Professioni di cura1 di Lorenza Maluccelli Università di Ferrara “La cura”, “il lavoro di cura”, concetti, parole quasi inesistenti nel linguaggio delle scienze sociali italiane fino agli anni ’90 del secolo scorso2, sono le categorie privilegiate di un’indagine che ho svolto sul lavoro nei servizi alla persona di una grande cooperativa sociale, la Cadiai. Fondata a Bologna nel 1974 da un gruppo di donne della classe lavoratrice che prestavano assistenza privata a malati, anziani, bambini, in condizioni che ricordano quelle delle donne immigrate che oggi nelle famiglie italiane vengono chiamate “badanti”, non è stato difficile vedere nella storia stessa di tale impresa quella che è stata considerata l’azione sociale femminile per eccellenza: il lavoro della cura. L’ipotesi che mi ha guidato nell’ osservazione del lavoro professionale delle operatrici3 era che l’attività di cura, da un lato, fosse una dimensione trasversale alle diverse professionalità attinenti l’ambito socio-assistenziale ed educativo in cui opera la cooperativa sociale; dall’altro, per quanto incorporata nelle pratiche professionali, restasse muta, data per scontata nelle attività quotidiane. Tale convinzione derivata da significativi, anche se rari studi empirici4, si accompagnava all’idea che le culture professionali odierne non solo non fossero d’aiuto a riflettere su questa riserva di senso, ma che anzi funzionassero potenzialmente d’ostacolo a riconoscerla sia nel suo “essere lavoro”, sia nel suo valore etico e politico, che potrebbe viceversa ispirare una nuova concezione dei servizi e delle relazioni sociali che li producono. Ma cosa si intende per “cura” e “lavoro di cura”? E perché attribuire a questa categoria la funzione di una bussola per una esplorazione del lavoro sociale? Benché radicata nel nostro linguaggio quotidiano, la cura, come dimensione della vita umana e della società in cui viviamo è stata lungamente Questo articolo è tratto dal libro dell’autrice Lavori di cura. Cooperazione sociale e servizi alla persona. L’esperienza di Cadiai, Il Mulino, Bologna, 2007 2 Com’è stato sottolineato anche da Laura Balbo nella sua introduzione a Demetrio D. et al. (1999, 7) e discusso da Franca Bimbi (2003, 21) 3 La ricerca qui presentata si basa su 25 interviste in profondità a 18 assistenti di base (15 donne e 3 uomini) e a 7 educatori (6 donne e 1 uomo) della cooperativa sociale Cadiai di Bologna. Le intervistate e gli intervistati erogano attività di cura, di assistenza ed educative in molteplici ambienti e organizzazioni che costituiscono quella che chiamiamo la rete dei servizi territoriali: dalle residenze sanitarie, alle case protette, ai centri diurni, ai gruppi appartamento, agli asili per l’infanzia, fino al servizio fornito al domicilio dell’utente. 4 Tra gli altri, Colombo G., Cocever E., Bianchi L. (2004) 1 1 sottovalutata e dobbiamo alla ricerca teorica femminista il tentativo di porla al centro del dibattito in campi disciplinari molto diversi. Divenuta “espressione paradigmatica” delle pratiche della vita quotidiana nelle nostre società e del “lavoro della riflessività”5 che caratterizza il frame mentale dei soggetti che ne sono responsabili, l’attività che risponde ai bisogni dell’altro è oggetto di una rinnovata attenzione e concettualizzazione. Le ricerche sull’etica della cura (ethic of care) hanno sottratto l’attività di cura “all’immediatezza del registro bio-affettivo (...): da attitudine ‘naturale’ identificata esclusivamente con i registri dell’emotività, con le radici dell’oppressione femminile, con la banalità del quotidiano”6, tale approccio mette l’accento sulle importanti capacità cognitive, attitudini psicologiche e abilità necessarie a svolgerla. La definizione7 sulla quale molte autrici sembrano concordare, attribuisce alla cura quelle “attività e pratiche che incontrano i bisogni di un’altra persona”8. L’attenzione ai bisogni degli altri, la