ARTI GRAFICHE APOLLONIO Università degli Studi di Brescia Dipartimento di Economia Aziendale Giuseppe PROVENZANO CRISI FINANZIARIA O CRISI DELL’ECONOMIA REALE? Paper numero 92 Università degli Studi di Brescia Dipartimento di Economia Aziendale Contrada Santa Chiara, 50 - 25122 Brescia tel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814 e-mail: [email protected] Maggio 2009 CRISI FINANZIARIA O CRISI DELL’ECONOMIA REALE? di Giuseppe PROVENZANO Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese Università degli Studi di Brescia Crisi finanziaria o crisi dell’economia reale? Scrivevamo, alcuni anni fa (2004) prima della “crisi”, quando tutto sembrava andare a gonfie vele, la crescita dei P.I.L. robusta e, appariva, inarrestabile, gli utili aziendali capaci di soddisfare infinite crescite dei capitali economici delle imprese, alimentate da imponenti finanziamenti di debito sostenuti da eccellenti “rating” forniti con disinvoltura e lautamente ricompensati, da out-look di “buy”, espressi dalle infallibili banche d’affari altamente impegnate a finanziare, cartolarizzare e rivendere sui mercati i loro crediti, che da esse transitavano solo il breve spazio di un mattino, concessi alle solidissime imprese per le quali consigliavano “buy”, “buy” e……ancora “buy”. Il tutto condito dagli sforzi immani delle società di certificazione, avallati e sostenuti da autorevolissima dottrina aziendalista, per determinare valutazioni degli “intagible” (parola magica se americanizzata, meno prosaica se italianizzata) capaci di valorizzare in modo sempre più robusto gli utili e i capitali economici delle imprese, necessari a chiudere il cerchio di presunte creazioni e diffusioni di ricchezza, funzionali a fare sentire tutti più ricchi e, pertanto, a consumare sempre di più……., scrivevano, appunto, che, forse, un giorno qualcuno avrebbe scoperto che “ il Re era nudo……”. Scrivevamo, ancora, che il sistema aveva inventato un nuovo uovo di Colombo, necessario, appunto, a sostenere il castello di carta che andava via, via erigendosi: il credito al consumo. Le cosiddette “comode rate”, attraverso le quali sostenere produzioni invendibili al presente, peraltro con prezzi finali e complessivi indeterminabili per il pubblico della massa dei consumatori, che, di fatto, compravano una rata, incuranti ed inconsapevoli del prezzo del bene acquistato, a volte indefinito e indefinibile e che, comunque, interessava sempre meno al consumatore, attento solo alla teorica sostenibilità della rata mensile. A quanti è capitato, in quell’orgia consumistica rateizzata, di chiedere quale fosse il prezzo di un bene se pagato immediatamente contanti e sentirsi rispondere che, poiché la rateizzazione era a tasso zero, il prezzo a pronti e a termine coincidevano……, magia di una finanza innovativa (!!!), che aveva superato a piè pari l’assioma sul quale per secoli si era basato il concetto economico fondamentale (evidentemente troglodita) che vuole un Euro domani valere meno di un Euro oggi!!!. Per cui, pagare con la carta di credito equivaleva a pagare in contanti, sebbene la prima avesse costi del servizio e valute di accredito più onerose del contante rifiutato. Ma in Paesi evoluti!!! chi non fosse stato in grado di presentare una o più carte di credito non meritava di potere acquistare neanche per contanti, perché ritenuto un rapinatore o un riciclatore. Scrivevamo, ancora, sempre nell’età dell’oro, che il credito al consumo, che finanziava chi nulla produceva: i consumatori, era un modo occulto di 1 Giuseppe Provenzano finanziare l’impresa da parte dei consumatori stessi. I quali, in uno con l’acquisto del bene o del servizio, di fatto creavano un prodotto finanziario, che, attraverso la sua cartolarizzazione e una catena di intermediazione più o meno lunga, veniva da essi riacquistato e finiva indirettamente nei loro portafogli, attraverso le quote dei Fondi Pensione o di quelle dei Fondi Comuni o nelle Gestioni Patrimoniali, finanziando, così, indirettamente l’impresa delle quali erano i consumatori. Essi divenivano, così, inconsapevolmente consumatori e, nel contempo, finanziatori diretti delle imprese e non più indiretti, come sempre accaduto nell’età del bronzo, attraverso il sistema classico di intermediazione finanziaria, che assumeva su di se il rischio del finanziamento. Intermediazione, quella, sostanzialmente bancaria, controllata e garantita nella sua solvibilità dalle autorità di vigilanza. Quanto più il sistema bancario si trasformava da finanziatore diretto e da moltiplicatore, regolato e vigilato, del credito e della moneta secondaria, in un complesso di aziende produttrici e venditrici di prodotti finanziari, di loro derivati, di derivati di derivati, di titoli variamente strutturati da collocare liberamente ed in quantità incontrollabile nei portafogli dei consumatori-risparmiatori, il controllo del credito, fondamentale per gestire la politica economica e la creazione di ricchezza finanziaria, sfuggiva a qualsiasi possibilità di regolamentazione. Sostenevamo, ancora allora, che i prodotti finanziari divenivano sempre più prodotti di largo consumo, collocati con gli stessi metodi del porta a porta, venduti in luoghi insoliti ed occulti (supermercati, grandi magazzini, concessionarie di auto, megastore di elettrodomestici, ecc. ecc.), con evidente indeterminatezza tra il loro valore ed il prezzo di collocamento. Il risparmiatore, dicevamo, si approcciava ad essi con la medesima propensione con la quale si approcciava all’acquisto di un detersivo o di un dentifricio: l’assoluta incompetenza a determinare i loro poteri magici, spinto solo dai messaggi sensazionali che i due consumi gli alimentavano e fiducioso solo sulla presunta serietà e professionalità dei proponenti. Eravamo giunti a parlare di consumismo del risparmio. Vero è che il credito al consumo è sempre esistito, ma il suo passaggio da credito direttamente erogato dal sistema bancario e, come tale, controllato e gestibile dalle autorità monetarie e di vigilanza, a credito direttamente erogato dai risparmiatori, anche se intermediato dal sistema bancario, costituiva una rivoluzione copernicana di cui pochi si stavano accorgendo. Distolti dai nuovi concetti imperanti di banca universale e di