CAPITOLO urbani 2 . La descrizione sociologica dei sistemi Autonomia, morfologia, stili di vita, struttura di potere sono le principali aree semantiche alle quali afferiscono gli strumenti tipici della tradizione sociologica nell’analisi dei sistemi urbani. Qualunque catalogo degli strumenti di una disciplina deve essere inteso come illustrazione della sua specificità o della sua capacità di comprendere fenomeni attuali, senza pretesa di esaustività. Quelli che presentiamo in questo capitolo rivestono posizioni assai diverse nella storia della disciplina: alcuni definiscono delle scuole, altri sono il prodotto di episodiche convergenze scientifiche. 1. AUTONOMIA Se si riflette sull’influenza dei singoli sistemi urbani nel loro contesto storico, le convergenze della sociologia con le altre scienze sociali sono evidenti: la forma politica e le caratteristiche funzionali della città costituiscono allora il primo criterio di discrimine tra formazioni urbane anche per la storia, la geografia, l’economia. Nella tradizione sociologica l’insistenza è però posta sulle diverse capacità di produrre norme sociali: la capacità di diffondere cultura e pratiche tipica delle sole città dominanti; la capacità di sviluppare e mantenere una propria cultura che definisce la città autonoma anche se non dominante. 1.1 L’autonomia del Comune weberiano Tipologia di riferimento fondatrice della sociologia urbana è quella proposta da Weber nella sua definizione detta «politica» di città: le dimensioni dell’autocefalia e dell’autonomia dell’ordinamento giuridico consentono, in Die Stadt, di distinguere la città occidentale dalla città orientale, e le città dell’Occidente tra di loro a seconda della diversa distanza dal tipo ideale di «città occidentale». Soffermiamoci di nuovo su un’affermazione, già ricordata: Comuni urbani nel senso vero della parola sono noti soltanto in Occidente. A lato di questi, in una parte dell’Oriente e precisamente nell’Asia anteriore (cioè nella Siria e nella Fenicia, forse anche nella Mesopotamia), sono esistiti solo temporaneamente o si ritrovano altrimenti allo stato rudimentale [...] Considerata a questa stregua in tutta la sua estensione, anche la città del Medioevo occidentale era solo parzialmente un vero «comune urbano» e quella del XVIII secolo lo era persino in minima parte soltanto. Le città dell’Asia però non lo erano affatto, per quanto si sappia a tutt’oggi e tenendo presenti le singole eccezioni, oppure lo erano solo rudimentalmente [Weber 1920; trad. it. 1950, 22]. Le conquiste delle città nell’epoca di loro maggiore autonomia tendevano, dice Weber, verso le seguenti mete: 1) verso l’indipendenza politica e, parzialmente, verso una politica estera invadente, tanto è vero che il governo cittadino aveva permanentemente una milizia propria, stringeva alleanze, conduceva guerre importanti, teneva completamente soggetti estesi territori ed eventualmente altre città e conquistava colonie oltremare [...]; 2) verso una legislazione autonoma della città in quanto tale e, internamente a questa, verso una legislazione autonoma delle gilde, e delle «maestranze» [...] Per le questioni riguardanti i possessi fondiari cittadini, il movimento del mercato ed il commercio, i tribunali della città, costituiti da cittadini in veste di scabini, applicavano leggi specifiche, uniformi e uguali per tutti i cittadini; leggi che erano state compilate all’atto della fondazione, in base a consuetudini o regolamenti preesistenti, o per assorbimento o concessione di leggi straniere. Questi tribunali andavano escludendo sempre più dalla procedura i mezzi di prova irrazionali e magici, quali il duello, le ordalie e il giuramento del parentado, in favore di una razionale ricerca delle prove [...]; 3) verso l’autocefalia, ossia verso un’autorità giudiziaria ed amministrativa del tutto indipendente [...] La questione più importante per la città era quella di costituire un distretto giudiziario distinto, con scabini scelti tra i suoi abitanti [...] Era poi importante per il cittadino ottenere il privilegio di dover comparire solo dinanzi al tribunale della sua città [...] L’esistenza [dell’amministrazione caratteristica della città, cioè il consiglio, dotato] di estese competenze amministrative, era, in pieno Medioevo, una caratteristica di ogni comunità cittadina dell’Europa occidentale e settentrionale [...]; 4) verso un potere fiscale sui cittadini e la loro esenzione dalle imposte e dalle tasse verso l’esterno [...]; 5) verso la libertà di mercato, una sorveglianza propria sul commercio e sull’industria e poteri per il relativo regolamento monopolistico [Weber 1920; trad. it. 1950, 134-140]. Quella che qui si illustra è, in breve, la capacità di costruire un sistema normativo nuovo, che riposa in questo caso sulla nozione di cittadino: «il cittadino isolato ne era la personificazione, egli era perciò l’elemento tipico della città nel senso politico» [ibidem, 22]. Tale sistema normativo era difeso da una leadership localmente legittimata, indicata come elemento distintivo di un tipo di sistema urbano. È importante sottolineare che la tipologia weberiana, nata dalla descrizione del mondo medievale, si fonda su una dimensione analitica quasi eterna, che ha oggi ritrovato utilità nell’analisi comparata dei sistemi urbani. L’insieme dei fenomeni ascrivibili alla globalizzazione pone infatti sotto una luce nuova la problematica dell’autonomia e della legittimità politica dei governi locali. 1.2 Egemonia e polarizzazione Dalle riflessioni sull’involuzione dell’esperienza medievale e attorno alla nozione di «città barocca» si è sviluppato tra storia e sociologia nel secondo dopoguerra un modello di riferimento, anch’esso fondato sulla dimensione dell’autonomia politica, che, per altri motivi, ritrova oggi analoga attualità. Il problema dell’originalità tipologica della città barocca rispetto sia alla città rinascimentale sia alla città classica, e la conseguente individuazione dell’esempio canonico [De Seta 1996] sono assai dibattuti tra gli storici. In molti casi, tra cui quello di Roma per alcuni, scoprire il volto della città barocca «vuole dire tentare la ricostruzione di una rivoluzione fallita, che se non ha trasformato ma solo adornato e interpretato la vecchia città, ha lasciato una impronta duratura nella cultura europea» [Portoghesi 1973, I, 5]. ■ Per il sociologo la città barocca e l’ordine che esprime sono di più facile lettura e rappresentano anch’essi un idealtipo di grande suggestione: un sistema urbano che, al di là della sua «apparenza capricciosa», rispecchia, nella sua logica, l’ordine ieratico del potere assoluto. Lo spirito barocco è stato capace di «organizzare lo spazio, di renderlo continuo, di ridurlo a un ordine e a una misura, di allargarne i limiti includendo l’estremamente lontano e l’estremamente piccolo, e infine di associare a esso il tempo e il movimento» [Mumford 1961, 458459]. Schemi convergenti, stellari in particolare, complessità delle strutture di distanza affidate all’esercizio dell’«idea geometrica» del classicismo, traducono e costruiscono una speciale struttura di potere, quella della cittàcapitale devota alla persona del sovrano: la città tutta è destinata alla persuasione, è forma retorica complessa [Argan 1965]. Retorica nella quale distanze e simmetriereciprocità, in quanto dimensioni della «società di corte» [Elias 1975], sono elementi chiave. Il potere assolutistico, ricorda oggi Sennett [1990], ha plasmato in larga parte le condizioni di vita nelle metropoli attuali, più dell’esperienza industriale. Città dell’egemonia ma senza autonomia, città delle disuguaglianze e della segmentazione, della persuasione e dell’immagine più che della legittimazione, dall’ordine interno instabile, la città barocca è implicito riferimento nelle descrizioni della città globale contemporanea. ■ La città globale sarebbe succeduta alle vecchie capitali politiche, eredi della città barocca, come città egemonica del nuovo ordine mondiale. Ecco la descrizione che ne fa Saskia Sassen: Una combinazione di dispersione spaziale e di integrazione globale ha creato un nuovo ruolo strategico per le maggiori città. Superando il loro ruolo storico di centri per il commercio internazionale e l’attività bancaria, queste città oggi ricoprono funzioni centrali sotto quattro ulteriori aspetti: come luoghi di potere altamente concentrato nell’organizzazione dell’economia mondiale; come localizzazioni chiave delle imprese di servizio specializzato e delle attività finanziarie; come luoghi della produzione, inclusa la produzione di innovazioni, in questi settori di punta; come mercati per i prodotti e le innovazioni prodotte [...]. Tali mutamenti nel funzionamento delle città hanno un impatto massiccio sull’attività economica internazionale e sulla forma urbana. Le città concentrano il controllo su vaste risorse, mentre la finanza e le attività di servizio specializzate hanno ristrutturato l’ordine urbano, sociale ed economico. Un nuovo tipo di città è quindi comparso. È la città globale [1991, 3-4]. ■ Friedmann e Wolff [1982] avevano cambiamento era, a loro giudizio, il settore precedentemente proposto una simile dominante dei servizi alle imprese di alto immagine dell’avvenire delle maggiori livello, che occupava un largo numero di città, da essi definite «città mondiali», persone altamente qualificate – l’élite indicando come compito primario per le transnazionale – e uno staff ancillare di scienze sociali l’analisi dell’impatto che i personale impiegatizio. L’élite mutamenti da poco in atto nelle attività transnazionale, in quanto classe dominante stesse di queste città possono avere sulla della città mondiale, la organizza in funzione loro struttura sociale. Il motore del dei propri stili di vita e delle proprie necessità di lavoro. Per Friedmann e Wolff, come poi per la Sassen, la polarizzazione della struttura di classe è tratto emblematico della città mondiale, segnata dal contrasto tra le condizioni economiche e gli stili di vita dell’élite transnazionale e la miseria nella quale si trova a combattere quotidianamente un terzo circa della popolazione (l’underclass permanente della città mondiale). Nei lavori della Sassen (i primi lavori sul settore informale a New York e Los Angeles tra il 1984 e il 1987, quello sulla mobilità del lavoro nelle città del 1988, la loro summa intitolata Global Cities, 1991) viene in qualche modo perfezionato questo modello. Alla struttura produttiva tipica di queste forme urbane – dominata dai servizi, finanziari e manageriali in primo luogo, piuttosto che dalla produzione manifatturiera – corrisponderebbe una inarrestabile polarizzazione sociale. Da una parte le città globali vedono crescere il numero dei fornitori di servizi, dei liberi professionisti e dei manager attivi in questi settori; dall’altra la struttura industriale tradizionale perde la sua vitalità, e decresce in particolare la parte di manodopera operaia qualificata che ne era risorsa fondamentale. La Sassen mette a punto la sua tesi associando più dettagliatamente l’analisi del mutamento sociale alla descrizione delle nuove caratteristiche del processo produttivo. Le attività che dimostrano la maggior espansione si caratterizzano per una diversa composizione della manodopera, con una maggior presenza di posti a bassa o alta retribuzione rispetto alle vecchie industrie. Almeno metà dei posti nei servizi sono a bassa retribuzione, e metà nelle classi superiori di retribuzione. All’opposto, una larga parte dei lavoratori dell’industria ricopriva posti a retribuzione media durante il periodo postbellico di forte espansione negli Stati Uniti e in Gran Bretagna [Sassen 1991, 9]. La tendenza alla polarizzazione sarebbe stata ampliata da altre due tendenze che hanno profondamente segnato il sistema economico. La gentrification e i suoi effetti sul parco abitativo e sulla sua gestione, come pure sulla rete commerciale, richiamano una manodopera abbondante ma di rado qualificata. Interviene infine il cosiddetto «degrado del settore manifatturiero»: declino dei sindacati, progressione del lavoro a domicilio e in laboratori improvvisati. La Sassen, in sintesi, concentra l’attenzione su un crescente divario delle posizioni lavorative e dei redditi, che rifletterebbe mutamenti nella struttura di produzione e nel mercato del lavoro. La studiosa sottolinea inoltre l’affermarsi, in direzione dell’economia mondiale, di sistemi urbani egemonici ma polarizzati, che un po’ come la città barocca esprimono un ordine prodotto da una ristretta élite «separata». Per poter descrivere comparativamente le trasformazioni della struttura occupazionale dei grandi sistemi urbani alla luce delle interpretazioni attuali sulle conseguenze della globalizzazione occorre fare ricorso ad una molteplicità di dimensioni analitiche: distribuzione delle posizioni professionali, andamento del rapporto pubblicoprivato, forme di organizzazione giuridica del lavoro, peso reciproco di alcuni settori chiave, spesso emergenti e che travalicano le tradizionali distinzioni della sociologia economica. turismo internazionale. Esso si sovrappone considerevolmente al secondo (hotel, ristoranti, commercio di lusso, divertimento) e come l’altro è strettamente legato ai risultati congiunturali dell’economia mondiale. Il seguente elenco di clusters socioprofessionali,tipici secondo Friedmann e Wolff della città mondiale [1982, 320-321], rappresenta una pro- posta analitica di riferimento in queste compa- razioni. 