folium xi.2 - ARTECOM

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Periodico semestrale. Anno XI(XV), n. 2
Età moderna e contemporanea
FOLIVM
Miscellanea di Scienze Umane
a cura dell’Accademia in Europa di Studi Superiori
ARTECOM
ONLUS
XI.2
Agosto 2009
Roma 2010
Periodico semestrale. Anno XI (XV), n. 2, .
Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 4/99 del 7 gennaio 1999.
Direttore responsabile: Grazia Chiesa. Proprietà: Francesco Quaranta.
Sede: c/o ARTECOM-ONLUS, via dei Campani, 38 - 00185 Roma.
Direttrice editoriale: Eugenia Serafini.
Web: www.artecom-onlus.org e-mail: [email protected]
"FOLIVM" è un periodico semestrale. Pur essendo una raccolta di ricerche e osservazioni culturali specifiche che
rispecchiano gli interessi dei singoli autori, il primo numero è dedicato alle antichità (dalle origini al 1492), il
secondo all’arte e letteratura moderne e contemporanee. Non è in vendita e viene distribuito ai Membri
dell’Accademia, agli Enti di diritto, alle Biblioteche, Università, Istituzioni e Riviste specifiche italiane e straniere.
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detraibili per il 19%.
Indice
U. M. MILIZIA, Della poesia “è più facile mediocre autore che giusto estimator divenire”, p. 3
INArte, Appunti di arte contemporanea, a cura di E. Serafini, p. 6
CH. STROZZIERI, Pubblicità e arte complice, p. 6
P. GUZZI, Futurismo e performance, p. 10
S. D’ARBELA, Valeria D’Arbela: ritrovamento di un valore, p. 12
L.UGOLINI, Giubbe Rosse – Caffé Storico Letterario – A Firenze 14-3-2009, p. 14
E. SERAFINI, Le architetture dipinte di Massimo Elmi, p. 15
D. CARA, Eugenia Serafini: Strategia e ritmo della Performance alfabetica, p. 16
PL. PERILLI, Performo, dunque sono, p. 18
PAROLANDO. Prove di parola contemporanea, a cura di E. Serafini, p. 22: F. DELLA PORTA, Estiva e Si è
fatto tardi, p. 22; G. DI GENOVA, Album d’istantanee, p. 22; FR. MANDRINO, Lapida (a Franco Piri Focardi),
p. 23; M. GR. MARTINA, Ianua mundi, p. 25; D. SACCO, Due acrostici, p. 26; E. SERAFINI, A Leo Strozzieri, p.
27; L. STROZZIERI, Sedetti sulla pioggia, p. 28;
Ricordando Mario Verdone, p. 28; M. VERDONE, Tutte le anime del vento, p. 29
Segnalazioni e recensioni bibliografiche, p. 30
I collaboratori, p. 32
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pubblicazione vanno inviati a
FOLIVM/ARTECOM, via dei Campani 38, I - 00185 - ROMA.
I testi (ad eccezione di quelli strettamente creativi) vanno corredati da idonea documentazione scientifica.
Finito di stampare nel mese di marzo dell’anno 2010 dalla Tipografia Rotastampa, Roma
2
FOLIVM XI(XV).2 (età moderna e contemporanea)
DELLA POESIA “È PIÙ FACILE MEDIOCRE AUTORE CHE GIUSTO ESTIMATOR DIVENIRE”
di Umberto Maria Milizia
Della poesia “è più facile mediocre autore che giusto estimator divenire”
GIANVINCENZO GRAVINA, Della Ragion Poetica, Introduzione.
Il seguente articolo è il primo di una serie che approfondisce temi ed argomenti di estetica e teoria della
comunicazione già proposti in altre opere 1 dello stesso autore.
LA NASCITA E LO SVILUPPO DEL CONCETTO DI POSTMODERNO
PREMESSA:
Anzitutto, queste brevi note sono aliene da qualsiasi sistematicità, infatti si tratta di un insieme di appunti
proposti al lettore così come sono in questa prima fase della ricerca. Inoltre, come si vedrà, il Postmoderno forse
non è mai esistito né come stile artistico né come ideologia, e perciò tutto l’articolo, per sua stessa natura, è inutile.
Si vive lo stesso benissimo senza leggerlo. Ora che il Postmoderno è passato di moda ci si può chiedere: da dove
viene l'idea di abolire il “moderno” e con esso “l'antico”? È apparentemente un problema inconsistente. Da un
certo punto di vista coincide, con esiti opposti, con tutte quelle teorie che si chiedono se il progresso sia sempre
necessario e se valga la pena di cambiare sempre e comunque. Il termine nasce dalla mania delle Avanguardie
Storiche di dare sempre un nome nuovo a concetti vecchi o inventati e di fingere che sia un “movimento” quello
che è semplicemente una “affinità elettiva” di ignoranti. Chiariamoci: si tratta di uno status culturale puramente
intellettuale, perché non viene dalla mancanza di conoscenza del passato, ma dalla volontà specifica di ignorarlo,
cosa che risulta molto più comoda per giustificare il proprio operato. Non a caso si tratta di un atteggiamento
molto diffuso tra gli architetti, che si liberano, così, dall’obbligo di rispettare l’ambiente preesistente e gli
elementari concetti di decoro urbano. Un po’ come il mondo del potere finanziario, che finge nuove teorie per
coprire la mancanza di regole, e c'è sempre un professore universitario che teorizza proprio quello che fa comodo
al potere per giustificare la propria avidità. Del resto c'è sempre anche un critico d'arte pronto a teorizzare
qualunque cosa faccia l'artista di turno che deve essere lanciato sul mercato; per non parlare dell'architettura, dove
bisogna sempre dimostrare la necessità di spendere grosse cifre.
Non si concepisce più un essere umano che abbia una vita virtuale più estesa della propria vita fisica, che inizi
dal passato e prosegua nel futuro, se non della persona almeno della civiltà. Manca il senso della morte che ormai
è solo un accidens casuale e statistico, come tale, ha scarso valore; peccato che venga sempre.
Da tempo l'uomo nuovo del Comunismo è morto, anzi era già morto alla nascita, lasciando in eredità un
materialismo totale ad un liberalismo ormai sfrenato. I terroristi, in fondo, sono i più conservatori di tutti, a partire
da quelli del '68, ma anche i più ignoranti. Essi sono la punta violenta di chi non può rinunciare ad una cultura del
rivolgimento obbligato come mezzo lecito per imporre le proprie idee: si pensi ai danni fatti in Italia alla scuola ed
alla cultura, danni superati solo da chi concepisce in senso esclusivamente utilitaristico ed egoistico
(possibilmente a proprio vantaggio) la vita umana e si è trovato, improvvisamente, solo al potere.
E dire che nel nostro paese c'era, da secoli, un sistema culturale forse troppo autoreferenziale, è vero, ma
anche del tutto autosufficiente, capace di assicurare un adeguato sviluppo del pensiero umano. Si perdoni lo sfogo,
ma quello italiano è un caso che dimostra sia il danno delle rivoluzioni forzate che delle finte restaurazioni,
almeno sulla Cultura con la “C” maiuscola, che è di fatto scomparsa come valore collettivo e vive in piccole isole
più o meno protette, quasi una specie in estinzione. Il Postmoderno rinunciando al passato rinunciava anche
all'idea di progresso dimostrandone l'inutilità; quasi ci si potrebbe chiedere se non sia stato inutile anche il
Postmoderno stesso. Da un punto di vista logico si tenga presente che un regresso è sempre possibile perché il
concetto di progresso non ha in sé connaturata l’esistenza come Dio per Sant’Anselmo ed il Postmoderno è
comunque un regresso perché non ha un termine di raffronto col passato, che viene volontariamente ripudiato.
Crediamo che una teleleogia sia necessaria, non perché sia facile averla ma perché ideologicamente ciò che conta è
il fatto stesso di cercarla. È il caso di dire: “Barbarie di natura e barbarie di artificio.” Citiamo un concetto del
Gravina aggiungendo che una barbarie di artificio non può essere che volontaria. Ma che il Postmoderno non sia
stato che una forma di barbarie? Cercando i precedenti ideologici del Postmoderno ci è capitata sott’occhio una
1
Ricordiamo in particolare: Trattazione del Bello e del Buono nell’Arte, Roma 2002; How About Aesthetics?,
Roma 2005 (testo in Inglese ed Italiano); Note sulle Categorie della Comunicazione e della Lettura, Roma 2007.
3
U. M. MILIZIA, Della poesia “è più facile mediocre autore che giusto estimator divenire”
vecchia edizione de “La Ragion Poetica” 2 del Gravina ed è stata occasione per rimeditare alcuni concetti già
espressi altrove. Lo spunto è venuto non solo dallo scritto del Gravina ma anche, e soprattutto, dall’ampia
introduzione del Natali. Da questa introduzione iniziamo il nostro discorso: “Certamente, l'arte è intuizione, ma
non le sole intuizioni, sì anche i concetti, purché ridiventino intuizioni, son materia d'arte. L'arte è fatta da tutto
l'uomo, non dal puro homo aestheticus, che è un'astrazione, ma anche dall'uomo logico e morale.” Più oltre Natali
spiega di essere contrario a Cartesio perché non comprende il mondo fantastico e poetico come Vico e, soprattutto,
rinnega la storia. L’affermazione di Natali è certamente ancora valida e soddisfa alle esigenze di diverse correnti di
pensiero ma va corretta un poco: i concetti sono materia d’arte non tanto se ridiventano intuizioni, quanto se
divengono intuibili; l’intuizione si ha quando ciò che è intuibile è riconosciuto. La conoscenza è tale per se stessa
(altrimenti rimane ignoranza) e con essa i concetti che la esprimono, almeno in parte. Differiscono i modi di
acquisizione, anche perché l’intuizione è sempre una forma del pensiero, non esplicita al soggetto pensante, ma
logica e, soprattutto, inquadrata in processi e categorie logiche. Il pensiero umano è logico per sua stessa natura o
non è pensiero ed è sempre nuovo e creativo, perché pensa sempre rinnovando se stesso 3 .
La cosiddetta intuizione si genera con la formazione del pensiero e del linguaggio e ne è un’espressione. Chi
mai, parlando, analizza le proprie frasi indicando a se stesso “questo è il soggetto, questo è il predicato, questo è
l’oggetto, questo un complemento di tempo e quest’altro di spazio e così via…? Pure, le categorie della
conoscenza sono corrispondenti proprio a questi complementi 4 . Non si può neppure parlare di categorie
dell’intuizione perché, come stiamo cercando di chiarire, le categorie sono concetti usati per formare e studiare
concetti. Anche i rapporti soggetto – predicato – oggetto, citiamo i più semplici, sono studiati nella forma del
sillogismo, ma sillogismi e categorie, per rimanere nell’ambito della filosofia aristotelica, sono proprio i mezzi
usati per definire la conoscenza. Ecco perché, in altre sedi, abbiamo sempre sostenuto la necessità di categorie di
lettura dell’opera d’arte. Sia per distinguere la conoscenza in genere da quella ottenuta mediante la lettura
(indifferentemente di un testo o di altre forme di comunicazione), sia per spiegare perché ciò che non sia inerente
ad un altro già conosciuto possa essere conosciuto o intuito, come l’arte astratta o, meglio, informale. Anche se il
maggior rappresentante della cultura italiana prima della Rivoluzione Francese è forse il Vico, Gravina è anche
il primo rappresentante di quella corrente di pensiero che darà origine al Neoclassicismo. Era uno studioso di
diritto romano ma non dobbiamo meravigliarci che si interessasse di Arte e di Poetica, perché quello che egli
voleva esprimere era il suo particolare rapporto con il passato; un rapporto vitale nel quale il presente trova la sua
ragion d’essere e, assieme, le sue leggi ed il suo svolgimento. Gravina studia il diritto nella storia, come fattore ed
espressione a un tempo della civiltà. Egli anticipò Vico sostenendo che “nello studio delle leggi che governano le
potenze dell'anima, si debbon trovare le leggi cui vanno soggette nel loro svolgimento le nazioni e le società
civili.” Sul piano degli studi di poesia, anzi, di “Ragion Poetica” rimette in onore l'estetica oraziana dell'utile:
“omne tulit punctum qui miscuit utile dulci”.
