La didattica per competenze, questa sconosciuta!

La didattica per competenze, questa sconosciuta!
di Pasquale Annese - Dirigente Scolastico
La Scuola (con la S maiuscola) resta ancorata a vecchi paradigmi culturali e formativi oramai
smentiti da tutte le indagini nazionali e internazionali...
Si racconta di un giovane viandante che nel mentre di una passeggiata in montagna incontra un
tagliaboschi che si affanna, peraltro con scarsi risultati, a tagliare un albero con tanta forza e
vigoria da temere per la sua stessa incolumità fisica. Gli si avvicina e dice: «Non vedi che la sega
che stai usando non è adatta? Perché non la sostituisci con una di altro tipo in modo da portare a
compimento il tuo lavoro in meno tempo e più precisione?». E il tagliaboschi fortemente seccato gli
risponde: «Non mi disturbare, non vedi che sto lavorando e non posso perdere tempo?».
In questa breve, ma significativa parafrasi, è racchiuso, forse, il senso delle innovazioni che stanno
investendo la scuola italiana alla luce della Riforma Gelmini, e in particolare di quella parte della
riforma che coinvolge le nuove metodologie didattiche e i risultati di apprendimento degli allievi in
uscita al termine del percorso quinquennale dell’istruzione secondaria superiore. Se sostituiamo,
infatti, al viandante l’allievo, la domanda che questi potrebbe porre al proprio docente (il
tagliaboschi) sarebbe: «Prof, ma se vedi che tutta la classe non comprende quello che
tu dici perché non provi a cambiare registro?». Per poi sentirsi rispondere: «Ma che vuoi, non vedi
che sto spiegando e non ho tempo da perdere?».
Ecco, pur con le dovute eccezioni, questo è lo spaccato odierno del sistema formativo italiano dove
a fronte di mutate istanze formative provenienti dal territorio, a fronte di mutevoli richieste di figure
occupazionali innovative e flessibili richieste dal mercato del lavoro, a fronte di mutuati stili
cognitivi e di apprendimento degli allievi, a fronte della diffusione di nuovi contesti ‘non formali’ e
‘informali’ di apprendimento, la Scuola (con la S maiuscola) resta ancorata a vecchi paradigmi
culturali e formativi oramai smentiti da tutte le indagini nazionali e internazionali.
Alcuni dati sono indicativi dello scollamento oggi esistente in Italia tra sistema formativo e sistema
produttivo, con accentuazioni di questi fenomeni in determinate aree del paese ed in alcuni specifici
settori dell’istruzione secondaria superiore.
Le proiezioni al 2020 vedono l’Italia “in una posizione di grave difficoltà nel contesto
internazionale e comparato, rispetto alle prospettive demografiche, occupazionali e di
crescita. Si prevede, in particolare, una forte carenza di competenze elevate e intermedie
legate ai nuovi lavori e un disallineamento complessivo dell’offerta formativa rispetto alle
richieste del mercato del lavoro” (ITALIA 2020, PIANO DI AZIONE PER L’OCCUPABILITÀ
– Fonte: Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e Ministero dell’Istruzione, dell’Università e
Ricerca).
A maggior ragione ove si consideri l’alta percentuale degli allievi all’uopo definiti “Neet”, “Not in
education, employment or training”: oltre due milioni di giovani (il 21,2 per cento dei tra i 15 e i
29 anni) che risultano fuori dal circuito formazione-lavoro, cioè non lavorano e non frequentano
alcun corso di studi, cioè senza una qualifica professionale, né un diploma, né la licenza media
(INDAGINE ISTAT del 26 maggio 2010 - Rapporto annuale sulla situazione del paese nel 2009).
Dato che fa il pari, purtroppo in negativo, con quello degli “early school leavers”, cioè di coloro
che abbandonano precocemente gli studi senza aver conseguito un diploma e che rappresentano il
44,4% dell’istruzione professionale e il 40,97% dell’istruzione tecnica in Italia.
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Una situazione a dir poco emergenziale che non si può certo risolvere attraverso l’innalzamento
dell’obbligo d’istruzione, né attraverso metodi e modelli di tipo gentiliano, utili quando era
necessario puntare a una scolarizzazione di massa, ma oggi inadeguati per garantire una formazione
finalizzata allo sviluppo e alla crescita della competitività e della occupabilità del nostro paese.
Una situazione antica e, purtroppo, radicata nella cultura e nell’immaginario collettivo della scuola
italiana ove per anni si è perpetuato il sinallagma concettuale secondo cui prima viene la scuola e
poi il lavoro, prima il sapere e poi il saper fare, prima le conoscenze e poi le competenze.