5. I servizi governativi costituiscono un quinto cluster. Loro funzione è la difesa e la riproduzione della città mondiale, nonché l’erogazione di beni di consumo collettivo: la pianificazione e la regolazione dell’uso del suolo urbano e la sua espansione; la fornitura di edilizia pubblica, di beni e servizi indispensabili e di trasporti; la difesa dell’ordine pubblico; l’educazione; la regolazione dello scambio; i parchi urbani; l’assistenza ai poveri. [...] Durante i periodi di crisi, il governo diventerà l’ultima planche de salut come datore di lavoro. Il suo ritmo interno tende ad essere anti-ciclico. 6. Un sesto, numericamente il cluster più abbondante, in certe città almeno, racchiude l’economia «informale», «fluttuante» o «di strada» che spazia dai servizi non formalizzati dei lustrascarpe ai venditori di frutta, vetrai, drug dealers e modesti artigiani. [...] Il settore informale esiste essenzialmente per il largo afflusso di persone nella città mondiale da altre città e dalla campagna, persone attratte dalla città mondiale come da un barattolo di miele. 1. Il dinamismo della città mondiale risulta principalmente dalla crescita di un primo cluster di servizi manageriali di alto livello che occupano un numero ampio di professionisti – l’élite transnazionale – e del loro staff ancillare di personale impiegatizio. Le attività sono quelle che verranno a definire le funzioni economiche principali della città mondiale: management, banche e finanza, servizi legali, consulenza contabile, telecomunicazioni e telematica, trasporti internazionali, ricerca ed educazione superiore. 2. Un secondo cluster occupazionale, anch’esso in rapida ascesa, è per buona parte al servizio del primo. La domanda in questo settore è largamente derivata ed esso occupa proporzionalmente un numero minore di specialisti: attività immobiliare, edilizia, attività alberghiera, ristorazione, commercio di lusso, divertimento, polizia privata e servizi domestici. Presenta una varietà maggiore del primo cluster, la sua fortuna è strettamente legata al precedente. Benché molti lavori del cluster siano permanenti e ragionevolmente ben pagati, non è il caso dei servizi domestici che rappresentano il settore occupazionale più vulnerabile e più sfruttato. 3. Un terzo cluster occupazionale è centrato sul 4. La crescita dei primi tre clusters si verifica a detrimento del quarto, il settore delle attività manifatturiere, in rarefazione, quantitativamente importante, ma negli ultimi anni in continuo declino, e in prevedibile ulteriore declino. Friedmann e Wolff propongono anche una valutazione quantitativa di massima del rapporto tra i sei clusters nelle città dominanti dell’economia mondiale: servizi manageriali di alto livello tra il 10 e il 20% della manodopera; settori di domanda derivati (clusters 2 e 3) dal 15 al 30%; attività manifatturiere tra il 15 e il 20%; servizi governativi tra il 10 e il 15%; economia informale dal 10 al 40%; disoccupati dal 5 al 10%. 1.3 L’ortogenesi urbana Nel considerare le modalità di autonomia della città l’analisi sociologica, da Weber in poi, si sofferma sulle città dominanti; le «altre» sono definite a contrario. La città coloniale ad esempio ha interessato gli storici piuttosto che i sociologi. La «città media» è un’immagine fluttuante, la cui consistenza muta da paese a paese e a seconda dei momenti storici; suscita case-studies, non teorizzazione. Quando è oggetto di indagine empirica accurata, più spesso nella sociologia statunitense, essa è intesa come emblema della società intera. Nella classica ricerca di comunità svolta dai Lynd, nel 1929, poi nel 1937, la cittadina studiata, Muncie, viene ad esempio definita come la «Middletown» nella quale si possono leggere le trasformazioni che hanno investito l’intera società americana (cfr. par. 4). Alcuni marginali tentativi di teorizzazione sul grado diversificato di autonomia dei sistemi urbani, rintracciabili nella sociologia americana degli anni Cinquanta, ritrovano tuttavia oggi una certa attualità. Nel quadro della riflessione interdisciplinare sulle relazioni tra città e sviluppo economico e culturale che allora si viene elaborando, è proposta e discussa una distinzione legata in parte a quella già evocata tra urbanizzazione primaria e urbanizzazione secondaria [Redfield-Singer 1954]. Nel movimento verso la progressiva urbanizzazione, si osserva come alcuni sistemi urbani si rinnovano producendo essi stessi gli strumenti culturali del proprio mutamento. Essi sono capaci di produrre autonomamente una cultura adeguata alle esigenze del momento, che li rende riconoscibili, innovativi e li dota di capacità di attrazione sulle popolazioni esterne; di produrre – in altri termini – una «grande tradizione», attraverso un processo di trasformazione intellettuale che porta allo sviluppo di una classe nuova di letterati, all’elaborazione di testi sacri e a un apparato nuovo di controllo sociale. Subentrerà poi una seconda fase di difesa dell’equilibrio raggiunto, con i relativi rischi di eccessiva conservazione. Accanto a questi sistemi urbani, altri, invece, vivono di riflesso i mutamenti culturali nati altrove e che si estendono ad essi per semplice contaminazione. I primi sono detti «ortogenetici», i secondi «eterogenetici». Conseguenza dei processi globalizzanti sembra essere il declassamento di molti sistemi da ortogenetici a eterogenetici. 2 MORFOLOGIA Per «morfologia sociale» si intendono qui, secondo l’accezione durkheimiana, le modalità di insediamento delle popolazioni sul territorio. I modelli morfologici di sistemi urbani si interessano quindi alle espressioni spaziali delle differenziazioni e aggregazioni sociali [Durkheim 1899]. 2.1 Verso la morfologia urbana duale del capitalismo Per la scuola durkheimiana l’organizzazione spaziale delle comunità riflette e condiziona la sua complessità sociale e funzionale, nonché le dicotomie fondanti della coscienza collettiva, in primis la distinzione tra sacro e profano [Durkheim 1912] (cfr. cap. 3). Aumento della complessità e addensamento sono processi convergenti: le società semplici sono diffuse, quelle complesse concentrate. Gli aggregati urbani rispondono al bisogno di «densità morale» dell’uomo, sono l’elemento definitorio delle specie sociali superiori. e La città medievale per i durkheimiani illustra il principio di specializzazione applicato alla vita lavorativa e all’organizzazione spaziale. Il mestiere genera il quartiere, ogni mestiere esprime una sua gerarchia, costituisce un territorio che diventa un suo emblema: la città è la risultante di questi spazi contrapposti. La città medievale è quindi «città segmentata» [Maunier 1910]. Il punto è controverso: la città medievale per Sjöberg [1960], che si ispira principalmente al caso italiano, è invece «città concentrica». La società urbana medievale si compone di tre classi: uno strato superiore, uno strato inferiore e un gruppo di marginali. Quest’ultimo è definito spesso su base etnica o religiosa. L’élite vive al centro, vicino alle sedi dell’attività religiosa, cerimoniale e politica; la classe inferiore vive all’esterno; i marginali al limite della città o in enclaves nella struttura urbana. Non mancano, tuttavia, a contrastare questa tesi, le testimonianze di residenza delle famiglie dominanti nelle zone esterne dell’area urbana, spesso laddove i redditi principali derivano dalla proprietà fondiaria [White 1984, 6]. fig. 2.1. Esempio di impianto urbano medievale (XIII sec.). Fonte: BERNOULLI [1951]. ■ Anche per Braudel, la «città borghese», non dominata dall’aristocrazia fondiaria ma da mercanti organizzati nelle gilde, struttura il suo spazio sulle specializzazioni più che sulla gerarchia sociale: la casa del borghese è anche luogo di lavoro e di residenza per i dipendenti; la tendenza alla disposizione concentrica è limitata. Soltanto alcune attività vengono esiliate al «limite» della città, secondo un processo di stigmatizzazione sociale che le accomuna quasi allo straniero [Braudel 1967]. ■ Della morfologia urbana barocca la letteratura ci propone un’immagine più consensuale. Sia come dimora permanente del principe e della sua corte, sia come cittadella per il suo esercito, la città barocca esisteva in funzione delle esigenze del potere [...] Entro questi criteri militari e dispotici, la nuova pianta si distingueva dall’irregolarità medievale per l’impiego di linee rette e blocchi regolari, dalle dimensioni per quanto possibili uniformi, fatta eccezione per i casi in cui strade diagonali mutavano i parallelepipedi in poliedri irregolari. Il nuovo ordine era decisamente estroverso: piazze aperte o rondò, con strade e corsi che se ne irradiavano intersecando sia gli antichi grovigli sia i nuovi reticoli, e prolungandosi verso l’orizzonte sconfinato [Mumford 1961, 484-86]. La pianta stellare che, secondo Mumford, soprattutto nei paesi latini, fu per tre secoli il segno distintivo di un’urbanistica elegante, introdotta in schegge nuove dello spazio cittadino, porta ad una ricomposizione della mappa sociale della città. Con la costituzione di un nuovo centro del potere attorno al quale si assiepano aristocrazia e borghesia, essa rompe lo schema concentrico laddove esisteva, riordinando socialmente il territorio urbano. ■ Dalle «osservazioni dirette e fonti autentiche» del suo viaggio in Inghilterra del 18441845, Engels desume una descrizione morfologica della «città industriale» quale espressione e strumento territoriale di un ordine, quello del capitalismo, fondato sullo sfruttamento della classe operaia [Engels 1845]. Che le condizioni non fossero ancora mature perché la totale alienazione del proletariato facesse sviluppare la coscienza, poi solidarietà, di classe, è dimostrato in tutte le grandi città inglesi studiate: La brutale indifferenza, l’insensibile isolamento di ciascuno nel suo interesse personale emerge in modo tanto più ripugnante ed offensivo quanto maggiore è il numero di questi singoli individui che sono ammassati in uno spazio ristretto [...] La decomposizione dell’umanità in monadi, ciascuna delle quali ha un principio di vita particolare, il mondo degli atomi sono stati portati qui alle estreme conseguenze. È per questo che la guerra di tutti contro tutti è dichiarata qui apertamente. Gli uomini considerano gli altri soltanto come oggetti utilizzabili; ognuno sfrutta l’altro e ne deriva che il più forte si mette sotto i piedi il più debole e che i pochi forti, cioè i capitalisti, usurpano ogni cosa, mentre ai molti deboli, ai poveri, a malapena resta la nuda vita [Engels 1845; trad. it. 1955, 52]. L’atomizzazione, nella città del capitale, si associa al dualismo spaziale; ogni città ha i suoi «quartieri brutti», nei quali si ammassa la classe operaia: a volte vicoletti nascosti dietro i palazzi dei ricchi, ma più spesso zone a sé stanti, bandite dalla vista delle classi più fortunate. I «quartieri brutti» sono anche situati nelle zone mal collocate, vicine alle industrie, quindi spesso lungo i fiumi, umide e fisicamente degradate. Quando si tratta di quartieri «nuovi» (costruiti spesso dall’imprenditore stesso, che sfrutta l’operaio anche come inquilino), sono per lo più lunghe file di costruzioni in mattoni a uno o due piani, di tre o quattro stanze, eventualmente con cantine abitate: il cottage. È questo in tutta l’Inghilterra, tranne che in qualche parte di Londra, il «nuovo» habitat della classe operaia. Le strade non sono lastricate, non hanno canale di scarico o fogna, sono cosparse di fetide pozzanghere stagnanti; sono ordinate in tre file contigue con due strade esterne, disposizione che lascia poca possibilità alla luce e all’aria di entrare all’interno delle case (fig. 2.2). Gli affitti, sempre esosi rispetto ai redditi, vengono differenziati proprio sulla base della minore o maggiore ariosità della fila. Nei quartieri «vecchi», invece, è proprio l’addensamento, la configurazione tortuosa, a deprivare il proletariato di quei «beni d’uso» fondamentali che sono lo spazio, la luce, l’aria. La separazione tra quartieri «brutti» e quartieri borghesi è totale. Engels nota che a Manchester, archetipo della città industriale, «si potrebbe abitare per anni ed entrarvi ogni giorno senza mai venire a contatto con un quartiere operaio, anche soltanto con operai» [ibidem, 81]. È l’esigua classe media, con i suoi negozi, a fare da filtro fisico tra le due classi, difendendo la «buona coscienza» della borghesia, nascondendo «ai ricchi signori e alle ricche donne dagli stomaci forti e dai nervi deboli» lo squallore della miseria proletaria. La città ha quindi una struttura semplice, che verrà sistematizzata come modello urbanistico nell’intervento hausmanniano a Parigi: il centro accoglie gli uffici, le banche e i magazzini dei borghesi che vivono nelle colline attorno alla città. Vi si accede tramite boulevards monumentali a vocazione commerciale che orlano, nascondendoli, i quartieri operai. fig. 2.2. La struttura del cottage operaio nella città industriale. Fonte: ENGELS [1845; trad. it. 1955]. 