Base della poesia sono l’imitazione ed il trasporto dal vero al finto. L'idea [poetica] è tratta dalla mente umana
di dentro alla Natura. La poesia è imitazione del vero sia logico che storico e naturale che si origina e vive dentro
l’uomo. Questo verosimile è, perciò, sia fisico che, soprattutto, morale e sentimentale. Fine della Poesia è il diletto
e l'utile insieme. “È la poesia una maga, ma salutare, ed un delirio che sgombra le pazzie!” Gravina reagiva al
Seicentismo per tornare a semplicità e naturalezza. L'utile più la fantasia sono alla base della poesia stessa.
Canoni dell'arte, perciò, sono il verosimile ed il convenevole: “Il poeta conseguisce tutto il suo fine per opera
della verisimile e della naturale e minuta espressione: perché con la mente, astraendosi dal vero, s'immerge nel
finto, e s'ordisce un mirabile incontro di fantasia.”
Nel secolo successivo se si baderà maggiormente alla morale ed al comportamento, anche sociale, dell’uomo,
si avrà il Neoclassicismo, se prevarrà una maggiore considerazione del sentimento si avrà il Romanticismo. 5 La
poetica di Gravina fu la poetica del Neoclassicismo e, come questa, è intellettualistica e teleologica. Noi facciamo
presente che l’imitazione della Natura sia fisica che interiore all’uomo è semplicistica nella sua formulazione ma è
anche il recupero di una concretezza dell’arte che ha origine proprio dal disprezzato Barocco (e dalla reazione alle
imitazioni dell’Arcadia) che agiva sulla psiche creando realtà vituali. Già Gravina stesso dà all’uomo interiore la
capacità ed il valore di una realtà.
Abbiamo citato Cartesio; per comprendere meglio il dibattito che travaglia la società occidentale nel suo
rapporto con il passato non sembri esagerato risalire fino a lui che, in fondo fu il primo a porsi il problema in ter2
GIANVINCENZO GRAVINA, Della Ragion Poetica, con un’introduzione di GIULIO NATALI, Lanciano 1933.
Sarà il caso di citare anche Bergson.
4
L’analisi logica del linguaggio, fondata sulla logica aristotelica, si studia in Italia ed in Francia a scuola, anche
per favorire lo studio del Latino e nei paesi anglosassoni attraverso l’esame di un’opera letteraria, spesso di
Shakespeare, ma sempre sugli insegnamenti aristotelici. Il risultato non cambia: lo studente non sa di avere
studiato Aristotele e la sua logica.
5
Abbiamo proposto altrove il problema della vita autonoma del personaggio romantico che è creato dal poeta e
vive sia nel fruitore che nell’autore.
3
4
FOLIVM XI(XV).2 (età moderna e contemporanea)
mini attuali. Cogito ergo sum, una frase idiota ma che implica un l’uomo che non ha bisogno dell’autorità del
passato perché trova sempre un'origine interiore immutabile 6 . Sempre in Cartesio è l’immutabilità della legge
fisica e matematica (cui la fisica è ridotta) che rende inutile il ricorso al passato.
Indirettamente ciò influì nella “Querelle des Ancients e des Modernes” in cui, secondo i modernisti, l'identità
della Natura immutabile nelle sue leggi, rende inutile il ricorso agli antichi. Come si sa, due secoli dopo le teorie di
Darwin modificarono il concetto di immutabilità della Natura, con particolare riguardo a quella umana. Fontenelle,
il principale sostenitore dei “moderni” considera inutile chiedersi se gli antichi siano superiori, ma i moderni
possono evitare di ripeterne gli errori. Questo concetto non implica l'abbandono dello studio degli antichi e,
soprattutto restringe il concetto di progresso alla correzione degli errori precedenti.
Il concetto di un progresso che “modifichi in meglio” l'antecedente modificando proprio i concetti e le
credenze di base su cui si fondava la cultura è ancora lontano. Bisogna comunque dimostrare che il moderno sia
meglio dell'antico. L'errore più grande è proprio non porsi alcun problema, considerazione sulla quale siamo
d’accordo anche noi. A ben guardare nella querelle l'idea di Progresso contraddice l'idea di una natura, anche
sentimentale e psichica, immutabile. La coincidenza di due proposizioni, quella di immutabilità delle leggi naturali
e quella di Progresso della specie umana non solo non è necessaria ma l’una ostacola l’altra. Allora la questione fu
posta anche nei termini di un’utilità degli studi storici, specie se non si consideravano gli Antichi superiori ai
moderni, caso in cui il loro esempio sarebbe comunque insostituibile.
Compiendo un salto di quattro generazioni ci viene in mente Kant che mette in relazione l’uomo con il proprio
punto di osservazione, senza creare una falsa obiettività che non può esistere nei confronti di ciò che non si
conosce ancora. Ma se il punto di osservazione fosse dato da un altro da sé? Magari dall’oggetto osservato?
Oggetto, ovviamente, è anche il pensiero stesso mentre si genera. Valutare l’uomo nel tempo e nello spazio come
fa Kant equivale a storicizzarlo, il Postmoderno ne è la negazione. Se l’uomo può sentirsi virtualmente esteso nel
tempo e nello spazio, perché ridurlo? La scienza non ha minimamente aumentato l’essere (e l’essenza) dell’uomo.
Kant stesso, più tardi, finirà sempre per far prevalere la mancanza di autorità del passato sull’essere storico
dell’uomo, cercando un compromesso con le sue sensazioni, le cui origini vengono interiorizzate a cominciare da
Spazio e Tempo, ma non si preoccupò mai di estendere l’uomo alla storia. Dopo Kant, poi, la filosofia si è
sbrindellata perché Kant non osò portare il proprio discorso sino alla fine e pochi, tranne Hegel, hanno osato farlo.
Dicevamo che l’inizio del Postmoderno è in Cartesio. La scienza post-galileiana crede di superare il passato e
di progredire ma si contraddice nella sua fede matematica; tra l’altro senza porsi neppure il problema di studiare
sistemi logici diversi da quelli aristotelici. Sono i risultati che cambiano mano a mano che cambiano
sperimentalmente, i postulati. Non si escludono le categorie aristoteliche ma si “saltano” come passaggio quelle
Kantiane. A nostro giudizio le vere categorie della conoscenza sono quelle aristoteliche, inerenti l’oggetto; l’unica
logica usata per istituire relazioni conoscitive, matematiche o no, è quella aristotelica. Questo spiega e rivaluta il
comportamento degli scienziati, che preferiscono una strada sicura della conoscenza perché verificabile con
“metodo”, come si riteneva necessario fare sin dal tempo di Cartesio. Se, poi, il metodo debba essere induttivo o
deduttivo in questa sede è secondario, anche se il metodo deduttivo, almeno, parte da qualcosa di già esistente. La
Scienza da Cartesio non esiste più, va a tentoni e poi cerca di razionalizzare i risultati trovati sperimentalmente,
cioè a tentoni. Prima l’esperimento e poi la teoria. Attualmente si formulano teorie fisico-matematiche e poi si
cerca, a tentoni, appunto, di consolidarle con qualche esperimento, “sparando”, letteralmente, in seguito, migliaia
di teorie matematiche sui computer fino a trovarne una che risponda, più o meno, ai risultati sperimentali.
Creare un sistema di categorie che non si applica all’oggetto da conoscere ma al mezzo usato per essere
conosciuto. Questa trasmissione potrebbe essere considerata la prima fase della conoscenza, la seconda è
l’interiorizzazione di ciò che è trasmesso, ecco perché riteniamo che siano utili delle categorie di lettura di questo
mezzo (media?) e che queste categorie siano, se necessario, fornite dal mezzo stesso. Bisogna tornare a delle
categorie relazionali (non morali o del gusto) ma adatte all’uomo che parte da se stesso e si espande al mondo e
non assolute; non basta cambiare il punto di vista, come nell’arte barocca, ma crearne di nuovi. La Filosofia
dovrebbe uscire dalla contraddizione di strettoie generate da finti relativismi inseguiti, però, con i rigidi metodi
logici antichi. Sapere (oltre che conoscere) l’età dell’universo serve a qualcosa (semplicemente a vivere ad
esempio) o è inutile? Se posso vivere estendendomi oltre il me, si; altrimenti erano meglio i miti dei Greci.
UMBERTO MARIA MILIZIA
6
Notiamo subito che chi cercasse questa origine direttamente in Dio, senza mediazioni che dall’esterno entrino
nella sua coscienza, implicitamente svaluta la tradizione di cui è custode la Chiesa di Roma e si avvicina al mondo
delle chiese protestanti. Il passato non diviene più necessario per risolvere il problema esistenziale e dare un senso
al presente.
5
CH. STROZZIERI, Pubblicità e arte complice
INARTE: APPUNTI DI ARTE CONTEMPORANEA (a cura di Eugenia Serafini)
PUBBLICITÀ E ARTE COMPLICE
Reciprocità e influenze di due mondi eccezionalmente affini.
di Chiara Strozzieri
Aleksandr Rodcenko, Manifesto fiera dei libri
A chi trova che quello della pubblicità sia un concetto inavvicinabile all’arte, citando a vantaggio della propria
ipotesi la sua scarsa durevolezza e l’elevata riproducibilità, dovrebbe chiedersi il perché nella Francia di inizio
’900 la procura dovette intervenire contro gli attacchini che, invece di affiggere i manifesti del Moulin Rouge, li
trattenevano per le proprie abitazioni. L’unica risposta possibile è che quelle pubblicità, eseguite da Jules Chéret e
Henri Toulouse-Lautrec, fossero belle quanto opere d’arte con le loro avvenenti ballerine immerse in colori
chiassosi e scritte invitanti. La verità è che la pubblicità è sempre stata un sinonimo di modernità e per questo ha
aiutato l’arte a diventare moderna. Non è un caso ad esempio che il primo pittore moderno della storia,
quell’Édouard Manet che presentò al Salon di Parigi del 1863 la sua Colazione sull’erba suscitando grande
scalpore, sia stato anche il primo autore a interessarsi di réclame. Fu lui infatti, a disegnare il manifesto per il libro
Les Chats di Champfleury, compiendo anche un’evoluzione importante per l’opera pubblicitaria, che prima di
allora aveva parlato del negozio o dell’impresa, piuttosto che del prodotto.
