L`illegittimità “comunitaria” dell`atto amministrativo

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L’illegittimità “comunitaria” dell’atto amministrativo
Nicola Pignatelli
(in Giurisprudenza costituzionale, n. 4, 2008, 3635 ss.)
SOMMARIO: 1. Una notazione preliminare. - 2. L’illegittimità comunitaria “diretta” e
l’illegittimità comunitaria “indiretta”: un raffronto con l’incostituzionalità dell’atto amministrativo.
- 3. La separazione degli ordinamenti ed il relativo regime processuale. - 4. La integrazione degli
ordinamenti ed il relativo regime processuale. - 5. La giurisprudenza della Corte di giustizia e la
disaplicazione normativa come ultimo “baluardo” del diritto comunitario. - 6. La disapplicazione
amministrativa come rimedio “abnorme” - 7. La giurisprudenza amministrativa e l’annullabilità
come “regola” processuale per l’illegittimità comunitaria. - 8. I poteri officiosi del giudice
amministrativo e la nullità come (irragionevole) “eccezione”. - 9. L’autotutela amministrativa
dinanzi alla illegittimità comunitaria: un ulteriore limite per il primato del diritto comunitario.
1. Una notazione preliminare
La letteratura costituzionalista ha autorevolmente indagato il rapporto tra ordinamento statale e
ordinamento comunitario guardando soprattutto alle antinomie intercorrenti tra norme, lasciando
invece in ombra la diversa problematica della risoluzione delle antinomie tra atti amministrativi
statali e norme comunitarie[1]. In realtà la violazione del diritto comunitario può essere prodotta
non soltanto per mezzo di atti statali generali e astratti ma anche per mezzo di atti statali particolari
e concreti, potendo rilevarsi una anti-comunitarietà nell’esercizio della funzione pubblica e quindi
una (speciale) illegittimità comunitaria del provvedimento che concretizza la funzione. Attraverso
lo studio di tale vizio sembra potersi attribuire una maggiore concretizzazione alle teorie sugli
ordinamenti; l’anticomunitarietà dell’atto amministrativo rappresenta infatti un banco di prova
stringente per la reale tenuta della logica duale di separazione tra ordinamento comunitario e
ordinamento statale, così come congegnata dalla giurisprudenza costituzionale.
2. L’illegittimità comunitaria “diretta” e l’illegittimità comunitaria “indiretta”: un raffronto con
l’incostituzionalità dell’atto amministrativo
L’illegittimità comunitaria del provvedimento amministrativo può manifestarsi come vizio
direttamente imputabile all’atto, nelle ipotesi in cui sia il contenuto dell’atto stesso ad essere
autonomamente in contrasto con una norma comunitaria, o come vizio soltanto mediato, nell’ipotesi
in cui un atto (non sia in contrasto ma) sia (conforme, quindi) emanato sulla base di una norma
statale, a sua volta in contrasto con il diritto comunitario[2]. In questa ultima ipotesi potrà così
parlarsi di una illegittimità comunitaria soltanto “indiretta”[3].
L’anti-comunitarietà “diretta” evoca inevitabilmente il modello originario del vizio di violazione di
legge (per quanto comunitaria), visto che è la stessa norma sovranazionale a rappresentare senza
intermediazioni il parametro di legittimità dell’atto amministrativo; sembra tuttavia necessario
capire se questa peculiare violazione di legge rappresenti una sorta di quarta specie rispetto alla
trilogia classica dei vizi dell’atto, se il riconoscimento di una nuova tipologia sostanziale abbia delle
ricadute sul regime processuale di giustiziabilità ed infine se da tale regime processuale qualcosa
possa desumersi quanto alla tenuta della teoria della separazione tra gli ordinamenti. In una diversa
logica l’anti-comunitarietà “indiretta” non porta con sé una violazione né un autonomo vizio
dell’atto, presupponendo invece il rispetto del parametro di legittimità statale, esso stesso di
contenuto lesivo del diritto comunitario; in questo caso l’illegittimità si configura come
“derivata”[4].
Deve comunque precisarsi come la nozione di illegittimità “diretta”, utilizzata dalla dottrina
amministrativista, assuma un connotato sostanziale, sul presupposto che il contrasto tra un atto
amministrativo statale ed una norma comunitaria self executing è pur sempre configurabile come
una violazione (indiretta, anch’essa) dell’ordine di esecuzione; solo l’ordine di esecuzione del
Trattato rende infatti praticabile l’uso delle norme comunitarie (anche) come parametro di
legittimità degli atti amministrativi. Non può sfuggire, però, come ai nostri fini rilevi il contatto
diretto (sostanziale) tra l’attività provvedimentale e le norme comunitarie; soltanto saltando la
intermediazione dell’ordine di esecuzione, alla luce del quale qualsiasi antinomia tra atto
amministrativo e diritto comunitario si risolverebbe in un unico e omogeneo vizio di legge, è
possibile affrontare i problemi sopra prospettati.
Allo stesso fine è utile da subito rilevare come la distinzione tra illegittimità comunitaria (“diretta” e
“indiretta”) dell’atto amministrativo sia suggestivamente evocativa di un altro peculiare vizio
dell’atto amministrativo, quello di incostituzionalità[5].
Guardando infatti alla prassi e al funzionamento del processo amministrativo, non sembra certo
stravagante l’ipotesi in cui la violazione della Costituzione rappresenti la causa petendi della
impugnazione di un atto amministrativo; non sembra irreale che il ricorrente lamenti la diretta
lesione di una norma costituzionale, sia essa una norma che tutela una situazione giuridica
soggettiva sia essa una norma sulla organizzazione, quale può essere, ad esempio, una norma sulla
competenza costituzionale. Si tratta di una ipotesi in cui il vizio dell’atto «non è trasferibile»[6]
sulla legge, potendo parlarsi di incostituzionalità propria dell’atto amministrativo[7]. E’ evidente
però, anche in questo caso, la profonda differenza rispetto all’ipotesi in cui un atto amministrativo
sia impugnato (non perché viola la legge o direttamente la Costituzione) ma perché emanato sulla
base di una norma (quindi conforme ad una norma) sospettata di illegittimità costituzionale. In tal
caso l’atto amministrativo non è viziato in sé, dovendo se mai essere apprezzato l’effetto di una
eventuale sentenza di illegittimità costituzionale della Corte e quindi rilevato l’eventuale vizio
“derivato”[8].
Il parallelismo, qui prospettato, tra illegittimità comunitaria e incostituzionalità dell’atto
amministrativo[9] deriva evidentemente dal rango (sovra-legislativo) che rispettivamente le norme
comunitarie e le norme costituzionali (quali parametri di legittimità o norme fondative dei
provvedimenti) assumono nella gerarchia delle fonti. Tuttavia esistono delle differenze relative agli
strumenti di reazione apprestati dall’ordinamento giuridico per queste due peculiari tipologie di
vizio.
Quanto all’incostituzionalità dell’atto amministrativo, deve distinguersi l’ipotesi della violazione
“diretta” della Costituzione, rispetto alla quale è il giudice amministrativo a sindacare diffusamente
l’illegittimità, dalla ipotesi di violazione “indiretta”, rispetto alla quale è necessario il giudizio
accentrato della Corte costituzionale sulla norma su cui l’atto si fonda. In quest’ultimo caso il
giudizio costituzionale può addirittura risolvere il merito stesso dell’impugnazione dell’atto. Si
tratta dei casi in cui è configurabile un ricorso per soli motivi di incostituzionalità[10], ossia quando
un atto è esclusivamente impugnato perché emanato sulla base di una norma incostituzionale; il
giudice amministrativo (fatti salvi i poteri di accertamento sui presupposti processuali del proprio
giudizio) si trasforma in un mero “scivolo” verso la Corte costituzionale e l’illegittimità
costituzionale può esaurire fattualmente il petitum del ricorso, caducando il presupposto normativo
dell’atto.
Quanto all’illegittimità comunitaria, il sindacato sull’atto amministrativo assume, invece, sempre
una natura “diffusa”, sia nell’ipotesi di violazione “indiretta” del diritto comunitario, visto che
spetta naturalmente ai Tar o al Consiglio di Stato non-applicare la norma statale anticomunitaria su
cui si fonda l’atto impugnato, sia nell’ipotesi di violazione “diretta” del diritto comunitario,
analogamente a quanto accade per la violazione diretta della Costituzione, sull’evidente presupposto
che la giurisdizione della Corte costituzionale è esclusa perché ancorata al rango dell’oggetto del
giudizio e non al rango del parametro, diversamente dalla logica sottesa, ad esempio, al progetto
Leone presentato in sede costituente (in seno alla Commissione dei Settantacinque), che intendeva
attribuire alla «Corte di garanzia costituzionale» il sindacato sulla «costituzionalità» (e quindi
potenzialmente sulla comunitarietà) delle leggi, dei regolamenti e degli atti amministrativi»[11].
Prospettati allora i due modelli di antinomia (diretta ed indiretta) tra atto amministrativo e diritto
comunitario e delineata una possibile (ed utile, come si vedrà più avanti) analogia con
l’incostituzionalità dell’atto amministrativo, sembra ora necessario misurare il vizio di anticomunitarietà con le teorie relative ai rapporti tra gli ordinamenti, al fine di trarne elementi
funzionali alla individuazione del regime processuale. Deve precisarsi però come la nozione di
illegittimità comunitaria dell’atto amministrativo aderisca più naturalmente ad una concezione
“integrata” degli ordinamenti, visto che la logica di “separatezza”, come si dirà tra poco, può
arrivare ad escludere la stessa configurabilità teorica di tale vizio.
3. La separazione degli ordinamenti ed il relativo regime processuale
La teoria della separatezza degli ordinamenti giuridici, portata alle sue estreme conseguenze, è in
grado di mortificare la primazia del diritto comunitario sul piano dell’attività amministrativa[12],
negando alle norme comunitarie, in quanto appartenenti ad un altro ordinamento, sia la funzione
attributiva di un potere amministrativo sia la funzione di regolamentazione del quomodo di
esercizio del potere. In altre parole l’atto emanato sulla base di una norma comunitaria dovrebbe
essere qualificato sempre come inesistente per la assoluta carenza di potere (si tratterebbe infatti, in
questa logica, di un potere legibus solutus, “senza norma”); mentre, a stretto rigore, non sarebbe
neppure configurabile una illegittimità comunitaria (sia essa diretta o indiretta), visto che le uniche
norme sulla genesi del potere amministrativo o sul quomodo di esercizio sarebbero quelle
statali[13]. Le norme comunitarie (regolative o attributive) non potrebbero, infatti, fungere da
parametro “diretto” dell’atto né da parametro “mediato” (attraverso la norma statale sulla base del
quale l’atto è stato emanato).
Tuttavia, visto che, secondo il modello dualista come ricostruito nella sua ultima stagione dalla
giurisprudenza costituzionale (sent. 170/1984), le norme statali anticomunitarie, a loro volta,
devono essere “non applicate” dal giudice, possono generarsi peculiari conseguenze processuali.
Certamente se si ammettesse (ciò che la Corte ha esplicitamente negato, ossia) la categoria della
nullità delle norme statali anticomunitarie l’unica ed immediata conseguenza processuale relativa
agli atti amministrativi sarebbe quella della loro nullità[14], rilevabile ex officio, al di là dei limiti
imposti dal modello impugnatorio del processo amministrativo. Posta invece la “non applicabilità”
di tali norme è necessario formulare osservazioni diverse.
Quando l’atto amministrativo è emanato sulla base di una norma statale lesiva di una norma
comunitaria, il Tar Piemonte[15], in una nota pronuncia, ha ritenuto di poter utilizzare la categoria
della nullità/inesistenza (in una accezione fungibile): «l’esistenza della norma costituisce il
presupposto necessario ed ineliminabile dell’atto amministrativo che pretende di farne
applicazione», per cui «se la norma che l’Amministrazione pretende di applicare non esiste o per
qualunque motivo non produce effetti all’interno dell’ordinamento nel quale è destinata ad operare
la pronuncia giurisdizionale, il giudice non può che accertare l’inesistenza del necessario parametro
per la valutazione della legalità dell’azione amministrativa» e visto che non esiste attività
amministrativa “senza norma” (legibus soluta) egli non può che «dare atto della radicale nullità
dell’atto medesimo». In altre parole, secondo il giudice piemontese, la non applicazione della norma
statale anticomunitaria, determina la nullità dell’atto, sul presupposto che quest’ultimo, una volta
non applicata la norma statale anticomunitaria, non potrebbe trovare il proprio ancoraggio
normativo nella norma comunitaria.
Questa pronuncia rappresenta evidentemente un (estremo) corollario della giurisprudenza
costituzionale, alla luce della quale una norma appartenente ad un ordinamento separato ed
autonomo sembrerebbe non poter entrare “in contatto” con l’attività amministrativa, palesando però
un contraddittorio paradosso: una norma comunitaria sarebbe, infatti, idonea a neutralizzare
l’applicazione di una norma statale contrastante (producendo i propri effetti nell’ordinamento
statale) ma non altrettanto a fungere da presupposto o da parametro di legalità del potere
amministrativo statale. Tra l’altro le affermazioni del Tar Piemonte sembrerebbero essere coerenti
alla teoria della separatezza solo se riferite alle norme attributive del potere amministrativo, sul
presupposto che nell’ipotesi in cui una norma statale meramente regolativa sia in contrasto con una
norma comunitaria, l’atto amministrativo, a seguito della non applicazione della norma
anticomunitaria, non risulterebbe “in carenza di potere” e la sua legittimità dovrebbe essere valutata
(se mai) alla luce di “altre” norme statali, vista la (presunta) inidoneità delle norme comunitarie a
fungere da parametro.