banca impresa. Pochi, a nostro avviso, compresero che un tale passaggio comportava la trasformazione della banca da intermediario puro ad azienda industriale produttrice e venditrice di carta finanziaria, il cui prezzo, così come 2 Crisi finanziaria o crisi dell’economia reale? avveniva ed avviene per i beni di largo consumo, poteva essere liberamente definito ed imposto dal produttore. Del resto, il mercato sul quale collocare a qualsiasi prezzo tali prodotti era non solo immenso e costantemente foraggiato da una crescente ricchezza finanziaria auto-alimentata dallo stesso sistema, ma aveva nei Fondi Pensione i grandi e costanti acquirenti, ammortizzatori, tra l’altro, di mercati secondari per tale scopo sempre più ampi e sofisticati, fino ai limiti di contrattare anche indici e indici di indici. Il tutto supportato egregiamente e con qualche disinvoltura dalle società di rating, i cui indici venivano assegnati a mani basse, incuranti sostanzialmente del valore dei sottostanti, ma solo di quello che al mercato esse riuscivano a fare assegnare attraverso i loro “autorevoli” outlook. Come con successo sperimentato per i capi di abbigliamento, valutati solo dalle griffe e non più dai loro contenuti oggettivi, che trovano una sorta di sublimazione solo nell’etichetta, anche ai titoli veniva assegnata la loro griffe (AAA; aa; ab; ecc.), che ne definiva il valore di scambio per un mercato al minuto, incapace di valutare gli elementi di base che ne avevano supportato il rating. Quelli che per il mercato reale erano gli Armani, i Valentino, i Versace, gli YSL, per il mercato finanziario erano i Moody’s, i Fitch, i Citigroup, gli Standard &Poors. Un sistema del genere, scrivevamo ancora, aveva in se una bomba ad orologeria pronta a scoppiare, costituita dal fatto che il credito al consumo, così generalizzato e diffuso, consentiva alle imprese produzioni e vendite che scontavano un futuro sempre più lungo (dicevamo un futuro del futuro) e, come tale, sempre più incerto. I loro ricavi e, conseguentemente, i loro utili prospettici si formavano e venivano valutati sulla base di produzioni ai limiti del sostenibile per periodi così lunghi, che necessitavano del presupposto di consumi sempre maggiori e di obsolescenze sempre più rapide delle esigenze e delle aspettative di felicità che i consumi erano chiamati a soddisfare. Affermavamo, sempre ancora, che il credito al consumo così strutturato finiva per consentire alle imprese una leva finanziaria insostenibile alla lunga, attraverso un reale indebitamento mascherato da ricavi. Si scaricava, così, sui consumatori una leva finanziaria che direttamente alle imprese non sarebbe stata concessa. La conclusione era quella, a nostro parere, che si consideravano ricavi di esercizio quelli che avrebbero dovuto essere definiti una sorta di risconti passivi, di ragioneristica memoria. Incassi, cioè, di ricavi di competenza futura. Ad una tale affermazione giungevamo attraverso il seguente ragionamento: 3 Giuseppe Provenzano se è vero che ogni vendita effettuata nell’esercizio costituisce un ricavo dell’esercizio in cui essa è stata rilevata, ciò a prescindere da come l’acquirente abbia finanziato l’acquisto; è altrettanto vero che una tale affermazione, se assolutamente incontestabile per la singola impresa, soffre di una limitazione al livello di sistema delle imprese, se analizzato nel suo complesso; infatti, affinché una tale affermazione abbia una sua validità, come sistema, è necessario che esista una correlazione tra i tempi di sopravvivenza della soddisfazione che ha alimentato e portato al consumo e lo strumento attraverso il quale il consumatore ha finanziato il consumo stesso; se il consumo casa esaurisce la sua vita in un lungo periodo di tempo, tale consumo può essere finanziato attraverso uno strumento che sopravviva per un tempo non più lungo della sopravvivenza della casa stessa; il consumo di un caffè, che fosse finanziato attraverso il rilascio di una cambiale a dieci anni, attraverso, cioè, uno strumento di finanziamento che superasse la sopravvivenza della soddisfazione del consumo stesso, comporterebbe l’esistenza di una ricchezza finanziaria in circolazione che sopravviverebbe di gran lunga alla vita stessa del consumo che ha finanziato; in quest’ultimo caso, seppure la singola impresa potrebbe ritenere la vendita del caffè come un ricavo dell’esercizio, il sistema non potrebbe non considerare quel ricavo come l’anticipazione di un ricavo di competenza del decimo anno, a meno che non si ritenesse, fondatamente, che all’infinito si consumeranno caffè con pagamento a dieci anni. Quest’ultima è stata l’ipotesi su cui tutto si è basato. Si è ritenuto, infatti, che il tempo del finanziamento dei consumi fosse assolutamente irrilevante, posta la loro presunta e infinita crescita. A seguito di tale presunzione, in tutti questi ultimi anni, sono stati creati in volumi pressoché infiniti strumenti di finanziamento (tradotti, poi, in prodotti finanziari) dei consumi che sopravvivevano per tempi sempre più lunghi, rispetto al permanere delle motivazioni che avevano spinto il consumo e la soddisfazione che da essi si traeva. 4 Crisi finanziaria o crisi dell’economia reale? Anzi, mentre si allungavano i tempi dei finanziamenti al consumo, per spingerli sempre più in alto, si faceva di tutto per aumentare l’obsolescenza dei consumi stessi, condizione fondamentale per una loro costante crescita, sia attraverso il continuo accorciamento dei tempi di soddisfazione dei consumatori per il bene acquistato, sia attraverso la cosiddetta innovazione, che, se da un lato alimentava sempre rinnovati consumi, dall’altro lato ne riduceva contestualmente ed inesorabilmente la vita utile. La forbice tra i tempi utili del consumo e la sopravvivenza dei finanziamenti che lo consentivano si allargava inesorabilmente e in modo sempre più marcato. Fino al punto al quale siamo giunti, in cui il livello dei finanziamenti, che hanno alimentato i consumi e che costituiscono la ricchezza finanziaria esistente ed in circolazione, non può più essere sostenuta da plausibili ipotesi sui consumi futuri. Il Re era definitivamente nudo. Il fantomatico Tasso Zero, che è di per se un non senso finanziario e che non esiste neanche in