digital magazine marzo 2009 N.53 Rafael Toral. Adriano Modica. Lebowski. Honeychild Coleman. Le stagioni del cuore. Dm Stith. These Are Powers. Yoñlu. Nicolas Vernhes. Les Fauves. Darwinsbitch. Anni Rossi. Grandmaster Flash. Bbreaks Lungo il continuum con Harmonic 313, Zomby, Lukid, Actress, Hudson Mohawke + Sentireascoltare n.53 Turn On 3 5 . N 9002 ozram enizagam latigid p. 6 Grandmaster Flash 7 Anni Rossi 8 Darwinsbitch 9 Lebowski 10 Les Fauves 12 These are Powers 14 Yoñlu Rubriche Tune In 16 Honeychild Coleman 108 Giant steps 20 DM Stith 109 Classic album 24 Nicolas Vernhes 110 Cult Cinema 114 La sera della prima 116 A night a the opera 118 I cosiddetti contemporanei Drop Out 28 Rafael Toral 32 Bbreaks 94 Le Stagioni del Cuore Recensioni DM Stith David as a musician 38 Actress, Aethenor, Anni Rossi, DM Stith, Druid Perfume, Hexlove, Les Fauves Rearview Mirror 94 Le Stagioni del Cuore 104 Eluvium, Red Red Meat, Henry Cow Direttore: Edoardo Bridda Ufficio Stampa: Teresa Greco Consulenti alla redazione: Daniele Follero, Stefano Solventi Staff: Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Antonello Comunale, Teresa Greco Hanno collaborato: Leonardo Amico, Gianni Avella, Sara Bracco, Marco Braggion, Luca Collepiccolo, Alessandro Grassi, Gabriele Marino, Francesca Marongiu, Andrea Napoli, Massimo Padalino, Giulio Pasquali, Stefano Pifferi, Andrea Provinciali, Antonio Puglia, Costanza Salvi, Vincenzo Santarcangelo, Giancarlo Turra, Fabrizio Zampighi. Guida spirituale: Grafica In e Adriano Trauber (1966-2004) Impaginazione: Nicolas Campagnari copertina: bbreaks Sentireascoltare digital magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Direttore responsabile: Antonello Comunale Provider NGI S.p.A. Copyright © 2009 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati.La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare a cura di Teresa Greco mt per ora si sa solo sunnO)))), Phil che si esibiranno Wandscher (Jesse in alcuni festival Sykes and the Sweet estivi europei… Hereafter, WhiskeyI Jane’s Addiction, town), Josh Stevenson arrivati alla loro terza (Jackie O Motherfucker), reunion, dopo alcune date Ashley Webber (The Orin piccoli locali di Los Angegan, Bonnie Prince Billy), les, riprendono l’attività live ed Amber Webber (Black Mounhanno annunciato la loro partecitain, Lightning Dust), Matthew pazione al festival Sasquatch che Camirand (Black Mountain, Blood si terrà a Quincy, Washington, dal 23 Meridian), Joshua Wells (Black Mounal 25 maggio prossimo, oltre delle date tain, Lightning Dust), Keith Parry (Suprimaverili in compagnia dei Nine Inch perconductor, the Gay) e Tolan McNeil Nails. (Caroline Mark)… Annunciato il nuovo disco degli Yeah Gli MGMT hanno citato in giudizio il Yeah Yeahs, previsto per metà aprile e dal presidente francese Nicolas Sarkozy, accutitolo It’s Blitz! La band sarà il 4 maggio ai sandolo di aver utilizzato durante un congresso del suo partito il loro brano Kids, senza aver chie- Magazzini Generali di Milano per l’unica data sto il permesso; dallo staff francese fanno sape- italiana del tour… re che non hanno chiesto la liberatoria per un È scomparso Kelly Groucutt, bassista della Electric Light Orchestra (ELO), morfraintendimento, e si sono offerti di versare to 63 anni per infarto a Worcester. Il simbolicamente al gruppo un euro in gruppo pop orchestrale del chisegno di risarcimento, richiefaith no more tarrista Jeff Lynne aveva sta che la band ha rifiutato. conosciuto un largo sucSarkozy è stato tra i primi cesso tra gli anni ’70 e premier dell’Unione ’80. Lynne si è dediEuropea a dichiaracato in seguito alla re di volersi battere produzione, lavocontro il file sharing rando con Georillegale… ge Harrison, Ancora reucreando i Travenion in vista: ling Wilburys dopo undici anni (con Dylan, Harriecco i Faith No rison, Tom Petty, e More. La band di Roy Orbison) e metMike Patton si era tendo mano anche sciolta nell’aprile 1998 all’Anthology dei Bee i membri avevano tutti atles. Gli ELO avevano proseguito con altri progetpubblicato l’ultimo disco nel ti, Patton compreso, attivo con 2001, Zoom… Tomahawk, Fantômas e Peeping Tom. La line-up non è stata ancora comunicata e mg Confermati altri nomi per dell’edizione 2009 del FIB Heineken 09 che si terrà a Benicàssim (Spagna) il 16, 17, 18 e 19 luglio 2009. Dopo i già annunciati Franz Ferdinand, Kings of Leon, Oasis e Paul Weller, tocca a Psychedelic Furs, White Lies, Friendly Fires, The Bishops e Boys Noize. Maggiori informazioni su fiberfib. com… Murray Perahia, Martha Argerich & Friends, Radu Lupu, Jordi Savall, Leonidas Kavakos, András Schiff, Fazil Say, Daniel Harding, Zubin Mehta, Mikhail Pletnev, Cristian Mandeal, Mahler Chamber Orchestra, Russian National Orchestra, Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, Filarmonica George Enescu, Le Concert des Nations. Sono gli ospiti della ventottesima edizione di Bologna Festival che da marzo a ottobre 2009 si articola nei suoi tre cicli di concerti Grandi Interpreti (27 marzo – 25 maggio), Talenti (3 aprile – 4 giugno), Il Nuovo L’Antico (22 settembre – 29 ottobre). Il grande repertorio classico-romantico, i compositori protagonisti del Novecento europeo, la musica contemporanea con sette prime esecuzioni di opere scritte per Bologna Festival dai compositori bolognesi più significativi, la musica barocca con Monteverdi, Galuppi, Vivaldi, Bach e un omaggio ad Händel nella ricorrenza dei 250 anni dalla sua scomparsa. Maggiori informazioni su http://www. bolognafestival.it... Dal comunicato ufficiale con cui la Touch and Go spiega il momento critico che sta attraversando: Pink Mountaintops “It is with great sadness that we are reporting some major changes here at Touch and Go Records. Touch and Go will be returning to its roots and focusing solely on being an independent record label.” Quindi ci sarà un ritorno alle loro radici e un ridimensionamento a causa della crisi economica… Nuovo sito rinnovato per la label Leaf (www. theleaflabel.com/en/index.php) e nuove uscite per il 2009, fra le quali si segnalano, oltre agli annunciati Wildbirds & Peacedrums (The Snake), Icy Demons (Miami Ice, fine aprile), A Hawk and a Hacksaw (Délivrance, maggio), Nancy Elizabeth (Wrought Iron, settembre), Murcof (Océano, fine anno)… Jagjaguwar comunica l’entrata nel suo roster dei Dinosaur Jr. Il gruppo, con i suoi tre membri originari J Mascis, Lou Barlow e Murph, sta al momento terminando l’album, che verrà pubblicato per l’estate prossima… A proposito di Jagjaguwar, uscirà a maggio sull’etichetta il terzo album dei Pink Mountaintops, dal titolo Outside Love. Titolare del progetto è Stephen McBean, veterano della scena punk-rock di Vancouver/ Victoria e componente dei Black Mountain. Partecipano al disco, prodotto da John Congleton, Sophie Trudeau (A Silver Mt. Zion, Godspeed You! Black Emperor), Ted Bois (Destroyer), Jesse Sykes (Jesse Sykes and the Sweet Hereafter, News / 5 Anni Rossi classical viola pop GrandMaster flash a dj saved our lives Una cultura si conferma salda e salva solo se tiene in conto le proprie radici. Ci sta provando l’hiphop, riscoprendo la figura del DJ dopo che successo e denaro hanno annebbiato le idee a troppa gente. Nemmeno a farlo apposta, il Colosso Grandmaster Flash è riapparso sulle scene con un disco affatto disprezzabile… Lo dico a voce alta: sono fiero d’esser tornato. Così, parafrasando James Brown, potrebbe esprimersi Grandmaster Flash alla luce di The Bridge, disco che lo mostra in discrete condizioni di forma. Già lo sosteneva da anni, il Nostro, di non voler essere confinato a leggenda, pur conscio che la sua Grandezza stesse in una passata rivoluzione tecnologico-stilistica. Prima di The Message c’era stata la Sugarhill Gang di Rapper’s Delight, ma era disco funk all’inseguimento dei tempi. Come paragonare Rock Around The Clock a Johnny B. Goode: imitazione di un genere contro l’elezione a stile autonomo. Hai detto niente, fratello Joseph Saddler, che dal gennaio 2008 hai mezzo secolo. Nativo delle Barbados, crebbe nel Bronx, facendosi notare mettendo dischi ai block parties e nei locali. Poiché di giorno frequenta una scuola di elettronica, escogita un colpo di Genio tecnologicamente consapevole erigendo i piloni dell’hip-hop. Il “cutting” (fondere un brano all’altro tramite similitudini ritmiche, incrementando l’impatto con un beat-box), il “back-spinning” (intervenire con le mani sul vinile per suonarlo) e il “phasing” (lavo6 / Turn On rare sulla velocità del giradischi) diventano pane quotidiano di ogni DJ. Nel ’77 Gran Maestro si unisce ai rapper Furious Five e la cronaca si fa Arte: abili in rime connesse alla realtà, arrivano a incidere tardi e nondimeno in modo epocale. L’esordio per Sugar Hill Freedom va in classifica e idem il seguito Birthday Party; spetta però a The Adventures Of Grandmaster Flash On The Wheels Of Steel cambiare nell’81 le sorti della musica. In quel collage di graffiti sonori sta l’estetica del frammento come la conosciamo. Ricetta perfezionata un anno dopo da The Message, scuola pura sin dal suo “don’t push me, ‘cos I’m close to the edge”: il Gioco comincia a raccontare la strada e la realtà spesso drammatica che ne costituiscono il grembo. Nell’82 ecco The Message, festa d’afrocentrismo che recupera i gioielli di cui sopra - per il resto vale il Best Of su Rhino del ‘94 - e uno dei primi album rap concepiti come tali. Resterà il loro unico: dopo l’inno anti-cocaina White Lines, i rapporti si deteriorano e addio. Farà ancora dischi, Flash, tutti trascurabili e comunque problema non v’è. Il linguaggio si è intanto sviluppato, ci sono in giro Public Enemy e Jungle Brothers che sono figli suoi come Rolling Stones e Living Colour lo sono di Chuck Berry. Rispetto eterno sia dunque per uno degli Originali. La storia siamo noi, ma a farla sono in pochi. Giancarlo Turra La viola al centro del proprio mondo musicale, con tutta le deviazioni e le dissonanze applicabili a questo strumento, e un’attitudine pop e nello stesso tempo contemporanea: queste le coordinate dell’avant pop della newcomer Anni Rossi. Dal Minnesota via Los Angeles e infine Chicago, fresca l’anno scorso di contratto con la 4AD, arriva ora all’esordio con Rockwell. Composizioni che in maggioranza appartenevano al suo precedente repertorio, sofferti e spasmodici saliscendi per viola e cantato, sono state rivisitate e arricchite strumentalmente con il tocco di Steve Albini. Di formazione classica, la polistrumentista è passata, nel corso degli ultimi cinque anni, dall’anarchia musicale delle prime prove su cd-r (come Scandia, uscito sulla DIY Folktale Records nel 2004), scarni e cupi bozzetti per sola voce e viola dove tensione e animalità la facevano da padrona, anche nel canto spasmodico, a una certa regolarizzazione e ad un arricchimento strumentale che l’ha portata, nel 2008 all’EP Afton, sempre su 4AD, coadiuvata dal fondatore dei Big Black. Da Afton emerge la scrittura cinematica di Anni e la sua propensione all’improvvisazione e alla destrutturazione delle composizioni, piccole suite sempre sul punto di deflagrare, in un continuo saliscendi emotivo e armonico. Caratteristiche tutte amplificate nell’ultimo Rockwell (in recen- sioni) dove ancora una volta riemergono alcuni di quei pezzi che abbiamo imparato aconoscere (Machine, Ecology, Wheelpusher) nel corso della sua discografia; laddove in precedenza c’erano spazi vuoti tra voce e musica, ora le composizioni tendono alla stratificazione ed al sinfonico, in un compendio avant orchestrale (The West Coast) e in improvvise sfuriate e saliscendi armonici, dominati dalla viola in primis (Deer Hunting Camp 17), dall’organo in Ecology, dal clarinetto in Venice, da violoncello, fiati e percussioni. La voce qui funge maggiormente da strumento aggiunto, modulando le armonie con le progressioniarmoniche strumentali. Una controparte femminile dei Beirut o di Final Fantasy, con in aggiunta la preponderante componente dissonante. Una Joanna Newsom meno “normalizzata”, una Carla Bozulich (con la quale ha suonato in tour, tra l’altro) a cui l’accomuna l’attitudine arty e il lato selvaggio dell’esibizione dal vivo, il Cale selvaggio e destrutturato che percuote la sua viola, le coloriture Joni Mitchell della voce. Tra impeti neofolk di comunione con la natura e riflessioni sulla contemporaneità, a ricordarci, con Cale, che “la viola è il più triste degli strumenti”. Teresa Greco Turn On / 7 Darwinsbitch Lebowski Immersive and Breathing Music “The first definition of an instrument according to the American Heritage Dictionary is “a means by which something is done; an agency.” An instrument somehow embodies a means to an end, the path relating intention and action, whether of a mechanical or electrical source”. È il concetto stesso di strumento, ovvero di “device” nella sua accezione tecnologica che sembra spingere e animare le intenzioni dell’americana Marielle V. Jakobsons. Da qui il suo interesse per le infinite possibilità di “ambientarsi” nel contesto circostante. L’affermazione di cui sopra e tratta dalla sua tesi di laurea in Electronic Music e Recording Media, conseguita con tutti i crismi del caso, al Mills College nel 2006. Titolo della dissertazione: “Immersive Instruments and Breathing Systems”, basata su una installazione denominata Two Violins and a Theatre: A Triptych of Resonance. Il sunto teorico del discorso di Marielle sembra essere quello della risonanza come agente fisico ancorché intangibile, direttamente modificabile dall’ambiente. Come dire che nello stesso istante, lo stesso strumento può originare infinite modalità per riverberare nell’ambiente, indipendentemente dalle sue modalità espressive. O per lo meno questo par di capire, sorvolando velocemente i suoi assunti teorici minuziosamente elencati sul 8 / Turn On suo sito web. Quello che però lascia propendere maggiormente verso quella che possiamo definire come una vera e propria poetica del suono trattato è il suo lavoro a nome Darwinsbitch di cui in questi giorni si sentenzia il debutto sulla lunga distanza con un lavoro pubblicato da Digitalis e intitolato Ore. Nella descrizione della musica la press abbandona volutamente qualunque aspetto tecnico-teorico per abbandonarsi alla evanescente carica della suggestione. Onde per cui si parla di “fluid forms of drones, doomy laments, and folk melodies fleshed out from a backbone of sine oscillators and violin”. Un approccio alla materia sonora non troppo distante da quella del suo compagno di amorosi affetti, Gregg Kowalsky, ma carico di un evidente sense of apocalypseche non può che dirsi uterino. Marielle oltre alla musica di Darwinsitch si concentra anche su altri progetti degni di nota, come la collaborazione con la compagna di corsi Agnes Szelag nel duo elettroacustico folk denominato Myrmyr di cui si dovrebbe ascoltare a breve il debutto e l’ensemble multimediale Triometrik in cui si prodiga in quella che rimane tuttora la sua passione primaria e prediletta: il violino. antonello comunale Loro sono solo al disco d’esordio ma chi vi parla, fosse il direttore di NME, li spiattellerebbe direttamente in copertina. E non solo perchéhanno personalità da vendere, ma anche perchédimostrano di saper conciliare un post-punk/noise teso e serissimocon una vena ironica capace di prendersi gioco di qualunque cosa respiri. A cominciare dai diretti interessati: “Chi sono i Lebowski? Quattro sbandati, di cui uno molto vecchio. È uncontenitore di storie di ordinaria e deprimente demenza quotidiana,di nascita e morte, di improbabili ultimi desideri. È un cesto di droga. Lebowski è il suono che produceva l’uomo bionico quando si scopava la donna bionica e concepivano un bambino bionico di nome ST-N-N-N al modico prezzo di 1 milione di dollari. Lebowski è Clint Eastwood che gioca con una pistola ad acqua. Lebowski nasce, cresce,si riproduce e poi morirete voi”. A scanso d’equivoci, nulla a che vedere con il demenziale più gretto,bensì una curiosa metafora dei nostri tempi. Una modernità fatta dimescolanze in cui tutto è permesso, anche di affiancare a testisurreali e, talvolta, in forma di narrazione, una parte musicale puntuale, meccanica, spigolosa, decisamente elettrica. C’è la leggerezza svagata del Lebowski cinematografico a indicare la via -“la figura degli anti-eroi scanzonati e pigri” -, ma anche un’attenzione particolare per temi che esulano il semplice intrattenimento – le follie della modernità di Zuber Buller o l’intransigenza della chiesa cattolica in fatto di sessualità in Church Of Fonz! -, a dimostrazione che nulla viene lasciato al caso nella proposta della band di Jesi: “Non ci piace scrivere testi forzatamente viscerali o super-incazzati (equasi sempre retorici) e così cerchiamo di dire cose “interessanti” senza pesare su chi ascolta. Diamo una scelta: se vuoi, sorridi, sehai più tempo, magari rifletti sul testo”. Facciamo due conti: c’è un disco uscito a dicembre dello scorso anno– in spazio recensioni praticamente perfetto; c’è un produttore come Giulio Favero del Teatro degli Orrori a fare gli onori di casa; c’è una provenienza geografica – le Marche - che èuna sorta di garanzia di qualità per certo rock ruvido e “strambo”(“Nella nostra zona ci sono tantissimi gruppi di grande personalità, comeJesus Franco & the Drogas, Butcher Mind Collapse, Guinea Pig,Bhava, Lleroy, oltre a formazioni che ci piacciono molto come i Dadamatto o gli Edible Woman.). Il passo successivo è accendere lo stereo, prepararsi un White Russian e spaparanzarsi sul divano di casa, con un sorriso un po’ beota stampato sul viso e le orecchie ben sintonizzate sulle casse. Fabrizio Zampighi Turn On / 9 zioni sono serie, serissime! Vi date addirittura alla sociologia, citando un filosofo non certo da Sorrisi e Canzoni come Zygmunt Bauman. O anche questa è tutta una messinscena? Non avevamo intenzioni serie! se il disco ti sembra serio allora dobbiamo aver sbagliato qualcosa... Al contrario volevamo creare un contrasto tra visioni apocalittiche e ritmi da festa africana! vogliamo gente che danzi ridendo sulle macerie della propria casa! Les Fauves La cartella stampa snocciola riferimenti come Fela Kuti, Piazzolla e Harry Belafonte (!), però se non vi spiace tranquillizzerei i lettori denunciando un certo sbilanciamento verso zuzzurelloni come Robyn Hitchcock e Flaming Lips. Siete d’accordo? Beh se vuoi come approccio alla materia si, per quel che riguarda il contenuto in se, noi siamo molto meno legati agli anni sessanta e settanta di quanto lo siano loro. Volevamo allargare un po di piu la visuale, spostarla un po piu in là. Ai tempi dell’esordio – con l’ep Our Dildo Can Change Your Life (Urtovox/Shinseiki / Audioglobe, aprile 2006) - mi lasciarono sconcertato, come uno schiaffo dato ridendo. Poi non mi sono fatto più fregare. Questi quattro sciagurati da Sassuolo sanno il fatto loro, malgrado provino a spacciare un understatement ultra cazzone. Giunti al secondo capitolo di una trilogia di al10 / Turn On bum dedicata alle “luci ed ombre del comportamento alieno”, abbiamo ritenuto opportuno intervistarli. Cari Les Fauves, oserei dire che con N.A.L.T. 2 Liquid Modernity il bluff sia svelato: altro che screanzate impertinenze e perversioni dadaiste, le vostre inten- La ricchezza schizoide dei riferimenti stilistici, caratteristica comune a molte band “indie” contemporanee, è più un tentativo di smarcarsi o una conseguenza inevitabile (buona? cattiva?) del peer-topeer che offre accessibilità e simultaneità a qualsivoglia genere pop-rock di qualsiasi epoca? Per quel che ci riguarda é tutte e due, cioè un tentativo di smarcarsi grazie anche al peer to peer: Il p2p ci ha permesso di ascoltare centinaia di dischi da qualsiasi parte del mondo e da qualsiasi epoca, al di la cioè di qualsiasi limite spazio/ temporale. La quantita di musica che una persona può ascoltare ora rispetto a quella che poteva ascoltare anni fa é cresciuta moltissimo, se si unisce le potenzialità del peer to peer a delle menti abbastanza elastiche ne deriva un gusto musicale che può passare tranquillamente dal clavicembalo ben temperato di Bach a Johnny Cash, dai Contortions a Giacomo Puccini, da Miles Davis ai canti gregoriani e così via. Certo l’altro lato della medaglia é che si é perso un po il piacere della scoperta. Ricordo che una dozzina di anni fa non avevo soldi per comprare piu di un disco al mese (come poi anche adesso) però ci mettevo piu di un mese per decidere che disco comprare, stando ore nel negozio a valutare le copertine, e una volta comprato lo ascoltavo tutti i giorni, anche se non mi piaceva, fino a farmelo piacere. Anche voi come Adriano Modica - intervistato in questo stesso numero - avete scelto di esordire con una trilogia in fieri. Eccesso d’ambizione? Brama di suicidio commerciale? Semplice mancanza di ragionevolezza? Cos’altro? Eccesso di ambizione e mancanza di ragionevolezza ci stanno per quel che ci riguarda. Suicidio commerciale no, perche lo dici? A parte che vendere poche copie non ci spaventa affatto, ci siamo abituati. In realtà abbiamo pensato “facciamo una trilogia così anche chi compra solo un disco e non gli piace é costretto a comprarsi comunque gli altri due”. A quando il terzo capitolo? E dopo cosa accade? Il terzo capitolo é difficile a dirsi, vogliamo fare le cose con assoluta calma, deve essere il piu bello, come nella migliore tradizione delle trilogie, vorremmo chiudere alla grande. Dopo non si può dire, nessuno può vedere così lontano. Stefano Solventi Turn On / 11 These are Powers These Are Powers? Or these are ghosts? La mutazione del sottobosco newyorchese più wave verso una nuova forma di electro infestata da fantasmi industriali. Signori e signore, i These Are Powers. C’eravamo ripromessi di approfondire il discorso su questo trio newyorchese in tempi non sospetti. All’epoca cioè delle prime produzioni ufficiali e del primigenio hype: l’esordio lungo Terrific Season che aveva avuto il merito di far conoscere al mondo dell’underground le scorribande della band newyorchese, e il successivo mini Taro Tarot che allo stesso tempo ne confermava le premesse e ne spostava lievemente i confini. A colpirci all’epoca era stato l’afflato tipicamentenewyorchese che pervadeva le musiche di questo oscuro terzetto poco propensoalle pubbliche relazioni. Quel mettere in scena – in quei primi passi sparsitra autoproduzioni, cassette, 7 pollici – tutto l’universo delle musiche wave più sinistre e virate in nero che la grande mela ha instancabilmente tenuto in grembo e partorito di volta in volta nell’ultimo trentennio. Musiche nere etimologicamente, nel senso cioè diossessività e cupezza ma anche nere come d’origine black: ritmiche e ritmate, ancestrali ma pur sempre smostrate, abbrutite, essiccate. Dalla nowave più out e sfasata fotografata nella leggenda12 / Turn On ria No New York a quella brutalmente e rumorosamente rock di Sonic Youth e progenie tutta, passando per l’amore per certo noise-rock dei 90s – di quello che appestava il Lower EastSide, per intendersi – fino ad arrivare al versante più arty e, perché no?, danzereccio dell’ultima ondata d’inizio millennio, un sottile filo rosso sembrava giungere fino ai These Are Powers. Proprio da uno dei più rappresentativi combos di questa ennesima folata rumorosa made in NY, i Liars, prende il via l’esperienzaThese Are Powers. Il fondatore Pat Noecker era infatti il bassista informazione ai bugiardi al tempo dell’esordio They Threw Us All in a Trenchand Stuck a Monument on Top; dopo una parentesi invero non felicissima con No Things (insieme all’altro transfuga dai bugiardi Ron Albertson), e incontrata la bassista Anna Barie ha messo su questo progetto. A completare il triangolo, e adar sostanza alle evanescenze del gruppo, la batteria di Bill Salas a.k.a Brenman, solito percuotere pelli anche con Our Brother The Native.Proprio l’ingresso di quest’ultimo al posto del batterista originario Ted McGrath ha – oltre che stabilizzato la formazione – anche introdotto nellapercussività tribaloide caratteristica del gruppo sin dai primi passi, un alone altro, subumano, quasi alieno. Merito dell’uso di chincaglierie e batteria elettronica apportato da quest’ultimo e che ha il merito di sfasareancor di più, quasi sfaldare la muscolarità tipica di certi numeri di genere. Si diceva degli esordi. Sia Terrific Season che Taro Tarot viaggiano sulle coordinate di quel concetto di musica ben sintetizzato nella autodefinizione di ghost-punk. Nulla ditotalmente nuovo: una wave tesa come il rock ma scura come la pece. Destrutturata, ectoplasmica, evanescente, proprio come un fantasma punk. E lìrisiede lo scarto con proposte simili. Terrific Season – esordioufficiale in cd edito dalla Hoss Records – raggruppa un paio di uscite brevicarbonare e si immola totalmente al virare in nero il corpo morto del ritmopost-punk/funk/no-wave, innervandolo però di loudness da noise-rock in disarmo. È il concetto di ghost-punk che si materializza lungo tutte le 8 tracce dell’album. Taro Tarot continua sulla stessa falsarigadel precedente, ma segna già un ulteriore punto di fuga. Se All Night Services apre il disco con una marcia catacombale dal cui sottofondo emergono rumori e distorsioni, gorgoglii e detonazioni con Pat impegnato asbraitare una nenia drogatissima, per comprendere lo scarto col disco precedente e l’allargamento dei confini bisogna skippare al settore conclusivo del mini: Untitled (Garbage Bird), Peel Some Off e soprattutto Twin Remains spostano l’asse verso certe asperità industriali frequentate dagruppi come Pain Teens, mutando dal di den- tro l’idea musicale del trio,rivoltandola, pur mantenendone il canone catchy e dancey sui generis. Dal ghost-punk degli esordi all’haunted electrorock dell’attualità il passo, giunti a quel punto, è dunque breve. E infatt il’appena uscito All Aboard Future accentua le declinazioni electro, mantenendo in nuce allo stesso tempo l’ossessività percussiva el’attitudine ectoplasmica, invasata, fantasmatica. Ossimorici, si diceva a ragione in sede di recensione, e l’ascolto ripetuto dell’album edito per Dead Oceans avvalora quella chiave di lettura. I tre si avvicinano alle derive industrial à la newyorchese messe in scena da acts/collettivi come Excepter, altroprogetto dall’appeal tribal-dancey infestato da scorie radioattive e rifiutidella cultura post-industriale occidentale. All Aboard Future è, nei suoi momenti migliori realmente hauntedrock: pervaso da umori alieni e/opost-umani come potrebbe intenderlo un Genesis P-Orridge emaciato e post-11 settembre (Light After Sound), affetto da visioni da perturbantepost-vittoriano alla Turn Of The Screw (Sand Tassels) o contaminato da impercettibili vocals catturate dopo un fall-out atomico. We are free…We are a language ofsound…We are a celebration…We are present in dreams and energy…We are the dynamics of being and the infinity of possibility, dicono di sè. E contraddirli è cosa veramente ardua. stefano pifferi Turn On / 13 Yoñlu Mecanica Celeste Aplicada Il titolo dell’articolo riprende una delle tracce che andranno a modellare il debutto lungo di Yoñlu, adolescente brasiliano morto suicida nel 2006. L’interessamento della Luaka Bop di David Byrne farà sì che a breve, dopo la pubblicazione di un cd per il solo mercato sudamericano, la musica di Vinicius Gageiro Marques sarà alla portata di tutti. La sua è una storia triste. Nel segno della musica, la sua arte. Un caso umano e musicale. Un talento in erba cristallizzato, ormai, per sempre nelle sue sedici primavere. Non staremo qui a stendere di battiti socio-psicologici sui perché di questa vicenda (non ci compete né ciinteressa), ma impossibile trascendere la vicenda musicale da quella umana di Yoñlu, musico la cui breve esistenza lascia ai posteri una manciata di canzoni che finalmente, grazie alla volontà di David Byrne, vedranno la luce anche al di là dei territori verde oro. Il fatto risale al 2006, ma andiamo con ordine. Vinicius Gageiro Marques, brasiliano di Porto Alegre classe 1990, è figlio di una psicoanalista 14 / Turn On nonché docente universitaria, Ana MariaGageiro, e secondo genito di Luiz Marques, segretario della cultura di Rio Grande tra il 1999 e 2002. Una famiglia “bene” dove, gioco forza, istruzione e cultura sono di casa. Vinicius è il cosiddetto“soggetto strano”: a scuola, durante le lezioni, non si separa mai dalle suecuffie; consuma, appena tredicenne, le opere di Kafka e immortala ogni istantedella giornata nell’inseparabile fotocamera; sa esprimersi, in virtù di unsoggiorno transalpino con la madre, in francese e apprende, stavolta guardando semplicemente la tv, in modo esemplare l’inglese. Mostra, inoltre, una tendenza particolare verso la critica musicale che espone in vari scritti e nel contempo, tra le mura di casa, si prodiga a produrre acetati dilettandosi con chitarra, basso, batteria e effettistica varia guardando riverente gli eroi Gilberto Gil e Vitor Ramil. “Un ragazzo estremamente sensibile”, diranno poi i genitori, la cui crescita desta qualche preoccupazione:l’empatia col la realtà pare non appartenergli. Meglio il viatico 2.0. Il non-luogo. La terra di nessuno dove ci si ca- muffa e traveste (“Datemi una maschera e vi dirò la verita”, diceva un noto aforisma di Oscar Wylde) per volere dell’io represso. Chat, forum. Il giovane ci incappa e si rallegra. Cambia pelle diventando Yoñlu e come d’incanto si esponenella sua disarmante purezza. Con la nuova identità propone lasua musica senza remore, e il nome comincia a circolare via World Wide Web dall’Inghilterra alla Scozia, dal Belgio al Canada sino all’Africa alimentando i consensi deinet-friends, che di contro al mondo terreno - inesorabilmente escluso, familiari compresi – godono dell’assoluta priorità. La rete, dunque. Una realtà (?!) latente che aiuta e annienta. Naturalmente l’approccio ad essa sicontestualizza al soggetto fruitore. Dopotutto e più pericoloso un coltello trale grinfie di un serial-killer che non tra le mani del pensionato sotto casa. Dopo un paio di mesi trascorsi in un ospedale psichiatrico, Vinicius un giorno incappa in un forum particolare dove si parla e si innalza a “romantico gesto” l’atto del suicidio. Ritornando al discorso di cui sopra, una persona mentalmente stabile, alla vista di simili argomentazioni, dopo l’iniziale curiosità avrebbe rigato facilmente altrove, ma lui, che desiderava - come dice una lettera rinvenuta poi - mettere fine alla sua sofferenza, vi trova un che da approfondire. In pratica, i frequentatori di questi forum non ti evitano di farla finita se ne hai l’intenzione e/o lavorano sulla psiche dell’individuo, al fine del fatal gesto, se questi manifesta avversione alla vita per la cronaca: dal 2001 ad oggi, le vittime di tali modalità superano le 100 unità con fascia d’età stimata dai 13 ai 27 anni. In breve, nel pomeriggio del 26 luglio 2006 un Yonlusedicenne pianifica, on-line, la sua fine: entra nel bagno di casa sua lasciando sull’uscio un biglietto che riporta: “non entrare, massicce dosi dimonossido di carbonio”. Fine. Come accennato qualche riga addietro, il lascito del ragazzo - un cd-r e svariati file mp3 - è stato assorbito dalla Luaka Bop di Byrne che pubblicherà entro l’anno un disco preceduto, a breve, da un ep. Tre pezzi dalla scrittura illuminata dove si avverte, al cospetto dell’età, la matura voce di Yonlu. In I Know What It’s Like vi suonerà come un Elliott Smith tropicalista; The Boy and the Tiger, dopo le prime note incredibilmente The Trees Community, ripiega in elettronica casereccia e dada-pop mentre Humiliation- una perla tra Nick Drake e Vitor Ramil - ha la grazia del cantore navigato. Nel disco lungo, si vocifera,l’inerzia verterà decisa in territori tropicalia. Staremo a sentire. Vi lasciamo con le parole dellostesso Yonlu, uno dei tanti messaggi ritrovati nella sua camera: “Credo che ritmo e armonia, se ascoltati nel momento giusto, possano rendere felici anchei momenti più bui”. Gianni Avella Turn On / 15 zione che possedi. Suono in questa città dal 1994, e dunque in quegli anni ho incontrato tanta gente e qualcuna di queste scene hanno cominciato a sovrapporsi in un modo organico. Quando sei circondata da questa energia è emozionante e te ne nutri come l’aria e l’acqua. Potrò fare qualche lavoro pazzesco o fare tante cose per ottenere la gig ma non sono mai stanca quando mi getto sul palco o nel DJ booth. Ma d’altra parte realmente non dormo molto…. - Stefano Solventi Honeychild Coleman Leggendo le tue note biografiche nella cartella stampa sono rimasto sbalordito e anche un po’ confuso dalla quantità e varietà di esperienze, di progetti, di collaborazioni. Come hai fatto? Io amo suonare e creare musica così tanto che non mi sento molto concentrata o limitata su un solo genere, stile o scena. New York è un posto 16 / Tune In magico nel senso che puoi avere 2 gigs estremamente diverse in una notte. Per esempio, ho suonato un solo spettacolo electronico in Tribeca alla Warper Party e poi sono andata all’East Village per una gig suonando la chitarra con Apollo Heights. L’energia e il passo della città è incredibile e se hai tanti interessi (come me!) sei solo limitato con la quantità dell’energia e concentra- La sensazione è che con l’album d’esordio tu abbia voluto rappresentarti in ogni sfaccettatura. Se è così, quanto sei soddisfatta del risultato? Come artista in fase di produzione, ho lavorato con il dub, esperimentale, electronic, cantautore, e progetti di Rock. Ma questo è la prima volta che mi sento di aver fatto un lavoro che incolla completamente tutto insieme, e più importante, che SUONA come me. Scrivo diversi tipi di musica, quindi quando è arrivato di fare questo album, a me sembrava innaturale fare un disco dove lo stile di ogni canzone era esattamente lo stesso. Sono estremamente contenta di come è venuto perché sento che tutti questi elementi sono portati insieme in una sensibilità pop. La musica Pop è criticata severamente in questo paese perché il valore del pop è considerato commerciale o ‘usa e getta’, non è molto rispettato al di fuori della vendita dei dischi. Ma per me, artisticamente, lo scopo della musica Pop è aggregare gente e far sì che le canzoni gli si incollino in testa. Spero di averlo fatto con quest’album. È davvero notevole e anche un po’ strano il modo in cui diluisci la componente black nelle forme electro e rock, a partire dal tuo modo di cantare. Sono convinto che in un “blind test” sarebbe difficile intuirne la provenienza, potrebbe essere New York, Bristol, Monaco, Londra o Chicago. Quanto c’è di istintivo e quanto invece hai dovuto lavorare per definire il tuo stile espressivo? Mentre non mi sono mai proposta di creare il mio stile o sentita forzata a distinguere me stessa dagli altri musicalmente, per così tanti anni mi hanno detto che sembro abbastanza nera, non suono Americana o sono troppo ‘retro’, ecc. Sono cresciuta a Louisville, Kentucky (esattamente il centro degli United States, tecnicamente nel mid-west ma spiritualmente davvero piuttosto meridionale), stato colonizzato da scozzesi e irlandesi con una forte influenza di tante tribù native americane. Musicalmente, nella mia scuola c’era forte concentrazione sul materiale americano tradizionale, folk music inglese e irlandese. Suonavo la cetra, l’autoharp o un piccolo xilofono qualche volta alla settimana. Era così normale, come saltare la corda. A casa, mio padre ha gestito qualche band di blues e funk, quindi le loro cassette erano sempre in giro e la musica era sempre presente. La radio era sempre dappertutto perchè i miei ascoltavano tutto, dai Led Zeppelin a Aretha Franklin, new wave e disco. Non sono cresciuta in una chiesa o cantando la musica gospel, sebbene i miei avessero qualche disco stupefacente in giro la casa, come The Staples Singers, Reverend Cleverland James, The Pointer Sisters, Soul Trains Greatest Hits, ecc. Avevo veramente trovato la mia voce fra la musica folk e i Beatles che cantavamo nella scuola elementare e la scuola media - e lo radio. Stavo diventando adulta nei primi 80 e rimanevo alzata fino a super tardi tutti i martedì sera per ascoltare lo spettacolo BBC Rock Over London. Ha cambiato la mia vita. Dopo di quello c’era stata l’esplosione di MTV e avendo potuto vedere gli aspetti dei questi artisti e che c’era pure gente di colore in altre parte del mondo che faceva diverse tipi di musica mi ha aperto un mondo intero. Quando stavo cantando nella Danimarca qualche anni fa e facevo un solo set apertura per Dejligt, qualche persona pensava che io fossi irlandese. Questa stato davvero Tune In / 17 interessante perchè quando canto e incido riesco a sentire il mio accento meridionale che torna. Ma non posso fingerlo, è una testimonianza dello stato naturale della mia voce. Stupisce e inorgoglisce che un disco come Halo Inside sia stato concepito e realizzato - seppure in parte - assieme ad artisti italiani e in Italia. Perché credi che sia andata così? Grazie a una serie dei eventi diversi e collaborazioni nella scena electro di New York, sono diventata amica con Jim ‘Phyle’ Coleman (di Cop Shoot Cop). Jim ha iniziato lavorando su un disco con M.Teho Teardo (di Meathead/Matera) da un’idea che avevano avuto conoscendosi in precedenti tour. Loro hanno sentito il disco che avevo fatto con il projetto di Dj Olive we ™, mi hanno chiesto ad ascoltare qualche brano e fargli sapere se fossi interessanta a cantare sul loro disco. Immediamente mi sono innamorata della loro musica e sono andata nello studio con loro. Le sessioni sono andate bene e alla fine mi hanno invitata a cantare su una compilazine tributo a Robert Wyatt. Uno dei nostri singoli, Apart, ha beneficiato di una una heavy rotation video e quindi qualche mese dopo mi hanno invitata a venire in Italia per qualche tour dates. Il gruppo è andato avanti per registrare un paio di EP e ho fatto qualche altro tour con loro. Durante questo periodo sono diventata amica con Matteo Dainese e siamo restati in contatto. Quando Matteo ha lasciato Ulan Bator e cominciato lavorando come soliata al suo projetto Dejligt, ci siamo incontrati in Irlanda e UK per suonare qualche gig insieme (stavo facendo un tour con Apollo Heights al momento). Mi sembrava un evento naturale lavorare al suo disco. Contemporaneamente abbiamo cominciato la lavorazione di Halo Inside. Io e Matteo abbiamo passato tutta l’estate a scambiarci file via Skype e internet. Dainese ha lavorato anche col producer Max Stirner e questo è il motivo per cui Stirner 18 / Tune In si è occupato dell’arrangiamento del mio album, in più si è occupato del missaggio e ha suonato qualche strumento. Che tipo Max: ha impacchettato il suo equipaggiamento e lo ha portato a Brooklyn accapandosi nel mio appartamento. Incredibile! Gli ospiti sono molti e molto diversi, anch’essi in un certo senso descrivono le tue inclinazioni, le tue esperienze, la tua vita. Qual è il filo rosso che unisce Mad Professor e Robin Guthrie?? Rischiando di suonare retrò, tornando indietro nel tempo potresti sentire entrambi gli artisti nella stessa sera e nel medesimo club. Quel che conta però è che afferrano sonicamente qualcosa in me che è eterno, sognante e ancora astratto. Esteticamente, nei loro primi anni - e grossomodo attorno allo stesso periodo – sia Mad Professor che Guthrie nei Cocteau Twins usavano apparecchiature elettroniche similari, come reel-to-reel tape machines, drum machines, grezzi suoni campionati e voci doppiate con pesanti effetti. Quando le ascolto, queste cose mi sembrano evidenti. Anche adesso, dopo aver suonato con Professor e dopo aver visto Robin suonare solo un paio di volte, trovo che non siano molto diversi on stage. Ognuno di loro porta grandi suoni che sono pienamente controllati a portano alla creazione di una fortezza sonica. Questo è anche il mio approccio alla perfomance a livello elettronico. La mia filosofia on stage è stata “quanto noise e suono una persona può creare da solo?” Ecco, questo è l’obbiettivo. Così in un senso, siamo tutti spiriti affini. Le etichette sono una maledizione necessaria e in fondo divertente. Ti hanno paragonata a Bjork, a Kate Bush, a Diana Ross, a Miriam Makeba... A chi tra queste o altri senti di dovere veramente qualcosa? Potrei elaborare sulle suddette etichette e dire che Bjork (Electronic/Dreamy), Kate Bush (Classical/Dreamy), Diana Ross (Pop/Retro) e Miriam Makeba (African/Folk) e un mix di queste, non sarebbe lontano. Quando ho iniziato a prendere il canto seriamente e studiare intonazione classica e jazz verso i 20 anni, quella che mi ha influenzato di più era stata Sarah Vaughn. Il suo controllo, timbro e stile mi hanno spinto ad essere elegante e liscia. Lei era una regina per me. Ma sono anche cresciuta con il sound Motown, e le The Supremes erano la mia band preferita quando ero piccola. Ricordo chiaramente il giorno in cui mia madre ha dovuto dirmi che non stavano più assieme. Ho pianto!! Una brava compositrice che alla fine è diventata la mia influenza più forte, è stata comunque Chrissy Hynde dei Pretenders. Lei ha scritto dei testi profondi, aveva l’attitudine e poteva suonare la mean guitar. Il suo era un modo sexy eppure raffinato. Aveva tutto ed era dell’Ohio e quindi, quando l’ho ascoltata alle superiori ho pensavo “Guarda! Lo sta facendo! Anch’io posso farlo!” Ho appena sentito qualcosa dal suo nuovo album questa settimana ed è ancora in forma! È molto eccitante e fonte di ispirazione vedere una donna pop/rock che non si è hai mai compromessa per rimanere ‘trendy’. Anche cimentandosi col dub nel singolo Private Life (uscito nel 1980, in contemporanea alla versione di Grace Jones) è rimasta se stessa. Forse le devo di più di tutte. Stefano Solventi Tune In / 19 Dm Stith David as a musician - Gaspare Caliri Un predestinato alla musica, nato da una famiglia di musicisti, che però l’ha sempre mantenuta in un luogo intimo, per dedicarsi alle arti visive. Oggi ci ha ripensato, DM Stith; i risultati non possono che causargli soddisfazione. Speriamo non sia una scelta provvisoria. P ortrait of the artist as a musician Sulla fotografia se ne dicono di tutti i colori. C’è chi dice sia un artificio che fa rivivere il passato, chi la preferisce considerare un fatto isolato dalla storia. C’è chi ha parlato di “indici”, perché come un indice puntato la fotografia è traccia di una presenza, è garanzia di qualcosa che è avvenuto. Chi si limita al proverbiale istante che viene colto. Di sicuro la fotografia fissa qualcosa, che può essere estremamente variabile come lentissimamente in movimento. Ne parliamo (ma poco) perché vorremmo usare questa metafora per metaforizzare qualcosa che un certo David Stith sta facendo su se stesso; vorremmo coglierlo nell’atto di scattarsi un’istantanea della propria fantasia. Abbiamo ascoltato la sua recente produzione musicale e lo abbiamo intervistato. 