2.3 Successione e integrazione nel modello ecologico L’analisi morfologica proposta negli anni Venti dalla «Scuola ecologica» di Chicago, al di là della pesante contaminazione semantica con le scienze naturali, non si può scindere dalla teoria dell’assimilazione culturale che la sottende. Tra il 1924 e il 1933, la fase di crescita abnorme della città tramite inurbamento e immigrazione europea, a Chicago furono pubblicati una quarantina di lavori sui problemi etnici in ambiente urbano [Pearsons 1987]. Chicago e tutte le grandi città sono, secondo gli autori della scuola, i luoghi privilegiati del melting pot, in cui l’immigrato viene socializzato in una cultura che egli stesso contribuisce a creare. Ogni città si caratterizza per una speciale composizione di etnie sul territorio, ma le uniformità sono tante e il processo identico. In quello che diventerà uno dei più fortunati manuali della storia della sociologia, Introduction to the Science of Sociology, Park e Burgess [1921] propongono lo schema descrittivo di un processo di «assimilazione», sul quale si fonda l’ordine in movimento della grande città. Quattro sono le tappe del percorso che deve seguire, secondo gli autori, l’immigrante con la sua famiglia. 1) In una prima fase, detta di competizione, le sue relazioni con il contesto si limitano a quelle necessitate dai rapporti economici; la sua interazione con la società americana è elementare e universale (si può parlare di interazione senza contatto); si inserisce soltanto in una nuova divisione del lavoro. 2) In una seconda fase, detta di conflitto, all’inconsapevolezza della competizione subentrano la consapevolezza e la ricerca di solidarietà nella minoranza, in genere etnica, alla quale si avvicina. L’individuo in questa fase entra nell’ordine del «politico». La fase di conflitto – secondo una tesi centrale della Scuola di Chicago, in contrasto con qualunque interpretazione eccessivamente ottimista delle relazioni etniche – è inevitabile quando popolazioni diverse si trovano in presenza l’una dell’altra. In una terza fase, detta di adattamento, subentra una sorta di «conversione 3) religiosa» che necessita di uno sforzo diverso ma altrettanto impegnativo di quello profuso dall’individuo nella seconda fase. Con l’individuo cambiano le istituzioni che hanno facilitato la sua socializzazione nella fase del conflitto: la gang, organo centrale della fase di conflitto, si trasforma in club. I gruppi rimangono rivali, ma accettano le loro differenze per mantenere sotto controllo la violenza e garantire la sicurezza delle persone. 4) La quarta fase, detta di assimilazione, rappresenta l’approdo dell’intero processo. Le differenze si sfumano, ma per interpenetrazione e fusione. Il percorso mobilita i gruppi e le famiglie su un arco di tempo spesso molto ampio. La seconda generazione, quella dei figli dell’immigrato, appare come l’anello più fragile dell’insieme familiare, la componente più attiva della fase di conflitto [ibidem, 509-510]. e Uno schema simile, ma più denso nei suoi elementi teorici, arricchito da esperienze di ricerca esemplari, è proposto parallelamente da Thomas e Znaniecki ne Il contadino polacco in Europa e in America (1918-1920). I concetti sono quelli fondamentali della sociologia di Thomas, in primo luogo quello di «organizzazione sociale», intesa come l’insieme dei valori sociali, degli elementi culturali della vita sociale, in particolare quelli inscritti nelle regole di comportamento degli individui dettate dalle istituzioni sociali. Questa la tesi centrale: le differenze razziali o etniche non spiegano i problemi degli immigranti. Il contatto brutale con nuove regole di vita e le trasformazioni che ne derivano per l’esistenza quotidiana non sarebbero sufficienti a generare quei problemi se nella condizione del migrante alla partenza non fossero presenti motivi di forte fragilità morale. Il fenomeno migratorio non si spiega con la povertà o l’aggravarsi delle difficoltà economiche; anzi il disagio estremo priva l’individuo perfino della capacità di reagire, mentre chi emigra spesso appartiene a fasce sotto certi aspetti qualificate della popolazione alla quale appartiene. Per Thomas e Znaniecki lo sviluppo dell’emigrazione nel caso delle campagne polacche si collega allo sgretolamento della società contadina tradizionale e al mutamento di valori che coinvolge in primo luogo i giovani contadini: sfaldamento della famiglia contadina ed emigrazione di massa in Germania, nel resto d’Europa e negli Stati Uniti sono due fenomeni collegati. Con l’industrializzazione e la desertificazione delle campagne svanisce la centralità della cultura contadina; riducendosi il numero dei suoi componenti, la famiglia agricola perde anche vitalità; si verificano trasformazioni culturali profonde che, nelle giovani generazioni, modificano i termini di definizione della propria situazione. Declina il rispetto della tradizione; di fronte all’emergere dell’individuo come valore, il successo economico diventa metro di riconoscimento collettivo che adombra il prestigio antico. Il giovane contadino polacco dell’inizio del secolo vive quindi, affermano Thomas e Znaniecki, una situazione di disorganizzazione sociale; ciò significa che la società non riesce più a trasmettere con efficacia le convenzioni, le attitudini e i valori con i quali si impone all’individuo e lo sostiene nella sua vita quotidiana. Alla disorganizzazione del nucleo familiare, che si trasforma in unità di consumo, si associa la disorganizzazione della comunità locale, che non funziona più come unità di solidarietà, e nella quale non si costruisce più l’opinione pubblica. Un processo che, con l’immigrazione negli Stati Uniti, diventa spettacolare e drammatico. La disorganizzazione individuale, vale a dire la demoralizzazione, segue la disorganizzazione sociale: esse si esprimono nella prima fase di immigrazione nella pauperizzazione visibile e nella delinquenza giovanile [Thomas-Znaniecki 1918; trad. it. 1968, II, 3-45]. La vicenda dell’immigrato diventa tuttavia, da questo momento, storia di una «riorganizzazione», che avviene principalmente attraverso l’adesione a valori religiosi meno impermeabili al cambiamento di quelli tipici del contesto di origine. Motori di questa riorganizzazione sono le istituzioni culturali (il sistema educativo, la stampa locale in lingua nazionale), ma soprattutto la conformazione della città in «colonie separate», l’organizzazione dell’habitat per nazionalità, che consente l’aiuto reciproco tra gli immigrati e il sostegno delle istituzioni espresse dalla società americano-polacca nella quale essi si inseriscono (l’associazione, la chiesa). L’americanizzazione di massa richiede l’organizzazione etnica per l’adattamento dell’immigrato [ ibidem, 143 ss.]. La morfologia cittadina offre l’immagine di questo processo, nella sua configurazione e nella sua mobilità. La città, come descritta nel manifesto della Scuola ecologica, il volume collettivo intitolato La città [1925], firmato da Park, Burgess e McKenzie, è costituita da «colonie separate», o «aree naturali», il cui valore fondiario si differenzia principalmente in relazione alla distanza dal centro, o meglio dalla «zona di transizione», la zona degradata di primo insediamento, situata a ridosso dell’area più centrale, che ospita al loro arrivo in città gli immigrati. Le colonie separate, intese come «aree di isolamento della popolazione», i vicinati o ancora le «regioni morali» (che possono essere luoghi di incontro e non solo di residenza) sono le unità locali di integrazione, nelle quali popolazioni molto diverse tra di loro consolidano le proprie caratteristiche tramite «contagio sociale», trovando così il necessario sostegno in una società discriminante. Sono unità di vita culturalmente caratterizzate, che si ritrovano con una certa regolarità nelle metropoli americane: Ogni città americana ha i suoi slums, i suoi ghetti, le sue colonie di immigrati, aree che conservano una cultura più o meno straniera ed esotica. Quasi ogni grande città ha quartieri abitati da intellettuali e minoranze sessuali che scelgono uno stile di vita alternativo , bohémien, (il ”village ”) e da vagabondi e senza tetto ( la “giungla”) ove la vita è più libera, più avventurosa e più solitaria che in qualsiasi altra zona [Park 1952, 196]. Alcune altre aree rappresentano costanti dell’organizzazione urbana, come quelle di «appartamenti in affitto», dette anche delle «commesse», la «zona commerciale decaduta (il centro del divertimento)», descritte in particolare da Zorbaugh nel suo studio sulla zona nord-occidentale di Chicago, La costa dorata e lo slum [Zorbaugh 1929]. Le regioni morali sono quindi parte integrante della vita della città, espressione più alta della sua cultura laddove funzionano con la sufficiente efficacia e mobilità. Il modello di integrazione proposto dalla Scuola di Chicago suppone infatti un’estrema mobilità da parte degli individui e delle comunità: l’invasione individuale e poi la «successione» (cap. 3) di intere comunità ad altre su uno stesso territorio corrispondono al movimento di mobilità ascensionale nella società americana. L’uscita dall’area etnicamente definita della zona di transizione e l’insediamento residenziale in una cerchia più decentrata segnano la fase finale dell’assimilazione che ha per condizione basilare il miglioramento delle possibilità di vita. L’integrazione economica (l’accesso al lavoro, il miglioramento delle opportunità di vita) diventa infatti, col tempo e i successivi traslochi, la base di una più lenta e dolorosa integrazione culturale. La città americana così descritta ha quindi una morfologia particolare, caricaturalmente sintetizzata nel noto schema a cerchi concentrici proposto da Burgess ne La città [1925]. I tratti caratteristici della struttura così evocata, oltre alla mobilità, si possono formulare nei termini seguenti: la desiderabilità residenziale aumenta via via che ci si allontana dal centro; il centro è dedicato alle sole attività direzionali (central business district); la popolazione si organizza di conseguenza secondo un orientamento centripeto, che carica il cerchio attorno al central business district, il cerchio della «transizione», delle funzioni di prima accoglienza o di ricettacolo di chi non riesce ad integrarsi. Alcune «colonie separate» sono già indicate dai primi autori della Scuola ecologica come aree grigie nel modello di riorganizzazione sociale: lo slum, per i cosiddetti «intrappolati» [Gans 1962], diventa non lo spazio della transizione, ma quello di una vita, denuncia Zorbaugh [1929]; il «ritorno al ghetto» dell’ebreo non è fenomeno marginale, denuncia Wirth [1938]; il ghetto nero, nella cartina, rappresenta la particolare posizione e resistenza di una «colonia separata» che, nella sua estensione geografica, travalica le distinzioni economiche segnate dai cerchi. Nel ghetto nero devono rimanere anche chi, tra la popolazione nera, ha risorse economiche superiori a chi sta nella zona di transizione. Fig. 2.3. I «cerchi» dell’organizzazione e della disorganizzazione sociale: lo schema di Burgess. Fonte: PARK-BURGESS-MCKENZIE Gli strumenti analitici costruiti a Chicago dagli anni Venti alla seconda guerra mondiale orientano durevolmente l’analisi della città americana. Chi nel dopoguerra si richiama più direttamente ai lavori della prima generazione degli ecologisti di Chicago, gli studiosi che propongono il programma dell’”Human Ecology” [Hawley 1950], e i propugnatori della più suggestiva “Social Area Analysis” [Shevky-Bell 1955], assume un orientamento esclusivamente quantitativo che consente una buona descrizione di alcuni contesti, ma non nutre in modo originale il dibattito sulla questione urbana o su singoli contesti. Una ripresa più ricca, più fedele all’impostazione metodologica della prima generazione della Scuola ecologica di Chicago si rileva negli anni più recenti, nei lavori del gruppo dell’Università di Chicago diretto da Robert J. Sampson che hanno portato alla pubblicazione di Great American City. Chicago and the Enduring Neighborhood Effect [2012] L’analisi si incentra sul funzionamento delle aree urbane, delle “comunità” tradizionali della città di Chicago, come motori della riproduzione sociale. Vi si lavora a partire da una pluralità di tecniche (analisi della statistica pubblica, interviste, osservazione strutturata dei comportamenti e delle tracce e dalla replica di diverse raccolte dati per ottenere visioni longitudinali, evidenziando le relazioni tra le possibilità di “sviluppo umano” e la solidità dei vicinati. Ma i lavori della Scuola ecologica, hanno ispirato e continuano ad ispirare, più spesso come riferimenti contradditori, numerose interpretazioni americane delle relazioni tra capitalismo globale e grande città statunitense. 