Dispense - Kaplan - Dipartimento di Filosofia

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Elisa Paganini LA PROSPETTIVA DEL PARLANTE Dispense per il corso di Filosofia del linguaggio A. A. 2014-­‐15 Aggiornate il 29.5.2015 INDICALI E DIMOSTRATIVI: LA TEORIA DI KAPLAN 1. David Kaplan – Demonstratives David Kaplan (nato nel 1933) è un filosofo americano e ha insegnato a UCLA (University of California, Los Angeles) per gran parte della sua vita. La sua tesi di dottorato è stata supervisionata da Rudolf Carnap e i suoi studi successivi sono stati guidati dai logici-­‐
matematici Alonzo Church e Richard Montague. Egli ha avuto quindi una formazione logico-­‐
matematica molto sofisticata. Il saggio di David Kaplan intitolato “Demonstratives” viene pubblicato nel 1989 in un libro dedicato al pensiero dello stesso Kaplan. Il testo però circolava in forma dattiloscritta già negli anni ’70 del ‘900 e quindi i saggi che abbiamo affrontato nel primo modulo, sebbene siano stati pubblicati prima del saggio di Kaplan, sono stati in realtà profondamente influenzati da questo saggio di Kaplan. Inoltre Kaplan, prima di pubblicare il testo che leggiamo, ha avuto modo di leggere e rielaborare alcune sue idee alla luce delle riflessioni critiche successive, quindi il testo che leggiamo non è sicuramente del tutto equivalente al testo dattiloscritto che aveva fatto circolare negli anni ‘70. Kaplan pubblica il testo “Demonstratives” insieme a un’appendice “Afterthoughts” (ripensamenti) che noi non leggeremo. Il saggio “Demonstratives” è un punto di riferimento per tutta la riflessione sugli indicali odierna. Per la lettura del saggio consiglio di saltare innanzitutto la prefazione (“Preface”) che può essere letta alla fine e di iniziare da “Introduction” p. 489. 2. Indicali, dimostrativi veri e indicali puri La teoria di Kaplan riguarda le espressioni che vengono generalmente chiamate “indicali”, cioè quelle espressioni il cui riferimento dipende dal contesto d’uso e il cui significato fornisce una regola per determinare il riferimento sulla base di certi aspetti del contesto. Esempi di indicali sono i pronomi “io”, “tu”, “mio”, “egli”, “ella”, “ciò”, i dimostrativi “questo”, “quello”, gli avverbi “qui”, “ora”, “oggi”, “domani”, gli aggettivi come “presente” e altre espressioni. Il saggio di Kaplan s’intitola “Demonstratives” (cioè, Dimostrativi) e non “Indexicals”, la ragione è fornita dallo stesso Kaplan: egli ha iniziato a occuparsi di indicali concentrandosi su quei particolari indicali che dipendono da una qualche ‘dimostrazione’ (o gesto ostensivo) per determinare il loro riferimento. Queste espressioni le chiama ora “dimostrativi veri” e un tipico esempio è “questo”. Il proferimento di “questo è bello” non è pienamente comprensibile se non è accompagnato da un gesto dimostrativo (un’indicazione) che ci permetta di stabilire a che cosa ci si riferisce con la parola “questo”. Un dimostrativo che non è accompagnato da un gesto dimostrativo (o ostensivo) è detto da Kaplan incompleto. Le descrizioni definite, come sappiamo, in alcuni casi possono non avere un oggetto che le soddisfa; in questo caso sono dette da Kaplan vacue. Ad esempio “Il re di Francia” usato al giorno d’oggi è una descrizione vacua. Kaplan ritiene che anche i dimostrativi possano essere vacui; i dimostrativi sono vacui quando sono effettivamente accompagnati da un gesto ostensivo ma non si riferiscono ad alcunché. I casi che Kaplan prende in considerazione sono i seguenti tre: 2 1) non c’è un oggetto dimostrato (o demostratum, in latino) – Ad esempio, supponiamo che io abbia un’allucinazione perché vedo un drago di fronte a me e dico alzando il dito “Questo è pericoloso”, non riesco a indicare alcunché e quindi il dimostrativo “questo” è vacuo. 2) si è compiuta una dimostrazione errata – Ad esempio, indico un albero e dico “lei” credendo che si tratti di una donna travestita da albero. In questo caso non riesco a riferirmi ad alcunché con la parola “lei” 3) ci sono troppi oggetti dimostrati – Ad esempio indico due piante di edera attorcigliate e dico “quest’edera”, in questo caso non riesco a riferirmi ad alcunché con l’espressione “quest’edera”. Oltre ai dimostrativi veri, ci sono quelli che Kaplan chiama “indicali puri” per il cui riferimento non è richiesto alcun gesto ostensivo che accompagni il loro proferimento. Esempi di indicali puri sono “io”, “ora”, “qui” (almeno in un’accezione), “domani” e altri. Se io dico “Io sono un’insegnate” indicando qualcun altro, il gesto ostensivo non modifica né condiziona il significato di “io”. Quindi “io” è un’indicale puro perché il suo riferimento, pur dipendendo dal contesto d’uso, non dipende da alcun gesto ostensivo che accompagni il suo proferimento. Come riconosce lo stesso Kaplan, la distinzione fra dimostrativi veri e indicali puri non è scontata. Ci sono alcune espressioni che hanno un duplice uso: sia come indicali puri che come dimostrativi. Ad esempio, la parola “qui” si comporta in alcuni casi come un indicale puro, ad esempio in “io sono qui”, e si comporta in altri casi come un dimostrativo vero, ad esempio in “Fra due settimane, sarò qui” [indicando una città sul mappamondo]. Occorre anche tener presente che certe espressioni possono essere usate come dimostrativi in alcuni casi e non in altri. Ad esempio, se indico una persona e dico “lui è simpatico”, uso la parola “lui” come dimostrativo, ma nell’enunciato “Ho incontrato Marco, lui sì che è simpatico”, qui “lui” non è usato come dimostrativo e neanche come indicale, ma ha un uso anaforico. 3. La distinzione fra carattere e contenuto L’obiettivo principale del testo di Kaplan è distinguere fra due piani del significato. Si potrebbe subito pensare che Kaplan riproponga la distinzione Freghiana fra senso e significato, di fatto Kaplan scrive esplicitamente che la distinzione che fa è diversa da quella di Frege e quindi è bene tenerle distinte. Kaplan si propone di mostrare che sono compatibili due assunzioni che ad una prima lettura non saranno facilissime da intendere, ma che saranno spiegate fra poco. Kaplan vuole cioè rendere conto del fatto che: 1) gli indicali si riferiscono a cose diverse a seconda del contesto d’uso degli stessi 2) gli indicali non cambiano riferimento nelle circostanze di valutazione Sebbene non sia per il momento chiaro che cosa intenda Kaplan per contesto d’uso e circostanza di valutazione, quello che è chiaro fin dall’inizio è che Kaplan vuole rendere compatibile una dimensione del significato in cui il riferimento degli indicali è mutevole con un’altra in cui non è mutevole. Facciamo alcuni esempi per riuscire a intendere intuitivamente ciò di cui parla Kaplan. Prendiamo in considerazione il seguente enunciato: “Io sono una professoressa di filosofia del linguaggio” Se lo proferisco io, io attribuisco a me (cioè a Elisa Paganini) la proprietà di essere una professoressa di filosofia del linguaggio, se lo proferisce uno dei lettori di queste dispense attribuisce a se stesso la proprietà di essere una professoressa di filosofia del linguaggio. Il contenuto di questi due proferimenti è diverso quando è proferito da me e quando è proferito 3 da uno dei lettori, anche se le parole utilizzate sono le stesse, e il contenuto del termine “io” varia perché il parlante varia nei diversi contesti d’uso (cioè i contesti in cui viene scritto o proferito questo enunciato). Il termine “io” quindi varia il suo riferimento sulla base del contesto d’uso. Chiediamoci ora se il contenuto di quello che io ho detto asserendo “Io sono una professoressa di filosofia del linguaggio” è vero o falso. Nel momento in cui scrivo, il contenuto dell’asserto è vero; però non è sempre stato vero, quando ero una bambina non ero una professoressa di filosofia del linguaggio e quindi il contenuto dell’asserto era falso; e sicuramente non sarà più vero in futuro. Inoltre sebbene il contenuto di questo asserto sia contingentemente vero per come sono andate le cose della mia vita, avrebbe potuto essere falso, le cose sarebbero potute andare diversamente per me e io potrei non essere una professoressa di filosofia del linguaggio. Quello che sto facendo in quest’ultimo caso è valutare il valore di verità di ciò che ho asserito in un mondo possibile diverso da quello che occupo. Quando prendo in considerazione circostanze di valutazione diverse fra loro, non mi chiedo chi stia parlando in quella particolare circostanza di valutazione per stabilire il riferimento della parola “io”, quello che sto facendo è interrogarmi sul valore di verità in una circostanza di valutazione di ciò che ho asserito in un preciso contesto d’uso. Quando prendo in considerazione diverse circostanze di valutazione per stabilire il valore di verità di ciò che ho detto asserendo “io sono una professoressa di filosofia del linguaggio”, il riferimento della parola “io” non cambia, ma resta lo stesso, ed è stato fissato sulla base del contesto in cui ho proferito l’enunciato. Lo stesso tipo di riflessione si può fare per altri tipi di indicali. Se prendiamo in considerazione l’enunciato “Oggi piove”, ovviamente il suo contenuto cambia a seconda del contesto d’uso (cioè del giorno in cui è scritto o proferito), ma una volta che l’enunciato è stato proferito, il valore di verità di ciò che è asserito può essere valutato in diverse circostanze di valutazione (ad esempio, in luoghi diversi o in mondi possibili diversi) ma il riferimento della parola “oggi” non muta a seconda della circostanza di valutazione. Invito il lettore a rifare lo stesso ragionamento prendendo in considerazione altri enunciati che contengono indicali puri come: “Io sono uno studente”, “Io esisto”, “Tu sei mio amico”, “Ieri c’era il sole”, “Luigi è qui”. La dimensione del significato che dipende dal contesto d’uso (e che è particolarmente rilevante per gli indicali) è chiamata da Kaplan carattere, mentre la dimensione del significato che consiste nel valutare il valore di verità nelle diverse circostanze di valutazione di ciò che è asserito in un particolare contesto viene chiamata contenuto. Poiché gli indicali hanno la caratteristica precipua di cambiare riferimento sulla base del contesto d’uso ci si aspetterebbe che Kaplan dedichi gran parte del suo saggio a caratterizzare il carattere degli indicali. Di fatto, questa aspettativa è disattesa, Kaplan dedica la maggior parte del suo saggio proprio a chiarire e difendere la sua nozione di contenuto, e anzi ritiene che proprio il fatto che il riferimento degli indicali cambia a seconda del contesto d’uso abbia distolto gli studiosi dall’importanza del contenuto. Il contenuto diventa così il primo aspetto rilevante del significato, mentre al carattere è riservata minore attenzione. 