volontà e l’abilità a rispondere appropriatamente a tali bisogni, non solo “necessita un’esperienza ed una conoscenza considerevole da parte di chi presta le cure”, ma può coinvolgere “una particolare visione morale”9. Con il dibattito sulle attitudini morali, oltre che cognitive, della cura - a cui molte studiose sembrano aderire, pur con posizioni differenti e teorie critiche10, inizia un’osservazione della pratica di cura nei contesti concreti in cui si determina, cui questa indagine empirica svolta in un contesto professionale ha inteso contribuire. Guidata dal tentativo di utilizzare il processo della cura come chiave per “vedere”11 il lavoro di chi è impegnato a produrre benessere individuale e sociale, occupandosi di persone in circostanze vulnerabili, l’indagine sulle pratiche di cura, sulle abilità e le capacità necessarie a svolgerla bene e sulle idee di professionalità e di “produttività” tra le operatrici, si è rivelata, inoltre, indispensabile per comprendere le profonde difficoltà di trovare un linguaggio adeguato all’intangibilità e alla intersoggettività dei servizi/prodotti che esse realizzano. L’analisi della multidimensionalità della relazione di cura e della specifica conoscenza che richiede per essere adeguatamente messa in pratica, offre, infine, le basi per una critica radicale alla supposta “naturalità” delle abilità ad essa connesse. Nella formazione della professionalità sociale le Il concetto di “lavoro della riflessività” è espresso da Laura Balbo (1999) Bimbi, 1995, 11 7 Quella proposta è una definizione funzionale di cura che fa dipendere l’inclusione di una determinata attività tra quelle di cura, non dall’attività in sé, ma dalla sua funzione, cioè dal fatto che incontra un certo tipo di bisogni. Secondo Bubeck (1995), la cura risponde ad un particolare set di bisogni umani di base i quali “ci fanno dipendenti da altri” (ivi, 133). Possono essere bisogni fisici o emotivi, temporanei o permanenti, prodotti dalla disabilità o dalla malattia, o semplicemente dalla generale condizione umana, dal ciclo di vita che condividiamo tutti (dall’infanzia alla vecchiaia) o trattarsi di sofferenze fisiche, emotive e mentali, “come lo shock, la perdita, l’angoscia, la paura, la disperazione, la confusione” (ibidem). 8 Bubeck, 1995, 128 9 Bubeck, 1995, 153. 10 cfr. tra le altre, Tronto, 1993; Bubeck, 1995; Bimbi, 1995; Colombo, 1995; Sevenhuijsen, 2003 11 cfr. Olivetti Manoukian F. (1998) 5 6 2 funzioni cognitive della cura che coinvolgono emozioni, sentimenti ed affetti rimangono senza le risorse simboliche adeguate per produrre una “cultura della cura” che potrebbe fungere da cinghia di trasmissione tra le professioniste e le persone comuni nell’ambiente e nel contesto sociale in cui i servizi operano. Se la cura fa parte della vita di ciascuna e di ciascuno di noi, ciò che sorprende nell’ambito professionale è la capacità riflessiva, di apprendimento continuo, di introspezione che accomuna a diversi livelli tutte le operatrici e gli operatori coinvolti. Queste competenze sono particolarmente sviluppate anche grazie alle risorse organizzative e al mondo sociale del lavoro. Gli spazi collettivi di discussione, la supervisione degli interventi, lo scambio informale tra colleghi sono la formula in cui si esprime al meglio la qualità dei servizi della cooperativa e la differente logica produttiva di un’ impresa con finalità sociali. Va sottolineato, però, che dalla narrazione sul lavoro e sulle condizioni di vera e propria sofferenza che esso spesso produce, emerge il rischio dell’assottigliarsi di tali risorse soprattutto per le assistenti di base che occupano il gradino più basso nella gerarchia delle professioni sociali, rispetto alle quali i modelli di produttività volti a “misurare” il processo di cura sezionandolo in prestazioni materiali, rendono loro sempre più difficile integrare le dimensioni relazionali ed emotive nei codici