendenza verso il
bene e di fuga dal male (Summa theologiae, 1, 1 q. 94, art. I). Lo stesso
significato di attitudine dell'anima a riconoscere i primi principi morali è
attestato in tutta la scolastica, che sulla scorta dei testi precedentemente citati
concepisce la sinderesi, o scintilla conscientiae, come la parte dell'anima non
toccata dal peccato originale, l'attitudine dell'anima a riconoscere i principi
morali fondamentali.
Nello stesso senso di funzione attiva della coscienza il termine si ritrova in
Bossuet (Trattato sulla conoscenza di Dio e di se stesso, cap. I par. 7), mentre
in età contemporanea è caduto in disuso.
Ho trattato ampiamente nel capitolo IV di come il concetto di coscienza
avesse duplice valore nella scolastica: la sinderesi è la coscienza originaria,
217
innata e sintetica percezione dei valori morali dell'esistenza cristiana; invece la
conscientia è un atto che applica quella unitaria e dinamica intuizione ai casi e
alle azioni concrete.
Quel che possiamo osservare è che sempre più nel pensiero medioevale e
moderno l'accento viene posto più distintamente sulla conscientia: e cioè sulla
funzione o atto applicativo ai singoli comportamenti di quel dinamisrno vitale
che si pone come radicale "presa di coscienza" del senso e dell'orientamento
del proprio esistere cristiano.
La coscienza dunque è ridotta a "funzione di discernimento" per essere
infine relativizzata, rilegata alla sfera morale-religiosa dall'illuminismo e resa
muta nell'epoca contemporanea dal positivismo e dallo scientismo materialista.
Anima e coscienza
Quello che per secoli si è chiamato "anima" sembra essere la stessa
"sostanza" che ora viene chiamata "coscienza".
Per la coscienza, come per l'anima si può dire quello che disse Eraclito di
Efeso (480 a.C. circa), nel frammento 45: "I confini dell'anima, per quanto tu
vada e se anche percorressi tutte le strade, non riusciresti a trovare: così
profondo è il Logos che essa porta in sé".
In questo frammento, come ha scritto Ravasi , l'anima è raffigurata come
una terra sterminata, come un oceano sconfinato che si percorre senza mai
scoprirne le frontiere e senza mai ritornare nelle stesse acque ("non potrai
bagnarti due volte nelle acque dello stesso fiume", ha scritto Eraclito). A
distanza di secoli e soprattutto di visione delle cose, santa Teresa di Lisieux
esclamava: "Come dev'essere grande un'anima per contenere Dio!".
Il filosofo efesino non parla di Dio ma usa il termine Logos, che per lui ha
vari significati: può essere la legge divina, universale che determina il divenire
delle cose; oppure la ragione umana; oppure il discorso, il linguaggio, la parola
che annuncia la verità e che non può essere separata dall'intelletto (nou§) . È
comunque, il nodo d'oro che tiene insieme tutto il mistero dell'anima. Per
Eraclito è dentro l'uomo che va cercata la verità e il solo modo per trovarla è
prestare ascolto al Logos.
Secondo i cristiani quel Logos ha un nome e un volto preciso e nitido, che
va cercato navigando nel silenzio del mare dell'anima.
Io rilevo dunque l'attualità di questo concetto, se non nel senso della
conscience, certamente invece in quello della consciousness.
218
È un percorso che è passato attraverso un momento teoretico specifico che
è stato il coscienzialismo.
Alcuni esponenti del coscienzialismo
Il coscienzialismo è un orientamento filosofico che pone la coscienza come
elemento originario e attivo nella formazione dell'esperienza. Al coscienzialismo
si richiamano la dottrina immanentistica (come gnoseologia) e ogni forma
d'idealismo da Berkeley al criticismo kantiano, all'idealismo ottocentesco,
all'evoluzionismo bergsoniano, alla fenomenologia husserliana.
In particolare il coscienzialismo formò il nucleo centrale del pensiero
filosofico di Schuppe e dell'italiano Martinetti [GADA, 1973, p. 493].
Aggiungerò qualche nota su O. Külpe.
Piero Martinetti
In opposizione all'"idealismo immanente". di Croce e Gentile, ispirato
all'hegelismo, Piero Martinetti (Torino, 1872 - 1943) ha sostenuto un
"idealismo trascendente" di matrice kantiana e leibniziana. Le sue opere
principali sono state: Il sistema Sankya (1897); Introduzione alla metafisica
(1902-04); Il compito della filosofia nell'ora presente (1920); Breviario
spirituale (1923); La libertà (1928); Gesù Cristo e il cristianesimo (1934);
Ragione e fede (1942); Kant (1943).
Secondo Martinetti la filosofia non deve rifiutare il contributo della scienza,
ma deve anzi configurarsi come "metafisica empirica" volta per successive
sintesi all'unità del sapere empirico stesso. In tal modo essa si pone come
correttivo del dogmatismo positivistico, incapace di comprendere la funzione
dell'unità dell'autocoscienza in quanto condizione di ogni esperienza.
L'autocoscienza umana è solo una "manifestazione empirica" del Soggetto
assoluto, cioè di quell'Unità trascendente alla quale la conoscenza e anzi
l'intero universo si dirigono senza poterla mai adeguare. Dell'Unità non può
darsi concetto speculativo; essa può venire solo intuita mediante "simboli" e
"ideogrammi", in quanto "il sapere nostro è un atto di unione mistica col Logos
eterno" (Introduzione alla metafisica).
L'idealismo martinettiano costituisce una forma di romanticismo, in cui forti
sono gli influssi della filosofia indiana. Religione e filosofia si identificano e si
traducono in una vita etico-religiosa come superiore sintesi del diritto e della
morale.
219
La religione di Martinetti (in parte ispirata al Kant della Religione nei limiti
della sola ragione) ripudia ogni "chiesa visibile" storicamente determinata.
Buddha, Cristo, Giamblico, Marcione e altri personaggi sono visti da Martinetti
come coloro che vollero riportare la religione alla sua pura spiritualità,
liberandola dalla superstizione e dal dogmatismo, in vista di quella "chiesa
invisibile" che si identifica con la ragione universale e con il kantiano "regno dei
fini".
È proprio contro questa visione della religione che recentemente Francesco
Tomatis, recensendo una ristampa di un'opera di Martinetti , un'antologia
evangelica, parla di "Cristo "razionale" di Martinetti". Martinetti con "una
discutibile selezione di brani riduce il Vangelo a legge morale e il Salvatore a
una figura profetica".
Ma "il merito di Martinetti non fu soltanto quello di rifiutare il giuramento di
fedeltà al regime fascista, lasciando nel 1931 la cattedra di filosofia teoretica
presso l'Università di Milano" e ritirandosi a Castellamonte, dove continuò la
sua azione culturale con gli scritti e sulle pagine della "Rivista del filosofo".
"In un clima culturale sempre più storicista e immanentista, Martinetti
richiamò la centralità filosofica della metafisica e il valore spirituale della vita.
Il suo personale neokantismo, volto a cogliere e approfondire la religione e
la vita spirituale in genere come esigenza e frutto della stessa e semplice
umana ragione, è impossibilitato a comprendere il fenomeno religioso nella sua
profondità, trascendenza, libertà" [EGF2, 1997, pp. 693-694].
Wilhelm Schuppe e la "filosofia dell'immanenza"
Wilhelm Schuppe (Brieg, Slesia, 1836 - Breslavia 1913), fu professore a
Greifswald e dal 1897 diresse la "Zeitschrift für immanente Philosophie",
organo della "filosofia dell'immanenza" di cui Schuppe era l'esponente di
maggior rilievo. Cultore di fìlosofia del diritto, dedicò a questi studi numerose
pubblicazioni, oggi rivalutate in quanto anticipatrici della scienza del diritto
inteso come "pura legalità", secondo criteri metodologici che rivelano in lui un
pioniere della concezione neopositivistica dell'unità della scienza. Tra i suoi
scritti filosofici, oltre all'opera principale Abbozzo di gnoseologia e logica
(1894), si ricordano: Logica gnoseologica (1878); Fondamenti dell'etica e
filosofia del diritto (1881); La filosofia dell'immanenza (1897); Il problema
della responsabilità (1913) [EGF2, 1997, pp. 1028-1029].
Tesi di fondo della "filosofia dell'immanenza" è che l'oggetto, in quanto
contenuto di coscienza, è immanente alla coscienza stessa.
Questa posizione intende rifiutare sia il "realismo trascendente" sia
l'idealismo, che misconoscono 1'essenziale coappartenenza di mondo e
220
pensiero, soggetto e oggetto, sulla quale da sempre si fonda giustamente il
senso comune.
Nella coscienza vanno poi distinti gli aspetti individuali da quelle
caratteristiche comuni che costituiscono la coscienza, propria della specie
umana o "coscienza generale" (Abbozzo, par. 45). Su di esse si fondano le
verità della logica e della scienza.
Il realismo di Schuppe, affine per vari aspetti all'empiriocriticismo, venne
ulteriormente radicalizzato dallo psicologo tedesco Oswald Külpe (Landau,
1862 - Monaco di Baviaera 1915).
O. Külpe
Distaccatosi dal suo maestro W. Wundt, Külpe fondò una propria scuola.
Egli riteneva - diversamente da Wundt - che i processi superiori di pensiero
potessero essere studiati sperimentalmente con lo stesso rigore con cui
venivano studiati i processi sensoriali e percettivi, ed elaborò in questa
prospettiva il metodo dell'"introspezione sistematica", in base al quale al
soggetto sperimentale veniva fra l'altro richiesto di stabilire connessioni logiche
fra i concetti.
Fu egli a scoprire il "pensiero senza immagini", contro la tradizione
associazionistica fatta propria dalla psicologia wundtiana, la presenza
nell'esperienza cosciente di elementi sensoriali.
ALCUNI PROBLEMI DI FONDO E NON RISOLTI SULLA COSCIENZA
A questo punto, dopo aver esaminato i possibili significati del termine e lo
sviluppo del concetto di coscienza, dopo aver considerato gli usi che se ne fa in
varie discipline e le prospettive della ricerca nel campo delle neuroscienze e
della neurofilosofia, vorrei individuare, riassumere e - ove possibile - impostare
una serie di problemi tuttora insoluti, problemi filosofici e non solo.
In realtà esistono moltissime risposte ad essi, ma, come si è potuto vedere
nei capitoli precedenti, sono incomplete e, con molta probabilità, sbagliate.
La coscienza è un problema. Lo è oggi, lo sarà per molto ancora, lo sarà
forse per sempre.
221
Nel prossimo capitolo esporrò la mia posizione. Qui riassumo alcuni
problemi, che - ciò che farò nel prossimo capitolo - mi hanno portato a voler
dire qualcosa di personale sulla coscienza.
Che cos'è la coscienza?
Il problema principale è e rimane capire che cos'è la coscienza. Ciò non può
essere solo trovare una definizione, ma implica lo spiegarne la sostanza, la
natura, l'origine, il rapporto col corpo, con il resto della mente, con il mondo.
Questo è "il problema". Ed è un problema che investe tutto l'uomo, la cui
risoluzione sarebbe il traguardo più ambito da raggiungere, superiore a
qualsiasi altro posto dall'uomo.
La soluzione di questo problema a mio giudizio sarebbe la tappa che lo
avvicinerebbe di più alla divinità.
Nei secoli in molti - come si è visto - hanno "spiegato" cos'è la coscienza,
eppure col tempo le teorie cadono, si rigenerano, si trasformano - basti
pensare al passo decisivo compiuto recentemente dalle neuroscienze. Così "il
problema" della coscienza continua ad essere insoluto.
Urgono nuovi paradigmi di indagine.
Potrebbe essere definita un "atto" o invece un processo (così la pensa
Bergson).
Può essere definita uno stato (stato mentale o di un altro tipo) o altro
ancora. Senza dimenticare che ancora c'è chi nega tout court l'esistenza della
coscienza.
La coscienza unisce o divide?
La coscienza è un problema perché è l’aspetto più elevato, profondo e
complesso dell’uomo.
Essa, al contempo, accomuna tutti gli uomini e li distingue tutti.
Accettiamo che ogni uomo abbia la coscienza, e che tutti gli uomini siano
simili in quanto diversi da tutti gli altri esseri del creato.
Ma al contempo ogni uomo è diverso soprattutto nella sua coscienza. Lo è
per tanti motivi biologici, genetici, morfologici, eccetera. Ma anche dove le
differenze "esterne" sono minime, interviene la coscienza a sancire la
separazione, la distanza, la differenza.
222
Alcuni "problemi" che la coscienza pone li ho affrontati nei precedenti
capitoli, altri li affronterò più esplicitamente in seguito.
Ho già citato, per esempio, il "problema delle altre menti" : io so che i miei
caratteri esterni coincidono con quelli interni, ma come faccio ad accettarlo per
gli altri uomini, non potendo esperirlo empiricamente? [cfr Gregory, EOM p.
182 ss.]
Quale rapporto c'è tra corpo e coscienza?
Umberto Galimberti ha svolto una riflessione sulla radice corporea
dell'eccentricità e la coscienza come suo riflesso: "abbiamo introdotto la
metafora della danza per volatilizzare il più possibile la sostanzialità della
coscienza. La coscienza, infatti, non è una cosa, ma tensione verso le cose,
quindi pura intenzionalità, tratto tipico del corpo umano che, a differenza di
quello animale, è irrimediabilmente esposto al mondo" [Galimberti, 1999, p.
199]
"Dimentichi dell'esperienza del corpo, Cartesio, Malebranche, Leibniz hanno
dovuto inventare rispettivamente la ghiandola pineale, la coincidenza
occasionale, l'armonia prestabilita per spiegare quell'operazione magica per cui
la rappresentazione coscienziale di un movimento suscita nel corpo il
movimento". L'autore aggiunge che "Riflettere non è rientrare in sé e scoprire
l'"interiorità della coscienza", quella soggettività presunta che, al di qua dello
spazio e del tempo, dovrebbe garantire quella prima equivalenza che è
l'identità con se stessi. "Riflettere" è accogliere nel proprio sguardo quelle
fugaci impressioni e quelle percezioni inavvertite con cui il mondo mi si offre e
con cui io mi offro al mondo nel momento in cui gliele restituisco, perché non
le confondo con le mie fantasie e con l'ordine dell'immaginario dove, invece,
non rendo quello che sottraggo." [Galimberti, 1999, p. 200].
Dunque le relazioni che il corpo, aperto al mondo, dispiega fanno del corpo
l'origine di tutte le trascendenze, e da questa origine scaturisce quel sapere
che antecede e condiziona tutti i rapporti logico-oggettivi che un cogito astratto
può dispiegare.
"L'io penso deve scoprirmi nel mio spessore corporeo perché questo vien
prima dell'a priori kantiano dell'unità dell'io penso" [Galimberti, 1999, p. 2001]
Avere un mondo, infatti, è cosa diversa che essere al mondo. Tutti i viventi
sono al mondo, ma l'uomo è al mondo come colui che ha un mondo, come
colui per il quale il mondo non è tanto la casa, il luogo che lo ospita, quanto il
progetto per la sua costruzione.
223
"Essere al mondo significa allora per l'uomo sfuggire all'assedio del mondo
per abitare il mondo, fuggire dal proprio essere in mezzo al mondo per averlo
come luogo d'abitazione [...] Stante questo suo carattere ec-centrico [sic,
n.d.r.] , la coscienza, lo ribadiamo, non è la duplicazione di quel centro che è il
nostro corpo nel mondo, ma distacco, distanza, superamento di sé nelle cose
verso cui si protende" [Galimberti, 1999, p. 202]. Già Platone parlava di una
"lacerazione" inflitta dagli dei agli uomini, a causa della quale "ciascuno di noi è
il simbolo di un uomo" (Simposio], la metà che cerca l'altra metà.
La coscienza è crisi?
Nel corpo c'è qualcosa di incerto che rende titubante e precario il suo
rapporto con il mondo, "questa impercettibile crisi, che chiede al corpo una
rielaborazione del messaggio del mondo e una modificazione del movimento
successivo a partire dalla qualità del messaggio ricevuto, l'origine della
coscienza, che dunque è già rintracciabile nella motricità come incrinatura del
suo fluire spontaneo" [Galimberti, 1999, pp. 190-191].