4. Indicali puri: Riferimento diretto e contenuto Come scrive lo stesso Kaplan, il principale obiettivo del suo saggio non è dimostrare [quello che chiama il “principio 1” a p. 492, cioè] che il riferimento degli indicali dipende dal contesto d’uso (e che il riferimento dei dimostrativi veri dipende dal contesto d’uso insieme ad un atto ostensivo) perché ritiene che questo sia scontato e riconosciuto dalla maggior parte degli studiosi. Il principale obiettivo del saggio di Kaplan è difendere [quello che chiama “principio 2” a p. 492, cioè] che gli indicali e i dimostrativi sono direttamente referenziali. 4 La difesa di questo principio è divisa in due parti. Prima si preoccupa di difenderlo per gli indicali puri e poi per i dimostrativi. Noi seguiamo l’ordine del saggio di Kaplan e ci occupiamo quindi di comprendere che cosa significa che gli indicali puri sono direttamente referenziali e come Kaplan difende questa tesi. 4.1 Che cosa significa che un indicale è direttamente referenziale? Un’espressione è direttamente referenziale quando il suo riferimento, una volta determinato in un particolare contesto d’uso, è mantenuto fisso per ogni possibile circostanza di valutazione. O, per dirlo altrimenti, un’espressione direttamente referenziale è un’espressione le cui regole semantiche stabiliscono direttamente che il riferimento acquisito nel constesto contingente d’uso è mantenuto fisso per tutte le possibili circostanze di valutazione. Espressioni direttamente referenziali e designatori rigidi Kaplan ci spiega perché ha deciso di adottare il termine “direttamente referenziale” e non il termine “designatore rigido” (che pure aveva adottato in un primo momento) per caratterizzare la sua idea riguardo al riferimento degli indicali nelle diverse circostanze di valutazione. Il termine “designatore rigido” è stato introdotto da Kripke. Un’espressione linguistica è un designatore rigido quando si riferisce allo stesso oggetto in tutti i mondi possibili. Per Kaplan un’espressione linguistica è direttamente referenziale quando non solo ha lo stesso riferimento in tutti i mondi possibili, ma anche quando ha lo stesso riferimento in tutte le circostanze di valutazione nel mondo in cui è stato proferito (per esempio, in altri istanti, in altri luoghi, quando ci sono altre persone, quando non c’è alcun essere vivente, ecc.). Facciamo un esempio. Se io proferisco l’enunciato “Io sono una studentessa” attribuisco a me una proprietà (la proprietà di essere una studentessa). Di fatto ciò che asserisco nel contesto d’uso attuale è falso: attualmente questa proprietà non si applica più a me. Ma il contenuto dell’asserzione potrebbe essere vero: si potrebbe applicare a me se le cose fossero andate diversamente (ad esempio, se io avessi trovato una borsa di studio per continuare ad essere una studentessa), quindi il contenuto dell’asserto è vero in altri mondi possibili. Ma senza considerare altri mondi possibili, anche in questo mondo ci sono stati momenti nel passato in cui la proprietà di essere una studentessa si è applicata a me, e forse (chissà) ci saranno momenti nel futuro in cui questa proprietà si applicherà di nuovo a me. Quindi, quando valuto in diverse circostanze di valutazione ciò che ho asserito in un particolare contesto d’uso, non prendo in considerazione solo mondi possibili diversi da quello attuale, ma prendo in considerazione anche istanti di tempo diversi da quello presente nel mondo attuale. Per questa ragione si può capire perché Kaplan parla di espressioni “direttamente referenziali” e non di “designatori rigidi”. Il contenuto di un enunciato indicale E’ molto importante distinguere fra il contenuto di un indicale e il contenuto di un asserto in cui compare un indicale. Prendiamo ad esempio l’asserzione “Io sono una studentessa” fatta da me mentre scrivo questo testo. Il termine “io” è un indicale e il suo riferimento nel particolare contesto d’uso è proprio chi scrive (cioè Elisa Paganini) e tale riferimento rimane costante per ogni possibile circostanza di valutazione. Ma qual è il contenuto dell’enunciato “Io sono una studentessa” proferito da me? A questa domanda Kaplan fornisce due risposte diverse nel corso del saggio. La prima risposta è che il contenuto è una proposizione. I filosofi del linguaggio hanno idee molto diverse fra loro su che cosa sia una proposizione. Kaplan adotta una definizione che era stata proposta da Russell nei Principi della matematica (del 1903) e che poi era stata abbandonata da Russell già nel 1905. L’idea è che una proposizione è un insieme strutturato costituito da oggetti, proprietà e relazioni. Se riprendiamo la mia asserzione attuale di “io sono una studentessa”, il contenuto di tale asserzione è costituito da un oggetto (cioè da me, Elisa Paganini) e da una proprietà (la proprietà di essere una 5 studentessa). Possiamo rappresentare il contenuto di tale asserzione così: 〈Elisa Paganini, essere una studentessa〉. [Questa idea di contenuto ha delle chiare assonanze con l’idea di Perry per il quale il pensiero espresso da un enunciato indicale è costituito da oggetti e sensi incompleti]. Espressioni direttamente referenziali (indicali puri) e espressioni non direttamente referenziali (descrizioni definite) Un ultimo aspetto importante da tener presente è la differenza fra espressioni direttamente referenziali e espressioni non direttamente referenziali. Come abbiamo visto per Kaplan gli indicali sono espressioni direttamente referenziali, ma le descrizioni definite non lo sono. E’ utile fare un esempio per capire perché è così. Consideriamo la mia asserzione di “io sono una donna” e di “L’essere umano più alto è una donna”. In un’asserzione è presente un indicale e nell’altra all’indicale è sostituita una descrizione definita. Prendiamo in considerazione la mia asserzione “L’essere umano più alto è una donna”, supponiamo che ciò che ho asserito sia falso e che di fatto al momento attuale l’essere umano più alto sia un uomo. Ma le cose potrebbero andare diversamente, in altri mondi possibili potrebbe essere vero il contenuto di ciò che è asserito. Quello che noi facciamo è considerare altri mondi possibili in cui l’essere umano che soddisfa la proprietà di essere più alto di tutti gli altri è una donna. Quello che è importante osservare è che in questi casi, il riferimento della descrizione definita non rimane costante negli altri mondi possibili: non andiamo a considerare che cosa succede in altri possibili alla persona che nel nostro mondo e attualmente è più alta di tutti gli altri, prendiamo invece in considerazione l’essere umano che in ogni circostanza di valutazione soddisfa la proprietà di essere più alto di tutti gli altri. Non è neanche escluso che anche nel nostro mondo quello che ho asserito diventerà vero. Potrebbe darsi che nel futuro una donna sia più alta di qualsiasi altro essere umano e quindi il contenuto di ciò che ho asserito diventerebbe vero, ma ovviamente ancora una volta non stiamo prendendo in considerazione quello che capita all’essere umano che soddisfa nel momento di proferimento dell’enunciato la proprietà di essere più alto degli altri, ma prenderemmo in considerazione l’essere umano che soddisfa quella proprietà nella circostanza di valutazione futura. Ora qual è il contenuto della descrizione “l’essere umano più alto” per Kaplan? Il contenuto di tale descrizione non è un individuo, ma è un complesso costituito da vari attributi (l’attributo di essere umano, l’attributo di essere più alto degli altri) attraverso una composizione logica. E quindi il contenuto di una descrizione è diverso dal contenuto di un indicale che è un oggetto. Se consideriamo l’enunciato indicale “io sono una donna” proferito da me (cioè chi scrive), l’indicale “io” adotta come componente proposizionale la persona Elisa Paganini in tutte le circostanze di valutazione. Esempio 1: le descrizioni definite non sono direttamente referenziali Prima di concludere questa sezione può essere utile dare alcuni strumenti per riuscire a intendere un paio di esempi che fa Kaplan. Il primo esempio è costituito da una descrizione che pur essendo un designatore rigido (cioè, una descrizione che si riferisce allo stesso oggetto in tutti i mondi possibili) non è direttamente referenziale. La descrizione definita è la seguente: Il numero n tale che [(la neve è leggera ∧ n2=9) ∨ (¬la neve è leggera ∧ 22=n+1)] Un momento di riflessione fa comprendere che il numero n a cui si fa riferimento nella descrizione è 3 in tutti i mondi possibili e quindi la descrizione definita è un designatore rigido. Pensiamoci un attimo, nel mostro mondo è vero che la neve è leggera, ma in altri mondi possibili questo non è vero; comunque vadano le cose, in un qualunque mondo 6 possibile è vera la disgiunzione “la neve è leggera o la neve non è leggera” perché è vero almeno uno dei due disgiunti. Ora prendiamo in considerazione i mondi possibili in cui è vero che la neve è leggera e che n2=9, in questo caso n=3. Prendiamo ora in considerazione i mondi possibili in cui la neve non è leggera e in cui 22=n+1, anche in questo caso n=3. In tutti i mondi possibili quindi la descrizione definita si riferisce al numero 3 e la descrizione è pertanto un designatore rigido. Ma questa descrizione non è direttamente referenziale perché se prendiamo considerazione il contenuto o proposizione di un enunciato che la contiene, il componente proposizionale che corrisponde alla descrizione non sarà un oggetto ma un complesso costituito da vari attributi attraverso una composizione logica. Esempio 2: la componente proposizionale corrispondente a un indicale Il secondo esempio che utilizza Kaplan serve invece per far comprendere che la componente proposizionale che corrisponde a un indicale è un individuo e non un complesso costituito da vari attributi attraverso una composizione logica. L’esempio è l’asserzione del seguente enunciato (supponiamo che sia fatta da me): Io non esisto Ovviamente, per poter stabilire il riferimento del termine indicale c’è una regola legata al carattere dell’indicale stesso che stabilisce che per ogni contesto d’uso il termine si riferisce all’agente del contesto (per semplicità: chi parla o chi scrive). Ora è evidente a chiunque che nel momento in cui io asserisco “io non esisto”, il contenuto di ciò che ho asserito è falso. Ma il contenuto di ciò che ho asserito non è sempre stato falso, (ahimè) non sarà sempre falso e avrebbe potuto essere falso. Ciò che ho asserito è stato vero prima che nascessi, sarà vero dopo la mia morte ed è vero in alcuni mondi possibili: i mondi possibili in cui non esisto. Per poter valutare quello che ho asserito in altre circostanze di valutazione non devo considerare quello che è l’agente in quelle particolari circostanze (potrebbero essere anche circostanze in cui non c’è alcun essere vivente e quindi nessun agente), ma devo considerare che cosa succede in queste diverse circostanze a me (cioè a Elisa Paganini). 4.2 Perché accettare la tesi che gli indicali sono direttamente referenziali? Nei paragrafi precedenti ci siamo occupati di come Kaplan caratterizza la nozione di espressione direttamente referenziale e come questa si applichi agli indicali puri. Ci Occupiamo ora delle ragioni per le quali secondo Kaplan dobbiamo accettare che un indicale puro è direttamente referenziale. Per dimostrare che gli indicali sono direttamente referenziali Kaplan prende in considerazione quattro esempi che noi consideriamo qui di seguito. 1) Riprendiamo in considerazione l’asserzione dell’enunciato “io non esisto” e supponiamo che qualcuno voglia sostenere, contrariamente a quanto sostiene Kaplan, che per poter valutare il contenuto di una tale asserzione in diverse circostanze si debba prendere in considerazione di volta in volta il parlante in quella circostanza, assumendo che in quella circostanza ci sia un parlante. Se così fosse ciò che viene asserito con l’enunciato “io non esisto” dovrebbe essere falso in qualunque circostanza e dovrebbe invece essere vera l’asserzione seguente: E’ impossibile che io non esista E’ ovviamente falso che sia impossibile che io non esista. La mia esistenza è contingente come quella di chiunque altro e quindi è certamente possibile che io non esista. Pertanto per poter rendere conto della falsità di una qualunque asserzione di “E’ impossibile che io non esista” 7 dobbiamo accettare che il contenuto dell’indicale “io” è stabilito sulla base del contesto d’uso, e -­‐una volta stabilito-­‐ rimane costante nelle diverse circostanze di valutazione. 2) Consideriamo il seguente enunciato: Vorrei che ora io non stessi parlando Ovviamente, quello che vuole chi fa questa asserzione non è una circostanza in cui c’è un agente che non sta parlando. Per stabilire quello che il parlante vuole, dobbiamo stabilire sulla base del contesto d’uso l’individuo rilevante (io) e il momento temporale (ora) e poi considerare le diverse circostanze di valutazione rispetto a quell’individuo e a quel momento di tempo. 3) Consideriamo ora il seguente enunciato: Accadrà presto che tutto ciò che è ora bello sia svanito Per poter valutare quello che è asserito dobbiamo considerare ad un momento futuro t1 il valore di verità di ciò che è detto nell’enunciato subordinato Tutto ciò che è ora bello è svanito Qual è il tempo rilevante associato alla parola “ora”? L’istante futuro t1 in cui valutiamo l’enunciato subordinato? o l’istante presente t0 che corrisponde al momento che caratterizza il contesto d’uso dell’asserto? E’ evidente che il momento rilevante è quello che contraddistingue il contesto d’uso. 4) Il quarto esempio è per certi versi simile al terzo esempio, ma per certi versi è un po’ più difficile. Consideriamo come funzionano gli indicali nel contesto d’uso del seguente enunciato: E’ possibile che in Pakistan, fra cinque anni, solo chi è in questo mondo qui e ora sarà invidiato Gli indicali rilevanti in questo caso sono “in questo mondo”, “qui” e “ora”. E il riferimento di questi indicali è evidentemente stabilito dal contesto d’uso e una volta stabilito dal contesto d’uso rimane costante nella circostanza di valutazione che viene proposto dall’operatore “è possibile che in Pakistan fra cinque anni”. Fino a qui questo esempio è sostanzialmente simile a quello precedente. Quello che distingue questo esempio dal precedente è che viene presa in considerazione una possibile obiezione: l’obiezione che gli indicali abbiano un ambito primario. Così come Russell aveva distinto fra ambito primario e ambito secondario delle descrizioni definite rispetto alla negazione, così si può pensare che gli indicali abbiano sempre ambito primario rispetto a operatori che caratterizzano le circostanze di valutazione. In questo caso gli operatori che caratterizzano le circostanze di valutazione sono espressi in “è possibile che in Pakistan fra cinque anni”. L’obiezione è che il contenuto dell’enunciato precedente sia equivalente a (si tenga presente che ◊ va letto “è possibile che”) ∃w∃l∃t(w=il nostro mondo ∧ l=qui ∧ t=ora ∧ ◊ in Pakistan fra cinque anni ∀x(x è invidiato → x è collocato nel luogo l al tempo t nel mondo w) Il problema di questa obiezione non è che è sbagliata o che fornisce una lettura falsa dell’enunciato. Il problema di questa obiezione è che non fornisce un modo per stabilire il riferimento degli indicali “in questo mondo”, “qui” e “ora” che compaiono nell’analisi. Non è 8 quindi un’analisi che possa fare a meno dell’ipotesi che gli indicali siano direttamente referenziali. 5. Gli indicali puri: contenuto e carattere Kaplan precisa più volte che gli indicali sono direttamente referenziali e quindi che l’oggetto a cui si riferiscono è, una volta stabilito sulla base del contesto d’uso, lo stesso in tutte le circostanze di valutazione. Affermando ciò, non vuole negare una natura parzialmente descrittiva al significato degli indicali. Il significato degli indicali ha una natura parzialmente descrittiva, ma questa natura parzialmente descrittiva concerne il carattere e non il contenuto. Quindi, ricapitolando, per Kaplan: (T1) il significato descrittivo di un indicale puro determina il riferimento dell’indicale rispetto a un contesto d’uso, ma è o inapplicabile o irrilevante per determinare un riferimento rispetto a una circostanza di valutazione (T2) quando ciò che è detto usando un indicale puro in un contesto c deve essere valutato rispetto a una circostanza arbitraria, l’oggetto rilevante è sempre il riferimento dell’indicale rispetto al contesto c. 5.1 Il contenuto degli indicali puri Il contenuto di ciò che è detto utilizzando un enunciato che contiene degli indicali può variare da contesto d’uso a contesto d’uso. Ad esempio il contenuto del proferimento di “Io sono stato offeso ieri” cambia se lo pronuncio io nel giorno in cui scrivo o se lo pronuncia il lettore nel giorno in cui legge queste righe. Ma il contenuto di asserzioni diverse può essere identico. Si consideri ad esempio un proferimento ai tempi di Luigi XIV dell’enunciato “L’attuale re di Francia è calvo”, il contenuto di questo proferimento è lo stesso del contenuto di un proferimento odierno di “Il re di Francia di 350 anni fa’ è calvo”. Questo esempio è utile per capire che in questo caso per Kaplan non abbiamo a che fare con enunciati che contengono semplici descrizioni definite, ma abbiamo a che fare con enunciati che contengono termini indicali. “L’attuale re di Francia” è un’espressione indicale perché contiene l’indicale “attuale” e una volta proferito in un particolare contesto assume come contenuto un oggetto (cioè, una persona); questa espressione indicale si riferisce nel contesto d’uso precedentemente delineato allo stesso oggetto (o persona) a cui si riferisce l’espressione indicale “Il re di Francia di 350 anni fa’” proferito al giorno d’oggi. Oppure prendiamo in considerazione il contenuto della parola “oggi” proferito nel momento presente e il contenuto della parola “ieri” proferito il giorno dopo, in questo caso il rispettivo contesto d’uso dei due indicali gli fa assumere lo stesso contenuto. E sono questi contenuti che sono valutati nelle diverse circostanze di valutazione. 5.1.1 Il contenuto di un enunciato è una funzione da circostanze di valutazione a estensioni Nei paragrafi precedenti, abbiamo visto che per Kaplan il contenuto di un enunciato in un contesto d’uso è un insieme strutturato costituito da oggetti, proprietà e relazioni (un’idea ripresa da Russell). Tuttavia questa idea non trova un riscontro diretto nella sua trattazione formale degli indicali, dove il contenuto di un enunciato è invece trattato come una funzione. Cerchiamo innanzitutto di capire come Kaplan presenti questa idea e poi quali sono le difficoltà ad essa associata. Il contenuto di un’espressione è ciò che si sottopone alle circostanze di valutazione e il risultato della valutazione sarà l’estensione dell’espressione. Facciamo alcuni esempi: 9 -­‐