Una concezione avulsa dalla realtà che, invece di ricondurre a unitarietà la frammentazione dei
saperi rinvenenti dai molteplici contesti ‘formali’ e ‘informali’ di apprendimento delle nuove
generazioni, perpetua invece una artificiosa e anacronistica visione di sviluppo umano e
professionale della persona nella quale le fasi dell’apprendimento sono indissolubilmente slegate e
temporalmente separate da quelle applicative dell’apprendimento medesimo. Con il paradosso che
oggi assistiamo da un lato a imprese che non trovano mano d’opera di cui hanno bisogno per
competere nei mercati nazionali e internazionali e dall’altro a giovani disoccupati o sottoccupati che
non trovano lavoro perché non in possesso di quelle competenze ‘chiave’ richieste dal mercato del
lavoro. Il cosiddetto Mismatch del mercato del lavoro (Rapporto sulla scuola in Italia 2010 FONDAZIONE AGNELLI).
Quali le cause di questa dicotomia che vede da un lato accentuati fenomeni di dispersione,
abbandoni dall'altro una crescente carenza di manodopera qualificata?
Il dibattito che ne è seguito negli ultimi anni è stato aspro e acceso e, come per altro notorio in
Italia, ha visto contrapposte due fazioni l’una contro l’altra armate. La prima, quella del sapere
astratto e teoretico che valorizza in primis le nozioni, lo studio, il sapere. La seconda, quella del
saper fare, del saper essere, del saper stare in gruppo, che valorizza precipuamente il metodo, le
competenze di cittadinanza attiva intese come la capacità dell’individuo di essere cittadino del
mondo visto non solo nella sua sfera cognitiva, ma anche relazionale e socio affettiva. L’una
orientata a porre l’accento su cosa si fa e come si fa, l’altra invece sul perché si fa. La prima
identificata come scuola difficile, la seconda liquidata come scuola facile fino al punto da tirare in
ballo perfino Don Dilani, reo, secondo alcuni, di “aver predicato contro il baubau del nozionismo e
di aver svalutato il concetto di nozione come conoscenza”, o Gianni Rodari, antesignano della
“trasformazione dell’insegnamento in gioco, della vittoria della fiaba sulla razionalità e sulla
storia”. Quando, invece, perfino il gioco, sin dai tempi di Platone, ha rappresentato una condizione
umana compatibile con una dimensione ludica dell’apprendimento legata al piacere, al fare, allo
stare insieme.
Tutti stereotipi difficili da sradicare e che non contribuiscono certo a un’analisi serena e il più
possibile oggettiva del sistema formativo italiano anche alla luce dell’esperienza di altri paesi
europei tutti impegnati a conciliare efficacia ed equità del proprio sistema formativo. Perché
un’efficacia selettiva che premi una sola categoria di studenti non può essere considerata
compatibile con un sistema equo. Ma, analogamente, non può ritenersi equo un sistema educativo
che lasci una corposa quota di allievi sotto la soglia minima di saperi e di competenze essenziali con
il rischio di emarginazione dalla società della conoscenza.
La domanda da porsi allora è: in che maniera un sistema educativo evoluto può contribuire a
realizzare un credibile e reale progetto di vita per le nuove generazioni? Può il suddetto
progetto di vita prescindere dall’acquisizione di conoscenze, abilità e competenze
indissolubilmente legate all’esercizio di una cittadinanza attiva e consapevole e all’inserimento in
contesti lavorativi in continua evoluzione e mutamento? Cosa differenzia i sistemi educativi che
riescono a coniugare ‘eccellenza’ ed ‘equità’ da quelli che, invece, non riescono a ridurre il divario
esistente tra gli studenti migliori e quelli peggiori?
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Questa è la cornice di riferimento all’interno della quale ha trovato cittadinanza la Riforma Gelmini,
che ha cercato di interpretare e ricondurre a sistema queste esigenze del sistema formativo italiano
rivalutando, quanto meno nell’istruzione tecnica e professionale, alcuni aspetti legati alla didattica
per competenze, e in particolare:
a. la transizione dall’apprendimento per discipline all’apprendimento per competenze
attraverso una riorganizzazione delle conoscenze disciplinari;
b. una maggior flessibilità dell’impianto formativo attraverso la previsione di quote di
‘autonomia’ e di ‘flessibilità’ con cui articolare e differenziare i singoli percorsi formativi e
curvarli alle esigenze del territorio (vedasi anche l’elenco di prossima pubblicazione delle
OPZIONI NAZIONALI);
c. l’enfasi per la didattica laboratoriale presente in tutti i documenti del riordino, intesa non
solo come luogo fisico di apprendimento, il laboratorio appunto, ma soprattutto come modello
pedagogico che incoraggia il dialogo, promuove consapevoli processi di apprendimento in
contesti operativi, rende attraente l’apprendimento;
d. l’accentuazione della multidisciplinarietà al fine di coniugare i saperi scientifici e
tecnologici con quelli linguistici e storico-sociali nel quadro dei 4 assi culturali e delle 8
competenze chiave di cittadinanza;
Prescindendo dai giudizi di merito che ciascuno di noi può dare sulla coerenza del suddetto
impianto formativo e sull’esistenza di reali condizioni di sistema che lo rendano di fatto credibile e
attuabile (non ultime quelle legate alle risorse finanziarie), è innegabile che la questione ha un
oggettivo fondamento pedagogico rispetto al quale alcune considerazioni, scevre da retaggi
ideologici e/o vetero sindacali, vanno fatte anche a rischio di essere etichettati, come quasi sempre
avviene nel nostro paese, a favore o contro di chi tali disposizioni le ha rese attuative.