Questa pronuncia rievoca la soluzione processuale che una risalente giurisprudenza amministrativa
aveva congegnato per sanzionare l’atto emanato sulla base di una norma (successivamente)
dichiarata incostituzionale. Il Consiglio di Stato, all’alba dell’irruzione nell’ordinamento del sistema
costituzionale di giustiziabilità delle leggi, ritenne infatti di qualificare tale atto come
inesistente/nullo (anche in questo caso maneggiando fungibilmente le due categorie e) giungendo
così a dichiarare improcedibile il ricorso[16] o a rilevare il difetto di giurisdizione [17]. Questo
orientamento, però, presupponeva necessariamente che la norma dichiarata illegittima fosse una
norma attributiva del potere o istitutiva di un ufficio, quindi una norma “sulla” genesi del potere,
rimanendo invece distinta l’ipotesi in cui la norma oggetto del controllo di costituzionalità fosse una
norma sul quomodo di esercizio, quindi una norma “del” potere amministrativo (per cui si riteneva
operativo il regime della mera annullabilità).
In questa giurisprudenza la caducazione del potere determinata dalla caducazione della norma che
lo sorregge genera l’inesistenza dell’atto visto che un atto emanato da un potere inesistente
(anch’esso “senza norma”) non poteva non considerarsi -si diceva- un atto inesistente; attraverso
una finzione giuridica si apprezzava l’atto come esistente medio tempore, ossia nel lasso tra
l’emanazione della norma e la sua dichiarazione di illegittimità, vista la vigenza (anche se precaria)
della norma, e poi a seguito della dichiarazione di incostituzionalità inesistente ab origine. Tale
vizio appariva così originario quanto alla decorrenza (quoad effectum) ma sopravvenuto quanto alla
sua riconoscibilità (quoad causam)[18]. Peraltro questa ricostruzione era intimamente connessa ad
una certa concezione della sorte delle norme dichiarate incostituzionali (ritenute inesistenti) ed
ancor prima ad una certa concezione della natura delle sentenze di illegittimità costituzionale
(ritenute meramente dichiarative)[19]. Quanto, invece, agli effetti sulle dinamiche processuali, la
configurazione di un vizio così radicale dell’atto non avrebbe incontrato nessuna preclusione
imposta dalla perentorietà dei termini di decadenza, potendo il cittadino leso attivare in qualsiasi
momento l’azione di accertamento della nullità-inesitenza dell’atto.
Tuttavia deve rilevarsi come la qualificazione sostanziale del vizio di illegittimità comunitaria da
parte del Tar Piemonte in termini di nullità/inesistenza non si risolva in una decisione processuale
(come per la giurisprudenza appena richiamata, che si pronunciò ai suoi esordi nel senso della
improcedibilità o del difetto di giurisdizione), ma al contrario in una decisione di accertamento
direttamente satisfattiva della pretesa del ricorrente (ed in quanto tale stravagante ed incoerente
rispetto al mero giudizio demolitorio di legittimità), rimanendo così radicata la questione nella
giurisdizione amministrativa[20]; una decisione in deroga alla logica secondo la quale l’atto emesso
in carenza di potere sarebbe inidoneo a degradare il diritto soggettivo, con una conseguente
riespansione degli interessi legittimi in situazioni giuridiche piene e con una conseguente
traslazione di giurisdizione verso il giudice ordinario.
Quanto, invece, all’ipotesi, che soltanto in una semantica della “integrazione” definiremmo
“illegittimità comunitaria diretta” (atto amministrativo direttamente lesivo di una norma
comunitaria), dovrebbe comunque sostenersi -in una logica analoga alla pronuncia del Tar Piemonte
ma con conseguenze processuali diverse- che le norme comunitarie non possono fungere da
parametro dell’atto amministrativo, non potendo ritenersi operativo il regime della
nullità/inesistenza e dovendo valutarsi così la legittimità dell’atto esclusivamente alla luce delle
norme statali. In questa prospettiva è certamente negata qualsiasi dilatazione sovranazionale del
principio di legalità.
In realtà, continuando a ragionare in una prospettiva dualista, che sia più sensibile al
«coordinamento»[21] tra gli ordinamenti e che ammetta l’efficacia delle norme comunitarie anche
nei confronti dell’attività amministrativa (quindi la nozione stessa di illegittimità comunitaria),
potrebbe essere individuato un diverso rimedio, spendibile per qualsiasi forma di antinomia tra atto
amministrativo e diritto comunitario. Infatti analogamente alla disapplicazione delle norme statali
anticomunitarie si potrebbe pensare (a fortiori), quale rimedio generale, alla disapplicazione degli
atti amministrativi statali anticomunitari. Anzi potrebbe logicamente sostenersi che il mancato
utilizzo della disapplicazione renderebbe la norma anticomunitaria meno resistente dell’atto
amministrativo anticomunitario, sul presupposto che per la prima diversamente dal secondo non
varrebbe la preclusione processuale della decadenza dall’impugnazione; in altre parole il rischio
sarebbe quello che il giudice potrebbe sempre disapplicare un atto normativo lesivo del diritto
comunitario ma non un atto amministrativo lesivo del diritto comunitario, con una sorta di
inversione dei valori sottesi alle forme di produzione del potere (legislativo ed esecutivo). Questa
inversione si risolverebbe in un indebolimento, relativo alla sfera amministrativa, della primazia del
diritto comunitario[22]; da qui si è desunta la necessità della disapplicazione anche nella sfera
amministrativa[23].
Tuttavia questa soluzione genera un’asimmetria tra l’illegittimità comunitaria e l’incostituzionalità
dell’atto amministrativo, per la quale la giurisprudenza amministrativa, successiva a quella
richiamata, ha invece ritenuto operativo, come si vedrà meglio più avanti, il regime
dell’annullabilità (con la relativa preclusione decadenziale); in tale asimmettria la perentorietà del
decorso dei termini di impugnazione dovrebbe cedere dinanzi al vizio di anticomunitarietà ma non a
quello di incostituzionalità. Per taluni dovrebbe scorgersi in tale differenza un sintomo della
sovraordinazione delle norme comunitarie alle norme costituzionali (fatta salva la resistenza dei
contro-limiti)[24]; a parer nostro, invece, tale diversità di regime processuale è un sintomo della
irragionevolezza che informa l’uso della disapplicazione. Più avanti, nella analisi giurisprudenziale,
ci soffermeremo sulle contraddizioni che porta con sé l’istituto della disapplicazione degli atti
amministrativi anticomunitari, potendo così formulare ulteriori considerazioni sulla debolezza della
logica di separatezza tra gli ordinamenti, anche nella sua versione più mite (ossia sensibile al
«coordinamento») .
4. La integrazione tra gli ordinamenti ed il relativo regime processuale
Accantonando la logica di separatezza tra gli ordinamenti ed i suoi corollari processuali (nullitàinesistenza-disapplicazione), il regime per l’illegittimità comunitaria, più aderente alla integrazione,
è quello della annullabilità dell’atto amministrativo, che presuppone la idoneità (anche) delle norme
comunitarie, in quanto norme appartenenti allo stesso ordinamento, a fungere da fondamento o da
parametro del potere amministrativo (ossia da norme attributive o regolative del potere); un regime
processuale operativo sia nell’ipotesi di illegittimità “diretta”, quando è la norma comunitaria a
presidiare il principio di legalità quale parametro della funzione pubblica, sia nell’ipotesi di
illegittimità “indiretta”, quando l’atto amministrativo è conforme ad una norma statale
anticomunitaria.
Le norme comunitarie (attributive o regolative) svolgono così, secondo questo modello, una
funzione analoga alle norme interne, in particolar modo si comportano, nella ipotesi di illegittimità
comunitaria “diretta”, da norme legislative statali (analogamente a come si comportano le norme
costituzionali nella ipotesi di incostituzionalità diretta), e, nella ipotesi di illegittimità comunitaria
“indiretta”, da norme costituzionali, rispetto alle quali può essere in contrasto la norma legislativa
su cui l’atto è stato emanato.
Questa logica per altro è la più aderente al modello impugnatorio del processo amministrativo,
rimanendo fermi i termini di decadenza, la vincolatività stringente del giudice amministrativo ai
motivi del ricorso e più in generale i limiti ai poteri processuali officiosi nella determinazione del
thema decidendum.
Sarebbe in questo modo rispettato il parallelismo, sopra prospettato, tra l’illegittimità comunitaria e
l’incostituzionalità dell’atto amministrativo. La giurisprudenza amministrativa, dopo taluni travagli
e non senza (ancora) attuali criticità, ha infatti ricondotto al regime dell’annullabilità sia l’ipotesi
della violazione diretta della Costituzione (una violazione di legge costituzionale) sia l’ipotesi in cui
l’atto sia conforme ad una norma lesiva della Costituzione. In questa logica (anche) gli atti emanati
sulla base di una norma (successivamente dichiarata) incostituzionale non possono quindi ritenersi
come mai esistiti ma come esistenti e quindi divenuti (eventualmente) invalidi a seguito di una
pronuncia della Corte[25]. Nel linguaggio della giurisprudenza amministrativa si utilizza così
l’espressione invalidità «sopravvenuta»[26] (o «derivata»), alludendo ad un atto amministrativo
conforme al proprio modello legale nel momento della emanazione e quindi nel momento di
esercizio del potere sotteso ma divenuto viziato a seguito della dichiarazione di incostituzionalità
della stessa norma rispetto alla quale risultava legittimo un momento prima della dichiarazione di
incostituzionalità. In questa logica è apprezzabile una precarietà del provvedimento (medio tempore
legittimo ed efficace) connessa alla precarietà della stessa norma potenzialmente oggetto dello
scrutinio di costituzionalità e la configurazione di un vizio originario quanto alla decorrenza, vista
la retroazione ex tunc delle sentenze della Corte, ma sopravvenuto quanto alla sua
riconoscibilità[27].
Svanisce in tal modo quella distinzione tra gli effetti della incostituzionalità di una norma
attributiva, da cui si riteneva di poter desumere la inesistenza dell’atto generato, e quelli di una
norma regolatrice, dalla quale si riteneva invece di poter desumere la invalidità e quindi il regime di
annullabilità[28], così come svanisce qualsiasi scenario di mutamento della giurisdizione, che la
stessa giurisprudenza amministrativa, come già detto, aveva ritenuto che derivasse, quanto alla
incostituzionalità delle norme sulla genesi del potere, dalla inesistenza di questo e quindi dalla
riespansione delle situazioni giuridiche non più di interesse legittimo ma nuovamente di diritto
soggettivo (ed in quanto tale -si diceva- di cognizione del giudice ordinario).
Da questo quadro sembra di poter desumere come la giurisprudenza amministrativa parlando di
«autonomia» del potere esecutivo non abbia voluto legittimare la conservazione di «tutte le
proprietà di imperio del provvedimento (stabilità, continuità, unilateralità, ecc.)»[29] ed un potere
terribile del Governo e delle amministrazioni. La riconducibilità dell’atto amministrativo, emanato
sulla base o in conformità ad una legge incostituzionale, sotto la logica della rimozione formale
attraverso l’esercizio del potere di annullamento del giudice si risolve invece nella valorizzazione
del «processo amministrativo come sede naturale di emersione (e anche di eliminazione) degli
effetti prodotti dalla legge incostituzionale sotto la forma del provvedimento»[30]. Non può negarsi
allora come la logica della «autonomia» abbia virtuosamente dato vita ad un sistema di reazione
costitutiva (perché preordinata all’annullamento) contro tali atti.
Proprio l’autonomia del momento normativo rispetto a quello esecutivo-amministrativo (quindi
l’autonomia della sorte delle norme incostituzionali rispetto agli atti emanati sulla base di tali
norme) tornerà utile, come perno, nell’analisi giurisprudenziale condotta più avanti relativamente
all’illegittimità comunitaria. In questa sede sembra, invece, necessario mettere in evidenza come,
analogamente alla ipotesi della incostituzionalità “indiretta”, l’atto emanato sulla base di una norma
anticomunitaria, nella logica dell’annullabilità, è un atto che deve essere apprezzato come precario
(medio tempore legittimo ed efficace), la cui precarietà è connessa alla precarietà della norma
potenzialmente oggetto della non applicazione; un vizio, anche questa volta, originario quanto alla
decorrenza ma sopravvenuto quanto alla sua riconoscibilità. Tale sopravvenienza si palesa con il
“doppio” contenuto della pronuncia del giudice amministrativo che (1) non applica la norma
anticomunitaria, su cui l’atto si fonda, e (2) annulla conseguentemente l’atto impugnato.
5. La giurisprudenza della Corte di giustizia e la disapplicazione normativa come ultimo “baluardo”
del diritto comunitario
I giudici amministrativi europei, smarriti nel coacervo di problematiche connesse alla specialità
della dimensione comunitaria del vizio, hanno sentito in alcuni casi la necessità di rivolgersi
attraverso il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia; dinanzi a loro stava un dilemma. Si trattava
di capire se le norme processuali relative alla decadenza dei termini di impugnazione dell’atto
amministrativo potessero impedire l’applicazione del diritto comunitario, se il modello
impugnatorio-demolitorio del processo “sull’atto” fosse in grado di resistere alla necessità di
effettività del diritto comunitario. L’illegittimità comunitaria poteva essere qualificata come un
vizio qualunque ed in quanto tale riconducibile nei limiti delle regole della giustiziabilità statale o
poteva essere fatto valere in qualsiasi momento, rilevata d’ufficio, in deroga alla vincolatività dei
motivi del ricorso, ai termini di decadenza e più in generale alla natura del processo
amministrativo? In altre parole la primazia del diritto comunitario imponeva uno snaturamento
officioso del processo o doveva cedere dinanzi al normale funzionamento del sistema
giurisdizionale?
Questo problema si è palesato quando i ricorrenti hanno impugnato tardivamente un atto
amministrativo per illegittimità comunitaria[31] o quando hanno tentato di ampliare il thema
decidendum in appello, prospettando l’illegittimità comunitaria dell’atto impugnato come motivo
nuovo[32]. I giudici amministrativi si sono trovati, così, nell’imbarazzo perplesso e nell’alternativa
(sottoposta alla Corte di giustizia) di non pronunciarsi, secondo il rito, sul vizio lamentato o di
pronunciarsi ex officio, prescindendo dalle regole del proprio processo, in ossequio alla effettiva
applicazione del diritto comunitario; in altre parole si prospettava l’alternativa tra il regime
processuale dell’annullabilità e quello della disapplicazione dell’atto anticomunitario, ossia tra un
regime aderente ad una logica di integrazione ed un regime (apparentemente) evocativo della non
applicazione normativa.