il contenuto di un enunciato proferito in un contesto d’uso è una proposizione e una volta che la proposizione è sottoposta a una circostanza di valutazione il risultato si otterrà un valore di verità che è l’estensione dell’enunciato -­‐ il contenuto di un predicato n-­‐ario è una proprietà o relazione e il risultato di applicare tale contenuto a una circostanza valutazione è un insieme di n-­‐uple di individui che è l’estensione del predicato -­‐ il contenuto di un termine singolare è un oggetto (nel caso degli indicali ad esempio) o un complesso di proprietà (nel caso delle descrizioni definite) e il risultato di sottoporre tali contenuti a una valutazione è un oggetto (o persona) che è l’estensione del termine singolare Si può parlare di contenuto da una parte e di ciò che succede a tale contenuto quando è sottoposto a valutazione in una certa circostanza dall’altra parte. Ma si può anche ritenere che il contenuto da solo, in quanto tale, non riesca a stabilire un’estensione, e abbia pertanto una natura insatura che può essere saturata solo da una circostanza di valutazione. L’idea di Kaplan è quindi che noi possiamo assimilare il contenuto di una qualunque espressione a una funzione che, applicata a circostanze di valutazione, assume come valore un’estensione appropriata per quell’espressione. Questo tipo di funzione è chiamato da Carnap “intensione” (da tener distinta da “intenzione” con la “z”). Per riuscire a intendere quest’idea è utile comprendere che per Kaplan vale una sorta di principio di composizionalità per i contenuti, analogo al principio di composizionalità che caratterizzava senso e significato per Frege. Per Kaplan (F2) Il contenuto del tutto (di un intero enunciato in un contesto d’uso) è funzione del contenuto delle sue parti. (vedi p. 507) E quindi se il contenuto di un enunciato in un contesto d’uso è una funzione da circostanze di valutazione a estensioni, devono essere funzioni così caratterizzate anche i contenuti dei predicati e dei termini singolari che compongono l’enunciato proferito nel contesto d’uso. Il contenuto di un indicale è quindi da ritenersi una funzione da circostanze di valutazione a oggetti. Per di più, dal momento che il contenuto di un indicale non varia nelle diverse circostanze di valutazione, la funzione che corrisponde al contenuto di un indicale è una funzione costante, cioè una funzione che assume lo stesso valore (o la stessa estensione) per qualunque circostanza di valutazione. Nel caso degli indicali, la funzione che corrisponde al contenuto, assumerà come valore lo stesso oggetto per tutte le circostanze di valutazione. Mentre per altri termini singolari, come ad esempio le descrizioni definite, la funzione che corrisponde all’intensione non è costante: la funzione assumerà come valore oggetti diversi nelle diverse circostanze di valutazione. Contenuto di enunciati: funzioni o insiemi di oggetti, proprietà e relazioni? Sebbene ci siano buone ragioni per ritenere che il contenuto di un enunciato in un contesto sia una funzione, è bene tener presente che caratterizzare il contenuto di un enunciato come un insieme strutturato di oggetti, proprietà e relazioni è diverso dal trattare tale contenuto come una funzione da circostanze di valutazione a estensioni. Per rendersene conto si prendano in considerazione i due seguenti enunciati proferiti nel medesimo contesto: A) “Oggi piove” B) “Oggi piove e Giorgio Napolitano è stato o non è stato Presidente della Repubblica Italiana” 10 Se noi riteniamo che il contenuto di questi due enunciati in un particolare contesto d’uso sia una funzione da circostanze di valutazione a estensioni, ci rendiamo conto che i due enunciati hanno lo stesso contenuto. Tuttavia se riteniamo che il contenuto di tali enunciati sia un insieme strutturato di oggetti, proprietà e relazioni, ci rendiamo conto che i due enunciati non hanno lo stesso contenuto: il contenuto dell’enunciato B include (fra l’altro) la proprietà “essere stato Presidente della Repubblica Italiana” che il contenuto dell’enunciato A non include. 5.1.2 Gli operatori intensionali e l’ecceitismo Può essere utile completare questo paragrafo sul contenuto degli indicali puri con due osservazioni che possono aiutare il lettore a comprendere il corrispondente paragrafo di Kapkan (cioè il paragrafo IV.(i)) sul contenuto degli indicali puri. Gli operatori intensionali La prima osservazione riguarda i cosiddetti operatori intensionali. Gli operatori intensionali descrivono le possibili circostanze di valutazione e possono comparire negli stessi enunciati, sono espressioni come “è possibile che”, “è necessario che”, “quarant’anni fa’ era vero che”, “si darà il caso fra due secoli che”, “A due chilometri da qui”, ecc. Questi operatori si applicano al contenuto degli enunciati a essi subordinati. Ad esempio se io scrivo “E’ possibile che io non esista”, l’operatore intensionale “è possibile che” si applica al contenuto dell’asserto “io non esisto” e per valutare il valore di verità di “E’ possibile che io non esista” si devono prendere in considerazioni mondi possibili diversi dal nostro; dal momento che ci sono mondi possibili in cui è vero che io non esisto, l’enunciato è vero. Se invece dico “Si darà il caso nel futuro che io non esista”, le circostanze di valutazione riguardano momenti futuri rispetto a quello attuale. E ancora una volta l’enunciato è vero (ahimè) perché ci saranno circostanze di valutazione nel futuro in cui sarà vero che io non esisto. E’ importante tener presente che gli operatori intensionali non sono sempre efficaci, in alcuni casi sono ridondanti. Prendiamo ad esempio l’asserto “io ora sto scrivendo” se applichiamo a questo asserto un operatore intensionale di tempo, ad esempio “fra due ore si darà il caso che”, si ottiene l’asserto “Fra due ore si darà il caso che io ora sto scrivendo”, ma vediamo che l’operatore temporale “Fra due ore si darà il caso che” è ridondante, la funzione corrispondente al contenuto dell’enunciato “io ora sto scrivendo” è la stessa di quella che caratterizza il contenuto di “Fra due ore si darà il caso che io ora sto scrivendo”. L’operatore intensionale “Fra due ore si darà il caso che” è efficace solo se applicato asserti che sono temporalmente neutri come ad esempio “io scrivo”, infatti diventa “Fra due ore si darà il caso che io scriva” ed è evidente che si può dare il caso che i due asserti abbiano valori di verità diversi anche se proferiti nello stesso contesto d’uso. Ci sono enunciati che per Kaplan hanno contenuti perfetti perché il loro proferimento in un contesto d’uso satura ogni indice che caratterizza le circostanze di valutazione e che quindi rendono ridondanti gli operatori intensionali. Un esempio di enunciato che ha un contenuto perfetto in un qualunque contesto di proferimento è “io ora sto scrivendo in questo mondo”. Un altro asserto che è perfetto è “Elisa Paganini sta scrivendo il 26 gennaio 2015 alle ore 12 nella sua casa di Milano nel mondo w”. E’ importante notare che per Kaplan le proposizioni espresse dagli enunciati nei loro contesti d’uso non sono sempre eterne (sono eterne se gli enunciati che le originano contengono un indicale di tempo o se contengono un’indicazione temporale precisa) e non sono sempre perfette (sono perfette se specificano il tempo e il mondo in cui devono essere valutate). Le proposizioni perfette rendono gli operatori intensionali superflui e quindi la funzione che corrisponde al contenuto di una proposizione perfetta sarà una 11 funzione costante da circostanze di valutazione a un ben preciso valore di verità. Il fatto che per Kaplan le proposizioni non sono sempre eterne lo distingue da molti altri filosofi del linguaggio per i quali le proposizioni sono sempre eterne. L’ecceitismo Per comprendere la posizione filosofica di Kaplan è importante notare che si impegna alla dottrina filosofica dell’ecceitismo [dal latino medievale “Haecceitas” che a sua volta trae origine dall’aggettivo femminile singolare “haec” che significa “questa”] cioè la dottrina che ogni oggetto (sia esso persona o cosa) ha un’essenza individuale che lo distingue da tutti gli altri. Questa dottrina (le cui origini risalgono al filosofo medievale Duns Scoto) è inevitabile per Kaplan, egli infatti sostiene che un indicale si riferisce allo stesso oggetto in tutte le circostanze di valutazione e perché sia possibile assumere che ci possa essere uno stesso oggetto in diverse circostanze di valutazione occorre assumere che l’oggetto abbia un’essenza