2.4 La sociologia americana davanti alle nuove modalità di differenziazione urbana Rispetto al modello proposto in The City , secondo le tesi americane contemporanee sulla grande città dominanti alla fine del secolo scorso, il tratto fondamentale del nuovo ordine metropolitano sarebbe invece una paradossale congiunzione di polarizzazione e frammentazione sociali che ricorda piuttosto la città industriale descritta da Engels. e Gli approcci dualisti, come quelli della Sassen [1991] e di Castells [1989], osservano allora il funzionamento della città descrivendo le relazioni tra due segmenti del mercato del lavoro storicamente definiti: un segmento primario ed un segmento secondario, ciascuno con una sua gerarchia. Nella società metropolitana convivrebbero due segmenti formati da categorie sociali diverse: – quelle sopravvissute a periodi in cui erano predominanti forme ormai superate di organizzazione economica e sociale, che si «adattano» alle nuove circostanze tramite declassamento ed emarginazione; – quelle generate dalle tecnologie emergenti (che definiscono una vasta élite stimata da Castells, per la grande città americana, in un quarto della popolazione). I due segmenti rappresenterebbero i due volti della metropoli contemporanea: da un lato i retaggi ancora importanti del passato, che del presente costituiscono tuttavia una condizione di esistenza e di funzionamento; dall’altro, l’ordine urbano emergente, fondato anch’esso su una polarizzazione tra la vasta élite e gli strati inferiori, relegati a mansioni «ancillari» e a lavori mal qualificati e mal tutelati: un ordine riassunto nello schema a «clessidra» della struttura sociale, nella quale il divario tra gli having e gli having not si approfondirebbe ogni giorno. e È ancora Castells [1989] a riassumere, nel saggio su The Informational City, analisi ricorrenti in molta della letteratura specialistica, secondo cui la struttura spaziale della grande città contemporanea – città «informazionale» – combina segregazione, diversità e gerarchia. Socialmente, la città informazionale è «città duale». Il dualismo strutturale porta, allo stesso tempo, alla segregazione spaziale e alla segmentazione spaziale, approfondisce la differenziazione tra il livello superiore della società informazionale e il resto dei residenti locali, l’infinita segmentazione e il conflitto ricorrente tra le molteplici componenti del lavoro ristrutturato e destrutturato [...]. L’universo sociale di questi mondi differenti è caratterizzato anche dalla diversa esposizione ai flussi di informazione e ai modelli di comunicazione. Lo spazio dello strato superiore è usualmente connesso alla comunicazione globale e a vasti reticolati di scambio, è aperto a messaggi ed esperienze che abbracciano il mondo intero. Dall’altra parte dello spettro, reticolati locali segmentati, spesso su base etnica, si fondano sulla propria identità come unica risorsa per difendere i propri interessi e, in definitiva, la propria esistenza [ibidem, 154]. Enfatizzando anch’egli il contrasto di interessi nelle trasformazioni urbane tra la borghesia e il resto della popolazione urbana, e recependo le riflessioni di molti sociologi americani sulla «militarizzazione» delle città [Wacquant 1999], Davis [1990; 1998] suggerisce che la morfologia della città americana (Los Angeles lo insegna) s i a determinata dall’insicurezza che ridisegna i confini delle zone definite dalla Scuola di Chicago. C’è forse bisogno di spiegare perché la paura sta attanagliando l’anima di Los Angeles? L’ossessione ricorrente per la sicurezza personale e per l’isolamento sociale è superata solo dal terrore medio-borghese della tassazione progressiva. Di fronte a una povertà e ad un problema dell’alloggio irresolubili, e nonostante una delle più grandi espansioni nella storia economica americana, tutti i partiti continuano a ripetere che il bilancio dev’essere riportato in pareggio e l’assistenza ridotta. Non potendo sperare in ulteriori investimenti pubblici per riequilibrare i problemi sociali, siamo obbligati invece a fare investimenti privati e pubblici sempre più elevati nella sicurezza. La retorica della riforma urbana persiste, ma la sostanza si è dissolta. «Ricostruire Los Angeles» significa soltanto irrobustire il bunker, mentre la vita in città diventa sempre più bestiale, le varie classi sociali adottano strategie e tecnologie di sicurezza proporzionali ai propri mezzi. [...] Dato che queste misure sono reazioni al disagio sociale, è possibile parlare di una «tettonica della sommossa» che ogni tanto libera una scossa con cui rimodella lo spazio urbano. Dopo la rivolta di Watts nel 1965, per esempio, i principali proprietari di immobili del centro di Los Angeles organizzarono un «Comitato dei 25» segreto per reagire alle ipotetiche minacce alle iniziative immobiliari [...] La chiave del successo dell’intera strategia (celebrata come la «rinascita di Los Angeles») fu la segregazione fisica del nuovo centro e del suo valore immobiliare dietro un bastione di palizzate, pilastri di cemento e muri di autostrade. I tradizionali passaggi pedonali tra Bunker Hill e il vecchio centro furono rimossi, e il traffico dei pedoni alzato sopra il livello della strada su «marciapiedi passerella» il cui accesso, come nell’immaginaria Titan City di Hugh Ferriss, era controllato dai sistemi di sorveglianza di ogni grattacielo. Questa privatizzazione radicale dello spazio pubblico di downtown, con le sue orrende implicazioni razziali, si svolse senza significativi dibattiti pubblici e senza proteste [1998; trad. it. 1999, 377-380]. La trasformazione dello spazio cittadino di cui parla Davis è illustrata nella figura seguente. fig.2.4. Morfologia urbana ed ecologia della paura nella Los Angeles contemporanea. Fonte: DAVIS [1998; trad. it. 1999]. Negli stessi anni i lavori di Wilson [1991] sul ghetto nero dell’inner city – elemento definitorio di un modello morfologico drammaticamente tipico della città americana contemporanea – analizzano determinanti e caratteristiche geografiche dell’emarginazione sociale nella grande città. I l g h e t t o n e r o , n e l l o s c h e m a d e g l i e c o l o g i s t i d i Chicago, razziale, era “colonia fortemente separata” particolare, differenziata al suo definita interno su base perché differenziata erano le provenienze, le esperienze professionali, le opportunità economiche e culturali di vita della popolazione che vi abitava. Raggiunto il riconoscimento dell’uguaglianza dei diri tti civili, il ghetto nero perdura, ma si trasforma in seguito alla c o n t e m p o r a n e a r i v o l u z i o n e d e l l a s t r u t t u r a p r o d u t t i v a . La povertà di ghetto americana si sviluppa come forma sociale diffusa soprattutto nel Nord-Est e nel Mid West, in seguito a un drastico processo di ristrutturazione dell’industria, alla scomparsa di numerosi posti di lavoro operai, alla delocalizzazione di quelli, quantitativamente minori, offerti dalla nuova industria: un’offerta alla quale soltanto p a r t e d ell’élite nera ha potuto rispondere, staccandosi, anche nella sua scelta di residenza nelle periferie della media borghesia, dal gruppo etnico più ampio. «Tratto caratteristico dei residenti dei ghetti neri di centro-città è proprio la disoccupazione, rafforzata da un isolamento sociale crescente in vicinati poveri, che si riflette per esempio nell’accesso rapidamente decrescente ai sistemi di informazione sul mercato del lavoro» [ibidem, 9]. Wilson associa la posizione debole sul mercato del lavoro a particolari situazioni residenziali: nel ghetto nero si costituisce un nuovo sotto-proletariato segregato risultante da cambiamenti su larga scala nel mercato del lavoro e dalla concentrazione spaziale, nonché dall’isolamento rispetto alle parti più cospicue della comunità nera. ■Anche chi, tra gli osservatori della metropoli statunitense, protende per un approccio diverso della morfologia della grande città americana, recupera temi degli ecologisti di Chicago mentre si associa alle idee di rinnovata territorialità delle relazioni sociali urbane. Peter Marcuse [1989; 1991; 2006] dalla fine degli anni Ottanta propone un modello di città quartered ma non duale, tipico della grande città contemporanea. Indica come determinanti della differenziazione sociale le posizioni diversificate sul mercato dell’alloggio e come ulteriore fonte della distribuzione socio-territoriale della popolazione i meccanismi di «differenziazione invidiosa» che indirizzano la localizzazione della casa. Egli propone un elenco di dieci caratteristiche a suo parere realmente nuove della città «post-fordista». Cinque di esse esprimono il rinnovato connubio tra suolo e popolazione, secondo meccanismi tra i più violenti descritti dalla Scuola di Chicago: 1.le «aree naturali» mutano profondamente: si estende e si diversifica la parte della popolazione non alloggiata; 2.alcune aree si espandono smisuratamente (città gentrificata e città abbandonata), altre si contraggono (città degli affitti); 3.la dinamicità delle aree aumenta, i fenomeni di espulsione per espansione delle aree dominanti rimodellano continuamente la città; 4.L’«identità di area» è forte risorsa identitaria per chi vi abita; 5.la solidarietà di area è molto forte: si creano veri e propri muri tra aree, strenuamente difesi con turf barricades e turf battles, mentre altre aree si trovano sempre più strettamente inserite in una rete fitta di rapporti internazionali. Caratteristica determinante è infine la posizione delle istituzioni governative che, tralasciando l’interesse pubblico a favore dell’interesse privato, non soltanto non contrasta ma favorisce la crescita della città gentrificata e della città abbandonata. Contemporaneamente, si ridefiniscono i cleavages politici, le linee di conflitto politico e di coalizione; infine, si concentra il controllo privato dell’attività economica sullo sfondo di mutamenti radicali nelle tecniche produttive di beni e servizi. Il modello che tenta di associare l’analisi dei fenomeni aggregativi derivanti dalla nuova stratificazione con considerazioni più classicamente ecologiche sulle caratteristiche fisiche delle aree offre una interessante variazione sul modello della città globale. I tentativi più recenti di bilancio sui mutamenti morfologici della città americana [Soja 2013?] continuano ad insistere sul confermarsi di due movimenti costitutivi della struttura urbana emergente. Da una parte perdura la dedensificazione delle inner cities e la loro trasformazione sotto il duplice segno della gentrification in alcune aree e della formazione di nuovi ampi spazi dismessi (la “shrinking city”), non sempre utilizzati dai nuovi immigrati. Dall’altra la crescente debolezza delle famiglie sul mercato dell’alloggio, che comporta, da una parte mobilità residenziale sostenuta, dall’altra crescita della popolazione dei senza tetti, un fenomeno quest’ultimo, oggi purtroppo non tipico del Nord America. 2.5 Sulla morfologia dei sistemi urbani europei Trovare modelli di città, sociologici o con valenza sociologica, meno rigidamente derivati dall’esperienza statunitense è più difficile. Tra i modelli «non ortodossi» di città occidentale va ricordato, per completare il panorama delle proposte morfologiche più recenti, almeno il modello della città mediterranea, oggi marginale, ma sempre prezioso per la ricchezza dei riferimenti offerti. Tratti di organizzazione politica e di morfologia spaziale comuni ai sistemi urbani del Sud Europa sembrerebbero delineare un modello alternativo a quello della città americana. Proprio sulla nozione di «città mediterranea» elaborata nella letteratura storica, si innesta negli anni Ottanta un modello sociologico, ancora troppo poco riconosciuto, della grande città dell’Europa del Sud: una città che, in parte, contrasterebbe con il ritratto proposto della «città globale» e, in qualche modo, l’avrebbe preceduta per alcune sue attività tradizionali, come quelle assimilate sotto l’espressione di «economia informale». I cittadini di paesi mediterranei, si afferma, hanno sempre praticato contemporaneamente più forme di lavoro come strategia per ridurre i rischi [Braudel 1949], tratto culturale che ha conseguenze nell’attuale struttura occupazionale. La compresenza, tradizionale nella città mediterranea, tra il settore delle grandi imprese moderne e il settore sempre crescente dei lavoratori autonomi e delle piccole imprese ha fatto di questa città il precursore di un modello organizzativo che oggi si ritrova nella città globale, con il suo mercato del lavoro polarizzato. In questa prospettiva, la città mediterranea europea non è soltanto un sistema urbano tipico della semiperiferia economica, secondo la definizione di Wallerstein [1980] (cioè un’area che nell’economia mondiale occupa uno spazio intermedio tra il core e la periferia, e che vive ancora le conseguenze della sua tarda industrializzazione), ma si caratterizza per alcuni tratti specifici. ■ Innanzitutto, il precoce sviluppo urbano del Sud Europa rispetto al resto del continente si esprime ancora oggi nella morfologia dei suoi sistemi urbani. Tratti uniformi dello sviluppo economico del secondo dopoguerra accomunano ulteriormente queste città: esso si associa a urbanizzazione rapida, andamento demografico dinamico, emigrazione. La tesi, in breve, è quella di una relativa indipendenza dell’ambiente urbano dall’industria [Leontidou 1990, 32]. ■ Anche la carenza di controllo fondiario appare come caratteristica dell’Europa urbana mediterranea [White 1984, 29]. L’assenza di separazione tra capitale fondiario e capitale industriale è elemento significativo della sua storia economica, accanto a determinanti fisiche e climatiche: la vita all’esterno della casa è facilitata, come pure la vita nel tugurio. ■ Negli anni Settanta, la carenza di pianificazione e le dimensioni della speculazione che ha accompagnato lo sviluppo hanno proposto la città mediterranea, segnata da sovraurbanizzazione e parassitismo, come tipo ideale di sistema politico locale. A questo tipo ideale si sono ispirate diverse analisi sociologiche, anche italiane [GinatempoCammarota 1978]. La spontaneità che Leontidou, richiamandosi alla categoria gramsciana dell’azione popolare spontanea, ha individuato come caratteristica dello sviluppo urbano nell’Europa meridionale contemporanea ha una doppia dimensione. «L’espansione urbana avviene sulla spinta di movimenti popolari senza leadership né piano; [...] gli attori di questi movimenti considerano la terra