20 / Tune In David non è certo una persona che ha paura di esporsi; il suo sito è un blog dove aggiorna i suoi lettori; ma non è sempre stato così, e soprattutto non è solo questo che ci interessa; è la musica che oggi David ha scelto come espressione centrale della sua creatività, nonostante per anni essa fosse stata messa in secondo piano. Il nostro è infatti quello che si dice un figlio d’arte all’ennesima potenza. È cresciuto in una famiglia di musicisti – con padre e nonno direttori d’orchestra, con il secondo pure professore universitario, la madre pianista, la sorella poliedrica strumentista e cantante – e completamente avvolto dalla musica. Fin da piccolo ha seguito lezioni di tromba, percussioni, canto… e però appena ha potuto ha deciso è stata di fare l’artista visuale. “Ho sempre avuto bisogno di fare cose per me stesso; mi chiedo se io non abbia scelto l’arte visuale solo per differenziarmi. L’arte visuale apparteneva per me a una dimensione privata, e così, stranamente, anche l’ascolto della musica. Con tutta quella musica attorno, è stato importante per me ritagliarmi uno spazio privato nella mia vita dove essere solo coi miei pensieri. La musica era un buon modo per aiutarmi a sentirmi separato, per escludere quell’altra musica che non mi piace.” Eppure in quegli anni David ascolta molta musica classica, abitudine che neanche oggi ha abbandonato. Per chi ha idea, può essere significativo sottolineare la ricorrenza con cui David parla di Mahler e dell’influenza che ha avuto nei suoi ascolti. Non è un caso che citi uno dei più grandi scrittori di sinfonie in decadimento; uno dei più grandi direttori d’orchestra e di padronanza musicale come leit motiv tra gli ascolti eteroimposti da bambino e quello che ora gli è rimasto. La sua vita sembra orientata al graphic design sposato un’immensa, ma intima, passione musicale; dipinge mentre ascolta Sonic Youth, Flying Saucer Attack, Nobuzaku Takemura; il suo orecchio sposa persino la causa dei droni, da cui è sempre stato affascinato: “Sono sempre stato attirato dai droni in musica, musica che distingue i dettagli dentro piccoli gesti epici. Amo ancora questa musica e non l’ho mai posizionata in un periodo preciso della mia vita. Sono legato a questi riferimenti come d’altra parte, alle orchestrazioni di Gorecki o ai lavori vocali di Caetano Veloso”. David tenta persino di fondare un gruppo “noise”, dove le virgolette sono consigliate dal diretto interessato, ma i cui componenti alla fine pensavano più a “dipingere le proprie chitarre” che a suonarle. La svolta, nel turbine di espressione artistica di David, avviene quando decide di trasferirsi a New York. È lì che incontra tra gli altri – compreso Rafter Roberts, altra conoscenza importantissima - Shara Worden, miss My Brightest Diamond. “Penso che Shara mi abbia molto influenzato dal punto di vista dell’etica del lavoro come musicista. È una delle persone più dedite al lavoro che abbia mai incontrato e mette tutta se stessa nella musica. È una cosa davvero entusiasmante! È stata una gigantesca fonte di incoraggiamento per me”. È un incontro fondamentale, ma non per gli ovvi motivi che si immaginano, tra cui l’immensa dedizione al lavoro di Shara, i tentativi di lei di fare in modo che lui torni a suonare, si esprima musicalmente; non è di un supporto morale che David ha bisogno; ma di fotografie. E Shara è la fotografia di un punto di contatto; tra la sua famiglia, che quasi lo ha predestinato alla musica (tanto da permettere di descriverlo efficacissimamente come uno a cui “mancano solo le stimmate”) e a un tempo per questo motivo allontanato, e l’amicizia. Tra l’infanzia e la maturità; tra la tradizione e l’indie; e infine - proprio nel momento in cui Shara chiede a David di sviluppare da graphic designer qual è l’artwork per le uscite My Brightest Diamond – ella diventa la fotografia vivente del punto di contatto tra musica e arte visuale. The musician as a musician “Attualmente non sono più molto un pittore. Vedo però delle Tune In / 21 connessioni nel processo di creazione. Essere di fronte alla tela bianca o a un file ProTools vuoto mi causa la stessa la stessa esitazione e richiede lo stesso impegno e la stessa ricerca interiore di raffinatezza. In questo modo musica e pittura sono collegate per me. Certamente i mezzi dono diversi e fanno emergere idee differenti dallo stesso artista; in questo momento sono più interessato alla musica come mezzo di espressione, ma non mi basta del tutto. Continuo a lavorare come graphic designer e a dipingere con penna, inchiostro e matita; trovo di averne comunque bisogno.” Questo ci confessa David sul rapporto tra pittura e arte visiva. Ma cos’è intercorso nel frattempo? È successo che David si è deciso a diventare (ritornare?) musicista, ha scoperto che il dominio davidstith.com è già occupato da qualcun altro e soprattutto che esiste già un David Stith musicista. Ha recuperato quindi il suo middle name – Michael – e ne ha accostato l’iniziale a quella del nome. “Nessuno mi chiama “DM”, è solo il nome del mio progetto musicale”. La parola “progetto” non può che farci drizzare le antenne, in materia di provvisorietà di linguaggi espressivi e di fotografie esistenziali. Ma ci torneremo. David completa subito – nel 2007 - una raccolta de suo primissimo materiale da songwriter e la chiama Ichabold And Apple. Tra sito e MySpace si può ascoltare qualcosa di quella produzione; ma la sua produzione è copiosa e monta in qualche mese decine di pezzi di materiale. Shara, ancora una volta mentore dell’amico, indirizza David alla Asthmatic Kitty, label attenta a queste sonorità che intuisce probabilmente all’istante il potenziale di DM Stith. Più che un potenziale, poi, è già materiale vivo; in mezzo anno – tra dicembre 2007 e giugno 2008 - David pensa scrive suona realizza registra i brani che poi compariranno nel suo primo EP e nel suo primo album. L’EP si chiama Curtain Speech e vede la luce nel dicembre 2008, ovviamente per i tipi asmatici. Il disco contiene già i semi dell’album che pubblicherà di lì a qualche mese; risultano lampanti le differenze tra la produzione laterale che il web ci 22 / Tune In concede di DM Stith – “solo esperimenti” - e quello che poi finisce nei dischi ufficiali. L’incedere ci ha ricondato subito da un lato i Black Heart Procession, dall’altro il mondo Devendra Banhart. “Mi piacciono sia i Black Heart Procession (il cui album 3 secondo me spicca nella loro produzione, e fra l’altro è stato anche mixato da Rafter!) che Devendra, ma non li ho mai considerati tra i miei principali riferimenti. Probabilmente, invece, io e loro condividiamo le stesse influenze. Non saprei dare dei nomi precisi. Preferisco focalizzare il discorso sull’ispirazione che ho tratto da scrittori come Herman Hesse o Frederick Buechner per fare qualcosa di più “crudo”, e per le conclusioni a cui sono arrivato. La produzione mi ricorda una vecchia registrazione dei Muppets che possiedo. Noto invece che alcune mie costruzioni vocali hanno come riferimento Mary Margaret O’Hara, nel modo in cui gli accidenti e le peculiarità riescono a parlare e dare forma ai momenti in cui ripartono i miei crescendo”. Proprio a proposito di letteratura, lyrics e di costruzioni linguistiche, ascoltando il flusso-arpeggio di Abraham’s Song (Firebird), all’interno di un verso dello “stornello”, fa la sua comparsa il titolo perfetto per la musica di DM; “Heavy hammer, heavy ghost, firebird, firebird…”, dice il verso, e preannuncia quel Heavy Ghost (Asthmatic Kitty) in uscita a marzo 2009, di cui riferiamo in questo numero di SA, n°53. Abbiamo anzitutto una conferma, che nasce da due parole quasi antitetiche che sopra abbiamo già usato. Il “flusso” e la “canzone”. Sembra quasi che tutta la produzione di David si giochi nel limbo che misteriosamente unisce queste due categorie musicali, la seconda delle quali di molto collegata al soul degli anni Cinquanta. mimando cantanti del passato che ho amato, o semplicemente addestrandola e allenandola. Se vi riferite, per quanto riguarda il “flusso”, ai brani presenti sul mio MySpace, quelli sono vecchi demo, parte del processo di creazione che mi piaceva segnalare”. Ma è proprio quel processo che si insinua anche nella canzone più organicamente organizzata. E lo strumento principe è proprio la produzione, il lavoro di aggiunzione o di cesello, operato proprio da DM per i suoi dischi. “Ho prodotto io il mio disco! Tutti i suoni sono registrati da me, scritti da me, arrangiati da me. Rafter li ha mixati, con le sue orecchie magiche. Ha aggiunto un sacco di senso di spazio, necessario al mio suono. In generale comunque tendo a registrare moltissime idee e ho ancora qualche problema a sistemarle, selezionarle, per chiudere un mix pulito. Da questo punto di vista, lavorare con Rafter è stato utilissimo”. Il processo dunque è una sommatoria di elementi che creano un effetto di montaggio, nel senso della panna montata. In quel processo, la fotografia è una canzone estratta dal flusso. Paradigmatico il caso di Pity Dance, brano dove è indecidibile la propensione verso una forma o l’altra. E in realtà l’individuazione di tale oscillazione tra flusso e forma canzone nasce dal tentativo di questo articolo, cioè immortalare un flusso di creatività; alla fine quello che emerge dall’ascolto è il talento cristallino di Stith, le sue capacità disarmanti di compositore della ambiguità canzone-flusso. Ma dopo tutto, tornando all’idea di “progetto” dietro DM Stith, è lecito domandarsi quanto durerà tutto questo. DM Stith è un’istantanea di David Michael Stith o la fotografia del culmine del suo percorso? “Le differenti forme d’arte si alimentano a vicenda. Non vedo la mia musica come un culmine di una crescita e di un impegno artistico, ma di certo è stata una parte importante del progresso. Dal momento che sono stato timido e poco propenso a fare e condividere la mia musica per moltissimo tempo, fare in modo che quella parte di me oggi venga conosciuta è stato incredibilmente liberatorio ed entusiammante; mi ha fatto conoscere aspetti della mia arte di cui non ero al corrente”. Insomma, pur superato lo scoglio e la timidezza, la domanda è rimasta comunque parzialmente inevasa. Aspetteremo un suo concerto per avere elementi in più per darci a nostra volta una risposta più compiuta. A quanto ci ha detto, plausibilmente lo vedremo in Italia, dal vivo, a maggio. Difficilmente apprenderemo la conferma della notizia con indifferenza. “È una questione difficile da sviscerare. Credo che la mia soul-ness provenga dal modo in cui canto ora. Mi sono molto divertito a osservare quello che la mia voce può fare, Tune In / 23 Nicolas Vernhes Rare Book Room La biblioteca analogica Da più di dieci anni Nicolas Vernhes cura il sound di alcuni dei gruppi di punta della scena newyorkese. La nascita della sua nuova label ci ha fornito il pretesto per una breve chiacchierata. Se un giorno vi capitasse di ritrovarvi a ciondolare senza meta dalle parti di Brooklyn & co. sappiate che potreste incrociare la strada che conduce al Rare Book Room Studio ed imbattervi in alcuni dei leggendari personaggi che in tempi recenti hanno popolato l’immaginario della east coast. E se quelle stanze insonorizzate e avare di finestre non trattenessero abbastanza decibel, ne udireste anche le gesta sonore. Di lì a breve un piccolo truman show potrebbe dispiegarsi davanti ai vostri occhi: l’ombra sottile di Bradford Cox, chitarra in spalla e dito sul citofono, il passaggio della bella Eleanor Friedberger, capelli freschi di phon e foulard infiocchettato intorno al collo e, infine, la parata degli Animal Collective, in gita da Baltimora con un seguito di freak friends. Nato nel 1995, il RBR ha visto passare in sala regia un esercito di nomi legati ad alcuni dei migliori dischi brucia-ipod dell’ultimo decennio: Se24 / Tune In - Francesca Marongiu cret Wars degli Oneida, Gallowsbird’s Bark dei Fiery Furnaces, Creature Comforts dei Black Dice, Cryptograms e Microcastle dei Deerhunter, per non citare che i più noti. E il boss Nicolas Vernhes negli ultimi tempi ha deciso di rischiare di più, affiancando allo studio di registrazione una label dal nome omonimo, che ha già all’attivo l’esordio di Palms e Lia Ices. Nostalgici ed elettrowave i primi, di catpoweriana memoria ed infinita grazia la seconda, hanno partecipato insieme ad alcuni dei gruppi sopra citati alla compilation inaugurale dell’etichetta: Living Bridge (recensita su SA n.51), che è stata solo il pretesto iniziale per una piacevole chiacchierata via mail con Vernhes: “Living Bridge parte da un intento promozionale e passionale; volevo inaugurare la mia etichetta con un disco che non fosse interamente riconducibile ad uno stesso genere e allora l’idea della compilation mi è parsa quella più plausibile. Per l’occasione ho contattato alcuni gruppi con cui avevo già lavorato e un po’ di gente nuova”. Ne è venuto fuori un mix (nel senso letterale della parola, dato che Vernhes ha cucito insieme tutti i pezzi con magistrale abilità) che ricorda un po’ le reunion tra ex-compagni di scuola. Seduti allo stesso tavolo troviamo un’egregia rappresentante della scena di Louisville (Tara Jane O’Neil, exRodan), uno di quella, più recente, del freak folk (Avey Tare), esponenti di punta della new wave dello shoegaze (Deerhunter, Telepathe) e altri ancora che, come i Black Dice, hanno anticipato di qualche anno il digital shoegaze di Growing e Fuck Buttons: “Ciò che lega questi gruppi e musicisti è che tutti sono pronti a correre il rischio che comporta il comporre buona musica e io ho voluto dare loro la possibilità e gli spazi per portare a termine i rispettivi progetti. Quando ho chiesto ad ognuno di loro di portarmi una can- zone, il mio proposito era di farli sentire liberi dalle tipiche dinamiche che si creano quando si registra un album in studio”. Tra tutti i brani proposti spicca la traccia di Avey Tare, I’m Your Eagle Kisser, un’apripista che fa ben sperare, tra visceralità e goliardia, freakedelica e per nulla nostalgica: “Dave si è presentato in studio con un pezzo su cui stava lavorando e lo abbiamo arrangiato insieme, strumento per strumento. È stato molto semplice, lui è un ottimo musicista, quindi è stato un piacere stargli dietro”. Ma non si va oltre con le confidenze sui gruppi che hanno lavorato lì, men che mai sui Fiery Furnaces: “Non posso raccontarti aneddoti su di loro. In studio sono come un prete in un confessionale. Quel che accade lì è strettamente riservato!”. Spostando invece il discorso sulla scena di Brooklyn e dintorni, cerchiamo di provocarlo riguardo a un punto che ci sta particolarmente a cuore: le parole di Martin Rev sulla fase attuale del rock, definita da lui come “interpretativa” e sulla sensazione che dalle parti della east coast escano probabilmente alcuni dei dischi migliori degli ultimi tempi, ma che comunque non si faccia la storia: “Sono pienamente d’accordo, viviamo in una fase interpretativa del rock e credo che ogni musicista lo riconosca e cerchi di rapportarsi a proprio modo con tutto ciò. Ma, d’altro canto, oggi circola anche tanta vecchia musica e magari chi vi si avvicina può prenderla come unica fonte di ispirazione per la propria. Non parliamo, ad ogni modo, di fenomeni nuovi perchè molti gruppi lo facevano già in Inghilterra negli anni Sessanta, ascoltando il blues americano, che era la loro piccola, segreta, miniera d’oro. È da lì che è nata la commistione di generi diversi come il rock, il folk e il blues Oggi abbiamo bisogno di alleggerirci dal peso della storia quel tanto che ci permetta di aprire una porta sul futuro della musica. Se si pensa che l’hip hop è stato l’ultimo grande genere musicale inventato…Per quanto riguarda Brooklyn e la East Coast, alcune città da cui escono le così dette “scene” non sono poi le uniche note per esportare nuovi sound. C’è da aggiungere che quelle più in vista, come Philadelphia o Baltimora, sono economiche. Là un musicista può davvero vivere con pochi soldi e ha, di Tune In / 25 conseguenza, più tempo da dedicare alla musica. New York invece è molto costosa, anche per chi vive nella periferia più remota ed è quindi difficile trovare un posto dove vivere e provare senza spendere molto. C’è ovviamente anche gente coraggiosa che viene qui con il sogno di suonare nella grande città e grazie alla propria creatività se la cava bene”. Ma qual’è la discriminante che rende un disco più o meno riuscito, più o meno in grado di influire sulla storia? “Un album funziona quando è ispirato da una sorgente emotiva forte che incontra una struttura che coinvolge l’ascoltatore nello sviluppo del pezzo, a differenti livelli, simultaneamente.” E parlando dei punti di riferimento principali nel suo percorso di fonico e producer: “Mi piace tutta la musica che si trasforma nel suo svolgersi e riesce, allo stesso tempo, ad essere ipnotica. Nel caso si tratti di un gruppo che viene in studio, deve comunicarmi la sensazione che stia accadendo qualcosa di importante mentre sto registrando. Se poi penso ai dischi che rappresentano un punto di riferimento nel mio percorso musicale, bè, la lista è lunga: dai The Kinks di Arthur Or The Decline And Fall Of The British Empire a Safe As Milk di Captain Beefheart, dalla Brigitte Fontaine di Vous et Nous ai Circle di Sunrise. E poi Sonny Sharrock, Jacque Dutronc, Gainsbourg (escluso il periodo reggae), Scott Walker…”. Alcuni dei dischi che hai citato hanno dietro una produzione impeccabile, c’è una cifra particolare che è data dalla mano del maestro…Ciò vale per i dischi prodotti al RBR? “Le persone dicono che i dischi registrati al RBR hanno un suono specifico. Io non me ne accorgo, come nessuno può accorgersi del modo in cui la propria voce viene percepita all’esterno. Penso che gran parte del merito del suono “RBR” sia da attribuire ai musicisti con cui ho lavorato, davvero ispirati, in gamba e con un minimo di bagaglio tecnico. Qualità essenziali per riuscire a catturare i “momenti musicali” in cui emerge la vera personalità di un gruppo”.E Brian Eno, qual’è il suo segreto? Da qualche parte ho letto che ti piacerebbe molto lavorare con lui… “Il segreto di Brian Eno risiede nella sua intelligenza e nell’estrema abilità nel coniugare, all’interno del processo creativo, le proprie emozioni, la psicologia e la tecnica”. Non si sbilancia più di tanto, Vernhes. Gli chiediamo allora una top 3 di congedo sui dischi del 26 / Tune In 2008…“Quest’anno ho lavorato così tanto che non ho avuto il tempo di ascoltare molti dischi, a parte quelli ai quali ho lavorato e quindi è un po’ difficile rispondere. Dando un’occhiata su Itunes posso dirti che compare un solo disco del 2008 ed è Visiter dei The Dodos… Il resto è tutta musica più vecchia come Es Liebt Dich Und Deine Korperlichkeit Ein Ausgeflippter degli Workshop e Shake Sugaree di Elizabeth Cotten”. Breve cronistoria discografica: Silver Jews - American Water (Drag City/ Domino, 1998) Il Rare Book Room è aperto da appena tre anni e a Vernhes capita tra le mani uno dei dischi più importanti della prima stagione del cantautorato indie pop, nonché punta di diamante della discografia di David Berman. Per l’occasione il Nostro è tornato in coppia con l’amico Malkmus, che nel 2007 sarà di nuovo al RBR per registrare Real Emotional Trash. David Grubbs - The Spectrum Between (Drag City, 2000) Ad un anno dallo sciogliemento dei Gastr Del Sol, Grubbs aveva contattato Vernhes per registrare Coxcomb. Nel 2000 ritorna per realizzare il primo dei suoi dischi più fluidi e accessibili, The Spectrum Between, opera post camoufleuriana dove troviamo un po’ tutto quello che negli anni a venire sarà un bel tormento: fingerpicking faheyano, contrappuntistica jazz, Nick Drake, country-folk e corteggiamenti brasiliani. Ma la collaborazione non si chiude qui: si tornerà in studio altre due volte in un paio d’anni: la prima insieme a Loren Connors per Arbovitae, la seconda col gigante Gustafson per Off Road. Black Dice – Beaches And Canyons (DFA, 2002) Nell’autunno del 2001 i Black Dice entrano per la prima volta al Rare Book Room e ne escono nel 2002 con il doppio vinile Beaches And Canyons. Opera rappresentativa di quel sound newyorke- se recentemente esportato oltreoceano, Beaches è forse il miglior album del dado nero, probabilmente perché tanto quel percussivismo astratto e pervasivo, quanto quel suonare-non suonare-campionare fanno toccare alla “fase 2” dei Black Dice il suo apice già al primo colpo. Il gruppo è tornato in studio di recente per registrare Repo, che uscirà i primi di aprile. The Fiery Furnaces - Blueberry Boat (Rough Trade, 2004) L’anno prima i fratelli Friedberger gli avevano affidato le sorti di Gallowsbird’s Bark, caleidoscopico esordio in cui il duo di Chicago mostrava già tutti i motivi che avrebbe sviluppato nei dischi successivi: un music hall ossessivo e schizofrenico come solo i Residents, capace di rileggere tanto Velvet Underground e Who, quanto Beatles, Bowie e il miglior garage rock, confezionandoli in un’ estetica glamchic aggiornata agli anni Duemila. Blueberry Boat si arricchisce di quel piglio elettronico scafato e ugualmente elegante che mette in risalto l’abilità di Vernhes nel cimentarsi sia con la forma acustica che con quella elettronica, di cui aveva già dato prova nell’esordio dei Fischerspooner. Deerhunter - Cryptograms (Kranky, 2007) Bradford Cox e soci hanno registrato i loro ultimi due dischi e un ep con Vernhes. Cryptograms rappresenta un’ opera incompiuta ma sottilmente affascinante e ciò è dovuto anche ad un sound diviso tra soluzioni kranky friendly e new wave made in uk. Psichedelia shoegaze e loop un filo krauti completano il quadro di riferimento. Successivamente la mano di Vernhes si affina, fino ad arrivare a Microcastle. Animal Collective - Strawberry Jam (Fat Cat, 2007) Il collettivo degli animali non dà il meglio di sé in questa prova, se non altro perché il rischio di ripetersi è spesso dietro l’angolo. Ma la produzione è impeccabile: evidentemente lavorare con Black Dice e Deerhunter è stata una buona scuola per Vernhes. Avey Tare e soci torneranno in studio per registrare l’ep che doppia i dubbi riposti su Water Curses,Strawberry Jam. Ma questo, si sa, esula dalle responsabilità di produzione. Tune In / 27 Lo spazio del suono pt. 2 Rafael Toral e lo Space Program - Vincenzo Santarcangelo 28 / Drop Out Lo abbiamo letto nel primo numero di questa rubrica: Ralph Steinbruechel non si considera un sound-artist, sebbene gli ambienti che accolgono le sue performance sono prevalentemente quelli di gallerie, fondazioni, spazi espositivi. Spazi aperti o spazi delimitati da mura: in ogni caso, spazi con i quali interagire, che finiscono per funzionare da strumenti addizionali per la performance. Ancor meno si può definire sound-artist il portoghese Rafael Toral, i cui spazi - gli spazi entro cui il suono si sprigiona - sono quelli angusti dello studio di registrazione allestito nella sua abitazione privata di Lisbona, o quelli di concert-hall da post-free-jazz-electronic music - come il portoghese ha definito la nuova declinazione del suo fare artistico. Il fatto è che il suono di Rafael Toral è divenuto da un po’ di tempo a questa parte qualcosa di maledettamente indefinibile, una materia ostica e sfuggente che ad un primo ascolto non può che disturbare o lasciare sconcertati. E al contempo, il rapporto tra quel suono e spazio è diventato uno dei punti cruciali attorno a cui ruota la nuova fase artistica del portoghese. È ormai cosa nota: Rafael Toral, considerato fino a qualche anno fa uno dei massimi interpreti della chitarra sperimentale post-2000, ha inaugurato a partire dal 2006 un nuovo programma di ricerca che lo terrà impegnato almeno per altri tre anni. Lo Space Program consiste in una serie di sperimentazioni (strutturate in tre differenti capitoli: Space Studies, Space Elementse Space Solos, ed inaugurata da quella specie di manifesto programmatico che è stato, nel 2006, Space) che reperteranno su supporto discografico (cd, ma spesso e volentieri anche vinili) frammenti infinitesimali delle migliaia di ore di musica realizzate nello studio di Lisbona dove l’artista lavora da anni - nella migliore tradizione del tecnico del suono - a dispositivi e generatori di onde sonore personalmente brevettati. Spazio è qui parola da accogliere nel pieno della sua valenza polisemica - e ovviamente, il pensiero non può che andare a Sun Ra. Spazio è l’estensione illimitata o la porzione di universo - il mezzo della fisica acustica - entro cui il suono si propaga. Spazio il luogo privato in cui sentirsi a casa propria - lo studio in cui l’artista sperimenta senza remora. Spazio l’avamposto ideale di infinite possibili civiltà aliene - lo Spazio, con la S maiuscola, attorno a cui ancora timidamente fantasticavano i primi film di fantascienza, l’ecosistema, con tanto di fauna, di una galassia sconosciuta - riuscite a figurarvi cosa sarebbe successo se Olivier Messiaen avesse compilato il Catalogue d’Oiseauxsu un altro pianeta (mr. Merzbow può forse venirci in aiuto)? Lo Space Program, ci racconta Toral, che abbiamo interpellato per cercare di fare chiarezza su questo ambizioso progetto, ha in realtà a che vedere con la mancanza di spazio, più che con lo spazio. Un problema tipicamente moderno, quello della carenza cronica di spazio. «Nel corso delle nostre vite moderne siamo ormai abituati a fronteggiare il problema, quanto mai pressante, di una scarsità cronica di spazio. Spazio mentale, spazio fisico, spazio acustico, spazio visuale, addirittura spazio musicale: tutto è diventato pieno, occupato da oggetti, e così il vuoto, o il silenzio finiscono per essere percepiti come beni di lusso. Siamo disposti a sborsare cifre da capogiro per procurarcene». Quando parla dei progetti che lo terranno impegnato nell’immediato futuro, Rafael Toral è un fiume in piena. Lo Space Program non è giunto, con Space Elements vol. 1, che al terzo capitolo. In quel disco, una sorta di classico trio post free-jazz ma che a strumenti acustici affianca le frequenze dell’amplificatore modificato MT-10 Bender (protagonista di un brano dello Space Solo 1), propone una musica che lo stesso Rafael Toral ha definito post-free-jazz-electronic music e che ha contratto un debito con il sistema elaborato da Sei Miguel, compositore, direttore, trombettista che, a detta di Toral plays his trumpet with complete awareness of the whole Jazz history while dealing, as a music director, with the Drop Out / 29 full spectrum of sound sources in a broad range of innovative (and often strange) solutions, including frequent use of electronics. Nella serie degli Space Elements - ci spiega Toral - ogni singolo materiale registrato è utilizzato come elemento compositivo, compresi quelli provenienti da musicisti ospiti. La gran parte delle registrazioni sono state fatte singolarmente, per alcune tracce i musicisti addirittura non erano a conoscenza, al momento delle registrazioni, di quale sarebbe stata la resa finale. Vi è stata interazione fisica tra musicisti solo per quanto riguarda la prima traccia, nella quale io e Rute Praça abbiamo suonato insieme, e per la traccia sette - un’interazione live di un duo composto da me e Margarida Garcia Dal vivo, invece, l’attenzione si sposta dalla composizione alla performance. Per fare in modo che ciò avvenga, preferisco lavorare con musicisti che abbiano consapevolezza dei principi dello Space Program - chi ha già collaborato con Sei Miguel è infatti solitamente il benvenuto, dato che lo Space Program si ispira al suo sistema. È facile farsi una ragione della reazione offesa provocata dall’ascolto di Space Solo1e Space Elements vol. 1, primi due capitoli dello Space Program dopo il manifesto programmatico Space (Staubgold, 2006); di quella, sprezzante, di chi ha sentito tirare in ballo il jazz - ma cosa ha da spartire, il jazz, con i monologhi autistici di macchine improvvisate? - a proposito dello Space Program. Poi osservi Rafael Toral armeggiare con quelle macchine e torni a riflettere sul rapporto che intercorre tra gesto, comunicazione, spazio e suono. «Sono molto interessato al problema dell’origine della musica - spiega Toral - mi affascina l’idea di avere a che fare con suoni essenziali, prodotti per necessità. Penso agli ominidi che comunicavano tra loro con un misto di segni e vocalizzi ad alto contenuto emotivo, spesso dotati di musicalità. Il fatto che stia cercando una sintassi che strutturi un nuovo linguaggio musicale non fa che ricondurmi alle origini del suono». 30 / Drop Out Osservando le macchine di Rafael Toral, e il loro strano funzionamento, ci si torna ad interrogare su quale sia, precisamente, la natura di quelle interfacce tra uomo e segnale che i libri e le scuole ci hanno insegnato a chiamare strumenti. Lo Space Programpuò essere considerato un contributo alla riflessione sul ruolo delle interfacce, forse non consapevole, sicuramente di tipo intuitivo. È lo stesso Toral a confermarlo: «Si è trattato più che altro di una evoluzione naturale. Non credo di poter ricavare stimoli dalle riflessioni che si è soliti fare guardando al laptop come ad un valido dispositivo per generare suono; trovo anzi che sia uno dei più inadeguati strumenti che siano mai stati utilizzati per fare musica». Spesso la musica che nasce da una ricerca consapevole su nuovi strumenti rischia di diventare inconsistente. Quello di Rafael Toral è invece un tentativo di rispondere a domande essenziali, quasi banali nella loro essenzialità: dispongo di un nuovo strumento, che utilizzo ne farò? È possibile generare una nuova grammatica per strutturare un discorso musicale? Cosa condiziona la mia decisione di procedere da un suono ad un altro? «Mi sembra piuttosto naturale considerare la performance come quella attività in grado di coinvolgere il corpo del musicista e stimolare una gestualità - una serie di gesti all’interno di uno spazio». Lo Space Programè frutto di un intelligente domandare su temi che assillano da secoli i teorici della musica. L’improvvisazione, ad esempio. Perché Toral, nel momento in cui doveva presentare lo Space Program, ha parlato di jazz? Che reazione si aspettava dai puristi? «Nutro sospetto verso l’ideale del purismo, ma capisco che parlare di jazz sia parso un affronto perpetrato a danno degli appassionati del genere - i quali, immagino, non mi riserveranno troppe attenzioni. La mia intenzione è di generare suoni elettronici tramite performance basate su decisioni prese all’istante; avevo bisogno, a questo scopo, di una vera e propria forma di disciplinamento, anche perché avrei suonato strumenti con una tecnica del tutto inedita, senza servirmi dei software abituali e usando liberamente l’intero spettro delle frequenze - nessuno spazio concesso ad accordi o a scale. Tutto ciò è già stato fatto innumerevoli volte, ma non nel campo dell’elettronica - la storia dell’elettronica, dunque, non poteva fornirmi alcuno spunto utile». Non restava allora che rivolgersi a tecniche ed insegnamenti provenienti da altri generi. «Se ho pensato al jazz è perché si basa su decisioni individuali regolamentate da una sorta di austera disciplina. L’approccio personale al suono ed alla musica, l’importanza conferita al fraseggio inteso come unità significativa minima, la capacità di prendere decisioni in tempo reale: ecco cosa accomuna lo Space Program al jazz. Quando suono penso esclusivamente in termini di fraseggio e di swing, non guardo alla mia musica come si trattasse della performance di un compositore». Toral non è un compositore, non un semplice ingegnere del suono. Un chitarrista sa come accordare lo strumento e come cambiare le corde, un batterista come accordare pelli. È normale per chi si occupa di musica elettronica avere competenze ingegneristiche, saper usare un saldatore o aggiustare un sintetizzatore. «In fin dei conti si tratta solo di avere dimestichezza con gli attrezzi che si utilizzano, con la materia che si manipola: prerogativa da cui nessun artista può prescindere. Tuttavia l’oggetto della musica è il suono (insieme al silenzio) e ritengo più utile approcciarsi ad esso attraverso le leggi della fisica che tramite concetti astratti come note o scale». I materiali che il musicista forgia sono il suono ed il silenzio: «La musica è come una moneta a due facce – il suono ed il silenzio – che ruota sull’asse del tempo. Il tempo è l’unico parametro che suono e silenzio hanno in comune. Non esiste più alcuna definizione esatta di cosa significhi oggi comporre; tutti i suoni sono generati manualmente, fisicamente, direi, su un fondale di silenzio». Drop Out / 31 BBreaks Lungo il continuum con Harmonic 313, Zomby, Lukid, Actress, Hudson Mohawke - Edoardo Bridda, Marco Braggion, Giancarlo Turra Stretta di mano tra Animal Collective e Zomby ed è subito remember di un’epoca che ritorna mutante e mutata in alcuni nomi contemporanei. Non solo. L’occasione è delle migliori per riflettere sulla non troppo famosa (da noi) teoria del continuum postulata da Sir. Simon Reynolds A lmanacco del giorno prima L’11 febbraio 2009 Simon Reynolds ha tenuto alla Foundation for Art and Creative Technology di Liverpool una conferenza sulla non troppo famosa teoria sull’Hardcore Continuum. Teoria espressa in una serie di articoli apparsi su The Wire prima e dopo le varie stesure del libro Energy Flash, che non è niente di meno dell’unica vera bibbia della generazione E. Uscito sul calar dei Novanta, il tomo di oltre 600 pagine storicizzava - prima di tutti e soprattutto in maniera vertiginosamente definitiva - tutti i moti dell’ultima grande generazione del dopoguerra. Quella che sentì Detroit pulsare di futuro e quella stessa che, passando per Ibiza, ballò e sballò a velocità supersonica per poi schiantarsi a terra e frantumarsi sotto le due Torri. Tutti oramai sanno tutto dei profeti americani della motor city come della 32 / Drop Out Chicago che diede vita all’House. Techno e House oramai sono cose scritte nei libri e pure la giovane Berlino di Allien e The Hacker, degli squat e della Parade ha oramai i suoi anni sul groppone. Eppure se questi concetti sono oramai ascritti e inscritti nella pietra a tutt’oggi la scuola Brit non gode degli stessi blasoni. Stranezza comprensibile o incomprensibile visto che il buon Reynolds la considera non a torto come la broda dalla quale tutta l’elettronica dance (e non) nacque e si sviluppò. Lo scorso anno parlavamo di un ritorno dell’Ambient: venata techno o di quella brutta parola, l’IDM, musica intelligente elettronica, chiamata così per distinguerla dall’hardcore dei ragazzetti sballoni. I “faceless bollocks”, i coglioni senza volto che ogni santo WE morivano di - e per - una musica decerebrata (punk), tutta uguale (punk), che tutti potevano fare (punk) e che risponde meglio di tutte al degrado di una nuova generazione di ragazzi con meno valori, meno obbiettivi e meno speranze di quella precedente (insomma: punk al cubo). Era l‘ardkore, rivoluzionaria per l’insieme dei cromosomi che forgiarono una genetica mutante. Diversa e affine dalla sua gemella nazi-metal belga. Un continuum, per dirla con Reynolds e Star Trek. A farla breve, finito il dominio dei dogmi Derrick May, Model 500 (ma anche gli Inner City), la sbornia di computer e modularità dell’ethos detroitiano che mantenevano un mercato in bilancio a prevalenza import, i ragazzi inglesi tirano fuori questo impasto tamarrissimo post aceeed e ancor più smaccatamente pro-chimica. Prima, è vero, c’era il bleep’n’bass, ed è noto quanto le prime produzioni WARP di Forgemasters, Sweet Exorcists o LFO siano debitrici a quelle Roland d’oltre atlantico. Soprattutto a quella serietà che il nuovo paradigma sfascia con perfetto spirito punk. Era un pasticcio strano di codici morse, voci pompate nell’elio, degerazioni di tastiere alla Derrick May con la ciliegina sulla torta di un elemento magico e anti-scientista: il break beat. Il campione rubato. Roba che viene anch’essa dall’America ma, ed è qui il bello, se gli Stati Uniti avevano creato Techno e hiphop, sono stati i kids in UK a unire i lembi del foglio black e a rivoltarlo sul lato white. Personaggi catalogati alla voce drum’n’bass e IDM come Liam Howlett (Prodigy), gli Autechre erano nati B-boys e cresciuti adorando i bassi dei ghetto-blaster, quegli scatoloni di plastica con le cassette e le mille leve. I pulsantoni e le mega casse. È sempre e comunque Il bass, lo stesso che inizia ad esseDrop Out / 33 re una scienza con LFO e Sweet Exorcists e che conduce lungo varie ondulazioni al Dub-Step. Ma dai modi più stravaganti e hand-made per far tremare i vetri della disco al campione di Funky Drummer c’è un salto, l’Hardcore, scritto con spelling volutamente ignorante e proletario in ‘ardkore perché una botta in faccia che sale dal basso, in tutti i sensi. Bleep sta pur sempre a Kraftwerk e la Centrale elettrica tedesca trasportata a Detroit, città di motori. Brum Brum futurista a chiusura del Novecento, dove ‘ardkore fa rima con you know the score. Ed è slang hip-hop che strappa da quella cultura il cuore della faccenda: il campione. Che, attenzione, può voler dire strategie per ottenere il basso scientificamente più detonante possibile (LFO) ma anche altro. Molto lontano dall’ideologia che sta dietro al sound computazionale Techno, porta a un campione di Sesame Street (Smart e’s, Sesame Treet) o ai dialoghi di Star Trek (Mr Kirk’s Nightmare, 4 Hero). E un Hardcore Hiphop break - velocizzato per bene da Shut Up And Dance via Mantronix - causa un’epilessia nuo34 / Drop Out va. La quale avrà nei Cold Cut (Beats and Pieces, 1987) dei profeti del funky drummer di James Brown per estendersi fino al funk e ai post-modernismi da classifica del Beck in combutta coi Dust Brothers, giusto per citare un esempio per tutti. Anni di crossover i Novanta ricordate? Così come Pump up the Volume dei M/A/R/R/S e Theme from S’Express di S’Express erano la roba seminale che preparava il terreno albionico alo scossone, l’ardkore. Cromosomi nuovi che traducono, amplificandoli, gli effetti dell’MDMA tagliato con lo speed e ne sono diretti boomerang sonici. Più che no future è euforia oltre-epilettica. È pronto alla dark side, come dice Reynolds ma, per quel che ci interessa, creativo e povero nel senso dei mezzi, due spiccioli e un’idea - anche scopiazzata, anzi: decontestualizzata - che muta in altro per puro sbaglio lasciato nel mix. E nel mix non dimentichiamo la Giamaica e il suo dub, altra scienza che gravita potentemente intorno ai break veloci e getta un altro ponte, tutto inglese questa volta, tra i neri con i joint e i bianchi pieni di E. Il cerchio base è pronto per il salto temporale in un 2009 che inizia con fatti assai curiosi come il seminario di cui sopra e un articolo, sempre del Nostro critico albionico preferito, dove scopriamo un aneddoto succulento. Ovvero che gli Animal Collective, ancora sull’onda del nuovo Merriweather Post Pavilion, additano un oscuro dj-produttore dub-step a loro mito e ne ostentano le affinità in una mentalità votata al loop e al(le) pastiche. È Zomby il cui album/caso Where Were You In ’92, entrato per il rotto della cuffia pure in diverse classifiche di fine anno, riporta in vetta le sonorità del periodo ‘ardkore old skool dal ‘90 al ‘92. Il biennio d’oro, la fase all’elio prima delle nubi nere che avranno la meglio col semi-gabba (via Belgio e Beltram), cui seguiranno schianto e ricomposizione (la minimal) da una parte, e dall’altra il nuovo punto fermo del continuum: Jungle e drum’n’bass. L’album di Zomby è un prodotto studiato a tavolino e lo stesso ragazzo brit che lo abita ci ha fornito nomi e cognomi, fatti e connessioni. Le etichette sono Formation, Ibiza e Music House. I nomi Manix, Acen, 2 Bad Mice, Origination, Noise Factory, Hackney Hardcore, Lennie De Ice. Da buon carbonaro ha tralasciato tante cose, particolari importanti ma che importa. La cultura White Label è l’opposto dello stardom, e per l’inedito più recondito c’è sempre il peer to peer a farla finita coi segreti assoluti. Che a dire il vero non ci sono mai stati, ragion per cui il segmento minimo ci interessa ancor di più perché chiave d’accesso per entrare e modificare il continuum. Prima di parlare della sua connessione, dunque, è doveroso salire in cattedra. B it G enerations Suonano parecchio simili nella lingua inglese, le due parole su cui ruota questo articolo. E, cosa ben più importante, rappresentano i pilastri di un’ampia fetta degli ultimi trent’anni di musica o poco meno. Bit e beat: frammento e ritmo. Entità che più distanti tra loro non potevano sembrare fino all’avvento dell’hip-hop. Finché ci rendemmo conto che un passaggio estratto da un disco altrui e ripetuto - manualmente o campionato faceva poca differenza - poteva tramutarsi in cosa totalmente altra rispetto all’originale. Qualcosa che con gli Shut Up And Dance figliati dai Public Enemy decollerà fino al “cartoon sound” ardkore. Parola chiave: accelerazione frenetica di vita e consumi nella quale siamo immersi; velocità addizionata speed che porterà il continuum alla drill di Aphex o Squarepusher come agli astrattismi degli Autechre. Gente lontana dai furti di strada - il funky drummer - eppure così vicina ad essi. Bit e beat infatti sono le chiavi anche per loro, le stesse degli hip-hoppers nei parchi di New York, magari addizionate di futuro e chimica, ma il meccanismo incubatore è lo stesso. In mezzo a questo varco c’è l’ardkore in Inghilterra e l’hiphouse della grande mela, ambedue zone franche, specie la prima dove non c’è ego né brand e tutti copiano, pardon campionano. La magia di tutto ciò è che Erik Satie e Brian Eno valgono tanto quanto Grandmaster Flash o Steinski. E la musique concréte di Pierre Henry, passando per i Muppet e Spock, arriva alle masse ed entra in ogni casa. Pop non stop e tanti saluti all’accademia. Che si tratti del rumore di piatti e bicchieri di un café o del ronzio di fondo di un aeroporto, di drone chitarristico o polvere di glitch, di scratching sul giradischi o collagismo che più funky si muore, il frammento coagula le infinite potenzialità dell’attimo. È un autentico e multiforme ipertesto che rinasce continuamente, diverso eppure uguale in forma e spirito. Prima si accennava a Funky Drummer di James Brown, break ritmico per eccellenza che torna in Ottanta e Novanta, alla base dei Public Enemy di Fight The Power e di acid e ’ardkore. Come un virus vivente decurtato di ogni legame di sangue, ci porta fino al ponte dove gli Animal Collective e Zomby s’incontrano e si scambiano i complimenti. In quel bit e in quei beat reiterati ci sono elettronica e collagismo, mutazioni genetiche e anomia (“ma anche” anemia). Tutte caratteristiche dalle quali partono entrambi e alle quali entrambi ritornano in un rito che ha tutto del pre, più che post adolescenziale. Ma non è tutto qui. Il presente è anche Harmonic 313, incarnazione del noto ex ambientale Mark Pritchard. Altri sono il legami che legano ciò che oggi è cool alla broda primi Novanta. Curioso, se non addirittura sublime, il ritorno a casa Warp di sonorità b-boy Drop Out / 35 che in un sol colpo coronano i tre decenni di anniversario e ricongiungono gli ’80 ai ‘90. In When Machines Exceed Human Intelligence tornano i calcolatori di Forgemasters e LFO - quindi Detroit e Krafwerk in un sol colpo - e quell’atteg giamento da cultura del ghetto, mutante e mutata come le deviazioni estreme di casa Anticon. In altre parole, sono Break beat e tastiere analogiche, l’altra faccia del ritmo looppato e programmato delle scuole intelligenti. Drum machine Roland o Korg e le beat box. Sempre su WARP, il nuovo e.p. di Squarepusher altro non è che il secondo omaggio dichiarato all’ardkore, meno ovvio di Zomby per via di quel tipico taglio intelligent, ma altrettanto evidente. Breakbeat e origini dunque anche per lui e, sempre a proposito di nuove uscite della casa, ecco un Hudson Mohawke a ripescare vocine in elio, battuta sincopata e un bel cappuccino Anticon. C’è proprio voglia di soffiare all’etichetta non solo le caratteristiche che l’han36 / Drop Out no resa famosa, ma addirittura reinnestarle nei circuiti che una volta conversavano direttamente con l’hip hop. Adorabile Hudson quando (probabilmente) campiona o rifà l’attacco di Stings Of Life di Derrick May in Speed Stick ed emblematico lo svolgimento del brano con la comparsa di vocine di bambini dallo spazio come un Aphex o dei Boards Of Canada. Come dire: le tradizioni e le contaminazioni da manuale. Di fatto, per il nuovo nodo del continuum è ancora presto ma chissà, con la vita spericolata e iperaccelerato di oggi. Per la riscoperta dei basamenti del ritmo Novanta troviamo della Drum’n’Bass che torna praticamente com’era. Prima un Roni Size che rifà se stesso (New Forms 2, Mercury 2008) e poi una manciata di echi dei lussi e della velocità del suono morse hardcore (Prodigy e 4 Hero fino a Goldie). Redivivo quel classico rullante in Commix (Fabriclive 44) e nell’album di Utah Jazz It’s A Jazz Thing, dove brillano pure i campioni vocali in stile A Guy Called Gerald (altra bella ristampa di qualche tempo fa Black Secret Technology, A Guy Called Gerald Music, 2008). Non possiamo nemmeno tralasciare quell’humus di cui Zomby fa parte, il Dubstep fi- glio dei precedenti e che, tecnicamente, non è mera isola ma snodo del continuum, provetta in sottrazione di battute e basso ‘ardkore. Che questo stile ritorni in pasto alla Techno detroitiana non sorprende, anzi concilia. Oltre atlantico la Techno ritrova il basso tosto e a Nord d’albione, dice Reynlods, le produzioni house tagliate sempre più funky stanno aumentando. Funky drummer is back and proud. W arp A t W erk Nel calderone delle re immersioni focus quasi ovvio per l’intorno di Mr. Zomby ovvero l’etichetta Werk che assomiglia tanto (ma tanto) alla Warp all’inizio. Ancora giovane l’etichetta piace proprio per questo incrocio dei pali che la Warp stessa attraverso i suoi nuovi acquisti non vuole farsi scappare. Zomby, Actress e Lukid fanno tesoro di lasciti hip e hop, ambient house (a proposito ricordiamoci che Mark Pritchard era con Middleton nei Global Underground), idm, e ovviamente break beat. Il mix ha il taglio mentale Warp come le influenze electro che virano verso il dubstep sono roba della Muziq. Ma parliamo di quel piccolo gioiello che è Hazyville di Actress Roba che urta dietro la quale c’è Darren J. Cunningham, mezzo capoccia della label assieme all’amico DJ Gavin Weale, uno a cui piace l’automazione del groove in stile ambient house primi novanta: cassa ovattata e snare d’antan. Quella di Hayville è IDM che punta direttamente a certa house in bassa battuta ma che - badate bene - non è sci-fi. Lui fa il sub nei mari del groove e, furbescamente, giostra di cesello gli ingredienti. La dose giusta al momento giusto che in Crushed ricorda da vicinissimo gli Antares dell’indimenticata Omniverse. Parlando di ambient, nel quartiere centrale della Werk bazzica Lukid a.k.a. Luke Blair con il suo Foma. Una chicca per teste cresciute a pane e Boards Of Canada il suo secondo album che dopo Onandon è una faccenda che sa di jazz, elettronica e funk con spalmate d’unguenti Prefuse 73, Dabrye e Flying Lotus. Nel titolo non sfugge, ai più attenti, il riferimento al postmodernismo di Kurt Vonnegut e Foma è sinonimo di bugia, nondimeno il il ragazzo di fandonie non ne smercia. Anzi: i suoni prendono forma dall’estetica Werk e impastano tutto con una spolverata delle recenti visioni Animal Collective. O utro Così, sul calar degli anni zero, tante cose ritornano a poppa. I classici cicli e ricicli portano a galla connessioni urgenti come quelle tra house/ techno e hip hop/electro. E proprio come a inizio Duemila assistevamo a un’ondata di ventenni in riarmo post-punk, ora la fiamma brilla per ciò che diede origine all’ardkore e al suo continuum. Non di meno, alcuni segnali arrivano pure dagli ambienti più propriamente hip hop, anch’essi in ricarica old skool (vedi Cool Kids ma anche per certi versi i Kill The Vultures con la loro typewriter beat box e campioni d’antan). Saranno le lezioni di Grandmaster flash e Steinky di nuovo in ristampa e riflettori a far da echo. Saranno i soliti miraggi di noi scribacchini ma, fateci caso, sono proprio i momenti più autenticamente punk e le loro scosse di assestamento che fanno e rifanno scoccare scintille. Detonazioni a distanza generazionali. Il presente dunque, anche quello ipertestuale d’oggi, è come allora, inconoscibile e servono perciò distanze e mitologie per reinventarlo e ricrearlo ogni volta. Certi momenti sono più coraggiosi di altri. è vero. Questo è un momento ancora di riesame del Novecento. Drop Out / 37 ►►►►recensioni ►► ►► marzo The Radio, che in effetti se la cavano bene senza però evitare un senso di effettistica posticcia, certo comprensibile vista l’irraggiungibilità dell’originale. Alla fine quei cazzoni dei (delle?) Scissor Sisters piazzano una Do The Strand che svapora e sculetta nell’allucinazione dancefloor che è un piacere, mentre occorre rendere merito alla graziosa Lily Allen di una caruccia Straight To Hell (non a caso la aiuta quel marpione di Mick Jones...). Quanto al resto, ordinaria amministrazione live per dei sudati Franz Ferdinand, ordinarie palpitazioni per Elbow, e poi tanto mestiere per Estelle, Peaches, Yeah Yeah Yeahs... Ok, vale la pena rinunciare ad una pizza e fare questa cosa buona e giusta.