natura, a meno che non avesse senso una domanda che recitasse: “è meglio un uovo oggi o una gallina oggi?”, ha dato il colpo di grazia ad un sistema ai limiti del collasso. Fintantoché il credito al consumo era nei fatti intermediato ed erogato dalla banche, il consumatore che vi volesse ricorrere aveva un chiaro riferimento del costo del finanziamento che richiedeva. Egli si accorgeva con chiarezza del differenziale tra quanto anticipatogli dalla banca per acquistare al prezzo di listino il bene che desiderava e quanto ad essa doveva restituire per tutta la durata del prestito. Il costo del credito al consumo era chiaro, immediato e facilmente leggibile da chiunque. Il tasso di interesse applicato, quindi, aumentava o diminuiva tale differenziale ed aveva l’effetto di invogliare, di rinviare o di fare rinunciare all’acquisto. La manovra dei tassi d’interesse, che più o meno direttamente si riverberava sui tassi dei finanziamenti bancari e quindi sul costo del credito al consumo, poteva avere l’effetto di aumentare o di diminuire la propensione a consumare. Il tasso zero, nei fatti, nasconde il costo del finanziamento, che si ingloba nel prezzo di listino del bene o del servizio, divenendo, così, un unicum inscindibile. La manovra sui tassi, in questo caso, non ha alcun effetto esplicito sul costo effettivo del finanziamento, nascosto in un prezzo di listino che già comprende costi del finanziamento di gran lunga superiori a quelli di mercato e che, quindi, perde il ruolo di regolatore della domanda di consumi. Per ogni frigorifero, lavatrice, automobile venduti, ma anche per le vacanze, le crociere e, attraverso le carte di credito, anche per ogni litro di benzina, panino, biglietto aereo, detersivo, confezione di latte ecc. ecc. si creava un prodotto finanziario che sopravviveva per un mese, per più mesi 5 Giuseppe Provenzano o, addirittura, per anni al bene o servizio che si era acquistato. Il consumatore, abbiamo già detto, in uno con il consumo creava un prodotto finanziario che costituiva la teorica ricchezza che la massa dei consumatoririsparmiatori riteneva di possedere. Il bengodi era assicurato…!!!!. più si consumava, più ci si arricchiva…???!!!!. I più furbi impacchettavano i crediti erogati e immediatamente se ne disfacevano, collocandoli direttamente o indirettamente su di un mercato del risparmio (…!!!), che per la mole crescente di ricchezza teoricamente creata dai consumi, non poteva che acquistare prodotti finanziari o beni immobili, il cui costante lievitare dei prezzi consentiva ulteriori concessioni di credito e la creazione di altra carta finanziaria. Il consumatore-risparmiatore si indebitava sempre più con se stesso: infatti, da un lato egli creava uno strumento di debito attraverso il suo consumo che, in contro partita, diveniva un prodotto finanziario da lui stesso riacquistato come risparmiatore, nel quale trasferiva la maggiore presunta ricchezza finanziaria che derivava dal suo stesso consumo presente a da quello stimato futuro. Tanto più consumava, tanto più ci si indebitava, ai limiti della propria insolvenza se solo si fosse consumato di meno. Tanto più ci si indebitava, tanto più si acquistavano crediti nei confronti di se stessi, collegati ai propri teorici ed attesi consumi futuri. Crediamo si debba prendere atto che ciò che si andava creando in un sistema del genere era solo un’illusione di ricchezza, che poggiava sul nulla. La crisi non ci sta rendendo più poveri di ieri. È solo svanita l’illusione di ricchezza che un tale sistema aveva creato ed alimentato. È come se chi nel deserto, avvistando a distanza una pozza d’acqua, ritenesse già di esserne ricco e favoleggiasse grandi abluzioni, e, appena scoperto trattarsi solo di un miraggio, si disperasse sentendosi più povero di prima: l’illusione sarebbe svanita non la realtà. Se è vero che illusioni e speranze son il motore stesso dell’Economia, altrettanto vero è che deve esistere un limite tra l’acquistare un gratta e vinci e lo spendere immediatamente la vincita solo sperata. Sostenevamo, ancora, che un credito al consumo così massificato e spalmato su di una vastissima platea di creditori e fuori dal classico sistema bancario, finiva con il fare operare le imprese del settore con la stessa logica con la quale operano le imprese assicurative, senza che esse avessero, però, gli stessi vincoli di riserva a queste ultime imposte da un sistema permeante di controlli. Alle imprese erogatrici di credito al consumo, infatti, la massa e la diversificazione dei crediti concessi consentiva di predeterminare con ottima 6 Crisi finanziaria o crisi dell’economia reale? approssimazione i livelli di insolvenza, che potevano assimilarsi, attraverso il calcolo delle probabilità e dei grandi numeri, ai sinistri subiti dalle imprese di assicurazione. Sarebbe stato loro sufficiente assicurare tali rischi attraverso l’applicazione di un tasso d’interesse, che consentisse di spalmare su tutto il portafoglio crediti le perdite per l’insolvenza programmata, perché gli utili fossero assicurati e le insolvenze ininfluenti. Se poi si pone mente al fatto che le morosità e le insolvenze venivano vendute a prezzi stracciati ad imprese di recupero crediti, ottenendo anche un conseguente risparmio fiscale sulle minusvalenze di portafoglio, ben si comprende che le difficoltà finanziarie del debitore non avevano alcun effetto reale sui bilanci dei creditori. A soffrire della propria insolvenza restava solo il consumatore affidato, inseguito fino all’inverosimile dai cessionari del credito. Mai si era assistito ad un sistema nel quale l’insolvenza del debitore fosse nei fatti assolutamente ininfluente per il creditore. Un uovo di Colombo nell’uovo di Colombo. La massa dei crediti, poi, adeguatamente impacchettati e strutturati dalle Primarie Banche d’affari, venivano ceduti come titoli ad altissimo rating ai cosiddetti Investitori Istituzionali, tra i quali le banche commerciali, le società di assicurazione, i fondi pensioni, i fondi comuni d’investimento, ecc.ecc., la cui raccolta cresceva a ritmi anche maggiori dei consumi che alimentavano il …..risparmio!!!!. Tutto avrebbe potuto filare liscio se al grido: “il Re è nudo” i calcoli delle probabilità, che avevano egregiamente