La Corte di giustizia in realtà ha affermato che «in mancanza di disciplina comunitaria in materia,
spetta all’ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire
le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai
singoli in forza delle norme di diritto comunitario aventi effetto diretto»[33]. Si desume più in
generale dalla giurisprudenza europea una sorta di «disimpegno»[34] rispetto alle regole processuali
interne, l’autonomia del sistema processuale statale e l’intangibilità della riserva nazionale sulla
giurisdizione anche quando è in gioco la lesione del diritto comunitario (a mezzo di un atto
amministrativo). La Corte ha, infatti, negato che la disapplicazione dell’atto amministrativo
anticomunitario rappresenti la soluzione processuale “imposta” dall’ordinamento comunitario,
come regime necessario alla effettiva applicazione delle stesse norme comunitarie, potendo così
affermarsi che l’obbligo di leale collaborazione (degli Stati e) di tutti i giudici per il raggiungimento
degli obiettivi comunitari non può esigere un’alterazione del regime normale di giustiziabilità degli
atti amministrativi[35]. Il principio dispositivo appartiene alla natura storica del modello
impugnatorio del processo amministrativo, comune a molti Stati membri[36], potendo così
rappresentare un limite all’esercizio dei poteri officiosi del giudice, anche se indirizzati alla tutela
del diritto comunitario (rectius, alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive sorte sulla base di
una norma comunitaria); nella stessa logica la Corte di giustizia ha affermato che il termine di
decadenza relativo alla impugnazione dell’atto non può mai essere censurato in sé e non lo si può
ritenere un ostacolo per il diritto comunitario[37].
Peraltro questo quadro non può essere messo in discussione neppure da alcuni assunti con cui la
Corte di giustizia ha riconosciuto al potere di disapplicazione uno spazio funzionale, a diversi e
limitati fini.
In un caso, ad esempio, un’autorità amministrativa statale aveva imposto con un atto individuale al
gestore di un porto per imbarcazioni di limitare i posti barca per i proprietari di imbarcazioni
residenti in altro Stato membro; vista la violazione di tale limitazione, al gestore era stata irrogata
una sanzione penale (pecuniaria) contro la quale si oppose. Il giudice competente aveva così
formulato due quesiti in via pregiudiziale, chiedendo (a) se le norme comunitarie sulla libera
prestazione dei servizi non ostassero ad una limitazione in via amministrativa dei posti barca da
concedere in locazione a proprietari comunitari e (b) se il provvedimento amministrativo, una volta
qualificato come anticomunitario, potesse essere disapplicato, pur essendo decorsi i termini di
impugnazione.
La Corte di giustizia, rilevata l’illegittimità della limitazione, ha affermato che i provvedimenti
amministrativi, lesivi della libera prestazione dei servizi, vadano disapplicati nella valutazione della
legittimità della sanzione penale[38]. Risulta evidente come nel caso di specie la configurabilità del
potere di disapplicazione, al di là delle regole del processo impugnatorio, sia ammessa (non
certamente come rimedio “generale” ma) per le conseguenze ulteriori (penali) che la violazione
dell’atto amministrativo stesso può produrre; la disapplicazione dell’atto amministrativo
anticomunitario è infatti limitata all’ipotesi in cui questo rappresenti il presupposto di una sanzione
penale, analogamente a quanto può accadere nel nostro ordinamento quando il giudice penale sia
accorga che la sanzione penale ex art. 650 c.p. (Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità)
dovrebbe fondarsi su un provvedimento o un ordine illegittimo[39].
In un'altra pronuncia, più di recente, la Corte di Lussemburgo ha avuto modo di ricomporre più in
generale, sulla base di assunti già presenti nella giurisprudenza più risalente, il quadro relativo alla
giustiziabilità dell’illegittimità comunitaria, prospettando un potere di disapplicazione speciale (per
la natura della funzione)[40], che in realtà non può dirsi -come si vedrà meglio più avanti- che abbia
ad oggetto specificatamente l’atto amministrativo.
Nel caso di specie il giudice (amministrativo) a quo si trovava nella alternativa di ritenere tardiva
l’impugnazione di un bando di gara contenete condizioni limitative per la gara stessa
(contestualmente alla impugnazione del provvedimento di esclusione) o di rilevare officiosamente,
al di là dei termini di decadenza, l’illegittimità del bando in contrasto con le norme comunitarie in
materia di accesso alla gara[41]. La Corte di giustizia ha ribadito che spetta all’ordinamento
nazionale fissare le modalità relative ai termini di impugnazione per la tutela delle situazioni
giuridiche sorte sulla base del diritto comunitario, tuttavia nel rispetto del principio di equivalenza,
secondo il quale la tutela delle situazioni giuridiche comunitarie non può essere più “debole” della
tutela delle situazioni giuridiche statali, e nel rispetto del principio di effettività, per il quale invece i
sistemi processuali nazionali non devono rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio
delle situazioni giuridiche comunitarie[42].
Nel caso di specie il principio di equivalenza è stato ritenuto rispettato perché il termine di sessanta
giorni (previsto dall’ordinamento italiano) è evidentemente il medesimo per le situazioni giuridiche
sorte sulla base sia di norme comunitarie che statali. Invece «ai fini dell’applicazione del principio
di effettività, ciascun caso in cui si pone la questione se una norma processuale nazionale renda
impossibile o eccessivamente difficile l’applicazione del diritto comunitario deve essere esaminato
tenendo conto, in particolare, del ruolo di detta norma nell’insieme del procedimento nonché dello
svolgimento e delle peculiarità di quest’ultimo». In questa logica la Corte di giustizia ha elaborato
un test di verifica, caratterizzato da una forte concretezza e da una intima adesione al caso della
vita. Proprio nella peculiarità della vicenda è stata rilevata una violazione del principio di effettività
prodotta da un comportamento dell’autorità amministrativa che ha generato una forte incertezza
sulla interpretazione da dare alle clausole del bando recanti talune condizioni rilevatesi “limitative”
(e quindi lesive del diritto comunitario) soltanto ex post, al momento dell’adozione del
provvedimento di esclusione.
La Corte di giustizia ha così affermato un obbligo per il giudice di ritenere ricevibili i motivi di
diritto relativi alla illegittimità comunitaria del bando, anche se tardivamente censurati,
prospettando la praticabilità del potere di disapplicazione. In questa logica può desumersi come è
certamente vero che l’illegittimità comunitaria dell’atto amministrativo deve essere sanzionata
secondo le regole processuali statali (nel rispetto dei termini di decadenza e della natura
impugnatoria del processo amministrativo) ma è altrettanto vero che l’autonomia della giurisdizione
statale deve cedere quando i meccanismi di tutela (anche per ragioni indirette, imputabili al
comportamento dell’amministrazione resistente) non garantiscano il principio di equivalenza e il
principio di effettività.
Il potere di disapplicazione diviene così l’ultimo “baluardo” per il diritto comunitario, lo strumento
processuale di salvaguardia del diritto comunitario dinanzi a talune disfunzioni statali; una sorta di
“contro limite” all’inverso, a presidio dell’ordinamento comunitario in una zona di primazia del
diritto statale. Tuttavia deve precisarsi che in questo caso ad essere disapplicate sono le norme
processuali sulla decadenza, ossia la disciplina nazionale che secondo il modello della annullabilità
esclude la disapplicazione dell’atto amministrativo; in altre parole l’ultimo baluardo del diritto
comunitario, il suo rimedio estremo nei casi di illegittimità comunitaria, dinanzi all’autonomia delle
giurisdizioni statali, è rappresentato pur sempre dalla “non applicazione” di norme. Si tratta in altre
parole di una disapplicazione “normativa” e non “amministrativa” (come rimedio generale,
ordinariamente utilizzabile).
In questo scarto sta il delicato punto di equilibrio tra primato del diritto comunitario e autonomia
processuale statale; il test di verifica caso per caso rappresenta, in sintesi, le colonne d’Ercole oltre
le quali la Corte di giustizia non può avventurarsi e al di là delle quali soltanto il legislatore
comunitario può navigare, promuovendo (potenzialmente) una armonizzazione dei sistemi di
giustiziabilità degli atti amministrativi[43].
Certamente i giudici amministrativi hanno sentito il bisogno che la Corte di giustizia intervenisse a
sciogliere le tensioni tra il primato del diritto comunitario e il funzionamento dei sistemi processuali
statali. Probabilmente un giudice amministrativo più audace nell’animo avrebbe potuto raggiungere
il medesimo risultato di salvaguardia del diritto comunitario prescindendo dall’uso del rinvio
pregiudiziale e utilizzando strumenti interni, quali l’interpretazione conforme delle norme
processuali al diritto comunitario[44] o l’istituto della rimessione in termini per errore
scusabile[45].
Tuttavia non può negarsi come qualsiasi strumento processuale interno, per quanto risolutivo del
caso concreto, avrebbe lasciato zone di incertezza interpretativa intorno al regime dell’atto
amministrativo anticomunitario. Gli interventi della Corte di giustizia hanno invece negato la
possibilità di configurare un potere (-rimedio) generale di disapplicazione dell’atto amministrativo,
in stridente contrasto con la natura del processo impugnatorio. L’uso del rinvio pregiudiziale ha
permesso lo sviluppo di una giurisprudenza europea, alla luce della quale è invece imposta, come
rimedio “ultimo”, soltanto la disapplicazione normativa (della disciplina processuale) nei casi di
violazione dei principi di effettività e di equivalenza.
6. La disapplicazione amministrativa come rimedio “abnorme”
Risulta così evidente che non può esservi una corrispondenza tra la “non applicazione” delle
norme anticomunitarie e la disapplicazione dell’atto amministrativo anticomunitario; la
disapplicazione amministrativa non è un corollario della disapplicazione normativa (così come non
è un rimedio generale imposto dal primato del diritto comunitario), diversamente da quanto hanno
affermato in alcuni casi la dottrina[46] e taluni giudici amministrativi[47]. La disapplicazione
normativa e quella amministrativa hanno certamente una natura diversa, essendo la prima uno
strumento di risoluzione delle antinomie tra fonti del diritto (alla luce di un criterio di competenza
tra ordinamenti) e la seconda invece uno strumento di garanzia del principio di legalità dinanzi ad
un vizio di legittimità di un atto amministrativo (non ritualmente impugnato); tra queste due forme
di disapplicazione non può intercorrere nessuna (necessaria) relazione di “derivazione” giuridica.
Posta allora l’autonomia statale, presupposta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, relativa
alla definizione dei rimedi giurisdizionali per gli atti amministrativi, verrebbe da chiedersi se la
disapplicazione dell’atto anticomunitario, pur non imposta dall’ordinamento comunitario, sia
(comunque) praticabile nel sistema italiano di giustizia amministrativa.
In realtà la risposta sembra dover essere negativa. La disapplicazione amministrativa dell’atto
anticomunitario rappresenta un rimedio assolutamente “abnorme” rispetto alle forme di tutela del
nostro ordinamento; configurerebbe infatti una eccezionale ipotesi di disapplicazione “in via
principale” dell’oggetto del processo, ossia dell’atto impugnato.
Il potere di disapplicazione nasce nel 1865 come unica forma di potere del giudice ordinario nei
confronti dell’atto amministrativo illegittimo (lesivo di diritti soggettivi e incidentalmente rilevante
ai fini della decisione della controversia), non esistendo all’epoca né il giudice amministrativo, né
gli interessi legittimi né il potere di annullamento. L’evoluzione del modello di giustiziabilità del
potere pubblico (intimamente connesso all’evoluzione dello Stato di diritto) ha successivamente
portato alla nascita del giudice amministrativo (la IV sezione del Consiglio di Stato nel 1889) e con
esso al più incisivo e penetrante potere di annullamento degli atti amministrativi. In questo
momento storico il potere di disapplicazione del giudice ordinario ha così fattualmente assunto la
forma di una tutela “minore”, più debole rispetto all’annullamento. Tuttavia dalla metà degli anni
’50 dello scorso secolo la dottrina amministrativista ha tentato una nuova valorizzazione del potere
di disapplicazione prospettandone il suo utilizzo in seno alla giurisdizione amministrativa, come
strumento di ampliamento della tutela (“forte”), al di là delle strettoie del modello “demolitorio”, al
di là della logica stringente dei motivi di impugnazione e al di là della vincolatività del giudice al
contenuto del ricorso; questo tentativo di ampliamento era peraltro connesso ad una progressiva
maturazione dell’idea che l’oggetto del processo amministrativo dovesse essere qualcosa di più
dell’atto impugnato, magari più in generale il rapporto sotteso tra amministrazione e amministrato
(rapporto che avrebbe trascinato con sé nel processo anche altri atti in qualche modo
“connessi”)[48].
In realtà soltanto all’inizio degli anni ’90 la giurisprudenza amministrativa (anche nell’ambito della
giurisdizione di legittimità[49]) ha ammesso l’operatività della disapplicazione dei
regolamenti[50], in ossequio al principio di gerarchia delle fonti[51]. Più specificatamente sono
state due le ipotesi di tale ampliamento: a) quando il ricorrente impugna un atto amministrativo
perché in contrasto con un regolamento, il giudice amministrativo può rilevare d’ufficio
l’illegittimità del regolamento stesso, disapplicandolo; b) quando il ricorrente impugna un atto
amministrativo perché emanato sulla base di un regolamento illegittimo per violazione di legge,
senza però impugnare esplicitamente il regolamento, il giudice amministrativo può comunque
disapplicarlo.
In questi due casi si realizza una dilatazione del thema decidendum, un ampliamento della
cognizione rispetto all’atto impugnato dal ricorrente. Qualcosa di analogo sotto tale profilo, anche
se in ossequio a diverso principio, accade per il giudice ordinario, che può “in via incidentale”
disapplicare (ex art. 5 l. 2248/1865) un atto amministrativo (soltanto) connesso all’oggetto del
processo; peraltro nell’ambito della giurisdizione esclusiva anche il giudice amministrativo,
secondo giurisprudenza ormai consolidata, può disapplicare incidentalmente gli atti amministrativi
(lesivi di diritti soggettivi). In tutte queste ipotesi (pur eterogenee nei loro presupposti) il potere di
disapplicazione non insiste direttamente sull’oggetto del processo ma su un atto presupposto da
esso.