(6.8/10) Stefano Solventi hexlove AA. VV. - Dark Was The Night (4AD, Feb 2009) G enere : R ed H ot compil ation Æthenor A C Newman - Get Guilty (Matador, Mar 2009) G enere : power pop , indie Nel secondo album solista di A.C.Newman, alias Carl Newman dei New Pornographers, si precisa ancora meglio la sua cifraautoriale, fatta di sincera passione per il power pop e per i Beach Boys o permeglio dire il nume tutelare BrianWilson. Con tutte le derive del caso, che abbiamo imparato a conoscere viavia dal gruppo madre, ossia una non secondaria propensione per lo psych rock eper una folk-wave agitata da pulsioni, insieme al consueto gusto per lacitazione sparsa musical-letteraria. Ecco che Get Guilty appare come un melting pot che potrebbe essere stato partorito qualche anno fa dalla prolificità di unElvis Costello o di un Todd Rundgren beatlesiani più del solito (si vedano l’iniziale There AreMaybe Ten Or Twelve e la finale AllOf My Days and All Of My Days Off), mentre altrove 38 / recensioni fanno capolino omaggi più che dichiarati ai Felt nell’assolo di chitarra (Element), citazioni glam rock e soul a volontà, con una facilità compositiva e una leggerezza non molto dissimile d’altronde dagli ultimissimi pornografi. Newman conferma così la sua statura autoriale con un album che scorre via leggero ma sedimenta, lasciando il segno.(7.3/10) Teresa Greco AA. VV. - Warchild - Heroes (EMI, Mar 2009) G enere : pop rock Terza profusione di cover per la War Child, che casomai non lo sapeste è una ong dedita al sostegno dei bambini vittime dei catastrofici e demenziali conflitti in Medio Oriente e Africa. Non ci dilunghiamo certo sull’importanza di tale iniziativa, che travalica un milione di volte le mere questioni musicali di cui siamo soliti occuparci, ma appunto di cosucce soniche ci occupiamo e quindi non ci resta che guardare a queste quindici rivisitazioni con l’umile curiosità che si conviene al recensore/ascoltatore. Complessivamente è un ascolto agile, un modo come un altro di verificare lo stato delle cose tra concezione pop contemporanea e i fasti di un passato che qui riluce in titoli presi in prestito a Roxy Music e Stooges, Costello e Springsteen, Dylan e Joy Division, Bowie, Stevie Wonder, Beach Boys e via discorrendo. Ti aggredisce Beck - a occhio e croce il padrino della congrega - con una Leopard-Skin Pill-Box Hat che ruggisce glam rugginoso, cui fa eco più avanti un Rufus Wainwright perfettamente a suo agio coi setosi languori da camera e i singulti fiabeschi di Wonderful/ Song For Children, le due tracce più disinvolte assieme forse a una Transmission resa amniotica e pulsante assieme dai londinesi Hot Chip. Ovviamente la traccia che più mi incuriosiva era la bowiana title track, presa in cura dagli splendidi Tv On La Red Hot Organization riesce sempre a unire l’utile al dilettevole, dignitosamente. Per il suo ventesimo anno di attività nella raccolta di fondi per la lotta contro l’AIDS, l’associazione di beneficienza internazionale pubblica con l’aiuto della 4AD la sua ventesima compilation. E lo fa affidandone la cura e la produzione ad Aaron e Bryce Dessner dei The National. Il risultato è Dark Was The Night, ovvero 32 canzoni disponibili su doppio cd, triplo vinile o semplicemente in download. Ma oltre lo scopo umanitario dell’iniziativa, qui da lodare c’è anche l’ottimo livello qualitativo musicale, non fosse solo che a partecipare sono tutti i nomi migliori che il panorama indie, quello più introspettivo, potesse offrire. Questi alcuni protagonisti che tra cover (Nick Drake, Nina Simone e Bob Dylan), inediti, rivisitazioni e veri e propri duetti artistici onorano la causa: Andrew Bird, Dirty Projectrors & David Byrne, The National, Bon Iver, The Books & José Gonzales, Feist & Ben Gibbard, The National, Yeasayer, Iron & Wine, Antony, The recensioni / 39 Highlight Actress è Darren J. Cunningham, mezzo patron della Werk. Hazyville riprende i suoni subacquei e ovattati della house più cool targata 90. Dopo il No Tricks EP del 2004 il ragazzo ci spara tre quarti d’ora velocissimi e caldi, cose che hanno il groove nella testa; quei break che a molti ricorderanno i sorrisi balearici e le atmosfere soulful delle estati con il 9 davanti. Come bibliografia melodica ci sono i Boards Of Canada, mentre come sezione ritmica si pompano le low frequencies che è un piacere, perché la tendenza è questa. Ieri l’altro con gli anticipi del dubstep di classe, oggi si spara in orbita sua maestà the bass. Qui ovviamente non si calca troppo la mano sul drill energizzato, anzi, si crea un acquario da esplorare trattenendo il respiro. In questo downtiming subacqueo viene in mente pure la lezione della Ninja Tune con il campione Funky Porcini: una di quelle uscite che potete benissimo continuare a lasciare andare sul lettore e che non vi stancheranno. Piccoli maestri crescono. Forse il testimone è definitivamente passato di mano. La house ritrova le sue origini break (l’hi-hat in controtempo del singolone Crushed) e le ripensa mescolate deep-bass. Prevedere dove sarebbe andata l’ambient era dura. Qui abbiamo il vaticinio corretto. Brekbit all night long.(7.5/10) come ben sapete. Il programma dunque si profila come una sorta di anti-festival, opposto, incompatibile e tutt’altro che complementare a quello dei fiori proprio perché figlio di una situazione “reale”, da cui il rock zampilla come una finzione/reazione simbiotica. Quindi, secondo l’estro del caso, travolgente (Zu, il Teatro Degli Orrori) e dissacrante (Zen Circus), onirico (A Toys Orchestra) e convulso (Settlefish, Beatrice Antolini), amaro (Cesare Basile) e dolciastro (Disco Drive), trepido (Paolo Benvegnù, Roberto Angelini) e appassionatamente disincantato (Dente, Mariposa). Eccetera eccetera. Quasi dimenticavo i padroni di casa: più che una canzone, quella di Agnelli e soci sembra un manifesto necessario, una ballad più foga e sostanza che bellezza, pretestuoso anello di congiunzione tra dimensioni così lontane così vicine, con quel “e tu vuoi far qualcosa che serva” che chiosa il tutto come meglio non si potrebbe. Quasi dimenticavo 2: molto bella anche l’immagine di copertina. Chapeau all’iniziativa e - massì - alla musica.(7.3/10) Marco Braggion Stefano Solventi Actress - Hazyville (Werk Discs, Nov 2008) G enere : N arcotic B reakbeat H ouse Decemberists, Grizzly Bear, Sufjan Stevens, Arcade Fire, Spoon, Beirut, Yo La Tengo, Cat Power, Conor Oberst, Blonde Redhead, Kevin Drew, The New Pornographers, Buck 65, My Brightest Diamond, ecc. Insomma, la “notte sarà stata pur buia”, ma la Red Hot ha saputo bene come scaldarla con 32 bagliori se non salvifici, almeno consolatori(7.5/10) Andrea Provinciali AA. VV. - Afterhours presentano: Il paese è reale (Casasonica, Feb 2009) G enere : rock italiano Hai capito gli Afterhours. Vanno a beccarsi un 40 / recensioni bel po’ di promozione a Sanremo aizzando gli strali di detrattori della prima e ultima ora, salvo poi reinvestire il tesoretto mediatico in una operazione di tutto rispetto, prestandosi cioè a fare da portabandiera e specchietto per le allodole di questa compilation che passa in rassegna 19 campioni (non nel senso sanremese) del rock italiano cosiddetto alternativo. Intendiamoci, nessuna sorpresa, tutti nomi ben noti ai lettori di S&A, però è bello pensare che qualcuno - sia pure uno, porco cane - si ritroverà a farci i conti per la prima volta, scoprendo qualcosa di più sostanzioso della insulsaggine festivaliera e radiofonica in genere. Per poi magari scoprirsi dentro vibrazioni di un’altra categoria. Roba che dà dipendenza, AA. VV. - A Psychedelic Guide To Monsterism Island (Lo Records, Mar 2009) G enere : incredible strange music Musica da cocktail dell’altro mondo. No, mettiamola meglio. Relax esclusivo negli hangar del dopo bomba, con posticci ricordi dell’ultima vacanza exotica. Le scorte scarseggiano, berremo un acqua colorara alla bell e meglio Un tempo la chiamavano incredible strange music, non ci sono però gli abiti del ‘sultano’ Korla Pandit, nemmeno le pose di un Arthur Lyman o di un Lex Baxter. C’è però una label britannica, da sempre celere nel cavalcare l’onda del retro-nuevo, grazie alla sua personale scuderia e ad una serie di raccolte a tema coraggiosamente assemblate. La psichedelia è qui argomento molto soffuso, quasi uno strumento a disposizione di biologi predestinati, che forse prestano più attenzione all’elettronica dei primordi, al jazz dei 40/50 o ad un’idea di cinema per le orecchie dello scorso secolo. Jonny Trunk da astuto collezionista e direttore artistico che è – la sua Trunk una delle migliori etichette specializzate in ristampe weird (su tutti i nomi di Basil Kirchin ed il disco gospel fantasma di Herbie Hancock) – prenota un posto al sole con l’ancestrale rare groove di Nest We Forget, mentre il trasformista Luke Vibert rigenera vecchi synth nella peculiare ricostruzione di vecchi movimenti folk d’antan, un vero e proprio caso di musica per ectoplasmi. Poi alcuni dei protagonisti assoluti del catalogo Ghost Box – il marchio tanto incensato da Simon Reynolds - come gli alieni Belbury Poly – per assurdo la loro Designated Wizard Practice Area sembra un brano dei Residents precipitati in zona easy listening – e gli esoterici The Advisory Circle, la cui Lair Of Grolfax viaggia tra onde di theremin, drum machine e moog d’epoca. Sono musiche fantastiche, esteticamente legate alle più nobili avanguardie ma contenutisticamente vicine ad un pop ultraterreno, addirittura impalpabile. Musica di domani suonata ieri e viceversa.(7/10) Luca Collepiccolo AA. VV. - XXperiments (Die Stasi, Mar 2009) G enere : crimson wave Una compilation ben riuscita è sempre una cosa positiva, tanto più che decisamente rara; se poi l’uscita può vantare meriti ulteriori, allora si carica di significati interessanti per il quali è bene che le si renda merito. È questo il caso di XXperiments i cui pregi di cui sopra sono, in primis, di uscire su die Stasi, un’etichetta che ha avuto il merito di far debuttare acts come Zola Jesus e Wrists (il progetto synth-punk dei Wax Museums); in secondo luogo di essere una compilation su vinile, cosa piuttosto insolita oggi giorno. Infine, cosa più importante, di essere più che una mera raccolta di canzoni; trattasi infatti di un vero e proprio marecensioni / 41 nifesto musicale che rappresenta le linee guida ed i dettami estetici di quella neonata sottoscena di band e progetti individuali, tutti al femminile, che ha recentemente preso il nome di crimson-wave (termine che in gergo indica il ciclo mestruale – giusto per schierarsi ulteriormente), là fuori, da qualche parte nel Mid-West sperduto degli Stati Uniti. E questi caratteri che accomunano i nomi presenti sulla compilation (alcuni già noti ai più attenti, altri al debutto) sono quanto di più ostico e spiazzante ci possa aspettare da un manipolo di signorine: che sia il blues ultra primitivo delle Cro Magnon, la narcolessia elettronica di Luxury Prevention e Buckets Of Bile o le claudicazioni di Bird e U.S. Girls, l’inquietante sensazione di stare ascoltando la soundtrack di un film di fantasmi è assicurata. Talvolta i toni si inaspriscono e talvolta invece si fanno più epici e potenti, come nel pezzo di Zola Jesus che chiude brillantemente il disco con una prova degna dell’interesse che questa ragazza ha recentemente suscitato intorno a sé. In tutti questi casi, però, vale il monito, che, tanto per essere ineccepibili, la dieStasi ha fatto incidere sulla parte interna, non stampata del vinile: “Beware of the crimson-wave”.(7/10) Andrea Napoli Ada-Nuki - S/t (Whosbrain records, Apr 2008) G enere : P unk N oise R ock Abbiamo avuto già modo di parlare di una sorta di new wave del post rock tarantino in occasione di alcune uscite della Psychotica Records, caratterizzate da un piglio decisamente punk-noise. Dall’esperienza psychotica proviene il batterista Giorgio Maniglia, che assieme al bassista Stefano Spataro (ex Anonima Folk), ha deciso di mettere su un duo, circa un annetto fa, che è finalmente arrivato al suo esordio grazie alla francese Whosbrain Records. Aggirato il pericolo di cadere negli schematismi abusati di certo math rock (che ultimamente sembra l’unico punto di riferimento di chi si ispi42 / recensioni ra dichiaratamente al post-rock) i due musicisti tarantini, aiutati, in alcuni casi dalla chitarra di Michele Maglio e arricchiti dai field recordings di Donato Epiro, hanno elaborato uno stile progressivo orientato verso una libertà espressiva che, più che ai June Of ’44 guarda ai migliori Sonic Youth e a certo hardcore punk. Il mix di sussurri e urla media fra la band di Thurston Moore & co. e le violente scudisciate vocali di Ray Cappo degli Youth Of Today. Il suono compresso di basso e chitarra e una batteria a dir poco furiosa costituiscono la base del sound della band, che non mantiene mai la stessa tensione, dileguandosi in episodi al limite della musica concreta (Hotel Clodio), in uno psych-noise estremamente minimale (Lo Gnomo) o esplodendo in schizofrenici momenti free (Plastic French Mozarela) e post-core (Sakara Bondage; Polistirolo). Perché non abbiano trovato spazio su un’etichetta italiana viene spontaneo chiederselo. Ma al di là delle provenienze, un disco che finalmente riesce, al tempo stesso, a portare la musica nostrana oltre gli scimmiottamenti del math rock a stelle e strisce e a riscoprire gli estremismi dell’hardcore straightedge dal punto di vista del progressive. Una piacevole contraddizione. (7.2/10) vsga; per chi non li conoscesse, il moniker sotto il quale si nascondono calibri del peso di Nathan Young e Brad Rose. Quest’ultimo dimentica per un momento – per modo di dire vista la sterminata discografia a nome Ajilvsga – le bucoliche lande solitamente toccate con The North Sea e si abbandona ad un grumoso mostro droning dall’appeal ritualisticoblack metal e dalla resa funesta e spietata. Boschi infestati, maschere e cappucci, teschi e magia nera, l’iconografia black d’ordinanza tutta riemergono in questo Medicine Bull tra i flutti disperati di drones sapientemente prodotti da Pete Swanson. E se nel finale, negli struggenti 10 minuti di Leviathan Vanquished si provvede ad un barlume di luce seppur sepolto sotto una cappa di malinconia, nell’incipit del disco – i 21 mortali minuti di Big Black Meteoric Star – non c’è altro che devastazione, implosioni, nichilismo. Per chi scrive, uno dei migliori momenti della discografia a nome Ajilvsga. (7/10) Daniele Follero Nella vostra fantasia più recondita è mai girata l’idea di un progetto che travasasse l’esistenzialismoindie di Casiotone For The Painfully Alone nei beat dei Daft Punk era Discovery? Nella mia sì, francamente. Alaska In Winter è il singolaremoniker di Brandon Bethancourt, americano dai tratti euronordici - a vederlo sembra il fratellino acquisito dei Royksopp - al secondo parto in proprio. La formula non è nulla di trascendentale, poiché trattasi di synth-pop da balera alternativa (ma anche per intimismo da cameretta) accostato alla Ajilvsga - Medicine Bull (Dreamsheep, Gen 2009) G enere : drone L’occhio/orecchio lungo di Valerio Cosi si dimostra eccellente anche quando non si tratta di comporre musiche o scegliere collaborazioni e/o etichette, quanto di mettere su un proprio angolo di paradiso sotto forma di label. Una delle prime uscite della Dreamsheep è Medicine Bull di Ajil- Stefano Pifferi Alaska In Winter - Holiday (Regularbeat Recording, Mar 2009) G enere : synth pop voce, maschile e femminile, filtrata al vocoder. Un trionfo della banalitàinsomma, eppure Bethancourt riesce a regalare momenti che, nel mentre del lorosvolgersi, vi sembreranno preziosi. D’altronde, la peculiarità delsynth-pop più kitsch (e qui ce n’è) risiede nell’appiccicarsi sulla pelle il tempo necessario che il collante termini il proprio corso. Un episodio come Berlin (probabile omaggio alla nuova residenza del Nostro) non si sbaglia a definirlo emo-disco: 4/4 di getto house,voce di lui alla stregua di Owen Ashworth e contrappunto femminile vertiginoso.Vi verrà da ballare anche se debilitati. Dopo l’esistenzialismo disco di cui sopra, il baricentro di Holiday ripiega nelle sue intenzioni naif (Highlander Pt. 1 e 2) e smaccatamente anni ‘80 (StreetgangPt. 3 e Close Your Eyes Remix,quest’ultima impreziosita dalla voce di Zack Condon dei Beirut ), concedendosi spaccati folk (We Are Blind And Riding the Merry-GoRound sempre con Condon mastavolta all’ukelele)) e melanconici electro-slow da lacrimuccia (Streetgang pt. 1). Finché il collante durerà, ripetiamo, non ne potrete fare a meno. (7/10) Gianni Avella Appleseed Cast (The) - Sagarmatha (Vagrant, Feb 2009) G enere : post - rock Il sesto album degli Appleseed Cast conferma la deriva post-rock intrapresa dalla band dopo quei primi dischi per la Deep Elm che la fecero eleggere come una delle migliori e autentiche realtà emocore a cavallo tra fine Novanta e inizio Duemila. Quella componente emozionale però non è mai svanita del tutto: la maturità artistica, raggiunta già con il terzo lavoro in studio doppio Low Level Owl, l’ha sì attenuata ma mai negata, anzi. In Sagarmatha essa emerge contratta ma efficace fin dalla prima traccia, As The Little Things Go: oltre otto minuti di dilatazioni sonore con tanto di saturazioni mogwaiane inframezzate però da “sentirecensioni / 43 Highlight Æthenor - Faking Gold & Murder (VHF, Feb 2009) G enere : avant Il terzo disco degli Aethenor nasce sotto il segno della suggestione alchemica già a partire dal titolo e se il tutto viene vergato a mano e dichiarato a voce dalla luciferina presenza di Anok Pe David Tibet l’assonanza con i primi Current 93 viene iocoforza spontanea. A maggior ragione ascoltando questi quattro nuovi brani. Già il precedente, Betimes Black Cloudmasses, con l’innesto dei percussionisti Alexandre Babel e Nicolas Field aveva spostato il suono dei tre in una direzione ancora più improvvisata e libertaria, ma il quadro si completa per forza di cose giunti a questo terzo disco dove la formazione viene ulteriormente completata con l’ingresso di Alexander Tucker alle chitarre.Stephen O’Malley, Daniel O’Sullivan e Vincent De Roguin diventano quindi i tre sacerdoti di un cerimoniale free decisamente virato al nero, dove in qualche modo si riesce a trovare il punto di equilibrio tra avant metal e musica di ricerca, in un modo che davvero non si era mai ascoltato a questi livelli di efficacia. L’attacco deflagrante e senza freni delle percussioni introduce al disco come un fulmine a ciel sereno, inscenando un caos meditato in ogni più piccolo particolare. Il paragone con i primi Current 93, ma anche con certi Nurse With Wound, si accentua ancora di più con i liquidi onirismi del secondo brano dove tra organi e drones il senso di minaccia si fa incombente ma non opprimente. Si prosegue poi nella maniera più sperimentale possibile: una serie si shuffle di batteria con un recitato minaccioso e acidissimo che divulga qualche verità che non avremmo mai dovuto ascoltare. A voler rimarcare un ulteriore segno di pregio del disco si segnala un ritrovato David Tibet molto meno declamatorio e didascalico nelle sue performance vocali e più prossimo alla musicalità di un vocalist degno di questo nome. La quarta traccia chiude quasi sottotraccia, dimessamente, con un sentore d’apocalisse sottopelle e una serie di drones scorrevoli e ficcanti pronti per chiudere un concerto suonato evidentemente all’inferno.(7.5/10) Antonello Comunale Arboretum - Song Of The Pearl (Thrill Jockey, Mar 2009) G enere : H ard B lues Corey Allender, Daniel Franz (anche nei Beach House sporadicamente), David Heumann e Steve Strohmeier hanno toccato quota 3. Terzo album per iragazzi di Baltimore e primo a vedere la stessa identica line-up per ogni songin scaletta. Registrato presso il Lord Baltimore Recordings da Rob Girardi, insoli due mesi l’autunno dell’anno appena trascorso, Song Of The Pearl mostrauna saturazione del suono che fa piacere a chi ama gli ultimi Pontiak. Qui peròla psichedelia, come di costume per gli Arbouretum, divaga verso derive pesantie lisergiche Anni ‘60, senza farsi compromettere dall’hard della decadesuccessiva. False Spring, per esempio, è d’un bell’acido, Mad River style, mentre Dave Heumann e Steve Strohmeier trovano l’alchimia chitarristicaperfetta in Another Hiding Day, insostanza un bel numero folk elevato pian piano, ingravidato il numero dei giricon polifonie vocali di contorno, fino a sfinirsi nell’epos duellante più puro. Una Last Trip To Tulsa addolcita dagli America e incrociata con i Rainbow. David Heumann, nonostante l’aiutosporadico di Rob Wilson, rimane sempre il compositore principale della band,l’asse sonoro della quale si perpetua, nella sostanza, ricalcando melodie folky cristalline e profonde (Song Of The Pearl) degne della Laurel Canyon Scene’ che fu (Susan Carter, Neil Young o Judee Sill). Eccezioni alla regola, hard blues ‘esistenziali’ quali Thin Dominion o l’heavy metal thunder che fulmina Infinite Corridors.(7/10) Massimo Padalino mentali” break ora chitarristici ora vocali. Proprio questi saliscendi emo, dai quali paradossalmente si erano evoluti, rappresentano il valore aggiunto dell’album. Ma non tutti gli episodi riescono a far emergere così bene questa peculiarità, rischiando così di convogliare il loro post rock su binari più 44 / recensioni anonimi e monotoni, tra Mogwai ed Explosion In The Sky. Gli Appleseed Cast dovrebbero equilibrare maggiormente testa e cuore: impresa titanica, ma ci stanno lavorando e sono sulla buona strada. Il tempo ci dirà. (6.5/10) Andrea Provinciali ATOM™ - Liedgut (Raster Noton DE, Gen 2009) G enere : elettronica minimale Erede del post romanticismo estetico alla Kraftwerk, Liedgut è il nuovo lavoro di Uwe Schmidt (meglio conosciuto con lo pseudonimo ATOMTM) in uscita per Raster Norton. Le attitudini elettroniche dell’artista austro-tedesco si manifestano sin dal 1994, anno in cui fonda l’etichetta Rather Interesting. Subito dopo il suo trasferimento in Cile che influenzò molto le scritture future (2000-2001 El Baile Aleman).Un approccio alla materia assolutamente di dettaglio a cui si aggiungono scelte trasversali, tra riduzionismo digitale, genialità elettrificate e l’insegnamento delle avanguardie della musica cosiddetta “dotta” dei maggiori compositori del novecento. In bilico tra razionale e irrazionale, la poetica artificiale di Schmidt si lascia cogliere tra i drones, le glissate ritmiche di “Wellen und Felder 4”, le familiari interferenze telefoniche (Im Rausch der Gegenwart 1) o gli automi in vocoder di “Wellen und Felder 2” a cui presta la voce Florian Schneider (Kraftwerk).Ci si ritrova così immersi in luoghi del tutto instabili a metà strada tra elettronica, techno e bossanova; anche i confini che delimitano l’analogico e il digitale sembrano sfocarsi e finiscono spesso per coincidere in blocchi ritmici o rallentati. Ispirato e sicuramente pieno di contrasto ma anche d’identità Liedgut apre nuovi dibattiti tra passato e presente, senza far a meno delle vecchie buone maniere ma, allo stesso tempo dettandone delle nuove.(7/10) Sara Bracco Baikonour - Your Ear Knows Future (Melodic UK, Mar 2009) G enere : new prog Dal punto di vista umano, Jean-Emmanuel Krieger in arte Baikonour è solo da elogiare, poiché, da abituale frequentatore del sud asiatico, ha lavorato per la raccolta di fondi per i rifugiati tibetani istituendo, inoltre, un associazione per la salvaguardia del Nepal. Ma musicalmente, purtroppo, il francese di Marsiglia rasenta (a voler essere buoni) la mediocrità. Your Ear Knows Future è un pastrocchio dalle intenzioni prog-kraut - tra le influenze citate, Amon Duul 2 (ma dove?! Forse quelli stanchi di fine ’70?!), Popol Vuh (querecensioni / 45 sta poi…) e Magma (evviva il campanilismo! Magari ci fossero..) – che sfocia nelle peggio pagine di Alan Parsons e Mike Oldfield. Gli unici momenti rilevanti sono alcuni passaggi di Fly Tiger e Summer Grass/Winter Worm e l’omaggio ai Neu! di Ye Ama Piooo!; il resto è tanta volontà e poca anima. Ha un gran cuore, Jean-Emmanuel. Che lo sfrutti per beneficenza.(5/10) Gianni Avella Bishop Allen - Grrr... (Dead Oceans, Mar 2009) G enere : I ndie pop Per questa nuova uscita i nostri non pescano dal ricco serbatoio degli EP: le 13 canzoni del disco sono infatti tutte nuove, a dimostrazione che il blocco della scrittura di qualche anno fa è definitivamente superato, e che la loro musa è in ottima salute, vista la freschezza con cui scorre la scaletta. Lontane sia da certe pur piacevoli svenevolezze del precedente che dal lo-fi degli inizi, le composizioni di Grrr.... sono preparate con gli ingredienti soliti del genere: melodie trascinanti, arrangiamenti semplici ma con ogni dettaglio al posto giusto e un velo di ironia che stempera l’enfasi e addolcisce quel filo di rabbia in più rispetto al passato che caratterizza il disco (un’ironia che a noi non dispiace affatto, ma che ha innervosito qualche recensore, convinto evidentemente che scherzare sulle cose significa non prenderle sul serio). Muovendosi su una linea che tocca Magnetic Fields, Hidden Cameras e la vera musa nascosta di certo indie pop, quel Jonathan Richman maestro del drammatizzare ammiccando, i Bishop Allen mettono insieme un disco ottimo 46 / recensioni per spiegare ai vostri amici che “rock indipendente” non significa necessariamente fragore e dissonanza, e che ci si può divertire con la taranta di True or False, il rock dell’iniziale Dimmer, lo stomp di Rooftop Brawl i Belle and Sebastian di Shangaied e la “saggezza” di The Ancient Common Sense of Things. Ma è tutto il disco che funziona, tra un “whoo-whoo” inatteso e perfetto e intelligenti punzecchiate di chitarra nel corpo delle melodie. Una piacevole conferma, specie nel mese in cui un gruppo che chiamò Pop un suo disco conferma invece di aver perso quella verve che qui invece abbonda.(7.1/10) Giulio Pasquali Black Lips - 200 Million Thousand (Vice Records, Mar 2009) G enere : G arage sixties I Lips son passati attraverso la morte di Ben Eberbaugh, due lp per la Bomp!, uno per la In The Red, sino agli ultimi due per la Vice Recordings. 200 Million Thousand non cambia etichetta e continua sulla linea di quel flower punk che ammazzerebbe d’infarto Seeds, Troggs e Swamp Rats se solo ascoltassero oggi questi cattivi ragazzi di Atlanta. Hanno registrato ben 25 canzoni per il nuovo disco. 15 ci finiscono a tutti gli effetti dentro e incupiscono il discorso lasciato in sospeso dai precedenti due in studio (niente numeri da junkie-”Porky’s” qui, come “Bad Kids”, però). Take My Heart suona come se Seeds e Fireworks avessero deciso di coverizzare, mischiandosi negli effettivi, l’intero Raw Power degli Stooges. Drugs è un surf deviato che i Cheater Slicks avrebbero potuto rubare ai New York Dolls, se mai uno ne avessero scritto. Questo il versante rude. Poi c’è anche il tempo di tirare il fiato, con i Byrds strafatti di Starting Over o la Butterfield Blues Band con Iggy Pop alla voce di Trapped In A Basement. Il suono è profondo, le chitarre sventrano la luce, l’ugola di Cole Alexander sputa fuori la propria gioventù bruciata dalla fogna dei Sixties perfida e ammaliatrice. E così si susseguono i Turtlescimiteriali di I’ll Be With You, il capolavoro del disco Big Black Baby Jesus Of Today (degli Shadows Of Knight necro-blues) o quella tirata beat-psichedelica che è Again & Again, una Chocolate Watchband che imbocchi la strada del Sunset Strip macchiandosi di sangue e dolore. (7/10) Massimo Padalino Broken Spindles - Kiss/Kick (Blank. Wav, Feb 2009) G enere : new wave / electro - indie rock Quella di Joel Petersen, bassista dei Faint, e del suo progetto solista Broken Spindles è una storia particolare. Nato fra un tour e l’altro con la band madre principalmente come progetto multimediale, combinava all’inizio elementi trash ’80 con una netta propensione al cazzeggio figlio di certa laptop-generation. Diventato poi collage di bozze maximal electro e minimal ambient con Fulfilled/ Complete, evolutosi in una ricerca di stramba forma canzone per piano sconsolato e movenze electro con Inside/ Absent e tornato indietro verso un isolazionismo decadente nell’incompleto quadro ambient fin troppo introverso di Document Number One (per la prima volta “self released”), questo quinto capitolo vede la “luce” per la prima volta. Luce per la scelta di cantare finalmente senza vergogna e per partorire 10 canzoni degne di essere chiamate tali. Tutto ciò che di precario e raffazzonato respirava nelle prove precedenti qui prende vita totalmente, una vita che si compie mediamente sui 3 minuti. Niente di male in questo se non fosse che la scrittura del nostro non luccica di chissà quale memorabile splendore: sembra che lo spirito dance – e vincente – dei Faint sia stato estirpato quasi di netto lasciando delle costipazioni Devo, delle ritmiche Neu!, delle atmosfere ultimi Deerhunter, ma senza il genio e la brillantezza che ivi abitano. E quindi ci troviamo a sottolineare i momenti più carichi in cui si crea un ponte con la band madre (il singolo schizoide con spruzzate punk-wave Introvert, la ballad per basso-slap e laptop Beat Down Break Up, il passo andante di The Moist Red Mess) o momenti in cui la personalità del nostro si focalizza e tira fuori dal cilindro numeri compiuti (la wave concisa di Figure Face Pretty Boy, il fantasma di Bradford Cox nella scorrevole In The Dark, gli accenni di folktronica in We All Want To Fit In). Il resto passa senza colpo ferire. Certamente rimarcabile il balzo in avanti, Kiss/Kick mostra però il fianco laddove a lasciare il segno non ci sono veri assi ma solo buone canzoni e la forza di queste non è tale da supportare un album da ricordare. Questo non toglie che siamo davanti al miglior disco di Joel, il che aumenta la speranza per quello che verrà. (6.7/10) Alessandro Grassi Claudio Sanfilippo - Fotosensibile (Maxine, Feb 2009) G enere : songwriting Tante collaborazioni illustri (canzoni per Finardi e Mina, un premio Tenco per il suo esordio nel ‘96), 4 album e un cd libro: questa la produzione nel corso di un decennio del cantautore milanese Claudio Sanfilippo, un’anima raffinata di autore colto, tra bossa nova, amore per la poesia dialettale della sua città e songwriting classico. Fotosensibile è stato realizzato con l’arrangiatore e produttore Rinaldo Donati e acclude anche, in un bel packaging, un DVD (Nel bere nel mare) in cui l’autore si racconta con autoironia. In Fotosensibile si fonde la canzone d’autore con una cifra più leggera, pop, esprimendo così le molte facce dell’autore. Quindi ecco che bossanova, pop, rock si coniugano ad arrangiamenti accurati, con uno stile al solito sospeso ed onirico, sua recensioni / 47 cifra stilistica, insieme ad un senso profondo di intimità coniugato alla poesia. De André, Piero Ciampi, Paolo Conte, i cantautori francesi ma anche americani e brasiliani (Jobim) vengono spesso alla mente. Una sintesi riuscita e fascinosa.(7.2/10) vague. Ben suonato, ben interpretato (anche se la voce di Cristian Fanti si rivela un po’ monocorde alla distanza), è un disco che cuoce a fuoco lento un immaginario forse non eclatante ma solido. (6.8/10) Stefano Solventi Teresa Greco Collettivo Ginsberg - Pregnancy (Il Vaso Di Pandora, Feb 2009) G enere : blues rock cantautoriale Fin dalla traccia introduttiva - breve raggrinzito estratto da un vinile di Amanda Rodriguez - si respira l’aria dei malanimi desueti, crucci old style, roba maturata nei barrique dei turbamenti Cave e Waits, due nomi che prima o poi andavano spesi e quindi ben vengano Maudì e The Farm, così non ci pensiamo più. Il Collettivo Ginsberg è un quartetto allargato anzi aperto agli apporti di un bel manipolo di amici, che portano in dote archi e legni, tastiere e chitarre, fisarmoniche e cori. Con Pregnancy, il loro secondo album, mettono a fuoco un cantautorato ombroso e turgido, letterario (come si evince dalla ragione sociale) in senso beat, ciò che li fa flirtare con l’ebbrezza freak avariata dei tardi sixties (vedi il passo doorsiano di Woodstock Cypress e Yama), consegnandoli altresì alle morbide palpitazioni di un Tim Buckley via Mark Lanegan (soprattutto Child Eyes, e con disarmata delicatezza in To The Womb). Trovo poi affascinante quando in questo immaginario americano si fanno largo chiari influssi mediterranei, mi riferisco a quella I’m Waiting che snocciola un testo di Ginsberg su ciondolante blues jazzato, mentre la fisarmonica e i cori squadernano sfarfallii filmici in odor di nouvelle 48 / recensioni Condo Fucks - Fuckbook (Matador, Mar 2009) G enere : indie Un ragazzone davvero simpatico James McNew, solitamente bassista per Yo La Tengo ma inguaribile appassionato di musica. Con lui potete tranquillamente discorrere di Corrosion Of Conformity e Prince (a cui dedicò un album di cover in versione lo-fi a titolo That Skinny Motherfucker With The High Voice? per i tipi di Shrimper), mai vi sembrerà spiazzato. Un giorno gli donai addirittura un disco di Mad Professor, ma tant’è... Abituato alle fughe in bassa fedeltà il nostro torna con la stessa Matador a pubblicare con i Condo Fucks, trio ‘politically correct’ proveniente dal Connecticut. Oltre che scimmiottare il celebre social network, il titolo dell’album è anche un gioco di parole sul Fakebook di Yo La Tengo, uno degli album più celebri del gruppo prima della meritata esplosione mediatica. I Condo Fucks suonano un garage pop striminzito, mai fuori misura, registrato in maniera del tutto casalinga e privo di qualsivoglia sussulto intellettuale. Non degli integralisti per questo, invero fini ricercatori delle proprie fonti. Disco ad uso e consumo di appassionati veri però, con 11 tracce che vanno direttamente a scartabellare nella storia del rock’n’roll più storto. Al vetriolo una Accident degli Electric Eels, più fangosa che surf la Shut Down dei Beach Boys, verace la With A Girl Like You dei Troggs. La palma della migliore re-interpretazione spetta a The Kid With The Replaceable Head, brano che appariva in testa al secondo album di Richard Hell And The Voidods: Destiny Street. Acerbi per diletto. Non per tutti. (6/10) Luca Collepiccolo Crystal Antlers - Tentacles (Touch & Go / Quarterstick Records, Apr 2009) G enere : prog - psych Se ne parlava tempo addietro, all’epoca dell’omonimo ep d’esordio, di questo gruppo californiano. Struttura classica basso (appannaggio di Johnny Bell così come la voce), batteria rinforzata da un percussionista, due chitarre con la new entry Errol Davis a raddoppiare quella del fondatore Andrew King, e un organo, suonato da Victor Rodriguez, che è perno centrale delle composizioni del sestetto di Long Beach. Le coordinate di questo Tentacles non sono dissimili da quelle dell’ep autoprodotto di cui parlavamo, il cui successo spalancò le porte di una Touch’n’Go sempre meno etichetta di genere e sempre più “open-minded”. Forse ancor più che in passato è proprio l’organo di Rodriguez, nerboruto e lungocrinito mezzosangue messicano, a segnare le coordinate del sound iridescente del gruppo. Quel suono d’organo così incredibilmente vintage che connota giocoforza tutti i brani di Tentacles. Così centrale nell’economia del suono da fare il paio solo con l’invadenza quasi fastidiosa della voce di Bell, il cui permanere sempre sopra le righe non può non rimandare che verso Mars Volta e progenie progdelica tutta piuttosto che sul versante della psych meno ortodossa e più rumorosa figlia di Altamont. Oltre questi due indizi, un terzo – la produzione “aperta” affidata a Ikey Owens, guarda caso proprio un Mars Volta – ci fa propendere per una sorta di suono post-MV, più corposo e sfatto, più da dislessia-rock in disfacimento, scintillante e colorato come un trip sul punto di andare a male, spesso attraversato da marasmi free (i 7 minuti della conclusiva Several Tongues) ma pur sempre limitrofo a quello dei progsters più amati/odiati dell’attuale panorama musicale americano. Un limite o un vantaggio? Mai come in questo caso vale la proverbiale regola del de gustibus. Per noi l’ascolto alla lunga risulta un po’ stancante nel suo incedere monocorde.(6.5/10) Stefano Pifferi Dan Deacon - Bromst (Carpark, Mar 2009) G enere : electro minimalista Ci abbiamo già ragionato a lungo su Dan Deacon. Abbiamo descritto, in occasione dell’uscita della sua scorsa fatica, Spiderman Of The Rings, la vicenda di un passaggio da compositore conservatoriale di musica minimalista ad animatore – pur comunque uguale al se stesso di prima – di schizzatissime piste da ballo electro. La buona notizia è che la sua follia in Bromstnon si è attenuata; eppure è più riflessiva, per così dire. Ci sono meno pacchianerie usate come strumenti – anche se le voci cartoonistiche compaiono ancora qua e là; meno colpi ad effetto, meno vicende tiratissime basate su una sola idea. Red F è l’esempio ideale; contiene in sè il potenziale di tre dei brani che animavano Spiderman…e in definitiva è una sofisticata suite minimalista per drum machine e macchine giocattolo. La successiva Padding Ghost ci suggerisce che Dan non punta al nostro sballo, ma all’ipnosi a grande velocità. Ma il nostro stupore si concentra altrove; Deacon ci concede addirittura quella che nei primi minuti si potrebbe definire una “ballata electrominimalista”, un “lento” alla sua maniera (tecnica usata anche in Slow With… e Balthirose), che tanto ricorda le armonie di Brian Eno, Snookered; è ovvio che prima o poi quel giro debba diventare un crescendo fino al ballo-sballo, allo scuotimento di teste e bacini; ma sentite il genio che Dan ci mette per creare le condizioni per cui quell’esplosione sia già in corso quando avviene, definitivamente, al sesto minuto; nel frattempo il recensioni / 49 nostro ha citato con un breakbeat vocale la IDM, e chiuso nel silenzio più notturno dei campanellini che ci approssimano alla traccia che viene dopo, Of The Mountains. Che dire? Proprio questo mese su SA ragioniamo di brekbit, di hardcore continuum; il brano sembra perfetto per essere messo sul piatto della discussione, ma non solo; abbiamo esposto proprio il quell’articolo le tesi di Simon Reynolds in proposito, da cui siamo partiti; ebbene, il Reynolds cita proprio direttamente Bromst di Dan Deacon come la controparte americana ed euforica del nurave britannico. Gli andiamo dietro con una considerazione; Dan con questo disco esce dall’autoreferenzialità necessaria (per uscire dalle accademie) di Spiderman… ed entra in un possibile discorso di movimento a scala più ampia della musica da ballo. E lo fa con un album nettamente meno danzereccio o sfrenato del precedente; forse perché sa che è dal vivo che quello sfracello paranu-rave può avvenire, mentre il gioco delle parti gli dà la corda necessaria per esporre quello che ha da dire senza foga. Badate bene dunque; il discorso eteroreferenziale non avviene solo perché Deacon fa annusare riferimenti esterni (ancora la tecnica di compressione del break in Woof Woof); ma per la calma con cui le cose vengono suonate. Non c’è foga, in Bromst, ma asserzione dei propri mezzi e del proprio stato dell’arte. Forse asserzione ripetitiva, ma dal punto di vista di chi scrive ancora una volta convincente, forse sulla lunga più convincente. Era difficilissimo fare un album non prevedibile dopo Spiderman Of The Rings; Bromst non è imprevedibile; è intelligente.(7.3/10) Gaspare Caliri Danny Given - Appunti Di Viaggio n.5 (Abaco, Gen 2009) G enere : J azz P op Interessante l’idea della Abaco di dar vita ad una collana di audiolibri dedicata ai musicisti. “Appunti di viaggio”, nell’epoca del download sfrenato e della conseguente perdita di identità degli artisti, persi nel mare della virtualità di internet, con le loro opere trasformate in semplici e anonimi file audio, propone un’esplorazione approfondita e non solo musicale di alcuni artisti, per lo più gravitanti nel panorama jazzistico – cantautorale. Diari nei quali i musicisti parlano dei loro “viaggi” musicali, riportando impressioni, fantasie, storie, foto, citazioni, che hanno caratterizzato in qualche modo il loro percorso artistico. Libri da sfogliare, leggere, ascoltare e guardare, attraverso i quali entrare in contatto con la personalità degli autori, che sottolineano gli aspetti multimediali della musica. Il volume 5 della collana è dedicato ad un cantante legato alla scena jazz-pop, una di quelle voci bianco-nere nate ascoltando in chiesa le donne del popolo afroamericano e cresciute all’ombra del soul e del jazz. Voce profonda, scura, ma estremamente dolce, il quarantenne Daniel “Danny” Given è nato a San Francisco quaranta anni fa, nel pieno della summer of love, ma i suoi riferimenti sono tutt’altri. In verità, se non fosse per la sua voce calda e che nel timbro ricorda quella di Antony, spogliata degli eccessi di vibrato di quest’ultimo, la musica passerebbe senz’altro in secondo (se non in terzo) piano, anche se non dispiacciono le versioni soft di uno standard come One For My Baby e la straniante versione pop-soul di Walk On The Wild Side di Lou Reed, un azzardo che di certo gli fa onore. 27 minuti di musica sembrano pochi, anche come colonna sonora di un diario, ma possono bastare a creare l’atmosfera per un viaggio. Di ottima qualità il libro e le foto, frutto di un lavoro di editing certosino e costoso. Il rischio è quello che i testi e le immagini prevalgano di gran lunga sulla musica. Come in questo caso. (6.5/10) Daniele Follero 50 / recensioni Highlight Anni Rossi - Rockwell (4AD, Mar 2009) G enere : avant pop orchestrale Polistrumentista di formazione classica, la ventitreenne americana Anni Rossi potrebbe benissimo essere l’anello di congiunzione tra Joanna Newsom e Carla Bozulich. Un’attitudine alla canzone e nello stesso tempo alla musica contemporanea, per un avant pop che mischia elementi sinfonico-orchestrali con dissonanze e destrutturazioni. La viola è infatti il suo strumento di elezione, e questo le permette l’improvvisazione e la stratificazione tra gli elementi, per composizioni o meglio mini suite sempre sul punto di deflagrare, in un continuo saliscendi emotivo ed armonico. Una scrittura cinematica e molto free la sua, che le consente le massime variazioni, anche della voce, usata come un vero e proprio strumento aggiunto, modulando le armonie insieme alle progressioni armoniche strumentali. Rockwell è compiutamente il biglietto da visita di Anni: alcuni dei suoi precedenti pezzi in repertorio sono stati, sotto la guida di Steve Albini, rivisitati e arricchiti strumentalmente, e rispetto all’anarchia e all’impeto delle prime prove, la sua energia incontenibile viene incanalata al servizio delle composizioni. Afflati sinfonico orchestrali (Deer Hunting Camp 17) che si uniscono alle variazioni e alle dissonanze (Wheelpusher), strutture canzoni contaminate (Machine), massiccio uso della viola, ma anche di organo (Ecology), clarinetto (Venice), violoncello, fiati e soprattutto percussioni. La controparte femminile dei Beirut o di Final Fantasy, una My Brightest Diamond meno “normalizzata”, una Carla Bozulich per il lato selvaggio e destrutturato, il John Cale che dal vivo percuote la sua viola, le coloriture Joni Mitchell della voce, questi gli immediati paragoni che ci vengono in mente. Una bella sorpresa davvero.