crisi finanziaria o crisi dell`economia reale?

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ARTI GRAFICHE APOLLONIO
Università degli Studi
di Brescia
Dipartimento di
Economia Aziendale
Giuseppe PROVENZANO
CRISI FINANZIARIA
O CRISI DELL’ECONOMIA REALE?
Paper numero 92
Università degli Studi di Brescia
Dipartimento di Economia Aziendale
Contrada Santa Chiara, 50 - 25122 Brescia
tel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814
e-mail: [email protected]
Maggio 2009
CRISI FINANZIARIA O CRISI DELL’ECONOMIA REALE?
di
Giuseppe PROVENZANO
Ordinario di
Economia e Gestione delle Imprese
Università degli Studi di Brescia
Crisi finanziaria o crisi dell’economia reale?
Scrivevamo, alcuni anni fa (2004) prima della “crisi”, quando tutto
sembrava andare a gonfie vele, la crescita dei P.I.L. robusta e, appariva,
inarrestabile, gli utili aziendali capaci di soddisfare infinite crescite dei
capitali economici delle imprese, alimentate da imponenti finanziamenti di
debito sostenuti da eccellenti “rating” forniti con disinvoltura e lautamente
ricompensati, da out-look di “buy”, espressi dalle infallibili banche d’affari
altamente impegnate a finanziare, cartolarizzare e rivendere sui mercati i
loro crediti, che da esse transitavano solo il breve spazio di un mattino,
concessi alle solidissime imprese per le quali consigliavano “buy”, “buy”
e……ancora “buy”. Il tutto condito dagli sforzi immani delle società di
certificazione, avallati e sostenuti da autorevolissima dottrina aziendalista,
per determinare valutazioni degli “intagible” (parola magica se
americanizzata, meno prosaica se italianizzata) capaci di valorizzare in
modo sempre più robusto gli utili e i capitali economici delle imprese,
necessari a chiudere il cerchio di presunte creazioni e diffusioni di
ricchezza, funzionali a fare sentire tutti più ricchi e, pertanto, a consumare
sempre di più……., scrivevano, appunto, che, forse, un giorno qualcuno
avrebbe scoperto che “ il Re era nudo……”.
Scrivevamo, ancora, che il sistema aveva inventato un nuovo uovo di
Colombo, necessario, appunto, a sostenere il castello di carta che andava
via, via erigendosi: il credito al consumo.
Le cosiddette “comode rate”, attraverso le quali sostenere produzioni
invendibili al presente, peraltro con prezzi finali e complessivi
indeterminabili per il pubblico della massa dei consumatori, che, di fatto,
compravano una rata, incuranti ed inconsapevoli del prezzo del bene
acquistato, a volte indefinito e indefinibile e che, comunque, interessava
sempre meno al consumatore, attento solo alla teorica sostenibilità della rata
mensile.
A quanti è capitato, in quell’orgia consumistica rateizzata, di chiedere
quale fosse il prezzo di un bene se pagato immediatamente contanti e
sentirsi rispondere che, poiché la rateizzazione era a tasso zero, il prezzo a
pronti e a termine coincidevano……, magia di una finanza innovativa (!!!),
che aveva superato a piè pari l’assioma sul quale per secoli si era basato il
concetto economico fondamentale (evidentemente troglodita) che vuole un
Euro domani valere meno di un Euro oggi!!!.
Per cui, pagare con la carta di credito equivaleva a pagare in contanti,
sebbene la prima avesse costi del servizio e valute di accredito più onerose
del contante rifiutato. Ma in Paesi evoluti!!! chi non fosse stato in grado di
presentare una o più carte di credito non meritava di potere acquistare
neanche per contanti, perché ritenuto un rapinatore o un riciclatore.
Scrivevamo, ancora, sempre nell’età dell’oro, che il credito al consumo,
che finanziava chi nulla produceva: i consumatori, era un modo occulto di
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Giuseppe Provenzano
finanziare l’impresa da parte dei consumatori stessi. I quali, in uno con
l’acquisto del bene o del servizio, di fatto creavano un prodotto finanziario,
che, attraverso la sua cartolarizzazione e una catena di intermediazione più o
meno lunga, veniva da essi riacquistato e finiva indirettamente nei loro
portafogli, attraverso le quote dei Fondi Pensione o di quelle dei Fondi
Comuni o nelle Gestioni Patrimoniali, finanziando, così, indirettamente
l’impresa delle quali erano i consumatori.
Essi divenivano, così, inconsapevolmente consumatori e, nel contempo,
finanziatori diretti delle imprese e non più indiretti, come sempre accaduto
nell’età del bronzo, attraverso il sistema classico di intermediazione
finanziaria, che assumeva su di se il rischio del finanziamento.
Intermediazione, quella, sostanzialmente bancaria, controllata e garantita
nella sua solvibilità dalle autorità di vigilanza.
Quanto più il sistema bancario si trasformava da finanziatore diretto e da
moltiplicatore, regolato e vigilato, del credito e della moneta secondaria, in
un complesso di aziende produttrici e venditrici di prodotti finanziari, di
loro derivati, di derivati di derivati, di titoli variamente strutturati da
collocare liberamente ed in quantità incontrollabile nei portafogli dei
consumatori-risparmiatori, il controllo del credito, fondamentale per gestire
la politica economica e la creazione di ricchezza finanziaria, sfuggiva a
qualsiasi possibilità di regolamentazione.
Sostenevamo, ancora allora, che i prodotti finanziari divenivano sempre
più prodotti di largo consumo, collocati con gli stessi metodi del porta a
porta, venduti in luoghi insoliti ed occulti (supermercati, grandi magazzini,
concessionarie di auto, megastore di elettrodomestici, ecc. ecc.), con
evidente indeterminatezza tra il loro valore ed il prezzo di collocamento. Il
risparmiatore, dicevamo, si approcciava ad essi con la medesima
propensione con la quale si approcciava all’acquisto di un detersivo o di un
dentifricio: l’assoluta incompetenza a determinare i loro poteri magici,
spinto solo dai messaggi sensazionali che i due consumi gli alimentavano e
fiducioso solo sulla presunta serietà e professionalità dei proponenti.
Eravamo giunti a parlare di consumismo del risparmio.
Vero è che il credito al consumo è sempre esistito, ma il suo passaggio da
credito direttamente erogato dal sistema bancario e, come tale, controllato e
gestibile dalle autorità monetarie e di vigilanza, a credito direttamente
erogato dai risparmiatori, anche se intermediato dal sistema bancario,
costituiva una rivoluzione copernicana di cui pochi si stavano accorgendo.