Bisogna considerare che tra arte e pubblicità si è stabilito fin da subito un rapporto di reciproca influenza, per
cui spesso le agenzie di comunicazione hanno chiamato grandi maestri d’arte a dilettarsi prima nel manifesto, poi
anche nello spot televisivo, e d’altra parte l’arte ha rubato alla pubblicità aspetti interessanti del suo
metalinguaggio e dei meccanismi creativi.
L’Italia ha giocato un ruolo fondamentale in questo sistema biunivoco, perché è stato uno dei suoi artisti a
praticare una scissione tra arte e pubblicità, come tra due sfere distinte ma vicine, capaci di differenziare e allo
stesso tempo condizionare le rispettive soluzioni formali: sto parlando del livornese Leonetto Cappiello, autore di
capolavori come il manifesto per il cioccolato Klaus (1903), ricordato come “il cioccolato della donna verde”,
tanto è forte l’immagine di questa elegante figura a cavallo che campeggia su sfondo nero. Cappiello rivoluziona i
canoni della grafica pubblicitaria realizzando “personaggi-idee”, come lui stesso li definisce, che non hanno più
attinenza diretta con il prodotto da pubblicizzare, ma creano un’immagine del marchio, giocando spesso sulla
surrealtà (basti pensare alla zebra rossa di Cinzano e alla buccia d’arancia da cui esce un folletto per Campari).
La sua pubblicità non riceve altro che consensi e risulta fonte d’ispirazione per noti artisti italiani. Quando nel
1936, in occasione della I Mostra del Cartellone e della Grafica pubblicitaria, allestita presso il Palazzo delle
Esposizioni a Roma, Leo Longanesi pubblica la sua aspra critica sul settimanale romano Quadrivio, l’unico autore
esente da commenti negativi è proprio Leonetto Cappiello. Scrive il noto giornalista anti-avanguardista: “Il
manifesto da lui disegnato verso il 1900, per una ditta napoletana di confezioni, sta a testimoniare in questa
disordinata rassegna di opere vecchie e nuove, che al di sopra di ogni avventato modernismo e di ogni sciocca
rettorica (sic), sta l’unità dello stile, cioè l’intonazione dei colori, l’armonia del disegno, la proporzione, ed ogni
altra regola del buon artista”.
Cappiello insomma dà esempio di un approccio prettamente artistico alla pubblicità, perché, come è lui stesso
a dichiarare nel 1939, “l’artista deve essere prima di tutto il guardiano rigoroso e attento dell’estetica della strada.
Un manifesto, una volta esaurita la funzione pubblicitaria, deve restare come mezzo efficace di educazione estetica
della folla”. Il suo lavoro apre le danze a quell’arte della pubblicità che tutt’oggi si lascia guardare.
L’importanza della riconoscibilità per i cubisti.
Se l’artista fa pubblicità, la pubblicità entra nel quadro grazie ai cubisti. Pablo Picasso, rappresentando una
natura morta, dipinge il marchio del brodo Kub, facendo così un chiaro richiamo al nome del proprio gruppo di
6
FOLIVM XI(XV).2 (età moderna e contemporanea)
avanguardia. Si spingono oltre alcuni quadri di Georges Braque, in cui addirittura le etichette entrano letteralmente
nell’opera attraverso collage e papiers collés. In entrambi i casi comunque la pubblicità è uno strumento di cui i
cubisti dispongono per ovviare al rischio che la scomposizione della forma sia eccessiva e perda di riconoscibilità.
L’importanza delle sperimentazioni sulla figura infatti, possono portare a un’astrazione totale e al conseguente
smarrimento da parte dell’osservatore. È a questo punto che subentra l’etichetta, riconducendo l’occhio alla sfera
del reale e del riconoscibile.
Se per Braque e Picasso è centrale il riconoscimento della marca, per un’altra cubista, Sonia Delaunay, è
fondamentale piuttosto il riconoscimento dell’artista. Da sempre affezionata alla pubblicità, Sonia si affianca al
compagno di vita, Robert Delaunay, con il quale si lancia in un audace tentativo di autopromozione. Molte opere
iniziano a parlare dell’uno e dell’altro, caratterizzando le loro differenti ricerche, finché questa
collaborazione/competizione non sfocia in due dipinti finali: Robert esegue nel 1912 La squadra di Cardiff,
inserendo il proprio nome nel quadro e associandogli la parola “astra” (“stelle”); Sonia gli risponde ironica con un
manifesto del ’37, l’ultimo da lei eseguito, dove, sopra una bottiglia lasciata su un tavolo, compare la scritta “Un
Delaunay est bon à tout heure” (“Un Delaunay è buono a ogni ora”). L’opera è diventata l’etichetta di un liquore,
chiamato Liquore Delaunay, prodotto in Germania in occasione di una retrospettiva sui due artisti.
Le sperimentazioni futuriste invadono il campo pubblicitario.
Se i futuristi si rendono conto immediatamente che quella della pubblicità è una delle tante sfere che devono
essere dominate dai loro principi di velocità, dinamismo, libertà e futuro, i manifesti dell’epoca apportano dei
sostanziali cambiamenti grafici: l’andamento dinamico delle figure, la semplificazione bidimensionale delle
forme, le prospettive ardite delle scritte, la scomposizione cromatica. Ma l’assoluta novità sta nelle libera
disposizione delle parole, chiaramente frutto della rivoluzione delle Parolibere attuata da Filippo Tommaso
Marinetti: si tratta di poesie in cui le parole sono sparse sul foglio a seconda del loro significato e della loro
importanza nel testo, parole spesso onomatopeiche, scritte per lo più secondo un percorso istintivo e genuino.
Ebbene, tutt’a un tratto anche negli annunci pubblicitari compaiono le parole in libertà e addirittura i verbi iniziano
a sfuggire alle abitudini letterarie e alla sintassi. È poi con il Futurismo che nasce il più grande artistapubblicitario di tutti i tempi, Fortunato Depero, autore del primo quadro pubblicitario, Squisito al selz del 1926, e
del Manifesto dell’arte pubblicitaria futurista del ’32. Prima di tutto Depero è pubblicitario di se stesso: inventa
slogan per sé e per la sua Casa d’Arte Futurista a Rovereto, dove produce arazzi, cartelli pubblicitari, mobili e
suppellettili di gusto futurista, e pubblica il libro imbullonato Depero Futurista, così chiamato perché assemblato
da due grossi bulloni, ideato per promuovere la propria ricerca artistica. Inoltre egli collabora con
importantissime ditte italiane, quali Campari, Strega, Verzocchi, S. Pellegrino, e, durante il periodo newyorkese,
con grandi riviste come Movie Makers, Vanity Fair, The New Yorker, Vogue.
In tutti i suoi lavori spiccano un carattere ironico e un tono giocoso che influenzano fortemente il campo
pubblicitario, dove non ci si limita più a imitare la realtà e si inventa piuttosto un linguaggio alternativo, fatto di
simpatiche marionette dai colori sgargianti e buffe elaborazioni della figura umana. In un certo qual modo, sulla
scia di Depero e degli altri futuristi, prende il via anche l’astrazione della forma in pubblicità, quell’abbandono
delle convenzioni figurative che si verificherà appieno negli anni ’30 grazie al Costruttivismo.
Il Dadaismo inventa l’elemento sorpresa.
Quando sorge il movimento Dada, la pubblicità mostra dei cambiamenti sostanziali. Lo spirito dei dadaisti è
uno spirito paradossale, conseguenza del disprezzo nei confronti di un’Europa che si affaccia alla prima guerra
mondiale. Lo stesso nome del gruppo ci parla del legame col mondo pubblicitario, dato che deriva probabilmente
dalla marca di prodotti di bellezza di una ditta di Zurigo, le creme e lozioni per capelli Dada. Per questi artisti è
una scelta non-sense, nel tentativo di allontanarsi da qualsiasi concezione dell’arte precedente e dai valori estetici
formali, assolutamente da loro rifiutati. Anche la pubblicità si riempie di non-sense, per cui ciò che viene
pubblicizzato non è più un prodotto specifico, bensì un atteggiamento.
È invenzione dei dadaisti l’elemento sorpresa, ancora oggi utilizzato in pubblicità: gli stessi manifesti da loro
prodotti sono pieni di contraddizioni, come “Con Dada tutti i giorni, appuntamento ovunque” e “Se vuoi avere
idee tue, cambiale come camicie”.
Non si può parlare di elemento sorpresa senza citare Marcel Duchamp, che si sente fortemente influenzato
dalla pubblicità e per i suoi ready-made riprende proprio oggetti di uso comune visti nei cataloghi pubblicitari. La
famosissima Ruota di bicicletta non è altro che un’idea presa dagli allestimenti delle vetrine, dove sono esposte
appunto ruote di biciclette singole e libere su un sostegno verticale, per poterne apprezzare meglio le qualità.
Sono sue due opere pubblicitarie davvero sorprendenti: una boccetta di profumo, chiamata la Belle Haleine,
Eau de Voilette, sulla cui etichetta l’artista compare nei panni del suo doppio femminile, desiderando
sostanzialmente promuovere se stesso; e ancora, la famosa Fontana, che pubblicizza pubblicandone la fotografia
sulla rivista The Blind Man e raccontando del clamore da questa suscitato, clamore che però è in quel momento
solo immaginato, perché successivo all’uscita dell’articolo.
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CH. STROZZIERI, Pubblicità e arte complice
Marcel Duchamp, La belle Haleine
Fotografia e astrazione costruttiviste.
L’impiego della fotografia e dell’astrazione in pubblicità risale al periodo costruttivista e più precisamente ai
collage di Kurt Schwitters. I suoi fotomontaggi ironici e dissacranti desiderano scate-nare le polemiche, inserendo
ad esempio il volto di una donna ritagliato da un’immagine pubblicitaria sulla testa della Madonna Sistina di
Raffaello, come avviene nel quadro Das Wenzelkind. La fotografia che inizialmente egli ruba alla pubblicità,
viene successivamente restituita, quando l’artista fonda nel ’23 una propria agenzia pubblicitaria e avvia un uso
massiccio di immagini fotografiche. Queste gli permettono di mostrare oggettivamente il prodotto, in modo da
fornire una concreta promessa di qualità, e di articolare un discorso più complesso grazie all’uso di più immagini
contemporaneamente.
A Schwitters si deve anche la diffusione negli annunci di un certo geometrismo, a partire da quei caratteri
tipografici che preconizzano il carattere Futura, di cui egli calcola esattamente le misure e gli spazi. Molti
manifesti per clienti importanti, come l’inchiostro Pelikan, i prodotti alimentari Bahlsen, il comune di Hannover,
hanno un assetto astratto, in cui sono componenti geometriche i prodotti, le parole, i simboli grafici come le frecce.
La geometria aiuta il manifesto a farsi notare grazie all’ordine che la caratterizza e che fa distinguere una
pubblicità di impostazione geometrica da una in cui si affastellano disordinati gli elementi compositivi.