Già tra gli ambiti di significato avevo mostrato come tra alcuni poeti,
scrittori e filosofi la coscienza sia il luogo del disagio esistenziale, dell'essere
inadatti alla vita, verifica dell'imperfezione, fonte di paura, è malattia, viltà,
dubbio, vanità, tristezza.
Ma si può ridurre la coscienza a una "crisi"?
La coscienza è sostanza o strumento?
F. Nietzsche scriveva "Ciò che noi chiamiamo "coscienza" e "spirito" è solo
un mezzo e strumento, con "cui" non un soggetto, ma una lotta vuole
conservarsi" (Frammenti postumi).
Un problema forte è se la coscienza sia uno strumento (strumento di chi o
di che cosa?).
O se invece non sia una sostanza e l'uomo, il corpo, il resto delle
dimensioni umane ne siano il suo strumento.
Ho ripercorso la trasformazione del concetto, nell'ambito teologico e
morale, da "parte più intima dell'anima" a "strumento di valutazione e
decisione".
Si deve concludere che questa oscillazione è radicale nella nostra cultura, a
differenza di altre, per esempio quella orientale (buddismo, induismo), nelle
quali la coscienza coincide in ultima analisi con il divino, il Brahman, e tende a
224
raggiungerlo, ad annullarcisi, terminando il ciclo delle reincarnazioni, o quelle
animistiche dove l'"io" è asservito agli spiriti o al grande Spirito e ne sta a
contatto fino a coincidere con esso (sciamanesimo).
L'oscillazione della concezione di coscienza tra sostanza interiore e
strumento morale tipica della cultura occidentale si fonda sulle origini da una
parte ebraiche e cristiane, del giudaismo e del pensiero mistico dall'alto
medioevo fino all'illuminismo, dall'altro sulla filosofia greca, l'aristotelismo, il
moralismo
platonico,
gnostico,
il
naturalismo
rinascimentale,
fino
all'illuminismo stesso, il positivismo dell''800 e lo scientismo dell'ultimo
dopoguerra.
Come si uscirà da questa oscillazione? Se ne può uscire? Non si può
rinunciare alle proprie radici.
Io credo che si possa sviluppare una ricerca non incoerente con i
presupposti culturali anzidetti, facendo interagire tutti gli elementi, dalle
neuroscienze, alla istanza metafisica, dalla filosofia alla riflessione etica.
Bisogna chiedersi prima "cos'è la coscienza" o prima "come funziona"?
Per sapere "che cos'è" la coscienza è necessario capire con completezza
"come funziona". Questa è la posizione di Dennett, per esempio. La sua
posizione è rischiosa perché getta la ricerca nel rischio di rimanere invischiata
nel meccanicismo materialistico e naturalistico.
Forse sarebbe meglio dire prima "che cos'è" e poi lasciar guidare la ricerca
sul "come funziona" dalle neuroscienze e dalle discipline cognitiviste. Avere
cioè un paradigma di riferimento che è auspicabile e possibile vista la
ricchissima tradizione di riflessione filosofica, religiosa e spirituale sulla
coscienza.
Anche in questo caso si rischia di cadere in un tranello, quello della
metafisica ovvero del dualismo.
Nasce prima il linguaggio o prima la coscienza?
Nasce prima la coscienza e poi il linguaggio? O prima il linguaggio e poi la
coscienza?
Gli studi sulle aree cerebrali coinvolte nell’apprendimento delle lingue da
parte di soggetti bilingui danno informazioni molto utili, non solo su come
migliorare l’efficacia dell’apprendimento, ma anche sulla struttura del cervello,
sul suo funzionamento e quindi sul funzionamento della mente. "È noto che
225
nell'uomo alcune parti del lobo temporale (area di Wernicke) e frontale (area di
Broca) dell'emisfero sinistro rivestono fondamentale importanza per la
comprensione e la produzione del linguaggio. Va tuttavia precisato che il
linguaggio - che è una funzione cognitiva tra le più complesse - non è legato a
una singola struttura, ma si basa sull'integrità di una complessa rete nervosa
con importanti nodi cortico-sottocorticali.
L'emisfero di destra, per esempio, è molto importante per gli aspetti
emozionali e pragmatici del linguaggio, e forse anche per alcuni aspetti
squisitamente linguistici delle lingue apprese successivamente alla lingua
madre.
Per chi studia le basi neurali dei bilinguismo è fondamentale conoscere se
la rappresentazione della lingua madre avviene tramite vie e processi che
differiscono da quelli usati per la rappresentazione della seconda o di eventuali
altre lingue.
Informazioni rilevanti a questo proposito sono state fornite dalla tecnica di
microstimolazione diretta del parenchima cerebrale nel corso di interventi
neurochirurgici in cui l'apertura del cranio viene effettuata in anestesia locale"
[Aglioti – Fabbro, 1999, p. 56]
Il mio linguaggio non è lo stesso del linguaggio degli altri (infatti si impara
con ritmi diversi, si pronunciano suoni e parole in modo diverso, con significati
diversi, con associazioni emotive diverse (si pensi alla complessità dei problemi
che hanno da affrontare e risolvere i programmatori di elaboratori vocali,
considerate le sfumature nella dizione che differenziano ogni individuo).
Eppure si può anche dire che ci sono caratteristiche comuni. L'apparato
fonatorio è simile (anche se sono diverse le corde vocali in ciascun individuo).
Io penso, sulla linea di alcuni autori che ho citato nel capitolo X (tra gli altri
Vester), che, ribadendo la modalità dello sviluppo della coscienza nell'infante
nel primo anno di vita e solo successivamente del linguaggio (tra il primo e il
secondo anno di vita), che la coscienza è appunto la prima a sorgere, sulla
base del linguaggio di "altri" esseri umani. Solo dopo sorge l'abilità del
linguaggio.
Quale è il linguaggio della mente? E il linguaggio della coscienza?
Si è creduto negli anni '70 che la mente funzionasse con un linguaggio
simile a quello dei computer, il bit (cioè 1 o 0, circuito acceso o spento), ma si
è presto capito che questo linguaggio non permette di comprendere la mente.
Tuttavia oggi la corrente dei computazionisti (quelli che credono di poter
226
spiegare il funzionamento del cervello e della mente utilizzando il paragone di
hardware e software) è ancora in vita.
D'altronde anche la teoria che ogni idea abbia una localizzazione cerebrale,
e quindi le associaizioni d'idee non sarebbero altro che contatti tra aree
diverse, è debole o falsa, perché ogni stimolo o attività cerebrale impegna
sempre numerose parti del cervello in un'attività d'insieme, associativa.
Molta importanza - come mostrerò anche in seguito - si è attribuita al
linguaggio nell'origine della coscienza e nella possibilità di comprenderne la
natura e il funzionamento.
Ma quello che ci manca è la conoscenza del "linguaggio" che la coscienza
utilizza per il suo funzionamento.
Che tipo di linguaggio è? Matematico, per associazioni, un metalinguaggio
(che utilizza altri sottolinguaggi)?
Nessuno attualmente ha risposte esaurienti e convincenti.
Esiste un'unica coscienza per tutti gli uomini?
Tutti sentiamo con evidenza di essere l'uno diverso dagli altri. Però - come
dice Matte Blanco - la coscienza, nel suo modo di essere simmetrico, si sente
unita alle altre coscienze.
Se non fossi diverso dagli altri non comunicherei: non mi accorgerei della
differenza.
Se non fossi uguale agli altri non comunicherei.
Ogni essere umano è diverso dagli altri, non solo per il corredo genetico, le
impronte digitali, la mappa della retina, la dentatura. Tantissimi particolari ci
rendono diversi, a livello biologico e fisiologico.
Però esistono anche meccanismi uguali in ogni uomo: il metabolismo, la
produzione di calore, il movimento, la riproduzione. Caratteristiche che ci
accomunano agli altri animali e ci distinguono dagli esseri cosiddetti
"inanimati".
Ora, tutti gli uomini hanno meccanismi fisiologici simili ma sono tutti
diversi.
Anche per la dimensione psichica e mentale esistono caratteristiche simili?
227
O la differenza del campo di indagine, dal fisico e biologico a quello psichico
rende impossibile questo confronto?
La psicoterapia si basa proprio su questo paradosso: che si è uguali, quindi
ci si può capire, identificarsi, fino nelle dimensioni più "antiche" di noi e
profonde, le emozioni; ma siamo anche diversi. Sulla somma di queste
considerazioni si può fondare la possibilità della guarigione.
In che cosa sono diverse le coscienze?
Le coscienze sono tutte - e completamente - diverse o invece uguali in
alcune parti? Quali sarebbero le dimensioni della coscienza comuni a tutti?
Quali sono le caratteristiche della coscienza che appartengono solo a me?
Io posso, al massimo, cercare di conoscere la mia coscienza, ascoltando,
attraverso l'uso dell'analogia e delle metafore, cosa gli altri sanno della loro
coscienza.
Le differenze tra gli uomini e tra le cose dipendono dal range che intendo
usare nella misurazione. Dal punto di vista di una galassia, gli uomini sono tutti
uguali, sono nullità. Dal punto di vista di un microbo, gli uomini sono tutti
uguali, ne basta uno ed è tutto ciò che gli serve per sopravvivere, se l'uomo
non ingerisce antibiotici.
Ma se usiamo il punto di vista umano, che ha la pretesa di sintetizzare tutti
i punti di vista, diciamo che ogni cosa è diversa e con la scienza
schematizziamo, astraiamo, economizziamo la riflessione per trarre
conseguenze e modificare ulteriormente noi stessi e il mondo.
Risolvere questo problema potrebbe spiegare anche perché si può
comunicare e capirsi tra uomini. Agostino d'Ippona aveva risolto il problema
del fondamento del dialogo con la presenza nella mente di ogni uomo (in una
concezione ispirata al platonismo) del medesimo Gesù Cristo che è la base
unificante nella comunicazione. Questa è una soluzione molto lontana dalle
istanze neurofilosofiche attuali, ma testimonia da quanto lontano venga questo
problema.
Un esempio familiare: la gamba che non c'è
Porto un esempio personale, banale eppure significativo, sul problema della
differenza tra le coscienze che tuttavia non impedisce la comunicazione.
228
Nella stanza in cui sto lavorando ci sono dei calzoni appoggiati sullo
schienale di una sedia, pendono dritti e rigidi quasi per intero verso il
pavimento, spiegazzati dietro il ginocchio, gonfi dove la rotula preme sulla
stoffa, ripiegati dove il piede si alza per camminare, frusti e usati, rigonfi dove
c'è la tasca. Hanno conservato dunque la forma delle mie gambe. Ciò mi fa
credere che dentro i calzoni ci siano ancora le gambe, le mie gambe.
Invece non c'è nulla dentro quei calzoni, anzi si tratta solo di stoffa
sgualcita e logora. Ma più ci penso e più li associo alle mie gambe. Sembrano
contenere attualmente le gambe. Non importa se sono le mie, non dubito di
averle io attaccate al corpo ora e coperte dalla tuta. Ma mi impressiona
l'abitudine di associare agli oggetti personali emozioni, funzioni e addirittura
parti del nostro corpo.
Se faccio entrare mia moglie nella stanza e le chiedo di guardare i calzoni e
di dirmi cosa vede e che associazioni mentali sente di compiere, mia moglie,
dopo qualche istante di sbigottimento e preoccupazione, decidendo di stare al
gioco, senza sforzo dichiara di vedere dei calzoni in disordine, sgualciti e che
sarebbe ora di cambiare.
"Non ti sembra che ci sia dentro la gamba?", le chiedo. "No. Sono solo
molto sgualciti".
Ecco un esempio "familiare" di come le coscienze siano tutte diverse.
Per me quei calzoni sono importanti, li abbiamo comprati a New York in
viaggio di nozze, li ho usati spesso, sono leggeri e sportivi, troppo leggeri
all'inizio della primavera e alla fine dell'autunno, ma utili nelle mezze stagioni e
d'estate. So che sono vecchi, ma in questo momento ne ho pochi altri a
disposizione.
Insomma tutte sensazioni, emozioni, ricordi, che rendono quei calzoni,
appoggiati in quel modo alla sedia, come vivi, legati e me, ancora indosso alle
mie gambe.
La coscienza è assoluta o relativa? È "confine" con l'assoluto?
La coscienza si dà da sé, ed ha perciò attributi divini, è immortale, si
autopone; o invece è creata (e da chi?) viene dal nulla? O addirittura avrà un
termine?
La coscienza è confine con dio? Con l'Assoluto? Ma esiste un assoluto?
Oppure la coscienza è il "limite meta-noetico e ontologico" con il nulla?
229
Posizoni
domande.
differenti
possono
dare
risposte
molto
differenti
a
queste
Esiste una coscienza dell'universo?
Esiste una coscienza del mondo? E del cosmo?
Siamo convinti che solo chi ha un sistema nervoso può avere una
coscienza. Ma sappiamo anche (ovvero molti scienziati sostengono) che la
coscienza non è solo un meccanismo biologico. Perciò come possiamo negare
che l'universo abbia una coscienza?
Questo porta alla posizione - difficile da sostenere - che tutto è coscienza?
Non credo necessariamente.
Perché non tutto ha il sistema nervoso, con cervello quantitativamente
esteso e qualitativamente sviluppato
Coscienza del mondo in senso oggettivo, sì. Io ho coscienza del mio mondo
interiore
Quando "nasce" la coscienza?
Esiste un momento in cui la coscienza nasce?
E la nascita è una metafora appropriata per spiegarne l'origine?
La coscienza è il primo stato mentale naturale che nasce nell'uomo, entro il
primo anno di vita, come è stato teorizzato ampiamente.
Ma non è uno dei tanti stati mentali naturali. Essa ha uno statuto unico.
L'uomo nasce molte volte. Simone Weil ha scritto: "la nascita dell'uomo
dura tutta la vita".
Altri stati mentali, che riteniamo molto importanti, in realtà vengono in
seguito.
Si nasce padri solo quando si ha un figlio e dopo alcuni mesi si scopre cos'è
l'orgoglio di un padre, l'emozione del sentirsi dire "il mio papà", il senso di
colpa verso il figlio, il senso di inadeguatezza nell'educazione ecc. Prima non si
poteva capire, immaginare al massimo, ma solo razionalmente. Ora, invece,
nati come padri, lo viviamo.
230
E così solo quando si è vicini alla morte, davvero, si prova il brivido della
vita. Si ha piena coscienza della vita.
Solo quando ci si innamora si capisce il senso della comunità, del sociale,
della famiglia.
L'educazione, a volte, rende gli uomini orribili. Ciò capita in sobborghi
violenti o in culture totalitarie, dove i ragazzi sono educati nell'odio, nel
rancore, nella violenza totale. Si pensi a come avveniva l'educazione di certi
indiani d'America, gli Chochones a cui le madri rifiutavano il latte per lunghi
periodi, così da renderli più frustrati e aggressivi. Eppure può capitare a tali
persone, per qualche circostanza, di capire che c'è una strada diversa dalla
sopraffazione, magari si sono innamorati o sono stati salvati da qualcuno o
hanno imparato che si può fidarsi.
Lì può dirsi che è nata una coscienza, che c'era già prima, ma bloccata allo
stadio embrionale e tenuta artificialmente nel liquido amniotico perché non
desiderata dall'ambiente in cui doveva nascere e di conseguenza neanche da
chi la possedeva. La coscienza come un figlio indesiderato, temuto, ma che poi
porta gioia, porta vita a chi decide di partorirla…
Esiste prima la materia o prima la coscienza?
Se la coscienza "nasce", allora viene prima la materia?
È una domanda mal posta, perché si può benissimo immaginare cha la
coscienza, essendo uno stato costitutivo dell'uomo è in potenza nell'uomo fin
dall'inizio o, meglio, "nasce" con l'uomo, perché l'uomo si compie come uomo
solo dopo alcuni mesi dalla nascita, perché si relaziona con altri esseri umani,
con i quali ha relazioni intime, manipola l'ambiente, sceglie, interagisce.
Ma anche prima era "uomo", anche se qualcuno ancora direbbe che, prima
dello sviluppo neuronale (il quattordicesimo giorno?, i primi mesi?, dopo la
nascita?) era solo "materia", qualcosa di più di una scimmia e qualcosa di
meno di un uomo.
Dagli studi "neuroevolutivi" si ricava che prima esiste la "materia" e poi la
"coscienza".