Distolti dai nuovi concetti imperanti di banca universale e di banca
impresa.
Pochi, a nostro avviso, compresero che un tale passaggio comportava la
trasformazione della banca da intermediario puro ad azienda industriale
produttrice e venditrice di carta finanziaria, il cui prezzo, così come
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Crisi finanziaria o crisi dell’economia reale?
avveniva ed avviene per i beni di largo consumo, poteva essere liberamente
definito ed imposto dal produttore. Del resto, il mercato sul quale collocare
a qualsiasi prezzo tali prodotti era non solo immenso e costantemente
foraggiato da una crescente ricchezza finanziaria auto-alimentata dallo
stesso sistema, ma aveva nei Fondi Pensione i grandi e costanti acquirenti,
ammortizzatori, tra l’altro, di mercati secondari per tale scopo sempre più
ampi e sofisticati, fino ai limiti di contrattare anche indici e indici di indici.
Il tutto supportato egregiamente e con qualche disinvoltura dalle società
di rating, i cui indici venivano assegnati a mani basse, incuranti
sostanzialmente del valore dei sottostanti, ma solo di quello che al mercato
esse riuscivano a fare assegnare attraverso i loro “autorevoli” outlook.
Come con successo sperimentato per i capi di abbigliamento, valutati
solo dalle griffe e non più dai loro contenuti oggettivi, che trovano una sorta
di sublimazione solo nell’etichetta, anche ai titoli veniva assegnata la loro
griffe (AAA; aa; ab; ecc.), che ne definiva il valore di scambio per un
mercato al minuto, incapace di valutare gli elementi di base che ne avevano
supportato il rating.
Quelli che per il mercato reale erano gli Armani, i Valentino, i Versace,
gli YSL, per il mercato finanziario erano i Moody’s, i Fitch, i Citigroup, gli
Standard &Poors.
Un sistema del genere, scrivevamo ancora, aveva in se una bomba ad
orologeria pronta a scoppiare, costituita dal fatto che il credito al consumo,
così generalizzato e diffuso, consentiva alle imprese produzioni e vendite
che scontavano un futuro sempre più lungo (dicevamo un futuro del futuro)
e, come tale, sempre più incerto. I loro ricavi e, conseguentemente, i loro
utili prospettici si formavano e venivano valutati sulla base di produzioni ai
limiti del sostenibile per periodi così lunghi, che necessitavano del
presupposto di consumi sempre maggiori e di obsolescenze sempre più
rapide delle esigenze e delle aspettative di felicità che i consumi erano
chiamati a soddisfare.
Affermavamo, sempre ancora, che il credito al consumo così strutturato
finiva per consentire alle imprese una leva finanziaria insostenibile alla
lunga, attraverso un reale indebitamento mascherato da ricavi. Si scaricava,
così, sui consumatori una leva finanziaria che direttamente alle imprese non
sarebbe stata concessa.
La conclusione era quella, a nostro parere, che si consideravano ricavi di
esercizio quelli che avrebbero dovuto essere definiti una sorta di risconti
passivi, di ragioneristica memoria. Incassi, cioè, di ricavi di competenza
futura.
Ad una tale affermazione giungevamo attraverso il seguente
ragionamento:
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Giuseppe Provenzano
 se è vero che ogni vendita effettuata nell’esercizio costituisce un
ricavo dell’esercizio in cui essa è stata rilevata, ciò a prescindere da
come l’acquirente abbia finanziato l’acquisto;
 è altrettanto vero che una tale affermazione, se assolutamente
incontestabile per la singola impresa, soffre di una limitazione al
livello di sistema delle imprese, se analizzato nel suo complesso;
 infatti, affinché una tale affermazione abbia una sua validità, come
sistema, è necessario che esista una correlazione tra i tempi di
sopravvivenza della soddisfazione che ha alimentato e portato al
consumo e lo strumento attraverso il quale il consumatore ha
finanziato il consumo stesso;
 se il consumo casa esaurisce la sua vita in un lungo periodo di
tempo, tale consumo può essere finanziato attraverso uno strumento
che sopravviva per un tempo non più lungo della sopravvivenza
della casa stessa;
 il consumo di un caffè, che fosse finanziato attraverso il rilascio di
una cambiale a dieci anni, attraverso, cioè, uno strumento di
finanziamento che superasse la sopravvivenza della soddisfazione
del consumo stesso, comporterebbe l’esistenza di una ricchezza
finanziaria in circolazione che sopravviverebbe di gran lunga alla
vita stessa del consumo che ha finanziato;
 in quest’ultimo caso, seppure la singola impresa potrebbe ritenere la
vendita del caffè come un ricavo dell’esercizio, il sistema non
potrebbe non considerare quel ricavo come l’anticipazione di un
ricavo di competenza del decimo anno, a meno che non si ritenesse,
fondatamente, che all’infinito si consumeranno caffè con pagamento
a dieci anni.
Quest’ultima è stata l’ipotesi su cui tutto si è basato.
Si è ritenuto, infatti, che il tempo del finanziamento dei consumi fosse
assolutamente irrilevante, posta la loro presunta e infinita crescita. A seguito
di tale presunzione, in tutti questi ultimi anni, sono stati creati in volumi
pressoché infiniti strumenti di finanziamento (tradotti, poi, in prodotti
finanziari) dei consumi che sopravvivevano per tempi sempre più lunghi,
rispetto al permanere delle motivazioni che avevano spinto il consumo e la
soddisfazione che da essi si traeva.
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Crisi finanziaria o crisi dell’economia reale?
Anzi, mentre si allungavano i tempi dei finanziamenti al consumo, per
spingerli sempre più in alto, si faceva di tutto per aumentare l’obsolescenza
dei consumi stessi, condizione fondamentale per una loro costante crescita,
sia attraverso il continuo accorciamento dei tempi di soddisfazione dei
consumatori per il bene acquistato, sia attraverso la cosiddetta innovazione,
che, se da un lato alimentava sempre rinnovati consumi, dall’altro lato ne
riduceva contestualmente ed inesorabilmente la vita utile.
La forbice tra i tempi utili del consumo e la sopravvivenza dei
finanziamenti che lo consentivano si allargava inesorabilmente e in modo
sempre più marcato. Fino al punto al quale siamo giunti, in cui il livello dei
finanziamenti, che hanno alimentato i consumi e che costituiscono la
ricchezza finanziaria esistente ed in circolazione, non può più essere
sostenuta da plausibili ipotesi sui consumi futuri.
Il Re era definitivamente nudo.