La disapplicazione dell’atto amministrativo anticomunitario rappresenterebbe invece una ipotesi
eccezionale, un forma di disapplicazione “in via diretta”, in generale stravagante rispetto alla logica
della disapplicazione del nostro ordinamento e più specificatamente in stridente contrasto con la
natura del processo amministrativo. Questo è evidente se si pone mente alla disapplicazione dei
regolamenti. Tale potere viene esercitato in una logica di dilatazione (officiosa) dell’oggetto di un
processo regolarmente instaurato, quale estrema conseguenza del principio iura novit curia; quando,
invece, si sostiene la necessità di disapplicare l’atto anticomunitario (quando l’atto sia stato
tardivamente impugnato o quando l’anticomunitarietà sia fatta valere come vizio nuovo) si
vorrebbe, in nome del primato comunitario, prescindere assolutamente dalla corretta instaurazione
del processo amministrativo, dalla perentorietà dei termini di decadenza relativi alla impugnazione
e dalla nozione stessa di inoppugnabilità dell’atto amministrativo[52]. Portando tra l’altro alle
estreme conseguenze questa logica di disapplicazione “diretta”, si dovrebbe ammettere che il
giudice amministrativo, anche quando il vizio di anticomunitarietà non sia richiamato neppure
tardivamente dal ricorrente, potrebbe disapplicare l’atto amministrativo, magari impugnato
semplicemente per violazione di legge (statale); in questo modo il giudice amministrativo potrebbe
andare a caccia degli atti anticomunitari, utilizzando l’impugnazione dell’atto solo come una
“occasione” per una tutela oggettiva di legalità.
In questa logica, provando a generalizzare, il potere di disapplicazione non sarebbe semplicemente
strumentale alla domanda e non riguarderebbe uno dei fondamenti di essa ma sarebbe
straordinariamente esso stesso l’obiettivo di parte, nei casi di tardiva impugnazione, o il fine
oggettivo, nei casi di mancata deduzione dell’illegittimità comunitaria.
Storicamente il processo amministrativo ha subito la pressione di taluni “elementi officiosi”, in
attrito con la stringente configurazione del principio della domanda. Si ricordino, infatti, non solo le
problematiche relative alla configurabilità della disapplicazione (officiosa) dei regolamenti non
ritualmente impugnati ma anche le problematiche relative alla ammissibilità del sollevamento
d’ufficio della questione di costituzionalità e quelle relative alla ammissibilità del potere di
annullamento da parte del giudice dell’atto amministrativo a seguito di una sentenza di illegittimità
costituzionale sulle norme su cui si fonda l’atto stesso, anche se impugnato per vizi diversi. In
questi casi la giurisprudenza ha faticosamente ricercato un punto di equilibrio tra la natura del
processo amministrativo (ossia tra la stringente configurazione del principio iura novit curia[53]) e
la presenza di elementi officiosi (al di là dei motivi di parte), metabolizzando l’operatività di questi
ultimi, attraverso la definizione di “limiti” informati al rispetto del modello processuale. La
disapplicazione “in via principale” dell’atto anti-comunitario sta invece al di fuori del gioco di
bilanciamento tra modello processuale e officiosità; non può essere metabolizzata, rappresentando
non una semplice alterazione di tale modello ma una sua assoluta rottura in senso oggettivo[54]. In
altre parole «fuori» dai limiti del processo di impugnazione fondato sui motivi del ricorso «non c’è
judicium, e quindi per un giudice non dotato di poteri in ordine alla delimitazione dell’oggetto del
giudizio»[55] non è possibile neppure farsi garante del primato del diritto comunitario, come la
stessa giurisprudenza della Corte di giustizia, già richiamata, sembra presupporre[56].
7. La giurisprudenza amministrativa e l’annullabilità come “regola” processuale per l’illegittimità
comunitaria
Nella giurisprudenza amministrativa più recente si è consolidato un “modello” di giustiziabilità
dell’illegittimità comunitaria, caratterizzato da una regola e da una eccezione. Quanto alla regola, il
Consiglio di Stato ha affermato chiaramente che l’atto amministrativo adottato in violazione del
diritto comunitario (illegittimità comunitaria “diretta”) è annullabile «alla stregua degli ordinari
canoni di valutazione della patologia dell’atto», prospettando «l’onere di impugnazione dinanzi al
giudice amministrativo entro il prescritto termine di decadenza, pena la sua inoppugnabilità»[57];
questa ipotesi è analoga, come hanno precisato i giudici di Palazzo Spada, al caso in cui l’atto
amministrativo violi una norma statale di «derivazione comunitaria», ossia quando il parametro di
legalità dell’atto sia rappresentato da un blocco normativo in cui la norma statale vive in diretta
attuazione della norma comunitaria.
Questa giurisprudenza fissa una soluzione processuale nello spazio rilasciato “libero” dalla Corte di
giustizia, alla luce dell’autonomia statale relativa alla individuazione dei rimedi; una soluzione
rispettosa del modello processuale impugnatorio. Non può negarsi peraltro come il regime
dell’annullabilità abbia rappresentato la soluzione dominante anche nella precedente
giurisprudenza[58], dimostratasi ragionevolmente impermeabile alle sirene della disapplicazione
suonate da una parte della dottrina; probabilmente un giudice, che vive nel proprio processo, è
naturalmente portato (diversamente da chi assiste soltanto a quel processo) ad assecondare soluzioni
processuali stabili, non traumatiche, collaudate e rispettose del modello.
Il Consiglio di Stato, però, (anche in ragione delle fattispecie decise) non ha affrontato
esaustivamente la problematica del vizio di illegittimità comunitaria “indiretta”, ossia quando l’atto
sia emanato sulla base di una norma statale anticomunitaria. Tuttavia, quanto all’atto emanato sulla
base di una norma statale anticomunitaria relativa al quomodo di esercizio del potere, non vi sono
ragioni per differenziare il regime processuale da quello della illegittimità comunitaria “diretta”.
Mentre lo stesso Consiglio di Stato, nelle medesime pronunce richiamate, ha affermato, pur
fugacemente, che la «diversa forma patologica della nullità (o dell’inesistenza)» risulta operativa
«nella sola ipotesi» in cui il provvedimento sia adottato sulla base di una norma statale attributiva
del potere incompatibile con il diritto comunitario (ed in quanto tale non applicabile); una ipotesi di
nullità/inesistenza per carenza di potere, che desta, però, come si dirà più avanti, talune perplessità.
In sintesi può parlarsi di un doppio regime; l’annullabilità come regola e la nullità/insistenza come
eccezione[59]. Risulta invece chiara la maturata consapevolezza dei giudici amministrativi sulla
natura “abnorme” della disapplicazione amministrativa[60], come quando si afferma che «il primato
del diritto comunitario, pur costituendo il parametro di legittimità dell’atto amministrativo interno
non snatura l’atto stesso che resta efficace ed esecutivo fino al suo annullamento»[61]; tra l’altro la
disapplicazione amministrativa, invocata da una certa letteratura come il rimedio più efficace a
garanzia del diritto comunitario, rischierebbe, invece, di dar luogo «ad analoghe difformità, per
altro verso, degli stessi principi comunitari», quale quello della concorrenza, di cui è espressione il
correlato principio di affidamento ingenerate dalle clausole di un bando, che si vorrebbe
disapplicato perché anticomunitario[62].
Dalla giurisprudenza amministrativa si desume come il regime della annullabilità, soprattutto
nell’ipotesi di violazione “diretta” delle norme comunitarie, quando si assiste ad una dilatazione
sovranazionale del parametro di legalità, concretizza in sede processuale un rapporto di
«integrazione tra i due ordinamenti (per come definito dalla Corte di giustizia delle Comunità
europee), da giudicarsi preferibile rispetto a quello della loro separatezza e autonomia (per come
descritto dalla Corte costituzionale)»[63]. Il regime di annullabilità svela tutta la debolezza della
teoria della separazione tra gli ordinamenti, presupponendo una sorta di ammissione logica (processuale) di integrazione (del parametro e quindi) degli ordinamenti giuridici; un regime
giuridico che palesa in sede processuale la “contiguità” tra le norme comunitarie e l’atto
amministrativo statale[64], assecondando peraltro l’autonomia del momento esecutivo rispetto al
momento normativo, così come accade nella ipotesi di giustiziabilità dell’atto amministrativo
incostituzionale. Certamente tale autonomia, sul versante del diritto comunitario, genera l’apparente
paradosso secondo il quale le norme anticomunitarie hanno una “resistenza” minore rispetto agli atti
amministrativi anticomunitari, vista l’operatività dopo i sessanta giorni della preclusione
processuale della decadenza. In realtà questo paradosso deve essere relativizzato sulla base di due
considerazioni.
In primo luogo il regime di annullabilità dell’atto amministrativo appartiene, come emerge dalla
giurisprudenza comunitaria, alla tradizione costituzionale comune degli Stati membri; il primato del
diritto comunitario deve estrinsecarsi nei limiti dei modelli giurisdizionali che a quella tradizione
appartengono. In questa logica l’atto amministrativo emanato sulla base di una norma statale vive e
continua a vivere nell’ordinamento giuridico di vita propria rispetto al momento normativo; l’atto
una volta generato si distacca dalla norma per entrare nel sistema dei rimedi di giustiziabilità, nella
logica della annullabilità/inoppugnabilità. Una volta entrato nel sistema, a questo sottostà, con il
solo limite che il sistema, come ha affermato la Corte di giustizia, rispetti alcuni principi (di
effettività e di equivalenza), la cui violazione rende l’inoppugnabilità dell’atto lesiva del diritto
comunitario.
In secondo luogo, secondo ragion pratica, il rischio della preclusione processuale “impegna” anche
il ricorrente a valutare la lesione dei propri interessi alla luce di uno schermo normativo più ampio,
sovranazionale[65]. Questo impegno, connesso naturalmente alla esigenza di tutela degli interessi
lesi, può generare una maggiore circolazione del diritto comunitario nell’ordinamento giuridico[66].
Il processo amministrativo, che diversamente dal processo civile è ancorato ai motivi del ricorso,
può forse indurre anche il soggetto amministrato (ed i suoi avvocati), pena la decadenza, a
conoscere il diritto comunitario, potendo così produrre un effetto potenzialmente virtuoso, una sorta
di effetto “circolatorio”. In questa logica anche al giudice si impone di maneggiare e confrontarsi
(più intensamente) con il diritto comunitario. Può forse affermarsi che il temperamento del primato
del diritto comunitario, che si consuma nel modello (impugnatorio) di giustiziabilità dell’atto, può
trovare nel lungo periodo un proprio bilanciamento nella diffusione della parametricità delle norme
comunitarie.
8. I poteri officiosi del giudice amministrativo e la nullità come (irragionevole)“eccezione”
In realtà anche in una logica di annullabilità dell’atto anticomunitario, pur essendo negato il potere
di disapplicazione amministrativa, residuano degli spazi in cui il giudice amministrativo può
esercitare dei poteri officiosi, ossia “al di là” dei motivi di impugnazione.
Il processo amministrativo, come già detto, tollera delle ragionevoli alterazioni del modello
processuale ed in particolar modo della peculiare configurazione del principio della domanda;
accade, ad esempio, per il sollevamento d’ufficio della questione di legittimità costituzionale
relativa alla norma su cui l’atto si fonda, quando il ricorrente non abbia dedotto tra i motivi quello
di incostituzionalità. Proprio alla luce del punto di equilibrio che la giurisprudenza amministrativa
ha tentato di ricomporre tra le strettoie (soggettive-impugnatorie) del processo amministrativo e la
forza espansiva (officiosa) del sindacato costituzionale, possono essere definiti i margini di
manovra del giudice ai fini dell’annullamento d’ufficio dell’atto amministrativo anticomunitario.
Provando a schematizzare[67], il giudice amministrativo può sollevare d’ufficio la questione di
costituzionalità su una norma quando questa sia richiamata nei motivi del ricorso come parametro di
legittimità dell’atto (anche se manchi tra i motivi una specifica doglianza relativa
all’incostituzionalità); tra l’altro la Corte costituzionale ritiene ammissibili questioni di
costituzionalità su norme non richiamate nei motivi, quando queste siano qualificabili come
“attributive” (o più in generale, “sulla genesi”) del potere amministrativo (si pensi, ad esempio,
all’ipotesi in cui l’atto sia impugnato per violazione di una norma di legge x e il giudice sollevi
questione di costituzionalità su una norma y sulla composizione dell’organo che ha emanato l’atto o
su una norma z sulla attribuzione di tale potere). In senso analogo il giudice, dando seguito in un
giudizio pendente ad una sentenza di illegittimità costituzionale, può annullare (d’ufficio) l’atto
amministrativo emanato sulla base di tale norma quando questa sia comunque richiamata nei motivi
del ricorso, pur mancando una censura specifica; anche nella fase discendente del giudizio
costituzionale i limiti relativi ai motivi del ricorso saltano, quando la norma dichiarata
incostituzionale sia una norma attribuiva.
Alla luce di questo quadro, nell’ipotesi in cui un atto sia impugnato per violazione di legge (statale)
o comunque per un vizio diverso da quello di “anticomunitarietà”, il giudice non può: a) annullare
l’atto per violazione di una norma comunitaria (ossia di una norma diversa da quella utilizzata come
parametro nei motivi del ricorso); b) annullare l’atto perché conforme ad una norma statale sul
quomodo di esercizio del potere, (diversa da quella utilizzata come parametro e) in contrasto con
una norma comunitaria. Il giudice può comunque, in via officiosa: c) rilevare che la norma statale,
utilizzata come parametro dal ricorrente, sia in contrasto con una norma comunitaria e quindi
disapplicare la norma statale. In questo caso il giudice dovrà valutare la legittimità dell’atto alla luce
della norma comunitaria; d) annullare l’atto emanato sulla base di una norma statale attributiva
(anche se diversa da quella utilizzata come parametro dal ricorrente) in contrasto con il diritto
comunitario.