(7.3/10) Teresa Greco De Rosa - Prevention (Chemikal Underground Records, Mar 2009) Genere: indie-folktronica Giungono al disco numero due, i De Rosa. Mend, debutto risalente al 2006, aveva delle carte da giocare. Le medesime anche in questo Prevention Martin John Henry, Chris Connick, James Woodside, Neil Woodside e Andrew Bush ritentano: dosi di emotività incontrollata, ornamenti preziosi ma sempre fluidi di melodismo iridescente, lirchie criptiche eppure affascinanti (scritte da Martin). Forse manca qual qualcosa in più a che far gridare troppo presto al miracolo (come fece Mojo loro riguardo); dopotutto l’amalgama di folk ed elettronica soffusa da melodie evocatrici non è di recensioni / 51 per se nuova. Uno qualsiasi dei labelmate della Nostra band basterebbe qui a testimoniare la veridicità di siffatta illazione. Disco maturo. A volte anche eccessivamente. Se cade dal ramo cui penzolava poco c’è da sperar che resista. Si spappolerà e basta...(6/10) Massimo Padalino Deep Cut - My Thoughts Light Fires (Club AC30, Mar 2009) G enere : shoegaze Che il ritorno in forze dello shoegaze fosse molto più di una impressione, ce lo ha dimostrato la reunion – definitiva? temporanea? produttiva? non resta che aspettare e sperare – dei padrini My Bloody Valentine oltre che una serie di dischi e gruppi (nuovi e/o vecchi) che trattammo tempo addietro al tempo dello sguardo sul Digital Shoegaze. Qui guarda caso c’è di nuovo la Club AC30 a mettere il proprio marchio sul disco, nello stesso modo in cui c’è e c’era l’etichetta britannica dietro i Televise e dietro questa neue welle dello shoegaze made in UK. Deep Cut, la nuova sensazione in casa Club AC30 è un quintetto londinese, ma non di verginelle del pentagramma si tratta; e proprio il riemergere delle passate esperienze di alcuni componenti – in primis Mat Flint, chitarra dei guitar-pop Revolver prima che decennale bassista di Death In Vegas – ci fa propendere per la bontà e sincerità della proposta. Che a dirla tutta si sposta più sullo shoegaze puro che sul versante spacey del genere. Perciò melodie pop zuccherose ma non sempre, atmosfere sognanti e sospese, chitarre in super delay, afflato pop-psichedelico, grinta indie e stratificazioni di feedback come se piovesse. 52 / recensioni Insomma, frecce al proprio arco ne hanno eccome. Thought Crimes, ad esempio, con un giro di basso di quelli epici suffragato da atmosfere Lush, o le citazioni Joy Division di Failure To Bond, i Curve nascosti e accelerati di Dead Man Walking, le pulsioni electro di Just Chasing, il postBreeders di Bullshit Detector e Freezer Burn e il reminder 4AD di Automatic Instant. Ottima la produzione e l’esecuzione strumentale, con un particolare plauso alla voce della cantante Emma Bailey, aggressiva e sognante allo stesso tempo. I miei pensieri accendono il fuoco, sentenzia il titolo dell’album. E come dare loro torto, visti i risultati?(6.5/10) Beach Boys esotici, ai numi tutelari Lee Hazelwood, Gainsbourg, al Prince piùsoul e falsettato, al surf fine Cinquanta (con la cover dei Four Preps, 26 Miles Santa Catalina), al tropicalismo chesegue la fortunata scia dei Vampire Weekend, al country. Il tutto tenuto insieme da un’attitudine scanzonata eautoironica che ce lo fa diventare empatico sin da subito. Come da incipit del disco, Welcome Mr. Dent!(7/10) Stefano Pifferi Genere: dub Ex Wave - Apri Gli Occhi (Do It Yourself, Gen 2009) G enere : E lettronica C ameristica Allo stesso tempo parata di stelle e stelline della battuta in levare e mammut nella durata (più di settanta minuti l’edizione europea con due bonus track) la quinta fatica dei canadesi Dubmatix. Se l’idea di una band reggae proveniente da Toronto vi suona strana, tenete presente che: a) siamo nel terzo millennio e il mondo è ormai un fazzoletto, b) i nomi Africa Unite e Pinerolo non vi hanno probabilmente insegnato nulla. Insomma, ci siamo capiti: allo stesso modo è chiaro che benché nulla sarà l’impronta che lascerà sull’evoluzione della musica giamaicana (di per sé ampiamente codificata al pari di tutte le altre…), Dubmatix è compagine d’indiscussa abilità. L’esecuzione strumentale mostra degli appassionati esperti, la scrittura sostiene senza cedimenti una ritmica duttile ma possente, spesso disposta a slarghi dub anche nei brani cantati); l’impasto fiatistico è ricco e policromo, le coloriture d’organo puntuali. Quando poi hai la fortuna di sistemare di fronte al microfono gente come Linval Thompson e Michael Rose, Sugar Minott e Wayne Smith, significa soltanto che la tua fama è consolidata e la cultura originale cui ti ispiri riconosce le tue capacità, dunque puoi offrirne un catalogo riassuntivo. Accade in modo assai convincente nei fluenti dub che compongono metà della scaletta Certe musiche da film non hanno tempo e fanno ormai damolto la fortuna di parecchi musicisti, magari anche bravi. Basta un pianoforte, qualche semplice e languido fraseggio, un accompagnamento non troppo invadente e il prodotto è confezionato, pronto per essere utilizzato inuna sequenza amorosa, durante la scena di un triste bacio d’addio o per accompagnare la passeggiata solitaria di un ipotetico protagonista introspettivo. Potrebbe essere un progetto molto interessante quello messo in piedi dal pianista Lorenzo Matarazzo e dal violinista Luca D’Alberto, se noninsistesse troppo su queste soluzioni facili ed orecchiabili, impossibili da odiare, se non per il loro eccessivo “buonismo”. L’idea di unire il timbro dolce e lirico di strumenti“classici” come il pianoforte e il violino, all’elettronica e a beats da dancefloor, si rivela interessante solo quando riesce ad uscire dagli schemi prevedibili della musica da tappezzeria, quando la tensione aumenta sfuggendo al tonalismo più essenziale e banale e gli strumenti possono evadere dalle strette maglie dell’ambient, come nel caso della conclusiva Lda, in cui, assente il pianoforte,viene fuori più chiara l’anima sperimentale di D’Alberto. Ci si accorge solo alla fine, dunque, delle potenzialità del progetto, troppo spesso soffocate dal minimalismo sdolcinato del piano, che inesorabil- Dent May - The Good Feeling Music of Dent May & His Magnificent Ukulele (Paw tracks, Mar 2009) G enere : orchestral pop , tropical , surf Un personaggio davvero Dent May. Con un aspetto da nerdprimo della classe, lo si direbbe uscito da un immaginario fities alla AmericanGraffiti di George Lucas, con tutto un corollario di crooning pop,swing, surf music e tropicalismo assortito. Un Jens Lekman o un Adam Green o per meglio dire uno Stephen Merritt. Non è esattamente un esordiente, ha infatti all’attivodiversi gruppi negli ultimi anni, che vanno dal synth power-pop dei Rockwells,fino alla country music (Cowboy Maloney’s Electric City) e persino alla dance (Dent Sweat). Un incontroprovvidenziale con gli Animal Collective a inizi 2008, mentre il gruppo di Panda Bear registrava l’ultimo disco, e dasubito una collaborazione che ha portato a questo esordio su Paw Tracks. Su una base orchestral pop si innesta la voce da coroner di Dent, spesso in falsetto, per un incrocio tra umori swing, country, sixties,tropical, surf, dominati dal suo ukulele, strumento principe. Un buon amalgamae pezzi abbastanza coesi, sia quando si cimenta in riproposizioni/omaggi ai e nell’innodica Peace & Love; nella torpida ipnosi Dub In Me Hand e nel sensuale ancheggiare di Easy Down; in una Blessing Of Compassion che Alton Ellis aromatizza di soul e nello scioglilingua rastafariano Tornado. A dispetto del chilometrico minutaggio, a Renegade Rocker si arriva in fondo (quasi) senza accorgersene e ci si torna per centellinare i momenti più godibili. Non da tutti, ne converrete (6.6/10) Giancarlo Turra Teresa Greco Dubmatix - Renegade Rocker (Echo Beach, Gen 2009) recensioni / 53 mente conduce alla staticità gran parte del lavoro. Non si può dire che l’apporto di drum machine e altre strumentazioni elettroniche fornisca un apporto determinante, pur costituendo,a volte, un elemento di rottura (Apri GliOcchi) Un disco da sognatori faciloni, appagati da sensazioni dolci e confortanti. Astenersi ascoltatori attenti e critici rompicoglioni (5.8/10) Daniele Follero Highlight DM Stith - Heavy Ghost (Asthmatic Kitty Records, Mar 2009) G enere : soulstreampop Padronanza. Ricerca calcolata di un effetto e costruzione di particolari per arrivarci. Non voglio essere troppo prolisso per introdurre questo disco che coglie la freschezza di una bravura che si esprime con una facilità imbarazzante. A volte oscurando meccanismi meno controllabili ma forse più incisivi nella musica. DM Stith inserisce nel suo esordio sulla lunga durata le tecniche che da piccolo ha imparato e poi ha metabolizzato negli anni per poi sfruttarle grazie alla conoscenza di figure dell’indie di particolare potere trascinante. Heavy Ghost ci mostra anzitutto le sue capacità, dunque. Prendete Pity Dance. Una canzone che a ben vedere non è una canzone; ma una lunga preparazione a basso tasso di crescendo che accompagna al tema corale della fine. In mezzo una capacità di perseguire un effetto strabiliante, con tocchi che ricordano i Black Heart Procession come Devendra (presente anche in Pigs). Si notava fra l’altro nella monografia allo Stith dedicata che nella sua musica si coglie un’oscillazione tra flusso e forma canzone, tra ambient e soul, ovvero tra ambiente e anima. David Stith è anzitutto un grande cesellatore di quella soglia che fa di una canzone – anche a toni soul, anche che citi i cori degli anni ’50 – un processo (ascoltate Creekmouth, che è un messaggio per noi di potenzialità di orchestrazione ritmica); in definitiva una composizione; come Mahler stressò la sinfonia fino al limite, Heavy Ghost gioca con i piccoli stratagemmi delle canzoni pop per dipingere ciò che Stith vuole esprimere – come per la perfezione armonica di Thanksgiving Moon. Che può succedere a DM Stith? Di non toccare, neanche sfiorare la nostra anima. A un certo punto a volte la padronanza e il calcolo stroppiano e risultano artificiosi. Non è il caso di Heavy Ghost, e come esempio conclusivo – non casuale – si potrebbe citare la pseudo-poliritmia di Spirit Parade. Un soffio corposo. Una melodia vocale che minaccia trasparenza. Coltre spessa di spiriti; fantasmi pesanti.(7.2/10) Gaspare Caliri 54 / recensioni Faust - C’est Com Com Complique (Bureau-b, Mar 2009) G enere : K rautrock C hansons Proprio un mese fa si parlava di derive kraut nelle sonorità contemporanee. Neanche a farlo apposta ritornano i padri di quel sentire che guarda al cosmo e che vede oltre. I Faust, i dinosauri di quell’era da cui è nato il post-rock (e non solo) ci sono ancora; e con la consueta macchina organizzativo-pensante tedesca impongono il loro marchio al solito mondo e parzialmente al mondo alieno della canzone francese. Certo ormai a ben vedere i Faust di oggi sono per metà francesi, se pensiamo che a fianco a Péron c’è anche l’Ulan Bator Amaury Cambuzat. Ma non è una novità.Gli ex ragazzi sanno che comunque la struttura è quella. Sanno che si può ancora sforare di minutaggio e infarcire la tradizione con quelle chitarre missili che ti sparano in alto. Fuochi artificali nella notte del post. E quindi ci vanno di progressività che è tutto un ricordo. L’iniziale Kundalini Tremolos è una rivisitazione dello shoegaze con quei crescendi che hanno fatto la fortuna delle band targate Constellation, 9 minuti che ti introducono in un mondo alieno, in un magma fatto di piatti che disorientano (Accroché à Tes Lèvres), downtempo dark e melismi che guardano al santone Stockhausen (Stimmen appunto). E poi ti rendi conto che la base su cui stanno viaggiando è un afflato che più rock non si può: un basso più carico che mai di slap, una chitarra che trasuda pinkfloydismo da ogni poro e una percussività che si mescola osmoticamente con l’elettronica pastosa e analogica dei moog. E Zappi, che con quel battere pachidermico di batteria riconosceremmo tra mille, autonomo e trascinante insieme.Una strategia che affianca e che scuote le basi della chanson francese. Un terremoto che va indietro nel tempo a suon di trombe, riverberi pastosi e un cut up vocale sussurrato dal futuro. Dopo 30, 40, 50, 1000 anni (essendo oltre, i nostri non hanno più età) i Faust sanno ancora quello che fanno. Altro che demenza senile. Loro ci sono ancora. Qualche volta affidarci alla sicurezza dei pilastri ci conforta. Certezze d’antan.(7.2/10) Marco Braggion, Gaspare Caliri Francesca Lago - The Unicorn (Autoprodotto, Mar 2009) G enere : folk Ascolti The Workings Of A Dubious Life e ti viene da pensare in un battibaleno alla P.J.Harvey di Uh Huh Her.Stessa flebile asprezza della voce, stessa sei corde elettricascarnificata. Eppure, ciò che ti si para davanti inquei due minuti e trentasette, èsolo parte del bagaglio musicale di Francesca Lago, una breveparentesi che fa il paio con il folk spettrale messo in bella mostranel resto del programma. L’intentosembra essere quello di togliere consistenza al suono, per dar spazioa un cantato solitario in bilico tra introspezione e sussurro,sfumatura e melodia minimale, grazie anche a chitarra acustica,qualche sovraincisione e rarissime basi elettroniche. Una ventina diminuti spesi su variazioni che richiamano la tradizione folk inglese– la title-track – e aperture melodiche di più ampio respiro che tuttavia non vanno maioltre la soglia dell’essenzialità. Per un disco che scegliecoscientemente la via di un’autoproduzione orgogliosa e necessaria,in aperta contrapposizione con quel MoscaBianca pubblicato da Edel dodicianni fa che rappresentò il primo passo di Francesca Lago nel mondo della discografia ufficiale.(6.9/10) Fabrizio Zampighi Francisco Lopez/Lawrence English HB (Baskaru, Gen 2009) G enere : elettronica sperimentale Non è sempre detto che “due menti lavorano meglio di una”, è il caso della nuova uscita siglata Baskaru, dell’artista visuale e sonoro Lawrence English e del portoghese Francisco Lopez, riconosciuto come uno dei più eclettici esponenti recensioni / 55 dell’elettronica sperimentale. Entrambi non sono certo nuovi alle collaborazioni, avendo in passato diviso dischi e progetti con artisti blasonati (Steve Roden, Mark Behrens o Andrey Kiritchenko per Lopez; David Toop, Ami Yoshida e KK Null per English).Come certamente è comune il linguaggio utilizzato, fatto di devozione al silenzio, impressioni in presa diretta, attenzione agli stati percettivi o la ricercata materia sonora, dai suoni ambientali e industriali (Lopez) alle relazioni tra suono e struttura (English). Aperture conosciute quelle di Lopez (Untitled), sensibili come sempre alle assenze del mondo tra ronzii e tremolii, che quasi sembrano diventare, per English, premesse da maneggiare con estrema concretezza e astrazione tra crescite in distorsione (Pattern Review by Motion) o letture di superfici (Wire Fence Upon Opening). Ed infine le chiusure di Lopez (Untitled #204) in perduti soundscapes al confine con il visibile grazie all’efficace sovrapposizione di field recordings dall’anima concreta. Alle quattro tracce di HB nate da un interscambio virtuale manca però un tema comune, sicuramente voluto ma latente alla prova dei contenuti. Diverso il caso della tecnica, scorta iil più delle volte a dialogare con profitto, pur se in alcuni casi prevalicato dal manierismo di Francisco Lopex (quello stesso rilevato nella sua traccia di Audible Geography per fare un esempio). (6.4/10) Sara Bracco ve. Non c’è il pathos del concerto dal vivo, non ci sono l’aspetto visivo delcontesto né tanto meno l’aspettativa del sotto palco, il sudore, lacondivisione. Insomma, si sarà capito. I live non mi piacciono e questo LastNight… è un live. Registrato tra il Clwb Ifor Bach di Cardiff (dovesuonarono i primi, incogniti shows un paio di anni addietro) e il Water Rats di Londra sul finire dell’agosto scorso, questo 19 tracce inaugura il legamediscografico con la 4AD e propone molti brani dal debutto Curses,compresi gli ottimi singoli adeadenemyalwayssmellsgood e FingersBecome Thumbs, oltre che quattro nuovi pezzi che dovrebbero finire sulnuovo album. Di sudore ce n’è tantissimo, tanto per tornare su temiorganici, nella cover dell’album che immortala il bassista Kelson Mathiasscatenato in mezzo al suo pubblico. Di energia, altrettanta, specialmente nellaconclusiva Cloak The Dagger: 10 minuti di furibondo noise-rock proprio al confine con i (furono) McLusky.Nonostante la mia atavica idiosincrasia, Last Night…fotografa un gruppo in grande forma e spolvero lasciando ben sperare per il nuovo album in arrivo.(6.5/10) Stefano Pifferi Future Of The Left - Last Night I Saved Her From Vampires (4AD, Mar 2009) G enere : noise - rock Giuseppe Ielasi - Aix (12k, Feb 2009) G enere : elettronica ambient Non ho mai capito l’utilità dell’album dal vivo, tantomeno la necessità che un gruppo ha di farne uscire uno, ma credo sia unproblema mio. Forse ad un certo punto della propria carriera si avverte ilbisogno di mettere un fermoimmagine sulla propria arte, immortalando un precisomomento dello sviluppo artistico di un determinato progetto.Da ascoltatore però non riesco proprio a digerirli, ili- Indossa una veste nuova lo Ielasi di Aix, album che prende il nome dal luogo dove è stato registrato (Aix en Provence, dove l’artista si è trasferito per l’anno 2008-2009). Il ritmo sembra ormai di casa considerate le premesse in giradischi ed elettronica funk della trilogia Stunt (Schoolmap Records), organizzato in impulsi e brevi segmenti che in Aix lasciano il po- 56 / recensioni sto a rotture e sequenze di micro blocchi. Si selezionano le materie prime in campioni, la cui trama rimane sintetica pur con il percepibile rilievo acustico di percussioni, chitarre, tromba e vinili; campioni che sfasano gli accostamenti sonori lineari e principalmente orizzontali di Stunt e funzionano da materia prima di verticali in on/off. L’attenzione al dettaglio è rigorosa, orientata e condizionata dal ritmo, tra danze jazz e 4/4 di delicate sorgenti minimali. Mentre la presa di coscienza dello spazio è prestabilita all’interno d’un griglia già definita, fissato una volta per tutte nei movimenti d’organo su fondi sfrigolanti di Untitled 01, nei battiti rigorosi di Untitled 02. C’è chi poi non potrà fare a meno degli slanci di Untitled 03, dei primi piani di Untitled 05, o, per i più nostalgici, delle elettroacustiche in riff di Untitled 09. Per poi rendersi conto che la materia è assolutamente differente non solo rispetto agli stili cari alla 12k, ma anche rispetto alle stasi, le meditazioni e i drones dall’ampio respiro di August o alle acustiche a sei corde di Plans.(7.3/10) Sara Bracco Gnaw - This Face (Conspiracy Records, Mar 2009) G enere : N oise - drone sintetico Gli Gnaw sono la nuova creatura del cantante Alan Dubin, che messi da parte iKhanate presta la sua voce agghiacciante a una ennesima cronaca del terrore.Con lui Jamie Sykes (Burning Witch, Thorr’s Hammer) alla batteria, infineCarter Thornton e Jun Mizumachi, insieme a modellare la melma nera, l’abissalenoise sintetico che costituisce la sostanza fondante di questo disco. Devastante il primo brano, Haven Vault, in cui gli Gnaw sommergono conun oceano di ultrabassi, colpi sparsi di batteria che come un epilogo alcontrario introducono ai sabba infernali post-mortem del resto dell’album. Da Vacant in avanti si innescano ritmi primordiali e vengono alla mente gli Scorn di VaeSolis o una versione black-metal degli Shit&Shine. Feelers esplodeco- me un’apocalisse in slow-motion, dopo una cupa introduzione si innescamassiccio un implacabile crollo. A venire percosse non sono più pelli ditamburi, ma l’intero segnale, una sequenza temporale scandita da tuoni esquarci. Backyard Frontier, Shard sono psichedelie da bad tripche attraverso percussioni primitive e graffi digitali conducono la mente inluoghi che non si vorrebbe mai esplorare. Pulsazioni convulsive, dissonantinenie si sovrappongono e si distaccano fino a sezionare la percezione, in unasensazione di torbido stordimento che permea tutto il disco. Ma è ancoranell’aritmia di Ghosted che i Gnaw danno il loro meglio, quando Dubindeclama scomposto come dei concetti troppo terribili da spiegare, mentre tutto intorno è buio e disperazione. Delle belle sensazioni.(7.5/10) Leonardo Amico Goblin Cock - Come With Me If You Want To Live! (Robcore / Touch And Go, Gen 2009) G enere : A cid D oom R ock Tuniche e cappucci in stile Ku Klux Klan,rigorosamente nere, cinque energumeni che imbracciano altrettante chitarre,nascosti dietro esilaranti nickname (Lord Phallus, Ass-Pounder, Braindeath), unimmaginario eroico da Power Metal, curiosa parodia dei serissimi Manowar, e unnome che non lascia dubbi sull’ironica presa in giro: Goblin Cock, dove laseconda parola, stando ai vocabolari della lingua inglese, sta sì per “gallo”,ma si riferisce anche all’attributo maschile per eccellenza. Così come nei mascheramenti e nei simpaticissimi video(quasi una versione metal di alcuni deliranti clip dei Residents), anche nellamusica la band di Rob Crow, approdata, dopo un silenzio durato quattro anni, alseguito dell’esordio (Bagged And Boarded), presenta una versione del tutto suigeneris del metal. In realtà i Goblin Cock più che una band doom, come qualcuno l’hadipinta, ricordano la versione più graffiante e dura del grunge anni ’90, i Tade lo psych recensioni / 57 rock dei Jane’s Addiction. Le atmosfere, più che tendere altenebroso, si infittiscono di trame acide e psichedeliche, fino ad abbandonarsia ballate paranoiche alla Alice In Chains (Tom’s Song). Anche gli episodi piùThrash come la conclusiva Trying To Get Along With Humans o gli inconfondibiliriff doom di Ode To Billy Jack, possiedono solo un vago sapore metal e sono“sporcate” da distorsioni chitarristiche che hanno poco a che vedere con lapossenza dei riff metallici, divagando spesso e volentieri verso i lidi delnoise rock. Uno stile, in fondo, completamente fuorviante rispetto all’immaginedel gruppo, che crea uno scollamento rispetto alle aspettative. Un giocodivertente e sarcastico nei confronti del metal più pomposo e grossolanamente epico.(7/10) Daniele Follero Handsome Furs - Face Control (Sub Pop, Mar 2009) G enere : elettropop Al secondo disco Dan Boeckner (Wolf Parade) e fidanzata Alexei Perry sembrano aver perso quel po’di tensione emotiva e concettual-musicale che animava il loro esordio PlaguePark del 2007.Formatisi come duo elettronico minimale a latere deinumerosi progetti gravitanti intorno al gruppo madre e alla scena indie diVancouver, laddove nel primo coniugavano suoni ed estetica ’80 zona Suicide/New Order con elementi Bowie/Arcade Fire, qui accentuano la componente elettro, scarnificandolaparecchio. Il risultato non è però quello sperato, risultandopovero di idee e piuttosto monotono nei suoni. Il solito contrasto chitarra evoce bowiana contro suoni minimali lascia il tempo che trova, e quando si tentadi immettere qualcos’altro (ritmiche e suoni Jesus And Mary Chain in NyetSpasiba per esempio) il risultato è tutt’altro che esaltante. Non bastal’attitudine pop e fashion indie questa volta a reggere il gioco, scopertissimo del resto. Peccato.(5.5/10) Teresa Greco 58 / recensioni Heartless Bastards - The Mountain (Fat Possum, Feb 2009) G enere : heavyblues Highlight Gli Heartless Bastards provengono da Dayton, Ohio.E subito verrebbero in mente nomi quali Guided By Voices o Brainiac.Niente di tutto questo. Erika Wennerstrom bazzicava i locali cittadini inquello squarcio di Nineties vide le citate band in azione. Ma The Mountaingioca carte diverse. L’ispirazione e il coraggio per formare il gruppo, le harubate ai suoi eroi in note, eppure il dato di fatto musicale la vede ben lungidal perseguire pedissequamente orme già calcate. Almeno non dalle summenzionateband! Doni Schroader, Billy White, Ricky Ray Jackson, Mark Nathan, Zy OrangeLyn e McCarthy completano la formazione che suona il disco recensito. Tracceblues dei padri fondatori (Could Be So Happy), sprazzi di cantautoratocountieggiante (Hold Your Head High), esplosioni di fragorosi baccanaliheavyblues (The Mountain, Early In The Morning). Erika, chitarra evoce, ci fa spesso la figura di una Plant in gonnella. Posseduta dademoni che le corrono lungo la spina dorsale formicolandone le libidini blues,la Wennerstrom mostra capacità scrittorie notevoli (Out At Sea, NothingSeems The Same, che si ispira ai ‘talking blues’ di Jeffrey Lee Pierce). Fossero usciti nel 1994 avrebbero fatto concorrenza ai Gits.(7/10) Druid Perfume - Self Titled (Pigs, Dic 2008) G enere : new - free - detroit - underground Massimo Padalino Gaspare Caliri Henrik Schwarz/Ame/Dixon Grandfather Paradox (BBE, 2009) G enere : A vant -T echno Non dev’essere facile fare il punto di una scena cittadina in un disco; cioè, non farlo programmaticamente, ma esserlo di fatto, il punto, per un crocevia di tempistiche, coordinate, personaggi. I Druid Perfume sono probabilmente una ottima rappresentazione della scena underground della Detroit di oggi. E il loro esordio self titled raccoglie in primo luogo l’eredità dei Piranhas, i cui 3/5 di formazione (Jamie “Jimbo” Easter, Bryan Wade, Ryan Sabatis) sono confluiti nella band profumata di druido; altro grosso peso. E però i Perfume non sembrano proprio agire pensando a tutte queste responsabilità, ma con il solo obiettivo di fare musica lancinante. L’ugola del piccolo pesce ferocissimo si è indurita e si è imparentata con Beefheart, citato – ma solo a tratti – pure dal sax folle presente nel disco; forse è persino tornata a ululare come negli happening di Allen Ginsberg; ma al capitan scoreggia si deve pur tornare per quel la partita a scacchi tra ritmo e armonia – qui vinta dal potere del riff, ma a punti - fino ad annusare quella suddivisione di memoria pereubu-iana tra sezione ritmica rock-ancestrale e dada-follia atonale e free – e se non vi è chiaro ascoltate, in Ego Death, il rapporto tra synth/theremin e sax da un lato e il combo batteria-basso-seicorde dall’altro, con la decelerazione che fa da collante per assurdo. E ancora, patafisicamente, respirate a pieni polmoni il forte e autodichiarato sentore di baracca circense, lo spirito endovena di Laughing Clowns, quello di Stu Spasm… Lungo la fuga/deriva free della finale It Sleeps, vi accorgerete di una cosa; di esservi dimenticati del punto da cui siamo partiti, le scene, la summa, Detroit; ci si ricorderà per un po’ dei Druid Perfume, ma come Druid Perfume punto.(7.5/10) The Feb Scendonoin campo tre dei produttori minimaltechno più in voga, quasia mettere nero su bianco le loro fascinazioni musicali, per una voltasvincolati dall’idea del riempipista a tutti i costi. Un’indagineche travalica i confini del genere. Inteso come tributo ai propripadri putativi The Grandafther Paradox – come recita lo stessosottotitolo – è un viaggio imprudente a cavallo di 50 annidi musica minimalista. Ferma restando la verace attrazione verso imaestri moderni del ritmo quali Robert Hood, Daniel Bell, Plastikman,Mike Ink o – altrove davvero – Panasonic, i nostri mettono manoad un ideale catalogo omnicomprensivo, valutando secondo un processocreativo azzeccatissimo i crismi secondo cui procedere. Come accadutoin passato per la stessa label, gli artisti si cimentano sulla doppiadistanza, presentando un primo cd mixato ed un secondo fatto diselezioni autentiche, in questo caso estratti da dischi cruciali. Hosempre apprezzato Schwarz, una sorta di revisionista elettronico delverbo afro-funk, in questo contesto arrivo anche ad accettare laverve di Ame e Dixon, notoriamente più impelagati nellaquestione minimal-techno. Ho sempre sostenutoche l’idea di dance non dovesse essere unicamente relegata ad un boxasettico, nè tanto meno recensioni / 59 all’ordine preposto dei bpm. La danzain quanto metafora antica è una catarsi senza tempo, ed ilparadosso in questione vuole indirizzare la clunb culture versoquelli che sono gli albori di un movimento, di una cadenza,riscoprendo l’ardore di un viaggio tribale. Decisamente portentosa laselezione mixata, una cassa mai invadente funge da collanteassorbendo I passi di un minimalista per eccellenza quale Steve Reich (in combutta con Pat Metheny nell’Electric Counterpoint) sfiorando lesuadenti onde house di Etienne Jaumet (in un remix ad hoc dellostesso Ame), le figure ritmiche dei Liquid Liquid di Lock Groove s’incastrano nell’incedere solare dei giganti black Cymande. Scivoliamo poinella nera electro del regista John Carpenter – The President IsGone – per assaporare a breve giro The Three Faces Of Balal diYusef Lateef, che come d’incanto si trasforma in una remota hit stilebalearic. La selezione dei tre trasfigura spesso e volentieri brani aloro modo simbolo, inseguendo però un nobile modus operandi. Nel secondo cd oltre agli originali altre chicche d’epoca, al fianco di un immancabile Arthur Russell – Make 1,2 – la wave germanica dei Pyrolator – November Mulheim – poi i Can di Sunday Jam a braccetto con i Young Marble Giants di N.i.t.a. Una lezione di stile in pillole.(7/10) ste canzoni.Dopo arriva il resto della band, che gioca fra le maglie di un malinconico dream pop figlio di ragnatele Tindersticks e di sensualità glaciale degna degli ultimi Devics. Aggiungete un po’ di sana spazialità figlia dello shoegazema in chiave pop, melodie perlopiù ruffiane e telefonate, uno strano senso diperfezione e di “ogni cosa al suo posto” (che ahimè deve essere dovuto alla produzione di Nigel Godrich, che a mio avviso fa magie solo con i Radiohead) e una curiosa tendenza versoil mellifluo e avrete una confezione fantastica con un album solo sufficiente al suo interno. Emozioni di plastica verrebbe da dire. Scorre talmente bene che sembra di essere intontiti, quasi intorpiditi, se non fosse che qualche numero veramente esce dal mazzo: il singolo Cities Burning Down Again è mestiere shoegaze versione Rapid EyeMovement, Digital Hearts è lafantastica caratura di una Tanya Donnelly che emerge, Treasure Hunt insieme a Ms.Bell’s Song sono il meraviglioso spirito dei Devics reso ancora più toccante ed europeo. Si cade invece nell’iperglicemico quando si materializzano spettri Berlin nella sconsolata Nightingale, quandol’innocenza si fa parodia di se stessa (Let’sBe Kids) o quando il soul abbattuto prende il sopravvento nella conclusiva How Long (che sia la versione femminiledi Condemnation dei Depeche Mode?). Non si stronca un disco così, perchè si sente che il lavoro è stato fatto mediamente bene, ma la puzza di patinato e di compitino è ovunque e il dispiacere per il fatto che determinati spunti di base interessanti non siano diventati stimolo per rischiare, lascia un po’ di rammarico.(6.3/10) Luca Collepiccolo Alessandro Grassi Howling Bells - Radio Wars (Pias, Mar 2009) G enere : indie pop Hudson Mohawke - Polyfolk Dance EP (Warp Records, Gen 2009) G enere : H app y W onky - hop Il ritorno degli Australiani Howling Bells (trapiantatia Londra) è un disco che si presenta solido, incentrato sulla bellissima voce di Juanita, protagonista indiscussa dell’impatto emotivo di que- Dietro al nome Hudson Mohawke si cela un ragazzo di 22 anni di Glasgow. La periferia che guarda a Londra e che mescola mescola mescola. Il suo EP (a cui seguirà probabilmente quest’estate 60 / recensioni il full lenght) viaggia ai confini dei generi. Passepartout estetico obbligatorio più che mai per farsi sentire nel magma electro. Ma la sua proposta non urla, anzi ride. Happy hop è la parola d’ordine sulla bocca di tutti i critici e bloggers electromusicali. Il giochino che nasce con l’ardcore e che tramite il brekbit sopravvive al tempo; il famoso ‘continuum’ teorizzato e professato da quel santone della critica che è Simon Reynolds.Qui i suonini giocattolo la fanno da padrone, ma è un giochino in stile eden Animal Collective. Il disco che abbiamo sottomano non supera nemmeno i 20 minuti, ma ci parla di molte sonorità che spopolano: il funky bianco post Gang of Four in salsa brekbit, quel suono che toglie un colpo al quattro ed è gia dubstep (Overnight), le vocine all’elio muppetsiane must per gli ‘ardkore maniacs (Polkadot Blues), il d’n’b mascherato da Zecchino d’Oro e scuola Aphex (Velvet Peel) e in generale una visione che gioca a nascondino con la storia dell’elettronica.Un tributo ai maestri che prelude al successo. Hudson, u know the score.(7/10) oscurità in drones (Invocation) passando attraverso i cristallini fondali di In Absentia o le recondite risacche di violoncello (Gloaming), il passo è breve e l’anima umorale paradossalmente opposta. Il mutamento è evidente e non è dettato dai singoli episodi, ma dall’insieme, quasi ogni elemento si concedesse al successivo plasmandolo, influenzandolo o negandolo. La sensazione è che poco per volta l’identità prenda forma tra atmosfere lynchiane (Portrait of God with Broken Toys), dialogate latenze (Chaplins of Ms Selfridg), o memorie elettroacustiche (Freeview) in chitarre (Mouth Replaced, Tears Removed) e pianoforti che si ritagliano attese in radiofrequenze (Exanimation) o anime narranti (Dalkeith Night).Non temono confronto i chiaroscuri di Human Greed con i delicati torpori del Basinski o la dark ambient di Aidan Baker. Stati umani d’ urgente oscurità e di morbosa bellezza a tratti violenta, a tratti confortevole: in cui trovare rifugio o nei quali riscoprirsi appartenere.(7/10) Sara Bracco Marco Braggion Human Greed - Black Hill: Midnight at the Blighted Star (Lumberton Trading Company, Gen 2009) G enere : elettronica ambient Parlano uno straordinario linguaggio le quindici tracce di Black Hill:Midnight at the Blinghted Star, terza uscita degli scozzesi Human Greed, progetto musicale di Michael Begg e Deryk Tommaso.La formula collaudata e riconosciuta delle passate esperienze, si arricchisce del prezioso contributo di artisti quali: Julia Kent (Antony & la Johnsons, Blind Cave Salamander), David Tibet (Current 93), Fabrizio Modonese Palumbo (Blind Cave Salamander, Larsen) e Clodagh Simonds (Mellow Candle, Fovea Hex).La vocazione dark è insita nelle trame oscure e plumbee che assecondano l’insieme, tra elettronica ambient ed elettroacustica; il tutto filtrato attraverso una contemporanea matrice concreta. Dalle iniziate Il parto delle nuvole pesanti - Slum (Storie di note, Giu 2008) G enere : etnico “Slumsono le bidonville nate nelle periferie dalla periferia del mondo, inAfrica. Sobborghi disperati, discariche umane, dove la povertà e lasolitudine della fame e di malattie atroci scandiscono il destino diintere famiglie, assieme al mai sopito desiderio di scappare e ilsogno di un Europa tanto a lungo immaginata, troppo spesso cosìdiversa dalle aspettative”. È un’opera ambiziosa, Slum,un progetto che unisce teatro e musica. In primis nella forma, dalmomento che ci si trova di fronte a un tutt’uno di note e recitazione, e poi nell’intuizione, per una volta sensata, di unire CD e DVD in un unico supporto. Si parla di viaggi della speranza, nell’ora di spettacolo, di una scelta obbligata che si trasforma nel pellegrinaggio senza ritorno di Mirna, emigrante africana in cerca difortuna e destinata invece, recensioni / 61 alla strada. Un viaggio fatto disacrifici e violenza, per sfuggire da un passato feroce e dal doloreper la morte del figlio. A dar voce al personaggio in un monologo catartico e coinvolgente, Milvia Marigliano, attrice, autrice eregista. Un’artista che riesce nell’impresa di non banalizzare iltema dell’immigrazione nella solita macchietta da TG cannibale,facendo emergere, invece, il dramma umano nascosto dalle notizie d’agenzia. Con il gruppo che diventa attore, scenografia ecaratterista, oltre che curatore della colonna sonora, pronto ainteragire con la Marigliano e bravo a musicare i vari momenti della rappresentazione con un fluire etnico di note calde provenienti dall’Europa mediorientale, dall’Africa e dal Sud Italia.(6.9/10) Fabrizio Zampighi Jacob Kirkegaard - Labyrinthitis (Touch Music UK, Nov 2008) G enere : elettroacustica Sicuramente la materia non è nuova; qualcosa lo si era già detto nelle premesse settecentesche di Giuseppe Tartini con il suo omonimo “sistema tartini”, successivamente rese pubbliche nel “trattato di musica” di Romieu (1751), passando attraverso le nuove questioni sulla percezione e l’ascolto attivo; cardini compositi del John Cage di 4’33” a cui sicuramente devono molto le sinusoidali in relay di CM Von Hausswolf (performance/evento Touch 2006). Parliamo delle “emissioni di otoacoustic”, veri e propri “prodotti” sonici che si generano all’interno della coclea; quando l’orecchio viene stimolato da due toni puri a una determinata frequenza al punto che, a causa di fenomeni di distorsione si genererà un terzo tono; l’orecchio a questo punto da semplice traduttore diventerà un vero e proprio meccanismo attivo. Partendo da questi presupposti e servendosi di specifiche strumentazioni mediche Jacob Kirkegaard cattura e studia il fenomeno per poi combinarlo e riprodurlo artificialmente tra distorsioni 62 / recensioni in frequenza e primarie micro tonali. L’approccio sonoro è affascinante merito di quella modularità spaziale itinerante, dettata dalla frequenza e dalla tonalità, il tutto elegantemente avviato in lineari stesure a tre fasi tra singolarità, dualità ed opposti. Trentotto minuti di perspicace ed incantevole educazione all’ascolto tra scienza e pratica sonora; più difficile da dirsi che da ascoltarsi!(7.5/10) Sara Bracco Jeremy Jay - Slow Dance (K Records, Mar 2009) G enere : songwriting A distanza di neanche un anno dall’ultimo notevole A Place Where We Could Go, ecco ritornare JeremyJay, songwriter e polistrumentista americano con tutto un immaginario europeotra sixties ed eighties. La formula è rimasta perlopiù immutata, vale a dire unmix di sensibilità vintage filtrato attraverso gli Ottanta (Buddy Holly rivistoda Elvis Costello), di attitudine spiccata verso il cantautorato decadente francese (Gainsbourg/Hardy) epronunciata new wave, con le tastiere e i bassi sempre preponderanti. C’è da dire che i suoni rispetto al precedente si fanno un po’ più rarefatti ed elettronici, riprendendo abbastanza il synth popGary Numan/OMD filtrato con l’oggi degli Air. Con forti rimandi al primo Tom Verlaine pre-Television dei Neon Boys con Richard Hell, a testimonianza dell’amore del Nostroper quel periodo della New York di metà ’70, dove dandysmo ed estetismodecadente si sono incontrati, si vedano anche i Modern Lovers prodotti da John Caleche gravitavano allora nell’area. Non manca comunque la consueta dose psych in voce acida, che condensa una certa sintesi di cantautorato che dal già citato Costello porta a Micah P.Hinson (Winter Wonder), e gli umori rock-glam seventies (Will You Dance With Me?) alla Bowie periodo HunkyDory. E proprio il rimando a Bowie ci riporta al primo pezzo deldisco, quel We Were There con lacitazione delle tastiere kraftwerkiane alla TransEuropa Express, pezzo che omaggiava il Duca Bianco berlinese dandy. E il cerchio si chiude intorno all’immaginario di Jeremy Jay. In Slow Dance non c’è però poi molto di differente rispetto all’album di esordio, ci si aspettava magari una svolta in una direzione precisa piuttosto che la riproposizione più o meno pari pari di piste già battute.(6.8/10) Teresa Greco John Zorn - The Crucible (Tzadik, Dic 2008) G enere : A vant J azz M etal Sembrava essersi fermata al terzo capitolo, la nuova esplorazione del metal estremo da parte di John Zorn, musicista già avvezzo a contaminazioni del genere sin dai tempi dei Naked City. E invece, senza perdere troppo tempo, il saxofonista americano smentisce l’idea della trilogia, inaugurata da Moonchild e ricompone il trio Mike Patton – Trevor Dunn – JoeyBaron, stavolta rafforzato da una new entry, Marc Ribot. La presenza di quest’ultimoe del suo stile chitarristico blueseggiante, seppure limitata ad un solo brano(9x9, “a Led Zeppelin influenced track”, come l’ha definita lo stesso Zorn),può dare l’idea del cambio di rotta che The Crucible rappresenta in rapporto ai suo predecessori. Il sound metal perde il valore assoluto che possedeva in Moonchild, senza tuttavia sparire come elemento identificativo del combo,mentre acquistano spazio e visibilità elementi jazzistici e modalismi alla Masada, incantevoli fraseggi diatonici del sax che si insediano tra un urlo di Patton e un’ esplosione rumorista. Metal ma non solo, dunque. A partire dai due brani iniziali, probabilmente i più legati al passato della band: Almadel e Spaceshifting alternano riff metallici a violente sezioni free,nelle quali Patton esprime le qualità più acute della sua voce. Diverso il discorso per il resto dell’album, che vira in più direzioni, verso le atmosfere dark doom di Maleficia (con Pattonche recita con voce sussurrata e stregonesca, su un substrato ritmico quasi tribale) e Incubi (con il Zorn piùjazzistico), o in direzione di territori più vicini all’idea musicale estremista di Naked City e Massacre (Hobgoblin). Il basso compresso di Dunn e la batteriaschiacciasassi di Baron restano sempre un punto di riferimento, sia nei momenti più “pesanti”, sia quando la pulsazione aumenta notevolmente, sfiorando il jazz-core di band come Zu, salvosviare completamente e in maniera del tutto inattesa in episodi di caos-ordinato tipicamente zorniani. Un altro, l’ennesimo, lavoro imperdibile per chi segue appassionatamente il saxofonista statunitense (ma come si fa a non perdere nulla di un musicista che pubblica una ventina di dischi all’anno?)(7.7/10) Daniele Follero Julie’s Haircut - Our Secret Ceremony (A Silent Place, Mar 2009) G enere : psichedelia - kraut Il disco che non t’aspetti. O forse si. Le avvisaglie c’erano tutte all’epoca di After Dark, My Sweet, un tre anni fagrosso modo. Ma questo doppio, monumentale, nuovo disco – 90 minuti equamente divisi tra i sermoni del primo cd e le liturgie del secondo – sposta di parecchio gli equilibri del sestetto emiliano. Forse a contribuire – per lo meno nell’immaginario di chiascolta e scrive – è anche il marchio col quale Our Secret Ceremony vede la luce, (quello della pugliese A Silent Place) ma quello messo in scenada Julie’s Haircut sembra il punto d’arrivo di un percorso di crescita contraddistinto ultimamente dalle collaborazioni/amicizie con gente come DamoSuzuki e Sonic Boom. A segnare le coordinate del suono del doppio è infatti l’incrocio tra il motorik kraurecensioni / 63 to riconducibile alle escursioni del primo el’alea psichedelica dilatata e liquida delle esplorazioni del secondo. Paradigmatico di questo procedere è Origins, per chi scrive il pezzo migliore del lotto: un crescendo circolare che esplode, si placa, riparte per poi avvitarsi su se stesso avvinghiato ad un giro di basso semplicemente eterno alla fine dei 12 minuti del pezzo. Non da meno le restanti tracce del cd Sermons:l’iniziale Sleepwalk col suo beat sintetico + basso imperioso mostraconfini nuovi da subito; il carrarmato (dopo)rock The Stain dilata quei confini verso l’Albione più hardelica e sospesa evocata dai Black Angels; TheDevil In Kate Moss gioca di specchi con White Light/White Heat e poi siabbandona ad una cantilena allucinata; Let Oracle Speak riesuma lo spettro piùevanescente dell’asse Loop/Hair & Skin Trading Company e chiude il cerchio. Non sono da meno le 6 tracce di Liturgy: il centropropulsore resta il motorik del basso/batteria ma i tempi si dilatano, le atmosfere si frastagliano, i suoni si fanno caleidoscopici. Entra in gioco l’anima jazzy-ludica (l’esorcismo della seconda parte di The Devil In KateMoss), le immersioni nel deliquio psichedelico sixties polveroso e malato (HiddenChannels Of The Mind), lo spargimento di note di piano sui 12 minuti di BreakfastWith The Lobster. Se fosse un esordio ci sarebbe da rimanere a bocca aperta,ma visto e considerato che è lo zenith di un percorso creativo che ormai vaavanti da anni su livelli di eccellenza, non considerare Our SecretCeremony un capolavoro con la C maiuscola sarebbe un delitto oltre che un’offesa ai Julie’s Haircut.(8/10) mantenuti da altri componenti. Intanto lui e il batterista Wyskida continuano insieme come duo e nei Khlyst, O’Malley (chitarra nei Khanate) ha i suoi Sunn O)) oltre a mille altri progetti e infine il cantante Alan Dubin esce con i nuovi Gnaw (in questo SA). Clean Hands Go Foul non è del nuovo materiale, ma risale a delle registrazioni fatte nel febbraio 2005, durante le session di Capture & Release. Una sorta di testamento, quindi, e il suono del disco lo testimonia. Se nei precedenti lavori la musica dei Khanate sembrava offrire un muro ad ogni moto d’animo, atrofizzare l’ascolto di fronte a manifestazioni di violenza senza vie di fuga, Clean Hands Go Foul sembra invece catalizzare delle emozioni. Progressioni su scale minori che mai avevano avuto un ruolo predominante nella loro discografia, ora costituiscono il tema portante. C’è come una sorta di rassegnazione tragica in questo disco, come se nemmeno i Khanate stessi siano più riusciti a sopportare la tremenda oppressività della loro musica e avessero deciso in una volta sola di sciogliere tutte le tensioni mai risolte accumulate negli anni precedenti. Intendiamoci, siamo sempre di fronte a distorsioni oltre misura, urla disperate e lentezze glaciali. Ma per la vera sostanza virulenta, quella dei migliori Khanate, è meglio cercare altrove.