tenuto per anni, non fossero rovinosamente crollati. Il tragico grido risuonò a Wall Street nella sede della Lehman Brothers, che scoprì di essere insolvente, avendo in portafoglio una quantità smisurata di carta straccia non più riciclabile. L’errore di lasciare fallire tale banca d’affari fu tragico, fece scoprire che tutte le Istituzioni finanziarie erano sull’orlo dell’insolvenza, in quanto investitrici in titoli definiti tossici, che tali non erano divenuti a seguito della crisi, ma tali erano sempre stati sin dall’origine per il loro stesso DNA. La decisione di salvare a tutti i costi il sistema bancario e finanziario si rese necessaria ma sicuramente tardiva. Il grido era già stato lanciato. Credo che solo la storia dirà se il lasciare fallire la Lehman Brothers fu la migliore decisione, consentendo l’interruzione di un sistema economico e finanziario intossicato dal consumismo, o se invece fu il più grande errore che si potesse commettere, scelta che obbligherà tutti gli Stati del mondo a bruciare migliaia (se non milioni) i di miliardi di dollari o di euro, ipotecando l’avvenire delle future generazioni, pur di mantenere in piedi, rattoppandolo, un sistema profondamente malato. Ma un altro paradosso mi sembra si sia verificato in questi anni. 7 Giuseppe Provenzano Le regole sui deficit e sull’indebitamento dettate da Maastricht hanno avuto di fatto l’effetto che quanto non finanziato attraverso il debito pubblico è stato finanziato attraverso il debito privato. Si è, di fatto, assistito ad un trasferimento del debito e del servizio dello stesso dalla fiscalità proporzionale e progressiva sui redditi e, quindi, con un loro carico distribuito proporzionalmente o progressivamente su tutti i contribuenti persone fisiche o giuridiche, alle spalle dei singoli cittadini e prevalentemente di quelli meno abbienti, che quasi esclusivamente sono stati i fruitori del credito al consumo, non potendo più ridurre i loro consumi divenuti oramai assolutamente inelastici, nonostante le minori elargizioni pubbliche. Infatti, alla minore crescita nel nostro Paese del debito pubblico ha fatto riscontro un’enorme crescita del credito al consumo. L’indebitamento consolidato è di fatto cresciuto, spostandone l’onere da più abbienti ai meno abbienti. Oggi l’insolvenza dei secondi necessita del loro rifinanziamento attraverso l’ampliamento dei deficit e dell’indebitamento Statale. Mi sembra si corra il rischio, oramai però ineludibile, di fare rientrare dalla finestra quello che si era tentato di fare uscire dalla porta. Ma il credito al consumo, nelle forme appena descritte, oltre a creare le distorsioni finanziarie di cui abbiamo più sopra parlato, innestava simultaneamente un circuito a spirale crescente che si rifletteva su tutto il sistema di affidabilità delle imprese, sulla loro capacità di ottenere sempre maggiori linee di credito e di creare, a loro volta, altra carta finanziaria, che si sommava a quella creata dai loro consumatori. Il tutto, poi, aveva effetti sulle valutazioni dei loro capitali economici e, quindi, sui livelli di ricchezza finanziaria da essi rappresentati. L’anticipazione smisurata dei consumi futuri creava ricavi, utili e capitali economici sostanzialmente drogati, che potevano ritenersi reali solo a patto che il sistema di crescita costante ed impetuosa fosse ritenuto infinito. Poiché la valorizzazione dei capitali economici delle imprese si basa sul concetto dell’attualizzazione degli utili o dei dividendi futuri che, normalizzati, si ritengono se non infiniti almeno proiettati per un periodo di tempo molto lungo, utili o dividendi drogati comportavano valutazioni drogate dei capitali delle imprese. Il crescente livello dei capitali economici, che misura il livello di affidabilità e, conseguentemente, di credito erogabile, comportava il suo correlato ampliamento, creando così quel circuito spirale crescente di creazione e valorizzazione di ulteriore carta finanziaria. Ogni bene venduto creava, allora, un doppio circuito di carta finanziaria: quella emessa dai consumatori e quella emessa dalle imprese. In un processo circolare crescente, che si pensava proiettato all’infinito. 8 Crisi finanziaria o crisi dell’economia reale? La condizione perché l’ipotesi di crescita infinita fosse plausibile risiedeva, però come abbiamo già più sopra accennato, nella necessità di rendere sempre più breve il ciclo di vita dei consumi. La loro rapidissima obsolescenza diveniva condizione ineludibile. Essa veniva assicurata da una vertiginosa innovazione di prodotti e di processi produttivi tendenti, da un lato, a invogliare masse più ampie di consumatori o a fare rinnovare i consumi di quelli già acquisiti, dall’altro lato a ridurre i prezzi, per fare fronte ad una concorrenza sempre più agguerrita e globalizzata. Ma la più rapida obsolescenza dei prodotti comportava correlativamente una maggiore obsolescenza degli investimenti, che bruciavano, così, più rapidamente i finanziamenti che erano stati necessari a sostenerli. La vertiginosa innovazione, che nei fatti assumeva sempre di più il ruolo di costo necessario alla sopravvivenza e sempre di meno la qualifica d’investimento di lungo termine, a seguito dell’indeterminatezza dei tempi della sua sopravvivenza ed utilità, trovava valutazione e capitalizzazione come “intagible”, concorrendo ad amplificare gli asset aziendali e, correlativamente, le loro valorizzazioni. Il mercato finiva per valutare a prezzi esorbitanti marchi, brevetti, avviamenti, che del resto apparivano sempre più copiosamente nei bilanci delle imprese. Le cosiddette operazioni di finanza straordinaria (fusioni, scissioni, apporti in natura, ecc. ecc.) divenivano operazioni ordinarie, attraverso le quali le imprese si scambiavano parti immateriali di se stesse, contribuendo a creare, ad ingigantire e a collocare sui mercati ulteriori strumenti finanziari che consentivano ed alimentavano tali operazioni. La dottrina aziendalista, poi, faceva la sua parte. Sia attraverso la scientificazione delle valutazione di tali assets immateriali, sia attraverso la teorizzazione dell’impresa immateriale, inneggiando alla necessità di sempre maggiori flessibilità delle strutture aziendali, che smaterializzate divenivano sempre più leggere….!!!!!. Dicevamo che - in un sistema che andava via, via smaterializzando i prodotti, che perdevano sempre di più la loro fisicità per assumere aspetti crescenti di strumenti di soddisfazione solo di sensazioni (per cui l’acqua minerale perdeva costantemente il contenuto di acqua, bene per dissetarsi, acquisendo prevalentemente quello di strumento per essere belli, sani, in linea e partecipativi del contesto), in un sistema che smaterializzava sempre di più le imprese, che divenivano sempre meno aziende di produzione diretta e sempre di più assemblatrici e marchiatrici di produzioni sempre di più delocalizzate – non bisognava stupirsi più di tanto se la catena di smaterializzazione si fosse conclusa a valle in strumenti finanziari smaterializzati. Nel senso non delle loro fisicità (strumento finanziario elettronico) ma del loro contenuto. 