In tal senso andrebbero scongiurati due rischi antitetici ma ugualmente presenti: da un lato quello
che in risposta a una normativa farraginosa e non sempre coerente (sulle risorse assegnate,
sull’organizzazione dei quadri orari, sull’articolazione delle classi di concorso, sulla gestione della
flessibilità e dell’autonomia a oggi di fatto inattuata a causa dei numerosi vincoli e paletti legati alla
sovrannumerarietà di alcune classi di concorso) si abdichi a realizzare comunque la Riforma, non
fosse altro per misurarne e validarne le reali ricadute sul sistema; dall’altro che si determini uno
snaturamento dei saperi formali a vantaggio di una ipertrofia progettuale (il ‘progettificio’
d’istituto).
Da parte dei Collegi Docenti e soprattutto dei Dipartimenti dovrebbe esserci la consapevolezza che
comunque si è chiusa un’epoca che ha visto la centralità (alcuni sostengono l’unicità) della didattica
‘trasmissiva’ e che è giunta l’ora di coniugare tale didattica con un sistema più orientato a
valorizzare dinamiche di apprendimento cooperativo, laboratoriale, dell’imparare facendo, anche in
contesti extrascolastici quale potrebbe essere l’azienda, il museo, il laboratorio teatrale, la ONLUS,
l’Ente Pubblico, gli esempi non mancano. Questo per sviluppare le competenze chiave di
cittadinanza secondo cui non si può vivere una condizione di cittadinanza attiva se non si
acquisiscono competenze legate alla capacità di imparare ad imparare in un mondo mutevole e in
costante divenire, se non si sa interagire con gli altri in lingua madre e lingua straniera, se non si
hanno capacità creative e progettuali, se non si riesce a essere imprenditori di se stessi in una
concezione ampia e onnicomprensiva che comprenda sì le scelte di natura professionale, ma anche
quelle di natura civica e sociale.
D’altronde, l’impostazione recepita nelle prove OCSE-PISA ha abbracciato proprio questa
impostazione legata alla convinzione che ineluttabilmente i cambiamenti che investono la società
civile, i contesti economici e produttivi, le dinamiche occupazionali, non possono non investire
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anche il sistema scuola che oggi molto più di ieri deve dismettere l’abito di trasmettitore di un
patrimonio statico di conoscenze per abbracciare quello di promotore di capacità, motivazioni,
interessi, necessari per apprendere lungo tutto l’arco della vita puntando non solo su quello che
l’allievo ‘sa’, ma anche su quello che ‘sa fare’ con quello che sa, e perché no, anche sulle sue
potenzialità anche inespresse o latenti.
Le competenze in questo contesto diventano allora una variabile strategica in quanto mobilitano
componenti cognitive, emotive, motivazionali, sociali e comportamentali mettendole in gioco non
solo in contesti d’aula, ma anche extra-aula, in una visione quasi ‘olistica’ del sapere avvalorata da
principi costituzionalmente previsti di diritto-dovere al lavoro quale strumento per la crescita
economica, sociale e morale dei cittadini e in grado di aiutarli a realizzare il proprio progetto di vita
(Art.1, 4 e 35 della Costituzione), e da normative europee in materia di istruzione e formazione
che sottolineano la necessità di garantire maggiore occupabilità ed esercizio dei diritti di
cittadinanza attiva.
Lo stesso E.Q.F. - European Qualification Framework definisce come “competenza”
la “comprovata capacita di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o
metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale”
descritta in termini di “responsabilità e autonomia” e con l’obiettivo di “promuovere la mobilità
transfrontaliera dei cittadini e agevolarne l’apprendimento permanente”.
Di fronte a questo scenario la “didattica per competenze” diventa una sfida quasi ineluttabile, al
tempo stesso un approdo stimolante e foriero di soddisfazioni, alla condizione che si valorizzi la
figura di colui che è il volano dell’intero percorso di apprendimento degli allievi: il docente. Che
non di rado, anche per oggettivi gap di sistema (scarsa retribuzione, scarso riconoscimento sociale,
inesistente progressione di carriera) vive questa nuova condizione non come un qualcosa che lo
‘attraversa’ modificandolo e stimolandolo, ma come un qualcosa da fare ‘in più’ rispetto
all’ordinario, rispetto all’insegnamento disciplinare, rispetto alla valutazione di tipo sommativo: sai
otto, non sai due, a posto! Per abbracciare una valutazione di tipo formativo e prognostico capace da
un lato di valorizzare anche le potenzialità dei singoli allievi e dall’altro di recepire all’interno dei
singoli insegnamenti le competenze chiave di cittadinanza.
Insomma, di fronte a questa sfida epocale, non è forse il caso di iniziare a cambiare la cassetta degli
attrezzi perché il buon tagliaboschi non stia lì a tagliar alberi dall’alba alla sera con grande sforzo
fisico, e dispendio di energie mentali, ma non adeguati risultati finali?
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