professionali disponibili. Sul valore personale e sociale del lavoro di cura e di chi lo fa è stata dedicata un’ampia riflessione che ha tentato di affrontare con le operatrici e gli operatori, le pressanti domande che accompagnano ogni studio sull’argomento: Perché anche nella sua versione professionale il lavoro di cura resta svalorizzato e sottopagato? Perché sono le donne nella stragrande maggioranza a continuare a farlo? Quali vantaggi trovano e quale senso danno alla scelta di questo lavoro? L’intrinseca utilità del lavoro di cura, il suo essere meno alienante di altri lavori e la forma di empowerment ad esso connesso sembrano garantire soddisfazione e stima di sé di chi è impegnato/a a svolgerlo. Benché venga sempre testimoniato il piacere personale che si prova soprattutto quando si riesce a svolgerlo bene, l’importanza del riconoscimento esterno non è affatto disconosciuta. Se è la caratteristica relazionale specifica del lavoro di cura a fornire la maggiore ricompensa - il riconoscimento più grande viene per lo più da parte di chi riceve direttamente le cure -, la gratificazione psicologica che esso è in grado di produrre sta in netto contrasto con la condizione materiale di chi lo svolge. La soddisfazione si infrange sul disvalore economico che viene attribuito a cui non sempre corrisponde una svalutazione sociale, piuttosto un non riconoscimento come lavoro, una identificazione con il buon cuore, il sacrificio, la missione. Il diverso peso sociale attribuito a forme di cura differenti dipende da una comprensione frammentata della cura, all’interno della quale l’occuparsi del soddisfacimento diretto dei bisogni di cura è svalutato concettualmente attraverso una serie di connessioni ed associazioni a valori sociali considerati inferiori - la sfera privata, i sentimenti e le emozioni, i corpi –. Inoltre, nel mito 3 dell’individuo adulto autonomo ed autosufficiente, il disprezzo per i destinatari delle cure, per la vulnerabilità della condizione umana, si trasferisce anche su chi di loro si occupa. Dalle parole di queste operatrice ed operatori appare chiara l’inadeguatezza del ruolo accordato alla cura nella nostra società. Perché i soggetti, le relazioni e le pratiche implicati in vario modo nel mondo della cura escano dalla posizione periferica e marginale in cui si trovano, lo studio condotto mette in primo piano la necessità di nuove prospettive teoriche che aiutino a modificare le cornici e i contesti di senso che riproducono i modelli sociali e le culture professionali esistenti. Bibliografia essenziale Balbo L. “L’Europa: (forse) una società-con-cura, una società del life long learning” in Demetrio D. et al. Il libro della cura di sé, degli altri, del mondo, Torino, Rosenberg & Sellier, 1999, pp.7-19 Bimbi F. “Etica della cura, stili di vita adulta e organizzazione”, in Animazione sociale n° 2, 1995 Bimbi F. (a cura di)Differenze e disuguaglianze. Prospettive per gli studi di genere in Italia, Bologna, Il Mulino, 2003 Bubeck D. E.Care, Gender and Justice, Oxford, Clarendon Press, 1995 Colombo G. “Per una definizione di lavoro di cura”, in Animazione Sociale, Dicembre, 1995, pp. 11-23 Colombo G., Cocever E., Bianchi L. Il lavoro di cura. Come si impara, come si insegna, Roma, Carocci, 2004 Demetrio D. et al., Il libro della cura di sé, degli altri, del mondo, Torino, Rosenberg & Sellier, 1999 Olivetti Manoukian F. Produrre servizi. Lavorare con oggetti immateriali, Il Mulino, Bologna, 1998 Maluccelli Lorenza, Lavori di cura. Cooperazione sociale e servizi alla persona. L’esperienza di Cadiai, Bologna, Il Mulino, 2008 Sevenhuijsen S. “The place of care. The relevance of the feminist ethic of care for social policy”, Feminist Theory, Vol. 4 N. 2, 2003 Tronto, J.C. Moral Boundaries: the Political Argument for an Ethic of Care, London, Routledge, 1993 (trad. it. Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura, Reggio Emilia, Diabasis, 2006) 4