Ma questa affermazione porta al dualismo materia - mente, che invece
deve essere superato, pena la non soluzione del problema della coscienza.
Nei primi mesi di vita del feto e poi del neonato si sviluppano moltissime
connessioni (cfr gli studi di Rose e tanti altri). Perciò la "nascita" della
coscienza è legata al diffondersi delle connessioni neuronali. La coscienza
231
nasce con lo sviluppo rapidissimo delle connessioni neuronali e la loro
ramificazione nei primi mesi di vita del bambino.
Ma se nasce significa che dipende solo dalla materia, dalla componente
neurobiologica?
C'era già prima senza dipendere così strettamente dalla biologia neuronale
o invece si è sviluppata ex novo? Viene dal nulla? O invece è solo una qualità
nuova del cervello?
Io penso che la sua "formazione" dopo alcuni mesi dal parto del bambino, è
un cambiamento talmente speciale da non somigliare a nessun altro
cambiamento, né alla nascita né all'apprendimento del linguaggio o alla
pubertà, alla menopausa, a un'amputazione o ad altri stati che ho ricordato più
sopra.
Una coscienza nei bambini anencefali?
I casi dei bambini anencefali (nati con assenza parziale o quasi totale del
cervello), una di quelle situazioni di confine che mettono in difficoltà la scienza
e l'etica, farebbero pensare alla possibilità di esseri-umani-non-umani, privi
cioè delle caratteristiche fondamentali dell'essere uomini, la funzionalità
corticale. Come se il bambino prima di nascere fosse un non-uomo, un quasianimale o un vero e proprio animale (le discussioni etiche sull'aborto non si
estinguono mai)
Eppure è la constatazione
(per più di qualche giorno)
sopravvivessero, si potrebbe
umane (senza ricorrere agli
neurofilosofi).
che i bambini anencefali non sopravvivono mai
che rilancia la discussione. Se, al contrario
considerare la possibilità di esistenze quasizombi o a computer pensanti, come fanno i
Bisognerebbe dire non che prima dello sviluppo della coscienza i bambini
non sono uomini, ma che sono solo bambini , una verità che pare scontata e
non significativa, e che invece dovrebbe essere il necessario tentativo di
rendere conto del salto di qualità della vita umana, che nasce priva di
coscienza eppure dotata, per universale ammissione, di qualità umane, e solo
in seguito vede svilupparsi la coscienza.
E dovrebbe valere la tesi secondo cui non esiste alcun uomo senza
coscienza.
232
Altri casi interessanti sono quelli di bambini che già molto presto (6, 8
anni) dimostrano una maturità religiosa talmente avanzata da essere poi
riconosciuti come santi (non solo i casi dei bambini martirizzati, ma anche
quello di Maria Goretti che aveva 12 anni, Domenico Savio che ne aveva 15,
sant'Agnese 12 o 13 anni e altri ).
In essi ovviamente la coscienza è ben sviluppata, soprattutto quella morale
e quella che potremmo definire dell'"astrazione", o "trascendente".
Esperimenti per l'indagine sulla coscienza
Sarebbe interessante se non fosse immorale fare degli esperimenti su un
bambino
Se isolassimo un bambino impedendogli di ricevere percezioni o stimoli
esterni di qualsiasi tipo (ma forse bisognerebbe impedirli proprio tutti
altrimenti qualcosa succede lo stesso...) si svilupperebbe la coscienza?
È una variante dell'ipotesi del "cervello sospeso" tanto cara a filosofi e
neurologi e altrettanto impraticabile, ma per motivi etici, invece che per
l'inadeguatezza tecnologica che non consente ancora il mantenimento in vita di
un cervello separato dal corpo.
Il rispetto della coscienza personale nei bambini, che non dubitiamo esista,
non ci conscnte di fare esperimenti sui bambini per scoprire cos'è la coscienza.
Come si può uscire da questo circolo vizioso (ma che per altri aspetti
sembra pienamente morale)?
Che rapporto c'è tra la coscienza e l'intelletto? E tra la coscienza e la
sensibilità?
Un problema su cui tutti gli studiosi dicono la loro (soprattuto i cognitivisti)
- eppure non è mai definitivo quel che dicono - è il rapporto tra coscienza e
intelletto. In tante ricerche sulla coscienza questo aspetto sembra secondario e
scontato. Ma il fatto che nessuna teoria abbia esaurito l'indagine sulla
coscienza toglie definitività anche alle soluzioni di questo problema.
Qualcosa di simile accade con il rapporto tra coscienza e sensibilità. Questo
tema piace molto agli piscologi.
Ed è chiaro perché tutti i ricercatori trattino di essi: perché sensibilità e
intelletto sono i due ceppi della conoscenza umana.
233
La coscienza è razionale o irrazionale?
Un problema invece che trovo poco affrontato (se non in Matte Blanco) è se
la coscienza sia razionale o invece non-razionale.
Cercherò di mostrare nel prossimo capitolo in che senso si possa affermare
che essa sia in parte razionale e in parte non-razionale.
La coscienza unitaria o molteplice?
Possiamo chiederci se la coscienza risenta delle trasformazioni della
persona nel tempo.
L'identità di una persona è legata strettissimamente alla sua coscienza. Si
potrebbe dire che la coscienza è l'identità di una persona.
Ma la coscienza/identità rimane sempre uguale o cambia nella vita?
Proprio la coscienza potrebbe essere la dimensione, il luogo dove
(incomprensibilmente per noi) si realizza la continuità e unità della persona e
contemporaneamente la sua molteplicità, pluralità, divenire.
XII
Una riflessione personale: la coscienza come "origine" e "unità" dell'essere
umano
Ritengo di fondamentale importanza il concetto di coscienza nella filosofia,
nella scienza e nella vita.
"Nell'interrogare la coscienza come tale, e dunque nell'interrogarsi, c'è
qualcosa che dà le vertigini al pensiero. Eppure non sembrerebbe esserci
niente di più ragionevole e di più saggio di questo gesto" [Desideri, 1998, p.
17].
La mia posizione è che la coscienza sia il punto di verità e di unità per
l'uomo, sorgente di ogni aspetto dell'uomo, punto di nascita antropologico: in
234
una parola origine dell'uomo. È proprio su questa dimensione della coscienza
che insisterò in questo capitolo.
Fine del "percorso di indagine"
Internet ha cambiato il modo di fare ricerche e lavori umanistici: la rete
virtuale è un'immensa biblioteca, è un dizionario sterminato, un'enciclopedia
multimediale completa.
È una "biblioteca" dove si trova non solo titoli, recensioni e articoli, ma
intere ricerche già confezionate, opere complete, analisi specialistiche
minuziose.
Dunque non ha più senso elaborare raccolte con pretesa di completezza su
di un certo argomento (se non per pubblicarle in rete). E non è il mio intento per quanto sia inevitabile la tentazione, quando si affronta la ricerca su un
tema, di accedere a tutte le informazioni bibliografiche possibili, per
"possedere" la materia.
Quel che serve oggi è elaborare un "percorso di indagine".
È quello che ho tentato di fare in questa dissertazione. E mi sono spostato
progressivamente verso una nuova dimensione di indagine: una riflessione del
tutto personale sul tema che mi sono posto, la coscienza. Questa è la parte più
personale della ricerca, la più intima, e la più difficile - una sfida - perché tra il
dire una cosa personale e dirne una stupida il tratto è assai breve.
La sfida nasce dalla passione per il concetto di coscienza che mi anima da
tempo, si nutre del percorso di indagine che ho fatto tra così tanti e diversi
riferimenti, di cui ho dato conto, e mira a costruire un "pensiero" sulla
coscienza, se non una teoria.
Esiste uno spazio per una risposta personale proprio perché tanti problemi
legati alla coscienza (citati nel capitolo precedente) sono ancora insoluti.
Uno dei rischi che non voglio correre è di assumere un tono simile a quello
degli esoteristi, dei guru, dei fondamentalisti, che sembrano possedere tutta la
verità sulla coscienza, sull'universo e su tutto il resto…
Per essere più consapevole di questo tranello e non caderci mi sono
soffermato sull'esoterismo, l'occultismo e il paranormale in un capitolo
specifico (il V) esaminando come viene considerato il concetto di coscienza. A
me non interessa quello sfondo spiritistico, olistico, cosmico, magico, se non
per qualche spunto che da quel mondo può derivare per accidens e per il fatto
235
che dimostra l'interesse che c'è oggi intorno alla coscienza e l'attualità del
tema.
Per motivi simili ho esaminato delle "discutibili" teorizzazioni della
coscienza, nel capitolo IX. Ed è stato per il motivo contrario - per trarre spunti
e illuminazione - che ho indagato alcune teorie contemporanee (seconda parte
della dissertazione) e tante ricerche neurologiche e neurofilosofiche.
Ma nessuna delle analisi neurbiologiche e filosofiche o spirituali mi è
sembrata del tutto convincente, esaustiva e in grado di dar conto dei problemi
posti dalla vivacità e complessità che il tema della coscienza riveste oggi. Né
quelle degli ormai classici ricercatori e neuroscienziati come Eccles, Searle,
Edelman, né quelle dei più giovani Chandler, Dennett o Di Francesco (per
citarne alcuni).
Sono molte le posizioni (filosofiche ed epistemologiche) in cui non mi
riconosco e da cui vorrei stare lontano (salvo caderci inconsapevolmente). Li
cito più avanti (si veda la sezione "Prospettive di riferimento").
Noi siamo "nani sulle spalle di un gigante" e dunque è ben difficile non
essere condizionati da quanto detto nel passato.
Eppure è impossibile venire a capo di una teoria completa sulla coscienza
se non verifichiamo tutte le teorie e le impostazioni epistemologiche di nuovo e
alla luce delle ultime innovazioni tecnologiche nel campo dell'indagine
neurofisiologica, che hanno assunto un ritmo di perfezionamento rapidissimo e
sono in grado di raccogliere un'immensa mole di dati da analizzare e
rielaborare in nuove teorie.
Illuminare il fondamento assoluto dell'uomo nella coscienza potrebbe
essere forse un retaggio illuministico, una pretesa di certezza che è irreale e
impossibile da sempre e per sempre. Ma in realtà tale ricerca per me è una
esigenza personale di individuare certezze, punti fermi.
É forse questa un'esigenza per soddisfare il super-io fatto ingigantire da
un'educazione troppo rigida? Anche se fosse, non riguarda la ricerca. Ciò non
influisce metodologicamente, se rispetta il metodo filosofico della ricerca.
Si deve cercare ugualmente, perché è buona cosa che con la ricerca si
possa soddisfare quelle esigenze super-egoiche o addirittura circoscriverle e
dominarle.
236
Piuttosto: è giusto che una esigenza personale di certezza promuova una
ricerca che deve essere oggettiva? Ciò non è filosofico, ma è sempre stato così
per i filosofi e per tutti: la vita personale condiziona le teorie.
Per una "neurospiritualità"
Inoltre, nel panorama odierno della scienza della mente, mi pare che
manchi una seria "neurospiritualità", con riferimento a una "neuroteologia", un
ascolto "forte" della spiritualità nella neurofilosofia. Sento che può sembrare
fantascienza, fantaspiritualità. Ma sono sicuro che fra cento anni sembrerà
scontato.
Io credo - lo ribadisco per l'ennesima volta - che l'indagine sulla mente sia
il nuovo paradigma di tutte le scienze e in tutte le discipline, compresa la
teologia e la spiritualità.
Io non sono in grado di fare questa sintesi, tra le neuroscienze e la
riflessione spirituale; ma almeno posso mettere l'accento su un aspetto, quello
dell'"origine unificante" della coscienza, ciò che può favorire l'incontro tra
neuroscienze, filosofia e spiritualità.
Nella recentissima enciclica Fides e ratio di Giovanni Paolo II, troviamo un
invito a far dialogare tra loro scienza e riflessione umanistica.
E il professor Nicola Cabibbo, presidente della Pontificia Accademia delle
scienze e ordinario di Fisica delle particelle all'università La Sapienza ha
dichiarato al convegno "Scienza e conoscenza: verso quale razionalità?"
(Bologna, 5-8 settembre 2000, in occasione del giubileo dei docenti
universitari): "Dobbiamo tornare a una cultura non più divisa in compartimenti
stagni. Un incontro a tre, teologia-filosofia-scienza, è quanto mai urgente, visto
che il mercato e la tecnologia stanno trasformando profondamente la vita
umana" .
I filosofi hanno indagato la coscienza attratti soprattutto dal suo aspetto
cognitivo, che oggi è assolutamente predominante (si studia più la
consciousness che la conscience). Ciò è avvenuto in particolare negli ultimi tre
secoli, passando dall'idealismo al cognitivismo materialista, attraverso tante
correnti (dal positivismo, allo strutturalismo, al funzionalismo fino al
nichilismo).
Più anticamente si privilegiava un punto di visto metafisico, dove la
coscienza non era ancora il centro dell'uomo, dimensione degnissima da
indagare per identificare l'uomo, ma specchio di Altro ben superiore, oppure
era solo strumento, caratteristica della creaturalità dell'uomo.
237
Ma studiando la coscienza si conosce se stessi, la coscienza è unione tra il
mondo e l'interiorità dell'uomo.
A queste impostazioni parziali vorrei reagire, tendendo a una concezione
sintetica e unitaria. E credo che il concetto di coscienza come "origine" lo
permetta.
PROSPETTIVE DI RIFERIMENTO
Prima di ampliare la mia teoria sulla coscienza, riaffermo alcuni presupposti
e prospettive di riferimento.
Io voglio: recuperare il concetto di Dio, ma evitando il dogmatismo, il
tradizionalismo, l’assolutismo;
eppure mantenere l'eredità cristiana, quella cattolica, ma non
necessariamente solo quella; l'ottica cristiana, che assumo, è quella secondo la
quale lo "spirituale" ha sempre il primato;
evitare di cadere nella metafisica intesa come pretesa di spiegazione della
realtà attraverso categorie meta-materiali, o nel neotomismo, ancora in auge,
che trovo inadeguati a rendere la complessità dei risultati ottenuti fino ad oggi
dalle ricerche di così tante discipline che si trovano implicate e coinvolte nello
studio della coscienza.
evitare tutte le correnti filosofiche non più adeguate come una neometafisica, l'idealismo e il solipsismo, il dualismo, il materialismo, il positivismo
e lo scientismo, il riduzionismo, il meccanicismo, il computazionismo, il
determinismo, così come anche lo scetticismo, il relativismo, il puro
comportamentismo e tutte le teorie unitarie e "totalitarie" che cercano di
spiegare tutto l'universo mondo .
La riflessione sulla coscienza e la ricerca della scienza della mente
suggellano a mio giudizio la crisi di gran parte del pensiero filosofico, della
metafisica (nel senso anzidetto) in primis, dell'idealismo, dei pensieri forti e
anche di quelli deboli.
Voglio adottare il pensiero debole, non fino al nichilismo che facilmente
porta con sé , ma come metodo di indagine. Il pensiero debole è l'ultimo
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grande figlio della "vecchia filosofia". Ma proprio il pensiero debole è quello che
ha meglio diagnosticato la morte della vecchia scienza e della vecchia filosofia,
senza però saper fornire una epistemologia alternativa in grado di sostenere
filosoficamente l'avanzare delle nuove ricerche tecnologiche.
Voglio verificare tutto ciò che dico alla luce delle neuroscienze, perché le
scoperte sul funzionamento della mente, non solo hanno rinnovato la scienza,
la tecnologia, e la filosofia, ma anche la teologia, la morale.
Oggi le teorie della mente hanno poco valore, se non hanno fatto i conti
con la neurobiologia. Le nuove discipline che hanno saputo fare i conti con la
biologia
(quali
la
neuropsicologia,
neuropsichiatria,
neurofilosofia,
neurosociologia, ecc.) evidenziano con chiarezza la cesura tra ogni indagine
avvenuta nel passato e quanto si sta scoprendo oggi.
Secondo il filosofo Enrico Berti "oggi il filosofo non può più studiare solo la
storia della filosofia e le più recenti pubblicazioni filosofiche. Deve essere
aggiornato anche sui progressi delle scienze, particolarmente quelle che hanno
a che fare con la mente. Ed è uno sforzo quasi insostenibile, data
l’accelerazione delle scoperte scientifiche" [Letture sulla persona, Centro
Maritain di Treviso, 1999].