individuale che lo differenzia da tutti gli altri oggetti in ciascuna circostanza di valutazione. Una conseguenza inevitabile di questa dottrina (conseguenza su cui Kaplan nutre delle perplessità) è che si possono dare mondi possibili qualitativamente indistinguibili (cioè mondi che non potremmo distinguere in alcun modo) ma in cui certi oggetti sono scambiati fra loro. Il lettore può pensare a un mondo alternativo in cui il lettore ha tutte le mie proprietà percepibili e io ho tutte le sue proprietà percepibili, quindi un mondo che sarebbe indistinguibile dal mondo attuale ma in cui ci sarebbe una differenza: io e il lettore ci siamo scambiati fra noi. 5.2 Il carattere degli indicali puri Come ho già avuto modo di scrivere, il carattere ha un ruolo secondario nella riflessione di Kaplan sebbene assuma un’importanza fondamentale nel caso degli indicali. Il carattere è ciò che determina il contenuto di un’espressione nei vari contesti d’uso. Il carattere può essere definito come un insieme di convenzioni linguistiche che determina il contenuto dell’espressione per ogni contesto. Il carattere dell’indicale “io” ad esempio è una regola del tipo “io” si riferisce al parlante o allo scrittore Il carattere è quella dimensione del significato che conosce chiunque sia competente in una lingua perché è connesso alla dimensione convenzionale del linguaggio. Pensiamo ad esempio che qualcuno entri in una classe e legga alla lavagna le seguenti parole “io sono felice”. Una persona competente in italiano capisce il carattere di quello che è scritto, non conoscendo però il contesto d’uso (cioè chi ha scritto quelle parole) non è in grado di coglierne il contenuto. Così come il contenuto di una qualunque espressione linguistica è caratterizzato da Kaplan come una funzione da circostanze di valutazione a estensioni, il carattere di una qualunque espressione è caratterizzata come una funzione da possibili contesti d’uso a contenuti. Gli indicali sono espressioni che hanno una carattere variabile in base al contesto [context-­‐sensitive], le descrizioni definite e i nomi hanno invece un carattere costante. Cioè la funzione che corrisponde al loro carattere assume lo stesso valore per ogni contesto d’uso. E’ importante notare che il principio di composizionalità contraddistingue anche il carattere di un enunciato (si veda p. 507): (F2) Il carattere del tutto è una funzione del carattere delle parti. Se due espressioni ben formate si distinguono solo per aspetti che sono compatibili con l’avere lo stesso carattere, il carattere delle espressioni è lo stesso. 12 RICAPITOLIAMO -­‐ Il carattere di una qualsiasi espressione è una funzione da contesti d’uso a contenuti -­‐ Il contenuto di una qualsiasi espressione in un contesto d’uso è una funzione da circostanze di valutazione a estensioni 6. Perché la teoria di Kaplan è migliore rispetto alla teoria dell’indice Si potrebbe ritenere che la distinzione di Kaplan fra carattere e contenuto sia superflua. Si potrebbe ritenere che il significato di un indicale sia semplicemente una funzione da contesti d’uso a estensioni e che il significato delle altre espressioni sia una funzione da circostanze di valutazione a estensioni. Si potrebbe quindi pensare che l’intensione di un’espressione sia una funzione da fattori di un qualche tipo (siano essi contesti o circostanze) a estensioni. Questo è quello che hanno di fatto pensato i primi studiosi che si sono occupati di indicali. Ma come si dovevano caratterizzare questi fattori di un qualche tipo a cui si dovrebbe applicare la funzione “intensione”? Storicamente si è sviluppata la nozione di “indice” e l’idea è che l’estensione di un’espressione è determinata sulla base dell’indice a cui è applicata. Ma che cos’è un indice? Un indice è un insieme di molte coordinate che possono variare indipendentemente le une dalle altre. Un indice contiene le seguenti coordinate: un mondo w, un tempo t, un luogo l, un agente a e così via. E quindi, in base a questa idea, la funzione intensione si applica a un indice e ottiene come valore un’estensione. Questa caratterizzazione dell’intensione diventa problematica quando si riflette sulla nozione di verità logica. La verità logica Occorre innanzitutto considerare come è stata storicamente caratterizzata la nozione di verità logica. In base alla definizione di Quine, un enunciato è una verità logica quando è vero per qualunque sostituzione uniforme delle espressioni che non sono costanti logiche. Con una certa approssimazione, possiamo pensare alle costanti logiche come a quelle espressioni del linguaggio che corrispondono ai connettivi logici o ai quantificatori. Cerchiamo ora di capire che cos’è una verità logica. Ad esempio, “Piove o non piove” è una verità logica perché è vera per qualunque sostituzione uniforme delle espressioni che non sono costanti logiche. Ad esempio se sostituiamo “piove” con “nevica” otteniamo “nevica o non nevica” che è altrettanto vero, se sostituiamo “piove” con “Elisa Paganini è felice” otteniamo un enunciato che è altrettanto vero. Un altro esempio di verità logica è “Chiunque è simpatico è simpatico”, infatti per qualunque sostituzione dell’espressione “simpatico” otteniamo un enunciato altrettanto vero. L’idea di verità logica è connessa all’idea di verità a priori: una verità logica si può riconoscere indipendentemente dall’esperienza del mondo esterno, ma riflettendo semplicemente sul significato delle costanti logiche. La verità logica e gli indici: prima definizione Si può ritenere che (D1) un enunciato sia una verità logica se è vero in ogni indice (cioè per ogni possibile variante delle sue coordinate: mondo, tempo, luogo, agente, ecc.). L’ipotesi è la seguente: dal momento che una verità logica è un asserto la cui verità non dipende da ciò che accade nel mondo, allora un enunciato che è una verità logica sarà vero per tutti gli indici, non solo in tutti mondi possibili, ma anche in qualunque tempo in qualunque luogo e per qualunque agente di questi mondi possibili. 13 Tuttavia questa definizione di verità logica ha conseguenze disastrose se applicata ad alcuni enunciati indicali. Consideriamo l’enunciato (6) Io sono qui ora questo enunciato non è ovviamente una verità logica in base alla precedente definizione. Ci sono ovviamente mondi possibili (o tempi e luoghi diversi da quelli di proferimento) in cui ciò che è asserito è falso. L’enunciato (6) è in un certo senso equivalente all’enunciato (7) Elisa Paganini è a Milano il 25 gennaio 2015 che è vero per certi parametri dell’indice e falso per altri. In questo modo si è perso qualcosa di fondamentale nella nostra comprensione dei due enunciati. Il primo non può mai essere proferito per dire qualcosa di falso, mentre il secondo può chiaramente essere proferito dicendo qualcosa di falso. L’idea è cioè che è riconoscibile a priori che qualunque proferimento di (6) è vero, in qualunque mondo possibile, chiunque sia l’agente e il luogo e il tempo in cui si trova l’agente. E chiaramente non si può dire la stessa cosa di (7). L’enunciato (6) ha pertanto qualcosa in comune con quelle che sono comunemente ritenute verità logiche, mentre (7) non ce l’ha. Le verità logica e gli indici: seconda definizione Per risolvere il problema si è pensato di distinguere fra indici propri e indici impropri. Gli indici propri sono i mondi possibili in cui l’agente contraddistinto dal parametro a in quel mondo è nel luogo contraddistinto dal parametro l e nel tempo contraddistinto dal parametro t. Gli indici impropri sono i mondi possibili in cui o non ci sono agenti o l’agente contraddistinto dal parametro a non si trova nel luogo contraddistinto dal parametro l o non è nel momento contraddistinto dal parametro t. Se si caratterizzano in questo modo gli indici propri e se si definisce la verità logica nel modo seguente: (D2) un enunciato è una verità logica se è vero in tutti gli indici propri, allora l’enunciato (6) risulta essere una verità logica. Questo sembra risolvere il problema. Tuttavia il problema si ripresenta quando consideriamo enunciati che contengono operatori modali (cioè operatori come “è necessario che” o “è possibile che”). Vediamo innanzitutto come vengono trattati questi operatori quando si considerano le verità logiche. Si ritiene comunemente che un enunciato della forma ☐φ (“☐φ” si legge “necessariamente φ”) è vero ad un indice se φ è vero in tutti gli indici. E si ritiene inoltre che (D3) se φ è una verità logica (cioè ⏐ =φ ) allora “necessariamente φ ” è una verità logica (cioè ⏐ =☐ φ ). Poiché abbiamo detto che un enunciato è una verità logica se è vero in tutti gli indici propri, si può ritenere che ☐φ (“☐φ” si legge “necessariamente φ”) è una verità logica se φ è vero in tutti gli indici propri. Vediamo come questa definizione diventa problematica se consideriamo un enunciato modale come il seguente: (8) ☐ io sono qui ora Il problema è che (8) è un asserto palesemente falso chiunque lo asserisca e tuttavia risulta
essere una verità logica in base alla definizione precedente (D3). Giacché (6) è vero in ogni
indice proprio ed è una verità logica, anche (8) deve essere considerata una verità logica (in base
a (D3)). Tuttavia, come abbiamo già osservato, sebbene (6) sia vero ogniqualvolta è proferito da
qualcuno, (8) non lo è mai, per qualunque parlante non è affatto necessario che si trovi in un
14 particolare luogo al momento di proferimento dell’enunciato, pertanto (8) non solo non è una
verità logica, ma è palesemente falsa in ogni contesto di proferimento.