e l’alloggio come valori d’uso e non come valori di scambio; il loro scopo principale è la residenza piuttosto che la speculazione. I movimenti spontanei dovrebbero quindi essere distinti per un verso da riforma e pianificazione, per l’altro dalla speculazione» [Leontidou 1990, 43]. Tali movimenti si ispirano in genere a culture popolari che possono rivestire un contenuto di contestazione radicale: è il caso dei fenomeni di squatting (occupazione abusiva di suolo o di edifici). ■ La crescita urbana nei paesi del capitalismo periferico, tra i quali l’Europa mediterranea, realizzerebbe, secondo Schnore [1965], uno schema morfologico anti-burgessiano: concentrazione della residenza borghese nel centro ed espulsione alla periferia degli strati marginali, inclusi i poverissimi, secondo una distribuzione spaziale degli strati sociali vicina a quella della città preindustriale concentrica descritta da Sjöberg. Le aree borghesi si sviluppano tradizionalmente nelle strette vicinanze del central business district o, secondo uno schema socio-spaziale non concentrico ma radiale, lungo linee direttrici di giardini urbani che collegano il centro alla periferia e nei pressi dei quali si situano le residenze più appetibili. L’esplosione urbana degli anni Settanta avrebbe anch’essa approfondito, secondo alcuni geografi, la tendenza anti-burgessiana tramite la riqualificazione urbana, la gentrification e l’uniforme espulsione della residenza povera e degli slums interstiziali centrali all’estrema periferia, sotto forma di grands ensembles o di bidonvilles. ■ Lo schema morfologico anti-burgessiano si associa, nel modello di città mediterranea delineato da altri studiosi [in particolare White 1984; Leontidou 1990], ad una maggiore promiscuità tra attività e gruppi sociali, in particolare nelle fasce medio-inferiori della popolazione. La distribuzione della residenza operaia segue con relativa fedeltà la localizzazione delle industrie; se vi è segregazione sociale spaziale essa corrisponde soprattutto ad una «secessione» volontaria delle classi più agiate; la residenza operaia si colloca molto spesso in aree socialmente miste, nelle quali la piccola borghesia è ben presente: in breve, la città mediterranea idealtipica conosce lo slum, anche di grande dimensione; ma non conosce il quartiere operaio ereditato dalla rivoluzione industriale nelle città del Nord Europa. Vi è promiscuità sociale anche perché persistono forme di differenziazione residenziale alternative a quella del vicinato: la differenziazione verticale (tra i «piani nobili» e gli altri) nel palazzo del centro o nella periferia ottocentesca, la distinzione tra facciata e retro, l’affollamento differenziato degli stessi appartamenti. Le stesse attività economiche risultano spesso geograficamente intrecciate con la residenza secondo uno schema nel quale lo zoning, per le carenze nella produzione di piani e quelle dell’attività edilizia, non riesce a concretarsi. Nella città settentrionale la disposizione delle attività economiche in aree separate viene favorita dalla pianificazione e in particolare dalla zonizzazione legale. Le città meridionali offrono, invece, un patchwork spaziale di attività cucito sulla trama dell’economia informale, che porta spesso ad uno schema di differenziazione verticale alternativo alla segregazione spaziale delle attività economiche: nello stesso palazzo sono compresenti attività commerciali, amministrative, artigiane o industriali al pianterreno, mentre la residenza è ai piani superiori. Una promiscuità che raggiunge l’apice nel caso, diffuso, del lavoro domestico. Ne derivano ridotti pendolarismi per tutte le classi sociali e lo spezzamento della giornata lavorativa con un lungo intervallo-pranzo. Questo tipo di morfologia urbana va associato alla predominanza di tipologie edilizie verticali e alla quasi totale assenza nella grande città mediterranea dell’abitazione monofamiliare, che modella invece così rigidamente il paesaggio urbano di tanti paesi del Nord Europa. Alcuni studi degli anni Settanta intravedevano forti tensioni proprio nell’aumento della densità urbana mediterranea. Le condizioni di vita delle classi medie – ormai difficili per rumore, disagio, assenza di servizi – avrebbero alimentato la tendenza alla fuga, o alla costruzione di nuovi ambienti di vita, in rottura col modello antiburgessiano. I nuovi sviluppi della localizzazione delle attività e delle residenze richiederebbero quindi l’approntamento di strumenti di riferimento nuovi che aiutino a descrivere le varie situazioni metropolitane europee, in riferimento in particolare al modello classico della città mediterranea. ■ Il modello di metropoli proposto da Martinotti [1993, 137 ss.] deve essere infine considerato come contributo, seppur critico, all’analisi morfologica tradizionale. Esso definisce una tipologia di sistemi metropolitani fondata non sulla struttura di produzione, ma sulle forme e la forza dell’attrazione urbana, e sulle loro conseguenze morfologiche e politiche. Essa, inoltre, considera non solo i residenti della città, ma chi la frequenta ogni giorno o episodicamente: quindi tutte le sue «popolazioni», diurne e notturne. Le tre tappe individuate da Martinotti nella storia dell’area metropolitana a partire da considerazioni sull’uso diurno e notturno dei centri urbani sono tipiche del vecchio continente. 1) Le «metropoli di prima generazione» sono insiemi urbani unitari formati da una città e dalle sue appendici dopo l’abbattimento ottocentesco delle cinte murarie, sui quali gravitano esclusivamente due popolazioni: i residenti e i pendolari. Le «metropoli di seconda generazione» hanno già una periferia sconfinata e si 2) caratterizzano per una relativa autonomia produttiva e culturale. Esse attraggono un numero crescente di city users che non lavorano né risiedono entro i loro confini: «consumatori metropolitani» che la città serve per gli acquisti eccezionali, per il consumo culturale. 3) Nelle «metropoli di terza generazione» vi si aggiungono consumatori stranieri, appartenenti a una categoria numericamente limitata ma socialmente ed economicamente significativa: i metropolitan businessmen; per loro la città sviluppa servizi di alto livello ma improntati ad uno standard internazionale banalizzante. Ai metropolitan businessmen si dovrebbe senz’altro aggiungere in molte metropoli le categorie dei «turisti» e dei diversi residenti temporanei per completare questa descrizione dei «consumatori stranieri». Tale approccio morfologico rinnovato apre la strada ad analisi dei sistemi urbani assai suggestive poiché consentono di proporre dei quadri della struttura socioterritoriale che illuminano le dinamiche di competizione e di conflitto sullo sfondo delle quali si costruiscono le politiche pubbliche locali. Le generazioni di metropoli (Martinotti 1990) 3. STILI DI VITA 3.1 Grandi consumatori e sistemi urbani Il concetto «economico» di città proposto da Weber mentre ne elabora il più noto concetto «politico» è di norma tralasciato nell’esegesi di Die Stadt: esso è considerato come prodotto intermedio nel suo percorso di elaborazione teorica. Benché detto «economico», il concetto è però parte importante del contributo weberiano all’analisi sociologica dei sistemi urbani e apre un filone di analisi, dedicata ai comportamenti di consumo e agli stili di vita urbani, le cui fortune alterne cercheremo di tratteggiare, e che comunque non verrà più declinato con l’ampia prospettiva comparata adottata da Weber. La peculiare composizione di attività economiche che differenzia una città dall’altra si associa, nell’analisi di Weber, a stili di vita di cui è portatore un ceto dotato di ampie possibilità di consumo e della capacità di imporre i propri modelli comportamentali al resto della società. La «città aristocratica» medievale vive secondo lo «stile di vita cavalleresco», fondato sul rifiuto del lavoro, anche imprenditoriale (al quale sarà contrapposto l’obbligo all’impegno economico con l’affermarsi della «città plebea»). Lo stile di vita cavalleresco suscita l’emulazione dalle fasce sociali contigue definendo, avrebbe detto Bourdieu [1979], gli strumenti di «distinzione» per buona parte della popolazione, strumenti che i «forti consumatori» trasmettono ai «consumatori di massa». e Lo stile di vita cittadino è quindi sempre in armonia con la struttura economica della città, ma mediata dalla distribuzione del prestigio. Osservando chi sono i «grandi consumatori», suggerisce Weber, si possono distinguere: a) città di consumatori, b) città di produttori, c) città di commercianti. ■ a) «Città di consumatori» sono quelle città nelle quali l’economia e lo stile di vita locali dipendono innanzitutto da categorie sociali che oggi si definirebbero «inattive» (rentiers borghesi o aristocratici, lavoratori ritirati dal lavoro); a questi inattivi Weber assimila gli amministratori pubblici. Al tipo della città principato, cioè di quella in cui gli abitanti dipendono direttamente o indirettamente per le loro prospettive di guadagno dalla capacità d’acquisto della casa principesca e delle altre grandi amministrazioni, somigliano quelle città nelle quali è la capacità d’acquisto di altri forti consumatori, di coloro cioè che vivono di rendite, che decide delle probabilità di guadagno degli industriali e dei commercianti locali. Questi forti consumatori possono essere di tipo assai diverso, a seconda della specie e provenienza delle loro rendite. Possono essere: 1) funzionari che spendono in città i loro redditi legali o illegali; oppure 2) signori e potentati politici che vi consumano le loro rendite fondiarie extraurbane o altri introiti di origine particolarmente politica. In ambedue i casi la città somiglia assai al tipo di città sede di principato: essa vive di rendite patrimoniali e di proventi di natura politica costituenti la base della capacità d’acquisto dei forti consumatori (esempio di città d’impiegati: Pechino; di città di possidenti: Mosca, prima dell’abolizione della servitù della gleba) [...] Oppure i forti consumatori possono vivere di rendita, oggi specialmente frutto di azioni, e di dividendi e percentuali: la loro capacità di acquisto si basa allora specialmente su rendite finanziarie, in special modo capitalistiche (es. Arnheim), oppure si basa su pensioni statali o altre rendite dello stato (quasi una «pensionopoli», quale Wiesbaden). In tutti questi ed in numerosi altri casi simili, la città è più o meno una città di consumatori. Perché la presenza, proprio sul luogo, di quei forti consumatori, diversi fra loro dal punto di vista economico, è decisiva per le possibilità di guadagno degli industriali e dei commercianti della città [Weber 1920; trad. it. 1950, 7]. ■ b) Alla città di consumatori si contrappone la cosiddetta «città di produttori». Qui il benessere cittadino, la crescita demografica ed economica sono l’effetto della presenza e dello sviluppo di fabbriche, di manifatture o di «industrie casalinghe» che vendono all’esterno, anche all’estero. Esempi citati da Weber: Essen e Bochum. Queste città rappresentano, a suo giudizio, il «tipo moderno di città», poiché sono le città del «capitalismo moderno». Ma alla stessa tipologia corrispondono città più tradizionali, nelle quali domina l’artigianato e non ancora l’industria: è il tipo di città asiatica, antica o medievale. I consumatori per il mercato locale sono costituiti in parte dagli imprenditori che risiedono sul posto – e sono forti consumatori –, in parte, e più specialmente, dagli operai e artigiani quali consumatori di massa; infine dai commercianti e possidenti, da quelli indirettamente riforniti e che per lo più sono forti consumatori [ibidem, 8]. ■ c) La «città di commercianti», infine, è quella nella quale forti consumatori possono essere commercianti che vendono al minuto prodotti stranieri sul mercato locale (come, ricorda Weber, i sarti nel Medioevo), che esportano prodotti locali (come gli esportatori di aringhe delle città della Hansa), che acquistano prodotti esteri per riesportarli altrove (nel caso delle «città di commercio di transito»), oppure combinano queste varie attività commerciali. Si ricorderà quanta importanza Weber attribuiva nella storia dell’Occidente e della sua avventura urbana all’esperienza della «commenda» e della societas maris dei paesi del Mediterraneo: un tractator, commerciante viaggiatore, trasportava e vendeva nei mercati del Levante prodotti locali o acquisiti sul mercato locale col capitale ricevuto (totalmente o in parte) in accomandita da capitalisti residenti nel luogo; col ricavato acquistava merci orientali che vendeva sul proprio mercato; il ricavo complessivo veniva poi diviso secondo gli accordi prestabiliti fra il tractator e il capitalista [ibidem, 8]. Alcune città moderne, rileva Weber, si riavvicinano al modello: «Qualcosa di sostanzialmente simile avviene quando una città moderna (Londra, Parigi, Berlino) è sede di capitalisti e di grandi banche nazionali o internazionali oppure (ad es. Düsseldorf) è sede di grandi società per azioni o di cartelli» [ibidem, 9]. Consumo di lusso e sistemi urbani capitalisti 1.2. Sombart, riflettendo come Weber sulle origini del capitalismo moderno [1916], vede uno snodo storico-geografico nella città settecentesca. In questo eccezionale momento di sviluppo demografico ed economico delle grandi città, che consegue all’inurbamento dei grandi consumatori, si sarebbe formata proprio la città moderna nei suoi