9 Giuseppe Provenzano Alla virtualizzazione dei prodotti e delle imprese, sarebbe necessariamente seguita la virtualizzazione del risparmio e degli strumenti che lo rappresentavano. La padella, il burro, le uova, il sale e il pepe (per chi lo mette) erano già sui fornelli, era solo sufficiente che qualcuno accendesse il fuoco perché…………la frittata fosse fatta. E ….il fuoco fu acceso dal fallimento di Lehman Brothers. Ora bisognerebbe chiedersi: è sana e duratura un’economia così tanto smaterializzata?. Che la risposta sia negativa lo dimostra cosa sta succedendo e ciò che succederà. Per tornare, allora, ad una economia sana non si può intervenire sull’anello finale della catena: la finanza. Ma bisogna partire dall’anello iniziale di essa: i prodotti. Ci sembra, invece, che tutti oggi puntino il dito sui danni causati solo da una finanza che si è ritenuto impazzita, senza, a nostro parere, comprendere che quella finanza, seppure con aspetti di una patologia ai limiti della truffa, non poteva che essere fisiologica al sistema economico che si era creato e che non era più arrestabile. Essa non poteva che essere costretta a mantenere costantemente investita in strumenti finanziari una teorica ricchezza creata da un’economia esasperatamente basata sui consumi, pena l’arresto del circuito vizioso che la cosiddetta economia reale aveva inventato e sostenuto. Essa doveva necessariamente mantenere in un limbo di carta una tale sensazione di ricchezza, in attesa che essa si consumasse in ulteriori e più ampi consumi, non potendosi scaricare sui beni reali, assolutamente incapienti rispetto alla teorica domanda che li avrebbe travolti. Anzi, la sua non piena capacità a gestire tale ruolo consentì una costante e incontrollata crescita dei valori immobiliari che crearono i cosiddetti subprime. L’enorme massa di risparmio teorico accumulato in prodotti finanziari, doveva, quindi, essere destinata esclusivamente a consumarsi in consumi futuri e non ad essere investita in beni reali, se non in minima parte. Il problema con il quale ci si è scontrati fu, però, quello che anche tale minima parte, di un universo così smisurato, era già sufficiente a creare la bolla immobiliare. Bolla che contribuì a gettare benzina su di un fuoco che già covava sotto la cenere. Sotto questo aspetto parlavamo di obbligo del consumo del risparmio. Un tale gravosissimo compito non poteva essere svolto se non inventando mercati secondari di mercati secondari, che quotassero tutto e di più, per liquidizzare prodotti finanziari per loro natura assolutamente illiquidi. 10 Crisi finanziaria o crisi dell’economia reale? Il risultato fu anche quello di mercati che finivano con il quotare se stessi. L’inconscia parola d’ordine del sistema era quella che tutto doveva essere appetibile, vendibile, acquistabile e tutto doveva avere un prezzo. Intervenire sull’anello iniziale della catena, per ricostituire una economia sana, significa cominciare dai prodotti, attraverso la loro rimaterializzazione, la riacquisizione, cioè, del loro valore intrinseco ed originario che ad essi è assegnabile come proprio DNA. Il DNA del prodotto acqua risiede nella sua capacità di dissetare, il resto è un valore aggiunto artificialmente, la sua vita utile è misurabile dal tempo che intercorre da una necessità di bere all’altra; Il DNA del prodotto detersivo risiede nella sua capacità di pulire, il resto (il super pulito) costituisce un valore aggiunto artificialmente, la sua vita utile è misurabile nel tempo che intercorre da un bucato all’altro; Il DNA di un’automobile risiede nella sua capacità di trasportare comodamente ed in sicurezza, il resto è un valore aggiunto artificialmente, la sua vita utile è misurabile nel tempo che intercorre dal motore a scoppio a quello all’idrogeno, dagli air-bag alla maggiore sicurezza da incidenti; Il DNA del prodotto scarpa risiede nel durare camminando, la sua vita utile, per ciascun paio di diverso uso, è misurabile nel tempo che intercorre dal primo uso alla necessita di risuolarle. E così via per tutti i prodotti e servizi, che per il consumismo sfrenato hanno perduto il loro originario uso e le motivazioni che ne hanno originato la stessa produzione e consumo. Certo, tutto ciò presuppone una rivoluzione culturale che se si fosse fatta prima e con i tempi adeguati sarebbe stata indolore. Oggi tale profondo e repentino mutamento di stili di vita, obbligato dalla “crisi”, sarà molto costoso, psicologicamente e socialmente lacerante, anche perché tale passaggio deve necessariamente transitare attraverso una recessione, che riassorba le iper-produzioni sospinte dagli iper-consumi di tutti questi anni. Il sistema troverà un suo equilibrio ed una sua sostenibilità allorchè ricostituirà un adeguato equilibrio tra la durata della soddisfazione del consumo e la durata dello strumento che lo ha finanziato. L’elefantiasi finanziaria veniva, poi, abbondantemente alimentata da un sistema dei prezzi dei consumi che ha perso qualsiasi riferimento, anche alla lontana, con i costi di produzione. La capacità delle imprese di imporre consumi e prezzi ai cosiddetti prodotti di marca consentiva ad esse ricavi e 11 Giuseppe Provenzano utili che nessun riferimento avevano con la base del valore del bene, costituito dal costo di produzione. Il tutto a tal punto che il prezzo finiva per essere il misuratore del valore e non viceversa, come