Altro esempio egregio è l’opera del costruttivista russo Aleksandr Rodčenko, impiegato nella difficile
pubblicità di propaganda. Nel Manifesto per la fiera del libro di Leningrado egli rappresenta una compagna
proletaria che dice a gran voce qualcosa. Il suo grido si staglia sulla carta stampata sotto forma geometrica ed attira
l’attenzione, in modo che anche l’analfabeta resti colpito e possa chiedere a qualcuno che sa leggere cosa ci sia
scritto.
Surrealismo e sfera del desiderio.
Il legame tra Surrealismo e pubblicità è evidente, a partire dall’ambiguità tra reale e immaginario a cui
entrambi aspirano.
Il movimento surrealista regala alla storia un personaggio straordinario come René Magritte, che per le sue
opere prende spunto dai cataloghi pubblicitari, disponendo gli oggetti in maniera ordinata nel quadro e
inserendone la definizione sotto ogni figura. Tuttavia il surrealista gioca con lo scollamento tra parola e immagine,
nominando ad esempio un cavallo come “la porta” nel famoso dipinto del 1936 La chiave dei sogni.
Questo esempio di stile magrittiano descrive bene l’influenza che in quegli anni ha sull’autore la psicanalisi,
che in qualche modo va a toccare anche il mondo della pubblicità, introducendo due elementi presenti ancora oggi:
le immagini oniriche, per cui il prodotto sembra appartenere alla sfera dei sogni realizzabili (tramite l’acquisto
ovviamente) e un costante rimando sessuale, più o meno velato, che conferisce al prodotto un potere di conquista.
Basti guardare il Manifesto per Norine, eseguito da Magritte per l’importante casa di abbigliamento belga, dove il
manichino è sia personaggio metafisico, che rimando al corpo femminile.
L’artista porta avanti contemporaneamente arte e pubblicità fin dagli inizi, quando è ancora studente presso
l’Accademia di Belle Arti di Bruxelles. Nel 1931 crea con il fratello lo Studio Dongo e prende a lavorare per
diverse ditte importanti. Nonostante debba accettare diversi compromessi con i clienti, egli cerca sempre di lasciar
trapelare dai lavori di agenzia la sua vena surrealista. Il manifesto per le caramelle Tonny’s sembra consueto, ma
dà un effetto di straniamento grazie al contrasto tra i due animaletti che si contendono la caramella; la pubblicità
per le sigarette Belga è apparentemente priva di alcunché, invece la fissità della protagonista ipnotizza e immerge
nel cielo pieno di nuvole alle sue spalle. A volte Magritte inserisce direttamente un suo quadro nella pubblicità o
viceversa, come nel caso del manifesto per i profumi Mem del 1946, che due anni dopo porterà al dipinto La voix
du sang. Come noto poi, molti suoi quadri sono stati di ispirazione al mondo pubblicitario, come quello raffigurante l’uomo con la bombetta, utilizzato più volte dal cappellificio Borsalino. Ad ogni modo, quando Magritte si dedi-
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FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea)
ca alla réclame, molte aziende non sono ancora pronte ad accettare la pubblicità surrealista, per cui la sua vicenda
professionale è tappezzata di fallimenti e lo porta a lasciare spesso dichiarazioni polemiche nei confronti della
pubblicità. Naturalmente la verità è che l’artista resterà talmente innamorato di questa forma d’arte da non
abbandonarla mai fino alla fine.
La pubblicità è arte.
Concludiamo il nostro excursus sulla storica influenza tra arte e pubblicità, parlando del movimento artistico
che in assoluto ha elevato l’opera pubblicitaria a capolavoro estetico: la Pop Art.
Gli artisti Pop intuiscono che la società dei consumi ha ormai travolto ogni aspetto dell’esistenza umana ed è
ormai impossibile pretendersi dentro o fuori il sistema, perché un “fuori il sistema” non esiste. Essi chiariscono
che l’arte e la pubblicità hanno in comune l’immagine e, se l’immagine è l’essenza della società di massa, è
possibile che la pubblicità, riportando le sue immagini sulla tela, diventi arte.
Andy Warhol, Brillo
Andy Warhol è l’artista che più si è immischiato nel mondo pubblicitario, avendo iniziato a lavorare nel
campo della grafica e del design, prima ancora di approdare a quello dell’arte, e avendo inventato elementi da
riportare nell’attività artistica, come la linea interrotta, il timbro, la partenza da una fotografia. Poi la svolta,
quando nel 1961 utilizza dei dipinti tratti direttamente dalla pubblicità per allestire la vetrina di un negozio di New
York. Da quel momento prende vita un’attività artistica definitivamente adorante i simulacri pubblicitari, come
immagini di una società fatta dalla massa e non da individui con una precisa identità.
Warhol introduce il tema della ripetizione, molto caro al mondo pubblicitario: ripetere vuol dire omologare,
perché la prima lattina di minestra avrà lo stesso sapore dell’ultima, così come un individuo sarà identico all’altro
in quanto avrà le stesse esigenze di consumo. La ripetizione degli oggetti d’altro canto ricorda la loro disposizione
sugli scaffali dei supermercati: l’artista assume il punto di vista dello spettatore acquirente e utilizza attraenza del
packaging e disposizione del prodotto per renderlo più appetibile e quindi più facilmente acquistabile.
Ma soprattutto egli utilizza la star, come la pubblicità utilizza il testimonial. Questo permette di banalizzare
ironicamente sulla persona famosa, perché tutti i volti dei personaggi di spicco vengono trattati allo stesso modo,
ripetuti in diverse colorazioni, che si tratti del ritratto di Mao o di quello di Marilyn, di quello di Elvis o di quello
dei tanti personaggi ricchi e famosi che glielo commissionano. Ogni soggetto non ha personalità, è solo
banalmente una star.
Andy Warhol è sicuramente la prova vivente che la pubblicità è arte e che ancora oggi la fusione tra questi
due mondi possa essere oggetto di ricerca. Magnifico immaginare che si possa ripetere uno degli episodi più
eclatanti riguardo il valore dell’arte della pubblicità: in una mostra alla Stable Gallery di New York nel 1964 Andy
Warhol simula un magazzino di merci, dove vengono impilate decine di scatole del sapone Brillo, talmente stipate
da rendere quasi impossibile il passaggio. La particolarità è che l’artista sceglie proprio un marchio creato da un
espressionista di seconda generazione, che si procura da vivere con la grafica pubblicitaria, di nome James
Harvey. Quest’ultimo intenta un processo contro Warhol, ma non può vincerlo: Harvey ha separato l’arte dalla
pubblicità, Warhol le ha identificate.
CHIARA STROZZIERI
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P. GUZZI, Futurismo e performance
FUTURISMO E PERFORMANCE
di Paolo Guzzi
Non credo ci sia qualche critico che non veda come ogni tentativo, più o meno riuscito, di fare arte di ricerca,
anche oggi, in Italia, si volga in primis al Futurismo, unico movimento d’avanguardia storica in Italia, e poi al
Surrealismo, al Dada al concettuale dei nostri tempi più recenti.
La relazione tra Futurismo e performance è ampiamente riconosciuta e se ne evidenzia il legame stretto anche
oggi. Il Futurismo produsse alcuni manifesti dedicati alla musica (Pratella li pubblicò nel 1910 e 1911) e alla
drammaturgia futurista nel gennaio 1911. Tali testi incoraggiavano gli artisti a produrre spettacoli più elaborati. A
loro volta, tali spettacoli producevano manifesti più dettagliati. Gli spettacoli improvvisati per mesi e mesi, durante
i quali gli artisti sperimentarono diverse tattiche sceniche, furono, per esempio, all’origine del Manifeste du théâtre
de variétés che fu il testo ufficiale del teatro futurista. Pubblicato nell’ottobre del 1913 e, un mese più tardi, nel
londinese Daily Mail, quindi nella rivista fiorentina Lacerba, che divenne nel 1913 l’organo ufficiale del
Futurismo, il Teatro di varietà era ammirato da Marinetti per la semplice ragione che esso ”aveva la fortuna di
essere senza tradizioni, senza maestri, senza dogmi”. In realtà tale teatro aveva le sue regole e i suoi maestri, ma
proprio questa varietà, mescolanza di cinema e di acrobazie, di canzoni e di danza, di numeri di clowns e di “tutta
la gamma di stupidaggini, di imbecillità, di sciocchezze e di assurdità, che respingono l’intelligenza ai limiti della
follia” ne faceva un modello ideale per le serate futuriste. I Futuristi amavano tale teatro, inoltre, perché non aveva
intrighi, né intrecci e obbligava gli autori e i tecnici a “inventare senza sosta nuovi elementi di stupore.” Inoltre
tale teatro costringeva il pubblico a partecipare, togliendolo dalla condizione di “spettatore stupido” e così l’azione
doveva svolgersi simultaneamente nei camerini, sulla scena e in platea. Per poco che si conosca lo stato della
performance di questi anni, non è chi non ricordi alcuni spettacoli di Fabio Mauri, di Bartolomé Ferrando di Julien
Blaine, di Giovanni Fontana, che realizzano, ciascuno a suo modo, ancora oggi le teorie futuriste. La divulgazione,
attraverso il teatro futurista, di teorie politiche esemplificate anche per i bambini, sono riprese da noi e non solo,
negli anni Sessanta, da performer che hanno dato ai loro interventi, connotazioni politiche sovente di estrema
sinistra (Gruppo 70 con i fiorentini Pignotti, Miccini, Ori, Chiari).
Il teatro di varietà futurista, il cabaret, in sostanza, sedusse Marinetti per “la rapidità delle sue scoperte e per la
semplicità dei suoi mezzi”. Si trattava, per Marinetti, di un teatro che” distruggeva il Solenne, il Sacro, il Serio, e il
sublime dell’Arte con la A maiuscola.” Il Solenne ed il Sublime fu distrutto definitivamente da una interprete,
un’attrice: Valentine de Saint-Point. Autrice di un Manifesto del desiderio (1913) dette alla Comédie des Champs
Elysées, il 20 dicembre 1913, a Parigi, un singolare spettacolo, fatto di poesie d’amore, di guerra, di atmosfera,
danzando davanti a grandi tele che facevano da fondale, illuminate da luci colorate. Sui muri circostanti erano
proiettate formule matematiche, mentre musiche di Satie e di Debussy accompagnavano la sua complessa
coreografia. Lo spettacolo fu replicato a New York nel 1917 (Metropolitan Opera House).
Non a caso, qualche anno fa, al teatro dei Dioscuri a Roma durante una Vetrina del Centro Nazionale di
Drammaturgia Teatro Totale (2000) diretto da Alfio Petrini, Giovanni Fontana presentò Piedigrotta di Cangiullo.
Scritto dunque da Cangiullo sotto la forma del teatro delle “parole in libertà ”il testo era stato recitato o meglio
“declamato” come diceva Marinetti, da Marinetti stesso, da Balla e da Cangiullo, nella galleria Sprovieri di Roma
il 29 marzo e poi in replica, il 5 aprile 1914. Vi erano state precedentemente alcune versioni dello stesso testo, ma
in quel caso si ebbe una migliore cura nell’elaborare e nell’illustrare le nuove idee presenti nel Manifeste du
théâtre de variétés. La galleria Sprovieri era illuminata con luci rosse e alle pareti erano stati messi quadri di
Carrà, Balla, Boccioni, Russolo e Severini. Una stravagante compagnia (Sprovieri, Balla, Depero, Radiante e
Sironi) assisteva alle “parole in libertà” dette da Marinetti e da Balla mentre Cangiullo accompagnava al piano. La
compagnia, stravagante con grandi cappelli di carta di seta, suonava strani strumenti “fatti in casa”: grandi
conchiglie, una sega che faceva da archetto di violino, ed altri aggeggi simbolici e “assurdi” che avrebbero dovuto
combattere con l’ironia la tendenza decadente alla nostalgia e al ”chiaro di luna”.