tratti perduranti, vale a dire quella città che è innanzitutto il luogo del consumo di lusso. È allora che la grande città inizia a creare opportunità del tutto nuove di vita sontuosa e spensierata: teatri, sale da ballo, alberghi di lusso diffondono dalle corti ad un pubblico relativamente ampio un ideale di vita e un modello di consumo dai tratti aristocratici. I ceti cittadini erano allora composti, dice Sombart, quasi esclusivamente da persone che volevano divertirsi, la cui preoccupazione maggiore era di spendere il proprio denaro in modo da rendere più piacevole la vita. La città favorisce quindi l’avvio e l’accelerazione del processo capitalista con nuove opportunità di profitto: l’oggetto di lusso (per lusso si intende ogni forma di rifinitura di un bene superflua dal punto di vista del soddisfacimento del bisogno a cui il bene risponde) e la sua diffusione sono anelli chiave del processo di trasformazione delle strutture produttive che allora si innesca. Nella città settecentesca ha anche inizio, suggerisce Sombart, il processo di standardizzazione della condotta di vita che verrà a lungo considerato come tipico della metropoli. Alla diffusione strettamente privata del lusso iniziano a subentrare forme collettive di manifestazione del lusso stesso [Sombart 1916; trad. it. 1967, 220-223]. "La città contribuisce ad aumentare le esigenze del lusso. […] per lo sviluppo del lusso è importante la città, soprattutto perché crea nuove possibilità di vita allegra ed esuberante e, pertanto, nuove forme di lusso. Le feste non rimangono circoscritte ai palazzi dei principi, ma si estendono ad altri ambiti sociali, che provano l’esigenza di locali di divertimento […] il lusso privato viene a essere sostituito dal lusso collettivo." Sistemi urbani come «cleavages» di consumo 1.3. All’interesse di Weber e di Sombart per i consumi come elementi di differenziazione è subentrata di recente una prospettiva, riconducibile a Veblen, che considera invece il consumismo un fenomeno culturale capace di travalicare le frontiere delle classi o degli strati sociali e nega che possa rivestire forme diverse e specifiche a seconda del capitale personale dell’individuo, economico e sociale [Otnes 1988; Warde 1990]. ■ Qualche anno prima del rilancio della sociologia dei consumi sulla scena europea, la sociologia urbana si era riavvicinata al tema dei consumi, con la proposta marxista, formulata in particolare da Castells, di uscire dalla crisi della sociologia urbana assimilando il suo campo a quello dei consumi collettivi [Castells 1977]. La società urbana, nell’analisi di Castells, è il luogo della riproduzione della forza lavoro più che della produzione. La funzione di consumo vi domina, rispetto a quelle della produzione e della gestione. Nel consumo differenziato dei beni collettivi (in particolare nel funzionamento e nell’accesso delle varie categorie sociali ai servizi urbani) si esprimono nitide le disuguaglianze generate dal capitalismo avanzato; ed è per l’accesso a questi beni (trasporti pubblici, scuole, alloggi popolari) che un nuovo proletariato può sviluppare le nuove «lotte urbane». ■ Rielaborando la tesi secondo la quale i sistemi urbani vanno interpretati come configurazioni di «cleavages di consumo», Saunders, in polemica con Castells, affida anch’egli alla sociologia urbana un nuovo campo e nuovi strumenti. Le ipotesi sono la separazione crescente, nel mondo contemporaneo, tra sfera della produzione e sfera del consumo; la decadenza di categorie sociologiche come quelle di relazioni economiche capitaliste e di classe sociale; la dimensione essenzialmente politica del consumo, atto a suscitare crescente mobilitazione in quanto sfera nella quale interviene l’ente pubblico [Saunders 1986]. I cleavages di consumo seguono la linea di frattura tra settore della produzione collettivizzata e settore della produzione privata di beni e servizi. Il settore dell’alloggio riveste un ruolo emblematico. La proprietà dell’alloggio è vettore di ricchezza, e di trasmissione intergenerazionale della ricchezza. Ma è anche «espressione di identità personale e fonte di sicurezza ontologica» [ibidem, 203], poiché riguarda quella che «per molti è la risorsa centrale della vita quotidiana – la casa» [Saunders-Williams 1988, 86]. La dicotomia proprietari-non proprietari viene estesa ad altre categorie di beni (automobile, assicurazioni, pensioni) e sta alla base di un cleavage sociale determinante tra chi può acquistare e chi è in balia dell’intervento dello stato. La polarizzazione sociale cresce come effetto della divaricazione dei modi di consumo. Il livello del sistema urbano riveste poi un’importanza cruciale ma ambigua. Il segmento locale del sistema politico è il luogo del consumo, ma anche dell’incontro immediato tra acquirente o cliente e rappresentante politico. È a questo livello, laddove il settore pubblico sia affiancato da un settore privato, che si può esercitare il potere di decidere se utilizzare o meno le strutture pubbliche fornitrici di servizi; anche se in molti campi di intervento non è del tutto ovvio che per il settore privato vi sia la possibilità di esistere senza un sostegno dei poteri locali e dello stato centrale. Negli anni Settanta la sociologia del consumo enfatizzava eccessivamente, secondo Saunders, la dimensione del conflitto urbano. Nell’interpretazione di Castells, le tensioni che emergono dalla stessa polarizzazione sociale denunciata da Saunders proiettano la società locale in un mondo di conflitto globale tra capitale e proletariato. Il «conflitto urbano», rivolta dei cittadini ai quali lo stato non offre beni e servizi adeguati, ha una portata rivoluzionaria, poiché sviluppa la consapevolezza delle contraddizioni del capitalismo, e in quanto tale supera i confini locali. Egli afferma che «l’intervento statale nella città, mentre tenta di superare le contraddizioni che risultano dall’incapacità di produrre d’urgenza beni e servizi, di fatto politicizza e globalizza i conflitti urbani articolando direttamente le condizioni materiali della vita quotidiana e il contenuto di classe delle politiche pubbliche» [Castells 1978, 170]. Anche per Saunders, i cleavages politici emergono laddove vi sia un alto grado di frammentazione tra modi di consumo privati-individualizzati e pubblici-collettivi. Egli suggerisce tuttavia che l’insoddisfazione verso l’offerta di servizi pubblici, anche se porta ad impegnarsi in un movimento di protesta, non sempre può essere interpretata come tappa di un conflitto mondiale in fieri. Tra le episodiche «lotte» per l’accesso ai servizi, la protesta elettorale, l’allontamento dalla politica (che trasforma la rinuncia all’offerta pubblica in rinuncia a far sentire la propria voice nei luoghi deputati del sistema politico in exit), le modalità con le quali la pauperizzazione e la conflittualità diffusa trasformano le relazioni tra i cittadini e il sistema politico sono numerose, e premono comunque verso la conferma della dimensione locale della politica. ■ La questione dei collegamenti tra i conflitti urbani locali, determinati dalle difficoltà di accesso ai servizi e alla stessa città, e le trasformazioni globali viene riproposto da David Harvey in Rebel Cities [2012], in un’analisi più vicina a quella di Castells, classicamente marxista, per la quale la distinzione pubblico-privato perde la sua pregnanza, e che propone tuttavia una interessante riflessione sulla composizione delle due classi, borghesia e proletariato, e sulle più recenti forme di mobilitazione, come Occupy Wall Street. Negli Stati Uniti, la formazione nel secondo dopoguerra di un largo segmento della classe operaia proprietario della propria abitazione ha consentito, secondo Harvey, non soltanto di rivitalizzare l’economia tramite edilizia ed urbanizzazione, ma anche di controllare gli stili di vita, i valori politici, la visione del mondo, dei lavoratori. L’urbanizzazione neo-liberale in molti paesi occidentali ha similmente portato ad enfatizzare il consumo come elemento distintivo di un’élite limitata, e spostato un’ampia maggioranza della popolazione, indebitata quindi impoverita, nelle aree esterne delle città. Motivi per cui la città e il processo urbano che produce diventano i siti principali delle lotte politiche, sociali e di classe, lotte che, superando la dimensione locale dovrebbero costituire secondo Harvey la base di network sempre più complessi ed estesi volti a riappropriarsi del “diritto alla città”. ■Il tema del dualismo urbano è anche al cuore del filone di ricerche maggiormente interessato all’analisi delle culture urbane, vale a dire dei valori che orientano i comportamenti quotidiani all’interno delle grandi città. Si osserva qui che il significato degli “stili di vita urbani” è oggi cambiato. Mentre a Weber erano potuti apparire prerogativa piuttosto stabile dello status sociale, oggi illustrano piuttosto un aggressivo benché illusorio inseguimento del capitale culturale (Bourdieu 1984); per gli individui, donne e uomini, tale inseguimento incoraggia diverse forme di consumo culturale. Per le città, stimola la crescita sia delle industrie culturali for-profit e delle istituzioni culturali no-profit. Tali cambiamenti corrispondono a vari mutamenti strutturali: l’emergere del postmodernismo – come forma d’arte, modo di produzione post-industriale e portatore di meccanismi di costruzione delle identità; la crescita del settore dei servizi; e l’arrivo alla matura età della generazione del baby-boom, il cui peso demografico e l’aspettativa generalmente alta di amenità ha enfatizzato la domanda di consumi di beni di qualità e distintivi. L’attenzione agli stili di vita urbani riflette anche altri mutamenti. Come gli immigrati, le minoranze razziali ed etniche e gay e lesbiche sono diventati attori più visibili sia negli spazi pubblici che nelle attività culturali, hanno reso più visibili una varietà di modi di vita “alternativi”, specialmente nelle grandi città dove sono concentrati” (Zukin 1998, p. 825). L’attenzione agli stili di vita, come elemento di caratterizzazione del paesaggio urbano e come componente importante di costruzione identitaria, non solo, afferma Zukin in Landscapes of Power [1991], sposta il desiderio di consumi verso i prodotti culturali, ma sviluppa nuove forme di attaccamento ai luoghi. Sotto la “distruzione creatrice” delle industrie culturali, diversità e standardizzazione vanno di pari passo. L’economia di mercato tende a staccare gli individui dalle istituzioni sociali e a rinforzare il loro attaccamento ai luoghi, luoghi sempre più definiti da un’architettura sempre meno distintiva e da un’offerta che ripropone un’interpretazione globale del vernacolare. In Naked City [2010], a partire dall’osservazione delle trasformazioni dei quartieri di New York, Zukin mostra come nei decenni più recenti la ricerca dell’autenticità diventi il principio ordinatore dello sviluppo urbano, uno sviluppo guidato dalla grande impresa. L’autenticità come ideale urbano, concetto élitista, fondato sul consumo, acquista la capacità, perché esprime un potere, di riorganizzare la città. Il processo chiave è la gentrification, guidata ora dalla ricerca dell’autentico, che coinvolge due popolazioni: chi è e chi vede l’autentico. Chi vede ha sufficiente mobilità e distanza per discernere dove è l’autentico, ma anche per ricercarlo. I gentrifiers consumano l’esperienza del vivere nel quartiere povero nel quale si trasferiscono, mentre chi vi vive da tempo, semplicemente lo abitano. Nella Naked City, la storia può essere riletta come il conflitto tra “la città delle corporazioni” e “il villaggio urbano”. I quartieri tradizionali del centro città hanno oggi difficoltà a mantenere la loro struttura, quindi la loro organizzazione sociale: la ricerca dell’autenticità, che guida un’élite, si impone sui tradizionali valori e comportamenti locali, banalizza distruggendo rapidamente la diversità. L’avanzare della speculazione per la realizzazione di quartieri detti storici e caratteristici trova debole contrappeso nel contemporaneo proliferare di enclave nuove di stili di vita alternativi, più spesso etnici, in genere nelle aree periferiche o di nuova (ed incompiuta) espansione urbana. Tale appare secondo Zukin il fondamentale dualismo sociale determinato dagli stili di consumo, in assenza di politiche pubbliche che portino a contrastare questa particolare forma di mercificazione della città. Se alcuni assunti delle analisi appena presentate risentono fortemente dei contesti urbani, sociali e culturali nei quali sono elaborati, tale ridefinizione della sociologia urbana come sociologia dei cleavages di consumo offre indubbiamente un corpus di riferimento interessante per una descrizione comparata dei sistemi urbani, anche in ambiti diversi per la configurazione delle città, la struttura economica e sociale, le tradizioni di politica pubblica nelle quali si sviluppano i processi di trasformazione urbana. 