(6.5/10) Leonardo Amico Stefano Pifferi Khanate - Clean Hands Go Foul (Hydra Head, Mar 2009) G enere : ultra - drone I Khanate non esistono più. Questo è quanto. James Plotkin (bassista della band) nel suo sito spiega di aver lasciato il gruppo causa impegni non 64 / recensioni Lady Vallens - Double Mirror (Second Family Records, Gen 2009) G enere : electro dark C’erano una volta i parmensi Brother James, e non so se ci siano ancora. Lo ricordo come un trio che s’impegnava a far quadrare estro funk-rock e ghigni math con risultati lusinghieri ma piuttosto in ritardo sui tempi (correva l’anno 2004 ai tempi dell’opera seconda Days). Confesso di averli scordati, però Matteo e Rodolfo (rispettivamente chitarra e batteria dei BJ) tornano oggi sotto una nuova ragione sociale per una net label da loro fondata (all’insegna del free download), ed è inevitabile attivare link con quell’esperienza ormai lontana nel tempo e nei modi: con questa nuova avventura - battezzata Lady Vallens – danno vita infatti ad un impasto scabro e brumoso di ipnosi sintetiche e ruggini elettriche tra i Cure e i Depeche Mode più solenni (vi basti Beauty), su cui il canto di Matteo caracolla ombroso tipo uno Ian Curtis sfibrato, strattonato e dissacrato (?) dalla livida stagione post-rock. Una parata di ghignanti oscurità che propongono vivide variazioni nell’apparente monotonia, vedi come Hate Song scomoda scabrezze desertiche tra Black Heart Procession e Dirty Three, o i guizzi sintetici caliginosi di una Death Katana come potrebbero degli Swans ipnotizzati Notwist, oppure prendete la vetrosa iridescenza di Crisis che ammicca My Bloody Valentine via Autechre, o ancora il funk quasi industrial di Ice On The Crack in derapage verso una noise-psych incarognita. Va detto che se l’impronta sonica è forte, non è accompagnata da una scrittura altrettanto incisiva. Nonostante ciò la proposta si difende bene, onorando quella svolta che auspicavamo. (6.9/10) Stefano Solventi Laura Marling - London Town EP (EMI, Gen 2009) G enere : cantautorato folk La ragazzina batte un colpo, così che non rischiamo di scordarci di lei. No che non potremmo, malgrado l’esordio ci avesse stupito più che altro per i suoi diciassette anni, ché quei folk vibranti e ombrosi si fermavano giusto sulla soglia dell’eccellenza, accontentandosi di una pur rilevante – quasi incredibile - compiutezza. Un anno dopo ecco questo ep nudo e crudo a metterci sul chi vive, chitarra acustica e voce per due tracce inedite (una title track all’insegna di passione al guinzaglio e impeto trafelato - la prima Suzanne Vega trascinata per Soho da Beth Orton - e una She’s Changed fatta di palpiti Carole King e guizzi teatrali quasi Frida Hyvonen) e una riproposizione in chiave raccolta delle già note (e notevoli) Failure e Tap At My Window, quest’ultima praticamente una versione demo con sottofondo di cinguettii veri. Le precedenti impressioni trovano piena conferma: se tutto ciò gli sboccia da dentro, e se non si guasterà strada facendo, potremmo sentirne delle belle.(6.7/10) Stefano Solventi Lebowski - The Best Love Songs Of The Love For The Songs And Best (Valvolare, Dic 2008) G enere : post - punk Cosarispondete se vi dico Devo, GangOf Four, Liars, OneDimensional Man? “Sonograndi gruppi, ma noi ci sentiamo molto legati al periodo post-punk e quindi più vicini ai primi due che hai citato”. Basta questo a circoscrivere l’ambito di riferimento dei Lebowski. A pattoche dell’immaginario chiamato in causa, riprendiate non solo le andature scoordinate e le chitarre spinose, ma anche l’autoironia. Solo così potrete comprendere appieno il significato di un esordiodiscografico sui generis in cui si mescolano elettriche taglienti,ritmiche in levare, progressioni uncinanti e testi del tipo “Ma io l’elfo l’ho visto, assomiglia a Clint Eastwood, solo che è muscoloso, solo che è più peloso”. Post-punk e surrealismo, ma anche noise e psichedelia, a infettare musica – la parte conclusiva di Didier e il suo cesto di Droga – ma sopratutto testi. Questi ultimi trasformati in un trip (apparentemente) senzasenso fatto di finte ingenuità (Ho fatto all’amore con Carlo,Carlo il più fico barista dell’Arci, Padre perdono se ho molto peccato, ma ciò che è accaduto mi è proprio piaciuto) e quotidianità nemrecensioni / 65 meno troppo improbabile (“È stato in Russia e ha comprato un cappello, con su il disegno della falce e martello, di politica gli importa niente, ma l’han menato uguale e quasi perde un dente”). Il tutto con l’obiettivo di far sorridere, stimolareuna riflessione ma soprattutto raccontare storie, poco importa se in rima alternata o in forma di narrazione (Zuber Buller e la giàcitata Didier e Il suo cesto di droga). A tirare per il baverol’anima più “fricchettona” della band e a riportarla coi piedi per terra, una scrittura musicale senza sbavature unita a un perfezionismo che coinvolge ogni aspetto: dagli automatismi tra gli strumenti a liriche che non ne vogliono sapere di spendersi in inutili in florescenze. Particolari che la dicono lunga sulla serietà “professionale” di questi “marchigianacci” un po’ scapestrati.(7.3/10) Fabrizio Zampighi Level - Opale (Spekk, Ago 2008) G enere : elettronica minimale C’è chi nel comporre non ci mette solo la testa ma, anche il cuore, lo dicono apertamente gli equilibri, gli assaporati momenti e le consapevolezze delle otto tracce di Opale neo uscita per G.B.Nichols e la giapponese label Spekk. Le prefazioni l’artista le aveva anticipate tra le decostruzioni digitali di Cycla (dicembre 2006, Spekk) trattate con assoluto minimalismo, adeguata attenzione alla lentezza, alla percezione dello spazio e delle distanze, il tutto sottoposto a quella personale maniera che ne cattura la materia e ne ibrida l’essenza. Le intenzioni rimangono tali ma, non si lasciano condizionare dalle manipolate e fratturate scritture care al disco precedente, per concentrarsi sulle fonti sonore, trai marmorei loop di pianoforte di Keith Berry e Linden Hale, le ambientazioni in drones e le tracciate origini in campioni.Indulgono alla meditazione ed inseguono le nostalgie i quarantasette minuti di Opale attingendo alla riuscita d’insieme a tratti dimenticandosi della singolarità in traccia senza temere confronto con 66 / recensioni le eleganti gesta di William Basinski, l’arte minimale e digitale di Taylor Deupree o la profondità zen di Kenneth Kirschner. Se si è amanti delle scene sottili, legati al riduzionismo o ai suoni fissati e considerando inoltre la preziosa cura non solo nei contenuti ma, anche nel contenitore; non c’è niente da fare ne rimarrete catturati!(7.3/10) Sara Bracco Lily Allen - It’s Not Me, It’s You (EMI, Feb 2009) G enere : synth pop dance Dopo l’acclamato MarkRonson, Lily Allen si affida, per la produzione del secondo album, a Greg Kurstin, già presente in alcuni pezzi dell’esordio Alright,Still del 2007. Siamo dalle parti di un dance pop Ottanta virato erivisto Air, con il consueto appealda bad girl londinese dei quartierialti e con tanto di esplicit lyrics al seguito. Synth pop a volontà (Everyone’s at It), melodie accattivanti e iperpop, accenni countryeggianti (Not Fair) e jazzati di maniera allagirl group sixties (He Wasn’t There).Ma Lily non è Amy Whinehouse o Adele e la sua voce piuttosto “normale”è sì funzionale alla produzione di stampo teen white, ma non fa brillare più ditanto il disco. Qui sembra mancare una personalità decisa, un guizzoche renda il tutto personale. Siamo di fronte alla versione brit di certo teen pop USA.(5.8/10) Highlight Hexlove - Pija Z Bogiem (Dreamsheep, Mar 2009) G enere : psychedelia post - moderna Ci sono artisti che sfuggono alle classificazioni e rifuggono dall’essere riconoscibili preferendo percorsi musical-artistici trasversali e misteriosi. Zac Nelson a.k.a. Hexlove fa indubbiamente parte di questa categoria. Autore di una serie di dischi per etichette come Holy Mountain e Temporary Residence sia in solitario come Hexlove che con altri progetti come Prints e Who’s Your Favorite Son, God?, Nelson sembra essersi ormai stabilizzato con l’attuale moniker. Ciononostante, Nelson ama confondere ulteriormente le acque con altri aka come Faulouah, col quale aveva prodotto lo scorso anno un doppio vinile split, in pratica con se stesso, sdoppiandosi tra i due moniker. Questo doppio Pija Z Bogiem vede la luce per Dreamsheep, etichetta di un altro personaggio trasversale e al limite del geniale, Valerio Cosi che i lettori di SA ormai dovrebbero conoscere abbastanza bene. E proprio come Cosi, seppur in ambiti stilistici diversi, Hexlove dimostra maturità invidiabile nella commistione di generi e stili, con un approccio realmente personale e sviluppando un muoversi spastico, al limite dell’autistico tra input diversi e variegati. Quelle di Hexlove sono pop-songs, ma non ortodosse, bislacche, post-moderne, testimonianza di un universo musicale in perenne e irrefrenabile espansione. Prendete Herb come pietra di paragone per l’intero album: french sound a la Air + Spacemen 3 + svisate drum&bass in continua accelerazione/decelerazione che si protrae per 15 minuti, inducendo ad una sorta di trance mutante, metà psych-folk, metà electrodigitale. Gran bel disco. Di quelli che uno si aspetterebbe nelle classifiche di fine anno se solo ci fosse ancora la voglia e il tempo – in tempi di sovraffollamento musicale – per “rischiare” un ascolto impegnativo. Noi abbiamo rischiato senza pentirci assolutamente.(7.2/10) Stefano Pifferi Teresa Greco Lotus Plaza - The Floodlight Collec tive (Kranky, Mar 2009) Genere: shoegaze I Lotus Plaza sono emanazione dei Deerhunter, dato che dietro al moniker non c’è altri che ilchitarrista del combo di Atlanta, Lockett Pundt. Detto questo, ovvio modo diprocedere è di confrontarsi con il gruppo “maggiore”; anche perché (come per Atlas Sound) non si tratta di una fuga dalla ragione sociale che ha dato fama e gloria a Pundt e compagni, ma di unprogetto che anzi comprende anche in un brano (Different Mirrors) la “fatica” batteristica diBradford Cox e il missaggio di Brian Foote. La cosa principale da dire è allora che il confronto con i Deerhunter non esprime per nulla una discontinuità; valga all’ennesima potenza ciò che fudetto per Microcastle – e che del resto si era detto anche in precedenza, con anticipo obiettivo, riguardo alle reminiscenze primi Ride; dietro The Floodlight Collective c’è tantosuono 4AD e tantissimo shoegaze, virato spesso dreampop. Alcuni episodi (Quicksand) sono mimetici ai recensioni / 67 liturgismi Galaxy 500 – magari sciolti in ulteriore bambagia, altri mescolano le ambientazioni acquose e sbiadite dello shoegaze più dolci con i maturi Spacemen3. Meglio quando si spinge fino in fondo l’opzione trip (These Yeasr); comunque i nomi erano e rimangono sempre i soliti. Ora: lo shoegaze secondo chi scrive non è probabilmente mai rinato. Non almeno così come si suonava quindici anni fa. Rimane il fatto che lo si possa fare bene o male; per quanto un giudizio cosìsia tagliato con l’accetta, rimane da segnalare che Pundt sa fare il suo mestiere. Perché è evidente che sia un mestiere.(6.5/10) Gaspare Caliri Low Frequency In Stereo (the) - Futuro (Rune Grammofon, Mar 2009) Genere: post rock Possiamo anche sbagliarci, ma pare alla Rune Grammofon, di recente, pensino più ad ingrassare il catalogo chealtro. The Low Frequency In Stereo è uncombo post-rock (esiste ancora?!) all’europea, come dei Deus dalle fattezzekraute. Futuro (mai titolo fu più inappropriato) sciorina ossute trame tra jazz e rock (Turnpike) che si perdono in spirali psichedeliche (Mt. Pinatubo) e digressioni pop (se Geordie la Forge e The End is the End richiamano la cricca di Barman come Stereolab, Sparkle Drive rischia la querela dai Blonde Redhead) senza pertanto colpo ferire. Enfatica la chiusa, forte di una Solar System che sembra farina dei primiVerve quando amavano perdersi in jam furibonde. Dischi come questo ci rammentano l’inesorabile scorrere degli anni.(6/10) Gianni Avella Luca Carboni - Musiche Ribelli (RCA, Gen 2009) Genere: cantautorato pop Luca Carboni è uno di quelli che non è uscito vivo dagli anni ottanta, dove quei suoi disarmanti minimi termini - la fragilità frugale e fiera da fratellino introverso di Vasco Rossi, il disfattismo 68 / recensioni intimista, quel background di periferia alla stregua di un universo auto-referenziale, come una cameretta con vista su un mondo che accelerava ostico e imprendibile - avevano un senso preciso di contrappasso rispetto ai clamori tossici, agli azzardi sintetici, alle sarabande patinate e ai sempre più confusi spaesamenti poetici che giravano intorno. L’impatto coi novanta però fu letale: il sarcasmo ad alzo zero di Ci vuole un fisico bestiale (in Carboni, correva il ‘92, ultimo lavoro bagnato da un considerevole successo) mise a nudo i limiti di un autore sperso che tenta la carta del sarcasmo finendo per sguazzare nella accattivante mediocrità da tormentone sotto vuoto. Per quel che mi riguarda, mi piace identificare la resa definitiva con l’imbarazzante Il mio cuore fa ciok, traccia contenuta nel successivo Diario Carboni (1993). Per non farla troppo lunga, più ne scriveva e meno ne azzeccava. Spiazzato, senza appigli nella contemporaneità, senza mordente né senso, fuori ruolo, fuori tempo. Da allora la temperatura si è mantenuta appena tiepida a suon di live, raccolte e qualche collaborazione più o meno opportuna (da Pino Daniele a Tiziano Ferro passando per Jovanotti). Ecco quindi che uscire con un album di cover a tema, il qui presente Musiche ribelli, sembra una via d’uscita più che plausibile. Direi di più: naturale. E assieme una dichiarazione di alterità, visti i titoli scelti: materiale anni settanta di area cantautoriale - De Gregori, Guccini, Bertoli, Jannacci, Finardi, Bennato, Dalla, Lolli, Battiato - dal piglio poeticamente engagée, che la voce chioccia e stropicciata del Nostro fa sembrare altrettanti soliloqui nostalgici, demarcazioni territoriali più che messaggi nella bottiglia da un’epoca più consapevole. Altrettanto opportuna anzi armonica la scelta di un producer come Riccardo Sinigallia, che pur limitandosi a fare il compito con garbo e senza azzardi aggiorna e non di poco il verbo sonico del Carboni (ne aveva un bisogno disperato). Non possiamo non rendere merito alla scelta di un pezzo come Ho visto anche degli zingari felici (in duetto col Sinigallia) quale singolo apripista, atto meritevole e coraggioso visti i chiari di luna. Ma è pur vero che, in ragione di tutte le premesse suddette, la pallottola si rivela piuttosto spuntata.(5.8/10) Stefano Solventi Lucio Capece/Mika Vainio - Trahnie (Editions Mego, Feb 2009) G enere : elettronica ambient è proprio vero che i poli opposti si attraggono: è il caso di Luca Capece e Mika Vainio e della loro recente collaborazione per Editions Mego. Se le identità si muovono stilisticamente su territori diversi e la tecnica spazia dall’indiscussa intelligenza elettronica di Mika Vainio alle improvvisazioni e le scritture jazz di Luca Capece, l’intenzione si intuisce comune. In fondo i punti d’incontro si trovano: basta volerlo o basta, come in questo caso, avere piena coscienza della materia e della tecnica sonora e se a questo ci sommiamo la naturale voglia di sperimentazioni, ecco che gli orizzonti si allargano tra geometrie d’intensa e incisiva identità. Le discipline di Trahnie si fondono tra soavità ed estremismi, ne sono un esempio i passaggi forzati di Escapes, dalle ruvide superfici e graffianti ferite aperte che si scontrano nei fondali elettronici in texture, o volutamente cedono il posto alle battaglie di Valontuo, in soffocati scontri di superficie di vivida presenza. Lo dichiaravano già l’apparente quiete dell’apertura Ujellus, lo confermavano (Juurake) le robotiche in beats tra interferenze elettroniche ed acu- stiche.Affinità, si diceva, materie che si plasmano l’una con l’altra, in questo caso prendendo le sembianza del primo Vainio - si ascoltino anche i sette minuti in drones di Hondonada. Ci sono poi le violenze di Sahalaitainen, i battiti di Tolmavuo, le dualità atmosferiche di Sigilio o infine le chiusure in malinconie elettrificate di (Manana). Che siano lacrime o sangue, l’intensa vibrante attenzione al suono e alla percezione colpisce e lascia il segno.(7/10) Sara Bracco Lukid - Foma (Werk Discs, Gen 2009) G enere : W onky E lectro -H op Luke Blair è il ragazzo prodigio della Werk, l’erede dell’IDM trasfigurata dal wonky. Il suo secondo lavoro prende le mosse dalla tradizione mesh di Prefuse 73, Flying Lotus e Dabrye, approdando in una terra fatta di visioni post-hip-hop e di ibridi electro. Insomma, la svolta che tutto il popolo dell’elettronica attendeva. Ma anche qui (come nel disco dell’amico Actress) ci si fionda sul pompaggio artificiale e gommoso del basso. E quindi la connessione con il brekbit non può mancare. Gli ingredienti della black street music mescolati perfettamente con la generazione che ha fatto della Warp un simbolo. E che quindi ha nelle orecchie un’estetica musicale oggi un po’ manieristica, fatta principalmente di/con taglia e cuci. Questa la nuova aria che si respira dalle parti di Londra: i loop deeppissimi di Slow Hand Slap (citazione ancora obbligata ai Boards Of Canada), il richiamo al dubstep nei beat superbassi di Chord e l’ambient in trip cosmico-hop (che ricorda guardacaso le astrazioni di DJ Krush) di Ski Fly. Il downtempo di chi ha le carte giuste per sfondare. Il disco della maturità sia per l’artista che per l’etichetta. Sempre e solo London, sempre e solo stile. Werk rulez.(7.2/10) Marco Braggion recensioni / 69 Madlib - Beat Konducta Vol. 5-6 (Stones Throw, Feb 2009) G enere : hip - hop / bl ack Dopo aver fatto il gioco del produttore nascostodietro alla presunta faccia di dj, ora Madlib pare volere fare viceversa e fa l’MC punto e basta. Ma questo disco non puòessere letto nella sola ottica della storia di Otis Jackson Jr. E difficilmente poteva essere diversamente, dato che i capitoli 5 e 6 della serie BeatKonducta sono in realtà un tributo a James “J Dilla” Yancey – o Jay Dee,scomparso tre anni fa, considerato dal produttore black della Stones Throw comeil “Coltrane del Beat”, e in generale da alcuni citato come il miglior beat-makerdi sempre. In effetti la figura ormai passata a mito dell’MC di Detroit ben sisovrappone a Madlib; non solo perché la professione di entrambi è una e trina -dj, produttori ed MC insieme; ma perché a unirli c’è l’amore per il beat, leforme brevi e i cambiamenti repentini; e sopra ogni altra cosa la capacità difar pulsare nel hip-hop il funk e il soul dei ’60 e ’70. La solarità di J Dilla è sì filtrata dal magone della suarecente mancanza, ma tenuta intatta, in una “gioia nostalgica”; in questoMadlib è bravo; trova episodi di hip-hop Novanta e li associa mirabilmente allastruggenza di pezzi di decine d’anni addietro; il suo ormai noto gioco deilivelli ci fa sentire trascinati nella meravigliosa No More Time? (The Change), per poi disconnetterci con una risatasguaiata e sfumare dentro un altro suono di calda anima, quello di Do You Know (Transition); e lì Otis usaun escamotage che ha un antenato iperillustre, con la sua operazione geniale;si tratta di quella You’re Nogood cheTerry Riley trattò nel 1968 come nastro su cui fare i propri esperimenti (e divertissements?) minimalisti; qui Madlib tratta 70 / recensioni l’inizio del brano come una falsa partenza, comeloop minimalista. Ma è solo uno dei giochi delle emergenze – cioè delle coseche emergono e poi tornano 10000 leghe sotto il mare della California - e deilivelli cui Madlib ci ha abituato. C’è poi un’altra cosa che Madlib sa fare benissimo; è produttore dentro;ma non solo produttore di un disco, cioè persona che sta dietro la stanza deibottoni di un uscita discografica; Madlib calibra le sue azioni da produttoredi una intera scena, di un mondo, quello della black music. E in mezzo a tuttigli altri tributi a Jay Dee, questo forse è meno dettato dal calore umano, ma più dal flusso catalogatorio ed enciclopedico del beat konducta.(7/10) Gaspare Caliri Matteo Uggeri/Alessandro Calbucci - The Distance (Why Not Ltd, Mar 2009) G enere : drone È etimologicamente la distanza il centro nevralgico di questo lavoro tra due dei più prolifici musicisti dell’underground italiano.Distanza stilistica, in primis, nonostante un sentire comune. L’uno (Calbucci),di matrice rock, già batterista/ chitarrista per Sedia, From Hands, End OfSummer; l’altro (Uggeri), artista prevalentemente “sperimentale”, dedito ad un lavoro di ricerca su field recordings ed elettronica deforme con Hue, Sparkle In Grey e mille altri nomi/collaborazioni ancora. Ma anche distanza fisica, geografica tra i due, colmatanella miglior tradizione dei lavori a distanza con l’interazione per via telematica. The Distance è un lavoro che si snoda su 4 tracce per 40 minuti didroning ambientale, nato da inediti field recordings binaurali di Uggeri sui quali Calbucci ha lavorato di cesello, smontando e rimontando quegli input e aggiungendovi set di guitarloops e drones in modalità impro. Il risultato è una sorta di suite in più movimenti in cui screzi e graffi, sbuffi e strappi si stratificano sulle maree di droning mai eccessivamente cupe, creando un coinvolgente senso di dilatazione mantrica alquale, volenti o nolenti, si finisce col cedere. Pubblica, tanto per ribadire il concetto di distanza, una minuscola etichetta di Singapore, la Why Not Ltd, sussidiaria della più nota Herbal.(6.7/10) Stefano Pifferi Mirah - (a)spera (K Records, Mar 2009) G enere : indie folk Lasciate le vicissitudini degli insetti nel capitolo insieme agli Spectratone International di un paio d’anni fa, la nostra torna a parlare di relazioni personali, direttamente, con quella caratteristica tutta particolare che fa sembrare che stia parlando solo a/per te. Il fidato Phil Elverum è ancora in regia e supervisiona partecipando attivamente a 3 tracce, e questo è un bene dato che la sua mano si sente, e come era stato in C’mon Miracle aumenta le potenzialità atmosferiche delle melodie cristalline di Mirah. A differenza di quel passato/picco illustre però la chiave di lettura questa volta non risiede nell’uso fibrillante della batteria e degli archi: la voce si riappropria della propria centralità anche attraverso controcanti azzeccati – come a manifestare un rafforzato interesse affinchè il messaggio arrivi – mentre l’esperimento “world” di Share This Place ha lasciato la voglia di usare una strumentazione “multietnica” anche in questo capitolo. Quello che porterebbe a pensare che (a)spera sia una mera somma di elementi dei precedenti due dischi citati, si scopre errato – in parte – nel constatare che la quadratura delle canzoni è dovuta principalmente a giochi di luce e a incontri di atmosfere diverse che non alla caratura della scrittura, che ahimè questa volta è leggermente sottotono rispetto ai suoi standard. C’è sicuramente un senso di intimità più matura in queste nuove tracce, intimità che esplode nei soli di kora in Shells, che si rende meravigliosamente dark in The World Is Falling (decisamente lo “strike-out” del disco), che si fa preziosa nella kalimba di While We Have The Sun o che si tramuta in delicatezza accennata nel violino e nel violoncello di Generosity. Al contempo si ha la sensazione che l’autrice di Portland abbia azzardato un po’ troppo come nella samba fuori fuoco di Country Of The Future, nei quasi 8 minuti della mielosa e sfiancante The River, o in Bones & Skin che, è semplicemente una nuova Monument non altrettanto toccante. Si avverte la voglia di evolvere, e spesso il passo in più si coglie chiaramente ma la differenza rispetto a quanto proposto finora sta semplicemente nella forza delle canzoni che, ben lungi dall’essere mediocri, purtroppo non hanno lo stesso impatto – a breve e lunga gittata – rispetto a quanto fatto finora. Poco importa alla fine che la lista degli ospiti includa Tara Jane O’neil, Chris Funk dei Decemberists, Tucker Martine (batterista di Laura Veirs) o Adam Selzer dei Norfolk & Western.(6.8/10) Alessandro Grassi Miss Kittin And The Hacker - Two (Nobody’s Bizzness, Apr 2009) G enere : M inimal D eep 80 Ritorna il duo che ci ha fatto percepire la minimal con l’anima retrò ereditata dagli 80. Lui il produttore, lei la diva. Se le prove soliste della gattina non ci entusiasmano più -come quando narrava le sue scorribande tardoadolescenziali dagli studi di Radio Caroline, qui la liason si ricongiunge e per un attimo sentiamo ancora quei brividi, quella consapevolezza di essere l’incarnazione di un’estetica che ha segnato con una lunghissima scossa tutto il mondo electro. Non ci sono più i singoloni à la Frank Sinatra, ma c’è ancora voglia di stare sul battito e sul pezzo. Le voci di Miss Kittin spazializzate come il buon Giorrecensioni / 71 Highlight Les Fauves - N.A.L.T. 2 Liquid Modernity (Urtovox, Mar 2009) G enere : avant pop Tanto ci avvinse e convinse N.A.L.T. 1 da farci quasi scordare che trattavasi del primo capitolo d’una trilogia dedicata alle “luci ed ombre del comportamento alieno” (sic!). Se quella era una “fast introduction”, il sottotitolo di questo atto secondo recita Liquid Modernity, citando un testo del filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman, severo critico della societa dei consumi. Insomma, sticazzi: questi quattro buontemponi da Sassuolo confermano di voler subdolamente fare sul serio, brandendo con piglio agro la lama dell’ironia e del nonsense però corroborata da un arsenale sonico - è il caso di dire - esplosivo. Il dadaismo psych-wave delle prove precedenti cede il passo ad un bailamme di espedienti sintetici, sgassate acide, fregole zappiane, estri caraibici, singulti afro e svenevolezze visionarie che è un piacere. Il tutto senza venir meno all’imperativo categorico della potabilità, che occhieggia e riaffiora malgrado la stralunatezza degli ordigni. Canzoni informate perlopiù al lirismo sciroccato e febbrile di un Robyn Hitchcok, ora rotolato nella camera dei giochi neo-pop Flaming Lips (il tango caramelloso di Drops Drops Drops, la paonazza Everlasting Soup), ora strattonato da robotico turgore Stranglers (nel soave disincanto para-prog di Death Of The Pollo), ora impantanato in lisergica cremosità Beach Boys (Snow In Trinidad And Tobago). Altrove t’imbatti in una Funeral Party che è semplicemente il pezzo pop (battente, ebbro, asprigno, scentrato) che sempre si augurano i fan di Wayne Coyne, mentre in Berolina Party Suite t’immagini i Wire morsi dal morbo tribal-funk, così come Lagos si fa stralunare da fregole Zappa, spasmi Byrne e devoluzioni... Devo. Potrei aggiungere dell’obliqua apprensione di Keep Living In A Subway, non distante dallo spirito di certi Clash però avvolti in una nube Mercury Rev, o del funky strinito tra vampe di tromba e aciderie d’organi e chitarre di Pitslicker (su cui sospetti scendere dall’alto una benedizione P.I.L.), ma son certo che già vi sarete fatti un’idea. La mia è quella di una band che ha messo la freccia e si sta portando sulla corsia di sorpasso. Il momento di salirci sopra è adesso. (7.6/10) Stefano Solventi gio Moroder ci ha insegnato (Party In My Head), le pomposità dei primi Depeche Mode (Indulgence), le cavalcate cosmiche à la Lindstrøm (Emotional Interlude) e le atmosfere dark/melo che guardano 72 / recensioni alla deep (il singolone 1000 Dreams è il marchio di fabbrica del buon Michel Amato): questi gli ingredienti di un disco che non può stupire, ma che tutto sommato non delude. Senza spocchia, i due alfieri della minimal ci credono ancora. Noi un po’ meno, ma lo stile non si perde così su due piedi. 1000 di questi sogni, beyond the Ray Ban.(6/10) Marco Braggion zione di McClure, che esprime l’intenzionedi collaborare presto col presidente del Venezuela Hugo Chavez. D’improvviso, tutto è chiaro come il sole. (4.5/10) Giancarlo Turra Mongrel - Better Than Heavy (Wall Of Sound, Feb 2009) G enere : indie cros sover Esistono casi in cui l’epocale “don’t believe the hype” dei Public Enemy pare fatto apposta e dunque andrebbe imposto a mo’ di decreto legge. Mettetevi comodi: i Mongrel sono un -uh - supergruppo allestito nel 2008dall’ex bassista degli Arctic Monkeys Andy Nicolson insieme al compagno dimerende Matt Helders, a un ex Babyshambles e un tizio proveniente dai carneadiassoluti Reverend & The Makers. Insieme a loro c’è pure Lowkey dei PoisonousPoets a snocciolare rime. Non quel che definisci un parterre d’eccezione,insomma, ma qualsiasi attesa su cosa potesse mai sortirne è stata prontamentemessa al tappeto dal risultato. Una sorta di confuso e pasticciato coacervo tra indie, funk e hip-hop, bagnatonel pop però gravato da arrangiamenti discutibili, forzature e velleitàassortite. Fate conto i Supersystem in crisi di ipoglicemia (Barcode), una versione liofilizzata deiGorillaz (Lies, il singolo The Menace.) oppure dei Cornershop conospite Elvis Costello (Julian). O,ancora, il cartonato degli Hot Chip, sottile che basta una spintarella e già è perterra a prendere polvere. Ci provano, i cinque, a dare una verniciata a ideeche sono già vecchie in partenza se concepite con un occhio al NME e l’altroalla saccoccia (perché, visti gli odierni chiari di luna, c’è il rischio chequesta roba finisca in classifica, quantomeno oltremanica.) Non basta gettare nelcalderone il rap “made in UK” se le chitarrone fanno ridere, la laccatura dub altrettantoe s’inciampa in pedestri orientalismi; va a finire che le melodie annaspanoscontate e all’operazione non manca solo il senso dell’ironia, della misura e della storia ma il senso tout court. Cerco notizie in rete e mi imbatto in una dichiara- Mountains - Choral (Thrill Jockey, Mar 2009) G enere : ambient I Mountains, duocostituito da Koen Holtkamp e Brendon Anderegg, approdano su Thrill Jokey conquesto che è il loro terzo disco. Questo significa necessariamente una maggiore visibilità ancorché pur sempre con cifre che continuano a rimanere ridicole. Vada se però, che accompagnandosi al debutto di Koltkamp distribuito pochi mesifa da Type, tutto assume contorni un po’ più spessi. La musica che i Mountainspropongono è una tipica tintura ambient con riflessi cosmici mista ad una forma molto umana e molto canonica di chitarre folk. Le composizioni più informalisono costituite soprattutto da layers di droni immaginati come onde che simuovono incessantemente, da qui la mareggiata cosmica dell’inaugurale Choral o l’estasi molto prossima a certi Stars Of The Lid di Melodica.Il lato più umano e folk si affaccia in composizioni che nascono evidentementecon gli elegiaci arpeggi di chitarra acustica, vedi Map Table o Telescope.L’episodio più interessante sembra quindi quello che meglio riesce a far convivere le due anime del disco, quando in Add Infity una cascata di arpeggi e un tappeto di droni paradisiaci disegnano una parabola non troppo distante da certi Popol Vuh.(6/10) Antonello Comunale Mulatu Astatke/Heliocentrics (The) - Inspiration Information (Strut Records, Apr 2009) G enere : A fro J azz Abbiamo dovuto attendere ma la nostra pazienza è stata infine ripagata con gli interessi. Serviva Talento in condizioni di forma superiori alla recensioni / 73 media e così il terzo volume della collana Inspiration Information è botto eclatante di un 2009 sin qui anemico. Sorprende ascoltare un classe 1943 come Astatke - pianista leggendario, padre del jazz etiopico - entrare in perfetta simbiosi con gli Heliocentrics, il cui Out There ci impressionò due anni or sono e che qui si ritagliano un ruolo solo apparentemente defilato. Discreti, lavorano di cesello e passione impedendo lungaggini e conservando immediatezza; conferiscono una lieve modernità retrofuturista e, in un reale scambio, guadagnano in compattezza. Smaltito l’impatto iniziale, a mente serena ci sovviene che - giusto per dire: il curriculum completo riempirebbe pagine e pagine - Mulatu è stato il primo africano a frequentare il prestigioso Berklee College Of Music, che ha lavorato con Duke Ellington (si sente, oh sì) ed è produttore apprezzato. Le sue orecchie sono da sempre pronte a recepire mantenendo saldo il cordone ombelicale che lo lega alla madre Africa, ed è solo dialogando con presente e passato, tradizione e modernità che oggi si possono partorire dischi belli e destinati a durare. Tale è la cifra di quest’ora abbondante fatta di suggestioni orchestrali e tasti jazz, fanfare spagnoleggianti e archi disco, ritmi moderni ma ancestrali. È funk avvampante alla Isaac Hayes Addis Black Widow, pure potrebbe appartenere al Dj Shadow di Entroducing e nessuno avrebbe a ridire; Mulatu riserva lo stesso trattamento alla fissità di James Brown riportandola alle origini; Blue Nile sparge nello spazio sensualità trapunta d’ottoni e una chitarra tra Bristol e blues. Esketa Dance ondeggia ubriaca però groovy come Mingus non poteva essere per questioni cronologiche e Chinese New Year ne aggiorna la grammatica tra corde di contrabbasso e violino. Chick Chikka, De74 / recensioni wel e Live From Tigre Lounge giostrano stordenti e (im)possibili natali tra Caraibi, jungla e jazz intellettuale newyorchese. Non c’è un minuto in cui alla partecipazione emotiva subentri l’autocompiacimento: neppure dove le partiture toccano la classica per incastrarvi un lucido senso della tecnologia (Phantom Of The Panther). Verrebbe da citarli tutti, i quattordici brani di questo cd superbo per come fonde - senza sforzo: il trucco sta esattamente lì - opposti in teoria inconciliabili. Astrale e terrigno, fisico e cerebrale, primordiale e futuribile, possiede le doti di ogni Grande disco.(8/10) Giancarlo Turra Neko Case - Middle Cyclone (ANTI-, Mar 2009) G enere : folk pop Ok, di attrattive questo sesto lavoro da solista della bella canadese ne possiede a bizzeffe. A partire dall’autrice, ovvio, che in copertina appare più battagliera che mai, splendida quasi-quarantenne in posa da pin-up tarantiniana sul cofano di una ruggente Mercury Cougar anni settanta. Poi c’è una ragguardevole lista di ospiti-amici che elargiscono il loro essenziale contributo senza invadere la scena, membri di Calexico e Los Lobos, Giant Sand e - naturalmente - New Pornographers, l’ormai grande M. Ward ed il leggendario Garth Hudson. Come resistere poi al fascino di questa voce che riverbera miraggi fifties, languori country e iperboli psych con la grazia maliosa ed esoterica di una sirena posterizzata? Però almeno altre due armi di seduzione si aggiungono in faretra, scombinandone il centro di gravità: l’impegno animalista/ambientalista su cui galleggiano le tracce suggerendo punti di vista particolari per la dimensione umana, e una netta maturazione della scrittura - del resto già accennata in Fox Confessor Brings The Flood - che smorza lo slancio vitalistico prediligendo scorci inquieti e palpitanti, con particolare attenzione agli “ambienti” sonori (vedi l’inafferrabile esoti- smo di Polar Nettles, le brume d’archi della titile track, il rag rurale - non lontano dalle nostalgie auree di Neil Young altezza Harvest Moon - di Don’t Forget Me, tra l’altro cover di Harry Nilsson). E la voce, quella voce, s’accoda, s’adegua, si presta al gioco con fiera postura, cova subbugli vellutati (in Magpie To The Morning, in Vengeance Is Sleeping) e assalti jingle a denti scoperti (il singolo People Got A Lotta Nerve), confrontandosi senza tema con retaggi Motown in Red Tide e con l’epica tra il franco e il retorico di Never Turn Your Back On Mother Earth (un pezzo del ‘74 a firma Sparks). Un album non eclatante ma intenso, battagliero, appassionato, senza cadute degne di rilievo. Ti amiamo come si può amare un tornado, Mrs Case.(7.2/10) Stefano Solventi Pack AD (The) - Funeral Mixtape (Mint, Mar 2009) G enere : R aw B lues Il problema, a costo di suonare noiosi, è sempre ilsolito: la democrazia tecnologica ci ha reso la vita un mezzo inferno. Nel senso che siamo sommersi da una marea d’uscite discografiche ormai fuoricontrollo, nella quale è un autentico miracolo se - artisticamente parlando -qualcosa più della cresta dell’onda sopravvivrà per la gioia dei posteri. Troppidischi e per la maggior parte insignificanti, inutili: roba che un tempo non avrebbe mai visto la luce grazie al darwinismo musicale. Due decenni fa, verosimilmente, il secondo disco delle canadese Pack AD sarebberestato quel che è: un demo inviato a qualche etichetta e da questa lasciatonel dimenticatoio. Perché sono volenterose, Becky Black e Maya Miller, ma di coppie chitarra/batteria/voce alle prese con un ruvido blues corteggiante l’hard ce ne sono in giro di assai più capaci e non da ieri. Perché la manoesecutiva pesante ci può stare ma i suoni opachi e metallici no; perché lascrittura latita e la deferenza ai modelli diventa di conseguenza schiacciante; perché non basta volere essere una versione garagista di P.J. Harvey o Chrissie Hynde: bisogna anche potere. Ad eccezione delle passabili Dannemora Blues e Worried, di Funeral Mixtapealla fine non resta in testa nulla, per la semplice ragione che le Nostre non possiedono né la penna né l’abilità a variare la formula che rendono White Stripes e Black Keys quel che sono. Ovvero, gente capace di lasciare il segno(6.6/10) Giancarlo Turra Pan American - White Bird Release (Kranky, Feb 2009) G enere : ambient Ormai Mark Nelson viene trattato con la stessa deferenza accompagnata da affetto che si concede ainonni. A ragion veduta probabilmente. Lui c’era e faceva quello di cui oggi siabusa, in un’epoca che sembra ormai lontanissima. Dopo tutto ha contribuito molto anche lui alla formazione e standardizzazione del suono Kranky. Ma in fin dei conti, senza andare ad indagare influenze su influenze, si potrebbe semplicemente sentenziare che quando un’artista supera per più di due o tre volte la generale mediocrità in cui sembra condannato il suono contemporaneoallora val sempre la pena cominciare ad erigere monumenti quando ancora si è invita. Del resto la prospettiva del sesto disco a nome Pan American è quella di uno zibaldone riveduto e corretto di tutte le puntate precedenti. La consueta egenerale atmosfera soft, ovattata e morbida, come se si stesse sprofondati in una poltrona e tutti i rumori del mondo esterno arrivassero dalla finestra come ritardati da una distanza siderale. WhiteBird Release è quindi una raccolta di nove storie che nonno Nelson siconcede di raccontarci. Alla sua recensioni / 75 maniera ovviamente. Quindi con i suoi tempi… rallentati, i suoi suoni… espansi e attutiti, quella voce… sottovoce che quando appare (There Can Be No Thought Of Finishing, Both Literally AndFiguratively) lo fa sembrare come un Leonard Cohen di una qualche nuova epoca biomeccanica. La rilassatezza non necessariamente porta al disimpegno e se proprio dobbiamo trovare una vena evolutiva in questo lavoro è nelle rifiniture ansiose che tramutano le andature più dub nel passato in corridoielettro dall’umore angosciato (How MuchProgress One Makes, In A Letter To H.G. Wells, 1932). A conti fatti l’ennesimo bel disco di Nelson anche se il suo, ormai, sembra un canone difficilmente superabile.(7/10) Antonello Comunale Prefuse 73 - Everything She Touched Turned Ampexian (Warp Records, Apr 2009) Genere: Brekbit Mesh-hop Manco a farlo apposta, parli di brekbit e la Warp ti sputa fuori pure il disco nuovo di Guillelmo Scott Herren. Uno che ha scardinato l’hip-hop assieme a Dälek, Dabrye, Cannibal Ox e una congrega di altre menti che tempo fa gravitavano su Anticon, ma che oggi riprendono la parola dal pulpito della casa madre con la W maiuscola. Il titolo poi ci riporta all’analogico. Quel tocco à la Re Mida che riscopre il sapore dello sporco e che solo su nastro Ampex può consacrare la sua natura frammentaria. In effetti il nostro uomo sin dagli esordi ci ha proposto la sua personale visione del brekbit, distante dall’ardkore e più vicina allo street hop. Il suo modo di comporre, distaccato dal mainstream e sempre con un tocco di visionarietà poshy, si congiunge oggi 76 / recensioni di prepotenza a tutto quello che sta succedendo nel mondo dell’electro ‘allargata’. Tanto per fare due nomi: Animal Collective e MGMT. Che questo scazzo consapevole sia una delle possibili tendenze è ormai confermato da critici e guru. Ma che uno come Prefuse 73 ci consegni un patchwork così fresco e pieno di ‘warpgeist’ a noi sembra stupefacente. La sperimentazione cui ci ha abituato si congiunge con il ritmo street-based e conferisce uno status nuovo a quella che chiamiamo forse impropriamente ambient. Va bene che siamo abituati al miscuglio di pezzi da fonti disparate. Ma costruire poco meno di 50 minuti di sonorizzazione che contenga lounge (Regato), funky (Four Reels Collide), raga-acidstep (Violent Bathroom Exchange), vocal IDM (Simple Loop Choir), 8bitness (No Lights Still Rock) e tanto altro è un gioco per gente dura.Un vocabolario postmoderno che insiste sul basso. La battuta di questo 2009 è scolpita sul breakbit che si fonde con l’hip-hop evoluto. E questo album ne è la consacrazione. L’illbient di Spooky e DJ Olive si connette con i ragazzini smanettoni del 92. Il risultato è un disco che apre nuovi orizzonti e che ci fa respirare aria fresca, rispettando l’eredità della blackness slowtempo. Un viaggio, un trip che ha in sè del profetico. Prefuse nuovo santone.(7.3/10) Marco Braggion Rafael Toral - Space Elements Vol I (Staubgold, Gen 2009) G enere : avanguardie Lasciate da parte le premesse di Violence of Discovery and Calmo of Acceptance, disco che si dibatteva tra suoni analogici e le chitarre, Rafael Toral dirige oltre la sua personale propensione alla sperimentazione, attingendo alle naturali origini al suono ed arrivando a fondare un vero e proprio neo-logos sonoro. Un seguito a tratti dovuto, se si considerano le naturali affinità dell’artista con la materia, dalle sue macchine auto-costruite, passando per i suoi molteplici approcci ai mezzi dell’improvvisazione e dell’elettronica come veri e propri vocaboli a cui spettano innegabili sentenze comunicative. Istantaneo, fisico e viscerale, l’astrattismo di Space Elements Vol I, tutto giocato su approcci di matrice elettroacustica e una ricercata assenza di fondo, o meglio sarebbe dire, di forza di gravità. A dominare è un tripolarismo che relaziona tempo, spazio e silenzio; gioca con i toni e gli accostamenti, di violoncelli, le modularità in frequenza e drones I.I, su percussioni e intermittenze I-II. Si riprende così velocemente contatto con una materia sonora prima e di tale qualità da costringere immancabilmente l’ascoltatore a mettere in discussione teoria e pratica del fare musicale ed artistico!(7.5/10) Sara Bracco Reigns - The House On The Causeway (Monotreme Records, Mar 2009) G enere : electronic post rock Sono in due, sono inglesie sono fratelli. Roo e Tim Farthing. Come Reigns fanno musica già da un po’ epossono vantarsi di aver collaborato con gente come Pj Harvey e RobEllis. Questo è il loro terzo disco, ma il primo a tutti gli effetti di unanuova collaborazione con Monotreme, che suppongo sia rimasta affascinata dallato elettronico cantautorale del duo. La musica qui proposta non si allontanamolto dalla prassi degli Arab Strap anche se si calca di più la mano sullato dark delle atmosfere e sul piglio rap dei recitati. Tutto è un po’ confuso e inconcludente, oltre che parecchio monotono. I brani si trascinano stanchi vuoi per la lentezza media dei mid tempo generalizzati dei brani, vuoi per il goffo accumulo di cliché e soluzioni abusate: bassi cavernosi da Bristol triphop, chitarrine post rock da lacrima, timbro vocale da 3.00 del mattino, pianoforti struggenti e col cuore in mano, goffi toni dark da comic book. Si salva poco o niente.(5/10) Antonello Comunale Rinôçérôse - Futurinô (V2 Music, Mar 2009) G enere : F rench T ouch R ock Justice sì, è da molto che li aspettiamo. I padrini del french touch viaggiano per il mondo con le loro croci e la loro pop-trasgressione. Nell’attesa ritornano i Rinôçérôse. Loro che quasi quasi ce li siamo dimenticati, l’anello di congiunzione fra The Hacker e i galletti pre-Ed Banger, propongono una cosa che spinge verso il rock e lascia per strada quelle casse bassissime che li avevano resi un faro. La svolta estetica (e iconografica) sui binari del rock non sorprende, anzi a tratti annoia. Sì ci sono le chitarre in uptempo, le tastierine e altri ingredienti che fanno molto Franz Ferdinand degli esordi. C’è anche qualcosa di progressivo e spacey (Mind City), il richiamo a Santogold (Time Machine), il coretto à la Soulwax (The Heroic Sculpture of “Rinôçérôse”), la ballad à la Tellier (Week End Of Sin) e altri gingilli nu-rave. In aggiunta i featuring da Infadels, Ride (l’unico punto che scuote del disco è il fidgeting di Where You From?), Go! Team e Deaf Stereo. Passabile per i fan. Per gli altri, andatevi a recuperare i primi dischi di Patrice Carrié e Jean-Philippe Freu e sentirete la differenza (5/10) Marco Braggion Robyn Hitchcock/The Venus 3 - Goodnight Oslo (Proper, Feb 2009) G enere : psych rock Robyn Hitchcockancora con i Venus 3 (Peter Buck,Scott McCaughey e Bill Rieflin, come dire R.E.M.e Minus 5 insieme) per un altro disco del prolifico musicista inglese. Suono elettrico in prevalenza americano e uso difiati: Hitchcock questa volta si discosta un po’ dalla sua consueta misturapsych inglese a base di Barrett e rock folk di matrice byrdsiana. Infatti fannocapolino qua e là non consuete sonorità r’ n’ b (What You Is) e western (HurryFor The Sky e Your Head Here, Up To Our Necks, quest’ultima un omaggioa Bo Diddley e presente nellacolonrecensioni / 77 na sonora dell’ultimo film di JonathanDemme, Rachel sta per sposarsi, film dove il musicista fa un cameosuonando proprio questo pezzo. Non manca comunque nell’album il folk di provenienza Byrds/ R.E.M. tipico di Hitch (16 Years), si veda per esempio lapsichedelica title track, sospesa erarefatta, pezzo simbolo del Nostro e che non poteva di certo mancare. In sostanza una conferma dell’amalgama con i Venus 3.