Lo spettacolo fu l’occasione di un altro manifesto, quello della Déclamation dynamique et synoptique che
condannava la staticità della recitazione, abituale a quei tempi, esaltando invece il movimento di tutti gli arti
dell’attore, e la necessità di accompagnarsi con strumenti rumorosi.
Piedigrotta fu il primo spettacolo del genere e fu seguito, verso la fine di aprile 1914 alla galleria Doré di
Londra, poco dopo il ritorno di Marinetti da un viaggio a Mosca e a San Pietroburgo dal suo Zang tumb tumb.
Teatro rumorista, musica rumorista che fu codificata dall’Art des bruits, manifesto redatto da Russolo, dopo lo
spettacolo di Balilla Pratella dato al Costanzi di Roma nel marzo 1913. Il suono delle macchine dunque ha una sua
musica e lo dimostra la Macchina tipografica (1914) di Balla durante una rappresentazione privata in onore di
Diaghilev. Non a caso, nel 1999, a Parigi, galérie Satellite, davanti ad un pubblico di artisti e poeti, fu riproposta,
sempre dall’attento Giovanni Fontana, la macchina tipografica balliana cui parteciparono, coinvolti nella
rappresentazione, lo stesso Fontana, Tomaso Binga, Lamberto Pignotti, Sylvie Ferré, Paolo Guzzi.
Ad ogni esecutore era stato attribuito un suono onomatopeico affinché ciascuno rappresentasse “l’anima dei
differenti pezzi di una rotativa”. E’ chiaro che tali esecuzioni non facevano che realizzare le idee di Gordon Graig
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FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea
che pubblicava a Firenze la sua rivista teorica The Mask in cui arrivò a teorizzare l’abolizione dell’interprete a
vantaggio di una supermarionetta, da lui mai realizzata sulla scena, ma che passò ai Futuristi, in parte modificata,
nel senso che i Futuristi accolsero sulla scena marionette e interpreti umani che interagivano (Le Marchand de
coeurs di Prampolini e Casavola). Nell’avvicinamento progressivo del Futurismo alla performance, e viceversa,
non possiamo non tenere conto del teatro sintetico. Il Futurismo, come si sa, non lasciò scoperto alcuno spazio
dell’arte, del teatro, della letteratura, della musica e della maniera di vivere stessa, impegnandosi nel dettare leggi
sulla moda, sulla gastronomia, sul maquillage. Il teatro sintetico fu un’altra pratica assai coinvolgente, arrivata
sino a noi anche nel cinema (i “corti”) e ancora nel teatro (i “corti teatrali”) più volte impiegato dalle neo
avanguardie degli anni 60, ma che agli inizi del XX secolo ebbe un impatto notevole sul pubblico. La
condensazione delle idee e dell’azione specialmente, che ritroviamo anche nella pubblicità, oggi, è ripresa nella
performance, che, definita in circa quattrocento modi, può dirsi sicuramente art vivant e cioè arte in movimento.
Oggi, la crescita esponenziale di artisti performativi in tutti i continenti, i corsi universitari e i numerosi libri
dedicati alla performance, gli innumerevoli musei che aprono le loro porte ai media, provano che la performance,
agli inizi del XXI secolo, non ha perduto nulla della sua energia né del suo potenziale, sin da quando i futuristi
italiani vi si dedicarono per cogliere la velocità e il dinamismo del XX secolo che incominciava. Oggi la
performance si nutre della nuova, complessa tecnologia di cui tutti fruiamo, al minimo o al massimo grado di
abilità, e quindi maggiormente riflette il gusto per la velocità dell’industria e della comunicazione mentre è, allo
stesso tempo, un antidoto alla alienazione frutto della nuova tecnologia dei nostri tempi. Infatti è la stessa presenza
dell’artista performativo cha agisce in tempo reale arrestando quasi il tempo e la sua velocità (si pensi ad Allister
MacLellan, a Vaara, al giapponese Shimoda ed ai nostri Pignotti, Fontana, Binga, Miccini, Fabio Mauri, Mambor,
Carlo Marcello Conti) a conferire a questa tecnica artistica una posizione centrale. La sua espressione, in diretta,
suscita nel pubblico che sempre più frequentemente assiste, nei musei o durante i numerosi festival (si pensi a
quello di Lione, vera e propria rassegna e ratifica degli stati generali della performance, si pensi al nuovo museo
Pecci di Prato, dedicato alla poesia visiva e alla performance, inaugurato nel 2006 con performances di Julien
Blaine, Arrigo Lora Totino, Lamberto Pignotti) una vera e propria seduzione. E non importa se qualcosa riesce
male, durante la realizzazione del performer, il tutto si avvicina molto agli insuccessi dei futuristi, tanto esaltati e,
in un certo senso, cercati da Marinetti. L’apparente casualità di alcune performances, che si affiancano invece alla
maniacale preparazione minuziosa di altre, rende il pubblico più vicino agli artisti in carne ed ossa, che si
accampano nello spazio senza che di solito vi sia un luogo assolutamente deputato, ma che trovano nella piazza,
nella strada, ovunque, perfino nei musei e nelle gallerie d’arte, diciamo paradossalmente, la sede ottimale per
“performare”. Opere d’arte in movimento, dunque, più vive a volte di quelle immobili appese alla parete. Il
movimento, direi, è la caratteristica che maggiormente è stata mutuata dal Futurismo, oggi, quindi anche il suo
opposto, che è l’immobilità estrema, con cui in alcuni casi si esprimono alcuni performer.
Naturalmente si moltiplicano gli studi su questa singolare forma d’arte. L’espressione “performance artistica”
sembra ormai buona per tutte le forme di performance e quindi diventa insufficiente a stabilirne le varie forme.
Interattività con lo spettatore, installazioni nelle discoteche, sfilate di moda, obbligano i critici e gli spettatori a
maggiormente definire il genere cui si va assistendo sotto angolazioni nuove, a decrittarne le forme concettuali di
espressioni che si vanno diversificando. Il termine “performativo” si va estendendo in architettura, in semiotica, in
antropologia e nell’ambito di studi sui codici in trasformazione. Si studiano i materiali della performance, ci si
obbliga alla catalogazione, a studi più ampi, si invadono altri territori.
Lungo la sua storia, che, possiamo datare, inizia intorno al 1933, negli USA, ad opera di transfughi dal
Bauhaus, tutte le volte che, come un’onda marina, o come la luce e l’ombra, o come il sonno e la veglia, la
performance, dopo un periodo di eclisse, si è ripresentata al giudizio del pubblico, è sembrata cambiata. Tuttavia,
dagli anni 70, è apparsa più continua e più omogenea. Mentre i Futuristi, dopo un’esplosiva esperienza, se ne sono
serviti per approfondire il campo della pittura e della scultura tradizionali, se vogliamo, come già dal 1960 hanno
fatto Rauschenberg e Oldenburg e negli anni 70 Acconci e Oppenheim, numerosi artisti quali Meredith Monk e
Laurie Anderson si sono dedicati esclusivamente a questo campo artistico, lavorando per parecchi anni
all’elaborazione di un coerente percorso.
La performance, nonostante il successo degli anni 80 e maggiormente degli anni 90, forse oggi, che espande il
suo successo, perde invece la sua carica eversiva. Imprevedibile e imprendibile, difficilmente definibile, rischia di
essere ripudiata dagli stessi artisti, e alcuni se ne servono ancora soltanto per stupire e scandalizzare il pubblico,
seguendo la moda. Divenuta materia di studio, ha perso la sua connotazione di work in progress e si museifica nei
CD rom e nei Video e negli studi minuziosi degli specialisti. Come è stato ed è ancora per il Futurismo, che però,
dopo decenni, oggi si fa risentire con rinnovata forza, ricomparendo qua e là, anche nella performance.
PAOLO GUZZI
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S. D’ARBELA, Valeria D’Arbela: ritrovamento di un valore
VALERIA D’ARBELA: RITROVAMENTO DI UN VALORE
di Serena d’Arbela
E’ stato proprio a Venezia, di fronte ai quadri della retrospettiva Alchimie veneziane alla Galleria
Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro ( marzo e aprile 2008) che ho avuto piena conferma dell’importanza
di VALERIA, nel panorama pittorico della seconda metà del ‘900. Non solo nel quadro di una riscoperta delle
impronte femminili, ma come specchio delle inquietudini ideali, contenutistiche e formali di un’epoca in continuo
movimento. La sua personalità sensibile e incisiva, solitaria e fantasiosa, appartata, ma nello stesso tempo attenta
ai fermenti contemporanei si rivelava tutta intera in quella scorrevole interpretazione alchemica. L’immagine
lagunare, imprendibile e labirintica densa e trasparente di linee e colori, gravida di passato e presente sfilava nel
percorso evolutivo delle sue opere, ricco di riferimenti temporali e cambiamenti di ottica. Ma sapevo bene, per
aver seguito da vicino l’intera attività della pittrice, che era solo uno dei suoi tanti cicli ispirativi.
Ritratto di Valeria
VALERIA D’ARBELA ( 1930-2002)
debutta con una espressività istintuale, ricca di colore e con
evocazioni espressioniste, nella serie di tempere con figure “baudelairiane” (gli “umiliati e offesi” della prima
personale all’Arco, Palazzo delle Prigioni, nel 1945). Appartiene alla generazione uscita dalla gabbia del
fascismo che raccolse gli stimoli del pensiero liberato dalla Resistenza.
Approdò all’ARCO, associazione culturale d’avanguardia di pittura, scultura, musica, poesia, teatro e
letteratura ove si cimentavano tra gli altri Emilio Vedova, Giuseppe Santomaso, Armando Pizzinato. Fu subito
chiaro che l’artista quindicenne non cercava, trovava. Dove? Nella sua mente. Questo rimase un tratto
inconfondibile della sua creazione. Soluzioni pittoriche che ad altri costavano elaborati studi erano per lei
immediate illuminazioni. Poi spazia nel clima effervescente di libertà culturale. Si tuffa nel bianco e nero con un
disegno graffiante che unisce la carica espressionista al proposito di raffigurare il paesaggio lagunare e i pescatori.