4. STRUTTURA DI POTERE A lungo i modelli di sistemi urbani fondati sulla dimensione della struttura del potere locale si sono ridotti alla contrapposizione tra strutture piramidali e strutture poliarchiche [Hunter 1953; Dahl 1961]. Quando negli Stati Uniti, negli anni Cinquanta, la tradizione elitista e un nuovo interesse per gli enti locali e il loro funzionamento convergono nel suscitare un filone di indagine empirica sulla struttura del potere locale, all’inizio l’attenzione è in effetti polarizzata dalla disputa tra «elitisti» e «pluralisti». – Per gli elitisti, le comunità sono controllate da una ristretta élite composta da uomini d’affari, come ben avevano mostrato i Lynd descrivendo i processi mediante i quali la famiglia X determinava tutti gli aspetti della vita a Middletown [Lynd-Lynd 1937]. – Per i pluralisti, invece, la struttura di potere è poliarchica: Dahl dimostra come nelle varie «aree chiave» della vita sociale di Atlanta (pianificazione urbana, educazione, economia, politica) si trovi una determinata élite «specializzata» che partecipa, con le altre élite, ad un sottile ed efficace gioco di bilanciamento dei poteri. Gli studi sul potere locale conoscono, dalla fine degli anni Settanta, un instabile ma interessante rilancio con due modelli: quello della growth machine e quello dell’urban regime. 4.1. I sistemi urbani come «growth machine» Logan e Molotch possono essere considerati come propugnatori d’un rilancio, sotto nuove spoglie, degli studi di comunità. La struttura del potere locale che descrivono è tipica della città media della provincia statunitense, nella quale emerge una élite la cui influenza si fonda sulla proprietà immobiliare in loco [Logan 1978; Molotch-Logan 1984; Logan-Molotch 1987]. Questa élite sviluppa una strategia tesa alla maggior rendita della proprietà, quindi a una politica di miglioramento dei servizi e delle infrastrutture locali e ad uno sviluppo complessivo della comunità. Si costituiscono così vere e proprie «coalizioni di sviluppo» che coinvolgono gli attori preposti alla definizione delle politiche pubbliche. La politica di sviluppo sostenuta dalla coalizione dei grandi proprietari genera spesso una reazione detta di «valore d’uso» da parte dei residenti piccoli proprietari, che elaborano una cultura e una strategia «anti-sviluppo». I residenti che possiedono la propria casa o poco più sono infatti scarsamente sensibili ai frutti possibili della crescita economica, spesi di solito fuori dalla comunità, e tendono a dedicarsi, dal canto loro, alla strategia del «nimby» (not in my back-yard). e Questo modello, detto della growth machine, corrisponde ad un ritorno dell’attenzione per le forme di partecipazione al processo di pianificazione, che riavvicina analisi delle politiche pubbliche e sociologia nella riflessione sulle modalità di esercizio del potere alla periferia del sistema politico. Com’è stato ben evidenziato da alcuni studi empirici nazionali, fuori dagli Stati Uniti il ricorso al modello della growth machine è reso problematico dalla minore indipendenza delle collettività e delle élite locali (sia le imprese che alcuni attori fondamentali – come la stampa – sono radicati al centro piuttosto che nelle comunità locali), nonché dalla minore influenza, in parte consequenziale, dei rentiers locali. Per quanto riguarda la Gran Bretagna, Harding [1991, 308-309] ricorda l’importanza storica della proprietà immobiliare municipale e la frammentazione estrema della proprietà fondiaria urbana inglese, per cui «molte delle coalizioni di sviluppo esaminate [...] tendono a mobilitarsi contro i proprietari e per lo sviluppo». Altri studi britannici sottolineano come in un sistema politico locale le coalizioni di sviluppo richiedano ampi accordi tra imprenditori dalle attività e dalle capacità d’influenza extra-locale eterogenee [Cochrane 1991, 297]. e La nozione di local dependence proposta da Cox e Mair [1991], a sua volta, costituisce una critica alla mappa degli attori locali prevista nel modello della growth machine, nonché ai motivi che vi sono addotti per spiegare il comportamento cooperativo da parte degli attori privati. Cox [1991] elabora una tipologia urbana organizzata attorno ad un’unica variabile, il grado di dipendenza: condizione «necessaria» per la formazione di coalizioni di sviluppo è la dipendenza reciproca degli attori rilevanti della comunità; condizioni «contingenti» determinano poi la natura della coalizione e gli attori che vi intervengono. Secondo Cox [ibidem, 301], i costi/benefici della mobilità delle strutture di produzione sono fattori determinanti nella definizione della strategia delle imprese nei riguardi del potere politico. Ad esempio, imprese che vivono della loro relazione con una comunità di knowledge (vale a dire ricca di particolari capacità tecniche o scientifiche) sono più propense ad impegnarsi nella difesa e nello sviluppo della città. Una impresa che non interviene può dimostrare sia una totale indipendenza dal livello locale, sia una posizione dominante che consente d’influenzare tutte le scelte senza nemmeno agire formalmente, secondo lo schema classico della company town. Queste considerazioni introducono, in parte, al tema importante delle determinanti culturali della formazione delle coalizioni: che si tratti di valori comunitari (attaccamento alla comunità, immagine di essa), o di vere e proprie ideologie urbane capaci di orientare atteggiamenti e valori nei riguardi della comunità locale. Regimi urbani 4.2. Più attento in questo senso il modello di analisi dei «regimi urbani» proposto da Stone [1989], che supera il tema dello sviluppo urbano in un tentativo di analisi delle procedure di coalizione locale. Il regime urbano come forma continuativa di cooperazione è un mezzo per sviluppare uno sforzo coordinato, in particolare laddove la frammentazione locale è accentuata. Il regime urbano è la soluzione informale che sopperisce alla carenza della cooperazione istituzionalizzata. Lo sviluppo complessivo della comunità non trova facilmente spazio tra gli obiettivi delle coalizioni, che tendono piuttosto al raggiungimento stabile di benefici meno universali. L’alleanza deve produrre un «senso di obiettivo comune» che, secondo le osservazioni di Stone sul caso di Atlanta, si fonda anzitutto su incentivi materiali [ibidem, 186-189]. Non che sia proposta una visione eccessivamente egocentrica delle motivazioni all’azione politica, ma Stone insiste sull’importanza cruciale delle little opportunities nella formazione degli atteggiamenti politici: Il problema non sta nel dirimere tra egoismo e altruismo, poiché anche gli altruisti inseguono piccole opportunità, ad esempio la costruzione di alloggi senza fini di lucro o di un teatro comunitario, un programma di educazione permanente, il salvataggio finanziario di un’attività, la conservazione d’un parco, una raccolta di viveri per gli affamati, la conservazione di siti storici o l’organizzazione di un festival d’arte [ibidem, 193]. Le regole del gioco secondo cui si sviluppa la coalizione – da un lato le norme istituzionali, come quelle che regolano la cooperazione; dall’altro le risorse economiche e umane della comunità, che definiscono gli obiettivi – prefigurano una serie di coalizioni possibili in ogni comunità. Il tipo di little opportunities ricercate contribuisce infine a definirle. e Secondo molti osservatori europei, alcuni fattori presi in considerazione nella regime theory, peraltro troppo segnata dal contesto statunitense, devono essere maggiormente esplorati per costruire la base di una comparazione internazionale. In particolare: i meccanismi di mobilitazione dei partecipanti; la natura e la genesi del senso di obiettivo comune; la qualità delle coalizioni stabilite e la congruenza degli interessi dei partner; le strategie relazionali con l’ambiente politico esterno locale e non locale [StokerMossberger 1994]. Cerchiamo di chiarire alcuni di questi punti. La regime theory parte dal presupposto che «per essere efficienti, i governi devono associare le loro capacità con quelle di vari attori non governativi» [Stone 1991, 7]: il regime è garanzia e consolidamento del patto tra attori privati e pubblici, a volte su una parziale base istituzionale, principalmente tuttavia sulla base di accordi informali nel quadro d’una struttura non gerarchica. Per quanto riguarda i motivi dell’azione dei governanti, essi appaiono più o meno disponibili a cooperare con gli attori privati, non tanto a seconda del loro peso elettorale o delle affinità politiche, ma a seconda delle risorse che possono offrire per il raggiungimento di obiettivi condivisi di policy. Il lavoro politico consiste nell’aggregare attorno a obiettivi comuni limitati un numero ristretto di gruppi organizzati. L’elettorato appare nello schema unicamente come forza dirompente che può essere mobilitata in una coalizione d’opposizione per far crollare il regime, e con la quale quindi deve essere trovato un modus vivendi, fondato sul segreto o sull’accomodamento. Per quanto riguarda gli attori, la letteratura americana sui regimi urbani privilegia amministratori locali e businessmen, riconoscendo tuttavia che molti altri interessi organizzati possono interferire fortemente nella conduzione degli affari locali e partecipare con successo alla costituzione del regime urbano: comitati di quartiere, minoranze, sindacati. Guardare al contesto europeo suggerisce di aggiungere un’altra categoria a questo elenco di gruppi potenzialmente influenti, quella dei professional officials (siano essi dipendenti di amministrazioni comunali, regionali o nazionali, oppure di aziende con capitale misto), il cui ruolo, contrariamente a quanto avviene negli Stati Uniti, è determinante in molte realtà locali europee per le conoscenze tecniche, per la posizione socio-economica, per il prestigio sociale, oltre che per l’accesso alle informazioni necessarie all’esercizio di un’influenza concreta nella gestione della res publica locale [Harloe et al. 1990; Marsh-Rhodes 1992]. 4.3. Una proposta di tipologia di regimi urbani europei Stoker e Mossberger [1994] propongono una tipologia tripartita dei regimi urbani che segnala le differenze tra le situazioni nordamericane e quelle europee: a) regimi strumentali, b) regimi organici, c) regimi simbolici. � a) Il «regime strumentale», illustrato nel caso della città di Atlanta da Stone, che lo definisce development regime, appare emblematico della situazione delle città nordamericane. La realizzazione di obiettivi di mutamento motiva l’azione dei membri della comunità soltanto se questi vengono adeguatamente stimolati; la coalizione si fonda su una vera e propria partnership politica, nel quadro di una dipendenza sostanziale della comunità locale dall’esterno. Varie strategie di sviluppo caratterizzano i sotto-tipi di coalizioni strumentali: il risanamento del centro-città, il rilancio della produzione industriale o l’attrazione di attività ad alta tecnologia non necessitano delle stesse risorse, non possono mobilitare gli stessi attori e presuppongono differenti rapporti con l’esterno (mercato economico, risorse politiche). � b) In Europa, piccole città e comuni di cintura, dal fitto tessuto sociale, possono, invece, caratterizzarsi come «regime organico», che corrisponde al caretaker regime di Sanders [1987] o al maintenance regime di Stone [1989]. Esso ambisce al mantenimento dello status quo. I partecipanti sono mossi da una forte tradizione di coesione sociale e dal sentimento di appartenenza, una vera e propria comunione politica nel quadro di una voluta indipendenza comunitaria rispetto all’esterno. Tipico delle comunità piccole e medie tradizionaliste o ansiose di mantenere uno stile di vita «a misura d’uomo», il caretaker regime descritto da Sanders dà origine a strategie passive. Analogo sotto molti aspetti è il regime urbano che Stoker e Mossberger definiscono «esclusivo», diffuso nelle città delle periferie ricche, americane o europee, nelle quali l’esclusione su base razziale o di reddito tende a mantenere il prestigio, la rendita e il livello di servizi garantiti dalla residenza. Un ulteriore tipo di regime organico, detto «tradizionale», porterebbe anzitutto alla difesa della posizione della città come capitale regionale, secondo schemi preindustriali nei quali l’influenza è detenuta da élite di notabili locali [ad es. Batley-Stoker 1991; Keating 1991; Cooke 1989]. I capoluoghi di provincia francesi sarebbero la sede idealtipica di questi regimi. � c) Il «regime simbolico» è, invece, tipico, delle comunità che lottano per progredire cambiando l’ideologia della gestione politica o che cercano di rivitalizzare le loro fortune con un mutamento d’immagine prima che di condizioni concrete. Regimi simbolici «progressivi» secondo la definizione di Stone sono il middle-class progressive regime e il lower-class opportunity expansion regime, che concentrano l’attenzione del pubblico sulla qualità della crescita socio-economica e sulle modalità che essa deve rispettare (ambientali, di preservazione dei siti, di rispetto delle minoranze e in particolare dei meno abbienti...). La crescita economica non è l’obiettivo ma il mezzo per realizzare i valori comuni. L’urban revitalization regime tende, invece, a mutare l’immagine della città per attrarre investimenti e residenti dei ceti medi e superiori. In questi tutti questi casi, il progetto, in altri termini di “marketing urbano”, nasce nell’amministrazione locale, che ne rimane il perno; la coalizione è molto ristretta e destinata ad allargarsi solo in caso di successo nella direzione del regime strumentale. Per altri, la distinzione fondamentale non sarebbe tra questi tre tipi ma tra regimi urbani pro-welfare e pro-growth [Belligni-Ravazzi 2013], sulla scia della dicotomia storica rintracciabile dagli anni Ottanta che oppone modelli “keynesiani”, “social centered” ai modelli “imprenditoriali” “market oriented”, “schumpeteriani” di agende politiche che si impongono con forza negli Stati Uniti e poi in Europa. “Il primo tipo privilegia l’equità sociale promuovendo il welfare municipale non solo come strumento di redistribuzione e miglioramento della qualità della vita, ma anche come potenziale fattore di rilancio della domanda locale. […]. Per quanto ne esistano delle versioni aggiornate, che tentano di coniugare la coesione sociale con la sostenibilità ambientale e la qualità urbana, questi modelli appartengono perlopiù al passato: così, se negli anni sessanta e settanta, nel quadro del compromesso keynesiano fra stato e mercato, molte città erano attive sul fronte delle politiche redistributive, dagli anni ottanta ad oggi i casi di agende tipicamente prowelfare sostenute da coalizioni progressiste sono rari e relativamente instabili. Il secondo tipo persegue l’obiettivo della crescita economica e considera l’integrazione sociale e la redistribuzione della ricchezza come sottoprodotti o come vincoli. Questo tipo di regime fa della competizione per attrarre risorse - capitali privati e pubblici, imprese, funzioni di comando, lavoratori qualificati, talenti, consumatori, turisti, popolazione - il proprio asse strategico e delle developmental policies (nella forma di politiche dell’offerta) gli strumenti operativi di elezione” [Belligni-Ravazzi 2011, 5]. 