Dunque per indagare la coscienza è necessario che i filosofi imparino il
linguaggio della biologia.
Vorrei usare come strumento di indagine principale l'esperienza: se un
fatto, un fenomeno non si riscontra nell'esperienza è inutile per la mia
indagine.
Ecco il mio "rasoio di Ockham".
Alcuni "postulati"
Quello che presento qui di seguito non ha la pretesa di essere una teoria
della coscienza.
Qui riporto innanzitutto alcune tesi che, a mio giudizio, si evincono da una
ricerca bibliografica sulla scienza della mente e paiono largamente condivise.
* La coscienza ha una base biologica, ma anche una dimensione
"metabiologica".
Questo è il principale problema, il problema del rapporto mente-corpo. La
difficoltà sta nel metodo di indagine attuale che è efficacissimo dal punto di
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vista quantitativo e biologico, ma debole dal punto di vista qualitativo,
ontologico.
* La coscienza è in tutti gli uomini. non possono esserci due categorie
diverse di esseri umani, quelli con la coscienza e quelli senza.
Se è così, molti ragionamenti non hanno bisogno di altra dimostrazione che
l'esperienza universale di ogni uomo (al di là di ogni ipse dixit).
Ma quale concetto di coscienza hanno le altre civiltà, per esempio gli
aborigeni, i non "occidentali evoluti"? Sarebbe interessante indagarlo.
* La coscienza accomuna tutti gli uomini, appunto in quanto distinti dal
resto del creato.
Su questo punto si è realizzato un grande percorso: il dialogo, la
consocenza reciproca, la psicologia hanno investigato assi, come anche le
filosofie e le religioni.
* La coscienza distingue l’uomo dall’animale e dagli altri esseri del creato.
Problema: non si saprà che cos’è la coscienza finché non si sarà chiarito del
tutto la differenza tra uomini e animali (genoma, neurobiologia, etologia, ecc.)
sia da un punto di vista biologico, sia metabiologico
* La coscienza distingue ogni uomo da ogni altro uomo.
Problema: come fa la coscienza a unire e distinguere contemporaneamente
e in così tanti modi? Non si conoscerà la coscienza finché non si saranno
chiarite completamente - vedi sopra - le differenze tra uomini e tra uomini e
animali.
Non tenderò io, e forse tanti altri, a considerare la coscienza come qualcosa
di assoluto, un Dio nell’uomo o qualcosa del genere?
* La coscienza non esiste alla nascita dell’uomo; si forma nei primi anni di
vita (tra il primo e il secondo).
problema: come è possibile ciò? Come avviene?
È certamente dovuto alla proliferazione dei neuroni e dei collegamenti tra
neuroni. Ma anche negli animali avvengono questi processi. Che cosa c’è di
diverso nell’uomo?
* La coscienza ha a che fare con importanti dimensioni e argomenti: le
idee, la mente, il cervello, la conoscenza, la società, il senso religioso, la
personalità, la memoria, la volontà, lo sviluppo, la storia individuale, la cultura,
la morale, l’educazione
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* La coscienza è un tema difficile, perché riguarda biologia e metafisica. È
delicato, decisivo, perché esige il metodo di indagine scientifico, per quanto
riguarda il terreno biologico, ma anche la riflessione filosofica e umanistica per
quel che riguarda l’aspetto metabiologico.
* Proprio per questo è un tema molto attuale. Dopo una parentesi
positivista –ateista tra seconda metà dell'‘800 e prima metà del ‘900, oggi c’è
di nuovo sensibilità per l’incontro tra scienza e filosofia e religione.
* Attualmente non esiste una teoria sostenibile, chiara, adeguata, completa
della coscienza.
Non è possibile formularla e difendersi dalla obiezioni che gli sarebbero
mosse.
* I paradigmi della ricerca scientifica impediscono la formulazione di una
teoria accettabile sulla coscienza.
* Qualcuno in verità tenta di formulare teorie, ma viene facilmente criticato
o si espone al ridicolo (vedi il capitolo IX).
* La neurofilosofia lungi dal poter formulare teorie, per ora si occupa solo
dei
problermi
metodologici,
potrebbe
definirsi
più
propriamente
neuroepistemologia. Vedi Churchland che si limita a criticare le teorie o
discutere sulla probabilità di alcune ipotesi (per esempio la seguente: "è
credibile che si giunga a una Intelligenza Artificiale autonoma?").
* La coscienza ha un valore "totale-diffusivo" nella vita dell’uomo: sociale,
relazionale,
affettivo,
ma
anche
morale,
di
autoperfezionamento,
autotrascendimento, autocompimento, è origine della cultura, memoria,
emozione e dell’amore, dell’arte ("Grazie Dio per avermi dato una buona
musica!" dice Salieri in "Amadeus" di M. Forman; come dire che si crea perché
è Dio a lasciarlo fare, a spingere l'uomo, a farlo creare - e ciò attraverso la
coscienza).
La coscienza è un "luogo" perché non è un potere, non è assoluta; è
piuttosto uno strumento, ma è più di uno strumento, una voce, ma è
perfettibile, eppure null’altro è così profondo, importante, lontano, vero in noi.
* La coscienza influenza tutte le attività dell’uomo, quelle consce, ma
anche quelle inconsce, creatrici, affettive ecc.
Detto questo, specifico che a me interessa poco che cos'è la coscienza, di
ciò si occupa la filosofia; dove risieda nel cervello, di ciò si occupa la
neuroscienza; come condizioni il comportamento dell'uomo, di ciò si occupa la
psicologia; se sia "impeccabile", di ciò si occupa la teologia morale; da dove
abbia avuto origine, né come si manifesti.
241
Piuttosto vorrei dimostrare che è l'"origine" dell'uomo, che è l'unità
(meglio, l'universo originario) da cui l'uomo ha attinto fin dall'inizio e attinge
ancora continuamente.
LA COSCIENZA COME "ORIGINE" DELL'UOMO
Per capire cosa sia la coscienza è fondamentale analizzare (lo abbiamo
visto) la sua formazione, la sua "nascita" nella persona, quello che potremmo
chiamare la sua "genesi".
È importante chiedersi quando essa ha avuto origine (e l'ha avuta da Dio?).
Per questo ho inserito nella terza parte della dissertazione il capitolo sugli
studi neurologici e psicologici sullo sviluppo della coscienza nell'infanzia.
Ed è molto significativa anche l'evoluzione - precedentemente ricordata del concetto di coscienza dalla sineidesis greca alla sinteresis, alla conscientia
della scolastica, con l'oscillazione tra l'essere considerata dimensione "la più
profonda" dell'anima o solo strumento di decisione morale.
Questo sviluppo è parallelo a quanto accade nella persona e dunque è
significativo e da analizzare nell'indagine sulla natura della coscienza.
Sento il rischio, in questa teorizzazione, di navigare alla cieca, verso
orizzonti che rischiano di essere immaginari. Però sento anche la necessità di
cercare di esprimere la enormità della dimensione radicale, interiore,
"originale" del concetto di coscienza per l'uomo.
Ecco perché continuo - un po' incoscientemente - in questa riflessione...
Il primato della coscienza
Per decidere cosa fare, quale azione intraprendere, che conseguenze
provocare, noi uomini potremmo ascoltare aspetti molto diversi e vari della
nostra umanità: ascoltare gli istinti, oppure la fantasia, seguire l'orgoglio, o
l'abitudine, la memoria del passato, o la pura razionalità, il consiglio di altri o
l'affetto o l'amore, oppure la coscienza.
Perché dovremmo ascoltare proprio la coscienza?
Abbiamo deciso, universalmente, da sempre, che la coscienza è ciò che
vale di più in noi, perché è formata di ragione, sentimenti, fantasia, di tante
dimensioni.
242
Abbiamo intuito che è la parte che vale di più in noi? Se non l'abbiamo
intuito, di certo l'abbiamo deciso.
Con le parole di G. Piana: "La coscienza è il centro di unificazione della
persona; è il luogo in cui l'uomo si autoconosce e decide di sé. Essa riflette la
realtà complessa dell'uomo, costituita di corpo, anima e Spirito Santo (Ireneo),
ed è l'ambito da cui partire per cogliere il senso ultimo dell'agire morale. La
tradizione cristiana ha sempre riconosciuto il primato della coscienza,
definendola come la norma "ultima" della moralità [o penultima perché
"Ultimo" è solo Dio, n.d.r.] e difendendone i diritti inderogabili, anche nel caso
di errore".
La centralità è oggi recuperata a partire da un'interpretazione dell'agire
umano che fa anzitutto riferimento alla persona e alla sua ricerca di
autorealizzazione.
"La decisione morale, pur nel limite dei condizionamenti biopsichici e
socioculturali, è in ultima analisi espressione della realtà più profonda
dell'uomo, del "mistero" che lo connota, e ha perciò la sua sede nella
coscienza. Solo attraverso l'accesso ad essa è, infatti, possibile conoscere
l'agire nel suo spessore più radicalmente umano, come frutto di una
progettualità complessiva che si incarna negli atti concreti della vita
quotidiana.
La coscienza, in quanto espressione della realtà della persona, ha un
carattere essenzialmente relazionale; essa è, in altre parole, costitutivamente
aperta agli altri, al mondo, a Dio, e si autocostruisce solo nel corretto sviluppo
di questi rapporti. Così la coscienza si apre alla pienezza della verità, che essa
trova inscritta nel profondo di sé, ma la cui sorgente ultima deve essere
ricercata nel progetto originario di Dio" [Piana, EC, 1997, p. 191].
La moralità, la coscienza morale, aiuta la coscienza (ora in senso generale,
filosofico): perché se fai il bene ti si spalanca la "comprensione" di te, ecc.; se
fai il male ti si obnubila, si razionalizza, sclerotizza, maschera.
L'etica è necessaria all'uomo (per la sua vita sociale, per non sentirsi
abbandonato solo agli istinti, ecc.), perciò anche la coscienza è necessaria.
La coscienza è madre e figlia dell'uomo
Mi piace la metafora della madre e del figlio. La coscienza è figlia dell'uomo
che le è padre.
Ma la metafora è ambivalente: l'uomo partorisce la coscienza eppure è la
coscienza che lo fa nascere di nuovo e veramente come uomo.
243
Un po' è "madre" perché ci critica, ci guida, ci origina; un po' è "figlia" (la
educhiamo, la correggiamo), ma un po' è anche "sposa": la amiamo, ci è
connaturata, conviviamo con essa per tutta la vita, cresce con noi.
Potrei definire la coscienza come origine originata originante, ricorrendo al
concetto dell'origine e dell'originatore (Dio).
Originatore a mio giudizio come termine è meglio che "creatore", che ha
sapore di potenza, poco attinente alla dimensione di Amore del Dio cristiano
personale. È importante come concetto per non dimenticare la natura di
alterità che ci connota rispetto a Dio (noi creati dal nulla, lui preesistente
dall'eternità).
Ma, sempre rimanendo nella teologia cristiana, anche la nostra anima e la
nostra coscienza hanno caratteristiche di eternità, dal momento in cui sono
state create (un altro dei tanti paradossi, anche epistemologici, proposti dal
cristianesimo)
Il nostro Dio ("nostro"?) è amore e genera (ma "generatore" non sarebbe
una bella definizione, e "genitore" è riduttivo), è originatore.
La coscienza è voce originante e rimane tale per tutta la vita, ma essa è
anche voce dell'Origine originante, ed è anche la voce "che dà origine" a una
Voce Originante, ne rende possibile il pensiero in noi, crea la possibilità
dell'amore di Dio (in senso oggettivo e soggettivo). È un ragionamento analogo
alla considerazione che noi contribuiamo a creare il Paradiso o il Regno, siamo
con-creatori.
Risalire all'"origine"
Il problema allora è se la coscienza sia l'origine dell'uomo, o se invece ne
sia originata dal suo sviluppo corticale, come per ora afferma senza difficoltà la
neuropsicologia
E se la coscienza è "origine" dell'uomo, chi ha creato la coscienza?
Se si è creata da sé, è divina. Ma questo è un pericoloso passo metafisico,
che l'esoterismo compie imprudentemente arrivando a un inganno pericoloso,
che aliena Dio all'uomo e l'uomo a se stesso - alla fine dei conti.
Alcuni autori intendono che la coscienza abbia avuto un'origine, per
esempio Galimberti: "La tecnica, che è alla base della costruzione del mondo,
di quel "mondo costruito" che è poi l'unico che l'uomo può abitare, è dunque
l'origine della "coscienza", termine con cui si designa l'ec-centricità [sic, n.d.r.]
dell'uomo che muove da un centro non per ritornarvi come l'animale, ma per
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allontanarsi posizionando, in quella traiettoria che siamo soliti chiamare
"progresso", ulteriori centri che poi lascia alle proprie spalle per effetto di
quell'agire che fa dell'uomo un essere in situazione ma, come dice Jaspers,
sempre desituato" [Galimberti, 1999, p. 197].
Il punto di partenza della teoria della coscienza è di considerarla come
"unità" originante dell'uomo. Si dovrebbe dunque indagare la coscienza
singola, allo stato semplice, nel feto che si sviluppa. E questo perché la
coscienza viene intesa come unità originante; dunque il luogo originatore è
proprio il grembo. A quando straordinari strumenti di indagine che lo
permettano?
La coscienza è "origine" "originata"
Io invece intendo la coscienza come origine dell'uomo e quindi origine della
tecnica stessa.
Secondo Galimberti "in quanto apprende dalla reazione ottenuta, la
coscienza è memoria; in quanto organizza la motricità successiva in vista del
risultato atteso, la coscienza è futuro e, muovendo dal futuro, ridefinisce
l'intenzionalità motoria. Prima di essere una prerogativa dell'apparato psichico,
l'intenzionalità è già iscritta anche nel più elementare atto motorio, che è
comunque sempre orientato, anche quando non è nota la sua attesa
anticipatrice" [Galimberti, 1999, p. 191].
Se affermiamo che la coscienza è stata creata, dobbiamo supporre una
divinità, oppure un'origine naturale.
Ritengo impossibile risolvere questo problema attualmente. Mi sono
soffermato sulle origini neurologiche della coscienza nel bambino proprio per
assicurare una base neurofilosofica a questo problema e, posto che le posizioni
tra gli scienziati sono così diverse, sarebbe bene schierarsi, ma impossibile
ottenere risposte inappellabili.
È origine che fa esistere anche l'anima e la psiche, originata da Dio che è
l'Origine per eccellenza. Questa però della derivazione da Dio è solo una
conclusione alla domanda: da dove viene questa "origine" che tutti gli uomini
hanno?
Se si fosse creata autonomamente avrebbe le caratteristiche della divinità.
Essa non si è creata da sola, ma ugualmente ritengo di poter pensare che sia
assoluta.
Ovviamente parto dall'assunto che la coscienza non sia solo un prodotto
dell'attività cerebrale.
245
La cultura orientale ci ha insegnato che infinitamente grande (fuori di me)
e infinitamente piccolo (dentro di me) sono in rapporto.
Intendo riallacciarmi alla tradizione secondo cui la coscienza è il punto
fondamentale di incontro e coincidenza tra infinitamente grande (universo) e
infinitamente piccolo (le idee e l'interiorità).
Essi coincidono nel senso che tutto, dentro e fuori, ha le stesse
caratteristiche della pienezza (nel senso biblico, in particolare nel libri
sapienziali), dell'atemporalità, a-spazialità: caratteristiche di eternità (ma
questo concetto è insostenibile, essendo già così difficile definire il tempo).
Il mio vuol essere un "pensiero religioso" sulla coscienza, ma tale è
definizione ambigua, perché potrebbe far pensare, il che non è, a una
abdicazione nei confronti della riflessione filosofica e neuroscientifica.
Che cos'è la coscienza intesa come "origine"
La domanda "cos'è la coscienza?" è una domanda mal posta.
Se la coscienza è "origine" come si fa a chiedere all'uomo di spiegare
l'origine? Piuttosto sarà l'origine a poter dire qualcosa sull'uomo.
L'origine di me, che è la coscienza, è fatta di una materia, è di una natura
molto particolare.
Io posso rivisitare il luogo in cui sono nato, posso osservare gli oggetti
della mia infanzia, posso interrogare i miei genitori, la mia balia e mio fratello,
ma la mia vera origine sta dentro di me, è qualcosa di più profondo e interiore
e mentale, pre-mentale, ultra-razionale.