Un ulteriore passo sull’onda del realismo la porta nel 1950 a confrontarsi con gli scenari sociali delle fabbriche e
delle campagne sommosse dalle lotte di rinnovamento e progresso, con le zone depresse del Delta Padano. Operai,
minatori, contadini alluvionati nei loro luoghi, alle prese con povertà e sfruttamento. Era il momento del grande
bivio del dibattito artistico fra realismo e astrattismo. La contaminazione diretta tra arte e istanze sociali
conquistava gli animi. La scelta di VALERIA di aderire ad un linguaggio teso a dare forma esplicita al mondo
del lavoro non cancellava tuttavia la tensione espressionista della sua visione pittorica e la persistente tentazione
onirica. Trasferita a Milano, viene in contatto fisico e spirituale con la metropoli, con l’anonimato della grande
città, dei caseggiati di periferia, con le solitudini, gli andirivieni e i traumi di individui imprigionati nelle strettoie
urbane. I suoi disegni a china, a colori e in bianco e nero, offrono la visione drammatica di falansteri disseminati
di monadi, da cui trapela, rimpiattata, la sofferenza (“lo spazio oscuro,l’inferno della metropoli” come lo
definisce il critico Giuseppe Marchiori).
Nella serie di disegni sulle donne che hanno per tema la violenza ( I Murders ) balzano agli occhi i contesti
brutali e nel contempo le ambiguità. Sono sanguigni, crudeli, suggeriscono la complessità di sentimenti e identità
contrapposte. Il femminismo sta sollevando i veli di antiche soggezioni che nella vita si complicano di intrichi.
Valeria dipinge la rivolta della femminilitudine ma è anche approdata ad un relativismo pirandelliano che si
riflette nei tratti e nei gesti dei suoi personaggi, aleggianti fra cronaca e mistero. A questo punto di osservazione
non è estraneo il contatto con il Piccolo Teatro di Strehler e le sue rappresentazioni ricche di stimoli e di complessità. Negli anni ‘70 la contestazione giovanile non la lascia indifferente. Il bulldozer sessantottino che ha travolto
privilegi, tradizioni, leggi, costume, ora aggiustando e innovando, ora distruggendo,la spinge a raffigurazioni sim-
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FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea)
simboliche dove nella dinamica espressionista si affacciano sintesi astratte. VALERIA è coerente con la propria
linea espressiva interiore ma è sempre aperta alle esperienze artistiche parallele. In queste composizioni vediamo
muoversi e fronteggiarsi due forze, i cavallini rampanti e le forbici e cavatappi. Gli uni galoppano con slancio in
tutte le direzioni verso un’ipotetica conquista, gli altri si protendono in agguato come congegni pronti a schiacciare e reprimere. Il colore delle chine è vivido e contribuisce al contrasto degli intrecci grafici. Ma un nuovo
ciclo fantastico ed epicureo, quello del luna park e del Carnevale brasiliano mostra la duplicità dell’ideazione
dell’artista che sempre oscillerà tra l’immaginazione e gli imperativi del mondo reale, alla continua ricerca di una
risposta poetica. In lei pittura e vita s’intrecciano in una instancabile creazione. Lei stessa lo afferma in una lettera:
“L’arte è stata la mia salvezza sempre, la mia isola felice ,il mio specchio, il mio paradiso, il mio dialogo con gli
altri”. Qui nell’ abbandono ludico dei luna park e delle fieste trova un viatico alle angosce esistenziali.
Tante certezze, speranze, ideali si sono alternati in questo ‘900 pregno di contraddizioni. Illusioni e delusioni
hanno sostituito le utopie infrante. Ma VALERIA non abbandona l’interesse e l’impegno per l’uomo, cerca nella
Natura e nel cosmo delle risposte filosofiche più ampie e relative. Il paesaggio per lei non è mai veduta, ma orma
vitale e messaggio cifrato inseguito dai suoi pennini vibranti o dal pennello. Ed ecco nel suo soggiorno romano, il
succo quasi musicale dei suoi Giardini, degli Alberi, dei Mari solcati dalle fragili imbarcazioni degli abitanti
dell’isola di Aran, metafore di pace apparente nella bellezza e di lotte tempestose di opposti nel loro rovescio. La
duttilità che guida i valori grafici e cromatici a volte li fa più lievi ed evanescenti, a volte, come nei dipinti a olio,
irrobustiti da un impeto espressionista. Nelle composizioni sono individuabili molteplici spunti visuali che
sembrano pienamente amalgamati, ma che, ingigantiti da uno zum, potrebbero divenire nuovi quadri. Anche questi
grovigli grafici in nuce queste tracce proliferanti sono una caratteristica originale del suo talento.
La tendenza astratta apparsa nei Cavatappi riappare nei cicli degli anni 80 e 90. In quello delle Scale, iter di
costruzioni ipotetiche e senza uscita, nelle Utopie ( 88- 90 ) illustrazioni simboliche della volontà autoritaria che
incombe su folle di formiche e incarna la demistificazione del socialismo reale. Nella serie di disegni della
Guerra del Golfo (92) con i cumuli e piramidi di vittime le chine colorate e il bianco e nero hanno un forte potere
allegorico. La guerra ha corpi e volti. I segni fissano in un gesto allusivo le figure e architetture sospendendole
nel vuoto. Il bianco del foglio diviene spazio storico. Nelle ultime collezioni inedite di Natura Arte e Spazio
(2001) in cui le linee sfrecciano e fluttuano verso un’ignota collocazione cosmica rinchiudendosi in aeree
geometrie e nelle grafiche del Nuovo Luna Park (2002) troviamo più decisi esperimenti di astrazione e
stilizzazione. Forse Valeria stava per lanciarsi in un nuovo stile, con la sua instancabile giovinezza spirituale. Ma
la morte, nel 2002, ne interruppe il cammino. Nel 2001 invece, parallelamente, ridipingeva Venezia su grandi
tele (alcune presenti nella mostra del 2008) rivisitando le sue creazioni degli anni 60. Sceglieva il bianco e nero
non a caso, come colore della memoria, conferendo drammaticità e volume a rii e palazzi. Quasi a testimoniare la
forza ricostruttiva del ricordo e la profondità dello sguardo all’indietro, forse presago della fine.
Valeria nella città
Di tutto il complesso delle opere di Valeria – una traccia continua che rimanda ad essenze, date, stili, fondali
delle vicende artistiche di un secolo - ci sono parti ancora inedite. Un nutrito catalogo è in via di preparazione
e nuove occasioni retrospettive consentiranno di presentarle al pubblico e alla critica. L’iniziativa di Ca’ Pesaro
frutto di scelte non effimere dei promotori e dell’attenzione intelligente del conservatore Silvio Fuso, ha aperto
la strada al ritrovamento di un valore autentico. Una proposta controcorrente, rispetto ai depistaggi della
marketizzazione generale del prodotto artistico, nella giungla espositiva priva di sicuri parametri di giudizio.
SERENA D’ARBELA
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L. UGOLINI, Caffè Storico Letterario – A Firenze 14-3-2009
GIUBBE ROSSE – CAFFÈ STORICO LETTERARIO – A FIRENZE 14-3-2009
dI Liliana Ugolini
Di nuovo siamo ad un passaggio di gestione e le “ Giubbe Rosse” nel cuore dei Fiorentini risuonano di
silenzio. Un velo di mistero accompagna il passaggio e sul sito delle Giubbe sono evidenti inesattezze e
dimenticanze in sobbalzi di vuoto. Come si riempiranno i bei locali interni ed esterni, ospiteranno ancora voci
poetiche, corpi in movimento, poesia sonora, video, sperimentazioni e libri e riviste e piccoli convegni? Ci
riuniremo Domenica prossima cioè domani 15/3/2009 durante il periodo che in anni passati ha visto
manifestazioni con performer internazionali nel Festival a + Voci diretto da Massimo Mori durante le Giornate
della Poesia volute dall’Unesco dove è stata ospite, fra gli altri, anche Eugenia Serafini. Ci saremo quelli che si
interessano di cultura e che lì hanno operato per sapere se lo spazio (fra i tanti spazi gratis tolti alla cultura) ci sarà
ancora. Forse per guardarci l’un altro, per commentare e scuotere la testa per dirci che così non va oppure ci
daranno la bella notizia che tutto continuerà come prima? Questo il clima intorno al fatidico 15 Marzo 2009. Mi è
stato richiesto da Eugenia Serafini di scrivere su questo locale per la rivista da lei diretta «Folium» e desidero
partire da qui da questa sospensione per decisioni che non ci competono, pare. Locale amato o odiato a
Firenze,che ha le sue origini alla fine dell’800 primo Caffè affacciato sulla piazza nuova sorta al posto del
mercato vecchio e “ a vita nuova restituita” la piazza fra gli improperi dei fiorentini colti che l’hanno sempre
considerata uno scempio al colmo del quale fu detto da Antonio Viviani “che ce n’era abbastanza per far diventare
futurista anche Sant’Antonio”.
I proprietari che per primi aprirono sulla Piazza Nuova intitolata a Vittorio Emanuele II ora Piazza della
Repubblica, erano tedeschi, i fratelli Reininghaus, fabbricanti di birra e avevano portato le giubbe rosse dal loro
paese, indossate dai camerieri. Per i fiorentini sbrigativi il loro nome impegnativo fu sostituito subito dal caffè
delle Giubbe Rosse e così è rimasto. Da subito fu luogo di lettura perché qui si potevano trovare i giornali italiani e
internazionali ma fu dal 1913 che la sala interna divenne la sede fissa del Gruppo di “Lacerba” e quindi dei
futuristi che da qui tentavano di svegliare l’Italia sonnacchiosa. Qui, fra gli altri, Palazzeschi incontrò Papini
futurista ante litteram. Iniziarono le diatribe tra i Gruppi con voli di ceffoni fra Boccioni, Soffici, Prezzolini.
Volarono anche tavoli e bicchieri e posso dire io che da 16 anni conduco programmi di poesia multimediale a
Firenze e da cinque anni alle Giubbe Rosse che avvenimenti simili si sono verificati anche di recente per fortuna a
parole che sono volate alte e basse da sostenitori o contestatori. E’ sempre il nuovo che travolge per poi divenire
accettato fino alla prossima diatriba. Poi come facevano già i poeti ai primi del 900 all’uscità dal Caffè si
mescolano fra la folla portando le loro convinzioni fino alla prossima volta per ritornare vivaci e polemici sui
tavolini del Caffè. Passa il tempo, gli avvenimenti cambiano e cambiano le idee e i bollenti spiriti. La guerra
cambiò veramente tutto e di conseguenza anche il caffè rientrò in una normalità di frequentatori delusi e nostalgici.
Con il Gruppo di “ Solaria” si scelse il silenzio, fuori dai parametri chiassosi e si faceva cultura. I Grandi che sono
passati di qui sono tanti e prestigiosi e non li elenco. Qui si è fatta la storia di buona parte della cultura italiana fino
a Montale e a Luzi ed oltre. Nel periodo fascista le giubbe che i camerieri indossavano erano bianche per un poco
fino a diventare rosse dopo la guerra. Nel ’37 gli intellettuali “ pericolosi” furono allontanati (fu l’epoca del
cambio delle Giubbe): fino al “44” il Caffè era considerato “angolino da ripulire”. Dal 45 al 47 fu sequestrato dal
Quartiere Generale Americano con grande disappunto dell’allora proprietario Gino Pini. Il caffè riaprì al pubblico
nel ’47. I camerieri indossavano le Giubbe Rosse e i frequentatori vecchi e nuovi tornarono nuovamente a sedersi
alle Giubbe Rosse come superstiti. Il caffè aveva perso il ruolo di centralità e decadde fino al 91. Alla nuova
gestione degli Smalzi fu deciso di dare al Caffè il ruolo e l’immagine che meritava come scambio culturale e
circolazione di idee.