Il fantomatico Tasso Zero, che è di per se un non senso finanziario e che
non esiste neanche in natura, a meno che non avesse senso una domanda
che recitasse: “è meglio un uovo oggi o una gallina oggi?”, ha dato il colpo
di grazia ad un sistema ai limiti del collasso.
Fintantoché il credito al consumo era nei fatti intermediato ed erogato
dalla banche, il consumatore che vi volesse ricorrere aveva un chiaro
riferimento del costo del finanziamento che richiedeva. Egli si accorgeva
con chiarezza del differenziale tra quanto anticipatogli dalla banca per
acquistare al prezzo di listino il bene che desiderava e quanto ad essa
doveva restituire per tutta la durata del prestito. Il costo del credito al
consumo era chiaro, immediato e facilmente leggibile da chiunque. Il tasso
di interesse applicato, quindi, aumentava o diminuiva tale differenziale ed
aveva l’effetto di invogliare, di rinviare o di fare rinunciare all’acquisto. La
manovra dei tassi d’interesse, che più o meno direttamente si riverberava sui
tassi dei finanziamenti bancari e quindi sul costo del credito al consumo,
poteva avere l’effetto di aumentare o di diminuire la propensione a
consumare.
Il tasso zero, nei fatti, nasconde il costo del finanziamento, che si
ingloba nel prezzo di listino del bene o del servizio, divenendo, così, un
unicum inscindibile. La manovra sui tassi, in questo caso, non ha alcun
effetto esplicito sul costo effettivo del finanziamento, nascosto in un prezzo
di listino che già comprende costi del finanziamento di gran lunga superiori
a quelli di mercato e che, quindi, perde il ruolo di regolatore della domanda
di consumi.
Per ogni frigorifero, lavatrice, automobile venduti, ma anche per le
vacanze, le crociere e, attraverso le carte di credito, anche per ogni litro di
benzina, panino, biglietto aereo, detersivo, confezione di latte ecc. ecc. si
creava un prodotto finanziario che sopravviveva per un mese, per più mesi
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Giuseppe Provenzano
o, addirittura, per anni al bene o servizio che si era acquistato. Il
consumatore, abbiamo già detto, in uno con il consumo creava un prodotto
finanziario che costituiva la teorica ricchezza che la massa dei consumatoririsparmiatori riteneva di possedere.
Il bengodi era assicurato…!!!!. più si consumava, più ci si
arricchiva…???!!!!.
I più furbi impacchettavano i crediti erogati e immediatamente se ne
disfacevano, collocandoli direttamente o indirettamente su di un mercato del
risparmio (…!!!), che per la mole crescente di ricchezza teoricamente creata
dai consumi, non poteva che acquistare prodotti finanziari o beni immobili,
il cui costante lievitare dei prezzi consentiva ulteriori concessioni di credito
e la creazione di altra carta finanziaria.
Il consumatore-risparmiatore si indebitava sempre più con se stesso:
infatti, da un lato egli creava uno strumento di debito attraverso il suo
consumo che, in contro partita, diveniva un prodotto finanziario da lui stesso
riacquistato come risparmiatore, nel quale trasferiva la maggiore presunta
ricchezza finanziaria che derivava dal suo stesso consumo presente a da
quello stimato futuro.
Tanto più consumava, tanto più ci si indebitava, ai limiti della propria
insolvenza se solo si fosse consumato di meno.
Tanto più ci si indebitava, tanto più si acquistavano crediti nei confronti
di se stessi, collegati ai propri teorici ed attesi consumi futuri.
Crediamo si debba prendere atto che ciò che si andava creando in un
sistema del genere era solo un’illusione di ricchezza, che poggiava sul nulla.
La crisi non ci sta rendendo più poveri di ieri.
È solo svanita l’illusione di ricchezza che un tale sistema aveva creato ed
alimentato.
È come se chi nel deserto, avvistando a distanza una pozza d’acqua,
ritenesse già di esserne ricco e favoleggiasse grandi abluzioni, e, appena
scoperto trattarsi solo di un miraggio, si disperasse sentendosi più povero di
prima: l’illusione sarebbe svanita non la realtà.
Se è vero che illusioni e speranze son il motore stesso dell’Economia,
altrettanto vero è che deve esistere un limite tra l’acquistare un gratta e vinci
e lo spendere immediatamente la vincita solo sperata.
Sostenevamo, ancora, che un credito al consumo così massificato e
spalmato su di una vastissima platea di creditori e fuori dal classico sistema
bancario, finiva con il fare operare le imprese del settore con la stessa logica
con la quale operano le imprese assicurative, senza che esse avessero, però,
gli stessi vincoli di riserva a queste ultime imposte da un sistema permeante
di controlli.
Alle imprese erogatrici di credito al consumo, infatti, la massa e la
diversificazione dei crediti concessi consentiva di predeterminare con ottima
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Crisi finanziaria o crisi dell’economia reale?
approssimazione i livelli di insolvenza, che potevano assimilarsi, attraverso
il calcolo delle probabilità e dei grandi numeri, ai sinistri subiti dalle
imprese di assicurazione. Sarebbe stato loro sufficiente assicurare tali rischi
attraverso l’applicazione di un tasso d’interesse, che consentisse di spalmare
su tutto il portafoglio crediti le perdite per l’insolvenza programmata, perché
gli utili fossero assicurati e le insolvenze ininfluenti. Se poi si pone mente al
fatto che le morosità e le insolvenze venivano vendute a prezzi stracciati ad
imprese di recupero crediti, ottenendo anche un conseguente risparmio
fiscale sulle minusvalenze di portafoglio, ben si comprende che le difficoltà
finanziarie del debitore non avevano alcun effetto reale sui bilanci dei
creditori. A soffrire della propria insolvenza restava solo il consumatore
affidato, inseguito fino all’inverosimile dai cessionari del credito.
Mai si era assistito ad un sistema nel quale l’insolvenza del debitore
fosse nei fatti assolutamente ininfluente per il creditore.
Un uovo di Colombo nell’uovo di Colombo.
La massa dei crediti, poi, adeguatamente impacchettati e strutturati dalle
Primarie Banche d’affari, venivano ceduti come titoli ad altissimo rating ai
cosiddetti Investitori Istituzionali, tra i quali le banche commerciali, le
società di assicurazione, i fondi pensioni, i fondi comuni d’investimento,
ecc.ecc., la cui raccolta cresceva a ritmi anche maggiori dei consumi che
alimentavano il …..risparmio!!!!.
Tutto avrebbe potuto filare liscio se al grido: “il Re è nudo” i calcoli delle
probabilità, che avevano egregiamente tenuto per anni, non fossero
rovinosamente crollati.