Sta oltre tutti i ricordi che si hanno degli oggetti della vita, soprattutto
dell'inizio, prima di compiere il primo anno di età (aggiungendo poi i nove mesi
del rapporto parenterale con la madre), i ricordi delle emozioni, delle azioni,
delle parole.
La coscienza è la prima cosa che viene originata nell’uomo (ma non è
l’anima, né lo spirito, o se è quelle dimensioni lo è in modo nuovo, globale).
Così l’uomo deriva dalla coscienza.
La coscienza assume un significato molto più grande di quello morale o
neurobiologico o filosofico. Significa il fondamento di tutto l’uomo, corpo e
mente, di tutte le sue attività.
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La coscienza è l'"origine" dell’uomo, sebbene si formi dopo la nascita
dell’uomo, perché è il fondamento di tutte le sue dimensioni, compresa quella
biologica (che è legata al cervello in quanto organo direzionale del corpo).
Conoscere la propria coscienza significa conoscere la propria origine,
dunque andare verso il creatore. Ma non si può mai conoscere definitivamente
la propria origine.
L'origine, che è la coscienza, è legata, come punto estremo, al mio esseredal-nulla, per rimanere alla concezione cristiana.
La coscienza come origine è nulla-che-è-diventato-io.
È insieme coscienza del diventare io dal nulla, ora.
Adesso la coscienza è coscienza di aver avuto origine; ma c'è stato un
"prima" della coscienza, prima quando essa era "pura" origine: per questo gli
attribuisco caratteristiche di assolutezza, come ho detto sopra, senza però
confonderla con la divinità.
Terminata l'originazione (così sono costretto a chiamarla), che è coscienza
anch'essa, siamo esistiti io, la mia coscienza (mia come potrei dire di una
madre, non di un figlio), il fatto che sono stato originato, la coscienza di
originatore-creatore, creatore di uomini, di coscienze, di oggetti, di mondi, di
universi interiori e materiali.
La coscienza è un fondamento, ontologico e antropologico. Non solo, ma
anche dell'universo. Dio è nell'inconscio. O almeno lì vi troviamo,
agostinianamente, la "traccia" di Dio, o, jaspersianamente, una "cifra" di Dio.
La coscienza come origine è "as-soluta" dall'uomo
È rischioso affermare l'assolutezza della coscienza.
Io ribadisco e voglio conservare la concezione dell'alterità della coscienza
rispetto a Dio (per questo è più corretto parlare di "norma penultima" in
teologia).
Però potrei dire che la coscienza ha una carattertistica di assolutezza: è
assoluta in senso non assoluto. Ovvero è ab-soluta dall'uomo, sciolta da lui,
perché viene prima di lui, è la prima cosa che nasce con l'"uomo".
La coscienza, nel seno dello strumento di giudizio morale può essere
modificata, sviluppata, può evolvere, essere accresciuta, ma non eliminata.
L'uomo non può più prescindere dal momento che ce l'ha.
247
Però la coscienza non è ab-soluta dall'originatore. Da qualcuno è nata, è
stata creata.
Se anche non fosse qualcosa d'assoluto, la coscienza rimane un fenomeno
straordinario per l'uomo: è il più caratterizzante dell'uomo, e il più misterioro e
difficile da penetrare e descrivere, il più affascinante in tutti i tempi (così vicino
e parallelo ai concetti di "anima" o "spirito" o "io" o "mente").
Io non posso postulare una coscienza originaria, una origine assoluta, per il
rischio che ho indicato, del panteismo. Però posso analizzare i fenomeni della
coscienza con l'obiettivo di verificare se esiste e se posso indagare una Origine
anteriore all'uomo nella sua interezza, cioè a tutti i fenomeni umani.
Per esempio la coscienza mi aiuta a immaginare il futuro, ma non le azioni
reali, concrete, oggettive, fattuali nel mondo, quanto il futuro dei miei stati
d'animo, delle mie emozioni, della mia evoluzione interiore.
In base alle esperienze che ho vissuto precedentemente posso sapere cosa
accadrà dentro di me la prossima volta che incontrerò quella situazione.
Con l'educazione i bambini imparano ad aspettarsi gli avvenimenti. Se un
bambino lascia cadere un bicchiere e riceve uno schiaffo, rimane sorpreso,
sente il dolore, si ribella alla sofferenza, ma non sa ancora cos'è successo. Poi
di volta in volta impara che se lascia cadere e rompe oggetti "fragili", che
"sporcano per terra", non facilmente ricostruibili, "necessari", che possono
ferire i piedi, riceverà uno schiaffo. Allora comincia a non essere più sorpreso di
quello che accade: la punizione, il dolore. È più debole dei genitori, che anzi
sono il suo modello di vita, e cerca altre strategie per farseli amici.
Questo, che è un aspetto dell'evoluzione della coscienza morale, può
dimostrare molte cose.
È ben risaputo che la coscienza sia la parte più intima e di valore dell'uomo
(Lutero tra gli altri l'ha rivalutata grandemente).
Ma siccome tante categorie filosofiche e teologiche sono andate
(finalmente, giustamente o purtroppo?) in crisi, ora anche la riflessione sulla
coscienza va rifatta.
Di esistenza di Dio non si può parlare (dal momento che non si può
dimostrare, e che, qualsiasi cosa diciamo, rischiamo di ridurlo o mistificarlo).
Perciò la cosa più "assoluta" che possiamo conoscere è la coscienza ed è
una cosa che tutti hanno e tutti possono facilissimamente e quotidianamente
sperimentare!
La coscienza è l'unico assoluto che
misteriosamente anche "altro" all'uomo.
l'uomo
possiede,
ma
che
è
248
Io non voglio dimostrare, perché non lo credo, che la Coscienza sia Dio, né
che l'uomo sia divino, né che sia in nessun modo "autonomo" in senso pieno. Il
nucleo del messaggio cristiano sta proprio nell'abbandonarsi a Dio, così come
Gesù Cristo ha fatto e insegnato a fare.
Come fa l'uomo, dunque, a dipendere da Dio ed essere allo stesso tempo
responsabile di sé? Ritengo che ciò sia possibile nell'uomo, creatura permeata
da una natura complessa (anticamente si diceva "carne e spirito", ora ritengo
ambigua questa espressione, per il pericolo di cadere in un irrisolvibile
dualismo), proprio grazie alla coscienza che è l'aspetto più duraturo dell'uomo,
eterno, è il più importante. Avere quel luogo intimo, sacro, assoluto, se mai ci
può essere qualcosa di assoluto al mondo, potente, dimensione di unità
interna, memoria dell'origine, assicura all'uomo la possibilità del rapporto con
la divinità.
La coscienza non è un istinto primordiale, che sarebbe come divinizzare la
materia, il corpo, gli istinti, la natura. La coscienza è il nostro stesso grembo,
sopravvissuto in noi, interiorizzato, fattosi adulto e che ci accompagna.
La coscienza, la sofferenza e la morte
La morte è l'antitesi della coscienza?
La morte è solo una situazione, una percezione, forte (ma non l'unica forte,
né la più forte), che aggiungiamo alla coscienza. Anzi, per la coscienza la
morte non è nulla (come nell'inconscio la morte non è nulla, tanto che
potremmo affermare che "la morte non esiste" (stando ben lontano dal senso
marxista dell'affermazione) .
La coscienza è un "universo" interiore che noi possiamo riempire di piccoli
particolari, ma mai distruggere. È in noi, e fuori di noi non c'è nulla di più
potente dell'universo che ci portiamo dentro, che ci illumina da dentro, che è
sorgente dell'etica, dell'amore, dell'arte, della conoscenza, di tutto nell'uomo.
In questa visione la coscienza non avrebbe antitesi perché è il fondamento
di ogni azione, pensiero, modo di esistere dell'uomo. Quindi è alla base di tutti
i fenomeni umani.
Ivi compresa la morte. Perché si dovrebbe dedurre (sarebbe bello poter
dedurre...) che anche dopo la morte ci sia il divenire incessante e senza fine
della coscienza. Come dimostrarlo? Non è possibile farlo. Però, se per millenni
all'anima è stata attribuita questa caratteristicha - l'essere creata dal nulla ed
esistere da quel momento in modo imperituro - possiamo utilizzare questo
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Kant dice che il presupposto della morale è l'eternità dell'anima; infatti che
senso avrebbe il continuo autoperfezionamento se non si ha coscienza che esso
possa continuare all'infinito?
Se alla base di quella meravigliosa attività che è il pensiero non c'è
l'immortalità dell'anima, è inutile continuare a logorarsi il cervello contro la
finitudine, la limitatezza terrena.
Coscienza della morte è dimensione necessaria nell'uomo, è segno di
assoluto nell'uomo.
La sofferenza è una dimensione dell'uomo che ha un ruolo fondamentale
nella strutturazione della coscienza. Come anche molto la gratificazione,
l'autorealizzazione.
La responsabilità dell'uomo è totale per tutto ciò che lo riguarda, salvo il
fatto di esistere, che dipende solo dalla volontà del Creatore che dal nulla ci ha
tratti: per questo stesso motivo noi siamo innegabilmente a lui subordinati e
da lui dipendenti.
L'uomo è responsabile e corresponsabile a Dio in ogni cosa, delle azioni che
decide, delle idee, dei desideri, degli effetti causati sugli altri, e di ogni cosa,
perfino della morte.
Non c'è nulla al mondo che non sia collegabile e spiegabile con la presenza
dell'uomo e della sua coscienza, che è una lettura etica e ontologica del
"principio antropico" formulato dai cosmofisici. Esattamente in modo parallelo a
come si può affermare che niente è estraneo a Dio.
Fine dell'anima e il rinnovamento dei concetti
Il concetto di anima è decaduto (potremmo dire nietzschianamente:
l'anima è morta), si è svuotato. L'anima è ormai solo un mito arcaico, duro a
morire a causa dell'importanza che l'uomo le attribuisce in fatto di religione, di
fronte alla paura dell'annichilamento personale nella morte e per il peso che ha
nella vita umana la dimensione morale. Ma appunto rimane solo come concetto
funzionale.
Il fenomeno moderno dell'ateismo è un segnale di ciò, ma esso ha fallito
nel tentativo di sancire "scientificamente" la morte dell'anima. Essa è
scomparsa per conto suo.
E anche l'ateismo è agonizzante, oggi.
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Il mito dell'anima deriva dal fatto che nel momento della morte si espira
profondamente (in realtà non sempre accade).
Il cadavere è quanto di più inconsapevole ci sia. É senza significato.
Questo "significato" può sussistere a sé e il corpo è solo supporto, bello,
utile, che perfeziona, ma non necessario
Il mondo trae significato dalla coscienza intesa come consapevolezza,
significato dell'uomo, non dall'anima.
Io ritengo non essenziale, anzi ambiguo attualmente conservare il concetto
di anima, mentre attribuirei alla coscienza (evidentemente non si tratta solo di
un cambio di etichetta) le caratteristiche o almeno le istanze ontologiche,
gnoseologiche, antropologiche che avevano portato al concetto di anima.
Ciò perché - come cerco di dimostrare con tutta questa dissertazione - il
concetto di coscienza riesce a inglobare dimensioni diverse (morale,
esistenziale, neurologica, cognitiva, eccetera) rimanendo l'unico dunque e il
migliore per dare un nome alla teoria che spieghi la parte più importante, più
difficile, più potente dell'uomo, quella mentale. Il concetto di "spirito" è
inadatto altrettanto di quello di anima; anche "mente" appare troppo parziale,
non ha cioè lo spessore morale, di sapienza che ha "coscienza".
Infatti nel concetto di coscienza, per esempio, si trova in posizione centrale
la dimensione della consapevolezza. Ed Essa è proprio una delle doti che
elevano così tanto l'uomo all'interno della creazione.
Coscienza e anima
Dunque ritengo che il concetto di anima sia sostituibile e di fatto sostituito
da quello di coscienza.
Dalla storia della medicina possiamo imparare che fino a quando non si
fanno
scoperte
empiriche
decisive,
le
teorizzazioni
sconfinano
naturalisticamente con la superstizione o la metafisica (nel suo significato
deteriore).
Per esempio si esamini la vicenda delle definizioni di morte: anticamente
intesa come cessazione del respiro, poi come cessazione del battito cardiaco,
ora come cessazione totale dell’attività cerebrale; ma quest’ultima è più un
protocollo (molto utile per poter decidere un espianto), che una descrizione
esauriente della morte (che rimane un mistero, dal punto di vista del
cambiamento psichico e personale dell'individuo).
251
Coscienza è il modo nuovo, più empirico, scientifico, ma senza tradire la
trascendenza, di descrivere quella dimensione dell'uomo che per millenni è
stata chiamata "anima" o "spirito".
Caduta la pregnanza del concetto di anima, oggi si usa piuttosto il concetto
di mente, perfino al posto di quello di coscienza.
Ma, come ho detto, a me appare più adeguato quello di coscienza.
Il mio concetto di coscienza la teorizza come "luogo", "unità", "origine",
caratteristiche che aveva il concetto di "anima", compresa quella di eternità,
che sussista dunque anche dopo la morte.
Ma non sono la stessa cosa i due concetti, per quanto abbiano le stesse
caratteristiche: "coscienza" mette in risalto l'esperienza universale degli uomini
della luce interiore che illumina sulla verità dell'individuo, fa capire che ognuno
ha un'identità a cui essere fedele e rappresenta l'anelito alla perfezione: la
coscienza ci fa sognare la perfezione. Senza coscienza non "sogneremmo" (in
senso filosofico) né ci evolveremmo. Rimarremmo come gli animali.
Anima è concetto diverso e troppo legato al dualismo antropologico
corpo/anima, ormai inaccettabile. Bisogna recuperare una concezione il più
possibile unitaria dell'uomo.
La coscienza ha alcune caratteristiche del vecchio concetto di "anima". Si
potrebbe dire - se non si rischiasse di accettare ancora una volta l'anima - che
la coscienza è la qualità dell'anima.
Il concetto di coscienza, serve a esprimere l'universo interiore perché è
legato alla "conoscenza" e alla "consapevolezza", ed è legato all'"esperienza"
della verità interiore, del riferimento radicale e trascendente che abbiamo
dentro di noi.
Il concetto di "coscienza" ci parla di mente, sapere, razionalità, moralità,
responsabilità; categorie molto attuali, oltre che universali.
Il concetto di "anima" invece chiamerebbe in causa una oggi inaccettabile
sostanzializzazione in senso dualistico. Le categorie di spirito, creazione dal
nulla, oltre-vita, non si possono avvicinare a una fondazione neuroscientifica
della teoresi filosofica sulla coscienza (salvo alcuni maldestri tentativi che ho
citato) se non all'interno di una teoria coscienziale, che è ancora tutta da
impostare.
Coscienza, conoscenza e verità
252
Poiché la coscienza è il fondamento dell'esistenza, il punto di contatto tra
assoluto e immanente, tra uomo e Dio, la conoscenza è il mestiere dell'uomo,
la vocazione, la sua anima, la sua funzione. Negli scienziati, negli studiosi,
negli insegnanti, negli educatori è evidente. Ma anche negli altri: si viaggia per
imparare, è divertente giocare fintanto che si impara, poi meno, un lavoro
stufa se non ci sono situazioni nuove da imparare ad affrontare e lo stesso vale
per un rapporto d'amore; i pettegolezzi si basano sulla conoscenza dei fatti
altrui, e così via.
Ma tra tutte le cose straordinarie che si conoscono, quando ci si sforza
anche minimamente di aprire gli occhi, quella che vale veramente, l'unica
importante è la verità, la verità sulla vita, sulla morte, sul senso dell'esistenza
dell'universo. Per i cristiani il modo per trovarla è amare e conoscere e
incontrare Gesù, ed è tale la infinità della verità di Gesù che lo incontriamo in
ogni aspetto della vita, e tale è la nostra libertà che possiamo negare quella
verità su ogni cosa, la più adatta a noi, quella che spiega tutto, in ogni
momento.
La coscienza è fondamento della verità, essa spinge alla ricerca, con i
"dilemmi" te ne fa capire l'importanza. La coscienza è verità.
La coscienza è fondamento della libertà (senti che puoi decidere), e della
responsabilità (non ogni decisione è uguale),
Coscienza "luogo d'incontro" con l'assoluto
Che ci sia una coscienza è evidente dal punto di vista biologico.