avvenuto per secoli. Maggiore era il prezzo al quale si riusciva a vendere, maggiore era il valore che il consumatore assegnava al bene. Un sistema tautologico che poteva crescere all’infinito. Lo stesso bene, prodotto con le stesse materie prime, con gli stessi processi produttivi, nel medesimo stabilimento, con le stesse maestranze, con gli stessi impianti, sostanzialmente con lo stesso valore intrinseco (con il solo differenziale di costo costituito dalla necessaria pubblicità atta ad imporre un prezzo) poteva essere venduto a prezzi assolutamente diversi se ad esso era applicata una marca o meno. Ciò ha consentito alle imprese sovra utili derivanti dall’intagible “marca”, a parità di creazione di ricchezza contenuta nel prodotto. Se la marca, allora, creava una ricchezza aggiuntiva per l’impresa, atomizzata rispetto al sistema economico, che si trasferiva nei prodotti finanziari da essa direttamente o indirettamente emessi e collocati sui mercati, lo stesso non poteva ritenersi per il sistema economico nel suo complesso, che nei fatti non si arricchiva per il maggior valore espresso dalla marca, ma solo per la parte di prezzo espresso dal medesimo bene non di marca. A chi non è toccato sentire la massaia o la ragazzina ritenere di avere “risparmiato” solo perché acquistato con lo sconto un bene segnato ad prezzo originario, non scontato, del doppio di quello pagato?. A chi non è toccato di acquistare un bagno schiuma o una crema, di marca, e sentirsi dire dalla commessa che il prezzo pieno del prodotto di € 35,00 veniva scontato a € 20,00 e, per giunta, ringraziare per il regalo ricevuto?. Perché non rispondere che se il prezzo pieno anziché € 35,00 fosse stato di € 42,00 il ringraziamento sarebbe stato più di cuore e robusto!!??. L’effetto dei prezzi di marca e della smaterializzazione dei prodotti sul valore creato potrebbe paragonarsi all’effetto che l’allungamento del metro avrebbe sui record olimpionici. Se un metro fosse di due metri, i vecchi cento metri si correrebbero in 4,8 secondi ed il salto con l’asta fisserebbe il suo primato a 12 metri. Potrebbe sostenersi che le performances atletiche sarebbero migliorate!!!??. Tutto ciò, è evidente, non creava ricchezza stabile, consolidata e conservata dal sistema, ma solo un circuito finanziario di trasferimento di moneta tra i vari soggetti, famiglie e imprese, costantemente alimentato da una crescita smisurata del credito ad entrambi i soggetti, del quale solo una minima parte si traduceva in ricchezza della collettività misurata dalla sicurezza nel futuro. 12 Crisi finanziaria o crisi dell’economia reale? Lo stanno toccando con mano gli Stati Uniti d’America, fautori ed iniziatori di tale economia auto referenziata. La crisi sta facendo loro scoprire che la grande potenza economica e la fantasmagorica ricchezza prodotta e diffusa in tutti questi decenni, si sta traducendo per il singolo cittadino in una paurosa povertà e insicurezza nel futuro. Costituite da una casa super ipotecata, da una o più automobili con decine di rate ancora da pagare, dall’inesistenza di un sistema sanitario pubblico e gratuito, se non garantito da un sistema di assicurazioni private che la crisi sta facendo fallire, da nessuna garanzia di assistenza alla disoccupazione, da nessuna garanzia pensionistica, se non anch’essa basata su di un sistema di Fondi Pensione privati anch’essi sull’orlo del fallimento. Ma a tale povertà assoluta e di incertezza del futuro si contrappone un’enorme ricchezza di vestiti e di scarpe, indossati magari una sola volta e oramai fuori moda, stipati in armadi stracolmi, di creme e belletti di tutti i tipi, di rate mensili di abbonamenti a palestre necessarie a combattere l’obesità dilagante, causata da tonnellate di bibite e di hamburger ingeriti, di lifting e di manipolazioni estetiche di tutti i tipi, di frigoriferi che sono stati stracolmi di cibi precotti e dannosissimi, di vacanze e di crociere esotiche di tutti i tipi e…….. chi più ne ha più ne metta!!!. Il tutto già abbondantemente bruciato. Al danno, poi, la beffa. Le migliaia e migliaia di case espropriate dalle banche ai mutuatari morosi sono oggi abbandonate, distrutte, senza più alcun valore per l’espropriante. A fronte di un debito non onorato, esisteva, comunque, un valore immobiliare che chi ci abitava manteneva e valorizzava. Oggi quei crediti restano sempre insoluti, in contro partita dei quali, però, esiste solo un patrimonio immobiliare distrutto e invendibile. Senza tenere conto del costo indiretto sostenuto dall’intera collettività per il doversi far carico del numero crescente di concittadini senza casa. Il tutto grazie ad un credito ai consumi smisurato, ai bassissimi tassi d’interesse ed alla costante svalutazione della propria moneta, al più grande disinteresse per la propria bilancia dei pagamenti, per quella commerciale e per il proprio indebitamento estero. Del resto, con una moneta di conto riconosciuta a livello mondiale come merce di scambio da potere stampare a piacimento ed imporre a tutti i costi, le regole monetarie e finanziarie divenivano un optional, valide per tutto il mondo tranne che per loro. La più povera Europa, che tragicamente però si avviava ad entrare nel tunnel scavato dall’economia U.S.A., seppure uscita distrutta moralmente e fisicamente da una tragica guerra aveva avuto, comunque, la capacità in questi decenni di percorrere la via di un’economia capace di creare una minore ricchezza teorica, ma più stabile e consolidata. 