In realtà in questa ultima ipotesi, come anticipato, il Consiglio di Stato, configurando una
“eccezione” alla regola della annullabilità, ha ritenuto operativo il regime della nullità/inesistenza e
quindi una piena dilatazione dei poteri officiosi. Tale regime attribuisce infatti al giudice un potere
di accertamento esercitabile ex officio anche al di là dei termini di impugnazione.
Tuttavia questa “eccezione” desta alcune perplessità, generando una asimmetria rispetto all’ipotesi
in cui un atto amministrativo sia emanato sulla base di una norma attributiva incostituzionale, per la
quale giurisprudenza amministrativa ha ritenuto infatti operativo il regime della mera
annullabilità[68]. In questo caso l’officiosità dei poteri del giudice non scardina i termini di
impugnazione (come accade con la nullità/inesistenza), essendo infatti necessario che l’atto sia
impugnato ritualmente, ma è limitata alla possibilità di annullarlo per un motivo diverso da quelli
contenuti nel ricorso. Vi è così una discrasia tra l’incostituzionalità indiretta e l’illegittimità
comunitaria indiretta, visto che per la prima non è configurabile un doppio regime processuale
(regola/eccezione, rectius, annullabilità/nullità-inesitenza).
La logica della nullità/inesistenza non convince per una serie di ragioni. In primo luogo non
convince l’assimilazione della nozione di nullità a quella di inesistenza, due categorie maneggiate in
modo fungibile. In una logica profondamente diversa la l. 15/2005, introducendo nella l. 241/1990
un Capo IV bis sulla “Efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo. Revoca e recesso”,
ha positivizzato il vizio di nullità (per mancanza degli elementi essenziali, per difetto assoluto di
attribuzione, per violazione del giudicato, salvo altri casi normativamente previsti), presupponendo
una differenza con la categoria della inesistenza, in ossequio alle risalenti riflessioni scientifiche di
Ascarelli[69]. L’atto inesistente è l’atto che non solo non produce effetti giuridici ma neppure effetti
materiali, mentre l’atto nullo, pur non potendo produrre effetti giuridici per la mancanza di elementi
propri essenziali, può produrre effetti materiali, generando una sorta di realtà fittizia, rimovibile
attraverso una azione di accertamento.
La giurisprudenza amministrativa, nel caso preso in esame, avrebbe allora dovuto parlare,
coerentemente alla propria impostazione, (soltanto) di inesistenza e non di nullità per “difetto
assoluto di attribuzione”, ritenendo che con la norma attributiva disapplicata venga meno il
presupposto del potere. Nella nozione di “difetto assoluto di attribuzione” sono infatti riconducibili
le ipotesi della incompetenza assoluta, ossia quando una amministrazione esercita una funzione
propria di altro potere dello stato (legislativo/giurisdizionale) o una funzione di cui è titolare
un’altra amministrazione radicalmente diversa, ma non l’ipotesi della carenza in astratto di potere,
ossia quando una amministrazione esercita un potere in mancanza nell’ordinamento di una norma
attributiva.
A parer nostro, però, l’illegittimità che investe l’atto emanato sulla base di una norma attributiva
anticomunitaria non è riconducibile alla carenza in astratto di potere e quindi al regime della
inesistenza. La dottrina che ha legittimato l’asimmetria con il caso in cui l’atto sia emanato sulla
base di una norma attributiva incostituzionale (per cui varrebbe il regime dell’annullabilità) ha
affermato che la norma (attributiva) in contrasto con il diritto comunitario, in quanto disapplicabile,
è da considerarsi tamquam non esset, così che l’atto amministrativo dovrebbe considerarsi adottato
sulla base di un potere inesistente ab origine, mentre la norma (attributiva) in contrasto con la
Costituzione produce effetti (anche se precari) fino all’annullamento da parte della Corte
costituzionale, dovendo ritenersi che il potere nel momento in cui è stato adottato era esistente e
conforme ad una norma di legge vigente[70] (quindi viziato soltanto per sopravvenienza della
illegittimità costituzionale); solo in questa ultima ipotesi dovrebbe ritenersi operativo il regime di
annullabilità (per illegittimità “sopravvenuta”).
In altre parole, si vorrebbe far discendere, relativamente alle norme attributive del potere, un
diverso regime processuale degli atti (anticomunitari e incostituzionali) alla luce della diversa
risoluzione delle antinomie intercorrenti, da una parte, tra le norme statali e la Costituzione e,
dall’altra, tra le norme statali e il diritto comunitario. In realtà una norma statale (attributiva del
potere) in contrasto con una norma comunitaria rimane esistente e potenzialmente efficace fino al
momento della disapplicazione da parte del giudice comune, così come una norma lesiva della
Costituzione rimane esistente ed efficace fino al momento dell’annullamento da parte della Corte.
La stessa Corte costituzionale nella nota sentenza 170/1984 ha affermato che l’effetto connesso alla
vigenza del diritto comunitario è quello di «impedire» che la norma statale «venga in rilievo per la
definizione della controversia innanzi al giudice nazionale»; fino al momento processuale non si
può negare che possa produrre effetti, non essendo una norma «affetta da alcuna nullità». Peraltro
anche dopo essere puntualmente “non applicata” ai limitati fini di una controversia, la norma
anticomunitaria continua a vivere e a poter produrre effetti ad altri fini. Il potere di risoluzione delle
antinomie riconosciuto diffusamente al giudice comune presuppone che le norme antinomiche siano
entrambe efficaci, perché se così non fosse non vi sarebbe antinomia. In questa logica l’atto adottato
sulla base di una norma che si rivelerà soltanto ex post incostituzionale o anticomunitaria è un atto
adottato, al momento della emanazione, sulla base di un potere previsto da una norma e non in
assenza (assoluta) di una norma attributiva. Non può parlarsi di una ipotesi di carenza assoluta di
potere. Gli atti amministrativi emanati sulla base di una norma anticomunitaria, applicata
dall’amministrazione procedente e quindi efficace fino alla sua disapplicazione (ed anche un istante
dopo il momento stesso della disapplicazione), non sono fantasmi giuridici, ma frammenti di poteri
da rimuovere (in quanto annullabili) attraverso la logica della impugnazione[71].
In altre parole, «la conclusione a cui arriva il Consiglio di Stato appare troppo drastica (...)», anche
perché «la disapplicazione della norma interna non determina di regola una situazione di carenza di
potere, stante la presenza di atti normativi comunitari “a monte” di quelli nazionali disapplicati, che
ritornano ad essere il diretto parametro di legittimità dei provvedimenti nazionali»[72].
Per di più la soluzione della nullità rischia di minare il principio di affidamento ed il principio di
certezza delle situazioni giuridiche pubbliche, visto che gli atti sarebbero (precari ed) eliminabili in
qualsiasi momento, anche a distanza di molti anni dall’adozione.
9. L’autotutela amministrativa dinanzi alla illegittimità comunitaria: un ulteriore limite per il
primato del diritto comunitario
Il primato del diritto comunitario, sul piano dell’attività amministrativa, non incontra soltanto il
limite delle forme di tutela giurisdizionale, come visto fino ad ora, ma anche quello relativo alla
(auto)tutela amministrativa. Il vizio della illegittimità comunitaria non soltanto non può legittimare
uno snaturamento del processo amministrativo, conferendo al giudice poteri “straordinari” (come
quello della disapplicazione amministrativa) ma non può neppure obbligare l’Amministrazione a
rimuovere l’atto scoperto viziato ex post.
Il Consiglio di Stato, in realtà, era giunto in passato ad affermare che l’annullamento d’ufficio
dell’atto amministrativo anticomunitario dovesse configurarsi (straordinariamente) come un potere
«vincolato»[73], sul presupposto che l’unico limite alla irruzione del diritto comunitario nel nostro
ordinamento fosse rappresentato dai principi fondamentali e dai diritti inviolabili della persona
umana[74]; i principi relativi all’annullamento d’ufficio, non avendo il medesimo rango
costituzionale, avrebbero dovuto così soccombere. L’annullamento in autotutela dinanzi
all’illegittimità comunitaria non rispondeva in questa logica «ad una mera esigenza di ripristino
della legalità (del tipo di quella delineabile nelle altre ipotesi di autotutela amministrativa) ma»
costituiva «l’adempimento di un preciso obbligo internazionale legittimamente assunto dallo Stato
italiano alla stregua dell’art. 11 Cost. rispetto al quale le eventuali implicazioni correlate a situazioni
interne di diritto non possono assumere rilevanza»[75].
Tuttavia nella giurisprudenza amministrativa si erano già palesati indirizzi discordanti[76], prima
che intervenisse di recente una pronuncia della Corte di giustizia[77], che ha fatto chiarezza sulla
problematica. Nel caso di specie si era chiesto in via pregiudiziale alla Corte se una
amministrazione pubblica fosse obbligata a rimuovere un proprio provvedimento definitivo quando
una successiva sentenza della stessa Corte avesse palesato l’erroneità della interpretazione di una
norma comunitaria sulla base della quale era stato emanato. La risposta è stata negativa. Il potere di
autotutela amministrativa non si trasforma da potere discrezionale a potere vincolato quando l’atto
amministrativo è viziato (non per illegittimità statale ma) per illegittimità comunitaria; in questa
prospettiva, anche dinanzi a questo vizio “speciale”, l’annullamento d’ufficio rimane subordinato
alla valutazione della sussistenza di un interesse pubblico alla rimozione, alla ponderazione
dell’interesse pubblico con gli interessi privati in gioco, alla ponderazione del valore della certezza
del diritto e dell’affidamento, che rappresentano principi generali dell’ordinamento comunitario. I
presupposti del potere di autotutela non possono risolversi così nel mero accertamento della
illegittimità comunitaria[78]. Peraltro questo modello ricalca la natura dell’annullamento d’ufficio,
come ricostruito dalla giurisprudenza in relazione alle amministrazioni comunitarie, da cui può
chiaramente desumersi l’insufficienza del mero vizio ai fini della rimozione[79].
Non può negarsi, però, come la Corte di giustizia abbia avuto premura di precisare come sia
rilevabile una “deroga” (alla regola della discrezionalità dell’autotutela), a presidio dell’effettività
del diritto comunitario, prospettando un obbligo alla rimozione sulla base di quattro condizioni: 1) il
diritto nazionale deve riconoscere all’amministrazione la possibilità di riesaminare la decisione
divenuta definitiva; 2) la decisione deve aver acquisito carattere definitivo in seguito ad una
sentenza di un giudice non appellabile; 3) tale sentenza deve fondarsi su una interpretazione del
diritto comunitario rivelatasi erronea alla luce di una pronuncia successiva della Corte di
giustizia[80]; 4) l’interessato deve presentare una richiesta di riesame[81].
Questa logica “principio-deroga” (ossia, discrezionalità/obbligatorietà dell’autotutela) evoca il
modello che la giurisprudenza comunitaria ha ricostruito relativamente alla giustiziabilità degli atti
amministrativi anticomunitari, rispetto ai quali pur avendo negato la doverosità della
disapplicazione amministrativa (ribadendo l’autonomia processuale statale) ha ammesso la
doverosità della disapplicazione normativa della disciplina processuale, quale “ultimo baluardo” in
casi estremi; una logica che esprime la continua ricerca da parte della Corte di giustizia di un punto
di equilibrio tra l’autonomia dei sistemi giustiziali (giurisdizionali e amministrativi) degli Stati
membri ed il primato del diritto comunitario. Un primato che si affievolisce nel “momento
amministrativo”, autonomo rispetto a quello “normativo”, per poi riemergere nelle “deroghe”
(obbligatorietà dell’autotutela e disapplicazione normativa), quando la Corte, in casi limite, ritiene
non tollerabile la sopravvivenza della illegittimità comunitaria.
[1] La medesima considerazione non vale certamente per la letteratura amministrativista, come
emerge dalle notazioni bibliografiche di seguito indicate. Per un’ampia ricostruzione della
problematica si veda il lavoro monografico di R. MUSONE, Il regime di invalidità dell’’atto
amministrativo anticomunitario, Napoli, 2007.
[2] La problematica dell’illegittimità comunitaria, in entrambe le ipotesi, presuppone la efficacia
diretta delle norme comunitarie (siano esse contenute in un regolamento, in una direttiva self
executing o nel Trattato stesso), ossia la loro idoneità a fungere (direttamente o indirettamente) da
parametro di legalità. Quanto, invece, alla potenziale parametricità delle norme non self executing
cfr. nota 58.
[3] Questa l’impostazione di G. GRECO, Incidenza del diritto comunitario sugli atti amministrativi
italiani, in M.P. CHITI, G. GRECO, Trattato di diritto amministrativo europeo, Milano, 2007, 936
ss. Cfr. più di recente M.P. CHITI, L’invalidità degli atti amministrativi per violazioni di
disposizioni comunitarie e il relativo regime processuale, in Dir. amm., 2003, 687 ss.
[4] Di illegittimità “indiretta” o “derivata” potrebbe parlarsi prima facie anche nel caso in cui l’atto
amministrativo sia in contrasto con una norma statale applicativa di una norma comunitaria.
Tuttavia questa ipotesi sembra essere maggiormente affine allo schema della illegittimità “diretta”,
con la mera differenza che la norma statale fa blocco con la norma comunitaria nella configurazione
del parametro di legittimità.
[5] Cfr., ad esempio, l’espressione (se pur generale) di G. LAURICELLA, L’«incostituzionalità»
dell’atto amministrativo, Milano, 1999.
[6] V. ONIDA, Sulla «disapplicazione» dei regolamenti incostituzionali (a proposito della libertà
religiosa dei detenuti), in Giur. cost., 1966, 1036.
[7] Una prima teorizzazione della categoria della incostituzionalità dell’atto amministrativo si legge
già in H. KELSEN, La giustizia costituzionale, Milano, 1981, 19, secondo cui: «le leggi
costituzionali in senso formale (…) regolano non solo il procedimento legislativo ma direttamente
anche altri oggetti particolarmente importanti, per i quali appare desiderabile una disciplina salda e
sottratta a troppo facili cambiamenti. In questi casi la concretizzazione del diritto nell’atto
individuale di applicazione ha luogo direttamente in base alla legge costituzionale, senza che tra
quest’ultima e il concreto atto amministrativo s’inserisca una legge ordinaria. L’atto amministrativo
pertanto reca in sé immediatamente il carattere della costituzionalità o della incostituzionalità».