Io vorrei dimostrare che ci sia il luogo d’origine attraverso gli studi
neurobiologici, che tuttavia non vogliono prestarsi a ragionamenti al di fuori
della biologia.
La coscienza ha a che fare con Dio, ma né l’una né l’altro si possono
dimostrare, eppure il loro rapporto è evidente (in una visione cristiana, come
quella che io ho adottato). La coscienza non è Dio. È il luogo privilegiato dove
lo si possa incontrare. La coscienza è il luogo dell’incontro.
Nel pensiero biblico, Dio ci circonda ed è ovunque. Non occorre postulare le
categorie del tempo e dello spazio (e infatti nella storia della filosofia
ritroviamo risultati assurdi nel senso di una assolutizzazione di tali categorie,
poi necessariamente falsificata), ma solo Dio. Questo è il pensiero biblico,
testimoniato da tutti i mistici e i santi della Chiesa e che sta alla base della
dottrina cattolica e delle varie Chiese cristiane.
Dio è ovunque, ma nella coscienza l'uomo lo incontra in modo più
originario, genuino, diretto, più da vicino.
253
Coscienza è il luogo in cui ci siamo "separati" da Dio e quello in cui lo
reincontreremo , per questo possiamo pensare che la coscienza non avrà fine,
proprio come l'"anima" per i medioevali o il "cuore" per gli scrittori sacri .
La coscienza è eterna. È stata creata, ma è stata creata per essere eterna.
Coscienza come luogo di contatto tra assoluto e materiale è un tema
fondamentale comune a tutto il pensiero filosofico moderno. Non a quello
contemporaneo che abolisce l'oggettività dell'idea di Dio.
Il mio considerarlo un "luogo" è impiego di una metafora. Se non fosse così
sarebbe un complicare le cose (dove sta questo luogo? cosa c'è in quel luogo?
chi può rispondere?)
A me interessa evidenziare che nell'uomo mortale e materiale esiste
l'assoluto, forse non comprensibile né dimostrabile, a rigore (ciò che lo connota
come assoluto, ossia inconoscibile), ma esistente oggettivamente perché ogni
uomo lo sperimenta. È un punto di vista a metà tra filosofia e antropologia.
Ma se l'uomo ha l'assoluto in sé perché non può conoscere l'assoluto?
Oppure la coscienza non è un assoluto e l'uomo non ha l'assoluto in sé. Ma
allora come può credere in un assoluto, come può averne l'idea?
La coscienza può essere solo una metafora che noi raccontiamo prima di
tutto a noi stessi, e che rappresentiamo a noi stessi.
Ma è una bellissima metafora della creazione, del nostro essere originati,
dell’essere "figli di Dio" (altra bella metafora...).
Si potrebbe intendere la coscienza come un omuncolo dentro di noi un
"altro", da alcuni detto "il vero io", che governa il corpo - come in un romanzo
di fantascienza - ma dipende da lui. Ma dove sta questo "altro"? È qualcosa
come il ba della religione egiziana antica? Di cosa è fatto? Chi è veramente? È
quello che trovano quelli che scavano dentro di sé (ed è sempre una
sorpresa)?
Io non penso la coscienza come un "omuncolo", piuttosto come un punto di
nascita antropologico dell'uomo, il fondamento ontologico e della perfezione
nell'uomo.
La coscienza "voce dell'ascolto"
254
Secondo Derrida "la voce è coscienza" (La voce e il fenomeno, 1968).
Desideri precisa che "la differenza [tra intramondanità e trascendentalità,
n.d.r.], introdotta originariamente dal fenomeno della voce (dalla sua
irriducibile sonorità), si presenta nella forma del rimando. La voce della
coscienza (anzi: quella voce che è la coscienza) rinvia così l'origine oltre di sé.
In questo rinvio essa rappresenta la traccia dell'Altro nel Sé: quella traccia che
lo precede come lo "spazio" della non-identità da cui sgorga ogni presenza a
sé" [Desideri, 1998, p. 62].
Desideri illustra l'importanza del rapporto tra coscienza e voce - la
coscienza è voce, la voce è l'origine della coscienza - e il rapporto tra coscienza
e ascolto; la coscienza si deve ascoltare, ma l'ascolto è l'origine della
coscienza.
Una proposizione acquista per noi significato "soltanto quando l'ascoltiamo
o la proferiamo: soltanto, insomma, nel momento in cui viene pronunciata [...]
La stessa lettura, del resto, non è un cercare di risalire dal detto al dire da cui
trae origine?" [Desideri, 1998, p. 38], così per me, analizzare la propria vita,
significa voler risalire alla voce che ha originato la vita, e che a sua volta è
originata.
Ciò dà una vertigine per il fatto che la coscienza è origine dell'uomo, quindi
caso mai è la coscienza che deve interrogare l'uomo (ciò che avviene infatti)
non l'uomo che interroghi la coscienza. Intendo che sia necessario teorizzare la
coscienza oltre la strettoia dell'essere essa solo individuale (perciò sarebbe una
fatto soggettivo incapace di collegare il soggetto all'assoluto) o solo universale
(rischio di ipostatizzazione).
Certamente la coscienza è sempre legata all'individuo, all'essere umano,
ma devo postulare che lo trascenda.
Io auspico - come preciserò alla fine del capitolo - una teorizzazione forte e
creativamente capace di uscire da questo dilemma.
Se la coscienza è la voce dell'ascolto, chi ascolta? Ascolta il divino, che ci è
padre, l'originatore.
Coscienza come origine originata è il luogo interiore, ma anche esteriore,
dove parliamo a Dio, dove ascoltiamo Dio, inteso come l'originatore.
In questo luogo privilegiato lo incontriamo emotivamente, razionalmente,
intuitivamente, figurativamente.
La coscienza è come un "orecchio interno", è l'ascolto, piuttosto che o
prima che una voce. Certamente non è un semplice strumento.
255
Ogni monologo è anche dialogo
Io mi oppongo alla tesi di Desideri secondo il quale una "conseguenza che
possiamo trarre dallo Husserl delle Ricerche Logiche consiste, nel ritenere del
tutto insostenibile una dimensione comunicativa volta verso l'interno: un
parlare puramente a sé. In questo caso, e cioè nel caso del monologo interiore,
parlare di discorso risulta affatto improprio: "In certo senso si parla
indubbiamente anche nel discorso isolato, ed è certo possibile in questo caso
intendere se stessi come persone che parlano ed eventualmente anche che
parlano a se stesse, così come quando, rivolgendoci a noi stessi, diciamo: Hai
fatto male, non puoi continuare a comportarti così. Ma in senso proprio, in
senso comunicativo, in questi casi non si parla, non ci si comunica nulla, non si
fa altro che rappresentare se stessi come persone che parlano e che
comunicano. Nel discorso monologico le parole non possono avere per noi la
funzione di segnali dell'esistenza di atti psichici, perché questa indicazione
sarebbe del tutto priva di scopo. Gli atti in questione sono infatti vissuti da noi
stessi nel medesimo istante" (Husserl, Ricerche logiche, I)" [Desideri, 1998, p.
64-5].
Per me invece ogni atto comunicativo è dialogo, perché sempre c'è
qualcuno che ascolta o legge. Se non altri, noi stessi (e come sta bene la prima
persona plurale per ciascuno di noi) che curiamo l'esposizione e avvertiamo il
flusso del pensiero (lo stream of consciousness) e reagiamo emotivamente.
Non è una comunicazione senza significato.
Siccome c'è sempre un feed-back, tutte le comunicazioni sono dialoghi.
Cambia solo il numero di ascoltatori e le reazioni che si possono suscitare.
Dentro di noi, dentro la sorgente dell'atto comunicativo, dentro "l'impianto
sonoro amplificato" che siamo ci sono molte voci, molti speaker.
Coscienza come centro unificatore dell'uomo
Coscienza come epicentro del pensiero razionale (perciò della scienza), del
pensiero intuitivo (più profondo) e del pensiero estetico (arte, ecc. legato ai
sensi, unificazione di sensi più astrazione del bello verso l'assoluto).
Centro unificatore anche del pensiero riflesso (autocoscienza) e perciò del
pensiero morale (vero vertice, più vicino di tutti all'assoluto [comunque
inattingibile]).
La coscienza è il legame tra fisicità e pensiero, perché, soprattutto quella
morale, come tutti sanno, è indefinibile, perché è un insieme di sensazioni
fisiche, voci interiori, riflessione, memoria, intuizione, illuminazione dall'alto.
256
Coscienza quindi come punto di contatto con l'assoluto, che non
conosciamo, ma possiamo tentare di immaginare proprio perché abbiamo la
coscienza. Bisogna unificare tutti se stessi per rapportarsi e ricondursi
interamente alla coscienza e per poter aderire all'assoluto.
Solo in quel punto, in quel "luogo" che è la coscienza ci può essere un
contatto con l'assoluto. Per questo è la coscienza che genera la verità, la
giustizia, l'umanità, ma anche la scienza, la conoscenza, l'arte, l'amore più
sublime, la fede. Genera nel senso, come detto sopra, di rendere possibile
nell'uomo, concreare. Anche qui non intendo rinunciare alla natura creaturale
dell'uomo e subordinata a Dio.
E quando qualcosa di ciò che ho detto si genera, non è ordinato
dall'esterno dell'uomo, ma si è generato nella parte più profonda, interiore e
vera di ciascun uomo ed è costituito da una tensione del relativo dell'uomo che
si unisce alla luce che deriva da quel punto, da quel luogo che è la coscienza,
dunque un insieme di umano e di oltre-umano.
Coscienza come "universo interiore"
Definizione di coscienza: è un universo, con caratteristiche di infinità ed
eternità (ma con un inizio preciso), è talmente grande che è lei a contenere noi
e a generarci e ad alimentarci, non noi che la conteniamo; ha buchi neri dentro
di sé, quelli che portano alla crisi (la morte in primis) ma anche intere galassie
e pianeti (in senso metaforico e non solo) e forme di vita straordinarie.
Più si conosce la coscienza e più ci si accorge della sua vastità.
Se la coscienza è quello che penso io, non esistono definizioni adatte o
sufficienti, per spiegarla, non esistono esempi per comprenderla e tutta la mia
teorizzazione è solo un tentativo di rappresentarla, ben facilmente superabile e
aumentabile.
C. Biscontin ha affermato che "non si può dare una definizione di
coscienza: è uno dei limiti umani. Essa è indefinibile. Così è meglio dedicarsi ai
nostri doveri, alla ricerca dei valori".
La coscienza sarebbe un organo di comunicazione tra Dio e uomo. Ma
anche solo per questo sarebbe qualcosa di straordinario.
Sarebbe non "la voce di Dio" (via del panteismo che porta all'Uomo -Dio),
né un organo corporeo, né una zona della psiche. Sarebbe un coordinamento
delle funzioni spirituali per far agire la morale. Con tre compiti:
- custodire l'unità e integrità dell'individuo. É una difesa dalla spaccatura
che deriva dalla differenza tra scelte e convinzioni (schizofrenia morale).
257
- garantire l'integrazione sociale dell'individuo preservandolo dalla devianza
(bene individuale = bene sociale). Quando fai qualcosa di diverso alle persone
essa ti avvisa, per farti adeguare. Ma anche ti porta a non seguire in questo
senso la società perversa, quando essa intera sbaglia.
- guidare l'individuo nell'integrazione nella "totalità oggettiva" (o verità,
termine pericoloso e incompleto). Ti fa sentire disagio se si va contro la totalità
oggettiva.
Così però si finisce per rimanere in una concezione strumentale e si
rinuncia alla sua definizione che invece può significare farla esistere, forgiarla
come fondamento dell'uomo.
La coscienza come evento centrale dell'interiorità cristiana
La riflessione cristiana fornisce interessanti spunti di riflessione sulla
coscienza intesa come "origine". Nel capitolo IV ho già sottolineato il contributo
di San Paolo secondo il quale la testimonianza interiore della coscienza si
compie nello Spirito Santo (Rm 9,1), componente nuova del giudizio di
coscienza, che esprime a livello concreto e operativo l'originalità propria della
coscienza cristiana come fondamentale percezione e assunzione della salvezza
compiuta in ciascuno da Cristo .
La coscienza è l'evento centrale dell'interiorità cristiana, attraverso il quale
l'intera persona si coglie come esistente in un nuovo rapporto ontologico (con
Dio in Gesù Cristo) e di conseguenza intuisce e decide il nuovo ordine di valori
etici che ne deriva. È il momento globale e fondamentale della coscienza come
"struttura morale originaria": cuore pulsante da cui poi scaturisce ogni
particolare esercizio di interiore valutazione etica [DETM, 1985, p. 170].
Io voglio sostenere - filosoficamente - che la Verità c'è nel mondo: è Cristo
che si è manifestato nella storia, che è perfetto come uomo, e come Figlio di
Dio e Dio, è stato tramandato in modo esemplare dagli evangelisti e ciascuno
di noi lo trova nella coscienza, che non è altro che Cristo (o una traccia
magnifica di Cristo) presente in noi in ogni momento della nostra vita. Essa è
l'assoluto che possediamo.
Ne consegue che si deve cercare il bene con l'amore (tutti gli uomini
cercano il bene, ciò è innegabile) che è l'assoluto in noi e che proprio l'amore è
il Vero Dio assoluto. Con ciò non divinizziamo l'uomo perché in esso c'è solo
una traccia.
Dunque non "cogito ergo sum", ma "io sento Cristo in me, dunque esiste
l'assoluto sulla terra" (ed è solo un simbolo dei cieli). Sento di desiderare il
bene, dunque sono nell'amore, sono in Dio, Dio esiste (anche) per me.
258
La coscienza e Gesù Cristo
Dentro di noi il luogo di ricerca della perfezione, per tutte le "vie" che
possiamo scegliere, è la coscienza.
Ma esiste anche un punto esterno a noi, esterno al nostro corpo, e sta nella
storia, che è Gesù. Egli è stato un personaggio storico, ha dato insegnamenti
ed esempi, ha fatto miracoli.
Non do per scontato che fosse Dio, cosa che non si può dimostrare
razionalmente (mentre il mio studio vuole rimanere entro ambiti razionali) ma
solo credere.
Però è certo che Gesù fosse un personaggio storico e che abbia
rappresentato un esempio sublime (il migliore che si possa conoscere) di
umanità, e che abbia fatto anche miracoli.
Alcuni testimoniano che sia risorto e viva: da ciò deriva la speranza che la
coscienza sia la porta per l'eternità, come Gesù e la croce sono la via per la
salvezza e la rinascita nell'al di là).
Quello che la coscienza è dentro di noi (via, luce, fonte di potenza, strada
per l'eternità, ecc.) nella storia e nella vita è Gesù (esempio, maestro, amico
ancora vivo, ancora creduto da tante persone, ma realmente ancora operante,
strada di felicità, modello di comportamento interiore, affettivo ed esteriore).
È interessante considerare il caso degli atei.
L'ateo ha una dignità pari al credente, perché siamo tutti liberi di credere o
non credere, ed egli realizza una delle possibilità.
Ma un ateo che creda almeno nella propria coscienza, non si può a rigore
definire ateo.
Torna ad essere un credente mascherato.
Chi può non credere nemmeno nella propria interiorità? È una posizione
difficile da vivere e da sostenere, certo, ma non impossibile). Cosa cerca un
uomo veramente? Di cosa ha bisogno?
Se potessimo definire "definitivamente" ciò di cui ha bisogno, seppure un
concetto minimo, come l'acqua e il cibo e il sonno e un affetto,
un'appartenenza, ricadremmo in una visione deterministica dell'interiorità, o
una visione sistematica, neotomistica dell'antropologia teologica.
259
Il bisogno di cibo non ha niente a che fare con il bisogno di trascendenza
(se c'è): sono due dimensioni non commensurabili.
In tutte le religioni è importante il concetto di coscienza.
La Gnosi, giudaica e cristiana, pretendeva di trovare in essa la salvezza. Al
di là degli eccessi è evidente che la coscienza, come consapevolezza e
conoscenza, è strumento privilegiato di perfezione e di salvezza.
Mircea Eliade è giunto alla conclusione che la religione è una struttura della
coscienza umana e l'uomo non può non essere religioso.