La verità logica e gli indici: la definizione risolutiva secondo Kaplan
La soluzione a questo problema (avanzata dalla prima volta da Kamp per l’indicale “ora” nel
1967) è stata quella di introdurre un sistema di doppia indicizzazione: non ci sono solo gli indici
propri (quei mondi possibili in cui l’agente a in quel mondo è nel luogo l al tempo t) ma anche
gli indici impropri (cioè tutti gli altri indici). Le definizioni proposte sono quindi le seguenti:
(1) un enunciato senza operatori modali (cioè senza “è necessario che” o “è possibile che”) è
una verità logica se è vero per tutti gli indici propri.
(2) un enunciato che contiene un operatore modale (come “è necessario che” o “è possibile
che”) è una verità logica se è vero in tutti gli indici (sia quelli propri che quelli impropri).
Un enunciato modale è una verità logica se è vero in tutti gli indici, mentre un enunciato che
non contiene un operatore modale è una verità logica se è vero in tutti gli indici propri.
L’idea della doppia indicizzazione è ripresa da Kaplan che chiama gli indici propri contesti
d’uso e tutti gli indici (in generale) circostanze di valutazione. Secondo Kaplan, la distinzione
fra contesti d’uso e circostanze di valutazione ha il pregio di caratterizzare meglio la differenza
fra i due indici e far comprendere la loro funzione.
E’ bene tener presente una conseguenza importante di questa nuova definizione kaplaniana di
verità logica. Sono verità logiche tutti quegli enunciati che tradizionalmente vengono
considerate verità logiche, ma fanno parte delle verità logiche anche altri enunciati che
storicamente non venivano considerati tali come: “Io sono qui ora” e “Io esisto”. La ragione
della loro inclusione fra le verità logiche è da ritrovarsi nel fatto che la loro verità può essere
riconosciuta a priori, indipendentemente dall’esperienza del mondo, e per chiunque li
proferisca. Noi sappiamo che chiunque proferisca uno di questi enunciati dice qualcosa di vero,
chiunque sia, dovunque si trovi e in qualunque momento lo proferisca. Se si accetta la
definizione di Kaplan, allora non tutte le verità logiche sono verità necessarie.
7. Mostri generati dall’eleganza
Come abbiamo visto, l’obiettivo principale del saggio di Kaplan è dimostrare che gli indicali
sono direttamente referenziali, cioè che il loro riferimento è determinato dal contesto d’uso e
non cambia al variare delle circostanze di valutazione. Una conseguenza di questa assunzione è
che ogni operatore intensionale (cioè ogni operatore che caratterizza le circostanze di
valutazione) non può in alcun modo agire sul carattere degli indicali. Un operatore che tenta di
fare una cosa del genere è chiamato da Kaplan “mostro”.
In molti casi, questa assunzione sembra ragionevole. Prendiamo ad esempio l’enunciato:
(a) Necessariamente io sono qui ora
In questo caso “Necessariamente” è un operatore intensionale che ci dice di prendere in
considerazione come circostanze di valutazione ciascuno dei mondi possibili e tale operatore
non agisce sul carattere degli indicali “io”, “qui” e “ora”; il loro carattere dipende unicamente
dal contesto d’uso.
Consideriamo ora:
(b) Fra due giorni sarà vero che io sono qui ora
15 In questo caso, l’operatore intensionale “Fra due giorni sarà vero che” si applica al contenuto
dell’enunciato indicale subordinato; e il contenuto è stabilito unicamente sulla base del contesto
d’uso.
Ora, ciò che Kaplan vuole escludere è che ci sia un operatore che riesce a operare sui contesti
d’uso per stabilire il valore di verità di un enunciato. Si consideri il seguente enunciato:
(c) In qualche contesto è vero che io non sono stanca ora
In questo caso, con l’operatore “in qualche contesto è vero che” si cerca di trattare i contesti d’uso come circostanze di valutazione e ci si aspetta che il riferimento degli indicali “io” e “ora” non sia fissato una volta per tutte dal contesto d’uso, ma che vari a seconda dei diversi contesti d’uso della subordinata “io non sono stanca ora”. Tuttavia, sottolinea Kaplan, questo operatore non esiste in inglese (e possiamo osservare che non esiste neanche in italiano). Per poter parlare dei diversi contesti d’uso di un enunciato non possiamo usare l’enunciato stesso, ma lo possiamo solo menzionare. Cioè per poter dire che il contenuto dell’enunciato subordinato in (c) varia da contesto a contesto, dobbiamo menzionarlo nel modo seguente: (d) In qualche contesto “io non sono stanca ora” è vero Se confrontiamo (c) e (d), notiamo che la differenza sta nell’uso delle virgolette nell’uno e non nell’altro caso. Per comprendere la differenza fra uso e menzione, possiamo fare un altro esempio. Nel seguente enunciato il nome “Maria” è menzionato: (e) “Maria” è un nome italiano nell’enunciato seguente il nome “Maria” è usato: (f) Maria è la ragazza di Luca La differenza è che nel primo caso parliamo del nome (e quindi menzioniamo il nome), nel secondo caso usiamo il nome per riferirci a una particolare persona (e quindi usiamo il nome). La stessa differenza fra uso e menzione si può ritrovare nei casi (c) e (d). Nel primo caso l’enunciato “io non sono stanca ora” è usato, nel secondo caso è menzionato. Kaplan ritiene che nessun operatore intensionale possa agire sul carattere di un enunciato subordinato che contiene indicali, ma ci sono operatori intensionali che possono ragionevolmente applicarsi a enunciati menzionati e fare appello al fatto che il loro contenuto varia in contesti d’uso diversi (come avviene in (d)). Kaplan chiama “mostri” gli operatori che pretendono di applicarsi a contenuti di enunciati indicali diversi da quelli individuati dal contesto d’uso e secondo Kaplan i mostri non esistono. Secondo Kaplan, i mostri sono generati dall’eleganza perché in letteratura si tratta il contesto d’uso e le circostanze di valutazione nello stesso modo (cioè, come indici) e quindi non ci sono impedimenti formali a considerare certi operatori come mostri. Sulla possibilità che ci siano mostri kaplaniani c’è un’ampia letteratura e la maggior parte degli studiosi tende a ritenere che i mostri kaplaniani di fatto esistano, contrariamente a quello che scrive lo stesso Kaplan. Kaplan stesso fornisce un esempio in cui un operatore si comporta intuitivamente come un mostro. L’esempio gli è stato suggerito da Thomason ed è il seguente: 16 (g) Mai rimandare a domani quello che si può fare oggi Qui l’operatore intensionale “mai” è applicato a un enunciato subordinato che contiene indicali, cioè “rimandare a domani ciò che si può fare oggi”. Supponaimo che la teoria di Kaplan sia corretta e che l’enunciato sia proferito il 29 gennaio 2015, in tal caso il contenuto dell’enunciato (g) è equivalente a quello di “Mai rimandare al 30 gennaio 2015 quello che si può fare il 29 gennaio 2015”. Ma questa interpretazione non sembra corretta. 8. I veri dimostrativi: presentazione di un problema I veri dimostrativi sono gli indicali il cui contenuto dipende non solo dal loro significato convenzionale ma anche da un gesto dimostrativo (o ostensivo) in un particolare contesto d’uso. Supponiamo ad esempio che io indichi il rettore dell’università di Milano e dica: 1) Lui ora vive a Milano In questo caso, sono riuscita a riferirmi ad una persona con il mio dimostrativo puro e a dire qualcosa di vero. Immaginiamo ora una circostanza alternativa, io mi comporto come di fatto mi sono comportata, ma indico il rettore dell’università di Macerata. In questo caso, la mia asserzione è diversa e ciò che distingue le due asserzioni non è il significato convenzionale che associamo alla parola “lui”, la differenza non è neanche nel mio gesto, ma la differenza è nell’oggetto o persona a cui mi riferisco nei due contesti d’uso: in un caso indico il rettore di Milano e nell’altro indico il rettore di Macerata. In questi esempi possiamo distinguere fra il significato convenzionale associato a un dimostrativo come “lui” e il gesto ostensivo (o dimostrativo) che lo accompagna da una parte e l’oggetto dimostrato nel particolare contesto d’uso (il demonstratum, in latino) dall’altra. Questa distinzione può creare erroneamente l’aspettativa che la teoria di Kaplan sui dimostrativi puri sia una teoria di tipo freghiano, mentre Kaplan ritiene che la sua teoria non sia freghiana. 