[8] Nella giurisprudenza amministrativa dopo la nota pronuncia dell’Adunanza plenaria, 8 aprile
1963 n. 8, in Giur. cost., 1963, 1214 ss., in cui si parlava di «vizio riflesso», è ormai consolidata la
categoria della invalidità «derivata» (o «sopravvenuta»). Cfr. Cons. St., sez. IV, 11 febbraio 2004,
n. 551, in Foro amm-Cons. St., 2004, 387; Tar Campania, 26 marzo 2003, n. 2970 in Trib. amm.
reg., 2003, 2134 ss.; Cons. St., sez. VI, 7 luglio 1995, n. 663, in Cons. St., 1995, I, 1100; Cons. St.,
sez. VI, 20 novembre 1986, n. 855, in Foro amm., 1986, 2468 ss.; Tar Puglia, 30 settembre 1982, n.
410, in Foro amm., 1983, I, 2455; Tar Lazio, sez. III, 9 giugno 1980, n. 583, in Trib. amm. reg.,
1980, 2308 ss.; Cons. gius. amm., 11 luglio 1962, n. 281, in Foro it., 1962, III, 245 ss. In dottrina
cfr. M. MAGRI, La legalità costituzionale dell’Amministrazione, Milano, 2002, 103 ss., 344 ss.; G.
LAURICELLA, L’«incostituzionalità» dell’atto ammnistrativo, cit., 43 ss.; F. DELFINO, La
dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi, Napoli, 1970, 147 ss.; V. ANDRIOLI,
Incidenza della pronuncia di incostituzionalità della legge sul giudizio amministrativo pendente, in
Dem. dir., 1962, 105; F. MODUGNO, Esistenza della legge incostituzionale e autonomia del potere
esecutivo, in Giur. cost., 1963, 1724 ss.; A. ROMANO, Pronuncia di illegittimità costituzionale di
una legge e motivo di ricorso giurisdizionale amministrativo, in Foro amm., 1964, 139 ss.; V.
ONIDA, Pubblica amministrazione e costituzionalità delle leggi, Milano, 1967, 209 ss.; ID.,
Conseguenze processuali della dichiarazione di ilegittimità costituzionale di una legge attributiva di
potestà alla Pubblica amministrazione, in Giur. it., 1966, I, 1025 ss.; A. CERVATI, Gli effetti della
pronuncia di incostituzionalità delle leggi sull’atto amministrativo, in Giur. cost., 1963, 1214 ss.; C.
ESPOSITO, Inesistenza o illegittima inesistenza di uffici ed atti amministrativi per effetto della
dichiarazione di illegittimità costituzionale di norme organizzatorie?, in Giur. cost., 1960, 330 ss.;
F. FENUCCI, Giudicato implicito ed impliciti effetti della dichiarazione di illegittimità
costituzionale delle leggi sugli atti amministrativi, in Giur. cost., 1981, 1990 ss.; G. BORZELLINO,
Illegittimità costituzionale di norme e validità di atti amministrativi, in Foro amm., 1962, 13 ss.; R.
PEREZ, I vizi dell’atto amministrativo conseguenti alla pronuncia di incostituzionalità delle leggi,
in Foro it., 1964, III, 364 ss.; C. ANELLI, Riflessi sul processo amministrativo della dichiarazione
di illegittimità costituzionale delle leggi, in Rass. dir. pubbl., 1967, 358 ss.; A.M. SANDULLI,
Illegittimità delle leggi e rapporti giuridici, in Stato sociale, 1966, 107 ss.
[9] In una diversa prospettiva tale raffronto può leggersi anche in G. COCCO, Le «Liaisons
dangereuses» tra norme comunitarie, norme interne e atti amministrativi, in Riv. it. dir. pubbl. com.,
1995, 683 ss.
[10] L’ipotesi che la lite (portata davanti al giudice a quo) consti della sola questione di legittimità
costituzionale fu prospettata in dottrina per la prima volta da V. ANDRIOLI, Profili processuali del
controllo giurisdizionale sulle leggi, in Atti del I Convegno internazionale di diritto processuale
civile (1950), Padova, 1953, 53 dell’estratto. Cfr. anche F. MAZZIOTTI DI CELSO, Osservazioni
sulla impugnabilità degli atti amministrativi per sole questioni di costituzionalità e sul presunto
dovere della pubblica amministrazione di conformarsi alle leggi ritenute incostituzionali, in Rass.
dir. pubbl., 1962, 569 ss.
[11] G. LEONE, Potere giudiziario e Corte di garanzia costituzionale, in La nuova costituzione
italiana, Roma, 1947, 195 ss. Sul tema cfr. M. MASSA, Problemi e modelli del sindacato sui
regolamenti amministrativi, Tesi di dottorato di ricerca in Giustizia costituzionale e diritti
fondamentali, Pisa, 2005, 25 ss.
[12] Cfr. R. GAROFOLI, Annullamento di atto amministrativo contrastante con norme Ce self
executing, in Urb. app., 1997, 338 ss.
[13] Le norme sulla “genesi” del potere (o più specificatamente “attributive”) sono quelle che
afferiscono al radicamento delle funzioni pubbliche (quali sono, ad esempio, quelle relative alla
istituzione, alla competenza o alla composizione dell’organo competente) mentre le norme sul
quomodo del potere ne disciplinano le regole di funzionamento (rievocando la categoria più classica
delle “norme di azione”).
[14] Cfr. G. GRECO, Fonti comunitarie e atti amministrativi italiani, in Riv. it. dir. pubbl. comunit.,
1991, 37.
[15] Tar Piemonte, 8 febbraio 1989, n. 34, in Giur. it., 1989, III, 148 ss. Su questa pronuncia cfr. R.
CARANTA, Inesistenza (o nullità) del provvedimento adottato in forza di norma nazionale
contrastante con il diritto comunitario?, in Giur. it., 1989, III, 149 ss.; L. TORCHIA, Il giudice
disapplica ed il legislatore reitera: variazioni in tema di rapporti tra diritto comunitario e diritto
interno, in Foro it., 1990, III, 203 ss.; R. MURRA, Contrasto tra norma nazionale e norma
comunitaria: nullità assoluta degli atti amministrativi di applicazione della norma nazionale?, in
Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1991, 200 ss.; G. CAFAGNO, L’invalidità degli atti amministrativi
emessi in forza di legge contraria a direttiva CEE immediatamente applicabile, in Riv. it. dir. pubbl.
com., 1990, 359 ss.
[16] Cfr. Cons. St., sez. VI, 10 febbraio 1960, n. 51, in Cons. St., 1960, I, 271 ss.; Id., 13 aprile
1960, n. 241, in Mass. amm., 1960, II, 288; Id., 8 marzo 1961, n. 234, in Foro amm. 1961, I, 1071
ss. Questa giurisprudenza assumeva come punto di partenza delle proprie argomentazioni la
pacifica retroazione della dichiarazione di incostituzionalità a partire dal giorno successivo alla
pubblicazione della sentenza e quindi la definitiva eliminazione della norma dall’ordinamento. Nei
casi di specie intervenuta la illegittimità costituzionale di una norma istitutiva di un ufficio, gli atti
emanati si consideravano come mai venuti ad esistenza.
[17] Cfr. Id., 30 maggio 1962, n. 454, in Foro it., 1962, III, 263 ss. Secondo questo indirizzo una
dichiarazione di incostituzionalità di una norma attributiva di un potere determina il difetto di
giurisdizione a conoscere del ricorso proposto contro l’atto emanato sulla base di tale norma perché
verrebbe meno lo stesso potere discrezionale attribuito alla amministrazione, sul presupposto che la
situazione soggettiva non dovrebbe più considerarsi come di interesse legittimo ma di diritto
soggettivo. Tale riespansione degli interessi legittimi produrrebbe uno spostamento di giurisdizione
dal giudice amministrativo a quello ordinario. Questa giurisprudenza appare ancor più «radicale» di
quella secondo la quale il ricorso sarebbe improcedibile, rimanendo infatti in quest’ultima
prospettiva sussistente la giurisdizione amministrativa. Così fa notare F. MODUGNO, Esistenza
della legge incostituzionale, cit., 1728.
[18] F. LA VALLE, La retroazione della pronuncia di incostituzionalità, cit., 885.
[19] Su tale problematica cfr. F. MODUGNO, Esistenza della legge incostituzionale e autonomia
del «potere esecutivo», cit., 1735 ss.; A. CERVATI, Gli effetti della pronuncia di incostituzionalità,
cit., 1214 ss.; V. ONIDA, Illegittimità cstituzionale di leggi limitatrici di diritti e decorso del
termine di decadenza, in Giur. cost., 1965, 528.
[20] Cfr. R. CARANTA, Inesistenza (o nullità) del provvedimento amministrativo, cit., 153 ss.
[21] Corte cost., 8 luglio 1984, n. 170, in Giur. cost., 1984, 1222.
[22] Cfr. M.P. CHITI, Diritto amministrativo europeo, Milano, 2004, 467; ID., I signori del diritto
comunitario: la Corte di giustizia lo sviluppo del diritto amministrativo europeo, in Riv. trim. dir.
pubbl., 1991, 824 ss.; ID., L’invalidità degli atti amministrativi per violazioni di disposizioni
comunitarie e il relativo regime processuale, cit., 689 ss.
[23] Tra l’altro risulta evidente come la disapplicazione di un atto amministrativo (al di là della
preclusione dei sessanta giorni quale termine del ricorso) sia maggiormente risolutiva della
disapplicazione normativa, visto che la prima nella sua dimensione inter partes esaurisce l’efficacia
dell’atto, non residuando effetti ulteriori per il futuro; diversamente le norme disapplicate, pur
ridotte ad inefficacia nel giudizio, rimangono in vigore, potenzialmente produttive di effetti ad altri
fini.
[24] M. ANTONIOLI, Inoppugnabilità e disapplicabilità degli atti amministrativi, in Riv .it. dir.
pubbl. com., 1999, 1375.
[25] Sulla negazione della categoria della inesistenza cfr. Cons. St., 1 marzo 2001, n. 1153, in Cons.
St., 2001, I, 524 ss.; Tar Lazio, 22 ottobre 1997, n. 1591, in Foro amm., 1998, 1859 ss.; Cons. St.,
sez. VI, 21 gennaio 1993, n. 62 in Cons. St., 1993, I, 92; Tar Lazio, 9 giugno 1980, n. 583, in Trib.
amm. reg., 1980, I, 2308 ss.; Cons. gius. amm., 30 novembre 1977, n. 193, in Cons. St., 1977, 1766
ss.; Cons. St., sez. VI, 5 giugno 1970, n. 496, in Giur. it., 1970, 48 ss.; Id., sez. IV, 29 settembre
1966, n. 630, in Cons. St., 1966, I, 143 ss.
[26] Nella accezione tradizionale la dottrina ha parlato di illegittimità sopravvenuta riferendosi ad
un atto «che al momento della sua emanazione sia accompagnato da tutti i suoi elementi, in altre
parole che sia privo di vizi; che successivamente alla sua emanazione, si trovi ad essere non più
conforme all’ordinamento, che di conseguenza sia suscettibile di essere annullato, purchè la sua
efficacia non sia completamente esaurita». Così si esprime S. ROMANO, Scritti minori, II,
Osservazioni sulla invalidità successiva degli atti amministrativi, 1950, 338. In questa logica si può
affermare in modo analogo che l’atto emanato sulla base di una norma dichiarata illegittima era in
realtà legittimo al momento della sua emanazione e in difformità all’ordinamento soltanto dopo la
pronuncia della Corte costituzionale. In modo più specifico uno dei primi autori che ha utilizzato
tale categoria per il caso in esame è A.M. SANDULLI, La giustizia costituzionale in Italia, in Giur.
cost., 1961, 844 ss., secondo cui «per quanto riguarda gli atti non giurisdizionali, e in particolare gli
atti amministrativi, il ius superveniens inerente alla dichiarazione di illegittimità delle norme, sul
presupposto delle quali essi vennero emanati, comporta che gli atti stessi siano da considerare
viziati per illegittimità sopravvenuta». Sul punto v. anche F. LA VALLE, La retroazione della
pronuncia di costituzionalità, cit. 888, per quanto questo Autore, come già detto, utilizzi la categoria
della illegittimità sopravvenuta limitatamente agli effetti della dichiarazione di incostituzionalità di
una norma sul quomodo del potere e non sulla genesi del potere (rispetto alla quale utilizza invece
la categoria di inesistenza sopravvenuta). Sulla nozione di illegittimità sopravvenuta si sofferma
anche F. MODUGNO, Esistenza della legge incostituzionale e autonomia del «potere esecutivo»,
cit., 1751 ss. In una accezione scettica verso questa categoria cfr. R. PEREZ, I vizi dell’atto
amministrativo conseguenti alla pronuncia di incostituzionalità delle leggi, cit., 364 e gli autori
citati in quest’ultimo lavoro.
[27] In senso critico si veda l’analisi di V. ONIDA, Pubblica amministrazione, cit., 209, che parla
di una antinomia, «poiché non si può logicamente sfuggire all’alternativa tra l’affermazione della
legittimità (originaria) dell’atto e l’affermazione invece della sua (pure originaria) illegittimità».
[28] Questa è l’impostazione di F. LA VALLE, La retroazione della pronuncia di incostituzionalità,
cit., 885.; N. LIPARI, Orientamenti in tema di effetti delle sentenze, cit., 2253 ss. Contra cfr. A.
CERVATI, Gli effetti della pronuncia di incostituzionalità, cit., 1219 ss.
[29] M. MAGRI, La legalità costituzionale dell’Amministrazione, cit., 119.
[30] ID., La legalità costituzionale dell’Amministrazione, cit., 119. Per altro lo stesso V. ONIDA,
Pubblica amministrazione, cit., 192, riconosce, pur in una diversa prospettiva, la fondatezza di tale
autonomia (una «forza giuridica propria» del provvedimento) sul presupposto che «le vicende
dell’atto amministrativo si svolgono secondo le regole ad essi proprie, del tutto indipendenti da
quelle secondo cui si svolgono le vicende degli atti legislativi, dalle cui disposizioni pure si
desumono il fondamento e la disciplina normativa dell’atto amministrativo medesimo».