4.4. Guardando empiricamente alle coalizioni di governo locale Un quadro comparato orientativo sui regimi urbani europei si è ottenuto in una ricerca condotta tra il 2003 e il 2004 presso 2711 sindaci di comuni europei con più di 1000 abitanti [Bäck-Heinelt-Magnier 2006]. Rivolgendosi ai sindaci si sono potute ottenere informazioni sia sulle “reti di governo” delle quali sono perno (su chi li ha sostenuti per l’elezione, sulle figure, locali e non, con le quali intrattiene da sindaco i rapporti più intensi), sia sulla loro agenda: una visione, certo incompleta, ma già molto ricca della configurazione di obiettivi e di attori che delle “coalizioni” fanno parte e degli obiettivi che ne fa il cemento (così come viste dai sindaci, che di queste coalizioni sono sempre il perno). Riguardo all’agenda politica, le dinamiche che i sindaci dichiarano di voler sostenere sono dinamiche di sviluppo del territorio mediante nuovi investimenti imprenditoriali (nuovi insediamenti, potenziamento delle strutture produttive esistenti). Chiamati ad indicare le loro tre principali preoccupazioni tra una lunga batteria di obiettivi classici delle coalizioni urbane, i due terzi dei sindaci europei nel 2004 scelgono la tutela o il potenziamento delle strutture produttive nel territorio comunale. Inserirsi con successo nella localizzazione delle attività economiche, tale è l’ambizione dominante dei sindaci europei – probabilmente foriera di frustrazioni nel contesto di intensa rilocalizzazione globale delle imprese: con ciò si evidenzia l’affermarsi di un’interpretazione “imprenditoriale” del ruolo di sindaco (in contrasto con l’approccio “manageriale”, considerato tipico degli anni Sessanta, proteso alle riforme interne all’organizzazione comunale [Harvey 1989]), ma anche più banalmente un senso di responsabilità crescente tra i leader locali per la tutela del livello di impiego, quindi di benessere, della collettività locale. Tuttavia, questa diffusa evidente preoccupazione per lo sviluppo economico, le agende di governo evocate dai sindaci sono lungi dall’essere omogenee. Perfino tra la larga maggioranza dei sindaci che sono innanzitutto preoccupati dallo sviluppo produttivo locale, il tema si associa con altri per definire diversi tipi di configurazioni di obiettivi, presumibilmente alla base del “senso comune di obiettivo” di diverse coalizioni locali. L’analisi multidimensionale fa più precisamente emergere tre configurazioni di priorità che corrispondono grossolanamente a tre gruppi di sindaci di dimensioni simili (cfr. tab. 1). L’attrarre attività economiche è considerato funzione cruciale caratterizzante il governo locale in una configurazione di obiettivi genericamente orientato allo sviluppo, in altri casi questa funzione appare più strumentale in configurazioni di obiettivi caratterizzate da altre priorità, come la tutela di un equilibrio costruito nel tempo, o la lotta per l’inclusione sociale e l’integrazione politica. La prima di queste configurazioni rivelata dalla cluster analysis può dunque essere etichettata pro-growth: il sindaco in tale modello punta principalmente a rilanciare innovazione e crescita nel contesto locale, cercando di realizzare un ampio ventaglio di obiettivi di rivitalizzazione locale. Il secondo tipo di agenda può essere definito care-taker: in questo caso la vision della governance che orienta il sindaco è centrata sulla messa a disposizione di servizi per la cittadinanza con lo scopo fondamentale di mantenere la qualità del contesto. L’ultima configurazione di priorità è centrata invece sulla risoluzione di inequità o carenze specifiche di alcuni ambiti della società e del territorio: il sindaco vi assume una funzione di deprivation-remover. In quel caso, all’attenzione tipica del precedente modello per l’offerta esistente di servizi e amenità si sostituisce una attenzione più razionale ed operativa per gli effetti di stratificazione sociale di alcune carenze delle politiche pubbliche precedenti. La tipologia tripartita che qui appare è dunque distante dalle tipologie di obiettivi di regimi offerte dalla ricerca americana sui regimi urbani e da molte delle sue rivisitazioni europee, confermando innanzitutto l’ipotesi della persistenza di modelli di coalizioni orientati al welfare come tratto caratteristico dei sistemi locali europei. D’altra parte nel modello pro-growth dell’agenda del sindaco si combinano obiettivi considerati nel mainstream della letteratura sui regimi urbani sia dei regimi strumentali che dei regimi di conservazione (mantenere la posizione del comune nel panorama nazionale) o dei regimi simbolici (migliorare l’immagine esterna della città). Il marketing urbano appare così considerato dai leader locali europei come una componente essenziale della rivitalizzazione delle città, che include anche il rinnovamento estetico inteso come strumento per lo sviluppo. Il tipo di agenda care-taker rilette più da vicino le descrizioni di motivi per l’azione che troviamo così designate nella letteratura internazionale precedente. Si può notare tuttavia che, sia la diversità che l’omogeneità sociale appaiono qui poter essere intesi come tratti distintivi della tradizione locale, e che la ristrutturazione del centro-città qualifica scenari, non di rivoluzione, ma di restauro. L’attenzione diffusa per l’”attrarre nuove attività economiche” nasconde quindi schemi molto diversi di progettualità negli enti locali, che sono anche modelli diversi per la riduzione dell’indeterminatezza del futuro delle località, più o meno ispirate al glocalismo pro-attivo o difensivo (cfr. cap. 4): i sindaci si appellano alla struttura emotiva della comunità locale per proporre di valorizzare e tutelare l’esistente, al desiderio di essere riconosciuti come facenti parte di un movimento globale di modernizzazione (post-modernizzazione?) per proporre un accelerazione del cambiamento, o alla sensibilità ad inequità o carenze per proporre un disegno razionalizzante centrate su specifiche aree di policy. A questi diversi progetti corrispondono diverse configurazioni di sostegno nella comunità locale, leggibili nelle diverse reti del sindaco. Il sostegno dato al sindaco nella campagna elettorale è senza dubbio l’indicatore più significativo di coinvolgimento in questi diversi progetti. Tre casi appaiono dall’analisi fattoriale, corrispondenti a gruppi numericamente comparabili di leader: alcuni sindaci dichiarano di aver avuto allora il sostegno di un alleanza di personalità locali influenti e di aggregazioni della società locale (associazioni laiche e religiose); altri di esser stati sostenuti principalmente da organizzazioni tradizionali della politica (partiti e sindacati); altri infine di aver potuto contare sull’appoggio di un ampio ventaglio di organizzazioni politiche e di emanazioni della società locale, in particolare imprenditoriali (tab. 2). Guardando ai contatti più intensi del sindaco durante l’espletamento del suo mandato, la linea di demarcazione fondamentale è tracciata dalla presenza o meno di attori di grande influenza (attori attivi nei diversi livelli sovra territoriali di governo, imprenditori) nella rete relazionale del sindaco. Porta anche qui ad individuare tre configurazioni di sindaci: le relazioni importanti possono essere confinate nel mondo delle associazioni locali e dei sindacati, possono invece essere proiettate esclusivamente sul mondo influente esterno alla località o alla sfera politica, oppure (è il caso del gruppo più ampio) possono rispecchiare la volontà di curare il sostegno di una larga varietà di attori situati a diversi punti di questa ideale scala di potere. Si delineano, sempre dall’analisi multidimensionale, convergenze significative tra i tipi di reti di sostegno (nei due momenti: campagna elettorale, gestione della carica) che così appaiono e i tipi di agenda appena individuati. Corrispondono a tipi di governing networks (le coalizioni locali che emergono dalle dichiarazioni dei governanti) che possono essere etichettati developmental, communitarian, problem solver. Vediamo l’agenda pro-growth trovare la sua base in una alleanza locale che porta il sindaco a proiettarsi sul mondo esterno nella gestione della carica alla ricerca di risorse nuove, l’agenda care-taker esprime una larga alleanza che si verifica durante la campagna elettorale e spinge il sindaco per ottenere qualche realizzazione concreta ad un intenso lavoro di contatti interni ed esterni, mentre l’agenda del sindaco deprivation-remover corrisponde ad una designazione determinata dal sostegno del mondo politico e ad un lavoro successivamente maggiormente fondato sull’intreccio di contatti tecnicamente orientati alla concertazione con gli attori locali. La coalizione communitarian, colla sua agenda care-taker, illustra le dinamiche della glocalizzazione difensiva (Norbert-Hodge 1996; Nader-Walach 1998), mentre l’expansive glocalism (Jensen-Butler et al. 1997; Brotchie et al. 1995), orienta la coalizione detta developmental che si avvicina per le dinamiche di azione pubblica “imprenditoriale” e di governante locale richiesta al tipo di civic boosterism tipico della growth machine di Atlanta. Le coalizioni problem solver , probabilmente tipiche di sistemi urbani attraversati da profonde fratture sociali e politiche, sembrano rispondere a diverse interpretazioni della globalizzazione, come vettore, non di rischi diffusi, ma di ulteriori disuguaglianze e a contesti nei quali gli attori influenti non puntano a speciale protagonismo del territorio, in qualche modo rifiutando la logica della glocalizzazione (Robertson 1992). lC o m e lo illustrano questi esempi del dibattito che continua a s u s c i t a r e , l ’ u t i l i t à della regime theory sta nella sua capacità di comprendere la natura della politica urbana in un periodo di mutamento delle forme di urban governance (cfr. cap. 5). Perfezionata dal dibattito europeo che l’ha accolta, la regime theory riporta infatti l’attenzione sulle relazioni di cooperazione e coordinamento tra gli attori rilevanti della politica locale, addentrandosi in un’analisi dei motivi della loro azione. La complessità crescente dei governi locali deriva da tendenze che conferiscono indubbia attualità a tali scenari: la privatizzazione o l’intervento crescente di attori semi-pubblici o costituiti dalla libera associazione di cittadini, il decentramento tendenziale dell’organizzazione amministrativa, le costrizioni finanziarie sempre più rigide, per l’aumento delle spese pro capite e per la riduzione dei budget delle collettività locali, «condannano» gli attori politici locali, anche in Europa, alla cooperazione e al coordinamento con forze del settore privato secondo formule istituzionalmente innovative, improntate all’informalità. Il social bargaining a livello locale riguarda attività sempre più varie. L’analisi di queste procedure è diventata negli ultimi decenni obiettivo prioritario di ricerca: «Una volta constatati, nella genesi di numerose politiche urbane, l’intreccio sempre più fitto delle iniziative, il gioco instabile delle attribuzioni e delle legittimazioni, l’incertezza delle competenze settoriali, si tratta di costruire l’analisi di un’azione pubblica contrattualizzata che si negozia ormai palesemente [...] ma in una maniera apparentemente disordinata» [Gaudin 1995, 31] (cfr. cap. 5). Proliferazione dei centri di iniziativa dell’azione pubblica (con lo sviluppo di forme di cooperazione «orizzontale» più o meno istituzionalizzate) e opacità delle negoziazioni (per la moltiplicazione degli attori e la de-gerarchizzazione tendenziale dei servizi amministrativi): questi i due dati strutturali, evidenziati nella riflessione su coalizioni e regimi urbani, che portano ad una complessità crescente delle reti relazionali e inducono a riconsiderare l’analisi della struttura del potere locale. Ma si impone anche, davanti all’aleatorietà spesso apparente dei processi decisionali, che ridimensiona l’utilità dell’analisi decisionale classica, un ritorno alla riflessione sulle coesioni informali: culture politiche, sistemi valoriali e comportamentali, reti clientelari.