Il tragico grido risuonò a Wall Street nella sede della Lehman Brothers,
che scoprì di essere insolvente, avendo in portafoglio una quantità smisurata
di carta straccia non più riciclabile. L’errore di lasciare fallire tale banca
d’affari fu tragico, fece scoprire che tutte le Istituzioni finanziarie erano
sull’orlo dell’insolvenza, in quanto investitrici in titoli definiti tossici, che
tali non erano divenuti a seguito della crisi, ma tali erano sempre stati sin
dall’origine per il loro stesso DNA.
La decisione di salvare a tutti i costi il sistema bancario e finanziario si
rese necessaria ma sicuramente tardiva.
Il grido era già stato lanciato.
Credo che solo la storia dirà se il lasciare fallire la Lehman Brothers fu
la migliore decisione, consentendo l’interruzione di un sistema economico e
finanziario intossicato dal consumismo, o se invece fu il più grande errore
che si potesse commettere, scelta che obbligherà tutti gli Stati del mondo a
bruciare migliaia (se non milioni) i di miliardi di dollari o di euro,
ipotecando l’avvenire delle future generazioni, pur di mantenere in piedi,
rattoppandolo, un sistema profondamente malato.
Ma un altro paradosso mi sembra si sia verificato in questi anni.
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Giuseppe Provenzano
Le regole sui deficit e sull’indebitamento dettate da Maastricht hanno
avuto di fatto l’effetto che quanto non finanziato attraverso il debito
pubblico è stato finanziato attraverso il debito privato. Si è, di fatto, assistito
ad un trasferimento del debito e del servizio dello stesso dalla fiscalità
proporzionale e progressiva sui redditi e, quindi, con un loro carico
distribuito proporzionalmente o progressivamente su tutti i contribuenti
persone fisiche o giuridiche, alle spalle dei singoli cittadini e
prevalentemente di quelli meno abbienti, che quasi esclusivamente sono
stati i fruitori del credito al consumo, non potendo più ridurre i loro consumi
divenuti oramai assolutamente inelastici, nonostante le minori elargizioni
pubbliche. Infatti, alla minore crescita nel nostro Paese del debito pubblico
ha fatto riscontro un’enorme crescita del credito al consumo.
L’indebitamento consolidato è di fatto cresciuto, spostandone l’onere da più
abbienti ai meno abbienti. Oggi l’insolvenza dei secondi necessita del loro
rifinanziamento attraverso l’ampliamento dei deficit e dell’indebitamento
Statale.
Mi sembra si corra il rischio, oramai però ineludibile, di fare rientrare
dalla finestra quello che si era tentato di fare uscire dalla porta.
Ma il credito al consumo, nelle forme appena descritte, oltre a creare le
distorsioni finanziarie di cui abbiamo più sopra parlato, innestava
simultaneamente un circuito a spirale crescente che si rifletteva su tutto il
sistema di affidabilità delle imprese, sulla loro capacità di ottenere sempre
maggiori linee di credito e di creare, a loro volta, altra carta finanziaria, che
si sommava a quella creata dai loro consumatori. Il tutto, poi, aveva effetti
sulle valutazioni dei loro capitali economici e, quindi, sui livelli di ricchezza
finanziaria da essi rappresentati.
L’anticipazione smisurata dei consumi futuri creava ricavi, utili e capitali
economici sostanzialmente drogati, che potevano ritenersi reali solo a patto
che il sistema di crescita costante ed impetuosa fosse ritenuto infinito.
Poiché la valorizzazione dei capitali economici delle imprese si basa sul
concetto dell’attualizzazione degli utili o dei dividendi futuri che,
normalizzati, si ritengono se non infiniti almeno proiettati per un periodo di
tempo molto lungo, utili o dividendi drogati comportavano valutazioni
drogate dei capitali delle imprese. Il crescente livello dei capitali economici,
che misura il livello di affidabilità e, conseguentemente, di credito
erogabile, comportava il suo correlato ampliamento, creando così quel
circuito spirale crescente di creazione e valorizzazione di ulteriore carta
finanziaria.
Ogni bene venduto creava, allora, un doppio circuito di carta finanziaria:
quella emessa dai consumatori e quella emessa dalle imprese. In un
processo circolare crescente, che si pensava proiettato all’infinito.
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Crisi finanziaria o crisi dell’economia reale?
La condizione perché l’ipotesi di crescita infinita fosse plausibile
risiedeva, però come abbiamo già più sopra accennato, nella necessità di
rendere sempre più breve il ciclo di vita dei consumi. La loro rapidissima
obsolescenza diveniva condizione ineludibile. Essa veniva assicurata da
una vertiginosa innovazione di prodotti e di processi produttivi tendenti, da
un lato, a invogliare masse più ampie di consumatori o a fare rinnovare i
consumi di quelli già acquisiti, dall’altro lato a ridurre i prezzi, per fare
fronte ad una concorrenza sempre più agguerrita e globalizzata. Ma la più
rapida obsolescenza dei prodotti comportava correlativamente una maggiore
obsolescenza degli investimenti, che bruciavano, così, più rapidamente i
finanziamenti che erano stati necessari a sostenerli. La vertiginosa
innovazione, che nei fatti assumeva sempre di più il ruolo di costo
necessario alla sopravvivenza e sempre di meno la qualifica d’investimento
di lungo termine, a seguito dell’indeterminatezza dei tempi della sua
sopravvivenza ed utilità, trovava valutazione e capitalizzazione come
“intagible”, concorrendo ad amplificare gli asset aziendali e,
correlativamente, le loro valorizzazioni.
Il mercato finiva per valutare a prezzi esorbitanti marchi, brevetti,
avviamenti, che del resto apparivano sempre più copiosamente nei bilanci
delle imprese.
Le cosiddette operazioni di finanza straordinaria (fusioni, scissioni,
apporti in natura, ecc. ecc.) divenivano operazioni ordinarie, attraverso le
quali le imprese si scambiavano parti immateriali di se stesse, contribuendo
a creare, ad ingigantire e a collocare sui mercati ulteriori strumenti finanziari
che consentivano ed alimentavano tali operazioni.
La dottrina aziendalista, poi, faceva la sua parte. Sia attraverso la
scientificazione delle valutazione di tali assets immateriali, sia attraverso la
teorizzazione dell’impresa immateriale, inneggiando alla necessità di
sempre maggiori flessibilità delle strutture aziendali, che smaterializzate
divenivano sempre più leggere….!!!!!.