E con l’impegno ci sono riusciti grazie all’apporto di Massimo Mori direttore della sezione letteraria degli
ultimi 20 anni, da Franco Manescalchi col suo succedersi di autori facenti capo a Pianeta Poesia che prevede un
settore multimediale da me diretto, alle presentazioni dei libri editi dal Gazebo di Mariella Bettarini e Gabriella
Maleti, ai Festival A+Voci diretti da Massimo Mori e tanto altro organizzato da Fiorenzo Smalzi stesso e dai suoi
fratelli. Ci sono stati convegni, riunioni di filosofi, la collaborazone dell’Istituto Francese. Ora siamo tornati in un
limbo di non conoscenza del futuro. Ma questo caffè che è nella mente dei fiorentini per la sua storia e per le
personalità della cultura che da qui sono passate, non può non proseguire il suo cammino particolare. Questo ci
auguriamo mentre domani saremo tutti lì a domandare e domandarci se si può credere che un luogo possa avere
già acquisito una sua più vasta natura e connotazione fuori da ogni valenza commerciale.
LILIANA UGOLINI
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FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea)
"LE ARCHITETTURE DIPINTE" DI MASSIMO ELMI
di Eugenia Serafini
Massimo Elmi, Interno/esterno, olio su tela, 2005, cm. 70X40
Antiche architetture romane diroccate, colonne sopravvissute all'usura del tempo, bassorilievi sberciati e pure
miracolosamente integri nel loro messaggio sono i soggetti che da tanti anni appaiono nelle opere di Massimo
Elmi.
E conoscendolo da quasi quarant'anni e ritornando con la memoria alle tante opere prodotte dalla sua fantasia
mi sembra che si venga formando nella mia mente una sorta di immaginifera Wunderkammer, o meglio una
"Galleria immaginaria" alla maniera di quella che dipinse Giovanni Paolo Pannini intorno al 1756, conservata
attualmente alla Staatsgalerie di Stoccarda: traboccanti l'una e l'altra dei capolavori della scultura e dell'architettura
romana e insieme testimoninanza di un profondissimo e insostituibile amore per una civiltà che totalmente sembra
esigere dedizione.
Massimo Elmi, Torre, Olio su tela
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E. SERAFINI, “Le architetture dipinte” di Massimo Elmi – D. CARA, Eugenia Serafini:strategia e ritmo della …
Dunque in questa "Galleria immaginaria" vado collocando tele e carte dell'Elmi dipinte pazientemente ad olio,
con la cura e la sapienza tecnica che gli derivano da una inclinazione naturale ma anche da tanti anni di studio
(non ultima la conoscenza profonda delle teciche di restauro), di osservazione, di lavoro e da quel vivere
nell'ambito dei Musei Vaticani che quotidianamente lo pone a contatto con le opere e le collezioni più
straordinarie che siano mai state prodotte.
E come il Pannini vado collocando sui registri più alti della mia Galleria una rovina del Colosseo tutta
riverberata di arancio in mezzo ad un prato di verdissime erbe, un capriccio di templi in rovina, un arco di
Costantino, un Pantheon, una tomba di Cecilia Metella, uno scorcio di Mura Aureliane, un rudere di acquedotto e
tutto visto sempre in una luce che allude a un tramonto aranciato di quelli che a Roma indorano l'aria e il cielo e
l'atmosfera tutta attorno alle case, agli alberi e perfino alle persone e ai loro sogni. E sembra che ogni cosa possa
realmente fermarsi in quell'ora d'incanto: dal colore che l'Elmi ruba al tramonto, al cielo profondamente azzurro, al
tempo che magicamente chiude il suo cerchio sulle rovine romane.
Poi vado mettendo sui registri più bassi della mia "Galleria" i quadri che recuperano scorci d'interni, quasi il
viaggio della memoria si sia trasferito con un atto di coraggio, dentro quelle rovine che prima si potevano solo
osservare dall'esterno: e eccoli i bassorilievi di cavalli rampanti, i fregi di chissà quali architravi, i busti in torsione
di un Gallo morente o di un atleta pronto alla gara.
Ora che entriamo nelle rovine, il nostro viaggio si trasforma improvviso in luogo della ricerca esistenziale,
dell'indagine psicologica, della tensione come del dubbio o dell'abbandono: mirabilia e artificialia assumono le
fattezze della nostra inquietudine, scavano nella nostra esistenza assumendo quei colori stranianti che non
appartengono unicamente alla realtà o al sogno ma ad un immaginario, per certi versi ancora "sublime":
certamente del tutto attuale.
EUGENIA SERAFINI
EUGENIA SERAFINI: STRATEGIA E RITMO DELLA PERFORMANCE ALFABETICA
di Domenico Cara
La via primaria di tutto il teatro poetico di Eugenia Serafini è senza dubbio l'invenzione mobile e gestuale
della metamorfosi. Nella medesima dinamica (del sentimento, del corpo, delle riflessioni, del proprio modificarsi,
ecc.) è invenzione di una circostanza che l'artista adegua al suo pensiero, all'etica ormai dell'intensa esperienza,
alle aree e al movimento che in effetti analizzano la parola dal principio alla fine della propria "recita" visuale "per
puri eventi", come direbbe Gilles Deleuze, e ramificante, secondo le spirali iconografiche e le spirali verbali.
La sua persona non resta quindi esemplare nello schema guidato a freddo per il teatro, ma per la diversa
misura di rendere la devota azione, strato della fiaba, libero corso della fantasia sull'ellissi di un tema che è
spostamento della logica di un senso, attraverso una mobilità visibile, memoria di fili, di controllati adempimenti
cognitivi per produrre (e provocare) eventi, desideri, assedi poetico-esistenziali, lenti e meditati e, insieme,
spettacoli pubblici di civiltà estetica, antropologica, funzionale nei suoi cicli appassionati e senza artifici. Nel
volume della stessa performer, Canti di Cantastorie: il mio teatro di performance edito da ARTECOM-onlus
(Roma 2008) di 368 pagine, con premessa di Mario Verdone, e un'introduzione di Luigi Rendine, accompagnata
da una nota dell'Autrice, con postfazione di Cesare Pitto, Eugenia Serafini assolve per il lettore alle incertezze di
esplicazione, di conoscenza e di messa in spazio della sua prodigiosa opera. Un'antologia delle rappresentazioni
compiute nel mondo, didascalie spontanee (e necessarie) sugli argomenti eseguiti, i testi disposti in forma visuale,
propria della poesia scritta che in Italia conta nomi impegnati e famosi, pubblicazioni da contemplare e indagare, e
una letteratura a pulsione felice, sorta nei diversi decenni del Novecento, e in più esposizioni e letture, tutt'altro
che naufraghe in ogni parte: Roma, Firenze, Bologna, Venezia, ecc..
La vitalità è dunque tenuta in vita dalla poetessa e docente romana con effusione ed esecutivo equilibrio, quasi
come condizione umana del vivere la conoscenza, il sapere, l'amore del teatro e la festa dello spettacolo (e della
cultura) nel suo più teso e inquieto meccanismo grafico e sonoro.
L'opera creativa è abitata e determinata da un contatto diretto dell'espressione, sceglie la voce perché la
realizzazione della sua lettura abbia un maggiore contatto con gli altri, regolarizzata dagli effetti di voce, dalla
musica del ritmo in cui l'alfabeto si riproduce senza monotone estasi e passive o corrugate modalità accademiche.
Si avvertono nelle diverse cognizioni, ricerche e penombre di cui sono capaci soltanto il gesto e il giardino
dell'immaginazione, così come lo sguardo di chi agisce continuando a farsi figura dell'intevento trasgressivo e del
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FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea)
disincanto, nel controllo delle pause, nel grido improvviso, nel disegno generale in cui un poema è permesso, per
rifacimento, disposizione creativa (e ricreativa), adozioni visuali e concrete, lievi. Il tutto coltivato da Eugenia
Serafini con sensibile maestria, episodi per episodi, punti di fuga e alfabeti variabili nei codici di un resurgere
vocale, non soltanto lirico-emotivo, ma teologia di un'esperienza mimica polivalente, e direi radicale per la sua
vocazione al fronteggiare il testo e le possibili derive dell'espressione. In un gioco sognante o ironico, fabbricato
per riprodurre una realtà tutt'altro che secondaria, i pretesti tematici poetico-fiabeschi impongono, al di là delle
forme tradizionali e protocollari fini a se stesse, modelli senza contrasto e sfida fonetico-progressiva. Nel volume,
anche graficamente non velleitaria, è colma l'altalena tipografica, oltre ai sussulti lineari, epigrafici, a ondosità
calcolata o d'urto, non impassibile, né sterile all'intensa causa performativa. Senza dire del desiderio d'amore per le
scelte che ormai sono diventate le "favole" di quella modernità che distingue Eugenia Serafini nel clima del suo
sogno ipnotico, complici certe libere evanescenze che reintroducono il moto nel senso della vita e delle sue
relazioni linguistiche. Missione e lotta di un lavoro insistente; nell'opera, l'armoniosa impaginazione conferisce
all'occasione culturale una coerente indicazione di nostalgia del detto e della tecnica di svolgimento: più parametro
d'individuazione personale che mero catalogo di contenuti e di documenti giustificativi esemplarmente superati.
L'indice contiene la citazione delle più importanti esecuzioni, gli stralci, le informazioni (anche illustrate) delle
frequentazioni teatrali, gli altri luoghi degli avvenimenti e le schede, le date, i collaboratori agenti nei vari casi,
lontani dalle frivolezze e dalla spocchiosità di possibili ebbrezze o lusinghe esterne integrate alle rappresentazioni.
Sottoscrivo alcune perle: Cartee!!!, Canto all'indipendenza del popolo Inuit, Angeli, Les oiseaux, Canzone per un
olocausto, I viaggi della memoria, Omaggio a Ferlinghetti, La guerra uccide le farfalle???, Vino, Lode all'ozio
poetico, Chiamata alle donne per la pace, Il pescatore di sogni, Le filastrocche di Diedo e Ale, Canto per
Marilena, Dichiarazione di follia, L'homme qui regarde, Viaggio nella protesta, Culinaria. Titoli trascritti fra
maiuscole e minuscole, punti interrogativi ed esclamativi, in un'ambientazione bibliografica e monografica di
completa duttilità percettiva, nei segni dell'arte totale limpidamente trasparente e musicale, mai stanca, reattiva per
richiami attuali al quotidiano e alla fabulosità visionaria applicata al reale. Dagli anni Settanta ai nostri giorni la
fatica si snoda modellata senza esclusione, su svolgimenti sperimentali suggestivi, proficui nelle narratio evocanti,
preziose nella veste, evidenziate come sogni, nel segno e nel senso di una partecipazione emozionale animata,
senza stanchi o particolari deliri o involuzioni. Un rapporto unitario (e quasi diario individuale) di una pratica
coinvolgente, frantumata e colta attraverso un percorso a energia iconica e cronologica, organizzata come un fiore
che cresce in un campo naturale e solerte video in tutte le sue stagioni interpretative.
"Canti di cantaStorie" dunque, e ritratto non museificabile di una professionalità creativa così vicina alla
poesia e alla fiaba, che colorano la riflessione sul medesimo senso del nuovo mondo, tra automatica coniugazione
orale e regolarissima dignità.