9. La teoria freghiana dei veri dimostrativi 9.1 La teoria semantica alla Frege Com’è noto, per Frege le descrizioni definite sono il paradigma delle espressioni significanti, le descrizioni definite denotano un oggetto se e solo se quest’oggetto è l’unico a soddisfare una condizione s specificata dalla descrizione stessa. L’oggetto denotato è chiamato il significato della descrizione, mentre la condizione s corrisponde al senso della descrizione definita ed è ciò che permette di stabilire la denotazione della descrizione stessa. Si può pensare di poter stabilire un’analogia fra il trattamento freghiano delle descrizioni definite e il trattamento kaplaniano dei veri dimostrativi. Nel caso dei veri dimostrativi, la denotazione (o significato) è il demonstratum, mentre il senso corrisponde all’atto dimostrativo che accompagna il proferimento del vero dimostrativo e che corrisponde al modo di presentazione di ciò che è dimostrato. Come vedremo, questa idea è sbagliata secondo Kaplan. 9.2 L’informatività di alcuni enunciati di identità per Frege Questa analogia fra descrizioni definite e veri dimostrativi permetterebbe di risolvere il puzzle di Frege riguardo all’informatività di certi enunciati di identità. Se noi indichiamo la nave che vediamo da una finestra di una stanza e poi indichiamo la nave che vediamo da 17 un’altra finestra della stessa stanza e diciamo “questa [indicando la nave che si vede dalla prima finestra] è identica a questa [indicando la nave che si vede dalla seconda finestra]”, otteniamo un enunciato che è informativo e possiamo ritenere che l’informatività dipenda dal diverso gesto dimostrativo (o ostensivo) che accompagna i due dimostrativi veri. Allo stesso modo se indichiamo il pianeta Venere al mattino e poi il pianeta Venere la sera e diciamo “Questo [indicando Venere al mattino] è identico a questo [indicando Venere alla sera]” (dicendolo molto lentamente) otteniamo un enunciato informativo e l’informatività dovrebbe dipendere dal diverso gesto ostensivo che accompagna i due proferimenti di “questo”. 10. La teoria di Kaplan non è una teoria freghiana 10.1 La teoria semantica di Kaplan non è freghiana Per renderci conto che la teoria di Kaplan non è una teoria freghiana delle descrizioni è utile fare un esempio. Consideriamo la descrizione definita “Il corpo celeste più luminoso visibile al mattino”, a questa descrizione corrisponde un modo di presentazione dell’oggetto denotato e questa descrizione denota nel nostro mondo il pianeta Venere, ma in altri mondi possibili può denotare pianeti diversi, ad esempio potrebbe denotare il pianeta Marte in un altro mondo possibile. Se prendiamo in considerazione il contenuto di un qualunque enunciato che contiene la descrizione definita, come ad esempio “Il corpo celeste più luminoso visibile al mattino è Venere”, il contenuto della descrizione è un complesso di proprietà e la denotazione della descrizione varia in diverse circostanze di valutazione. Consideriamo ora il dimostrativo puro “questo” proferito una mattina nel nostro mondo indicando il pianeta Venere. Se noi adottassimo una prospettiva freghiana, questo dimostrativo sarebbe un segnaposto a cui è associato un atto ostensivo che accompagna la parola “questo” e che denota in questo mondo il pianeta Venere e in altri mondi possibili altri pianeti. Il contenuto di questa espressione sarebbe pertanto costituito (i) dal significato convenzionale associato alla parola “questo” e (ii) dal gesto dimostrativo che accompagna un particolare proferimento; e a questo contenuto dovrebbero corrispondere oggetti diversi in mondi possibili diversi. Tuttavia questa descrizione del contenuto di un vero dimostrativo è inaccettabile per Kaplan. Per Kaplan, il contenuto di un vero dimostrativo è stabilito dal suo carattere in un particolare contesto d’uso, cioè (i) dal significato convenzionale del dimostrativo “questo”, (ii) dal gesto ostensivo che lo accompagna e (iii) dal particolare contesto d’uso in cui è proferito (e in particolare dall’oggetto dimostrato nel particolare contesto d’uso). Il contenuto di questa espressione in un contesto d’uso non è pertanto costituito dal gesto ostensivo che accompagna il proferimento del dimostrativo “questo”, ma è costituito dall’oggetto dimostrato (cioè dal demonstratum) in un particolare contesto d’uso e tale oggetto rimane costante per tutte le circostanze di valutazione. Ricapitoliamo. Per il freghiano il contenuto dell’enunciato che contiene “lui” deve includere il gesto ostensivo che accompagna il proferimento della parola “lui”. Per Kaplan, invece, il contenuto di un dimostrativo non include il modo in cui il dimostrativo si riferisce ad un particolare oggetto in un particolare contesto d’uso, il contenuto di un dimostrativo è l’oggetto dimostrato in un particolare contesto d’uso. 10.2 Una precisazione importante: perché i veri dimostrativi non sono sinonimi di descrizioni definite ma possono essere sinonimi di indicali puri e perché gli indicali puri non sono sinonimi di altri indicali puri Secondo Kaplan, Frege ritiene che ogniqualvolta il riferimento di un termine ci è presentato in un certo modo, quel modo caratterizza il significato di quell’espressione, 18 cioè quello che un parlante competente afferra mentalmente quando comprende l’espressione. E secondo Kaplan questo è un errore. Secondo Kaplan, infatti, il significato di un termine è dato dal suo carattere, cioè da una funzione da contesti d’uso a contenuti. E due espressioni sono sinonime, cioè hanno lo stesso significato, quando hanno lo stesso carattere. Avere lo stesso carattere vuol dire condividere da una parte lo stesso modo di riferirsi e dall’altra avere lo stesso contenuto per ogni contesto. Entrambe le componenti sono essenziali per caratterizzare la sinonimia degli indicali e questo spiega perché gli indicali si differenziano da altre espressioni linguistiche. 10.2.1 Perché i veri dimostrativi non sono sinonimi di descrizioni definite Innanzitutto è importante rendersi conto del perché un dimostrativo e una descrizione definita non sono mai sinonime. Secondo Kaplan non sono sinonime perché non hanno lo stesso carattere. Il carattere è la funzione che applicata ad un contesto d’uso permette di ottenere un contenuto. Una descrizione definita e un dimostrativo non hanno lo stesso carattere perché non hanno lo stesso contenuto in tutti i contesti d’uso e quindi la funzione che corrisponde al loro carattere non perviene allo stesso contenuto dati certi contesti. La funzione che corrisponde al carattere di una descrizione è una funzione costante, per ogni contesto d’uso fornisce lo stesso complesso di proprietà che costituisce il contenuto, mentre la funzione che corrisponde al carattere di un dimostrativo non è una funzione costante. Per renderci conto di questo, consideriamo ora l’enunciato: Lui è l’uomo che è lì Questo enunciato è vero quasi ogni volta che è proferito (dico “quasi” perché se l’atto ostensivo non si dirige verso una persona, allora il dimostrativo non riesce a riferirsi ad alcunché e non si può asserire qualcosa di vero). Tuttavia questo enunciato non ci permette di stabilire una sinonimia fra “lui” e “l’uomo che è lì”. Perché no? Perché la descrizione definita “l’uomo che è lì” utilizzata in un particolare contesto non ha lo stesso contenuto del dimostrativo “lui” usato nello stesso contesto. E infatti il precedente enunciato, sebbene sia vero quasi ogni volta che è proferito, non è necessario e questo dimostra che la descrizione definita e il dimostrativo non hanno lo stesso contenuto nel particolare contesto d’uso. Da queste osservazioni si può chiaramente capire perché per Kaplan un dimostrativo non può mai essere considerato sinonimo di una descrizione: per Kaplan una descrizione e un dimostrativo non hanno lo stesso carattere. Quindi per Kaplan non si potrà dire “Io” ha lo stesso significato di “la persona che sta proferendo queste parole” perché le due espressioni non hanno lo stesso carattere. Kaplan introduce uno stratagemma per trasformare le descrizioni definite in dimostrativi. Egli cioè introduce il termine “Dthat” che applicato a una qualunque espressione la fa diventare direttamente referenziale. Ad esempio, l’espressione “Dthat [la persona che sta proferendo queste parole]” avrà il carattere di un dimostrativo, cioè una funzione che applicata ad un particolare contesto d’uso avrà come valore un oggetto che rimarrà fisso per ogni circostanza di valutazione. 