Dicevamo che - in un sistema che andava via, via smaterializzando i
prodotti, che perdevano sempre di più la loro fisicità per assumere aspetti
crescenti di strumenti di soddisfazione solo di sensazioni (per cui l’acqua
minerale perdeva costantemente il contenuto di acqua, bene per dissetarsi,
acquisendo prevalentemente quello di strumento per essere belli, sani, in
linea e partecipativi del contesto), in un sistema che smaterializzava sempre
di più le imprese, che divenivano sempre meno aziende di produzione
diretta e sempre di più assemblatrici e marchiatrici di produzioni sempre di
più delocalizzate – non bisognava stupirsi più di tanto se la catena di
smaterializzazione si fosse conclusa a valle in strumenti finanziari
smaterializzati. Nel senso non delle loro fisicità (strumento finanziario
elettronico) ma del loro contenuto.
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Giuseppe Provenzano
Alla virtualizzazione dei prodotti e delle imprese, sarebbe
necessariamente seguita la virtualizzazione del risparmio e degli strumenti
che lo rappresentavano.
La padella, il burro, le uova, il sale e il pepe (per chi lo mette) erano già
sui fornelli, era solo sufficiente che qualcuno accendesse il fuoco
perché…………la frittata fosse fatta.
E ….il fuoco fu acceso dal fallimento di Lehman Brothers.
Ora bisognerebbe chiedersi: è sana e duratura un’economia così tanto
smaterializzata?.
Che la risposta sia negativa lo dimostra cosa sta succedendo e ciò che
succederà.
Per tornare, allora, ad una economia sana non si può intervenire
sull’anello finale della catena: la finanza. Ma bisogna partire dall’anello
iniziale di essa: i prodotti.
Ci sembra, invece, che tutti oggi puntino il dito sui danni causati solo da
una finanza che si è ritenuto impazzita, senza, a nostro parere, comprendere
che quella finanza, seppure con aspetti di una patologia ai limiti della truffa,
non poteva che essere fisiologica al sistema economico che si era creato e
che non era più arrestabile. Essa non poteva che essere costretta a
mantenere costantemente investita in strumenti finanziari una teorica
ricchezza creata da un’economia esasperatamente basata sui consumi, pena
l’arresto del circuito vizioso che la cosiddetta economia reale aveva
inventato e sostenuto. Essa doveva necessariamente mantenere in un limbo
di carta una tale sensazione di ricchezza, in attesa che essa si consumasse in
ulteriori e più ampi consumi, non potendosi scaricare sui beni reali,
assolutamente incapienti rispetto alla teorica domanda che li avrebbe
travolti. Anzi, la sua non piena capacità a gestire tale ruolo consentì una
costante e incontrollata crescita dei valori immobiliari che crearono i
cosiddetti subprime.
L’enorme massa di risparmio teorico accumulato in prodotti finanziari,
doveva, quindi, essere destinata esclusivamente a consumarsi in consumi
futuri e non ad essere investita in beni reali, se non in minima parte. Il
problema con il quale ci si è scontrati fu, però, quello che anche tale minima
parte, di un universo così smisurato, era già sufficiente a creare la bolla
immobiliare. Bolla che contribuì a gettare benzina su di un fuoco che già
covava sotto la cenere.
Sotto questo aspetto parlavamo di obbligo del consumo del risparmio.
Un tale gravosissimo compito non poteva essere svolto se non
inventando mercati secondari di mercati secondari, che quotassero tutto e di
più, per liquidizzare prodotti finanziari per loro natura assolutamente
illiquidi.
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Crisi finanziaria o crisi dell’economia reale?
Il risultato fu anche quello di mercati che finivano con il quotare se
stessi. L’inconscia parola d’ordine del sistema era quella che tutto doveva
essere appetibile, vendibile, acquistabile e tutto doveva avere un prezzo.
Intervenire sull’anello iniziale della catena, per ricostituire una economia
sana, significa cominciare dai prodotti, attraverso la loro
rimaterializzazione, la riacquisizione, cioè, del loro valore intrinseco ed
originario che ad essi è assegnabile come proprio DNA.
 Il DNA del prodotto acqua risiede nella sua capacità di dissetare, il
resto è un valore aggiunto artificialmente, la sua vita utile è
misurabile dal tempo che intercorre da una necessità di bere all’altra;
 Il DNA del prodotto detersivo risiede nella sua capacità di pulire, il
resto (il super pulito) costituisce un valore aggiunto artificialmente,
la sua vita utile è misurabile nel tempo che intercorre da un bucato
all’altro;
 Il DNA di un’automobile risiede nella sua capacità di trasportare
comodamente ed in sicurezza, il resto è un valore aggiunto
artificialmente, la sua vita utile è misurabile nel tempo che intercorre
dal motore a scoppio a quello all’idrogeno, dagli air-bag alla
maggiore sicurezza da incidenti;
 Il DNA del prodotto scarpa risiede nel durare camminando, la sua
vita utile, per ciascun paio di diverso uso, è misurabile nel tempo che
intercorre dal primo uso alla necessita di risuolarle.
E così via per tutti i prodotti e servizi, che per il consumismo sfrenato
hanno perduto il loro originario uso e le motivazioni che ne hanno originato
la stessa produzione e consumo.
Certo, tutto ciò presuppone una rivoluzione culturale che se si fosse fatta
prima e con i tempi adeguati sarebbe stata indolore. Oggi tale profondo e
repentino mutamento di stili di vita, obbligato dalla “crisi”, sarà molto
costoso, psicologicamente e socialmente lacerante, anche perché tale
passaggio deve necessariamente transitare attraverso una recessione, che
riassorba le iper-produzioni sospinte dagli iper-consumi di tutti questi anni.
Il sistema troverà un suo equilibrio ed una sua sostenibilità allorchè
ricostituirà un adeguato equilibrio tra la durata della soddisfazione del
consumo e la durata dello strumento che lo ha finanziato.
L’elefantiasi finanziaria veniva, poi, abbondantemente alimentata da un
sistema dei prezzi dei consumi che ha perso qualsiasi riferimento, anche
alla lontana, con i costi di produzione. La capacità delle imprese di imporre
consumi e prezzi ai cosiddetti prodotti di marca consentiva ad esse ricavi e
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Giuseppe Provenzano
utili che nessun riferimento avevano con la base del valore del bene,
costituito dal costo di produzione.
Il tutto a tal punto che il prezzo finiva per essere il misuratore del valore
e non viceversa, come avvenuto per secoli.
Maggiore era il prezzo al quale si riusciva a vendere, maggiore era il
valore che il consumatore assegnava al bene.
Un sistema tautologico che poteva crescere all’infinito.