(7/10) Teresa Greco Roses Kings Castles - Self Titled (The Sycamore Club, Gen 2009) G enere : pop Ilquotidiano di Adam Ficek è scorticare i tamburi neiBabyshambles. Un compito che, a seconda dell’umore del f ro n t - m a n d e l l a band, Pete Doherty, potrebbe rivelarsi eccitante o gravoso, ma che fuor di dubbio gli permette di portare a casa la“pagnotta” senza grosse difficoltà. Soddisfatti i bisogni primari e appurata un’eccedenza di tempo libero, il Nostro ha pensatobene di destinare qualche oretta al suo progetto solista, - quiall’esordio – un’esperienza musicale che, neanche a dirlo, è quanto di più lontano ci si possa immaginare dallo stile dallaformazione citata in apertura. Il che significa ventinove minutiessenzialmente acustici retti da un pastiche di chitarra,piano, vibrafono, batteria, armonica, archi, capace di schiuderepassioni pop insospettabili. Qualcosa tra Belle & Sebastian,Kings Of Convenience e certo pop sixties tutto archi e cuori infranti, pacato nei tempi, easy nell’estetica, vagamente jazzato nei colori, sospeso tra ottoni e battiti di mani, con in più qualche particolare ritmico quasi esotico. Un’opera che fa della leggerezza e dell’appeal melodico i suoi punti di forza, 78 / recensioni che piace inmaniera ingenua, che non richiede alcun sottotitolo, ma che pure non pretende di essere ricordata negli anni a venire.(6.6/10) Fabrizio Zampighi Saint Four (The) - The Saint Four E.P. (El Cortez, Mar 2009) G enere : garage / alt . country Maimescolare garage e blues, folk americano e ballads struggenti, anarco-insurrezionalismo Dream Syndacate e armoniche à la Dylan. Il rischio è ubriacarsi senza quasi accorgersenecon un cocktail mortaledi amplificatori valvolari e chitarre Gretsch, Rickenbacker e Vox. Chi la sente, poi, la vostra ragazza il giorno dopo, quando ledite che non avete voglia di uscire perché siete in pieno downpost-sbornia? Certo, se il gioco vale la candela, come nelcaso di questi Saint Four, il discorso cambia, dal momento che Parigi– venti minuti spesi tra frontiera e accelerazioni elettroacustichetutte basso, chitarra e batteria – vale bene una messa. Tanto piùse la nostra personale Parigi è a un passo da casa. Nascostotra i crediti ritroviamo infatti Stiv Cantarelli, uno checerti suoni yankee li frequentava già a fine millennio con iSatellite Inn, a infettare una The Country You Were Born che richiama la Bob Dylan’s 115th Dream e a biascicare dei BrianJonestown Massacre sottoanfetamina in Disco Queen. Duebrani che da soli giustificano l’esistenza di questo Ep - pubblicatodall’americana El Cortez - e che uniti a Fades And Dies,Don’t Hang On Me e TheKiller danno un’idea abbastanza chiara dell’ottima cifra artistica dei Saint Four.(7/10) Fabrizio Zampighi Sight Below (The) - Glider (Ghostly International, Mar 2009) G enere : ambient techno Alla sua seconda produzione (l’ep d’esordio, No Place For Us, è in download gratuito sul sito della GhostlyInternational), Justin Toland aka The Sight Below porta alle estreme - eoniriche - con- seguenze le intenzioni di The Field, riallacciandosi, sotto forma idm, all’espressionismo post ambient di Pop a firma Gas. Quella di The Sight Below èmusica che alle movenze del corpo preferisce sollecitare l’inconscio. Senza rendersene conto gli occhi caleranno e ogni cosa non avrà più senso. Without Motion - una dichiarazione di intenti - pulsa, complice unachitarra in trance esecutiva (Kevin Shields? Forse Fripp?!), austera emelanconica insieme; Life’s Fading Light amplifica, sempre al seguito della sei corde in delay, la componente dancey e Dour travasa i Labradford inspirali minimal. Il 4/4 è la costante dell’intero lavoro ma, sovente, il battito si adombra e ad ergersi è un muro ambientdebitore parimenti a Brian Eno (vedi AlreadyThere e Nowhere) nonché -sollecitati dalle parole dello stesso autore che si dice influenzato dal vecchio catalogo Factory – al Vini Reilly dei primi Durutti Column (palese il rimando in Further Away). Un raccordo tra due mondi, quello dance intelligente e ambient, non nuovo di certo – tra i tanti, i nomi di cui sopra lo testimoniano – ma laprofondità, la sincerità con cui Toland li riprende accantona ogni invettivacitazionista. Sul My Space di The Sight Below campeggia un monito: Lonely Is A New Dance Party.(7/10) Gianni Avella Skiantos - Dio ci deve delle spiegazioni* (Universal, Mar 2009) G enere : R ock demenziale Dopo le disavventure con la EMI gli Skiantos approdano alla Universal con questo disco (prodotto da due ultrafan mecenati) sperando finalmente in promozione e distribuzione più efficaci. I temi e lo stile sono quelli consueti, per niente addolciti dall’approdo alla major: a partire dal titolo che, in un’epoca che si sente più in crisi delle altre, non perde tempo a prendersela con governi o teleimprenditori e si rivolge direttamente all’autorità somma. Non c’è una title-track che approfondisca il ti- tolo: la domanda nasce semplicemente dal consueto panorama di disagi tracciato dal gruppo, in particolare il senso di esclusione e inadeguatezza (Testa di pazzo, che apre il disco all’insegna di un rock blues che fluisce fresco e spontaneo rinforzato dall’hammond di Pippo Guarnera; gli ispirati virtuosismi verbali e poetici di Tu tremi, lentone anni ’50 sui vari tipi di tremori moderni -con tanto di sax anni ’50-visti-dagli-’80 dell’ex Charlie Molinella e mescolanza surreale finale; il torrido blues “filosofico” di Senza libretto di istruzioni) e l’emarginazione (le teorizzazioni antilavoriste di Una vita spesa a skivar la fresa, o il valzer surreale con inserti hard e twist e (im)morale conclusiva di Senza vergogna, col quale trovano anche il modo, loro emiliani, di dedicarsi per la prima volta al liscio). Tutto classico, come detto, con un rock a metà tra la tradizione di Signore dei dischi e il crossover di Saluti da Cortina. Ma la penna funziona, e se Il razzista che c’è in me segue una classica formula Chili Peppers e Sensazione magica sconta un chorus debole, non mancano lampi lirici e momenti musicali che le riscattino; Merda d’artista poi, un testo già musicato in Ironikontemporaneo 2 e qui trasformato in un hard-funk di rara potenza, nonché l’inno punk di Odio il brodo – che ovviamente va oltre l’aspetto alimentare per prendersela con tutto – meritano davvero. E poi vista la relativa diffusione dei dischi precedenti non è che il pubblico sia esattamente saturo del loro stile e dei loro temi: il disco perciò, oltre ad arricchire comunque un repertorio che non dorme sui ’70, può funzionare anche come compendio di poetica per nuovi adepti.(6.8/10) Giulio Pasquali recensioni / 79 Soap&Skin - Lovetune For Vacuum (Pias, Mar 2009) G enere : chamber - l aptop È la diciottenne austriaca Anja Franziska Plaschg a celarsi dietro la sigla sociale Soap&Skin. E mai ci saremmo aspettati, un po’ per l’età anagrafica un po’ per la semplicità acqua e sapone evocata dal nome, un siffatto condensato di oscuro romanticismo e di sofferto cantautorato. Sono le note classicheggianti di un piano a imperare sovrane in queste tredici tracce che compongono il suo esordio discografico Lovetune For Vacuum, alle quali si aggiungono lievi e sospese orchestrazioni, intrise di spettrali apparizioni elettroniche. Ma è la voce della Nostra, ora eterea e sussurrata, ora dolente e profonda, a rendere l’atmosfera ancor più solenne e sacrale, se non, in alcuni casi, addirittura lugubre e funerea. Una coraggiosa e convincente personalità artistica quella di Soap&Skin, che se nel prossimo futuro riuscisse a smarcarsi abilmente dalle evidenti influenze boreali di Bjork e Susanna e a rendere più movimentata la sua proposta musicale, potrebbe sicuramente affrontare la scalata all’Olimpo delle chanteuse, alla stregua di un’altra scandagliatrice dell’anima, Liz Durrett. Che canzoni come Cry Wolf, Mr. Gaunt Pt 1000 e Cynthia non hanno niente da invidiare a nessuno, emozionalmente parlando. Soap&Skin: un Maximilian Hecker al femminile. (6.8/10) Andrea Provinciali Squarepusher - Numbers Lucent EP (Warp Records, Gen 2009) G enere : E clectronica B reak - core Tom Jenkinson ritorna dopo il non troppo esaltante Just A Souvenir ripensando alle origini con queste nuove 6 tracce in bilico tra remember e il classico tocco. Basso slappato dunque ma anche una rinata passione electro. Come dire: lo stemma Warp nel cuore. Dalla congrega che ha definito il suono electro dei 90 e che oggi torna a imporlo di brutto (vedi Harmonic 313) si pesca negli ar80 / recensioni chivi della memoria. E allora vai di suoni funk a 8 bit per teen che non avevano vissuto quell’eden (Zounds Perspex), vai di tastierine brekbit filtrate Aphex-wonky con basso house in salsa fusion (Paradise Garage), vai di velocità e di camere al confine con il drill’n’bass à la Dopplereffekt in pieno acido Autechre (Heliacal Torch), ricordi da lacrime acidificate E, seduzioni per DJ cartonate che danno lezioni a Kid 606 (Arterial Fantasy) e per finire suoni industrial à la R&S degli esordi e alle voci dei 4 Hero inevitabilmente breakbit (stupendo l’ardcore di Illegal Dustbin). Piccolo grande ritorno per Tom. Ora, Richard (D. James) manchi solo tu. (7.2/10) Marco Braggion Stefano Barone - Particolare#uno (CANdYRAT Records, Gen 2009) G enere : folk rock strumentale Il poco più che trentenne Stefano Barone nasce napoletano e cresce pianista, ma nel suo futuro ci sono Roma (dove vive dal 2001) e la chitarra. Pare che la folgorazione definitiva l’abbia avuta nel 2003 scoprendo Aerial Boundaries, l’album di Michael Hedge che nel 1984 ridefinì i confini e le possibilità del fingerpicking, un ascolto che spinse definitivamente Stefano nell’abbraccio delle sei corde, divenendo discepolo di Pino Forastiere. Tuttavia, in questo album d’esordio Barone si discosta nettamente dallo stile e dai modi del suo mentore, rivelando un approccio più vivace ed eclettico all’arte del chitarrismo solitario, da un lato ammiccando istanze minimaliste e dall’altro concedendosi guizzi e lazzi funky jazz, carezzevoli ipnosi ambient-pop, rarefazioni filmiche, meditazioni serotine e tumulti allegri-ma-non-troppo. Gli influssi Hedge sono palpabili un po’ ovun- que, vedi la marcia ipnotica della title track, la soundtrack intimista di Syberia e quella The Return con la sua festa mesta di luccicoso malanimo e tecnica percussiva asciutta. Se poi una Spankie rievoca i guizzi jazzy calorosi di un Tuck Andress, altrove t’imbatti in episodi a loro modo sorprendenti come TCLD - sorta di blues hop androide - e l’accoppiata Batman-Alexander Supertramp, che sciorinano affabili palpitazioni e stupefatti incanti tipo gli EST devoti al verbo pop secondo Brian Eno. Apice del programma è tuttavia Minimalaction, composizione per 12 chitarre (!) che si snoda ossessiva, misterica, allarmata come l’incubo floydiano d’un John Martyn cullato dai Tortoise più garruli. è un disco che intrattiene con garbo e intensità, risolvendo i passaggi più complessi con morbidezza e dinamismo, senza mai scadere nei virtuosisimi a perdere. Consigliabile anche ai non appassionati del genere, e non è una frase fatta. (7/10) Stefano Solventi Steinbruchel - Mit Ohne (12k, Ago 2008) G enere : sintesi minimali A testimoniare l’eleganza dell’assenza in dichiarate matrici di forma breve ci pensano le sette tracce del nuovo progetto dell’artista Ralph Steinbruchel in uscita per la 12k. Un’edizione limitata a sole 500 copie per MIt Ohne i cui crediti risalgono a una collaborazione con l’artista Yves Netzhammer da cui prese forma un’installazione audio-visuale presentata nel 2003 presso il Museum Fur Gestaltiung a Zurigo. Originariamente il compito di questi poco più di 18 minuti era quello di intraprendere una vera e propria lettura di superficie che andasse oltre ai limiti fisici del contesto, per arrivare a tracciare proprio attraverso l’audio i limiti di uno spazio immaginato. Uno spazio ideale in cui lasciare ampio dibattito tra le bipolarità degli elementi che, nonostante la loro differenza in stato fisico, dialogassero liberamente sincronie d’insieme e poetiche a tre dimensioni. Premesse dovute, la cui scelta in formato a due canali per alcuni potrebbe essere limitante ma, non è questo il caso. Perché è proprio la materia sonoro tanto vibrante quanto permeante che non perde l’obbiettivo, impadronendosi del piano d’ascolto e trasportando l’ascoltatore all’interno dello stesso suono.Le componenti in scrittura tra emissioni tonali, identità in fase, layer in movimento e contaminazioni di fondo si lasciano organizzare in elementi, che non segnano il passaggio ma si dirigono verso la forma unica. Il tempo si rettifica nella purezza di stesura tra cristalline, vibranti e solitarie calligrafie che sostengono il silenzio e governano il non luogo con impeccabile stile.(7.8/10) Sara Bracco Swan Lake - Enemy Mine (Jagjaguwar, Mar 2009) G enere : indie rock La triade Dan Bejar, Spencer Krug e Carey Mercer, coinvolta in gruppi quali Destroyer,Wolf Parade, New Pornographers, per citarne alcuni, ritorna con il secondo album dopo l’apprezzato esordio Beast Moans del 2006. Laddove lì il lavoro di ognuno si differenziava,mostrando le diverse personalità del supergruppo, in quello che si poteva definire folk pop obliquo, passando per la somma delle parti con in più dosi di Bowie/ TV On The Radio, R.E.M., Robyn Hitchcock, qui emergono sì le diverse peculiarità, ma si riesce ad amalgamare il tutto in maniera coesa ed unitaria. Come se in fondo ormai si trattasse di un’unica personalità musicale, segno della maturazione avvenuta tra i tre. Le diverse anime vengono allora fuori con facilità, sitratti del cantato in tensione Bowie ’80 misto a recensioni / 81 stratificazioni TV On The Radio nella ballad sghemba Spanish Gold, 2044, dell’indie rockmodello Arcade Fire/Destroyer (Seattle On Your Skin, Battle Of A Swan Lake) o qualsiasi dei gruppi da cui provengono e delle misture che sembrano uscite dagliultimi Animal Collective (Peace). In sostanza i tre confermano la vena prolifica e ben definita che possiedono anche altrove.(7.1/10) Teresa Greco This Will Destroy You - Field Studies (Magic Bullet, Gen 2009) G enere : post - rock Uno split diviso a metà fra This Will Destroy You eLymbyc Systym. I primi, texani di provenienza, fanno quello che meglio riescono a fare, e lo eseguono al top: post-rock strumentale che mai degenera nellapropria pervicace via sulle tracce dei Mogwai, quelli di MogwaiYoung Team. Un tiro emotivo e un rilasciamento elettrico, un respiroaffannato dal sentimento e un capriccio sfuriato nell’elettricità catartica,sino a esaurimento fiches. Con sempre un occhio allo svolgimento: densoe del tutto privo di reali zone morte. Due i brani proposti dalla band, per 15minuti e noccioline di musica totali. E veniamo ai Lymbyc Systym. Stesso gioco, stessa puntata. Post-rock, anche stavolta, solo infacito d’elettronica fra spazi vuoti e motionlessemotive. Tre pezzi in totale, 11 minuti e spiccoli di durata.(6/10) Massimo Padalino con una blackness che frutta movimento e voglia di far muovere i culi. Ma non c’è solo la componente dancey. Qui si ripescano le esperienze dell’imminenza e della velocità del dubstep. Proprio lui -che sulla velocità ha costruito un’estetica e che probabilmente dello step è stato precursore (inconscio?)- torna a rimettersi in gioco assieme a due vocalist in trip ghettoblastico.Prendete quel singolo che dà il nome al progetto. Two Fingers è il riscatto grimey con un basso da paura che ha in sè il potenziale squassante dei migliori riff del Wu Tang Clan (omaggio esplicito al collettivo nel ritornello da lacrime per noi ex b-boyz). E poi la ritmica sudamericana rimodernata con filtri acidi che guardano al rave di Mr. Oizo (Keman Rhythm), il banghra di Jewels & Gems, l’omaggio a M.I.A. in Bad Girl, il ragga di Whatuknowaboutit e in generale un ripensamento sui binari della south london più break-horror. Le esperienze delle crew del 2008 ripensate da uno dei guru della tecnica del cut’n’paste.Con questo disco il breakbit e l’anystep collidono. L’esplosione è poderosa e segna la strada sulla mappa electrobased che ogni giorno muta. Una delle possibili direzioni, guardando ai 90 verso il 2010. Amon Tobin it’s the man.(7.4/10) Marco Braggion Two Fingers - Two Fingers (Big Dada Recordings, Mar 2009) G enere : R agga M esh - hop Amon Tobin ritorna con un nuovo progetto. E questa volta è hip-hop mutante. La collaborazione con Sway e Ms. Jade lo porta nei territori del mesh più stretto à la Bug. Una cosa veloce che ricorda i pastiches ritmici di Missill e che lo stacca dal brekbit troppo cerebrale che aveva influenzato le sue ultime performances. L’anima si rinnova 82 / recensioni U2 - No Line On The Horizon (Universal, Mar 2009) G enere : R ock Il singolo che anticipava l’album numero quinze faceva temere il peggio: Get On Your Boots, a voler essere buoni, è una canzone dalla melodia casuale e raffazzonata, su un riff che poteva essere sfruttato molto meglio e che il produttore tenta di salvare con ricami sonori e variazioni anche riusciti, ma degni decisamente di miglior brano. Probabilmente il peggior singolo degli U2, a dar ragione a quelli che li considerano artisticamente finiti (poi ci sono invece gli 8 milioni di copie inspiegabilmente vendute da How To Dismantle... e amen). E rispetto alle premesse il disco, alla fine, risulta migliore di quanto paventato (e del precedente), ma riserva comunque poco di cui gioire: se infatti si eccettua la maestosità della title track in apertura (i Simple Minds di Street Fighting Years un po’ -ma non troppomeno pomposi) e gli esperimenti -riusciti solo in parte- di Fez - Being Born, il resto cerca di far convivere un parziale ritorno all’elettronica con l’abbandono della semplicità (o giovanilismo) rock degli ultimi due e con gli stimoli provenienti dal Marocco, dove parte del disco è stata concepita e registrata. Ma di questi stimoli c’è pochissima traccia (come di The Edge, qui al minimo sindacale), e il risultato raramente va oltre la ripetizione di quanto fatto -meglio- in passato: i pochi altri segnali di vita vengono dal pathos della sommessa irlandese White As Snow, o da qualche momentanea trovata di arrangiamento o di produzione: non certo da Magnificent, più U2 che mai nonostante le abbiano appiccicato un inizio elettro-ambient (che poi diventa Rockets...), né da una Moment Of Surrender tirata chissà perché oltre i sette minuti, o dal crossover sconcertante di Stand Up Comedy, per tacere di una I’ll Go Crazy If I Don’t... che andrebbe tenuta nascosta e invece, visto l’andazzo, potrebbe pure essere uno dei prossimi singoli. In poche parole un disco che chiude -male com’era iniziato- il peggior decennio, artisticamente parlando, della loro carriera. Ma forse non lo chiude: il gruppo infatti, soddisfattissimo dei risultati, dice che le sessioni hanno prodotto 50-60 brani e che quindi l’anno prossimo potrebbe esserci un altro disco. Non che questo cambi qualcosa: se il livello è questo, il futuro Best 2000-2010 -posto che lo faccianosarà un disastro.(4.9/10) Underdog - Keine Psychotherapie (Altipiani, Gen 2009) G enere : avant jazz rock Settetto romano attivo dal 2004, gli Underdog - nome ispirato alla famigerata autobiografia di Charles Mingus, e già questo ce li rende parecchio simpatici - debuttano con questo Keine Psychotherapie, undici tracce senza timore reverenziale a base di: blues ghignante Bad Seeds e nevrastenia Primus (Mr. Condom, Prendi 5), jazz avariato (quella B-Line che coverizza con bella disinvoltura i Lamb) e caligine androide Portishead (Satellite), teatrini battenti (Circus), tribalismi tarantolati (Zighididi) ed esotismo posticcio come un Capossela invasato Patton (Spectra), inquietudine sprimacciata da memorie Matia Bazar (Like People), funk isterici come una Yoko Ono schiaffeggiata Nina Hagen (Doppelpersonlichkeit) e psichedelia spalmata su tratturi western (una Relax che rievoca Jefferson Airplane e Giant Sand). Strutturate le orchestrazioni - elettricità di chitarre e ammennicoli sintetici, trombone, pianoforte e violini... - ma senza perderci in immediatezza e ferocia, risentono felicemente del post ovvero non ne accolgono le pose ma lo spirito dissacrante, sciamando poi verso un espressionismo vivido e famelico. L’alternarsi delle voci di Barbara e Diego - schizofrenie incrociate di setosa irrequietezza e delirio saturnino - sembrano esalare da una stessa anima inquieta, pasturata dalle memorie senza né freni né appigli della modernità. Eccitanti, estrosi, cupi: teniamoli d’occhio. (7.3/10) Stefano Solventi Giulio Pasquali recensioni / 83 Unmade bed - Loom (Seahorse Recordings, Gen 2009) G enere : post - psichedelia Waines - STU (Waines - myspace. com/3waines, Gen 2009) G enere : garage , hard - blues , pop , psych PinkFloyd, Twink, My Bloody Valentine, Pavement, Mogwai: unite i puntini e, stando a quanto si dice nelle note biografiche del gruppo, otterrete gli Unmade Bed. Che altro non rappresentano, in effetti, se non la somma degli addendi, con in più Paolo Messere nel ruolo di produttoreartistico. Obiettivo principale degli sforzi congiunti dei musicisti, quello di scendere nell’indefinito del sogno e dei ricordi, fondendo in un sospiro di musica impalpabile pianoforte, orchestrazioni, synth, basso, elettronica, vibrafoni, tastiere. Esattamente ciò che accade nelle dieci stazioni del disco, con lavoce timida ma ininterrotta di Lorenzo Gambacorta a filtrare tra le intercapedini di suono e racconto. Tutto perfetto se si rimane in superficie. I dubbi nascono quando si abbandona quell’epidermide raffinata che rappresenta un po’ il biglietto da visita della formazione, per scendere un po’ più in profondità: si scopre allora che a guardar bene non v’è traccia dei trip laterali del Barrett più allucinogeno, che gli incantesimi dafolletto propagandati dall’exbatterista di Tomorrow e Pretty Things sono solo un ricordolontano, che le trasposizioni degli afflati melodici sghembi euncinanti della band di Stephen Malkmus non paiono poi così uncinanti. Sostituite invece da un eccesso di lustrini con pocomordente, gradevole, certo, ma raramente indimenticabile. Dal passato rinviene lo sciabordio morbido delle chitarre di Loveless,qualche rimembranza Mercury Rev, un’organizzazione dei contenuti che privilegia il lavoro degli strumenti – caro, vecchio,post-rock -, qualche stranezza nelle melodie. Non abbastanza, comunque, da consentire al disco di sforare la soglia del sette.(6.6/10) Di questo power trio palermitano - rigorosamente bass-less – dal sound potente eroccioso si è già parlato nelle pagine di We Are Demo (SA #45-46) a propositodell’EP A Controversial Earl Playing, che altro non era se non ungustoso antipasto in attesa della portata principale. STU (si scrive tutto maiuscolo, come il nome del gruppo) è una vera e propria abbuffata di riff granitici, slide guitar imbizzarrite e rullate telluriche imbastita nel nomedel blues, che per i WAINES non è solo un’ispirazione ma una fede, sacro fuocoprimigenio che tutto muove. Tanto che l’oceano di catrame in cui Fabio Rizzo (già nei Second Grace), RobertoCammarata e Ferdinando Piccoli navigano saldi è lo stesso di Blues Explosion, White Stripes, BlackKeys ma anche AC/ DC, Motörhead,Allman Brothers e compagnia lercia. Aldilà dei più che riusciti tributi al genere (i funambolismi di Server, le devote evoluzioni Page/ Plant di Red CrossStore), ai tre bisogna riconoscere personalità e palato tali da spingere iltutto verso il pop, in un crossoverriuscito tanto nelle trame delle melodie (il Beck spiritato e sudista di LetMe Be, i Beatles trapiantati ZZ Top nell’incipit di Flow River Flow, i Raconteurs anfetaminici e truzzi di Woooo, ma pure gli hook degli strumentali Have You Heard The News e ReadyTo Taxi), quanto - più esplicitamente - nell’efficace rivisitazione di NY Excuse dei Soulwax, già pezzo forte dell’EP. Se aggiungiamo che lasupervisione del veterano Daniele Grasso dei The Cave Studios di Catania (cuisi sono affidati fra gli altri John Parish, Greg Dulli, Afterhours, CesareBasile) è una garanzia, e che l’autoproduzione della band (il disco è invendita sulla loro pagina myspace) sfoggia gusto e Fabrizio Zampighi 84 / recensioni consapevolezza da vendere(suono caldo, denso e massiccio; da vinile), siamo decisamente di frontequalcosa di più che un prodotto “locale”. Chiamatelo (indie) rock daesportazione, se vi va. O, meglio ancora, cazzutissimo rock’n’roll made in Italy. Pardon, Sicily. (7.5/10) Antonio Puglia Wheels Of Fire - Get Famous (Big Legal Mess, Mar 2009) Genere: Garage Descritto come perfetto incrocio fra Elvis Costello e Stooges, il quintetto dell’Ohio è, in realtà, animale da palco per eccellenza. I WOF hanno concepito questo loro esordio lungo on the road, per strada, battendo, tappa dopo tappa, Europa e States adrenalinicamente carichi di esplosivo rock’n’roll. Tornati a casa, si son chiusi in uno scantinato, armati di soli microfoni e un vecchio registratore. Get Famous! è il frutto di quel parto creativo. John Garris (voce, chitarra), Matt Chaney (batteria), Susan Musser (tastiere), Mike Chaney (voce, chitarre) e J.J. Reed (basso) amano Sonics, Kinks, Beatles, Big Star. E questi rappresentano il lato poppy del loro carattere musicale. A trasformare ogni pezzo in verace e scalmanato numero rock’n’roll ci pensano i padri ‘cattivi’ di questo suono: Oblivians, Stooges, Animals. Sì, gli Oblivians. Un nastro dei Nostri andò a finire, dopo un’esibizione live sostenuta insieme, proprio nelle mani di Jack Oblivian. E dalle sue, poi, a quelle di Bruce Watson, il deus ex machina di casa Fat Possum. Un sacco di ‘agganci’ con le blue notes, i Wheels On Fire li hanno, nelle loro song. John Lee Hooker è uno dei miti della formazione. Apre l’album Midnight School che è blues nel senso inteso dagli sporchi Oblivians. Tirato ed elettrico detrimento dei sensi rock’n’roll attraverso 3 minuti 3 di forma-canzone. Anche meglio fanno I’m Turning Into You o il boogie cadenzato dall’organo di Can’t Get A Line. Che i Reigning Sound abbiano trovato, di già, i loro eredi?(7/10) Zukanican - The Stumbling Block (Pickled Egg, Gen 2009) G enere : avant funk jazz Col debutto Horse Republic (Pickled Egg Records, 2006) i quattro Zukanican da Liverpool piantarono una interessante bandierina sul pianeta free-funk, mischiando visioni retrofuturiste e suggestioni avant coi piedi piantati in un presente bello carico di energia, di ispirazione, di azzardo edificato sulla più sana impudenza. Col successore, il qui presente The Stumbling Block, il tono si acquieta, tenta una riflessione sul posto, esplora i dintorni per verificare il raggio d’azione, a tratti cincischia che non sai bene dove e se voglia spingere o spegnere l’avventura, perlopiù sciorina vampe e rombi ed ectoplasmi foderandoli d’umore discendente, destinandoli ad una pacificazione meditativa. Basso, batteria, tastiere e tromba, questa la quadratura basilare che poi va a frangersi nella calligrafia incalzante, misterica, seriale, tumida e aerea, roba che potrebbero distillare in un laboratorio di alchimisti in fregola Can e Terry Riley, del Miles Davis sciamanico, dei Massive Attack più torbidi. Il sound è ora androide e spasmodico - con la fauna elettronica a sfrigolare, il drumming asciutto e veemente, le pennellate brevi e pastose della tromba (vedi Inca Hoots e la giocosa All The Saints Are Sinners) - oppure sospeso in una sarabanda di visioni oscure, filmiche, coi rigurgiti di passato sempre in agguato (fantasmi boogie nel tribal funk seriale di Tell It To The Kif, folate Sketches Of Spain e arabeschi floydiani nell’antro motoristico di Koanish). Segnalata una Penny Dance Test che rievoca brume vibratili Tortoise su cui moog e cornetta impazzano mercuriali, spendiamo un plauso per la potenzialità espressa e uno speranzoso rammarico per quella che sembra essere rimasta sul taccuino. (6.9/10) Stefano Solventi Massimo Padalino recensioni / 85 il dvd il libro Mark Fell - Attack On Silence (Line) dvd Giuseppe Basile / Marcello Nitti - ‘80, New Sound, New Wave Autentiche sculture sonore quelle del progetto audio e video Attack On Silence di Mark fell.Il suo lavoro mette in gioco esperienze percettive attive ardite, grazie a geometrie spazieli e di frequenza che arrivano a tracciare alienate simbiosi. Un vero e proprio quadro digitale dal tratto dichiaratamente minimale, che a differenza del Royoji Ikeda di Formula fa a meno dei ritmati registri, ma non del colore limitato comunque a un determinato monocromo su sfondo nero. Tre capitoli nettamente differenti, dalle repentine ascese e discese della prima traccia che prende vita nei caleidoscopici accostamenti in fasce orizzontali, alle geometrie in 8x8 pixel dei successivi sedici minuti.Una sorta di configurazione incrementale di una multiviewer per segnali in 16:9 alla cui base stanno le sfumature e le tonalità (del grigio,del blu o del verde) mentre alle estremità le intermittenze sono realizzate con accostamenti cromatici puntuali e atonali. Decisamente intrigante la sospensione che permea l’ascolto dei trentanove minuti della terza e ultima sezione, una sorta di banda orizzontale suddivisa in sezioni verticali di colori vibranti e sanguigni.Tangibile in questo caso la fonte sonora che abbandona la gerarchia per sottoporsi alla diffusione, al contrasto e infine al repentino mutamento. Per tutta la durata di Attack On Silence lo schermo appare ibridato e l’immagine statica ma la matrice pulsante:un’esperienza sonora e cognitiva di notevole impatto o una sorta di consapevole e profondo passaggio iniziatico.Da avere! (7.5/10) Di sguardi sulla wave, anche obliqui o trasversali o paralleli e particolari, ne sono circolati molti negli ultimi anni. Anche in Italia. Soprattutto durante il revival cui siamo stati sottoposti in questi anni 00 a base di emul-rock commerciale e becero, rivisitazioni genuine e spontanee o celebrazioni à la page e nazional-popolari. Mai però ci si era trovati di fronte ad una indagine – un libro nello specifico – che trattasse quel periodo d’oro limitandone il raggio d’azione alla provincia meno cool (oggi come ieri) della periferia dell’impero di certo rock. Cosa buona e giusta, a dir la verità. In primo luogo perché dimostra passione, tanta, forse troppa visto poi il disgregarsi di certe forze, sia all’epoca delle vicende narrate – immaginate cosa significasse quasi trenta anni fa sbattersi per organizzare concerti nel sud d’Italia – sia nell’attualità della nascita di questo ’80 New Sound, New Wave, lavoro certosino e immaginiamo difficilissimo di reperimento delle fonti da parte di Giuseppe Basile (prevalentemente testo) e Marcello Nitti (prevalentemente immagini e foto). Due protagonisti diretti di quella epopea, sconosciuta ai più in verità, che vide i più grossi nomi della wave d’oltremanica calcare i palchi improvvisati di Taranto, estremo sud dello stivale, all’epoca dei fatti ancora al limitare dell’illusoria tendenza espansionistica che certe industria pesante (ma non pensante) prometteva senza poi mantenere. Taranto, luogo ameno, non proprio votato alla musica, specie a quella d’avanguardia come sottolinea Basile nella prefazione, si risveglia però proprio sull’onda di quella nuova onda; la sua gioventù assetata di novità, di input, di ancore di salvataggio sembra rinascere proprio attraverso quelle musiche allora di confine dimostrando una vitalità, una sorta di coscienza identitaria connessa a “una musica di nicchia che usciva dalla nicchia”, a tutt’oggi invidiabile. Proprio nel taglio insieme documentaristico e sociologicamente altro del libro risiede lo scarto maggiore e il pregio principale di questo ’80 New Sound, New Wave. Se da un punto di vista prettamente sociologico i due autori, procedendo per immagini e parole, sembrano sottolineare in senso positivo, quasi rivendicandola, proprio la matrice “provinciale” del lavoro, attenta cioè ad indagare lo stretto legame tra provincia e mondo musicale in espansione; da quello più squisitamente documentaristico forniscono non la solita, trita e ritrita riflessione sulla wave (electro, dark, gothic, post-punk che sia). Bensì, una indagine “quotidiana” della passione musicale che bruciava in quei primi anni ’80. Ricordi, memorie, chiacchiere in libertà con i protagonisti di quel periodo. Legami intensi, fili interrotti o ripresi, revival nel senso etimologico del termine che ha il pregio di farci (ri)vivere aneddoti e momenti sinceramente interessanti (comici e/o seri) su artisti del calibro di Simple Minds e Bauhaus, Siouxie e New Order tra i tanti. Oltre che mostrarceli, miti demitizzati, giovani tra i giovani, nella quotidiana vita della rockstar in provincia. Due su tutte: i Cult a cena nel ristorante del Tursport, il centro sportivo teatro della maggior parte degli eventi narrati, come una qualsiasi comitiva di ventenni; o i Bauhaus goffamente intenti a giocare a calcio, gotici e emaciati come d’ordinanza, nel campetto del suddetto centro sportivo. Un libro da leggere e guardare, insomma, ma anche, perché no?, per riflettere sull’importanza della wave primigenia. Sara Bracco Stefano Pifferi 86 / recensioni recensioni / 87 live report Handsome Furs (Locomotiv 20 Feb 2009) Se siete inguaribili frequentatori delle feste scolastiche di fine anno, se il divertimento fine a se stesso, per voi, è quasi un comandamento, se alla musica non chiedete altro che un paio di accordi di chitarra elettrica e una base elettronica su cui saltare, catapultatevi a un concerto della band canadese: non rimarrete delusi. E come potreste, del resto, visto che i Nostri sono i primi a coltivare quella grottesca pantomima che accompagna il rock da che mondo è mondo, fatta di pose plastiche, espressioni divertite, teste che si muovono a tempo e ubriachezza (per nulla) molesta? E allora decoltè in bella vista, calzamaglie zebrate e piedi nudi a tenere il beat (Alexei Perry), tatuaggi di rigore, jeans stretti e anfibi consumati a celebrare a mo’ di macchietta una carica animalesca solo presunta (Dan Boeckner). Un modus operandi che trasforma il no fun di Iggy Pop in occhiate ammiccanti, ringraziamenti fin troppo scontati, sorrisi compiaciuti e quasi incredulità per una serata in cui tutto gira a dovere. Il pubblico dimostra di gradire il mix di new wave e shoegaze che parte dagli amplificatori, ne studia la grana grossa, lasciandosi convertire dalla coolness messa in bella mostra. Ma è un compito fin troppo facile, dal momento che chi suona fa di tutto per accaparrarsi la simpatia di chi ascolta, arrivando a declinare il concetto di “fellatio” in un italiano stentato ma già gergale. 88 / Rearview Mirror Se in musica esistessero le caste, i Kills starebbero dieci scalini sopra questi Handsome Furs, che della formazione anglo-americana riprendono l’organigramma aziendale ma certo non il cinismo metropolitano, le accelerazioni sintetiche ma non la statura artistica. Tanto da arrivare a svilire dal vivo persino quella compartimentazione stagna dei ruoli - e dei suoni - che su disco ci aveva affascinati, in favore di un impeto festaiolo sbracato e in saldo. Insomma, un esperimento gradevole e innocuo la nuova avventura discografica del vocalist dei Wolf Parade, come una domenica pomeriggio al mare o lo sciroppo per la tosse al gusto di amarena. In attesa che il demone del rock si ricordi anche di loro. Fabrizio Zampighi Hell Demonio, Crystal Antlers (Locomotiv 26 Feb 2009) Esteticamente i Crystal Antlers sono brutti assai ma funzionano alla grande. Sono icone off della California all’epoca di Altamont e ci fanno parecchio. C’è il negrone pacchiano a ballare e mimare le canzoni con tamburelli e diamonica. Un tastierista matrono messicano con gran chioma, carnute braccione e tocco altrettanto pesante. Diciamo minimal, con le dita a tirare lunghe note sopra lo sfracasso chitarristico di un cantante vestito, per caso, grunge. Una sorta di Cobain con i baffi. Un Cobain felpa e cappuccio, jeans e camicia una taglia sopra. Lo strazio vocale simil- Handsome Furs mente scream(o) a ricordarlo. Ultimi: batterista giovanissimo e a petto nudo, icona gay istantanea e un trendy secondo chitarrista caschetto-munito con camicetta bianca e pulita. Sono immagini che spiegano il suono più dei paragoni. Raw and control. Non proprio grunge e non proprio math e non lo definirei prog à la mars volta. Personalmente sia con loro che con gli Hell Demonio, esibitesi in apertura, è sembrato di sentire una dismissione non totale della lezione novanta dei Don Cabballero, alla quale sopravvivono arrangiamenti angolari di striscio soprattutto per gli Hell. C’è quell’urgenza dell’accelerazione massiccia. Da sogno hippy andato a male e venti pasticche di mandrax in corpo. Ed è qui che ritorna il mito stonesiano di Altamont: l’omicidio inspiegabile e reiterato del rock a velocità supersonica. Lo strazio hardcore sempre pronto al vortice noise psych che, nel migliore dei casi, fa pensare a un ipotetico gruppo hard del Manzarek doorsiano. C’è quasi da preferire gli Hell demonio ai CaliRearview Mirror / 89 forniani pitonati per un paio di motivi: non dispiace quello stridulo cantato a catturare l’isteria del miglior Zach de la Rocha, soprattutto se in appoggio abbiamo un cingolato hard slegato dalle pose Black Sabbath dei vetusti Rage Against The Machine. E persino per quegli assoli piovuti dal nulla a due chitarre in stile Iron Maiden periodo Powerslave, i tamarraci italici meritano un premio. Come non menzionare, infine, i riff, minimo comune denominatore di due band che non mirano all’anthem ma al sound. Chiamalo hard in provetta o come ti pare, proprio come ai tempi dei Don, ma anche su questo punto gli Hell Demonio, meno animali da palco e meno ricchi di quella tastiera e di quel mix, primeggiano e si portano a casa l’applauso. Controllato anch’esso. S’intende. Edoardo Bridda The Damned (Estragon 13 Feb 2009) E pensare che erano stati tra gli alfieri del punk inglese. A distanza di più di trent’anni dagli esordi i Damned non riescono ad andare oltre un raccapricciante spettacolo di cabaret. Volontario o involontario che sia. “Se pure un giorno sono stati qualcosa di importante, di sicuro oggi non lo sono più. Non sono proprio più niente!”. Le parole di Mario, amico dai discreti gusti musicali, ma poco avvezzo al punk e ai suoi derivati, nella loro semplicità sintetizzano alla perfezione le sensazioni che anche a me, estimatore di ciò che i Damned hanno rappresentato alle origini del punk, ha suscitato il concerto della band londinese. Pensare che sono passati più di trent’anni da quando ha visto la luce New Rose, quello che molti ritengono sia storicamente il primo singolo mai registrato da una band punk. Un lasso di tempo che dà le vertigini, se solo si pensa che i vecchietti che stasera sono saliti sul palco dell’Estragon, sono gli stessi che si sono imposti agli albori del punk, nella sua culla londinese, suonando insieme ai Sex Pistols. Se a questo si aggiungono le innu90 / recensioni merevoli trasformazioni della band, dal punk al gothic, fino a influenze sempre più cabarettistiche e melodiche, con il solo Dave Vanian a portare la bandiera durante tutti anni, si può già intuire ciò che attende il pubblico bolognese. Ma a volte la realtà è peggiore delle peggiori aspettative. Vabbè la leggenda, ma, quando i cinque salgono sul palco si fa davvero fatica a riconoscere in quel crooner dei poveri vestito da cameriere, con tanto di guanti neri e ciuffo bianco che spunta da una pettinatura alla Elvis (Vanian) e nel vecchietto forzatamente giovanile che imbraccia ancora la chitarra penzolante sulle ginocchia come quando aveva vent’anni (Captain Sensible), due tra i legittimi genitori del punk inglese. L’approccio è fiacco, il sound tutt’altro che graffiante, complici le tastiere di Monty Oxy Moron, che spesso e volentieri prende la scena saltellando come un forsennato e mostrando il lato volontariamente più clownesco della band. All’umorismo involontario ci pensa Vanian: impacciato e chiaramente poco a suo agio, si muove (poco) dando l’impressione di non sapere proprio cosa fare. L’ultimo lumicino di speranza, in questi casi, è legato al revival. Quando finalmente viene fuori l’unica cosa interessante del concerto: il passato della band. Neat, Neat, Neat, New Rose, Smash It Up risuonano con piacere nella memoria dell’ascoltatore nostalgico, ma le nuove versioni hanno poco a che vedere con la ruvida essenzialità di quegli esordi ormai lontani, tanto da far fare addirittura bella figura allo scialbo rock psichedelico dell’ultimo album. Il pubblico, discretamente numeroso da riempire metà della platea dell’Estragon, sembra accontentarsi e mostra di gradire. Non si capisce veramente cosa. Daniele Follero Eugene Chadbourne (Museo Della Musica 24 Feb 2009) Comicita e ricerca musicale, parodia e eclettismo. Eugene Chadbourne dimostra ancora una volta che la musica sperimentale può andare tranquillamente a braccetto con il country, il noise, il metal e il clownesco. Alla faccia di chi pensa che la musica sperimentale (d’avanguardia, anticonformista o come diavolo la si voglia chiamare) sia per forza una roba noiosa e di chi crede che i musicisti “impegnati” debbano (chissà per quale motivo, poi) essere barbosi bacchettoni che suonano per un pubblico elitario e serissimo. L’altra sera, nella saletta del Museo della Musica di Bologna, Eugene Chadbourne ha dato prova del contrario, dimostrando che la comicità può andare perfettamente a braccetto con la ricerca musicale, senza che quest’ultima perda di credibilità. E lo ha fatto a modo suo, con quell’ inconfondibile stile da americano giramondo, capace di adattarsi a qualsiasi platea e, soprattutto, a generi musicali distanti anni luce tra loro.Solo con un banjo e una chitarra, il musicista statunitense, noto per le sue svariate collaborazioni (da John Zorn a Fred Frith, da Jello Biafra a Derek Bailey, fino ai romani Zu), è riuscito ad ipnotizzare i presenti per un’ora e mezzo con uno show esilarante e capace di abbracciare, in poco più di un giro d’orologio, mondi musicali agli antipodi. Senza tanti convenevoli, Chadbourne ha esordito con una serie di brani country, che spesso e volentieri si dilatavano, sfociando in improvvisazioni free, con il banjo trasformato in un ibrido tra uno strumento a corde e una percussione.Dopo una mezz’oretta eccolo imbracciare la chitarra elettrica, distorta e compressa all’inverosimile, e lanciarsi in una serie di cover. Are You Experienced? Di Hendrix sarebbe praticamente irriconoscibile sotto le sferzate noise della sei corde, se non fosse per l’ormai classico stop and go con la declamazione della frase che da il titolo al brano. Dal rumorismo estremo al suono chiaro e limpido ci passa un colpo al pedale degli effetti. Ed ecco il Nostro esibirsi in un duetto (degno di un imitatore di professione) tra Bob Dylan e Louis Armstrong sulle note dello standard Stardust. Ma non c’è sosta e il pubblico non ha ancora smesso di ridere che arriva la sua personale rilettura del classico del classici del rock’n’roll, Roll Over Beethoven, trasformato per l’occasione in un geniale “Roll over Berlusconi”! La comicità musicale di Chadbourne possiede l’efficacia che solo i grandi attori riescono a suscitare, tanto è raffinata e mai grossolana. E, soprattutto, imprevedibile. Quanto meno te lo aspetti, il vecchio Eugene ti mostra il pezzo da novanta, tirando fuori uno strumento di sua invenzione: il rastrello “elettrificato” (!). Chadbourne gironzola per un quarto d’ora esplorando tutte le sfumature del rumore con il suo nuovo arnese, ora graffiando il pavimento,ora sfruttando il suono del contatto elettrico con le luci. Non importa che sia un concerto gratuito e che ai presenti potrebbe già bastare. Lui è in vena, il pubblico anche e quindi, imbracciato di nuovo il banjo, ricomincia con le sue deliranti melodie pseudo country. In questi casi ci si può solo lamentare del fatto che tutte le cose, prima o poi, finiscono. Eccezionale. Daniele Follero recensioni / 91 WE ARE DEMO #34 Old Polaroid - Man Who Hate Women I migliori demo giunti nelle nostre cassette postali. Assaggiati, soppesati, vagliati, giudicati dai vostri devoluti redattori di S&A. Testo: Stefano Solventi, Fabrizio Zampighi. Sirens - Acheloo Acheloo è lo pseudonimo dietro cui si cela Carlo Luzi, chitarrista romano folgorato da ambient e musica cosmica. Uno che raggiunge latitudini estreme con un suono glaciale, dilatato, pervaso dal lavoro dell’Ebow e del multieffetti. Il tutto mantenendo un approccio alla materia piuttosto diretto, che in questa demo delinea inquietanti paesaggi (Teles) come profondità irrisolte (Ligeia), crescendo senza fine (Deianira) e parentesi dai profumi vagamente post-rock (Melody Of Darka).Scindere tra autoreferenzialità e creatività, coraggio e reiterazione non è impresa facile quando ti ritrovi ad ascoltare brani che arrivano a sedici minuti di durata senza differenziarsi gran ché al loro interno o dal resto del programma. Ci pare tuttavia che Sirens meriti comunque una segnalazione all’interno della nostra rubrica.