19 Si può quindi esprimere il significato dell’indicale “io” nel modo seguente: “Io” ha lo stesso significato di “Dthat [la persona che sta ora proferendo queste parole]” In questo caso, l’indicale “io” non è considerato sinonimo di una descrizione definita, ma è considerato sinonimo di un dimostrativo. Ricapitoliamo Per un indicale Il carattere non è una funzione costante Il contenuto è una funzione costante Per una descrizione definita Il carattere è una funzione costante Il contenuto non è una funzione costante 10.2.2 Perché gli indicali puri non sono sinonimi di altri indicali puri Abbiamo detto che un indicale e una descrizione definita non possono essere sinonimi perché non hanno lo stesso carattere, ma abbiamo visto che un indicale può essere sinonimo di un dimostrativo, tuttavia è bene tener presente che un indicale puro non può essere sinonimo di un altro indicale puro. Si potrebbe pensare erroneamente che ciò che conta per l’identità di significato sia l’identità di contenuto nei rispettivi contesti d’uso, ma non è così. Supponiamo che io proferisca oggi la parola “oggi” e domani la parola “ieri”, e che questi due proferimenti abbiano lo stesso contenuto, si riferiscono allo stesso oggetto (cioè allo stesso giorno) in tutte le circostanze di valutazione. È evidente che “oggi” non è sinonimo di “ieri” perché ad essi corrispondono caratteri diversi. Non si dà infatti il caso che il carattere di “ieri” proferito in un particolare contesto d’uso c ottenga lo stesso contenuto di “oggi” proferito nello stesso contesto d’uso c. L’identità di contenuto fra due proferimenti di due indicali distinti nei rispettivi contesti d’uso non è pertanto garanzia di sinonimia. Affinché due espressioni siano sinonime devono avere lo stesso contenuto in ogni contesto, devono cioè avere lo stesso carattere. 10.3 L’informatività di alcuni enunciati di identità per Kaplan Se per Frege il contenuto cognitivo di un dimostrativo corrisponde al modo di presentazione dell’oggetto designato, per Kaplan il contenuto cognitivo di un dimostrativo corrisponde al carattere e il carattere non include solo il modo di presentazione dell’oggetto designato nel particolare contesto d’uso ma anche lo stesso contesto d’uso. Prendiamo in considerazione ora il caso in cui una persona con un solo atto ostensivo dice “Questo oggetto è identico a questo oggetto”. In questo caso, le due occorrenze di “questo oggetto” hanno lo stesso contenuto (altrimenti l’identità non sarebbe vera), e hanno anche lo stesso carattere (le due occorrenze di “questo oggetto” sono accompagnati dallo stesso atto ostensivo e per ogni contesto d’uso hanno lo stesso contenuto). Come facciamo a rendere conto dell’informatività di questo enunciato? Possiamo pensare che questo enunciato non è informativo, ma lo è se pensiamo che a nostra insaputa qualcuno avrebbe potuto sostituire l’oggetto dimostrato al momento del primo proferimento con l’oggetto dimostrato col secondo proferimento (il lettore è invitato a immaginare scenari in cui l’asserto sarebbe falso perché all’insaputa del parlante e degli interlocutori l’oggetto indicato alla prima occorrenza di “questo oggetto” è diverso dall’oggetto indicato alla seconda occorrenza di “questo oggetto”). 20 La situazione è meglio chiarita se riflettiamo sui gemelli Castore e Polluce che sono esattamente nello stesso stato cognitivo quando dicono “Mio fratello è nato prima di me” ma non intrattengono lo stesso contenuto. Il contenuto di un particolare asserto dimostrativo non dipende semplicemente dal modo in cui l’oggetto è presentato al parlante o all’interlocutore, ma dipende anche dal modo in cui il contesto interagisce col particolare proferimento dell’indicale. Quindi Castore e Polluce, pur essendo nello stesso stato cognitivo, non intrattengono lo stesso contenuto cognitivo. Il contenuto cognitivo non dipende solo dallo stato cognitivo, ma anche dal contesto che può essere per certi versi non pienamente riconoscibile al parlante o all’ascoltatore competente di un certo enunciato indicale. Pertanto, l’enunciato “questo oggetto è identico a questo oggetto” è informativo non perché c’è differenza di carattere fra le due occorrenze, e neanche perché c’è differenza di contenuto, ma perché il contesto collabora con le due occorrenze per far avere loro lo stesso contenuto. Se il contesto non avesse collaborato, le due occorrenze avrebbero potuto avere contenuti diversi. Quando noi afferriamo il carattere di un indicale, noi sappiamo come interagisce col contesto d’uso, ma non abbiamo necessariamente una conoscenza piena e indipendente del contesto d’uso. A riguardo è rilevante l’esempio della ricca ereditiera che viene rapita e messa nel baule della macchina, a un certo punto dice a se stessa “Qui è tranquillo”. L’ereditiera ha una piena padronanza del carattere dell’indicale “qui”, cioè sa come l’occorrenza dell’indicale interagisce col contesto d’uso, ma questo non vuol dire che abbia una conoscenza piena e indipendente del contesto d’uso, sicuramente non saprebbe descrivere il riferimento di “qui” in alcun altro modo che non faccia appello a espressioni indicali. L’informatività di certi enunciati di identità che contengono indicali non è data per Kaplan necessariamente dal modo in cui gli oggetti ci sono presentati, ma può dipendere anche dal modo in cui il contesto d’uso interagisce col proferimento dell’indicale. 11. Perché il carattere è importante? Abbiamo visto che la conoscenza del carattere di un indicale da solo non ci permette di stabilire qual è il contenuto dello stesso indicale in un particolare contesto d’uso (se non abbiamo una conoscenza indipendente del contesto d’uso). Si pensi al caso della ricca ereditiera che dice “Qui è tranquillo” senza sapere dove si trova, la conoscenza del carattere di “qui” non le permette di avere una comprensione del contenuto dell’enunciato perché non ha sufficienti informazioni sul contesto d’uso. Ma se il carattere da solo non riesce a farci cogliere il contenuto di un enunciato indicale, perché è importante? Secondo Kaplan (come per Perry) gli indicali hanno un ruolo importante nel determinare il nostro comportamento. Se due di noi credono “Un orso mi sta attaccando”, il fatto di avere una credenza con lo stesso carattere ci spinge a comportarci nello stesso modo, cioè a fuggire a gambe levate. Se invece sono io a credere “Un orso mi sta attaccando”, mentre il lettore crede “Un orso ti sta attaccando”, i caratteri che associamo alle nostre credenze sono diversi, il contenuto è lo stesso. I nostri comportamenti saranno diversi come diverso è il carattere delle nostre credenze: io fuggirò a gambe levate e chi legge andrà a cercare aiuto. Secondo Kaplan, Frege non ha distinto fra carattere e contenuto perché -­‐a suo avviso-­‐ non aveva sufficientemente riflettuto sugli indicali, si è invece concentrato su descrizioni definite e sui nomi che hanno un carattere costante (cioè al loro carattere corrisponde una funzione costante). 21 12. Noi siamo presentati a noi stessi in un modo particolare? Frege ne “Il pensiero” scrive che ciascuno è presentato a se stesso in un modo primitivo e incomunicabile. Questa osservazione ha per Kaplan un’interpretazione corretta e una non corretta o non essenziale. In base all’interpretazione corretta il carattere dell’indicale “io” fornisce una prospettiva privilegiata per il parlante o il pensatore. Il carattere associato alla parola “Io” stabilisce che ciascuno può riferirsi a se stesso con quella parola, ma non può riferirsi a nessun altro con quella parola. Il carattere associato alla parola “io” è pertanto lo stesso chiunque lo utilizzi. In questo senso, il carattere dell’indicale “io” ci fornisce un concetto che ciascuno può avere solo di se stesso. Kaplan ritiene invece che il carattere dell’indicale “io” non ci debba impegnare al fatto che ciascuno ha un’immagine di se stesso incomunicabile. Ovviamente ciascuno può avere di se stesso un’immagine incomunicabile, ma questo non è richiesto dal carattere dell’indicale “io” che è lo stesso per ogni parlante. 13. Epistemologia e metafisica: una distinzione importante Saul Kripke, nel famoso libro Nome e necessità, distingue fra il piano epistemico e il piano metafisico: fra il modo in cui noi conosciamo certi enunciati (piano epistemico) e ciò che li rende necessari o contingenti (piano metafisico). Questa stessa distinzione è ripresa da Kaplan. Per Kaplan, le verità logiche sono enunciati che sono riconoscibili a priori, indipendentemente dall’esperienza e che sono veri in qualunque contesto d’uso. Le verità logiche, in quanto riconoscibili a priori, concernono primariamente il piano epistemico. Esempi di verità logiche sono “Piove o non piove”, ma anche “Io esisto” o “Io sono qui ora”. Un enunciato è una verità logica semplicemente per il carattere che ha tale enunciato, sono cioè enunciati che sono veri in ogni contesto d’uso. La necessità o la contingenza di un enunciato invece dipende dal contenuto dell’enunciato stesso. Esempi di enunciati necessari sono “Piove o non piove”, “2+2=4”, ma non sono verità necessarie tutte quelle che per Kaplan sono verità logiche (come ad esempio “Io esisto” o “Io sono qui ora”). La necessità e la possibilità di un enunciato riguardano il piano metafisico. 
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