Lo stesso bene, prodotto con le stesse materie prime, con gli stessi
processi produttivi, nel medesimo stabilimento, con le stesse maestranze,
con gli stessi impianti, sostanzialmente con lo stesso valore intrinseco (con
il solo differenziale di costo costituito dalla necessaria pubblicità atta ad
imporre un prezzo) poteva essere venduto a prezzi assolutamente diversi se
ad esso era applicata una marca o meno. Ciò ha consentito alle imprese
sovra utili derivanti dall’intagible “marca”, a parità di creazione di ricchezza
contenuta nel prodotto. Se la marca, allora, creava una ricchezza aggiuntiva
per l’impresa, atomizzata rispetto al sistema economico, che si trasferiva nei
prodotti finanziari da essa direttamente o indirettamente emessi e collocati
sui mercati, lo stesso non poteva ritenersi per il sistema economico nel suo
complesso, che nei fatti non si arricchiva per il maggior valore espresso
dalla marca, ma solo per la parte di prezzo espresso dal medesimo bene non
di marca.
A chi non è toccato sentire la massaia o la ragazzina ritenere di avere
“risparmiato” solo perché acquistato con lo sconto un bene segnato ad
prezzo originario, non scontato, del doppio di quello pagato?.
A chi non è toccato di acquistare un bagno schiuma o una crema, di
marca, e sentirsi dire dalla commessa che il prezzo pieno del prodotto di €
35,00 veniva scontato a € 20,00 e, per giunta, ringraziare per il regalo
ricevuto?.
Perché non rispondere che se il prezzo pieno anziché € 35,00 fosse stato
di € 42,00 il ringraziamento sarebbe stato più di cuore e robusto!!??.
L’effetto dei prezzi di marca e della smaterializzazione dei prodotti sul
valore creato potrebbe paragonarsi all’effetto che l’allungamento del metro
avrebbe sui record olimpionici. Se un metro fosse di due metri, i vecchi
cento metri si correrebbero in 4,8 secondi ed il salto con l’asta fisserebbe il
suo primato a 12 metri. Potrebbe sostenersi che le performances atletiche
sarebbero migliorate!!!??.
Tutto ciò, è evidente, non creava ricchezza stabile, consolidata e
conservata dal sistema, ma solo un circuito finanziario di trasferimento di
moneta tra i vari soggetti, famiglie e imprese, costantemente alimentato da
una crescita smisurata del credito ad entrambi i soggetti, del quale solo una
minima parte si traduceva in ricchezza della collettività misurata dalla
sicurezza nel futuro.
12
Crisi finanziaria o crisi dell’economia reale?
Lo stanno toccando con mano gli Stati Uniti d’America, fautori ed
iniziatori di tale economia auto referenziata. La crisi sta facendo loro
scoprire che la grande potenza economica e la fantasmagorica ricchezza
prodotta e diffusa in tutti questi decenni, si sta traducendo per il singolo
cittadino in una paurosa povertà e insicurezza nel futuro. Costituite da una
casa super ipotecata, da una o più automobili con decine di rate ancora da
pagare, dall’inesistenza di un sistema sanitario pubblico e gratuito, se non
garantito da un sistema di assicurazioni private che la crisi sta facendo
fallire, da nessuna garanzia di assistenza alla disoccupazione, da nessuna
garanzia pensionistica, se non anch’essa basata su di un sistema di Fondi
Pensione privati anch’essi sull’orlo del fallimento. Ma a tale povertà
assoluta e di incertezza del futuro si contrappone un’enorme ricchezza di
vestiti e di scarpe, indossati magari una sola volta e oramai fuori moda,
stipati in armadi stracolmi, di creme e belletti di tutti i tipi, di rate mensili di
abbonamenti a palestre necessarie a combattere l’obesità dilagante, causata
da tonnellate di bibite e di hamburger ingeriti, di lifting e di manipolazioni
estetiche di tutti i tipi, di frigoriferi che sono stati stracolmi di cibi precotti e
dannosissimi, di vacanze e di crociere esotiche di tutti i tipi e…….. chi più
ne ha più ne metta!!!.
Il tutto già abbondantemente bruciato.
Al danno, poi, la beffa.
Le migliaia e migliaia di case espropriate dalle banche ai mutuatari
morosi sono oggi abbandonate, distrutte, senza più alcun valore per
l’espropriante. A fronte di un debito non onorato, esisteva, comunque, un
valore immobiliare che chi ci abitava manteneva e valorizzava. Oggi quei
crediti restano sempre insoluti, in contro partita dei quali, però, esiste solo
un patrimonio immobiliare distrutto e invendibile. Senza tenere conto del
costo indiretto sostenuto dall’intera collettività per il doversi far carico del
numero crescente di concittadini senza casa.
Il tutto grazie ad un credito ai consumi smisurato, ai bassissimi tassi
d’interesse ed alla costante svalutazione della propria moneta, al più grande
disinteresse per la propria bilancia dei pagamenti, per quella commerciale e
per il proprio indebitamento estero. Del resto, con una moneta di conto
riconosciuta a livello mondiale come merce di scambio da potere stampare a
piacimento ed imporre a tutti i costi, le regole monetarie e finanziarie
divenivano un optional, valide per tutto il mondo tranne che per loro.
La più povera Europa, che tragicamente però si avviava ad entrare nel
tunnel scavato dall’economia U.S.A., seppure uscita distrutta moralmente e
fisicamente da una tragica guerra aveva avuto, comunque, la capacità in
questi decenni di percorrere la via di un’economia capace di creare una
minore ricchezza teorica, ma più stabile e consolidata.
13
Giuseppe Provenzano
Forte di una cultura millenaria, che aveva dato vita al Colosseo, al
Partenone e a Michelangelo, a Bach, Beethoven, Mozart e Verdi, alla
Cappella Sistina e al Battistero di Firenze, a Vienna, Parigi, Londra, Roma,
Venezia, Firenze, Madrid, a Dante e a Shakespeare, a Platone ed Aristotele
e chi più ne ha più ne metta, la nostra vecchia Europa comprendeva,
diversamente dai cugini d’oltreoceano, che seppure il Colosseo fosse una
potenziale area edificabile sulla quale potere costruire due o tre grattacieli,
la ricchezza in esso consolidata e tramandata da generazioni in generazioni
non sarebbe mai stata paragonabile a quella effimera dei potenziali
grattacieli, la cui vita economica media sarebbe stata di appena qualche
decennio.