13 Giuseppe Provenzano Forte di una cultura millenaria, che aveva dato vita al Colosseo, al Partenone e a Michelangelo, a Bach, Beethoven, Mozart e Verdi, alla Cappella Sistina e al Battistero di Firenze, a Vienna, Parigi, Londra, Roma, Venezia, Firenze, Madrid, a Dante e a Shakespeare, a Platone ed Aristotele e chi più ne ha più ne metta, la nostra vecchia Europa comprendeva, diversamente dai cugini d’oltreoceano, che seppure il Colosseo fosse una potenziale area edificabile sulla quale potere costruire due o tre grattacieli, la ricchezza in esso consolidata e tramandata da generazioni in generazioni non sarebbe mai stata paragonabile a quella effimera dei potenziali grattacieli, la cui vita economica media sarebbe stata di appena qualche decennio. La più povera Europa comprese, sempre per la sua millenaria cultura, che un Andy Warhol non avrebbe mai creato una ricchezza culturale solida e tramandabile quale quella creata da Michelangelo o Raffaello e che il paragone tra Madonna e Mozart non era effettuabile sulla base dei dischi venduti. Eppure, il sistema rischiava di fagocitare tale cultura, perché non più attuale e vendibile. Il cancro del consumismo culturale, insieme a quello economico, stava infettando anche il nostro caro e vecchio continente. Paragonare Pirandello a Dario Fo, Gandhi a Kissinger o ad Arafat era il segnale che le metastasi erano partite. La crisi che stiamo attraversando non è ne economica ne finanziaria: è profondamente culturale. Se non comprendiamo questo, forse usciremo da questa crisi, ma il suo superamento sarà prodromico di ulteriori crisi sempre più devastanti. Studiare per conoscere solo il particolare, senza capire il generale, è sostanzialmente il danno che l’incultura generalizzata ha causato anche nell’economia. Università e Masters super specialistici, che insegnano tutte le tecniche per comporre i derivati o che scoprono cosa Platone o Aristotele mangiarono un certo giorno della loro vita, senza fare capire a cosa i derivati servano, quale il loro effetto sull’economia, quale fosse il profondo pensiero filosofico di Platone o Aristotele, stanno, a nostro parere, alla base della crisi che stiamo attraversando. La parcellizzazione della cultura è dimostrata dalle migliaia di insegnamenti universitari e dalle centinaia di corsi di laurea. Incapaci di dare agli studenti una visione di sintesi di ciò che imparano e i concetti primi che stanno alla base di ogni singolo insegnamento. Per cui, esisterebbero, per rimanere nel nostro campo d’interesse, un’economia delle aziende industriali ed un’economia di quelle turistiche, quasi che il modo di essere azienda delle due appartenesse a due mondi assolutamente diversi. Certo, se non si captano i principi primi che informano entrambe le aziende ed i settori di appartenenza, la conclusione è certamente quella che la 14 Crisi finanziaria o crisi dell’economia reale? produzione di automobili o di viaggi appartengono a due universi assolutamente diversi. La crisi che stiamo attraversando, allora, non sarà superata strutturalmente se non si prenderà atto che 20 anni fa cadde una metà del muro di Berlino e che oggi è caduta l’altra metà, che in 20 anni sono entrati in crisi due modelli sociali ed economici. Se non si rifletterà che i milioni di morti, necessari perché due tragici regimi non ci mettessero tutti in divisa o ci imponessero i loro stili di vita, non hanno, poi, evitato che poche multinazionali di fatto ci irreggimentassero nel vestiario, nel cibo, nella nostro modo di essere e di vivere. Temevamo che il KGB, la STASI o la CIA entrassero a controllare il nostro quotidiano, fatto che oggi con disinvoltura consentiamo alle società telefoniche, ai gestori della pubblicità e delle vendite, ai telepass, alle carte di credito, ai bancomat, ai sistemi di video sorveglianza ai quali tutti oggi possono accedere. Credevamo che una massa enorme di persone, armati di un libretto rosso, avrebbero potuto espropriarci delle nostre case, abbiamo ad essi esportato il nostro sistema economico ed oggi, gli stessi, sono una delle cause principali che stanno facendo espropriare le case a milioni di occidentali. Credevamo che l’aereo fosse un mezzo rapido per gli spostamenti, ci accorgiamo che la durata del volo rappresenta un quarto dei tempi di attesa necessari per imbarcarci. La capacità di un’economia di creare ricchezza stabile, duratura e consolidata, che negli anni si aggiunge, si conserva e si stratifica a favore delle nuove generazioni e non sia destinata a bruciarsi nel momento stesso in cui si crea, è l’essenza stessa del significato di Economia. Anche il sistema economico e finanziario più complesso e sofisticato non può mai perdere di vista la missione principe che ad esso è affidata: la crescita morale, culturale dell’uomo, il suo stabile benessere e la serenità futura per se e per chi lo seguirà. L’Economia di un Pese, di una serie di Paesi, di un continente o del mondo intero è l’economia delle singole famiglie che li compongono. Se è vero che ognuna di essa si arricchisce non per il risparmio finanziario che accumula, che non può che essere solo transitorio, ma per la capacità che esso deve possedere di potersi investire in beni reali ad utilizzo pluriennale o infinito o in consumi ad alto contenuto di crescita sociale e culturale, sanità, formazione, territorio, trasporti, vivibilità, ecc. ecc., bisogna coerentemente riconoscere che una comunità, sommatoria di famiglie, non può arricchirsi solo attraverso una serie di consumi effimeri, i quali devono essere solo funzionali, se ben dosati con quelli duraturi, a creare le condizioni per risparmiare in modo stabile e duraturo. 15 Giuseppe Provenzano Non intendiamo, certo, fornire in conclusione ricette per uscire stabilmente dalla “crisi”. Ci sembra, però, che due siano le strade possibili: la prima, mettere qualche pezza al sistema entrato in crisi, cercando di riproporlo con la stessa logica, anche se con qualche regola in più; la seconda, comprendere che il sistema è in crisi strutturale e, come tale, ridisegnarlo, anche se con i tempi ed i sacrifici necessari. La prima strada, ci sembra, essere quella che quasi tutti i Governi stanno tentando di fare. Abbassare i tassi di interesse, fornire liquidità alle banche ed al sistema per rilanciare i consumi e ridare valore alla ricchezza finanziaria in circolazione, dando, così, solvibilità e fiducia ai consumatori- risparmiatori. Tale via farà entrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta. Il costo per la collettività sarà enorme e si scaricherà necessariamente sulle generazioni future. Riaccenderemo un fiammifero che, inevitabilmente, rimarrà in mano a qualcuno in futuro. La seconda strada potrebbe essere quella di prendere atto che il sistema, che potremmo definire tautologico di una ricchezza autoreferenziata, basato su consumi effimeri, sostenuti da così elevati crediti al consumo, erogati da un parabancario che sfugge a qualsiasi controllo e possibilità di intervento e che crea solo una fittizia ricchezza finanziaria, va necessariamente superato e archiviato. Una tale via creerà necessariamente una recessione dalla quale, però, si uscirà con un sistema economico e finanziario meno fasulli, meno instabili e più solidi. Un’Economia più sobria, più equilibrata, che guardi maggiormente alla sostanza dei beni e dei servizi consumabili, che rivisiti i totem paradigmatici, in parte oramai obsoleti, di ricchezza e di povertà e che ridisegni un sistema di valori per il quale le imprese tornino ad essere funzionali ad esaudire i bisogni dell’uomo, seppure con un processo di reiterazione reciproco, e non viceversa, ci sembra la via unica e migliore perché la crisi in atto sia una opportunità e non un problema. 