[31] Corte giust., 27 febbraio 2003, C-327/2000, Santex (su cui cfr. C. LEONE, Disapplicabilità
dell’atto amministrativo in contrasto con la disciplina comunitaria? Finalmente una parola chiara
dalla Corte di giustizia, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2003, 898 ss.; M.P. CHITI, L’invalidità degli atti
amministrativi, cit., 687 ss.); Id., 5 giugno 1977, C-33/76, Rewe.
[32] Id., 14 dicembre 1995, C-312/93, Peterbroeck (su cui cfr. E.M. BARBIERI, Potere del giudice
amministrativo e diritto comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1996, 692 ss. e E. RUSSO, E’
sempre “diffuso” il controllo il controllo di conformità al diritto comunitario ad opera del giudice
nazionale?, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1996, 701 ss.); Id., 14 dicembre 1995, cause riunite C430/93 e C-431/98, Van Scjndel (su cui cfr. R. CARANTA, Impulso di parte e iniziativa del giudice
nell’applicazione del diritto comunitario, in Giur.it., 1996, I, 1289 ss.).
[33] Id., 14 dicembre 1995, C-312/93, Peterbroeck .
[34] G. COCCO, Incompatibilità comunitaria degli atti amministrativi. Coordinate tecniche e
applicazioni pratiche, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2001, 448.
[35] Cfr. Corte giust., 1 settembre 1999, C-126/1997, Echo Swiss Time.
[36] Cfr. Id., 14 dicembre 1995, cause riunite C-430/93 e C-431/98, Van Scjndel.
[37] Cfr. Id., 12 dicembre 2002, C-470/99, Universale-Bau; Id., 14 dicembre 1995, C-312/93,
Peterbroeck .
[38] Id., 29 aprile 1999, C-224/97, Ciola.
[39] Così E.M. BARBIERI, Ancora sulla disapplicazione di provvedimenti amministrativi
contrastanti con il diritto comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2000, 153. In senso analogo
cfr. C. LEONE, Disapplicabilità dell’atto amministrativo, cit., 901; G. COCCO, Incompatibilità
comunitaria degli atti amministrativi, cit., 460.
[40] Corte giust., 27 febbraio 2003, C-327/2000, Santex
[41] Per un commento dell’ordinanza di rinvio (Tar Lombardia, 8 agosto 2000, n. 234) cfr. C.
LEONE, Diritto comunitario e atti amministrativi nazionali, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2000, 175
ss.; A. CRISAFULLI, Disapplicazione del bando di gara: tra Corte di giustizia e giurisdizione
esclusiva, in Urb. app., 2000, 1243 ss.
[42] Cfr. R. GIOVAGNOLI, L’atto amministrativo in contrasto con il diritto comunitario: il regime
giuridico e il problema dell’autotutela decisoria, in Gius. amm., 2004, 908 ss.; G. GRECO,
Effettività del diritto amministrativo nel sistema comunitario (e recessività nell’ordinamento
nazionale?), in Dir. amm., 2003, 284 ss.; M.P. CHITI, L’invalidità degli atti amministrativi, cit.,
687 ss.; E. FERRARI, La Corte di giustizia indica al giudice amministrativo una terza via tra
perentorietà del termine di impugnazione e disapplicazione dei provvedimenti amministrativi, in
Foro it., 2003, IV, 477 ss.
[43] E. CHITI, Il potere del giudice nazionale di sollevare d’ufficio le questioni di diritto
comunitario, in Giorn. dir. amm., 1997, 639.
[44] Infatti i giudici amministrativi avrebbero potuto semplicemente interpretare le norme
processuali statali “alla luce” del diritto comunitario, ritenendo nel caso di specie il bando di gara
non lesivo del diritto comunitario ed individuando così il dies a quo del decorso dei termini di
impugnazione (non nel momento di adozione del bando ma) nel momento di adozione del
provvedimento di esclusione (Cfr. R. GIOVAGNOLI, L’atto amministrativo in contrasto con il
diritto comunitario: il regime giuridico e il problema dell’autotutela decisoria, in Gius. amm., 2004,
911). In un senso analogo va la giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha tentato di fissare un
discrimine tra clausole escludenti e clausole non escludenti del bando di gara, rilevando come
solitamente il bando di gara, quale atto amministrativo generale, non sia idoneo a spiegare effetti
lesivi diretti (escludenti), potendo così essere impugnato contestualmente all’atto applicativo (Cfr.
Cons. St., Ad. Pl., 9 gennaio 2003, n. 1, in Cons. Stato, 2003, I, 1801 ss.); in tale logica vengono
meno le ragioni stesse della disapplicazione.
[45] La Corte di giustizia, prospettando la via (estrema) della disapplicazione delle norme
processuali sulla decadenza, ha dato rilievo decisivo al comportamento dell’Amministrazione che
può generare incertezza sulla attualità della lesione di un atto amministrativo (oscurandone il
momento di concretizzazione); una analoga valorizzazione del comportamento
dell’Amministrazione può essere letta proprio nella giurisprudenza amministrativa che ha ritenuto
di rimettere in termini il mancato ricorrente che non può conoscere ex ante l’effettività della lesione.
Cfr. Cons. St., 23 novembre 2000, n. 6233, in Foro amm., 2000, 3572, che individua i presupposti
dell’errore scusabile nelle difficoltà interpretative relative alla norma da applicare, nella mancanza
di un diritto vivente e nella presenza di comportamenti dell’Amministrazione in grado di generare
equivoci. In senso analogo cfr. Cons. St., 30 marzo 2002, n. 1882, in www.giustiziaamministrativa.it. A tal proposito deve ricordarsi come autorevole dottrina, per quanto rimasta
inascoltata dalla giurisprudenza, abbia prospettato il medesimo rimedio per il vizio della
incostituzionalità dell’atto amministrativo, nelle ipotesi in cui la sentenza di illegittimità
costituzionale relativa alla norma su cui l’atto amministrativo è emanato sopravvenga alla scadenza
dei termini di impugnazione; una soluzione informata ad una esigenza di giustizia sostanziale, che
si risolve in un indebolimento della nozione di rapporto esaurito. Questa la ipotesi prospetta da G.
GUARINO, Abrogazione e disapplicazione delle leggi illegittime, in Jus, 1951, 134, ripresa anche
da P. BARILE, La parziale retroattività delle sentenze della Corte costituzionale in una pronuncia
sul principio di eguaglianza, in Giur. it., 1960, I, 914, e da A. ROMANO, Pronuncia di illegittimità
costituzionale, cit., 141.
[46] Cfr. M.P. CHITI, Diritto amministrativo europeo, Milano, 1999, 355, secondo cui «va
richiamato il principio di disapplicabilità anche nel contesto del regime di invalidità degli atti
amministrativi nazionali contrastanti con il diritto comunitario. In tal senso, la disapplicabilità
risulta un potere/dovere generale esercitabile nei confronti degli atti amministrativi nazionali
contrastanti con qualsiasi atto comunitario immediatamente applicabile (……). Se tali effetti,
rapportati ai caratteri degli atti normativi, sono oramai pacificamente accolti per le leggi malgrado
lo stravolgimento che ciò comporta per il sistema costituzionale delle fonti ed il relativo processo
costituzionale, per coerenza deve riconoscersi che lo stesso regime non può non valere anche per gli
atti amministrativi»; ID., L’invalidità degli atti amministrativi, cit., 700 ss.; V. STIGLIANI, Atti
amministrativi e norme comunitarie, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1999, 1413, secondo cui «l’atto
amministrativo configgente» con il diritto comunitario «non è né nullo né inesistente né
annullabile, bensì va disapplicato, in modo da consentire massima espansione ed applicazione della
normativa comunitaria (…). L’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare le norme di legge
interna contrastanti con il diritto comunitario e l’aver precisato che analogo obbligo incombe su tutti
gli organi della pubblica amministrazione, non poteva non comportare l’assoggettamento dei
provvedimenti amministrativi alle stesse regole previste per la disapplicazione da parte del giudice
nazionale della norma di legge interna di cui tali provvedimenti costituiscono applicazione». In
senso analogo cfr. M. GIOVANNELLI, La Corte di giustizia si pronuncia sulla disapplicazione dei
bandi, in Urb. app., 2003, 651 ss.; C. LEONE, Disapplicabilità dell’atto amministrativo, cit., 898
ss.; M. ANTONIOLI, Inoppugnabilità e disapplicabilità, cit., 1370 ss.; M. FRAGOLA, Riflessioni
sull’atto amministrativo e sull’illecito amministrativo nell’ordinamento comunitario, in Amm. it.,
1992, 32 ss.
[47] Cfr. Tar Puglia, 8 maggio 1996, n. 253, in Trib. amm. reg., 1996, 2727 ss.; Tar Lombardia, 20
dicembre 1996, n. 1843, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1997, 191 ss.; Tar Lombardia, 2 aprile 1993, n.
260, in Trib. amm. reg., 1993, 1747 ss.; Tar Veneto, 10 giugno 1991, n. 432, in Trib. amm. reg.,
1991, I, 2944 ss.
[48] Per una ricostruzione della problematica cfr. F. CINTIOLI, Giurisdizione amministrativa e
disapplicazione dell’atto amministrativo, in Dir. amm., 2003, 43 ss.
[49] Cfr., ad esempio, Cons. St., sez. V, 10 gennaio 2003, in Foro it., 2003, III, 413 ss.
[50] Cfr., nella ampia riflessione scientifica, G. MORBIDELLI, La disapplicazione dei regolamenti
nella giurisprudenza amministrativa, (ovvero del conflitto tra il principio di gerarchia delle fonti e il
principio dispositivo) in Studi in onore di Leopoldo Elia, Milano, 1999, 1045 ss. e più di recente M.
MASSA, Problemi e modelli del sindacato sui regolamenti amministrativi, Tesi di dottorato in
giustizia costituzionale, Pisa, 2005, 169 ss.
[51] Cfr. emblematicamente Cons. St., sez. V, 26 febbraio 1992, n. 154, in Giur. it., 1992, III, 653,
secondo cui «nel conflitto tra due norme di rango diverso il Collegio non può che dare preminenza a
quella legislative, di livello superiore rispetto alla disposizione regolamentare. Questo in
applicazione degli art. 1, 2, 3 e 4 delle disposizioni preliminari al codice civile ed in ossequio ai
principi generali sulla gerarchia delle fonti (….) Inerisce al rapporto di sovraordinazione di una
fonte ad un’altra l’idoneità dell’atto maggiore a determinare l’abrogazione delle norme di minor
forza (…) che racchiudono precetti incompatibili. Per converso, ogni ordinamento non può non
prevedere altresì un meccanismo invalidante delle norme di grado inferiore che sopraggiungano ed
urtino contro precetti pozioni dell’ordinamento medesimo», analogamente a quanto avviene «per
gli atti di normazione primaria a mezzo del sindacato di costituzionalità».
[52] In questo senso anche E. FERRARI, La Corte di giustizia indica al giudice amministrativo una
terza via, cit., 478 ss.
[53] Nel processo amministrativo, diversamente da quello che accade nel processo civile, il giudice
«non è affatto libero nella scelta della norma da applicare» (così A. ROMANO, Pregiudizialità nel
processo amministrativo, Milano, 1958, 215). Nella vincolatività ai motivi di parte e nella rigorosità
del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato può leggersi un affievolimento del
principio iura novit curia: «l’affermazione, ampia e pacifica per il processo civile, che il giudice non
è vincolato alla scelta della norma e alla interpretazione giuridica dei fatti, fornite dalle parti, è
valida nel processo amministrativo in misura molto attenuata. La scelta della norma spetta al
ricorrente» (così M. NIGRO, Giustizia amministrativa, Bologna, 2000, 288). Cfr. anche F. LA
VALLE, Il vincolo del giudice amministrativo ai motivi di parte, in Riv. trim. dir. pubbl., 1966, 20
ss.
[54] Peraltro il valore delle certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico rappresenta un
elemento ostativo al potere di disapplicazione del giudice amministrativo. Cfr. Cons. St., sez. VI, 18
giugno 2002, n. 3338, in Cons. St., 2002, 1328 ss.; Cons. St., sez. V, 10 gennaio 2003, n. 35, ivi,
2003, 25 ss.
[55] A. ROMANO, Pronuncia di illegittimità costituzionale, cit., 141.
[56] Una ulteriore conferma della giurisprudenza comunitaria, rispettosa dell’autonomia
processuale statale e delle regole “interne” di giustiziabilità, può leggersi in Corte giust., 1 giugno
1999, C-126/97, Eco Swiss China Time, secondo cui «in base al diritto comunitario non si devono
disapplicare le norme di diritto processuale nazionale, ai sensi delle quali un lodo arbitrale
interlocutorio avente natura di decisione definitiva che non ha fatto oggetto di impugnazione per
nullità entro il termine di legge acquisisce l’autorità della cosa giudicata e non può essere rimesso in
discussione da un lodo arbitrale successivo, anche se ciò è necessario per poter esaminare,
nell’ambito del procedimento d’impugnazione per nullità diretto contro il lodo arbitrale successivo,
se un contratto, la cui validità giuridica è stata stabilita dal lodo arbitrale interlocutorio, sia tuttavia
nullo perché in contrasto con l’art. 81 CE».
[57] Cons. St., sez. V, 10 gennaio 2003, n. 35, in Cons. St., 2003, 25 ss. In senso identico Id., sez.
VI, 22 novembre 2006, n. 6831, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Basilicata, 17 gennaio
2006, n. 723, in Giurisdiz. amm., 2006, II, 1843 ss.; Cons. St.., sez. IV, 21 febbraio 2005, n. 579, in
Foro it., 2006, III, 269 ss. Cfr. anche Cons. St., sez. VI, 20 maggio 2005, n. 2566, in Foro amm.Cons. St., 2005, 1563.