La più povera Europa comprese, sempre per la sua millenaria cultura, che
un Andy Warhol non avrebbe mai creato una ricchezza culturale solida e
tramandabile quale quella creata da Michelangelo o Raffaello e che il
paragone tra Madonna e Mozart non era effettuabile sulla base dei dischi
venduti. Eppure, il sistema rischiava di fagocitare tale cultura, perché non
più attuale e vendibile. Il cancro del consumismo culturale, insieme a quello
economico, stava infettando anche il nostro caro e vecchio continente.
Paragonare Pirandello a Dario Fo, Gandhi a Kissinger o ad Arafat era il
segnale che le metastasi erano partite.
La crisi che stiamo attraversando non è ne economica ne finanziaria: è
profondamente culturale.
Se non comprendiamo questo, forse usciremo da questa crisi, ma il suo
superamento sarà prodromico di ulteriori crisi sempre più devastanti.
Studiare per conoscere solo il particolare, senza capire il generale, è
sostanzialmente il danno che l’incultura generalizzata ha causato anche
nell’economia.
Università e Masters super specialistici, che insegnano tutte le tecniche
per comporre i derivati o che scoprono cosa Platone o Aristotele
mangiarono un certo giorno della loro vita, senza fare capire a cosa i
derivati servano, quale il loro effetto sull’economia, quale fosse il profondo
pensiero filosofico di Platone o Aristotele, stanno, a nostro parere, alla base
della crisi che stiamo attraversando.
La parcellizzazione della cultura è dimostrata dalle migliaia di
insegnamenti universitari e dalle centinaia di corsi di laurea. Incapaci di
dare agli studenti una visione di sintesi di ciò che imparano e i concetti
primi che stanno alla base di ogni singolo insegnamento. Per cui,
esisterebbero, per rimanere nel nostro campo d’interesse, un’economia delle
aziende industriali ed un’economia di quelle turistiche, quasi che il modo di
essere azienda delle due appartenesse a due mondi assolutamente diversi.
Certo, se non si captano i principi primi che informano entrambe le aziende
ed i settori di appartenenza, la conclusione è certamente quella che la
14
Crisi finanziaria o crisi dell’economia reale?
produzione di automobili o di viaggi appartengono a due universi
assolutamente diversi.
La crisi che stiamo attraversando, allora, non sarà superata
strutturalmente se non si prenderà atto che 20 anni fa cadde una metà del
muro di Berlino e che oggi è caduta l’altra metà, che in 20 anni sono entrati
in crisi due modelli sociali ed economici.
Se non si rifletterà che i milioni di morti, necessari perché due tragici
regimi non ci mettessero tutti in divisa o ci imponessero i loro stili di vita,
non hanno, poi, evitato che poche multinazionali di fatto ci
irreggimentassero nel vestiario, nel cibo, nella nostro modo di essere e di
vivere. Temevamo che il KGB, la STASI o la CIA entrassero a controllare
il nostro quotidiano, fatto che oggi con disinvoltura consentiamo alle società
telefoniche, ai gestori della pubblicità e delle vendite, ai telepass, alle carte
di credito, ai bancomat, ai sistemi di video sorveglianza ai quali tutti oggi
possono accedere. Credevamo che una massa enorme di persone, armati di
un libretto rosso, avrebbero potuto espropriarci delle nostre case, abbiamo
ad essi esportato il nostro sistema economico ed oggi, gli stessi, sono una
delle cause principali che stanno facendo espropriare le case a milioni di
occidentali. Credevamo che l’aereo fosse un mezzo rapido per gli
spostamenti, ci accorgiamo che la durata del volo rappresenta un quarto dei
tempi di attesa necessari per imbarcarci.
La capacità di un’economia di creare ricchezza stabile, duratura e
consolidata, che negli anni si aggiunge, si conserva e si stratifica a favore
delle nuove generazioni e non sia destinata a bruciarsi nel momento stesso
in cui si crea, è l’essenza stessa del significato di Economia.
Anche il sistema economico e finanziario più complesso e sofisticato
non può mai perdere di vista la missione principe che ad esso è affidata: la
crescita morale, culturale dell’uomo, il suo stabile benessere e la serenità
futura per se e per chi lo seguirà.
L’Economia di un Pese, di una serie di Paesi, di un continente o del
mondo intero è l’economia delle singole famiglie che li compongono. Se è
vero che ognuna di essa si arricchisce non per il risparmio finanziario che
accumula, che non può che essere solo transitorio, ma per la capacità che
esso deve possedere di potersi investire in beni reali ad utilizzo pluriennale
o infinito o in consumi ad alto contenuto di crescita sociale e culturale,
sanità, formazione, territorio, trasporti, vivibilità, ecc. ecc., bisogna
coerentemente riconoscere che una comunità, sommatoria di famiglie, non
può arricchirsi solo attraverso una serie di consumi effimeri, i quali devono
essere solo funzionali, se ben dosati con quelli duraturi, a creare le
condizioni per risparmiare in modo stabile e duraturo.
15
Giuseppe Provenzano
Non intendiamo, certo, fornire in conclusione ricette per uscire
stabilmente dalla “crisi”.
Ci sembra, però, che due siano le strade possibili: la prima, mettere
qualche pezza al sistema entrato in crisi, cercando di riproporlo con la stessa
logica, anche se con qualche regola in più; la seconda, comprendere che il
sistema è in crisi strutturale e, come tale, ridisegnarlo, anche se con i tempi
ed i sacrifici necessari.
 La prima strada, ci sembra, essere quella che quasi tutti i Governi
stanno tentando di fare. Abbassare i tassi di interesse, fornire
liquidità alle banche ed al sistema per rilanciare i consumi e ridare
valore alla ricchezza finanziaria in circolazione, dando, così,
solvibilità e fiducia ai consumatori- risparmiatori. Tale via farà
entrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta. Il costo per la
collettività sarà enorme e si scaricherà necessariamente sulle
generazioni future. Riaccenderemo un fiammifero che,
inevitabilmente, rimarrà in mano a qualcuno in futuro.
 La seconda strada potrebbe essere quella di prendere atto che il
sistema, che potremmo definire tautologico di una ricchezza
autoreferenziata, basato su consumi effimeri, sostenuti da così
elevati crediti al consumo, erogati da un parabancario che sfugge a
qualsiasi controllo e possibilità di intervento e che crea solo una
fittizia ricchezza finanziaria, va necessariamente superato e
archiviato. Una tale via creerà necessariamente una recessione dalla
quale, però, si uscirà con un sistema economico e finanziario meno
fasulli, meno instabili e più solidi.