Coscienza, Parola di Dio e libertà
Ma come la Bibbia non è "Parola" di Dio, ma "parola" di uomini che
vivevano la "Parola" di Dio, e perciò contiene la "Parola", così la coscienza non
è la verità di Dio, ma un sentiero umano, e il più profondo, il più intimo, il più
individuale per ciascuno, il più perentorio, nei limiti della relatività della vita
umana, seguendo il quale si intravede la Verità, che sta in fondo, lontana ma
chiara.
La Bibbia è l'assoluto della scrittura perché è il mettere in pratica la
coscienza in modo assoluto, da parte di Cristo, di chi ha agito come lui e di
coloro che hanno scritto su Cristo e i suoi seguaci. Cristo per esempio sentiva
che odiare, anche i nemici, è male. Gli evangelisti lo sentivano anche loro in
coscienza (che per loro era Cristo con loro là vivo!) e l'hanno messo in pratica
prima e poi l'hanno scritto ascoltando questo loro comandamento interiore (ed
esteriore poiché c'era Cristo là) in modo assoluto.
Noi dobbiamo obbedire non alla Scrittura in sé, ma al modo in cui è stata
vissuta e contemporaneamente stesa. Questo è il suo assoluto; altrimenti
avremmo nei confronti della scrittura lo stesso atteggiamento, per esempio,
dei musulmani nei confronti del Corano.
Il conflitto, che sembra inevitabile allora, tra la nostra coscienza e la
Scrittura (che è molte coscienze assolute redatte in modo assoluto) in realtà
non è un conflitto di sostanza (due assoluti) ma solo nella forma. Se Cristo è in
noi, non può dirci cose diverse da quelle che ha detto e vissuto al suo tempo e
che gli evangelisti hanno scritto.
E' vero che siamo sottomessi a qualcosa: alla nostra coscienza che è
l'incontro del Cristo, dentro di noi.
E' strano che dobbiamo essere sottomessi a qualcosa? Niente affatto; se
veniamo dal nulla, creati solo per un Amore assoluto, è evidente che gli
260
dobbiamo qualcosa: esistenzialmente dipendiamo da Lui, dalle Tre persone
divine, e questa dipendenza la sentiamo con la coscienza, non altro.
La coscienza di Gesù Cristo
Per tentare di comprendere un po' di più Gesù si può utilizzare qualche
cognizione sul cervello.
Posto che gli uomini usino solo una parte del potenziale intellettivo, si
spiega perché dimenticano, sono poco elastici, non capiscono quasi nulla della
natura, che pure contiene leggi semplici e lineari, non capiscono se stessi, sono
incoerenti e cattivi.
Potremmo dire - per usare un linguaggio psicologico di oggi - che Gesù
usava tutto il suo potenziale umano, perché con perfetta ascesi era riuscito a
liberarlo tutto e in più forse aveva qualcos'altro. Qualcos'altro che deriva
dall'aver realizzato se stessi: il vedere il senso delle altre cose, oltre che di sé,
il senso del tutto.
L'uomo di oggi che ha più tecnologia non è più intelligente, né più santo.
Non è la tecnologia che dà intelligenza, ma la santità. San Francesco è stato
molto più intelligente di qualsiasi grande scienziato.
Come si fa a misurare l'intelligenza se tra l'umanità di uno stupido e quella
di un genio c'è così poca differenza?
L'etologo Giorgio Celli ha dichiarato che "tra un genio come Leonardo e uno
scimpanzé, a livello di DNA, c'è una differenza di solo un due per cento".
Ma quel due per cento è quello che costituisce il salto qualitativo,
contrariamente a quanto dicevano gli antichi: Natura non facit saltus.
Gesù, il santo dei santi, esempio supremo, che rivela l'uomo all'uomo,
capiva tutto, vedeva tutto perché aveva raggiunto la perfetta armonia interiore
e la perfetta utilizzazione di ogni sua qualità.
Paolo scrive "Ora invece Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che
sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo
verrà anche la risurrezione dei morti" (1 Cor 15,20 ss).
A causa di non è da intendere in senso causale, ché appoggerebbe una
concezione mistificante del peccato originale che spiega e perdona tutti i nostri
limiti, ma in senso temporale: a partire da un uomo siamo mortali, e a partire
261
da un uomo (Cristo) siamo immortali se lo vogliamo, tenendo presente però
che Cristo è sempre stato, generato ab eterno dal Padre.
Perciò si deve pensare a come con il dono dell'intelligenza (con tutti gli
strumenti che comporta) Gesù abbia infuso la coscienza nell'uomo (nel senso
filosofico che intendo io e morale e psicologico, e platonicamente, ecc.)
Ma Cristo è il riferimento e il termine della coscienza di ogni uomo: Cristo
presente nella coscienza di ogni uomo. La coscienza è legata alla presenza
continua di Cristo con noi (e dell'Angelo personale che custodisce il nostro
corpo).
Una teoria filosofica
L'origine di tutto il mio filosofare sulla coscienza, è certamente il
cristianesimo, ma inteso come "incontro" con Cristo. E tuttavia la mia vuole
essere una ricerca filosofica.
Coscienza per me è più della coscienza morale, o del conscio.
È invece la "verità ontologica" dell'uomo, il codice di comprensione, il
manuale di vita, il premio già disponibile, l'accesso al creatore, al consolatore,
al salvatore, la fusione di ogni potenza umana (conoscitrice, amatrice,
creatrice, perfezionatrice, ecc.).
Nessuna disciplina da sola può studiare la coscienza (nel mio significato), al
contrario essa è il fondamento di tutte queste discipline di pensiero.
La filosofia però, e la neurofilosofia in particolare, ha uno statuto speciale
per studiare la coscienza, sia perché offre i migliori strumenti di pensiero
(verificati alla luce della neurobiologia) per comprendere l'importanza della
coscienza nell'uomo, sia perché è proprio la filosofia che indaga il senso della
vita umana (illuminata dalla religione), sia perché la coscienza è ritenuta
comunemente la parte più profonda, difficilmente accessibile dell'animo
umano, ma pur sempre la più vicina alla sfere della ragione e delle idee della
persona.
Se la coscienza è l'assoluto nell'uomo, ciò che rende possibile agli uomini di
diventare "come dei" (come afferma la Scrittura), se la si sviluppa e non la si
tarpa o ignora, allora la psicologia sbaglia a non concepire questo problema.
Conscio e inconscio sono collegati all'assoluto, se l'assoluto esiste.
Cristo è coscienza storica dell'umanità, luogo d'incontro di immanente e
trascendente, punta del cono del tempo.
262
Anche i filosofi (il "dio dei filosofi" non è poi così freddo e vuoto) che
conoscono Gesù come maestro devono tenere conto di Lui come Risorto, in
quanto coscienza storica dell'umanità.
Una coscienza del corpo
Posso pensare che anche il corpo abbia una coscienza, un punto di vista
unificante.
Esso è quella "sensazione" che possiamo scoprire, educare e impostare per
sempre e in continuazione, se vogliamo, che ci permette di vederci
dall'esterno, di aprire altri due occhi sopra la testa, che ci permettono di
vedere intorno e di vedere noi stessi in relazione con gli altri.
Non è lo stesso del capire cosa pensano gli altri di noi: ciò è sempre una
fantasia e quasi sempre deriva da una paura degli altri o da una presunzione e
non arriva mai a uno stato di verità soddisfacente.
"Coscienza del corpo" invece è il punto di verità del corpo, la
consapevolezza dei limiti del nostro corpo, della caducità, ma anche delle
potenzialità, è la tensione verso l'uso migliore possibile del nostro corpo, la
ricerca del punto di contatto tra coscienza interna e corporeità, trovato il quale
otteniamo un perfetto equilibrio tra corpo e mente nell'esprimere l'arte, la
scienza, la moralità, così come ci suggerisce e ci illumina la coscienza.
Il tempo è il parametro della coscienza.
La coscienza è il fondamento del pensiero filosofico occidentale: percepirsi
tra passato e futuro, tra Big bang e Apocalisse [Andreoli, 1995, p. 9].
Coscienza come percezione del limite
La percezione del limite non è il "Dio in noi", né può essere solo materia. La
percezione è la misteriosa informazione intra-dimensionale della materia
umana. Certamente nei prossimi decenni con gli studi sul cervello e sulla
psiche e soprattutto quelli sul genoma si capirà ancora meglio l'essenza della
coscienza.
Decifrare completamente l'apparato genetico sarà il punto di partenza per
scoperte, conoscenze e un'evoluzione che potrebbero non avere pari nella
storia dell'umanità ed essere seconde solo all'evento della comparsa del primo
uomo, dotato di conoscenza razionale e di coscienza morale (e della stessa
"percezione del limite"), ma nato da "animali"!
263
Se la coscienza è percezione del limite il peccato nasce proprio dalla
mancata o errata percezione. L'uomo esercita la sua percezione del limite per
pochi istanti ogni giorno, mentre potrebbe farlo continuamente: come sperano
i filosofi, come fanno i santi.
La percezione del limite è contemporaneamente intuizione dell'assoluto che
sta al di là del "limite". L'una non esiste senza l'altra.
"L'uomo non ha nulla da offrire che non sia terreno" ricorda Giovanni Paolo
II in Varcare la soglia della speranza. Tutto è limitato e mortale nell'uomo.
Anche la coscienza. Non è divina la nostra coscienza, anche se ci pare con
certezza (umana) la cosa più profonda, elevata, ultima e "assoluta" che
abbiamo.
Però la coscienza è una porta. Una porta materiale, grezza, scura ma che si
può aprire sull'infinito. Dietro quella porta c'è l'infinito.
O meglio di porte ce ne sono tante nella materia: l'universo, le distanze
stellari, l'infinitamente piccolo, la potenza del cervello, i sentimenti. Ancora:
tutto nella vita è una porta per l'infinito. Ma la coscienza è una finestra che ci
permette di guardarlo per bene, di gustarlo, di sentirsi per un poco al di là
della finestra, nel giardino meraviglioso, beati.
Teologismi postmoderni
La filosofia ora può trovare ugualmente accettabili (o ugualmente
inaccettabili), e lo deve fare, da una parte il pensiero debole: pessimismo,
nichilismo e morte di Dio (derivanti dall'assolutizzazione dell'io, figlia del
"cogito ergo sum" cartesiano); dall'altra il pensiero forte: metafisica, assoluti in
Dio creatore, morale come senso dell'agire per l'eternità.
Ma considerando i limiti intrinseci della ragione, l'inconoscibilità del mondo,
del nostro corpo e della nostra stessa ragione, sembra il possesso della verità
integrale sia a noi precluso senza mezzi termini e, di conseguenza, in modo
tragico.
Trovo decisamente inadeguata allo sviluppo attuale delle conoscenze una
visione tomistica e anche neotomistica della coscienza, mentre purtroppo molti
teologi sembrano adattarsi bene ad essa, ciò che li porta non accettare un
confronto con le discipline neuroscientifiche, un po' come accadeva con
l'aristotelismo al tempo di Galileo.
264
Coscienza come punto di intersezione tra spirito e materia
Credo che l'antico e terribile rovello della conciliazione tra spirito e materia
(ove non ci sia prospettiva divina, ma anche dove c'è) potrebbe trovare un
contributo per la risoluzione con la mia concezione della coscienza: essa è
contemporaneamente (oltre che strumento morale, stato psicologico, ecc.) il
vero punto di contatto tra la materia e la dimensione mentale e psichica.
Io credo che la ricerca del fondamento biologico della coscienza porterà a
chiarire proprio quell'antico rovello e ogni risultato nuovo aggiungerà un
tassello fino a una dimostrazione accettabile. Un po' come è accaduto per
l'ultimo teorema di Fermat, ma dopo secoli e grandiosi progressi della
matematica per opera di intere generazioni di studiosi.
Con la differenza che ora tutto è accelerato, soprattutto in questi ultimi
anni del XX secolo.
Se la coscienza è quello che penso io, non esistono definizioni adatte o
sufficienti, per spiegarla, non esistono esempi per comprenderla e tutta la mia
teorizzazione è solo l'ultimo tentativo storico di rappresentarla, che sarà ben
presto superato...!
Coscienza del passato e senso del futuro
Scopriremo molto probabilmente - già se ne sente parlare - un metodo
tecnologico per rivedere, attraverso le tracce dei fotoni, fatti accaduti nel
passato, perché sempre rimane traccia dei fotoni appartenuta a ogni ambiente
in ogni istante in quei paraggi. Si tratta solo di capire come fare.
Questa sarà una macchina del tempo non nel senso che piega il tempo per
trasportare persone in altre epoche permettendo loro magari di mutare gli
avvenimenti, ma solo nel senso che recupera le tracce, le immagini del
passato, rendendole fruibili agli uomini moderni resi spettatori degli
avvenimenti.
Di questo si è sognato per secoli. E ogni buon pensatore sapeva secondo
buon senso e intuizione che non si sarebbe trattato di una modifica del tempo
ma solo di uno spettacolo.
Ciò accadrà perché possiamo credere che l'uomo possiede al suo interno
così tante informazioni (vedi le ricerche sull'immagazzinamento di migliaia di
sogni in ognuno di noi) e il senso di tutta la sua vita e di tutta la natura e la
storia.
La coscienza è la sapienza sostanziale che intuisce la verità di ogni pensiero
sulla natura o sull'uomo, servendosi di ogni dimensione dell'uomo. Si
265
tratterebbe di una conoscenza, che non va di moda tra gli scienziati, sarebbe
piaciuta agli antichi e ai medievali, come anche ad autori quali Theilard de
Chardin, piace ad altri come F. Capra, P. Davies, F.J. Tipler.
La filosofia, la matematica e le altre discipline non servono per raggiungere
la verità, che non è raggiungibile ed è già dentro di noi (è impossibile che la
natura permetta di ricreare esattamente qualcosa che già esiste).
Nella morte di ogni uomo sta il senso della sua vita, così come per
l'umanità: il progetto universale ed eterno prevede il trapasso, la
trasfigurazione, esattamente in un preciso momento e per precisi motivi. Noi
non li conosciamo con certezza. Possiamo intuirli sapendo che possono essere
falsi come possono essere veri altri che noi mai potremmo immaginare, mentre
solo Dio sa. Potrebbe essere che ciascuno muore perché non poteva fare di più
nella vita: ognuno ha il suo limite. O perché ha capito a sufficienza per
meritarsi quel che si merita. Oppure perché ha compiuto la sua piccola parte
nella storia della salvezza dell'umanità. O invece per impedirgli di fare altro
male.
La scoperta della coscienza
Secondo il racconto della Genesi possiamo ricavare che l'uomo è diventato
veramente uomo (ma anche prima c'era dolore, emozione…) quando grazie
allo sviluppo intellettivo (e la grazia) ha cominciato a riflettere su se stesso
(autocoscienza) - a differenza degli animali - e ha scoperto la propria relazione
con Dio, l'Origine, la sfera morale, la religione, l'io. Ha scoperto la coscienza,
l'ha creata perché l'ha scoperta, l'ha con-creata con Dio, come si con-crea il
Paradiso con Dio.
Solo quando ebbe la coscienza fu uomo, prima era solo animale
intelligente.
La grazia che ha fatto iniziare l'umanità coincide perciò all'inizio (e ora
quotidianamente) proprio con la coscienza (non l'intelligenza, che permea di sé
anche la natura o i robot)
La coscienza è allora sintesi tra natura e divino, originante, provvidente,
che permette l'intuizione e la preparazione del paradiso.
L'evoluzione delle specie è progressivamente un avvicinamento alla
Coscienza.
PER IL RITORNO DI UN "PENSIERO FORTE" FILOSOFICO SULL'UOMO E
SULLA COSCIENZA
266
La filosofia oggi sembra volersi limitare - e così anche la neurofilosofia che,
in un ambito specifico, ne è un chiaro esempio - a tentare di chiarire i limiti
della ricerca scientifica e della teorizzazione, pretende di porsi come
interlocutore di ogni disciplina di studio, in quanto fondata sull'istanza di
interpretare l'uomo. La filosofia postula un al di là dell'uomo, che mostra la
capacità di autotrascendenza dell'uomo, la sua capacità di riflettersi.
Eppure non è più in grado di "dimostrare" o anche argomentare in modo
forte tale "al di là", perché è giunta a un indebolimento degli strumenti
linguistici, metafisici, logici, di cui orgogliosamente consapevole.