16 DIPARTIMENTO DI ECONOMIA AZIENDALE PAPERS PUBBLICATI DAL 2006 AL 2009: 52- Cinzia DABRASSI PRANDI, Relationship e Transactional Banking models, marzo 2006. 53- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Federica LEVATO, Brand Extension & Brand Loyalty, aprile 2006. 54- Mario MAZZOLENI, Marco BERTOCCHI, La rendicontazione sociale negli enti locali quale strumento a supporto delle relazioni con gli Stakeholder: una riflessione critica, aprile 2006 55- Marco PAIOLA, Eventi culturali e marketing territoriale: un modello relazionale applicato al caso di Brescia, luglio 2006 56- Maria MARTELLINI, Intervento pubblico ed economia delle imprese, agosto 2006 57- Arnaldo CANZIANI, Between Politics and Double Entry, dicembre 2006 58- Marco BERGAMASCHI, Note sul principio di indeterminazione nelle scienze sociali, dicembre 2006 59- Arnaldo CANZIANI, Renato CAMODECA, Il debito pubblico italiano 1971-2005 nell'apprezzamento economico-aziendale, dicembre 2006 60- Giuseppina GANDINI, L’evoluzione della Governance nel processo di trasformazione delle IPAB, dicembre 2006 61- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Ottavia PELLONI, Brand Extension: l’impatto della qualità relazionale della marca e delle scelte di denominazione, marzo 2007 62- Francesca GENNARI, Responsabilità globale d’impresa e bilancio integrato, marzo 2007 63- Arnaldo CANZIANI, La ragioneria italiana 1841-1922 da tecnica a scienza, luglio 2007 64- Giuseppina GANDINI, Simona FRANZONI, La responsabilità e la rendicontazione sociale e di genere nelle aziende ospedaliere, luglio 2007 65- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Ottavia PELLONI, La valutazione di un’estensione di marca: consonanza percettiva e fattori Brand-Related, luglio 2007 66- Marco BERGAMASCHI, Crisi d’impresa e tecnica legislativa: l’istituto giuridico della moratoria, dicembre 2007. 67- Giuseppe PROVENZANO, Risparmio…. Consumo….questi sconosciuti !!! , dicembre 2007. 68- Elisabetta CORVI, Alessandro BIGI, Gabrielle NG, The European Millennials versus the US Millennials: similarities and differences, dicembre 2007. 69- Anna CODINI, Governo della concorrenza e ruolo delle Authorities nell’Unione Europea, dicembre 2007. 70- Anna CODINI, Gestione strategica degli approvvigionamenti e servizio al cliente nel settore della meccanica varia, dicembre 2007. 71- Monica VENEZIANI, Laura BOSIO, I principi contabili internazionali e le imprese non quotate: opportunità, vincoli, effetti economici, dicembre 2007. 72- Mario NICOLIELLO, La natura economica del bilancio d’esercizio nella disciplina giuridica degli anni 1942, 1974, 1991, 2003, dicembre 2007. 73- Marta Maria PEDRINOLA, La ristrutturazione del debito dell’impresa secondo la novella dell’art 182-bis L.F., dicembre 2007. 74- Giuseppina GANDINI, Raffaella CASSANO, Sistemi giuridici a confronto: modelli di corporate governance e comunicazione aziendale, maggio 2008. Serie depositata a norma di legge. L’elenco completo dei paper è disponibile al seguente indirizzo internet http://www.deaz.unibs.it 17 75- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Michela APOSTOLO, Dominanza della marca e successo del co-branding: una verifica sperimentale, maggio 2008. 76- Alberto MARCHESE, Il ricambio generazionale nell’impresa: il patto di famiglia, maggio 2008. 77- Pierpaolo FERRARI, Leasing, factoring e credito al consumo: business maturi e in declino o “cash cow”?, giugno 2008. 78- Giuseppe BERTOLI, Globalizzazione dei mercati e sviluppo dell’economia cinese, giugno 2008. 79- Arnaldo CANZIANI, Giovanni Demaria (1899-1998) nei ricordi di un allievo, ottobre 2008. 80- Guido ABATE, I fondi comuni e l’approccio multimanager: modelli a confronto, novembre 2008. 81- Paolo BOGARELLI, Unità e controllo economico nel governo dell’impresa: il contributo degli studiosi italiani nella prima metà del XX secolo, dicembre 2008. 82- Marco BERGAMASCHI, Marchi, imprese e sociologia dell’abbigliamento d’alta moda, dicembre 2008. 83- Marta Maria PEDRINOLA, I gruppi societari e le loro politiche tributarie: il dividend washing, dicembre 2008. 84- Federico MANFRIN, La natura economico-aziendale dell’istituto societario, dicembre 2008. 85- Sergio ALBERTINI, Caterina MUZZI, La diffusione delle ICT nei sistemi produttivi locali: una riflessione teorica ed una proposta metodologica, dicembre 2008. 86- Giuseppina GANDINI, Francesca GENNARI, Funzione di compliance e responsabilità di governance, dicembre 2008. 87- Sante MAIOLICA, Il mezzanine finance: evoluzione strutturale alla luce delle nuove dinamiche di mercato, febbraio 2009. 88- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Brand extension, counterextension, cobranding, febbraio 2009. 89- Luisa BOSETTI, Corporate Governance and Internal Control: Evidence from Local Public Utilities, febbraio 2009. 90- Roberto RUOZI, Pierpaolo FERRARI, Il rischio di liquidità nelle banche: aspetti economici e profili regolamentari, febbraio 2009. 91- Richard BAKER, Yuri BIONDI, Qiusheng ZHANG, Should Merger Accounting be Reconsidered?: A Discussion Based on the Chinese Approach to Accounting for Business Combinations, maggio 2009. 18 ARTI GRAFICHE APOLLONIO Università degli Studi di Brescia Dipartimento di Economia Aziendale Giuseppe PROVENZANO CRISI FINANZIARIA O CRISI DELL’ECONOMIA REALE? Paper numero 92 Università degli Studi di Brescia Dipartimento di Economia Aziendale Contrada Santa Chiara, 50 - 25122 Brescia tel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814 e-mail: [email protected] Maggio 2009