Un’Economia più sobria, più equilibrata, che guardi maggiormente alla
sostanza dei beni e dei servizi consumabili, che rivisiti i totem
paradigmatici, in parte oramai obsoleti, di ricchezza e di povertà e che
ridisegni un sistema di valori per il quale le imprese tornino ad essere
funzionali ad esaudire i bisogni dell’uomo, seppure con un processo di
reiterazione reciproco, e non viceversa, ci sembra la via unica e migliore
perché la crisi in atto sia una opportunità e non un problema.
16
DIPARTIMENTO DI ECONOMIA AZIENDALE
PAPERS PUBBLICATI DAL 2006 AL 2009:
52- Cinzia DABRASSI PRANDI, Relationship e Transactional Banking models, marzo
2006.
53- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Federica LEVATO, Brand Extension &
Brand Loyalty, aprile 2006.
54- Mario MAZZOLENI, Marco BERTOCCHI, La rendicontazione sociale negli enti
locali quale strumento a supporto delle relazioni con gli Stakeholder: una riflessione
critica, aprile 2006
55- Marco PAIOLA, Eventi culturali e marketing territoriale: un modello relazionale
applicato al caso di Brescia, luglio 2006
56- Maria MARTELLINI, Intervento pubblico ed economia delle imprese, agosto 2006
57- Arnaldo CANZIANI, Between Politics and Double Entry, dicembre 2006
58- Marco BERGAMASCHI, Note sul principio di indeterminazione nelle scienze sociali,
dicembre 2006
59- Arnaldo CANZIANI, Renato CAMODECA, Il debito pubblico italiano 1971-2005 nell'apprezzamento economico-aziendale, dicembre 2006
60- Giuseppina GANDINI, L’evoluzione della Governance nel processo di trasformazione
delle IPAB, dicembre 2006
61- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Ottavia PELLONI, Brand Extension:
l’impatto della qualità relazionale della marca e delle scelte di denominazione, marzo
2007
62- Francesca GENNARI, Responsabilità globale d’impresa e bilancio integrato, marzo
2007
63- Arnaldo CANZIANI, La ragioneria italiana 1841-1922 da tecnica a scienza, luglio
2007
64- Giuseppina GANDINI, Simona FRANZONI, La responsabilità e la rendicontazione
sociale e di genere nelle aziende ospedaliere, luglio 2007
65- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Ottavia PELLONI, La valutazione di
un’estensione di marca: consonanza percettiva e fattori Brand-Related, luglio 2007
66- Marco BERGAMASCHI, Crisi d’impresa e tecnica legislativa: l’istituto giuridico
della moratoria, dicembre 2007.
67- Giuseppe PROVENZANO, Risparmio…. Consumo….questi sconosciuti !!! , dicembre
2007.
68- Elisabetta CORVI, Alessandro BIGI, Gabrielle NG, The European Millennials versus
the US Millennials: similarities and differences, dicembre 2007.
69- Anna CODINI, Governo della concorrenza e ruolo delle Authorities nell’Unione
Europea, dicembre 2007.
70- Anna CODINI, Gestione strategica degli approvvigionamenti e servizio al cliente nel
settore della meccanica varia, dicembre 2007.
71- Monica VENEZIANI, Laura BOSIO, I principi contabili internazionali e le imprese
non quotate: opportunità, vincoli, effetti economici, dicembre 2007.
72- Mario NICOLIELLO, La natura economica del bilancio d’esercizio nella disciplina
giuridica degli anni 1942, 1974, 1991, 2003, dicembre 2007.
73- Marta Maria PEDRINOLA, La ristrutturazione del debito dell’impresa secondo la
novella dell’art 182-bis L.F., dicembre 2007.
74- Giuseppina GANDINI, Raffaella CASSANO, Sistemi giuridici a confronto: modelli di
corporate governance e comunicazione aziendale, maggio 2008.

Serie depositata a norma di legge. L’elenco completo dei paper è disponibile al
seguente indirizzo internet http://www.deaz.unibs.it
17
75- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Michela APOSTOLO, Dominanza della
marca e successo del co-branding: una verifica sperimentale, maggio 2008.
76- Alberto MARCHESE, Il ricambio generazionale nell’impresa: il patto di famiglia,
maggio 2008.
77- Pierpaolo FERRARI, Leasing, factoring e credito al consumo: business maturi e in
declino o “cash cow”?, giugno 2008.
78- Giuseppe BERTOLI, Globalizzazione dei mercati e sviluppo dell’economia cinese,
giugno 2008.
79- Arnaldo CANZIANI, Giovanni Demaria (1899-1998) nei ricordi di un allievo, ottobre
2008.
80- Guido ABATE, I fondi comuni e l’approccio multimanager: modelli a confronto,
novembre 2008.
81- Paolo BOGARELLI, Unità e controllo economico nel governo dell’impresa: il
contributo degli studiosi italiani nella prima metà del XX secolo, dicembre 2008.
82- Marco BERGAMASCHI, Marchi, imprese e sociologia dell’abbigliamento d’alta
moda, dicembre 2008.
83- Marta Maria PEDRINOLA, I gruppi societari e le loro politiche tributarie: il dividend
washing, dicembre 2008.
84- Federico MANFRIN, La natura economico-aziendale dell’istituto societario, dicembre
2008.
85- Sergio ALBERTINI, Caterina MUZZI, La diffusione delle ICT nei sistemi produttivi
locali: una riflessione teorica ed una proposta metodologica, dicembre 2008.
86- Giuseppina GANDINI, Francesca GENNARI, Funzione di compliance e
responsabilità di governance, dicembre 2008.
87- Sante MAIOLICA, Il mezzanine finance: evoluzione strutturale alla luce delle nuove
dinamiche di mercato, febbraio 2009.
88- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Brand extension, counterextension,
cobranding, febbraio 2009.
89- Luisa BOSETTI, Corporate Governance and Internal Control: Evidence from Local
Public Utilities, febbraio 2009.
90- Roberto RUOZI, Pierpaolo FERRARI, Il rischio di liquidità nelle banche: aspetti
economici e profili regolamentari, febbraio 2009.
91- Richard BAKER, Yuri BIONDI, Qiusheng ZHANG, Should Merger Accounting be
Reconsidered?: A Discussion Based on the Chinese Approach to Accounting for
Business Combinations, maggio 2009.
18
ARTI GRAFICHE APOLLONIO
Università degli Studi
di Brescia
Dipartimento di
Economia Aziendale
Giuseppe PROVENZANO
CRISI FINANZIARIA
O CRISI DELL’ECONOMIA REALE?
Paper numero 92
Università degli Studi di Brescia
Dipartimento di Economia Aziendale
Contrada Santa Chiara, 50 - 25122 Brescia
tel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814
e-mail: [email protected]
Maggio 2009
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