[58] Cfr., ad esempio, Tar Marche, 16 gennaio 1986, n. 1, in Trib. amm. reg., 1986, 1081 ss.; Tar
Lazio, 16 agosto 1986, n. 1659; Tar Lombardia, 24 marzo 1988, n. 1823, in Foro amm., 1989, 1067
ss.; Id., 25 agosto 1988, n. 1185, in Trib. amm. reg., 1988, I, 2945 ss.; Tar Campania, 13 aprile
1989, n. 196, in Riv. dir. pubbl. com., 1991, 209 ss.; Tar Lombardia, 25 settembre 1989, n. 554, in
Trib. amm. reg., 1990, 116 ss.; Tar Toscana, 20 marzo 1996, n. 156, in Trib. amm. reg., 1996, 1973
ss.; Cons. St., sez. VI, 2 febbraio 2001, in Dir. giur. agra. ambiente, 2003, 247 ss.
[59] Questo modello presuppone che le norme comunitarie rilevanti come fondamento o come
parametro dell’atto siano “direttamente applicabili”. In una logica diversa le norme non self
executing sono state ritenute in taluni casi non idonee a funzionare da parametro di legalità,
inducendo in modo paradossale il Tar Toscana, 21 gennaio 1989, n. 20, in Trib. amm. reg., 1989,
972 ss., a ritenere legittimo un atto amministrativo emesso in applicazione di una disciplina
nazionale, pur avendo rilevato che tale disciplina fosse in contrasto con una direttiva comunitaria. In
senso analogo si era già espresso Cons. St., sez. IV, 6 maggio 1980, n. 504, in Cons. St., 1980, 639
ss. Evidentemente questa impostazione è in stridente contrasto con la giurisprudenza comunitaria
secondo cui «lo Stato singolo non può opporre ai singoli l’inadempimento da parte sua degli
obblighi derivanti dalla direttiva stessa» (cfr. Corte giust., 5 aprile 1979, C-148/78). La dottrina ha
messo chiaramente in evidenza come il fatto che le direttive siano inidonee ad integrare la
fattispecie normativa dell’atto amministrativo non esclude che le direttive stesse possano costituire
un limite alla discrezionalità delle amministrazioni. Cfr. in tal senso G. GRECO, Incidenza del
diritto comunitario, cit., 560 ss.; ID., Fonti comunitarie e atti amministrativi cit., 45 ss. La
giurisprudenza amministrativa ha infatti affermato che l’antinomia tra atto amministrativo e norma
comunitaria non direttamente applicabile, pur non integrando il vizio della violazione di legge, può
configurare il vizio dell’eccesso di potere. Cfr. Cons. St., sez. IV, 23 settembre 1994, n. 735 in Foro
amm., 1994, 2089 ss.; Tar Lazio, 6 dicembre 1988, n. 1746, in Foro amm., 1989, 1193 ss.; Id.,12
novembre 1988, n. 1340, in Trib. amm. reg., 1988, 3627 ss.; Id., 22 gennaio 1985, n. 103, ivi, 1985,
488 ss.; Tar Veneto, 9 novembre 1988, n. 890, in Foro amm., 1989, 2450 ss.
[60] Fa eccezione una recente (e singolare) pronuncia del Tar Sardegna, 29 marzo 2007, n. 549, in
Urb. app., 2007, 1023 ss., chiamato a pronunciarsi sulla legittimità di un bando di gara con cui un
Comune aveva aggiudicato alcuni servizi già affidati in precedenza in via diretta e senza gara alla
società ricorrente. Quest’ultima ha lamentato, al fine dell’annullamento del bando, il contrasto con
il precedente affidamento diretto. Il Tar ha ritenuto di poter disapplicare il precedente affidamento
(lesivo del diritto comunitario), posto a fondamento della azione di annullamento del bando,
ritenendo (irragionevolmente) sussistente una differenza tra la disapplicazione in favore del
ricorrente (non ammissibile) e quella in sfavore del ricorrente (ammissibile, come nel caso di
specie). Per taluni rilievi critici su questa pronuncia cfr. F. MIDIRI, Nuovi fondamenti teorici per la
disapplicazione dei provvedimenti anticomunitari?, in Urb. app., 2007, 1025 ss.; M. MACCHIA, La
violazione del diritto comunitario e l’ “eccezione disapplicativa”, in Giorn. dir. amm., 2007, 861 ss.;
M. DELSIGNORE, La disapplicazione dell’atto in violazione del diritto comunitario non
impugnato, in Dir. proc. amm., 2008, 271 ss.
[61] Tar Toscana, 20 marzo 1996, n. 156, in Trib. amm. reg., 1996, 1973.
[62] Cons. St., sez. II, 15 febbraio 2006, n. 4381, in Arch. giur., 2006, 296 ss.
[63] Cons. St., sez. V, 10 gennaio 2003, n. 35, in Cons. St., 2003, 25 ss.
[64] Questa giurisprudenza svela l’incoerenza della impostazione del Tar Piemonte, 8 febbraio
1989, n. 34, in Giur. it., 1989, III, 148 ss. (cfr. § 3), che riconosce alle norme comunitarie la loro
efficacia nell’ordinamento statale ai fini della “non applicazione” delle norme statali ma non ai fini
della parametricità dell’attività amministrativa.
[65] In realtà, oltre al naturale fenomeno di dilatazione del parametro di legalità, si assiste anche
all’emergere di una ulteriore problematica che riguarda più direttamente l’oggetto del processo e
l’effettività della tutela giurisdizionale. E’ noto come negli ultimi anni si siano sviluppati modelli di
azione amministrativa “integrata”, caratterizzata dalla partecipazione di amministrazioni nazionali e
sovranazionali che agiscono congiuntamente per la realizzazione di finalità comunitarie; una
medesima funzione assistita da una moltiplicazione degli elementi personali, organici e sub
procedimentali (cfr. E. CHITI, C. FRANCHINI, L’amministrazione integrata, Bologna, 2003 e per
l’analisi di un caso specifico cfr. L. SEGNI, I controlli sui fondi strutturali comunitari, in Giorn. dir.
amm., 2001, 1017 ss.). Certamente il mutamento del modello dell’attività amministrativa (di
«coamministrazione») sembra poter generare delle incertezze sulle forme della tutela
giurisdizionale; si pone infatti il problema, nell’intreccio delle competenze, della individuazione
dell’atto amministrativo lesivo (statale o comunitario), dell’interesse a ricorrere, più in generale del
riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo statale e giudice comunitario. Cfr., ad esempio,
Corte giust., 3 dicembre 1992, C-97/91, Oleificio Borrelli; Id., 9 marzo 1994, C-188/92,
Textilwerke Deggendorf; Cfr. Tar Lazio, 13 maggio 1994, n. 1112, in Trib. amm. reg., 1994, 1798.
Inoltre il profilo della incertezza della tutela sembra palesato in modo ancor più evidente da una
altra vicenda in cui i ricorrenti non hanno semplicemente “sbagliato” giudice, come nei casi
precedenti, ma sono rimasti “senza” giudice. Un sindacato di pensionati aveva chiesto al Tribunale
di prima istanza l’annullamento di una decisione del Consiglio con cui era stata determinata la
composizione del comitato economico-sociale, lamentando che il Consiglio avesse inserito
nell’elenco dei membri un soggetto, indicato dal Governo, non realmente rappresentativo. Il
Tribunale di prima istanza, C-381/94, Sindacato pensionati italiani, ha ritenuto che il sindacato non
fosse legittimato a ricorrere, non avendo un interesse differenziato da quello della generalità e
potendo comunque trovare tutela in sede nazionale. Successivamente però il Tar Lazio, sez. I, 10
giugno 1984, n. 1904, in Riv. dir. pubbl. com., 1999, 193 ss., adito dal sindacato dei pensionati, ha
dichiarato inammissibile il ricorso perché ha considerato che l’atto di designazione della Presidenza
del Consiglio dei Ministri ha natura endoprocedimentale, rientrando in un procedimento diretto a
produrre effetti all’esterno dell’ordinamento nazionale. Su questi temi cfr. C. FRANCHINI, Nuovi
modelli di azione comunitaria e tutela giurisdizionale, in Dir. amm., 2000, 81 ss.
[66] Per una analisi giurisprudenziale delle problematiche che incontra il giudice amministrativo
dinanzi al diritto comunitario cfr. M. GNES, Giudice amministrativo e diritto comunitario, in Riv.
trim. dir. pubbl., 1999, 331 ss.
[67] Su queste problematiche sia consentito rinviare a N. PIGNATELLI, Le reciproche “incidenze”
tra processo amministrativo e processo costituzionale, in Giurisdiz. amm., 2008, IV, 75 ss.
[68] Cfr., ad esempio, Cons. St., 10 maggio 2005, n. 387, in www.giustizia-amministrativa.it
[69] T. ASCARELLI, Inesistenza e nullità, in Problemi giuridici, Milano, 1959, 227 ss. Sulla
categoria della inesistenza cfr. R. CARANTA, L’inesistenza dell’atto amministrativo, Milano,
1990.
[70] Cfr. G. COCCO, Le «liaisons dangereuses», cit., 691 ss. Cfr. anche R. GAROFOLI,
Annullamento di atto amministrativo, cit., 340; G. GRECO, Fonti comunitarie e atti amministrativi,
cit., 38.
[71] Tra l’altro lo stesso Consiglio di Stato, sez. VI, 3 marzo 2006, n. 1023, in www.giustiziaamministrativa.it ha affermato che «l’entrata in vigore dell’art. 21 septies della legge n. 241/1990,
introdotto dalla legge n. 15/2005, ha codificato le ipotesi di nullità del provvedimento
amministrativo, che costituiscono quindi un numero chiuso e all’interno delle quali non rientra il
vizio consistente nella violazione del diritto comunitario». In senso identico cfr. Id., sez. VI, 22
novembre 2006, n. 6831, in www.giustizia-amministrativa.it. Anche l’art. 13 sexies della versione
originaria del disegno di modifica della l. 241/1990 qualificava come annullabile il provvedimento
adottato in violazione di norme comunitarie, senza la previsione di nessuna eccezione.
[72] M.P. CHITI, Diritto amministrativo europeo, cit., 477, il quale afferma anche che «quanto
affermato dal Consiglio di Stato potrà dunque valere solo nel caso, assai teorico, di un atto
normativo italiano che senza potere si inserisca scorrettamente nel sistema comunitario in una parte
priva di disciplina di tale fonte». In senso critico, anche se in una diversa prospettiva, cfr. G.
GRECO, L’incidenza del diritto comunitario, cit., 940 ss., il quale tra l’altro ridimensiona questa
problematica, affermando che «si tratta, invero, di casi rari, perché capita di rado che la normativa
comunitaria si sovrapponga del tutto a quella nazionale sulla attribuzione del potere
amministrativo».
[73] Id., sez. IV, 5 giugno 1998, n. 918, in Urb. app., 1998, 1342 ss.
[74] Cfr. E. KLEIN, L’influenza del diritto comunitario sul diritto amministrativo degli Stati
membri, in Riv. it. dir. pubb. com., 1993, 690 ss.
[75] A. BARONE, nota a Cons. di Stato, sez. I, parere 9 aprile 1997, n. 372/97, in Foro it., 1999,
III, 334. In senso analogo si era già espresso Cons. St., sez. IV, 18 gennaio 1996, n. 54, in Cons.
Stato, 1996, I, 43, secondo cui «l’eliminazione del contrasto normativo e le connesse conseguenze
amministrative costituiscono quindi adempimento di un obbligo internazionale dello Stato la cui
legittimità costituzionale è stata ampiamente riconosciuta e di fronte a quale non può recedere ogni
altro interesse pubblico o privato». In dottrina nel senso della obbligatorietà dell’autotutela dinanzi
all’illegittimità comunitaria cfr. A. TIZZANO, La tutela dei privati nei confronti degli Stati membri
dell’Unione europea, in Foro it., 1995, IV, 13 ss.; M. CHITI, I signori del diritto comunitario, cit.,
828 ss.
[76] Tar Lazio, 7 ottobre 1996, n. 1834, in Urb. app., 1997, 335 ss.; Corte conti, sez. I, 2 aprile
1997, n. 372, in Riv. Corte conti, 1997, 166 ss.; Cons. St., sez. I, parere 9 aprile 1997, n. 372/97, in
Foro it., 1999, III, 334.
[77] Corte giust., 13 gennaio 2004, C-453/00, Khune, su cui cfr. D. DE PRETIS, L’«illegittimità
comunitaria» dell’atto amministrativo definitivo, certezza del diritto e potere di riesame, in Giorn.
dir. amm., 2004, 723 ss.; R. CARANTA, Effettiva applicazione del diritto comunitario e certezza
del diritto, in Urb. app., 1154 ss.; A. MONDINI, Autotutela: il riesame della Corte rende necessario
il riesame amministrativo, in Guida al dir., 2004, 115 ss.; R. BARATTA, Sull’erronea
interpretazione del diritto comunitario in applicazione della teoria “dell’atto chiaro”, in Gius. civ.,
2004, 865 ss.
[78] La giurisprudenza comunitaria ha avuto seguito nella giurisprudenza amministrativa; cfr. Cons.
St., sez. VI, 3 marzo 2006, n. 1023, in Urb. app., 2006, 695 ss.; Id., sez. IV, 20 maggio 2005, n.
2566 in Foro amm.-Cons. Stato, 2005, 1563; Id., sez. VI, 16 febbraio 2005, n. 516, in Dir. proc.
amm., 2005, 797.
[79] R. GAROFOLI, Annullamento di atto amministrativo, cit., 342 ss.
[80] Questa condizione è stata specificata da Corte di giust., 12 febbraio 2008, C- 2/06, Kempter,
secondo cui non è necessario che il ricorrente nella causa principale abbia invocato il diritto
comunitario nell’ambito del ricorso giurisdizionale di diritto interno da esso proposto contro la
decisione.
[81] Questa condizione è stata specificata da Corte di giust., 12 febbraio 2008, C- 2/06, Kempter,
secondo cui il diritto comunitario non impone alcun limite temporale per presentare una domanda
diretta al riesame di una decisione amministrativa divenuta definitiva. Gli Stati membri rimangono
tuttavia liberi di fissare termini di ricorso ragionevoli, conformemente ai principi comunitari di
effettività e di equivalenza.
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