Quel che la fa da padrone, insomma, è il pensiero debole. Che è un
traguardo irrinunciabile - come ho detto - un caposaldo dello sviluppo filosofico
occidentale, ma appunto deve essere una tappa, non la destinazione finale di
tutta la teorizzazione sull'uomo e il creato.
Invece sembra che la filosofia oggi, tra i vari movimenti, si dibatta tra
impasse (nichilismo, scetticismo, agnosticismo, ateismo), teorizzazioni che
hanno più dello scientifico che del filosofico (computazionisti, riduzionisti),
teorizzazioni vaghe (ne ho indicate e criticate alcune).
Io auspico dunque il momento in cui si possa affermare di aver ricostituito,
senza realizzare un "ritorno al passato", un pensiero forte sull'uomo, ne sento
il bisogno in questo passaggio di secolo.
Non so prevedere che strada dovrà percorrere la riflessione filosofica per
arrivarci.
Credo però che il tema e il concetto della coscienza, con tutta la ricchezza
di specificazioni che ho illustrato sia un ottimo e privilegiato campo di ricerca
per poter assicurare tale risultato. In primis grazie alla opportunità di
convergenza su questo tema da una parte della riflessione umanistica, che può
contare su una sterminata incalcolabile tradizione, dall'altra della ricerca
scientifica che può contare su avveniristici strumenti di indagine e sulla
speranza di accelerazione del progresso umano.
Voglio affermare che credo che la riflessione filosofica e antropologica
raggiungerà di nuovo un pensiero forte, deve essere così, è già accaduto molte
volte, e tanti segnali, uno dei quali è l'interesse del tema della coscienza, lo
suggeriscono.
Quel che non so è solo quando accadrà e chi e come riuscirà a ottenerlo.
La fiducia nell'importanza del tema della coscienza sta nel fatto che "la
coscienza è dialogo con l'essere" (L. Lavelle) e perciò è il sentiero della verità:
"Dove comincia e dove finisce la coscienza? Chi può fissarne i limiti? Chi può
267
fissare un qualsiasi limite? Non sono forse le cose tutte intessute l'una
nell'altra?" (S. Butler).
Conclusione
Coscienza, salvezza e benessere
La presente ricerca corre il rischio di essere astratta, poco utile all'uomo
comune, come tutte le speculazioni filosofiche e teologiche.
Invece desidero che serva come contributo alla formazione di un metodo di
ricerca personale e utilizzazione della "coscienza" come risorsa di benessere,
equilibrio, autoconsapevolezza.
È troppo pretendere che tutte le teorizzazioni abbiano "ricadute" pratiche.
Ma il tema della coscienza lo può permettere.
Ed è anche facile cadere in uno di quei maldestri tentativi - come se ne
vedono e leggono a iosa, citati in vari punti di questa dissertazione - di
ricavare l'elisir della lunga vita accostando con poca prudenza e senza metodo
rigoroso scienze e discipline le più diverse.
Ma io credo che la riflessione sulla coscienza possa concretamente aiutare
l'uomo a dare spazio alla propria interiorità, intesa come un'armonia originante
che può condurre ad aprirsi verso il trascendente, a recuperare un'armonia
individuale.
È possibile recuperare l'"emozione" di avere la coscienza
Il neuroscienziato Rodolfo Llinas ha detto: "La vita è meravigliosa, essere
coscienti è meraviglioso".
Più conosciamo la coscienza, l'universo che c'è in noi che unifica e origina
tutte le dimensioni dell'uomo, conoscenza, affetti, morale, religione, vita, più ci
accorgiamo di quanto "infinita", ovvero "piena" sia la coscienza e la vita.
Cerco dunque di collegare analisi scientifiche, filosofiche e spiritualità alla
ricerca di una "igiene coscienziale"
268
Viviamo in un'epoca che sarà fondamentale per l'umanità, un'epoca in cui
avviene una svolta decisiva. Essa deriva dall'avvicinarsi a grandi passi alla
definizione scientifica della mente.
Tale definizione che oggi, nel 2000, non è ancora possibile - ma lo sarà
entro pochi anni o pochi decenni - avrà come paradigma fondamentale proprio
la coscienza.
Non sarà dunque possibile più formulare e utilizzare alcuna teoria senza
considerare - non se ne potrà proprio prescindere - l'aspetto soggettivo,
neurobiologico, personale.
Questo conduce a un rinnovamento della scienza. Credo senza esagerare
che si deve parlare di una scienza vecchia e una scienza nuova. Quella vecchia
era quella straordinaria del XX secolo, la fisica quantistica, la relatività,
l'energia nucleare, le telecomunicazioni. Quella nuova sarà, come detto, quella
che riesce a tener conto della coscienza individuale, della mente, dell'uomo
nella sua interezza.
Usare il potenziale della vita onirica
Un aspetto interessante collegato alla coscienza è la vita onirica.
Secondo alcuni studiosi bisognerebbe curare di più la propria vita onirica,
"allenare la mente a sognare in modo più vivido e più facile da ricordare",
abituarsi a interpretare i sogni, arricchire le esperienze quotidiane con le
tecniche di ricordo e di controllo dei sogni , tenere un diario dei sogni, usare
positivamente i sogni per superare le ansie personali, con ciò migliorando le
relazioni interpersonali.
I sogni sono un potenziale enorme in noi, ma decisamente trascurato e
sprecato.
Sarebbe necessario che tutti potessero ogni mattina dedicare mezz'ora a
ricordare e analizzare i sogni fatti nella notte.
Certo lo slogan di chi se ne occupa e un po' pretenzioso "Seguiamo le
lezioni dei sogni e non saremo più dominati dagli eventi del giorno:
riguadagneremo la completezza che ci appartiene per nascita" .
Però è vero che "benché sogniamo ogni notte, l'insostituibile valore delle
nostre esperienze notturne ci sfugge: è grazie ai sogni che possiamo ascoltare,
quasi origliando, il segreto colloquio che si svolge tra la coscienza e l'inconscio
ricavandone un'opportunità per capire chi siamo e raggiungere una più
completa armonia interiore" [Fontana, 1999, p. 8].
269
Counseling e tirocinio esistenziale
Un altro aspetto collegato alla coscienza e all'ambito psicologico è la
considerazione che non si guadagna una maturità interiore, un equilibrio
nell'armonizzare e utilizzare le risorse interiori per il benessere sociale ed
esistenziale senza un tirocinio, un confronto educativo e formativo con un
"maestro".
Dovrebbero essere, dunque, molto più diffuse e utilizzate quelle figure di
"counsellor", non veri terapeuti (non voglio certo arrivare a dire
sbrigativamente che "siamo tutti malati"!) che in altre nazioni si stanno
consolidando.
Forse un'indagine sulla coscienza aiuterebbe questa prospettiva sociale, di
aiuto, di interazione verso un perfezionamento spirituale.
Sarebbe necessario per esempio un insegnamento psicologico di base nella
scuola dell'obbligo. Per fortuna nei licei la filosofia (soprattutto con in nuovi
"programmi Brocca" eccetera) supplisce un poco a questa "debolezza
coscienziale" della cultura educativa in Italia.
La scuola secondo il cervello
In un interessante articolo, consultabile in Internet , G. Piangatello, un
ingegnere che insegna nelle scuole professionali, tenta di mettere a servizio
della didattica (nelle scuole superiori italiane) le ricerche sul funzionamento
della mente. Ne risulta una riflessione stimolante, provocatoria e accattivante,
verso un rinnovamento della didattica, della valutazione, dell'organizzazione
della scuola italiana, anche se tutto rischia di essere inficiato da una non
comprovata teoria di base.
L'autore ammette all'inizio che il suo modello di funzionamento della mente
non è stato ancora esaminato dalla comunità scientifica, ma egli ne trae
ugualmente delle conseguenze "a titolo di opinioni personali".
La principale è che "se è vero, come io credo, che ogni neurone [più avanti
specifica che intende "gruppo di neuroni"] delle cortecce associative sia legato
a una parola, allora il compito principale della scuola, ossia far nascere
cortecce associative, sarebbe descrivibile dicendo che essa deve fornire delle
parole allo studente".
Altro riferimento neurobiologico è la differenza tra la funzione della
corteccia posteriore (che elabora le informazioni ricevute dall'esterno) e
270
corteccia frontale (che si occupa di inviare segnali all'esterno) e la loro
parallela strutturazione gerarchica "su tre livelli". Ciò dà modo a Piangatello di
riflettere sui cicli scolastici e sulla riforma della scuola pensata dal ministro L.
Berlinguer, sui criteri di valutazione (ritmi dell'apprendimento) degli studenti e
sull'autonomia didattica (una lingua o tante lingue?).
Per un approfondimento rimando al testo stesso.
Invece uno studio molto serio eppure creativo e innovatore è quello del
neurofisiologo inglese Jan H. Robertson, contenuto in Il cervello plastico . La
tesi è che il cervello sia un organo patisco che viene continuamente modificato
dall’esperienza in un processo di scultura cerebrale nella quale variano le
connessioni tra i neuroni. Si è scoperto infatti che il cervello è sempre
plasmabile, anche in caso di gravi danni; la crescita e la riconnessone delle reti
neuronali possono infatti avvenire a qualsiasi età.
Robertson ribadisce l’importanza della volontà nel riparare alcune funzioni
cerebrali: "Esistono prove del fatto che, anche se le persone non sono più in
grado di muovere un braccio paralizzato, il semplice immaginare il movimento
possa arrecare quel genere di miglioramenti che i miei studi hanno dimostrato
essere una conseguenza dei movimenti reali. In altre parole, in futuro sarà
possibile effettuare una terapia di riabilitazione in palestre interne al cervello".
L’autore si occupa approfonditamente della funzionalità cerebrale nei primi
anni di vita. Pur non negando una componente genetica nella capacità di
elaborare il linguaggio e nell’intelligenza in genere, ritiene che le interazioni
con il mondo siano fondamentali nel plasmare quello che definisce "l’io
elettrico", alla cui formazione devono contribuire in modo favorevole altre
menti nella società. L’autore esemplifica questo ragionamento con un consiglio
pedagogico: poiché sembra che l’accelerazione dello sviluppo linguistico del
bambino sia determinata più dall’instaurarsi di una relazione individuale con
l’adulto che da rapporti collettivi, è consigliabile che siano i genitori stessi a
occuparsi della "scultura del cervello" dei loro figli.
Posso aggiungere, a proposito di interazioni con il mondo, una mia
osservazione, a suffragio della tesi di Robertson: che un talento individuale
trova quasi mai una realizzazione se non attraverso il riconoscimento,
l’addestramento, perfino la sollecitazione violenta da parte di un "altro",
specialmente un "maestro", quasi sempre un parente prossimo.
Nel paragrafo "Le chiavi per sbloccare il potenziale del cervello" Robertson
propone gli "ingredienti della ricetta dell’apprendimento", considerazioni per gli
insegnanti al fine di mettere a punto una valida strategia per essere buoni
maestri e compiere "prodigi sul cervello di un gran numero di studenti".
La materia e la sua presentazione
271
Infine un testo interessante è quello di Frederic Vester, Il pensiero,
l'apprendimento e la memoria , che soprattutto nella parte finale fornisce
interessanti consigli didattici e pedagogici tutti basati su scrupolose
osservazioni neurobiogiche, metodo sperimentale rigoroso e ragionamenti
convincenti.
Riporto un interessante schema che Vester pubblica alla fine del libro.
1. Conoscere gli obbiettivi didattici L'allievo deve poter vedere in ogni
momento il motivo per cui gli si fa sentire, vedere, leggere o fare una certa
cosa. Dovrebbe sempre sapere per quale scopo studia una determinata
materia, che cosa ne potrà fare e come la potrà applicare nella pratica. Bisogna
metterne in chiaro il senso. In tutti i nostri test uno dei fattori che inibivano
l'apprendimento è risultato essere sempre la mancanza di precisione di questi
obbiettivi.
2. Piani di studio intelligenti Si cerca di orientare la scelta delle materie,
l'organizzazione della materia e il piano di studi secondo obbiettivi didattici,
basati sull'applicazione pratica nella vita tenendo conto degli aspetti fisici,
psichici, mentali e sociali. Il curriculum scolastico non deve essere determinato
dalla suddivisione rigida delle discipline, ma deve orientarsi in base alla nostra
struttura biologica.
3. La curiosità compensa la paura del nuovo Materie sconosciute ed
estranee e termini nuovi provocano inizialmente ostilità, frustrazione e rifiuto.
La curiosità è il più forte istinto naturale per superare questa resistenza
interna. Se mancano la curiosità, l'entusiasmo e le aspettative non può esserci
la necessaria disponibilità per l'apprendimento.
4. Informazioni nuove e presentazione familiare Far associare dettagli o
informazioni nuove a contenuti già noti. Presentare argomenti sconosciuti
possibilmente in un contesto familiare.
5. Il generale prima del particolare Iniziare con il contesto generale e
conosciuto. Soltanto in un secondo momento presentare i particolari e le
singole informazioni, affinché possano essere inquadrate efficacemente e
correttamente (e quindi collegate a un'esperienza di successo). In questo
modo si favoriscono anche la motivazione all'apprendimento, la possibilità di
associazioni familiari e un sicuro ricordo della materia immagazzinata.
6. Evitare le interferenze Non ripetere l'informazione in varianti diverse
finché è ancora nella memoria immediata. Portare piuttosto esempi tratti dalla
realtà, che impegnano canali sensoriali diversi.
272
7. Spiegazioni prima dei concetti Soprattutto non impaurire con termini
nuovi. Prima basta nominare il fenomeno, descriverlo, dare esempi; dopo si
possono anche fare astrazioni e nominare la nuova "parola in codice".
8. Associazioni supplementari Cercare possibilità di approccio più
complesse possibile tramite riferimenti a fatti interessanti, divertenti e curiosi.
La presentazione operazionale stimola la risonanza di canali percettivi non
utilizzati, assicurando quindi un più agevole passaggio alla memoria a breve
termine e a quella a lungo termine.
9. Imparare con divertimento Per principio si deve garantire che gli alunni
provino piacere nella lettura dei testi, nell'ascolto e nell'elaborazione della
materia. Il piacere, tramite la positiva disposizione ormonale, aumenta le
capacità di apprendimento, di associazione e di rievocazione.
10. Fitti collegamenti Una stretta connessione di tutti i fatti in una lezione,
in un libro o in un compito rafforza i punti 4, 5 e 8, procura sensazioni di
successo e favorisce la ritenzione e le combinazioni creative senza eccessivo
dispendio di energie. Naturalmente anche questi dieci punti devono essere
collegati e accordati nella prassi scolastica. In ogni singolo caso debbono
essere combinati in modo da accordarli con il tipo di apprendimento degli
allievi.
Ecco dunque che esistono già coraggiosi (e più o meno deboli) tentativi di
coniugare indagine neuroscientifica con vita pratica, ciò che sarà sempre più
efficace e fecondo nel prossimo futuro.
La preghiera guarisce
Infine, un ambito interessante ma assai scivoloso, è quello del rapporto tra
spiritualità e guarigione fisica.
Oggi si vendono molto i libri che insegnano a "pregare per guarire", quasi
sempre basati più su fideismo e superstizione che su ricerche rigorose. Ed è
molto di moda parlare di angeli, spiriti che parlano e magia, proprio oggi
quando le neuroscienze sono così avanzate.
Libri come Guarire con la preghiera di K. McClellan , oppure La forza della
preghiera di P. Abozzi P. e M. Fiammetta sostengono proprio questo. E ne
esistono infiniti altri quasi sempre poco seri (lo dico nel senso della ricerca
filosofica e rigorosa, non dal punto di vista spirituale, che in fondo sposo senza
difficoltà), che contengono preghiere e rituali e così sfiorano (o favoriscono) la
superstizione.
Eppure sembra incontestabile, filosoficamente, spiritualmente,
soprattutto statisticamente, il benessere derivante dalla preghiera.
ma
273
Sarebbe interessante analizzare questo fenomeno - il rapporto tra
spiritualità e benessere psico-fisico - a livello neurobiologico, producendo poi
una teorizzazione interdisciplinare.
La coscienza, per me, è proprio il "luogo interiore di guarigione", origine
della "salvezza" di tipo anche corporeo (so che è un linguaggio di confine
quello che sto usando).
Per concludere riporto l’opinione di G. Frey che faccio mia:
"La coscienza tende sempre a manifestarsi al di fuori
dell'individuo, e si realizza nell'interazione
degli uomini".
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