(6.3/10) Fz Kernel Drop - The Dreambox Stefano Serafino da Torino alias Kernel Drop, i cui sogni si riproiettano ipnotici rimbalzando algebrici miraggi Kraftwerk teletrasportati Orbital, quindi una sottigliezza che intaglia futurismi olografici e percezione androide della meraviglia sonica, sgocciolando come l’avatar di una immaginaria musica concreta, pulsando danza intelligente per giunture immateriali, cogliendo frutti warpiani tra arguzie minimali come dei Pan Sonic ringalluzziti Faithless e Autechre. Facciamo che c’è in questo The Dreambox - sette pezzi per oltre cinquanta minuti - una freschezza tenace, a suo modo inesorabile, che lo rende intrigante come pochi ascolti electro mi siano capitati da un pezzo. Marcatelo stretto.(7.2/10)Ss Le Morceaux Anatomiques - Self Titled è ancora acerba questa formazione di Voghera, eppure l’indie-rock che propone ci ha convinti. Merito 92 / recensioni Dalla Sicilia con fragore visionario, sfrigolante, eccentrico, suadente, mescolando il torbido dei Blonde Redhead con l’onirico Flaming Lips, il guizzo irrisolto dei dEUS, l’irriverenza riverente di Jon Spencer e il fiero post-modernismo afro-black di Eryka Baduh. Questo, con molta approssimazione, sono gli Old Polaroid, liasion artistica tra Francesco Cipriano e la cantante sudafricana Zoe Berlin, col non certo piccolo aiuto del di lei marito Chaz e di Enzo Cimino (già Mariposa) alle ritmiche. Quattro i pezzi, vorrei fossero di più, ma già si prevede debutto su lunga distanza a primavera, allora quando finisce questo delirio organizzatissimo posso ritenermi più che soddisfatto, aperitivizzato.(7.6/10) ss di una malinconia di fondo in stile Blonde Redhead sospesa tra musiche misurate e una voce, quella di Alessia Praticò, dimessa ma, al tempo stesso, in grado di adattarsi con un certo stile alle linee vocali frammentarie dei brani. Per una musica che sfiora il noise ma accetta di buon grado anche la melodia, mostra una certa epicità, vive di cambi di ritmo frequenti, con basso, chitarra elettrica e batteria a suggellare passaggi musicali insoliti frutto anche di una buona coesione tra le parti.(6.8/10)FZ Mayflower - Jumping My Skipping Rope In Your Backyard Quartetto tutto al femminile da Benevento, attivo dal gennaio 2006 sulle tracce di un folk rock venato di retaggi seventies ovvero disposto a concedersi suggestioni jazzy e blues, col risultato di scomodare barbagli Jefferson Airplane stemperati da un’aura sbarazzina Go Go’s, oppure se volete una benemerita via di mezzo tra la Suzanne Vega meno prolissa e la Alanis Morrisette più intensa. Poi, ok, c’è quella Recollecting che potrebbe passare per la sorellina di Jeremy dei Pearl Jam, e con questo è il caso di chiudere coi riferimenti per spendere un ragionevole elogio alle Mayflower, band che sceglie di percorrere una strada poco trendy ma coraggiosa e foriera di buoni sviluppi. I mezzi - a partire dalla voce di Miriam - non mancano. Quanto alla robustezza del sound, son cose che si conquistano anche lungo il cammino. In bocca al lupo. (6.7/10) SS Randy Watson - S/t Si trova tra grunge e hard, post-rock e stoner, psichedelia e noise, il domicilio dei Randy Watson da Pavia. Un pugno di brani quasi del tutto strumentali costruiti su chitarra elettrica, basso, batteria, che non si interessano di nient’altro se non far urlare gli am- plificatori, saturare i toni grevi o picchiare sui tamburi. Dopo qualche frequentazione emerge pure un lavoro di stratificazione delle parti tutt’altro che improvvisato, in cui si alternano momenti di calma apparente e muri di distorsioni, campionamenti di voci e geometrie allentate, su suoni che mostrano attitudini vagamente progressive.Ci chiediamo che cosa potrebbe fare il gruppo se all’entropia già affascinante di questo demo, sostituisse una quadratura maggiore dello stile e un’identità specifica.(6.7/10) FZ Toleko - Self Titled C’era una volta un duo (chitarre, basso e voci) che dall’inizio del millennio si mise in testa di portare in giro per l’Italia il proprio folk-rock intenso e visionario. Ai due busker-camperisti si aggiunse nel 2007 un trombettista dall’estro più mariachi che Nino Rota, ed ecco che la triangolazione combattiva e poetica trovò compimento e un barlume di consacrazione, anche grazie al qui presente demo piuttosto apprezzato dalle radio “engagée”. Diciamocelo: non c’è da strapparsi i capelli, e non per colpa della frugalità delle incisioni. Con una produzione come si deve e una sfrondatina agli eccessi lirici, potremmo sentirne delle belle. (6.3/10) SS Un Incoerente Come Tanti - Il pianobar ai giardinetti Mi fosse piovuto addosso - diciamo - un paio d’anni fa, avrei gridato al prodigio. Versi come “compreremo ossigeno da spacciatori boliviani” oppure “il sole lo abbiamo spento per risparmiare energia” o ancora “guarda che tristezza, stanno arrotolando il cielo”, con la cruda franchezza chitarra-voce con cui vengono espettorati, sarebbero bastati per fare di pezzi come Plastica da imballaggio, Di seconda mano e La vita virtuale la mia magnifica ossessione d’un mese o due. Però oggi in un certo senso viviamo nel dopo-Vasco Brondi, e con tutta la buona volontà non possono non sembrarmi ricalcate sui cliché già definitivi di Canzoni da spiaggia deturpata. Poi però t’imbatti in una Nelle case occupate e in una Primo Maggio davvero toccanti, in un modo che De Gregori potrebbe ancora se non si fosse messo in ammollo nel Vernel bevendo per non affogare. Così come la tesa Teatrino sembra Godano che strattona un profilo Rino Gaetano piuttosto trafelato, citandone pure l’epica Ma il cielo è sempre più blu. E tutto ciò senza mai smettere di funzionare. Allora concedi volentieri al pratese Un incoerente come tanti il beneficio della fiducia. In attesa di. (6.8/10) SS recensioni / 93 A warehouse of songs and stories le stagioni del cuore l’emocore 20 anni dopo - Giancarlo Turra, Andrea Provinciali, Luca Collepiccolo C’è uno spettro che si aggira per i media e il suo nome è “emo”. Non date retta a quanto vi spacciano sotto tale etichetta, però: di un genere per definizione sotterraneo ma di portata e impatto significativi non è restata, lì, altro che la buccia. Approfittando del clamore mediatico, del ritorno degli Appleseed Cast e degli anni trascorsi nel frattempo, abbiamo voluto provare a storicizzare un fenomeno sgusciante però, a suo tempo, vivissimo. 94 / Rearview Mirror “Questi sono i tuoi anni importanti, la tua vita.” (Hüsker Dü) C’è voluto un po’ meno del solito a causa della compressione e dell’ipervelocità alle quali viviamo oggigiorno, ma è accaduto di nuovo. Che un sottogenere - al quadrato, stavolta: evoluzione di quell’hardcore a sua volta derivato del punk - e fortemente underground sia arrivato in classifica e assurto a fenomeno di costume. L’evidenza del suo essere stato infine inglobato dal “sistema” è prova del nove di un cerchio infine chiusosi su se stesso, perché, come con il punk del ’77 e il grunge del ’91, l’entrata nei top 20 rappresenta lo sfondare della diga e il cristallizzarsi delle forme. A invadere i media, più spesso che no, sarà la versione scandalistica ed edulcorata delle stesse ed è una vicenda stravista. Il primo seme invece entra nelle enciclopedie e nei libri, involandosi dagli scaffali di “quelli che c’erano” a testimoniarne nascita e sviluppi. Di noi che adesso puntualizziamo ma, soprattutto, ricordiamo. Dunque che amarcord sia, con tanto di lacrimuccia sincera e trattandosi di emotionally driven hardcore appropriata. Che era lontanissimo dalla robetta tagliata su misura per gli adolescenti seguaci della vampiresca saga di Twilight, un target che - si fa per dire, eh - evolve il “target MTV” dei Tokyo Hotel nelle playlist di Carlo Pastore. Che, in fondo ci sia andata addirittura peggio che col grunge? Quanto spessa è - se esiste - l’intercapedine che separa Silverchair e My Chemical Romance? O, per restare sui nostri lidi, Dari e Timoria? Certo è che il minimondo di frangette e lamenti, vestiti neri sottratti al fratello maggiore ex “dark” (è troppo immaginare il papà? forse no...) e canzonacce pompose e insopportabili incarna l’emo se oggi chiedete in giro a ggiovani o male informati. A noi, ovviamente, tutto questo non interessa. C’era infatti ben altro in epoche neppure lontanissime. Ci fu l’ultima mutazione plausibile del punk, mentre una sua faccia diventava macchina da soldi al posto della vacca grunge spremuta oltre l’immaginabile. Qualcosa di cominciato veramente “dal basso”, sebbene sulla base d’esempi elevati. Tocca tornare alla fine degli anni ’80, nei giorni in cui gli immensi Hüsker Dü pubblicano il testamento Warehouse: Songs And Stories (Warner, 1987; 10/10), uno dei rari dischi di cui è in pratica impossibile - qualora non sciocco - sottovalutare grandezza e importanza. Nei suoi solchi vibrano tuttora anime che cercano di oltrepassare le proprie debolezze affrontandole a viso aperto, dialogando tramite Canzoni memorabili. Sensibilità che pulsa corporea e le rende a volte difficili da sostenere per come passano ai raggi X ogni problematica, errore e rimpianto; per come tratteggiano con franchezza sguardi e parole che dall’ostile sfumano in pura amarezza. Un modo di rapportarsi alla musica che fluttuava nell’aria dopo lo spegnersi delle fiamme hardcore, specialmente dalle parti di Washington D.C., dove - conclusa l’esperienza “straight edge” nella sua forma genuina - Rites Of Spring (s/t; Dischord, 1985; 7,5/10) ed Embrace (s/t; Dischord, 1987; 7,3/10) concepivano il verbo non più come proiettato all’esterno, prediligendo l’introspezione alla dottrina. Formazioni che osavano oltre l’ortodossia, ne immaginavano un post tendendo l’orecchio alla inafferrabilità di Squirrel Bait (Skag Heaven; Homestead, 1987; 8,0/10) e Slint (Spiderland; Touch & Go, 1991; 10/10). Ne derivò una maggior complessità sonora, la tortuosità confessionale perfetta per esprimere quei moti del sentimento cangianti per definizione. Fondamenta dell’emocore da cui si dipartono i rivoli che rispecchiano la complessità del sottobosco anni ’90 e dell’attuale; che testimoniano la difficoltà nel tracciare linee che - lo confessiamo - hanno regalato piacevoli grattacapi al momento di mettere ordine. Compiuto non senza sforzi e diffidenza da parte dell’ala più “machista” del mondo hc, il passaggio Rearview Mirror / 95 a testi personali e sonorità più complicate seppe farsi largo con costanza, inseguendo l’autenticità dell’esporsi in prima persona e della conseguente indipendenza e autogestione di processi produttivi e promozionali. Quando - dalle ceneri delle due gemme della Capitol City di cui sopra - nascono i Fugazi (s/t; Dischord 1988; 8,0/10), l’argomento acquisisce tratti somatici chiari, anche se le targhette ancora non sono state appiccicate. In California spetta ai Jawbreaker recepire il messaggio in composizioni vibranti e a lento rilascio, mentre nervi e ferite scoperte saranno appannaggio dell’etichetta Ebullition; alla tendenza trasversale di San Diego, invece, il compito di scandagliare modalità più oblique, ardite contaminazioni new wave senza negarsi furiosi assalti sonici. Trattandosi di faccenda altamente “personale” (ma pur sempre di un privato costretto a divenire pubblico, perché l’arte è in prima istanza comunicazione), l’assaporeremo attraverso impulsività espressive, dischi e band che lasciano segni estemporanei, piccoli ma significativi e spesso riscoperti a posteriori. Poi sarà il tempo di un’autentica alluvione di gruppi e gruppetti devoti a snocciolare accorate liriche alternando carezze e aggressione. Curioso sulle prime, ma in ragione di quanto sin qui scritto assai indicativo, il passaggio di testimone a metà anni ’90 tra il “Seattle sound” e le avanguardie emo avvenuto con i Sunny Day Real Estate, il cui Diary (Sub Pop, 1994; 7,2/10) resta tuttora riferimento di peso. La pelle che cambia all’infinito nel mondo indie è pronta ad accogliere il fenomeno, così che esso risponde mutando senza sosta sulle ali di complessità formale e drammaticità espositiva. Dai potenti e squadrati riff dei Quicksand - influenti su decine d’epigoni, tra cui svettano i Metroschifter di 4; Doghouse, 1997; 7,2/10) - alle contorsioni dei Drive Like Jehu il passo non fu breve, se si valuta che in mezzo ci finirono la narratività dei Karate (s/t; Southern, 1995; 7,6/10) e la seconda ondata washingtoniana 96 / Rearview Mirror con i nerboruti Jawbox (Novelty; Dischord, 1991; 7,2/10) e le elucubrazioni di Shudder To Think (Funeral At The Movies; Dischord, 1991; 7,0/10). Quanto le cose si stessero però oltremodo confondendo, lo dimostrò l’insensata inclusione degli Weezer e di altre band di stampo power-pop nel filone. L’aspetto più tenue e melodicamente romantico, semmai, era indagato in profondità da Texas Is The Reason e Sensefield, latori di sfoglie fragili però robuste che fornivano indicazioni evidenti: un college-sound seducente e pindarico, aperture alate colme di sferza e raccoglimento. Come se Smiths o i Cure meno estenuati e più chitarristici fossero nati su questo lato dell’Atlantico e innervati di piglio rockista squisitamente americano. Alla fine dello scorso decennio, l’emocore si frantuma ulteriormente mentre inizia a decadere e cristallizzarsi: indaga una visione decadente della provincia (Antioch Arrow), intavola commerci con lo shoegaze (Appleseed Cast: End Of Ring Wars; Deep Elm, 1998; 7,4/10) e la trasversalità dei Pavement (i Van Pelt di Stealing From Our Favorite Thieves; Gern Blandsten, 1996; 7,4/10); strizza le ultime gocce di sangue rimaste (i Cursive, partiti come fedeli alla linea e giunti, col commovente Domestica; Saddle Creek, 2000; 7,8/10, al colpo di coda finale del genere) e abbraccia l’impeto autodistruttivo dello screamo. Infine muore sotto l’autoreferenzialità e più di tutto le colate di saccarosio e luoghi comuni che scaleranno le charts nel pieno del terzo millennio, nel quale i farseschi Blink 182 fanno cassa e la scena reagisce chiudendosi e moltiplicandosi in modo esponenziale. Il guitar-pop smarrisce brillantezza e spontaneità spalancando la porta all’artificio (si veda la parabola degli At The Drive-In dopo In/Casino/Out; Fearless 1998; 7,4/10); allorché l’ammiccare ruffiano di Dashboard Confessional, Joshua e Jimmy Eat World conduce alle citazioni di O.C. e ai Fall Texas is the reason Out Boy, la misura è colma. L’emotività subisce il contraccolpo del mercato e diviene messa in scena; l’esercizio di stile paga e l’attualità non fa sconti, sbatte per qualche mese il mostro al centro del palco e sotto il riflettore. Dentro il quale finiscono i “ragazzi tristi” che - ci spiace - proprio non sono come noi. Che posseggono mille risorse per comunicare ma non ne sono capaci. Che si accontentano di sbocconcellare annoiati la musica sull’Ipod perché sono nati piccoli e piccoli resteranno anche da cresciuti. Noi, invece, arrischiavamo soldi in busta chiusa a minuscole etichette per ricevere in cambio uno scricchiolante 7” e ci scopriamo adulti adesso, ma lo eravamo anche allora. Faccenda chiara da subito a Blake Schwarzenback dei Jawbreaker, che con partecipato sarcasmo canterà in Boxcar un rivelatore “1-2-3-4, who’s punk? What’s the score?”. Avere vent’anni… Of Eyes And Misery. “Il tuo posto è ancora al cure di ogni mia cosa, e devo fartelo sapere.” (Texas Is The Reason) Nessuna delle band che hanno fatto la storia dell’emocore ha mai apprezzato e tanto meno condiviso l’essere inserita sotto tale cappello. Faccenda già vista con diverse sfumature per infiniti generi e sottogeneri, ma col senno di poi lungimirante, alla luce della disastrosa deriva odierna. Eppure, se la critica specializzata - soprattutto le fanzine super underground - si è per tutto il decennio scorso fissata ossessivamente su quelle tre semplici lettere, un motivo ci sarà. Occorre guardarsi indietro per capire, al solito: sviscerando lo sviluppo delle frange più melodiche dobbiamo chiamare in causa i sottovalutati Jawbreaker. Unfun, (Shredder, 1990; 6,0/10), esordio del trio californiano è un discreto mix di accelerazioRearview Mirror / 97 ne punk e immediatezza pop tagliato da urgenza comunicativa adolescenziale. Solo a una più attenta analisi emergono i barlumi della cifra che s’imporrà, come le liriche introspettive, il cantato sofferto e le improvvise decelerazioni sonore. Semi che germogliano nel successivo Bivouac (Tupelo, 1991; 7,8/10), dove la durata media dei brani si dilatata e le trame strumentali si accodano senza smarrire veemenza; il ritmo rallenta e lascia spazio a improvvisi cambi di tempo, a languidezze chitarristiche di arpeggi e sospensioni. mineral Protagonista è il cantante-chitarrista Blake Schwarzenbach che - notevoli capacità letterarie e voce simile a Richard Butler - combina impeto punk e sfera del privato nell’interpretazione intima e tormentata, malinconica e sentita: Shield Your Eyes è emblematica per come indaga l’impossibilità nostra di scrutare la verità in un crescendo sonoro grondante elettricità. Nei successivi 24 Hour Revenge Therapy (Tupelo, 1994; 7,4/10) e Dear You (Geffen, 1995; 7,0/10), la band interiorizza la lezione sulla scia degli altri pionieri e mostra una via che saranno in tanti a percorrere. I testi sfociano nell’intimismo diaristico, si sganciano dalla sfera politica inglobandola 98 / Rearview Mirror nel personale: tratti somatici di ciò che la stampa definirà emocore, nientemeno. Da dove arriveranno sfumature e parafrasi, picchi qualitativi e cadute spossanti, tuttavia è evidente quanto questa band (Schwarzenbach è poi tornato con i Jets To Brazil di Orange Rhyming Dictionary; Jade Tree, 1999; 6,8/10) esprimesse con personalità istanze di cambiamento vive nel sottobosco musicale americano, riflesse tramite l’evoluzione tra il primo e secondo lp. Sempre in California, infatti, i Samiam tracciavano col loro debutto (s/t; New Red Archive, 1989; 7,4/10) altrettante coordinate per future, assidue frequentazioni: il tiro mostra obblighi verso l’hardcore melodico, ciò nonostante il cantato sofferto e il raggomitolarsi chitarristico allestiscono un rilevante corto circuito emotivo. Le successive pubblicazioni seguiteranno ad abbinare testi toccanti e atteggiamento strumentale frenetico nei 33 giri Soar (New Red Archive, 1991; 7,3/10) e Billy (New Red Archive, 1992; 7,3/10), dopo i quali l’impatto sonoro andrà stemperandosi. Come loro, numerose altre band di “twentysomething” interpretarono agli albori dei Novanta l’insegnamento di Grant Hart e Bob Mould in una continua ridefinizione dei canoni. Ne risulta una miscela di velocità esecutiva e mood confessionale che mira al cuore di adolescenti e tardo adolescenti. I quali, occorre precisare, stavano dentro un confortevole alveo underground tutto passaparola e nicchie: con un sorriso di circostanza ricordiamo - e liquidiamo - gli sciocchi sfottò dei fondamentalisti verso quel- la che bollavano come lacrimevole deriva della “fede hardcore”. Essendo l’attenzione della critica rivolta verso Seattle e il grunge, se la stessa e le major si interessarono all’emo fu per scovarvi una possibile next big thing. Facendo al contrario e puntualmente un buco nell’acqua e nell’autenticità dei gruppi messi sotto contratto, costretti in un ruolo che non gli apparteneva a soccombere sotto il peso delle mancate vendite. Del resto, quella via di vivificare il punk nasceva da un’esigenza e un sentire comuni che oltrepassavano le strategie discografiche, abbeverandosi con moderna indole alla fonte del punk primigenio. Durerà almeno fino a metà anni Novanta, cioè fino a quel 1996 che segna fine della golden age. L’impeto propulsivo scema e si riassume l’accaduto, spesso pubblicando antologie che compendiano la produzione dispersa di nomi importanti; dall’altro lato, viceversa, l’industria annusa l’aria e si getta sulla cosa a massificare, causando i danni che sappiamo. Tornando ad allora, l’energia al servizio di cuore e mente restituiva un’onda in perenne mutamento che - perfetta figlia del suo tempo - assorbiva di tutto, anche se non sempre focalizzato dalla corretta attitudine sincretica. Nondimeno l’emocore restava vivo e pulsante tourbillon, presente anche dove mai avremmo sospettato e, tra le tante intuizioni, avrà enorme seguito il soffio melodico - epico, mai banale - dei Buffalo Tom (Let Me Come Over; Beggars Banquet, 1992; 8,5/10). Caso emblematico la label californiana Revelation, partita nell’87 coi massicci Gorilla Biscuit e Youth Of Today - da cui peraltro discesero i Quicksand (Slip; Polygram, 1993; 7,4/10) - e più tardi albergo di Sense Field e Texas Is The Reason, maestri dall’inconfondibile scintillio, imprescindibili quanto ad autenticità e fragranza dello stile. Nati dalle ceneri degli “old school” Reason To Believe, i Sense Field consegneranno tre lp da possedere prima di spegnersi in un contratto major: dai saliscendi elettroacustici dell’omo- nimo esordio (Revelation, 1994; 7,4/10) e la transizione di pregio Killed For Less (Revelation, 1994; 7,3/10), sbarcheranno su Building (Revelation, 1996; 8,0/10), affresco di melodie spezzacuore, intrecci di chitarre e liriche raffinate. Al loro fianco siedono con pieno merito Texas Is The Reason (Do You Know Who You Are?; Revelation, 1996; 7,3/10), formati dall’ex Shelter Norm Arenas e all’opera con melodie similmente struggenti. Altrove, case discografiche medio/piccole ma pugnaci evidenziavano la fertilità della scena, spesso aprendo le porte a band il cui suono esulava dagli stilemi, espandendosi a macchia d’olio negli Stati Uniti e anche nel nostro paese. Ecco sbocciare Boy’s Life (s/t; Crank!, 1997; 7,3/10) e Mineral e i loro bozzetti malinconici però guizzanti. Soprattutto i secondi sembravano incarnare una certa concezione “piangente” dell’emocore in The Power Of Failing (Crank, 1997; 7,5/10), languido e uggioso nelle atmosfere che ragionano d’amore. Una tendenza per così dire “soffice” di cui la label Jade Tree si fa portatrice con il pop-indie di Promise Ring (Nothing Feels Good; Jade Tree, 1997; 7,2/10) e la Polyvinyl con gli acuti Braid (Frame And Canvas; Polyvinyl, 1998; 7,2/10), punte di un sommerso gradevole ma troppo spesso stracolmo di band-fotocopia o di convertiti alla moda del punk sentimentale. Qui il nocciolo della questione e l’inizio della rovina: tra i molti che rimedieranno figure artisticamente mediocri, vi sarà addirittura qualcuno capace di farsi baciare in fronte dal successo. Questo sarà il colpo mortale: l’iperproduzione influisce sul livello medio delle uscite e ben presto ne avremo tutti le tasche piene. In modi diametralmente opposti, allo scoccare del 2000 furono Get Up Kids (Four Minute Mile; Doghouse, 1997; 7,2/10) e Jimmy Eat World (Clarity, 1999; 6,0/10) a sancire la capitolazione. Meglio senza dubbio i primi che - sinceramente indebitati con i Jawbreaker al punto da citarli nelle liriche - si sfalderanno in un dapprima passabile e poi anonimo Rearview Mirror / 99 pop-rock universitario, senza peraltro cedere al mainstream; cosa che faranno i secondi, scaltri nel catalizzare su di sé l’attenzione al momento propizio, spuntano un contratto con la Capitol grazie a suoni laccati e poco convincenti. Da qui in poi le cose si fanno sommamente patinate e diteci se non vi è cosa più lontana dall’emozione; le due band - forse inconsapevolmente, ma tant’è offrono sul piatto d’argento i modelli dell’attuale baraccone. Amaramente, l’irrigidimento formale dell’emocore avviene là dove tutto era iniziato, cosa di per sé coerente alla sua natura elusiva. Fatta di pensieri e parole che volano via veloci come fotogrammi, noi dietro a inseguirli con il ricordo. Provando a fermarli per sopravvivere alla bruttura odierna. The Rebel Sounds Of Failure. “Non c’è alcuna stabilità nella storia, ci si trovano solo bugie su bugie.” (Native Nod) Ci piace iniziare da un libro, poiché spesso sono le immagini a servire da icona e rendere al meglio un’idea. The Unheard Music – Photographs 1991-1997 è il testamento visivo lasciato da Chrissy Piper nel 1997, documento che immortala una stagione dell’underground americano tra le più feconde dello scorso decennio, la cui influenza rimane tuttora ben avvertibile. Nel volume sfilano, in rigoroso bianco e nero, alcuni dei protagonisti di quello che genericamente definiremmo “emocore”, folto contingente che abbraccia lo spettro del rock chitarristico da ciò che un tempo era il college rock a più vandaliche escursioni nel metal e nel rumore. Sono immagini che si commentano da sole e restituiscono un fenomeno che ha positivamente “corrotto” la gioventù statunitense, riportando in auge l’autoproduzione e l’autogestione, amplificandole con un impegno socio-politico legato a una mai doma spiritualità. Scorrono, tra le tante, 100 / Rearview Mirror immagini di un giovane Eric Richter dei Christie Front Drive mentre digrigna i denti e degli sfuggenti Clikatat Ikatowi. Da qui passa buona parte del racconto: se la “Summer Of Love” washingtoniana dell’86 aveva rappresentato la stagione della semina, servì un decennio scarso perché l’universo indie americano si scoprisse abitato da gruppi che trafficavano con l’aggettivo heartfelt. Spesso ci siamo interrogati sulle origini di questo suono, ma la strada appare nitida osservando le numerose micro scene localizzate in California, quell’iceberg con punte gemelle nelle label Gravity ed Ebullition dal quale promana una comune fascino per la new wave soprattutto britannica. Influenze dichiarate scopertamente dai diretti interessati, peraltro, giacché bastava scorrere i “poll” di fine anno della fanzine “Heartattack” (redatta da Kent McClard, deus exmachina dell’Ebullition) per leggere - tra i gruppi migliori di tutti i tempi - i nomi di Joy Division e Smiths. Fatto che non sorprende, piuttosto evidenza la radice di un afflato emozionale dal quale originano anche gli accenti più marcatamente antagonistici. Radici sedate eppure assai nobili stanno anche alla base di una vena astrattamente romantica che spesso si affaccia nei testi di Native Nod, Current (Complete Discography; Council Records, 7,2/10) e Indian Summer. Nulla di più svagato se riferito alla vena “nuda e cruda” della scuola newyorchese, ma altri sono filosofia e segreto: congelare le emozioni per lasciarle esplodere in fragorosi crescendo; un tentativo riuscito di mappare sonicamente l’intimità con tutte le sue contraddizioni e i suoi saliscendi. Ne fa fede l’attitudine che farà grandi i Native Nod di Chris Leo, successivamente agli onori della cronaca coi pensierosi Van Pelt. La formazione - giunta dalla costa orientale al banchetto “made in New Jersey” della Gern Blandsten - registrerà una manciata di 7” e un lp (Today Puberty, Tomorrow The World; Gern Blandsten, 1996; 7,4/10) offrendo un manifesto in Back To Mim- swing kids sey, memorabile danza adolescenziale all’ombra di louisvilliane raffinatezze. Proprio da là, dall’inconsapevole cittadina in cui il rock incontrava nemesi e successiva rinascita, si dipana un’asse che guida nuovamente a Washington, D.C. chiudendo un cerchio. Nel triennio ’93-’96 si consuma la transumanza dall’emotività tipica della prima Dischord alle destabilizzazioni del formato canzone. Ne sono fautori i Crownhate Ruin (Until The Eagle Grins (Dischord, 1994; 7,3/10) di Fred Erskine, Joseph McRedmond e Vin Novara, che piegavano agilmente post, indie e hardcore dentro distensioni atmosferiche, ma soprattutto il progetto parallelo portato avanti da Erskine e McRedmond tra 1992 e 1994: ovvero quegli Hoover che nel superbo The Lurid Traversal Of Route 7 (Dischord, 1994; 7,8/10) influenzarono addirittura i Fugazi di In On The Kill Taker. Da riscoprire per l’autorevolezza di tessiture che sposano la potenza sbieca di Drive Like Jehu alle traslucide pensosità degli Slint. Solo una felice e logica conclusione, allora, che Erskine sia poi entrato nei fondamentali June Of 44. Musica di brusche risalite, questa, come lo era quella ordita dai Native Nod, che rischiavano imberbi di avvicinarsi allo stridere di trombe e ugole architettato da Nation Of Ulysses e ripreso dai Cap’n Jazz, alias dei fratelli Kinsella pre Joan Of Arc (Analphabetapolothology, discografia completa; Jade Tree, 1998; 7,2/10). Non accadrà: progressivamente si approprieranno di una ipnosi che raccoglie il fervore armonico e la penna del post-punk, anteponendo all’immediatezza l’intarsio. Ancora più paradigmatica la parabola del culto Moss Icon (Lyburnum Wit’s End Liberation Fly; Vermiform, 1994; 7,5/10): provenienti dal Maryland e condizionati dal caos emotivo della capitale, matureranno una dimensione vicina alle eteree propaggini di certo post-rock. Nascono nel 1986 e la loro è una fuga temporale per post-adolescenti ancora alla high school apparentemente come tante; dopo il 12” It Disappears (lo trovate nella versione cd di Lyburnum…) affrontano le registrazioni dell’album, vero e proprio travaglio che non uscirà fino al 1994. Il suono è sorprendente, dilatato e orizzontale, fiorente di declamate liriche sottili - ne faranno tesoro i Van Pelt - che espande la grammatica del genere. Farina del sacco di Tonie Joy, vera mente del gruppo, sincero e competente appassionato di musica che presterà servizio come bassista nei Born Against e proporrà opere preziose con Universal Order Of Armageddon (s/t, discografia completa; Kill Rock Stars, 1996; 7,0/10). Band accasatasi presso la Kill Rock Stars, il cui capoccia Slim Moon mai ha celato la propria “ascendenza” e che, guarda caso, salderà il conto ristampando l’intera discografia dei Born Against stessi. Diramazioni pressoché inesauribili, avrete inteso, testimoni di un’influenza permeata ovunque e perciò non sempre facile a distinguere. Un poliedro che specchia il post rock e le trasfigurazioni indie degli Unwound, firmatari del numero uno Rearview Mirror / 101 su Troubleman Unlimited (s/t; Troubleman Unlimited, 1993; 7,4/10). Casa discografica che, dal decentrato New Jersey, anticiperà molti “luoghi” dell’underground contemporaneo, nella quale transiteranno ad esempio Black Dice, Wolf Eyes e Young People e che accoglie gli enigmatici Hal Al Shedad (Textures Of Tomorrow; Troubleman Unlimited, 1998; 7,3/10). Picco da riscoprire di un catalogo policromo, al pari di un vinile condiviso tra Karp e Rye Coalition (s/t; Troubleman Unlimited; 7,3/10), dove al bellicoso incedere melvisiano dei primi risponde il passo trafitto dal melodramma dei secondi, ipotetica congiunzione tra Nation Of Ulysses e Rodan. All’interno di un quadro folto e intersecato fino allo stordimento, ricordiamo che i Rye Coalition sorsero dalle ceneri di una delle più divinatorie esperienze dell’East Coast, i sofferti Merel (s/t; Gern Blandsten, 1995; 7,4/10). Linguaggio adeguatamente spiritato e persuasivo, non dissimile alle pagine più raccolte della casa d’eccezione Ebullition. Situata a Goleta, dove il “padrino” McClard organizzava un seguitissimo festival, la label è (stata) tra le più attive del circuito grazie alla robustissima filosofia DIY e allo spiccato carisma, coi quali ha trasceso le angustie autoreferenziali di una scena talvolta affossata da esagerazioni autocelebrative. Anarchico convinto abile a predicare ma soprattutto razzolare, Kent ha funto da eminente spauracchio e taste maker, suscitando l’ammirazione di numerosi estimatori e le ire di altrettanti detrattori. Al di là di faide e chiacchiere, nessun dubbio sussiste sul ruolo fondamentale giocato dalla sua label nel delineare alcune caratteristiche sonore e “ideologiche” dell’emocore. Erette anche sullo scontro politico attraverso “Heartattack”, che della label è tuttora agenda e portavoce, le sue provocazioni non sono mai state gratuite, semmai conseguenze coerenti di una concezione quotidiana dell’attivismo (eh, Hüsker Dü…) e della riflessione sui rapporti umani. Laddove non sconfina nel gratuito, dal punto di vista sonoro Ebullition offre esempi tra i più 102 / Rearview Mirror azzeccati del lato più ruvido dell’emocore: chiodi e vetri strusciati sulla pelle per sentirsi più vivi, i ciclonici Portraits Of Past (s/t; discografia completa; Ebullition, 2008; 7,4/10) e i militanti Econochrist (Discography, Ebullition, 2000; 7,2/10); i meditativi Amber Inn (All Roads Lead Home; Ebullition 1999; 7,5/10) e Iconoclast (s/t; discografia completa; Ebullition, 2000; 7,4/10); realtà misconosciute come Policy Of 3 (Anthology; Ebullition, 2004; 7,0/10) o romantiche tipo gli Still Life (From Angry Heads To Skyward Eyes; Ebullition, 1997; 7,4/10) sprigionavano materia densa adatta a riflessioni ed esaltazioni. Straziante quanto straziato e genuinamente punk nell’anima, il sound fondeva noise e metallo a toccanti pause introspettive. Di tale abrasivo diletto, le summenzionate formazioni rappresentano l’apice assoluto prima che gli epigoni Locust (a capo l’arbiter elegantiarum, ambiguo “uomo-scena” nonché ex Swing Kids Justin Pearson), Orchid e Crimson Curse volgarizzino la miscela in pose e ipercinesi violence, null’altro che pantomime prive dell’originaria sfida sociopolitica. Più sensato, tra il rarefarsi delle uscite discografiche e il naturale mutare in clichè, rifugiarsi nella “all star band” Yaphet Kotto (tre lp all’attivo, il più significativo The Killer Was In The Government Blanket, Ebullition 1999; 7,4/10) o nello sguardo al passato di Bread And Circuits (s/t, Ebullition, 2000; 6,8/10); altrimenti commemorare i Mohinder (Everything, discografia completa; GSL, 2001; 6,8/10), brevemente attivi nell’epoca d’oro e seconde schiere delle più apprezzabili. Accanto a Goleta, l’altro eccellente polo californiano era localizzato a San Diego, d’influenza al pari importante ma lontanissimo per espressività, incanalata in uno sfaccettato “art post hardcore”. Spetta al marchio di garanzia Gravity documentarne le gesta, benché uno dei gruppi colà migliori - i Julia - incidesse per Bloodlink (s/t; 1998; 7,3/10). Il trittico che incarnava il fiore all’occhiello era composto da Angel Hair, An- tioch Arrow e Clikatat Ikatowi, formazioni cruciali tanto quanto i catastrofici Heroin (s/t, discografia completa; Gravity, 1997; 7,7/10) per come ripescarono, in epoche non sospette, stilemi new wave poi propagatisi ovunque. Gli Angel Hair (Pregnant With The Senir Class, discografia completa; Gravity, 1998; 7,8/10) di Sonny Kay - in passato intestatario del marchio Gold Standard Laboratories, ora illustratore per Mars Volta - erano spiritati e caotici, dall’ordito chitarristico secondo solo al capitale e ingegnoso math & roll dei concittadini Drive Like Jehu (Yank Crime; Interscope, 1994; 8,0/10). Del resto, da una band capace di maltrattare Stigmata Martyr dei Bauhaus non ci si poteva che aspettare grandezza, che toccherà al sequel VSS portare avanti; una cover che fa il paio con la Warsaw eseguita da Swing Kids (Discography; 31G, 1999; 7,4/10), altro nome per pochi tuttavia rilevante non solo per gli sviluppi successivi cui si accenna poco sopra. Discorso che vale anche per Antioch Arrow che, abbandonata la Gravity e gettati i semi dell power violence, si inventeranno un’immagine glamour e un superbo lp tra glitter ’70 e teatro no-wave come Gems Of Masochism (Amalgamated, 1995; 7,8/10), prima di perdersi in mille rivoli di cui vale la pena citare almeno i Get Hustle del batterista extraordinaire Ron Avila. Come era Mario Rubalcaba, ex talentuoso skater sedutosi a mulinare tamburi e piatti per Clikatat Ikatowi (Orchestrated And Conducted; Gravity, 1996; 7,8/10), appuntito oggetto di venerazione tra i più enigmatici e fascinosi di tutto il post-punk statunitense. Ragionevole perciò che Rubalcaba - dopo un intervallo speso con Black Heart Procession - vesta oggi dignitosi panni hard rock e gli altri siano dispersi dopo stimolanti esperienze filo-jazz. Destino analogo per Seth Nanaa, attualmente batterista free jazz a New York e un tempo parte integrante di Indian Summer (Science, discografia completa; autoprodotto, ; 7,3/10) da Oakland, California. Il loro stile, continuamente caratterizzato da memorabili armonie, rimarrà a lungo efficace termine di paragone negli anfratti più remoti della scena di riferimento. La nostra indagine potrebbe tranquillamente proseguire e perdersi dentro infinite altre traiettorie fino a sconfinare nel maniacale. Meglio allora fermarci a un passo dal sovraccarico sensoriale e rimarcare, un’ennesima volta, quanto quei dischi amorevolmente curati, quei sassi gettati contro l’indifferenza, quel sincero tormento esistenziale fossero teatro di uno snodo importante del suono anni Novanta. Di quelli in grado di proiettarsi oltre e durare nel tempo, a dispetto tanto dell’aberrante mainstream che delle parrocchie underground. Ecco perché, a quasi due decenni di distanza, ancora suonano fresche, coinvolgenti, sincere. Erano e rimangono affari del cuore, e il segreto è, in fin dei conti, ben conservato lì. Rearview Mirror / 103 Ristampe Birdsongs Of The Mesozoic - Dawn Of The Cycads: The Complete Ace Of Hearts Recordings (1983-1987) Cuneiform Preziosa e curatissima ristampa in doppio cd dei primi passi mossi dall’entità Birdsongs Of The Mesozoic, all’epoca ancora progetto laterale di un paio di Mission Of Burma, Roger Miller e Martin Swope. awn Of The Cycads compila le uscite targate Ace Of Hearts, in rigoroso ordine filologico: l’omonimo ep dell’83, Magnetic Field del 1984 e Beat Of The Mesozoic dell’86, con l’immancabile aggiunta di bonus e perle sparse. In questo caso non sono le prime a farsi notare (Pulse Piece, The Common Sparrow e POP Triassic provengono dalle stesse session di Magnetic Field), quanto l’intero set del Live From Nightstage del maggio dell’87 che ci mostra il quartetto (forse) all’apice dell’espressione artistica. Considerando le 20 pagine del booklet in cui ognuno dei quattro BOTM – Roger Miller, Erik Lindgren, Rick Scott e Martin Swope – ricorda le circostanze della nascita del gruppo e un intero archivio contenuto nel secondo disco e completo di poster, foto, lyrics, partiture, scansioni di set live e stravaganze 104 / Rearview Mirror varie, ecco che la musica contenuta in Dawn Of The Cycads potrebbe correre il rischio di passare in secondo piano. E invece non è così. Fermo restando la notevole distanza temporale dalle registrazioni e anche l’attestarsi della band su lidi più propriamente prog – non un declino, ma quasi – c’è da dire che l’art-rock strumentale, vagamente classicheggiante, imparentato col prog meno borioso e pomposo non mostra la corda, anzi si fa apprezzare ancor di più. Un ottimo ripescaggio, non esclusivamente per fan. (7.0/10) Stefano Pifferi Eluvium - Life Through Bombardment (Temporary Residence) Esercizi di memoria o rimpianto nell’annunciato box Life Through Bombardment per il compositore Matthew Cooper e l’etichetta Temporary Residence.Un’uscita limitata alle 1000 copie che racchiude in 7LP tutta la formula Eluvium, inediti dal prezioso formato e contornate squisitezze da collezionismo tra pieghevoli, finezze di stampa, autografi d’artisti e note di copertina. L’operazione a dir poco imponente a tratti potrebbe sembrare limitata o indirizzata solamente ai fan più incalliti, ma non è questo il caso.Acquista bellezza Life Through Bombardment nell’interezza di lettura che rasenta l’opera tra ritrovate naturalezze in stesura e corollari dal biografico stile.Le coordinate rimangono tali, riconducibili ai mutati percorsi dell’artista, dai crescendo elettroacustici (The Unfinished) passando per le armoniche in chitarra (Under The Water It Glowed), le esplorazioni in drones dalla scrittura ambient (Zerthis Was A Shivering Human Image) o le puntuali introspettive in piano (Genius And The Thieves) che diventano centralità (Perfect Neglect In A Field Of Statues) tra classica ed impeccabile tecnica (The WellMeaning Professor). Ci sono poi le modularità, le sovrapposizioni in pulviscoli elettroacustici (New Animals From The Air) i tappeti e le dilatazioni di fondo (Area 41), le volute prime fila di chitarra (Taken),le tonalità ibridate (One) o inguaribilmente malinconiche (Swallows In The Bath).Si racconta Life Through Bombardment dagli acustici amori giovanili di Lambert Material (2003)che muovono i primi passi attraverso l’elettronica per poi acquistare continuità timbrica e di sfumatura in Talk Amongst The Trees (2005), consacrate alla lunga distanza Behind Your Trouble (2005) e maturate nelle variabili vesti di Copia (2007). Prendendo distanza dalla freddezza della raccolta e concentrandosi su quella vera e propria arte a cui molti cercano di avvicinarsi ma a cui pochi sanno avvalersi con profonda cultura ed ispirata eleganza tra realtà e sogni.C’è chi li rinchiude in un cassetto e chi li adopera tra inediti in cofanetto, qualunque scelta si faccia, basta ricordarsi ogni tanto di rispolverarli e riscoprirli con cura! (7.0/10) accluso nel 40th Anniversary Box che la ReR sta per mettere in commercio allo scopo di festeggiare i quattro decenni dall’atto di fondazione degli Henry Cow. Nati a Cambridge nel 1969 - ed autori di una serie di capolavori quali Leg End(Virgin, 1973), Unrest (1974), Desperate Straights (1975, con gli Slapp Happy) e In Praise Of Learning(1975) - gli Henry Cow qui testimoniati stazionano dalle parti dell’ultimo studio album citato, quello del 1975, dibattendosi fra improvvisazione libera pura (Stockholm 1) e istrionismi zappiani esercitati con piglio liederistico da Dagmar Krause (Erk Gah). Nella line up dei due concerti (strepitosi!) nel cd contenuti - il primo suonato a Stoccolma il 9 Maggio 1977 ed il secondo a Göteborg il 28 Maggio 1975, entrambi poi trasmessi dalla radio svedese Tonkraft - figura il redivivo Lindsay Cooper, senza il quale la band diede vita a In Praise Of Learning ed appena tornato in formazione con l’Aprile del 1975. Stockholm & Göteborg, per quanto mi riguarda, non vale meno del grande doppio Concerts (Compendium, 1976), registrato in parte ad Udine. Georgie Born, Lindsay Cooper, Chris Cutler, Fred Frith, John Greaves, Tim Hodgkinson e Dagmar Krause danno qui il meglio di sé, fra una cover jazzata di Ochs (No More Songs) e set freeimpro irresistibili (Göteborg 1 e Stockholm 2). Un disco da avere assolutamente! (8.0/10) Massimo Padalino Sara Bracco Henry Cow - Stockholm & Göteborg (ReR Megacorp) Tempo di celebrazioni per la band pilota del Rock In Opposition anglosassone nei 70’s. Stockholm & Göteborg, bene precisarlo da subito, verrà anche Lafayette Afro-Rock Band - Darkest Light: The Best Of (Strut Records) Maledetta Strut: non fai nemmeno in tempo ad archiviare le raccolte pubblicate l’anno scorso che già, bellicosa più che mai dopo la rinascita, la label capitanata da Quinton Scott apre il 2009 calanRearview Mirror / 105 do un asso niente male. Splendidamente suonante grazie a un remastering coi fiocchi, questo stipatissimo cd mette in fila quindici irresistibili gemme di una formazione misconosciuta del “seventies funk” e dalla storia piuttosto curiosa: formatisi a Long Island come Bobby Boyd Congress, nel 1971 si trasferivano armi e bagagli in Francia a causa dell’eccesso di concorrenza. Perso per strada Boyd, i membri restanti si ribattezzavano Ice- un terzo di scaletta è dedicato a loro: il sound è lievemente più “easy” e spaziale: piacerà ai fan degli Air - per divenire la house band dello studio Parisound di Pierre Jaubert. Diventati di casa nel quartiere parigino di Barbesse grazie a infuocate esibizioni e alla forte presenza di immigrati africani, fecero sì che le influenze del continente nero (evidenti soprattutto nelle trame percussive) s’infiltrassero via via dentro al loro ipnotico e sensuale funk intessuto di grasse tastiere, fiati rutilanti e voci in costante “call & response” che qui ci si premura di riassumere. Allorché decisero di debuttare su lp nel ’73, già erano divenuti Lafayette Afro Rock Band, ragione sociale mantenuta per ulteriori due ottimi album (Soul Makossa e Malik); dopo un altro vinile come Ice fecero ritorno in madrepatria e si sciolsero nel ’78. Ora: se chiedete a Public Enemy, Jay-Z e De La Soul cosa ne pensano, vi risponderanno che il fatto di averli campionati più volte è omaggio che parla da sé e sottoscriviamo in pieno. Stessa cosa per quanto concerne gli appassionati di quello che oltremanica passa sotto il nome di “hard groove”. Per tutti costoro, e per chi verso la black nutra qualcosa più di un interesse superficiale, Lafayette Afro Rock Band rappresenta un’autentica manna in caduta libera dal cielo. (7.6/10) Giancarlo Turra 106 / Rearview Mirror Lloyd Cole - Cleaning Out the Ashtrays - Collected B-Sides and Rarities 1989-2006 (Tapete Records) Il 1984 inglese viene ricordato anche per l’esplosione di un album, Rattlesnakes, a nome Lloyd Cole and the Commotions, in cui si coniugavano songwriting classico USA alla Leonard Cohen/ Lou Reed/ Bob Dylan con attitudine new wave e un senso tutto british dell’introspezione, anche letteraria, in una versione ancor più dolente, se è possibile, del pop Smiths-iano che seguirà. La parabola di Cole, uno dei talenti meno emersi dalla sua epoca, poi è stata molto breve: il tempo per altri due non memorabili dischi (fino al 1987) e il successivo scioglimento del gruppo, che in realtà già da tempo cominciava a stare stretto all’ eclettico ed irrequieto cantautore, innamorato dell’America e di New York. E infatti lì si trasferirà da fine ’80 in poi, fino a tutt’oggi. Comincerà quindi una carriera solista altalenante per resa, che mostra comunque interessi ad ampio raggio, forse mai ben focalizzati e finalizzati fino in fondo, ma raramente banali. Un musicista che avrebbe certamente meritato maggiore considerazione e fortuna.Così tra rock, pop, soul, orchestrazioni, songwriting urbano e poetico, si assiste a una parabola più che trentennale, che viene attraversata in minore - questa la scelta tematica - con b-sides, demo, live, inediti e cover, testimoni quest’ultime dell’essere “fan” e “omaggiatore” ad ampio spettro. I nomi coverizzati sono svariati, dagli amati Marc Bolan, Cohen, Dylan, Reed, Television, fino a Tim Hardin, Arthur Lee, Burt Bacharach & Hal David e Nick Cave.Il percorso della raccolta è cronologico, fin dagli anni iniziali nella Grande Mela, dove comincia a collaborare con Robert Quine e Fred Maher nei primi album, fra i quali spiccano Don’t Get Weird On Me, Baby (1993), quest’ultimo anche con Paul Buckmaster, e Love Story (1995) due degli highlight del percorso artistico, dove songwriting, accenni di folk e tanto pop orchestrale si incontrano, a raggiungere ed eguagliare, in una versione più “adulta” il Rattlesnakes degli esordi. Seguono successive collaborazioni con Stephen Street, riavvicinamenti ai Commotions, vendite non esaltanti, fino al ritorno alla forma nel 2003 con Music In A Foreign Language uscito su Sanctuary.Non tutto è focalizzato in questa messe di brani, molti sono perlopiù bozzetti appena accennati. Altrove si assiste al recupero di non trascurabili b-side e materiale sparso, a dimostrazione del fatto che quando era centrato e ben prodotto, il Nostro si esprimeva al meglio. Una tensione emotiva e lirica mai spenta, nutrita di suggestioni tematiche e letterarie forti, insieme ad una buona capacità di scrivere canzoni accorate ma mai retoriche, agrodolci ed autoironiche insieme, con autoriflessioni sul proprio essere uomo del nostro tempo: tutte caratteristiche che fanno di Lloyd Cole un testimone, sia pur rimasto in disparte, della nostra tormentata contemporaneità. (7.4/10) Teresa Greco Red Red Meat - Bunny Gets Paid (Sub Pop) Il punto focale attorno al quale da sempre ruota la carriera di Tim Rutili è il blues. Da intendersi innanzitutto come categoria dello spirito e, di conseguenza, faro della sua indagine sonora. Mai un passo falso in vent’anni o poco meno, giusto gli inizi incerti nel panorama indie americano con i discreti Friends Of Betty, e da lì in poi solo oro. Dai carati variabili, va da sé, come del resto tocca a chiunque perfezioni la propria Arte nello scorrere degli anni; chi - ed è gente sempre più rara - lavora di bulino e cesello allo scopo di dar voce all’animo e ai suoi moti. All’interno di un percorso tuttora in movimento con i Califone, Bunny Gets Paid era per Red Red Meat un passo - come dire… - meravigliosamente intermedio: seguiva l’omonimo esordio promettente e ruvido e un secondo passo sofferto ma assai più focalizzato come Jimmywine Majestic, a mezza via tra gli Stones straccioni dei primi ’70 e una Magic Band acquietata. Delle intuizioni sfoggiate in ambedue rappresentava apogeo colmo di passi narcolettici e stupefatti così tipicamente anni Novanta, però irrobustiti dalla profonda conoscenza critica dei fondamentali tecnici ed espressivi. Incanto e malinconia rendevano già allora indimenticabili il post rock venato soul Chain Chain Chain, le dodici battute strapazzate da Taxidermy Blues In Riverse, lo stile che inizia a farsi riconoscibile marchio di fabbrica in Sad Cadillac. Giri la moneta e trovi il contrappunto dolente sotto forma di struggenti ballate corali (There’s Always Tomorrow) o estasi da bassifondi (non è un ossimoro: ascoltare per credere Oxtail, Buttered.) Bellezza da masticare avidamente, perché poi arriverà lo sconvolgente kraut-blues di There Is A Star Above The Manger Tonight e nulla sarà lo stesso anche per la band. Che andrà in frantumi sotto il peso di un tale capolavoro, del quale qui si gettano ben più che le mere basi. Lo sapevano benissimo i diretti interessati allora e lo conferma oggi la Sub Pop, tornando sulla scena del crimine con una doppia ristampa “deluxe” che, nel secondo cd contente materiale poco o affatto noto, mostra un po’ di futuro dub e offre a mo’ di sottolineatura un pugno di demo, inediti e versioni alternative. Soprattutto, consegna finalmente i Red Red Meat nel novero dei classici di ogni epoca. (7.8/10) Giancarlo Turra Rearview Mirror / 107 (GI)Ant Steps #25 classic album rev Frank Zappa Alan Parsons Project Hot Rats (Bizarre, 1969) Tales Of Mystery And Imagination (charisma, 1976) Hot Rats è il lascito zappiano forse più conosciuto e apprezzato dai rockofili. Non senza qualche fraintendimento. Ma è soprattutto un disco importante, pionieristico. Un classico rock. Jazz-rock. Forse, jazz. Se questa rubrica vuole suggerire possibili approcci jazz per chi di solito mastica rock, Hot Rats pare, per paradosso, quasi doveroso. Oggi – acqua sotto i ponti ne è passata ed anche il post-moderno è roba vecchia – potrebbe anzi essere considerato un classico del genere: tra le prime, ancora ruvide, miscele jazz-rock, abbrivio imperfetto di quella che poi sarà la fusion. Dalle parti, ma le differenze sono abissali, di Bitches Brew. HR non è il disco di Zappa come spesso si sente dire: è semplicemente un suo disco molto bello. E importante. Da’ il via alla sua carriera post-Mothers, ne sdogana le qualità di chitarrista, HR disco jazz di Zappa. Con tutte le ambiguità del caso. Lui che non amava particolarmente questo linguaggio che pure ha praticato (si pensi a King Kong, che lo accompagnerà da Lumpy Gravy fino all’ultima tournée), e dalle cui fila ha tratto la meglio crema dei suoi (tre nomi: George Duke, Jean-Luc Ponty, Vinnie Colaiuta). Amava certa roba free & dintorni, e figure di culto come Don Ellis, esperienze ritagliate ad hoc per nutrire gli sperimentalismi free(k) dei Mothers. Ma di tutto questo in HR c’è poca traccia. Jazz qui in un’accezione più morbida, sfumata, paradossalmente, meno zappiana. Vediamo. Registrato su un 16 piste artigianale, vero tripudio di sovrincisioni, HR è un lussureggiante intrecciarsi di chitarre, tastiere e fiati, con Ian Underwood, già Mothers, a farla da padrone. L’effetto finale è vividissimo: timbriche, densità e dinamiche a metà tra cariche orchestrali, coloriture bandistiche Nel 1976, il ventottenne Alan Parsons, prima didecidere di farsi avanti come autore, era già un’istituzione nel campo dellapopular music. Negli anni in cui la figura del produttore comincia ad imporreall’attenzione del pubblico il suo ruolo decisivo e determinante non soloriguardo all’aspetto tecnico, ma anche creativo, dei prodotti discografici,Parsons ha già un bagaglio di esperienze invidiabile. Trovato il suo alter ego creativo in Eric Woolfson,musicista dilettante, ma con qualche esperienza come compositore legata aglianni del beat, il gioco è fatto: nasce la prima band di non musicisti dellastoria del rock: The Alan Parsons Project, un collettivo di musicisti scelti inbase alle composizioni e con un’orchestra sempre presente, diretta da AndrewPowell. L’idea di esordire con un concept album basato suiracconti di Edgar Allan Poe deve aver spaventato un po’ la critica e creatoaspettative che hanno condizionato l’accoglienza dell’album, a dire la veritàun po’ freddina. Con il senno di poi, che permette di analizzare le opere inrelazione al percorso successivo (e talvolta completo) degli artisti, ci mostrainvece un lavoro premonitore, anticipatore di quelle soluzioni musicali cheavrebbero fatto la fortuna del Parsons musicista nel decennio successivo. Deveessersene accorto anche lo stesso autore, altrimenti non si spiegherebbe ilmotivo del ritorno in studio, undici anni più tardi, per remixare tutto l’albumed aggiungere la voce recitante di Orson Welles, curiosamente esclusa dalla primaedizione. Un evidente gesto di considerazione verso un album che, guardatodall’alto sta esattamente tra i pesanti arrangiamenti orchestrali di Atom EarthMother dei Pink Floyd e la svolta synth pop. Seppure i moog e i sintetizzatori sono lontani dal ruolo predominanteche avranno negli anni a venire, lo stile è già orientato verso la direzionefutura. Nell’arpeggio di chitarra dell’iniziale A Dream Within A Dream ci sonogià, in embrione, le atmosfe- 108 / Rearview Mirror e combo jazz. Ospiti di lusso: Beefheart, nell’unica canzone, e i violini di Sugar-Cane Harris e Ponty. Lowell George, anche lui già Mothers, poi anima dei Little Feat, alla ritmica (ma non è accreditato) e vari turnisti jazz a spartirsi basso e batteria. Peaches En Regalia è uno dei classici zappiani, capolavoro di ironia musicale tutto da fischiettare, dai mandolinismi iniziali alla giocosa ripresa del tema nel finale. Willie The Pimp, blues-rock secco, riff semplice e ficcante, vede il cameo del Capitano, che le appiccica addosso il suo marchio catarroso e sbraitante. Son Of Mr. Green Genes, arzigogolo del Mr. Green Genes già su Uncle Meat, scopre sorprendenti affinità con Peaches e presenta uno dei soli di chitarra più generosi e avvincenti di tutta la discografia zappiana. Little Umbrellas (il cui ciondolante gioco contrabbasso-piano-batteria sarà campionato dai dEUS per First Draft), in un una parola, e scusate il bisticcio, umbratile, è un pezzo praticamente lounge, ma dall’incedere sottilmente sinistro. The Gumbo Variations, lunga jam, è lo showcase delle contorsioni al sax di Underwood. Inquietudine sottile che riprende e sviluppa il clima di Umbrellas, ma con un tocco (auto)ironico feroce e deformante, come sempre nel miglior Zappa, It Must Be A Camel è la perla segreta del disco, capace di aprire squarci sui modi sempre più ricercati che caratterizzeranno la sua produzione settantina. Il discorso di HR continua tra i solchi di Waka/Jawaka (meno riuscito) e di The Grand Wazoo (elegante progetto big band). PS: HR è il disco preferito di Matt Groening. Gabriele Marino re di Sirius, così come nella voce filtrata dalvocoder di The Raven (a quanto sidice la prima canzone pop-rock ad utilizzare questo effetto, ancora tanto invoga oggi) si intravvedono già le sperimentazioni “robotiche” di Pyramid e IRobot. La prima parte dell’album è tutta incentrata su unpop-rock tanto leggero ed essenziale nella struttura quanto pesante e barocconegli arrangiamenti, in cui l’orchestra si mescola a strumenti elettronici edelettroacustici, sfociando, in alcuni casi, in interessanti contrappunticlassicheggianti (A Cask Of Amontillado), altre volte in più semplici episodiblues rock (The Tall Tale Heart e ilsingolo (The System Of) Doctor Tarr AndProfessor Fether). Completamente diversa la seconda parte del disco: The Fall Of The House Of Usher pesa, nelcontesto dell’album, almeno quanto tutti gli altri pezzi messi insieme e nonsolo per i suoi 15 minuti di durata. Qui le singole parti della suite, formatanto in voga nel progressive in quanto riferimento alle strutture ampie dellamusica “classica”, sono utilizzate in una logica di sviluppo progressivo dellatensione attraverso la trasformazione continua dell’organico strumentale. Ilpreludio è affidato all’orchestra, che rielabora alcuni estratti dell’ omonimaopera di Debussy basata sul racconto di Poe. La tensione aumenta quando iltemporale (II. Arrival) accompagna l’arrivo dell’ospite nella macabra casa el’ingresso di batteria, basso, chitarre e tastiere, che si proiettano in unprog decisamente floydiano.Dopo questo crescendo di emozioni intense espaventose, To One In Paradise segna una dolce distensione, forseeccessivamente stucchevole nell’orchestrazione, ma dolce e incantevole come la fine di un incubo. (7.8/10) Daniele Follero Rearview Mirror / 109 Guerre Stellari (Star Wars) (di George Lucas - Usa, 1977) Leggendo la marea di cose che sono state scritte su Guerre stellari a partire dall’anno di uscita mi tremano un po’ i polsi a pensare di poter dire ancora qualcosa a riguardo. Quindi prima di tutto metterò le mani avanti scusandomi con l’intera tribù di cultori, appassionati e critici che hanno amato e vivisezionato l’opera a dovere fino a rendere superfluo qualsiasi altro commento. Secondariamente vi dirò subito che cercherò di riflettere sul film da un punto di vista preciso e ben ristretto nel tempo, il 1977 appunto, senza considerare il fenomeno che si è scatenato dal film stesso, ovvero i vari sequel e prequel, giochi di ruolo, catena di store dedicati interamente alla saga e gadget multimediali annessi e connessi. Mi limiterò solo a dire che quando oggi pensiamo che simili operazioni di marketing siano aiutate dal digitale e dalle convergenze finanziarie delle industrie culturali diciamo di certo una cosa verissima, ma dovremmo ricordare che già nel 1977 la strategia aziendale funzionava a pieno regime in questa precisa direzione. 110 / Cult Cinema Dopo L’uomo che fuggì dal futuro, suo primo film, prodotto da Coppola, Lucas realizzò American Graffiti che fu un grande successo e gli permise di fare quello che voleva per il progetto di Star Wars. Con la produzione di Gary Kurtz e la distribuzione 20th Fox, Lucas mise insieme un cast tecnico eccezionale sotto la guida di John Dykstra della neonata Industrial Light & Magic. L’obiettivo era quello di realizzare una specie di fumetto animato, carico di effetti speciali e innovazioni tecnologiche. L’impeto originale veniva da un comic strip che Lucas aveva molto letto e amato nella sua infanzia, ovvero Flash Gordon di Alex Raymond. Già prima di American Graffiti Lucas cercò di acquistarne i diritti ma il prezzo era troppo alto così dal 1973 al 1976 cominciò a scrivere un soggetto originale ispirato alla tradizione delle avventure nello spazio (sottogenere della SF chiamato space opera) alla maniera del romanzo seriale John Carter of Mars di Edgar Rice Burroughs a cui lo stesso Raymond si era ispirato. La storia che ne esce è molto simile a quelle tipiche dei comics della Marvel chiamati “sword and sorcery” (spada e magia nera), oltre che alla SF più avventurosa e naif, quando ancora problematiche scientifiche o tecnologiche, bomba H soprattutto, non avevano fatto la loro apparizione. È inutile anche solo l’accenno alla storia che ormai chiunque, anche se alla lontana, conosce: ribellioni e guerre interplanetarie, pirati spaziali e mostruose strutture social-politiche, armi medievali e tecnologie sofisticate nel tipico modello in cui la forma del futuro è fornita da un passato apocalittico. In sostanza grande divertimento e non troppo coinvolgimento intellettuale o psicologico; Guerre stellari non contiene nessuna paranoia, angoscia e monito ma solo ottimismo e visione fiduciosa di futuro e tecnologie, non c’è nessuna metafisica (2001 di Kubrick) ma solo avventura in un tempo/spazio fantastici presentati come se fossero reali, ordinari. Ebbene la risposta del pubblico tutti la conosciamo: gente che nel 1977 - tempi bui per il cinema, a livello di botteghino - faceva la coda dalle nove del mattino per assicurarsi l’entrata in sala… fino alle attuali tribù di cultori e stimatori. La risposta della critica, invece, fu meno entusiasta nelle delibere di approvazione (!) ma comunque predisposta a scrivere fiumi – letteralmente - di parole su questa kid’s stuff. È paradossale ma pare che, nonostante – o, forse, grazie a - il materiale superficiale, Guerre stellari abbia avuto un potere straordinariamente evocativo sulle menti dei moviegoers, innescando i seguenti riferimenti che cito, per amor di notizia e curiosità, per ciascun campo afferente. Fumetto: Buck Rogers, Jeff Hawke di Jordan (da cui è stata presa molto fedelmente la famosa scena del saloon spaziale di Mos Eisley), oltre a Flash Gordon fra i più diretti; cinema: Sentieri selvaggi (scena del ritrovamento dei cadaveri degli zii), Il trionfo della volontà (scena di Luke, Han e Chewba che camminano trionfanti alla fine del film modellata sulla marcia di Hitler, Himmler e Lutze verso il Monumento di Norimberga nel film di Leni Riefenstahl), Il mago di Oz (iconografia), un’infinità di film di aviazione sulla seconda guerra mondiale (tutte le scene della missione finale, peraltro ripetute, successivamente, da Top Gun), i film della tradizione di cappa e spada con Douglas Fairbanks e Errol Flynn (Luke e Leia si lanciano con una corda sospesa sull’abisso), i film giapponesi di samurai, Il pianeta proibito (tematiche varie); la letteratura di SF: Dune di Frank Herbert, Starship Troopers di Robert Heinlein, le suggestioni di Tolkien; senza contare i riferimenti agli eroi del passato dispersi nella cultura pop americana e non: Tarzan, Zorro… Numerosi critici hanno portato in questione, forse suggestionati anche dal riferimento alla Riefenstahl, persino parte del credo nazista (misto di eroismo e misticismo) e la teoria di Bergson sull’élan vital e quella di Jung sull’inconscio collettivo (nella frase di Kenobi sulla fondamentale unità della natura, il senso di connessione di tutte le cose) e persino Julius Evola è stato scomodato…e qui davvero mi fermo perché i riferimenti rischiano di rasentare il ridicolo. La cosa non ci dice nulla se non una paurosa tendenza dei critici ad usare proprie categorie concettuali per spiegare quello che hanno dimenticato essere ‘semplicemente’ un film, cioè una particolare forma espressiva che ha sue precise pratiche narrative e discorsive. I critici, ovviamente, dopo aver molto letto Baudrillard, storcevano il naso su questa “deliberata superficialità”, questo film “pavloviano”, questo prodotto della “forza tranquilla del capitale che tutto assorbe e ingloba” e si irrigidivano sempre di più vedendo il pubblico consenziente e si mettevano a gridare contro la connivenza dei media che pubblicizzavano questo tipo di prodotto, invece che un molto più impegnato ma meno piacevole (a loro parere) film di Godard come La Gaia Scienza. Come dare loro torto? Anche se ne discutessimo per ore non troveremmo un punto finale. Ma questo non contribuisce alla comprensione del film che è il nostro obiettivo. Per cui - se non per il gusto della curioCult Cinema / 111 sità - potremmo benissimo dimenticare la marea di cose scritte e cercare di ripensare con onestà a quello che è (stato) Star Wars come simbolo, in un certo senso, di quello che accadeva nel cinema hollywoodiano finita la fase più forte – è il 1977 – delle generazioni degli indipendenti e come prodromo di quello che sarebbe accaduto negli anni a venire. Ciò che ha sempre caratterizzato il cinema americano è la sua capacità di creazione di una mitologia mai totalmente portata a oggetto di sistema (se non dalla critica, chiaramente) e basata su di un fondo di sostanziale pragmatismo; sempre tradotta, cioè, in azione e mai in pensiero. Sebbene, eccezionalmente, possa essere temporaneamente interrotta, questa tendenza è rimasta inscritta nel suo DNA e Star Wars rappresenta uno dei film maggiormente esemplari in questo senso: velocità d’azione, molti effetti speciali, un pizzico di psicologia e molto divertimento. Dagli anni 80 in poi il cinema americano blockbuster ha ripetuto incessantemente questo modello. In fondo l’appartenere alla SF di Guerre stellari è un fatto non troppo accertato. È forse più un fantasy e, se si guarda bene, il genere fantasy è uno dei generi più frequentati nel cinema degli ultimi decenni. Prendiamo il problema della tecnologia per esempio. Nel film non c’è nessuna minaccia nelle macchine (la minaccia è il male) e il misticismo antitecnologico dell’ordine degli Jedi non cambia la natura sostanzialmente positiva della messa in scena di gadget tecnologici o di robot. Contrariamente a quello che direbbe McLuhan la tecnologia, nella tematica di questo film, dipende dall’uso che se ne fa, dipende dalla natura degli uomini che se ne servono. I robot sono dotati di sentimenti umani e, anche per quanto riguarda la tecnologia, tutto si riduce ad una semplicistica opposizione di bene e male, richiamo di vita e richiamo di morte. Concetti che provengono da una vaga componente di misticismo che era pre112 / Cult Cinema sente in quegli anni (si parlava molto del famoso manuale di Hérrigel, Lo zen e il tiro con l’arco, in cui si sposano la tecnica e la mistica) ma che non aggiungono nulla a questa concezione di base positiva, proposta senza imperativi ma con piacere e fiducia, come nel più tipico immaginario infantile. In un’intervista Lucas dice di aver utilizzato gli effetti speciali con tecnologie sofisticate al solo scopo di dare un senso di realtà all’immaginario fantastico (Robert Benayoun e Michel Ciment, in Positif, n.197, sett. 1977). I critici non hanno mai visto di buon occhio questo atteggiamento, considerato ipocrita, di utilizzare la tecnologia in senso antitecnologico come un attacco alla scienza moderna, intriso, appunto, di misticismo (stessa cosa per Wall-E). Ma si dimenticano che nella storia del cinema di SF - compresa l’ultima fase con l’introduzione della nuova tecnologia del digitale che ha segnato sia una sfida che una potenzialità per l’immagine fotografica su cui il cinema si fonda - sono sempre state maggioritarie le occasioni di recupero, di fronte al dilagare della tecnologica, dell’importanza dello spirituale, del sentimento, della corporeità (o della pellicola stessa rispetto al digitale) come un rassicurante porto dove ritornare a rintanarsi, un nido sicuro in prossimità dell’umano. Come una sorta di riequilibrio delle eccessive sollecitazioni sensoriali portate da tecnologie pervasive. Una delle maggiori ragioni di ingenuità venivano mosse a Star Wars riguardo alla collocazione della vicenda in un tempo/spazio dove tutto è accettato con un totale sentimento di famigliarità; Luke è un “abbonato dello straordinario”, niente lo potrebbe stupire. Ma come la storia di Ulisse, dei Cavalieri della Tavola Rotonda, o L’isola del tesoro, Star Wars ha una sua costruzione fantastica coerente: un mondo esotico che l’eroe esplora e in cui qualunque cosa straordinaria diventa famigliare. Senza scomodare Freud e il sogno si potrebbero contare una quantità infinita di riferimenti, anche aulici (vedi Omero), per questa tipologia narrativa. Certo, sono le convenzioni del genere SF a creare questo senso di famigliarità nello straordinario, ma è anche un riferimento al mondo del sogno (cioè il cinema). Allora, al di là delle polemiche sull’ingenuità, non si tratta solo di una regressione personale di Lucas verso le letture dell’infanzia ma è anche una regressione fatta dal cinema stesso verso i suoi albori, una specie di recupero dell’immaginario perduto dopo anni di contestazione, di rabbia, di rinnovamento (gli anni 60). Da lì in poi, infatti, arriveranno Incontri ravvicinati del terzo tipo, E.T., la saga di Indiana Jones, per citare i “maggiori”, che hanno occupato quasi interamente il cinema e l’immaginario fantastico degli anni 80. Per finire, sul piano dell’esemplarità, Guerre stellari è un altro tassello di quella tendenza sempre più presente nel cinema americano - dagli anni 70 in poi - a riflettere su stesso, a prendere il cinema come oggetto principale, magari nascosto, non immediatamente esplicito, del racconto. Nella maggioranza dei film degli ultimi decenni è possibile vedere che, al di sotto delle varie linee narrative e dei vari contesti, è sempre il “fantasma“ del cinema a cui si sta dando la caccia. Anche Star Wars è così: dietro un western travestito da SF, con scene da war movie ed elementi fantasy c’è sempre la solita vecchia storia, gli stessi meccanismi di fondo e le solite pratiche discorsive che alla fine ci fanno intravedere, al di sotto, una trama sempre uguale che ha il cinema stesso come oggetto principale. Riscoprire tutti questi motivi di attualità, se non altro, può essere interessante. costanza salvi Cult Cinema / 113 Il curioso caso di Benjamin Button (di David Fincher - USA 2008) Tratto dall’omonimo racconto breve del 1922 di Francis Scott Fitzgerald, il film ha avuto una genesi travagliata prima di venir affidato a David Fincher, passando anche attraverso la candidatura di Ron Howard. La storia bizzarra è tutta un flashback, che muove dal presente della New Orleans a ridosso dell’uragano Katrina (siamo nell’agosto del 2005) indietro fino alla nascita di Benjamin (Brad Pitt), bambino nato vecchio che man mano ringiovanisce con il tempo. Con l’espediente della lettura di un diario, seguiamo il protagonista nel corso della sua vita che si intreccia con la storia del Novecento, in una serie di rimandi spazio temporali, la cui costante è fornita dalle sue trasformazioni fisiche e psicologiche e dall’inseguirsi con l’anima gemella Daisy (Cate Blanchett). Ma più che i tormenti interiori in una vicenda inconsueta come quella capitata al protagonista, Il curioso caso di Benjamin Button rivolge la sua attenzione ai cambiamenti esteriori, non lasciando mai veramente il segno. Altra cosa davvero rispetto al film che subito viene alla mente, Forrest Gump (di Robert Zemeckis, 1994) e quel suo personaggio che invece attraversava la storia americana con nient’altro che il suo candore. Naiveté presente anche qui (non a caso lo sceneggiatore Eric Roth aveva collaborato anche alla pellicola di Zemeckis), ma che non basta a risollevare le sorti del film. Quel che sembra interessare a Fincher è osservare, con la cura maniacale di un entomologo, come si comporta il protagonista vecchio con la mente di un bambino e viceversa. Una riflessione sul tempo e sulla brevità della vita, sulla morte perciò e sul rincorrersi da parte di esistenze diverse con sfalsamenti temporali. C’è l’alone della malinconia e della nostalgia per il tempo che trascorre, tema tutto fitzgeraldiano 114 / La Sera della Prima quest’ultimo, reso anche attraverso un ovattamento della fotografia. C’è una cura formale molto elevata, un’ossessione per i particolari che toglie anima; e d’altra parte i personaggi non sono approfonditi, bensì semplici maschere che si lasciano attraversare dagli eventi. Niente veramente tocca, neanche i momenti che si vorrebbero più emozionanti, resi del tutto calligraficamente. Al film avrebbe giovato anche una minore durata (166 minuti sembrano davvero troppi!) e un montaggio più snello, con una maggiore fluidità tra un periodo e l’altro della vita di Benjamin. Non mancano momenti di puro kitsch, del tutto superflui (intere sequenze temporali che si potevano tagliare per esempio: è il caso del viaggio in Tibet, per citarne uno) e segmenti di comico del tutto involontario, come il lungo monologo di Daisy, ballerina classica che racconta a un indif- ferente Benjamin della scena parigina legata alla nascita della danza contemporanea e dell’ascesa del coreografo Balanchine. Quel che resta del film allora sono le attente trasformazioni fisiche digitali, mentre ci si domanda come invece sarebbe stata la resa da questo punto di vista con mezzi meno potenti. Forse più artigianale e meno algida. Da questo versante tutto sembra perfetto, Brad Pitt si toglie man mano con il passare del tempo gli anni dal volto e dal corpo come un consumato Dorian Gray wildiano in un patto con il diavolo, però senza consapevolez- za e con noncuranza quasi. Se non si sta a pensare agli effetti digitalizzati quasi si trova la cosa naturale ed appare facile la resa del personaggio da questo versante. Comunque una prova ottima la sua, così come è ottima anche la camaleontica Cate Blanchett alla quale siamo ormai tanto abituati che quasi non se ne percepisce più la fatica attoriale, ma solo la naturalità. Per Fincher, un’occasione sprecatissima. Teresa Greco La Sera della Prima / 115 L’America di Josè Cura e Cristina Zavalloni Due diversi sguardi sulla musica del Novecento musicale americano, dagli Stati Uniti al caldo e profondo sud. La versatilità ritmica dei compositori latini e le sperimentazioni cageiane, la compostezza di Samuel Barber e le ricette di cucina di Leonard Bernstein: Josè Cura sul podio dell’Orchestra del teatro Comunale di Bologna e Cristina Zavalloni, accompagnata da clarinetto e pianoforte, senza volerlo hanno fornito, a distanza di pochi giorni, due istantanee complementari della musica del Nuovo Mondo. Di Daniele Follero J osè C ura – T eatro M anzoni B ologna (2 F ebbraio 2009) di B ologna (30 G ennaio 2009) C ristina Z avalloni – T eatro C omunale L’argentino Josè Cura, tenore di gran classe(abbiamo avuto modo di apprezzarlo l’anno scorso nel ruolo di Sansone in Samson Et Dalila di Saint Saens) questa volta è arrivato nella città petronianavestendo i panni di direttore d’orchestra, con un programma tutto americano edel tutto trasversale, a dimostrazione della varietà e vastità dei repertorid’oltreoceano. Un percorso di andata e ritorno, partito dal nord con illinguaggio chiaro e neotonale di Samuel Barber, per tuffarsi nella terra del fuoco con la disinvoltura degli esploratori più audaci. Giù, sempre più giù, attraversandola cultura di confine del Messico di Josè Pablo Moncayo e la foresta tropicaledel brasiliano Villa-Lobos, con una lunga pausa nella patria di Cura,l’Argentina del tango, di Piazzolla e Ginastera. Per risalire, infine, verso il nord. Un ritorno brusco, nel tempo e nello spazio, al Nuovo Mondo settentrionale, ma questa volta filtrato dalla mente europea di Dvorák che,ormai trasferitosi a New York, volle dedicare al folklore americano la suaultima sinfonia, non a caso titolata Z Novèho Svrta (“dal nuovo mondo”).Miracoli della musica, che riesce ad annullare distanze che sembrerebberoinaffrontabili e che, invece, grazie al linguaggio universale dei suoni siaccorciano fino ad annullarsi. Cura dà l’impressione di tenere particolarmente alle sue scelte, tanto che, quando arriva ad affron- tare l’esecuzione delle partiture dei suoi conterranei, sente il bisogno di fermarsi e parlare alpubblico, tirando fuori tutto il suo carisma per sottolineare il carattere inedito di queste composizioni. Con l’orgoglio di chi è consapevole del valoredi musicisti poco noti solo perché lontani dai repertori “classici” e da quello che i musicologi definiscono Canone Occidentale. Compositori “periferici” rispetto ai punti di riferimento europei, ma proprio per questo affascinanti egià post-moderni nel loro stretto rapporto con le tradizioni dei loro paesi diprovenienza. Con l’eccezione di Piazzolla, ormai noto alle platee di tutto il mondo,e (forse) di Villa-Lobos, nomi come Moncayo e Ginastera non dicono nulla aipiù. Un’occasione imperdibile, dunque, quella di tuffarsi nella vitaleesuberanza di Huapango del messicano Moncayo e nella varietà ritmica dellasuite dal balletto Estancia del compositore argentino. La vivacità di questemusiche riflette alla perfezione il carattere estroverso e istrionico di Cura,che nel dirigere sembra quasi un ballerino sudamericano, con tanto di movimenti di bacino. La sua è una direzione che definirei “fisica”, nella quale il corpo si muove con la musica. Il direttore trascina l’orchestra in questi balli,connotati ovunque da una grande varietà ritmica e la accarezza, come si fa conuna partner di danza. Dopo queste scintille, i tratti tardoromantici della di Nona sinfonia di Dvorák, al di là dei suoi meriti storici, hannodato l’impressione di rompere un incantesimo, così come la compostezza diBarber aveva creato una falsa premessa rispetto al viaggio verso il caldo sud. Se Cura ha deciso di attraversare in lungo ein largo l’intero continente, la mezzosoprano bolognese Cristina Zavalloni, nelsuo concerto (titolato, per l’appunto Americana) al Teatro Comunale nell’ambitodella stagione “contemporanea” di Musica Insieme, si è fermata interamentenegli U.S.A., esplorando i poco noti repertori vocali di John Cage, CharlesIves e Leonard Bernstein. Accompagnata dal clarinetto di Gabriele Mirabassi e dal pianoforte di Andrea Rebaudengo, la Zavalloni ha dato, ancora una volta,prova della sua vocalità versatile e teatrale, riuscendo con gran classe adalternare le ricette culinarie de La Bonne Cuisine musicate dall’autore di WestSide Story, alla poesia The Wonderful Widow Of Eighteen Springs di James Joycenella versione di Cage e alle Songs dal sapore leggero, quasi pop di Ives. Un concerto tutto d’un fiato, senza pause,che ha perso tensione quando la cantante ha lasciato soli sul palco gli strumentisti alle prese con la Sonata per Clarinetto di Aaron Copland eAmerican Bersek di John Adams. Troppo importante per non esserci, la Zavalloniè tornata sul palco per eseguire in prima assoluta l’opera Nueva York delgiovane compositore italiano Carlo Boccadoro (presente in sala e meritatamente applaudito) basata su due poesie del periodo newyorchese di Federico GarciaLorca. Il bis è tutto all’insegna del virtuosismo,dell’ironia e dell’improvvisazione jazzistica, con un brano composto appositamente per i finali di concerto e intitolato appunto…Bis. Il modo di approcciare alla musica dellaZavalloni, giocoso anche se tremendamente serio e disciplinato è uno deglielementi che maggiormente conferiscono spessore al suo stile. La suadisinvoltura nell’affrontare repertori quasi agli antipodi (dall’opera baroccaalle avanguardie, fino al jazz) fa il resto, tanto che ogni sua esibizione rimaneun capitolo a sé. Quella di questa sera non ha fatto certo eccezione. a night at the opera / 117 Giacinto Scelsi La vita in una sola nota Misterioso, isolato, nobile decaduto assolutamente sui generis, Giacinto Scelsi è un personaggio a sé stante nel panorama della musica contemporanea, un capitolo a parte nella storia delle avanguardie. Precursore dei precursori, ha sperimentato le tecniche minimaliste almeno un decennio prima di La Monte Young, pur rimanendo, a modo suo, legato alla tradizione. Di Daniele Follero “Mi sento più affine alle filosofie orientali, che parlano contro la violenza, contro le manifestazioni della vita terrena su un livello pratico. Preferisco pensare e vivere su altri livelli, il più possibile” (Giacinto Scelsi) MortonFeldman lo ha definito “il Charles Ives italiano”. Un’opinione condivisibile se, al di là dei dati anagrafici, si confrontano i personaggi sul piano del fascinoe dell’influenza che entrambi hanno avuto sulle successive generazioni di compositori. Come il compositore americano, infatti, è stato da molticonsiderato il capostipite dell’avanguardia statunitense, così Giacinto Scelsi,grazie al suo particolarissimo e radicale approccio alla musica, ha precorso di parecchi anni l’avvento del minimalismo e, più in generale, del radicalismo post-strutturalista. La figura di Scelsi brilla di luce proprianel panorama della musica contemporanea italiana e internazionale. Un isolamento non solo artistico, ma anche esistenziale, che lo ha portato prestoa dileguarsi da qualsiasi, seppur minima, visibilità, rifugiandosi nella torre d’avorio delle sue consapevolezze, alla quale hanno avuto modo di accedere soloalcuni suoi studenti, gli unici ad essere veramente in grado di parlare di lui e suonare la “sua” musica così come il Maestro l’aveva concepita. Misterioso e inafferrabile, Scelsi non ha mai vissuto una vita “normale” o, per meglio dire, paragonabile alla media dei suoicolleghi compositori. Nato a La Spezia da una famiglia nobile, il piccolo conteGiacinto Francesco Maria Scelsi d’Ayala Valva visse la sua infanzia prevalentemente presso il castello di proprietà della famiglia materna (ilcastello di Valva, in Irpinia), dove ricevette un’educazione alquantosingolare: un precettore gli dava lezioni di latino, scherma e scacchi. Le anacronistiche abitudini aristocratiche, però, non alimentarono mai in luisentimenti e atteggiamenti elitari e snobisti, ma furono certo una tra le causeoriginarie del suo isolamento, della scelta di prendere le distanze da un mondocui non sentiva di appartenere del tutto. I primi approcci con la musica Scelsi li ebbe a Roma, dove seguì le lezioni di piano del Maestro Sallustio, prima di venire acontatto con l’èlite culturale dell’epoca. Nei salotti bene della capitaleconobbe grandi personaggi del mondo artistico come Virginia Wolf e Jean Cocteau,ma fu fuori dall’Italia che trovò i più importanti stimoli musicali della sua formazione. Arrivato a Ginevra con un bagaglio di conoscenze e di influenzemolto legato alla figura di Ottorino Respighi e a quella schiera di musicisti neoclassici denominata Generazione dell’80 (dal comune decennio di nascita ditutti i musicisti che vi facevano parte) studiò con Koelher, che lo iniziò alsistema musicale di Skrijabin. Scelsi rimase affascinato dalle alchimiearmoniche e dallo spiritualismo del compositore russo più che dalla dodecafoniaschoenberghiana, con la quale venne a contatto a Vienna, aderendo solo in parteal serialismo e restando, per questo, più vicino a Berg che al Maestro. Le suecomposizioni giovanili, scritte prevalentemente per il pianoforte (strumento che predilesse, almeno fino ad un certo punto della sua carriera artistica),risentono molto del linguaggio atonale, pur conservando un’attenzione formaleche richiama elementi neoclassici: la Sonata n.3 del 1939 è un chiaro esempiodi come lo stile berghiano, unito alle eteree soluzioni armoniche di Skrijabin abbiano fornito la base all’embrionale creatività di Scelsi. Ma c’è qualcosa,in questa come in molte composizioni di questo periodo (tra le quali spicca ilQuartetto n.1 del 1944), che si allontana dai linguaggi di provenienza. C’è qualcosa in quell’insistenza nel girare attorno ad una nota sola, che giàprelude alle sue ossessioni future, a quel suo abbandono radicale del discorsomusicale che presto sarebbe arrivato all’annullamento totale delle altezze equindi del rapporto diacronico tra suoni di differente frequenza. La crisi e l’approccio alle filosofie orientali: l’”ato- mizzazione del suono singolo” Trascorso l’intero periodo della Seconda guerra mondiale in esilio forzato nella neutrale Svizzera, Scelsi soffrì,qualche anno dopo il conflitto, forti problemi psicologici, la cui causa scatenante fu, con molta probabilità, la fine del suo matrimonio. Questoepisodio segna una tappa importante nella vita così come nel percorso musicaledel compositore ligure, che uscì dalla sua crisi attraverso un bruscocambiamento di rotta delle sue ricerche. A partire dalla Cantata “La NascitaDel Verbo” (scritta nel 1948, ed eseguita solo nel 1950) il linguaggio musicaledi Scelsi virò verso quello che Daniela Tortora ha definito “atomizzazione delsuono singolo”, culminata negli splendidi Quattro Pezzi Per Orchestra, basatisu una singola nota ciascuno. Il fascino per la filosofia orientale, per letecniche yoga, mutuate per lo più dalla cultura indiana, contribuì non poco ad alimentare questo nuovo procedimento compositivo che, annullando la dimensione melodica, si proponeva di concentrare l’elaborazione musicale unicamente sultimbro. Restando solo con le sue metamorfosi, il suono singolo perde il suoruolo di semplice punto all’interno di una composizione, per caratterizzarsicome suono, essenza stessa della composizione, che diventa così, a sua volta,una continua i cosiddetti contemporanei / 119 elaborazione di una singola frequenza. Un minimalismo ante-litteram, costruito attraverso un massiccio utilizzo della tecnica degli armonici e dei quarti di tono, ottenibili solo dagli strumenti a corda e afiato. Ragione questa, o conseguenza, del fatto che in questo periodo Scelsi abbandonò del tutto il pianoforte, lo strumento meno adatto per mettere inpratica le sue idee. L’isolamento in cui si chiuse una voltatornato a Roma, pur collaborando a progetti importanti come l’associazioneNuova Consonanza e l’omonimo gruppo di improvvisazione (cui aderirono, tra glialtri Franco Evangelisti, Aldo Clementi ed un giovane Ennio Morricone), contribuìa creare un’aura di mistero attorno al compositore, sempre più capitolinod’adozione. Stanco, irreversibilmente spossato dalla crisi di nervi, Scelsi,negli anni ’50 decise di non scrivere più e di affidarsi a dei trascrittori dalui stesso istruiti, che avrebbero riportato nero su bianco le sueimprovvisazioni registrate su nastro magnetico. è per questo motivo che ladatazione delle opere di Scelsi è spesso complessa e difficile, tenuto contodel fatto che può capitare che siano trascorsi anche molti anni tra lacomposizione e la sua trascrizione, come nel caso di due tra i suoi capolavoricameristici, Elegia per Ty, per viola e violoncello (concepita nel 1958 evenuta alla luce solo otto anni dopo, nel 1966) e la Trilogia per violoncellosolo, la cui composizione cominciò nel 1957 per terminare definitivamente nel1961 ed essere trascritta nel 1965. C ome un profeta con i suoi discepoli Durante gli anni della svolta, Scelsi nonabbandonò del tutto la tradizione, ma la elaborò da particolari punti di vista,lontani dal neoclassicismo e molto legati a concetti musicali essenziali, comequello di polifonia. Ne sono un esempio i Divertimenti per violino solo (decisamente tonali), la già citata Trilogia per violoncello e il brano persoprano solo Ho, nei quali la polifonia è ricreata a partire dalla monodia,attraverso giochi percettivi (favoriti dalle risonanze) che ricreano nellamente una dimensione verticale dei suoni apparentemente inesistente. Una“polifonia virtuale”, come la definisce Dujka Smoje, già nota a Bach e Telemanne riscontrabile in altri autori contemporanei a Scelsi come Berio (Sequenze),Xenakis (Nomos Alpha, Kottos, Keren, Theraps) e in un altro grande maestro del Nostro, Edgar Varèse (Density 21,5). Ma tradizione per Scelsi fu esso stesso un concetto molto ampio, profondo, non semplicemente legato alle origini della cultura occidentale, bensì a quelle dell’uomo: la mitologia, la cultura delle civiltà antiche, dai Maya alla grecia classica, dall’antico Egitto agli assiri, le culture orientali, contribuiscono ad alimentare il suo misticismo. A partire dai titoli, le sue opere divengono sempre più criptiche, attingendo da lingue e culture arcaiche (Pwill, Kya, Uaxuctum, Hurqualia, Ygghur -“catarsi” insanscrito). A partire dal 1958 Scelsi ritornò, dopo unalunga pausa a comporre per la voce: gli 8 Canti Popolari per coro di 4 voci e iTre Canti Sacri, per 8 voci, rappresentano un altro importante passaggio delsuo stile e anticipano le complessità corali di Uaxuctum. Le tecniche di scrittura vocale, basate sulla costruzione di masse sonore verticali, formateda suoni sovrapposti a distanze micro tonali gli uni dagli altri (in modo da provocare il fenomeno acustico dei “battimenti”), da qualcuno sono stateparagonate alle micropolifonie di Ligeti. E il paragone sarebbe in partegiustificato, se non fosse per il carattere decisamente più mistico checontraddistingue le opere di Scelsi. Non solo quelle vocali, in verità, chèanche gli ultimi lavori sinfonici rispondono a queste caratteristiche. Inrealtà Hurqualia (1960), Aion (1961) e Hymnos (1963) potrebbero essereconsiderati anche movimenti di un’unica grande sinfonia, l’ultima di Scelsi.Che continuò a comporre sempre più a rilento, spesso rielaborando opereprecedenti, come nel caso di Anagamin (1965), Ohoi (1966) e Natura Renovatur (1967) generate, rispettivamente, dal Secondo, Terzo e Quarto Quartetto. Ma non mancano certo opere di un certo rilievo tra la fine degli anni ’60 e ildecennio successivo, composte per variegati organici, spesso inediti (Tkrdg del1968 per coro di 6 voci, chitarra elettrica e percussioni) o composti in coppia(Pranam I e Pranam II, 1972-73), anche se il capolavoro di questo periodo èconsiderato Knox-Om-Pax, mastodontico lavoro per coro e orchestra, seguito da un timido ritorno al pianoforte, stavolta “preparato” (Aitsi, 1974). za isuoi migliori, se non gli unici, esecutori della sua musica. Tanto che alcuni,come il cantante giapponese Michiko Hirayama (per la cui voce furono scritti,nel 1962, i Canti Del Capricorno) e la violoncellista statunitenseFrances-Marie Uitti, sono diventati dei veri e propri simboli della sua musica,che, a tutt’oggi, rimane, in parte, inedita. Scelsi continuò a comporre fino a poco prima di morire e la sua ultima composizione, oltre ad assumere il carattere del commiato sin dal titolo (Un Adieu), ritorna significativamente al pianofortesolo, quasi a voler chiudere un cerchio. Il cerchio più grande. Se ne va così, con un poetico e raccolto addio, in maniera quasi mistica, il “compositore di una nota sola” come qualcuno lo ha definito, chiudendo i contatti con il mondo il giorno 8.8.88 egli occhi il giorno dopo. Nel frattempo, come un profeta, ma anche unpo’ eremita, Scelsi cercava di trasmettere il “verbo” ai suoi pochi pupilli.Quelli che diverranno gli unici detentori del suo sapere e, di consegueni cosiddetti contemporanei / 121 sentireascoltare.com a breve di nuovo online......