DOMENICO CARA
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PL. PERILLI, Performo, dunque sono
PERFORMO, DUNQUE SONO
di Plinio Perilli
(Per Eugenia Serafini,
cantastorie “totale”, dentro e oltre un’arte
per fortuna
in-visibile, in-dicibile, in-gestibile, in-fruibile,
in-frangibile, inaudita, risibile, eppure
esorcizzata, salvata, concretata, inscenata...)
Eugenia cara,
immergersi nel tuo nuovo libro è davvero come salire su una strana, inopinata ma necessaria Macchina del
Tempo, e votarsi a un sacrosanto rito di gesti ariosi, fantasia e colori, implosi e perfino esplosi come accelerata
pulsione d’anima, rapimento estatico, fuga d’esorcismo; senza mai perdere però di vista l’urgenza inderogabile dei
grandi problemi planetari, gli equivoci della modernità, gli snodi insomma epocali – che trovano quasi in te una
laica, iniziata e autoironica (ma non meno sentìta e caparbia, ludica “pasionaria”) sacerdotessa d’intensità…
Conoscere per conoscersi, giocare per soverchiare e oltrepassare ogni lutto o angustia del reale più sterile, più
grigio: su cui poi sempre, tu, intridi o posi i colori, fecondi il sorriso che in trasparenza, in immanenza, ci libera
(il mio computer, con salto geniale, mimetico refuso di battitura, aveva scritto “ci libra”!), ci ridona agli altri.
“I miei scritti di teatro di performance raccolti in questo primo volume, al quale farà seguito un secondo” –
scrivi – “originano tutti da una comune matrice tra parola e installazione o meglio tra parola poetica e opera d’arte:
esse si articolano nello spazio prendendone possesso, sia che si tratti della pagina bianca sulla quale la parola si
frantuma, si disperde e di nuovo si coagula; sia che si tratti di uno spazio architettonico nel quale vive un insieme
di oggetti artistici generati con la parola stessa e che in questo spazio si vogliono necessariamente collocare per
appropriarsene conferendogli diversi piani interpretativi; sia che si tratti della mia voce che interpreta e canta
questi spazi performativi”… Le tue installazioni performative, vissute e trasferiteci in piena, rispecchiante
simbiosi creativa, seducono, esigono ma anche sviano, adulterano deliziose parole immaAginiFere “dalle quali
scaturisce” – giuri e propugni – “una cascata di suoni e immagini, perché non posso fare a meno di pensare alla
fortissima presa emotiva che l’aedo deve avere esercitato sulla società, ancor prima di Omero: a quel modo di
trasferire la conoscenza, tra cronaca e storia, tra scienza e intuizione, tra sentimento e commozione.”
Commozione da commuovere (lat. Commovēre, comp. di cŭm ‘con’ e movēre ‘muovere’)…
Performo, ergo sum potresti davvero parafrasare l’illustre vis raziocinante del nostro avo Cartesio…
Performo, dunque sono. Performance, performer… Curiosamente, quelle che ormai sono e sembrano parole
perfettamente inglesi, straniere importate – nel sacro, veridico gioco etimologico, non sono altro che derivate dalla
voce tardo-latina del verbo performāre, comp. di per- e formāre: “dare forma, conformare”… Il passaggio
all’antico francese parformance, da parformer, ‘compiere’; e poi all’inglese performance, o to perform, ‘eseguire’,
performative = ‘esecutivo’, sono successivi…
Vedi, Eugenia, come anche le parole viaggiano, performano ininterrotte, infine cantastorie si fanno dei propri
stessi introiettati romanzi epocali… La commozione de’venti non ascende più di due o tre miglia in alto…
meditava il “tuo” Galilei! E dunque, da dove cominciò, per la tua, per la mia generazione, questo agile rito laico
della performance come miracoloso viatico artistico? Forse dalle scombiccherate, sublimi perché autoironiche
“pose” di Claes Oldenburg, leader con Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Tom Wesselmann e pochi altri, della
c.d. pop-art, in qualche piazza o sito di Londra… Sì, Oldenburg scultura vivente su un piedistallo nei pressi di
Grosvenor Square, a Londra… Mentre Rauschenberg metteva in scena (era il 1963) il suo primo spettacolo di
danza Pelican in una pista di pattinaggio a rotelle… E Londra, Parigi, New York, si mischiavano come un’unica
Metropoli del Fare (Cambiare l’) Arte…
Yoko Ono, intanto, rivestiva di carta – “impacchettava”, anche prima di Christo – i leoni di Trafalgar Square,
li cavalcava da ferma come nemmeno un sogno dipinto di Rousseau il Doganiere avrebbe ipotizzato…
E tutto allora contava, tutto: i lasciti surrealisti, i debiti eterno futuristi (di recente, sai, ho prefato una ristampa
del bel Diario parafuturista del nostro mitico Mario Verdone, con un saggio che è insieme omaggio e
dichiarazione di poetica, e che ho infatti battezzato: “Futurismo ininterrotto”… Ininterrotto, come la poesia – e
certo anche l’amore – per un Paul Eluard!)… Mi frullano in mente dei versi al solito entusiasti di Libero
Altomare:
Vogliamo dare la scalata al cielo!
strappare il velo azzurro
che riveste l’androgino Mistero.
Tuonare rulli di tamburi elettrici,
saettare fluidici dardi
su gli astri beffardi.
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FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea)
Avevo poi visto uno degli ultimi spettacoli del pallido, imbiancato e lunare Marcel Marceau, infarinato,
candido padre e nume dei mimi (a Roma, al Teatro Olimpico, in una di quelle balde serate dell’Accademia
Filarmonica, per noi ragazzi un evento)… Le Pantomimes de Bip, il personaggio che ha consacrato come novello,
estremo Pierrot della sua Fantasia… E soprattutto avevo anch’io amato tutta la sequela e la ironica, impennata
rivoluzione della cosiddetta beat generation: i Kerouac, i Ginsberg, i Corso, i Ferlinghetti… Poeti che inscenavano
sia con le loro opere che con le loro vite una ininterrotta performance tra anima e gesto, musica, parole, colori,
vorrei dire perfino sapori… La Società era lì, da denunciare, ammonire, sorvegliare, rinfrancare, catechizzare al
Nuovo – ma loro vagabondavano fantasia, tenerezza, gesti belli di tutto, e verso tutti… Ricorda Dennis McNally,
l’appassionato biografo di Jack Kerouac come Angelo desolato: “Visioni di Cody era un monologo americano,
qualcosa di ‘simile al bop’, riteneva Jack, ‘a cui stiamo arrivando indirettamente e troppo tardi, tuttavia
decisamente da tutti i punti di vista eccetto quello che nessuno di noi conosce’. Era libero. Con esultanza scrisse a
Holmes: ‘Quello che sto iniziando a scoprire ora è qualcosa al di là del romanzo e al di là dei confini arbitrari del
racconto… nei domini della pittura rivelata… la forma selvaggia, amico, la forma selvaggia… la mia mente sta
esplodendo per dire qualcosa su ogni immagine e su ogni ricordo”…
Ferlinghetti, Corso e John Giorno, ho fatto anch’io in tempo a conoscerli tutti – divaganti e fervidi per le vie
di Roma… Guarda caso, vedo che proprio col grande Lawrence tu hai collaborato, segnando nel 1996, in
occasione della sua Mostra personale al Palazzo delle Esposizioni, uno dei picchi del tuo percorso: “…
L’indomani siamo insieme a mangiare pastasciutta e insalata in un barcone sul Tevere, dentro il mio atelier, poi si
distende fuori sulla sdraio. Lungo il fiume vogano i canottieri e i gabbiani segnano il cielo in voli biancoalati. La
coppia di anatre arriva come sempre, ondeggiando con indifferenza e le gatte si distendono sul pontile, lascive...
Lui continua. Ormai è una valanga di idee, di parole. ‘Da quando Andy Warhol è morto sono finite le Belle Arti.
Le vostre Gallerie sono morte. La definizione di Post Moderno non basta più. È vuota, neutra, sciapa. Io propongo
il termine Arte Dopo”…
me ne sto
qui per la via Appia
con il cUore in mano e
dentro il cuOre Ferlinghetti e la sua pOESia e
la tenereZza e la raBBia e
i suoi oCChi luCCicanti!
no no nOn tutto O:K:!
mentre il Tevere se ne va se ne va
se ne va
e io
sono l’onda del fiume
ho un blues nell’anima
che mi fa piangere
…
Anche in te, Eugenia, riconosco e onoro questa gestualità dolcemente caustica, sapientemente iterata e
conscia… Le tue parole sanno urlare o tacere, i tuoi silenzi, sanno quasi cantare, intonarsi a raggiungere oltre la
cima dell’Albero più alto Delle Nostre Parole, che è insieme l’albero “maestro”, nautico marittimo e veliero, ma
anche l’ancestrale albero del pane (e cioè, l’Artocarpus communis), o quelli rispettivamente dei tulipani, corallo,
del sapone, del sego, del pepe, del burro (la botanica ha non meno fantasia d’Eugenia Serafini!!!)… E ancora,
l’Albero del rosario o del paternoster, l’Albero della vita o del paradiso (Thuya orientalis), l’Albero della morte
(Tasso, Manzaniglio), l’Albero del paradiso (Ailanto), l’Albero del viaggiatore (Ravenala madagascariensis
Ravenala); l’Albero di Giuda, quello di Giosuè, quello di Sant’Andrea… Forse perfino il celentanesco, ecologico e
metropolitano “albero di trenta piani” – o magari un pentamillenario baobab, ma per fortuna non più e non mai il
dogmatico, biblico e angosciante Albero del Bene e del Male… Tanto codeste entità, categorie magne o ben più
usuali e banali attitudini sembrano ormai così lontane perfino da ogni nostro gesto etico od orizzonte sacrale…
Con qualche recuperato, pionieristico biplano di ferro e tela, di legno e stoffa dei primi aviatori futuristi,
aeropittori o poeti rombanti che dir si voglia, tu Eugenia sorvoli territori, intere epoche, movimenti già battezzatisi
d’avanguardia, e tutto guardi, tutto raccogli, tutto contempli, esigi, contemperi… Frammenti fumiganti, paesaggi
in fiamme di Storia e battelli ebbri di gesti controestetici, bombardamenti emotivi… Infine e soltanto – quale
candida, amabile presunzione salvifica, e salvatrice, tu chiedi la Luna – e ci restituisci la luna, anzi la giraluna…
La appendi insomma lassù in aria, sul soffitto del ricordo che si fa bianco, lattiginoso schermo, al contempo,
di presente e futuro… Una luna, macché una: tante, tutte le lune e Giralune che ci servono, che mai potranno
bastarci… E le giri, le volti, le carezzi, le prepari a rivelare ombra o nascondere, assorbire altra luce… Le consegni
insomma a tanti nuovi giorni di sole, ma anche notti rabbuianti che solo Selene potrà dunque chiarirci e schiarirci
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PL. PERILLI, Performo, dunque sono
… In serissimo gioco di linguaggio… E, per fortuna, di fiaba argentea o dorata:
c’era un bambino
che non sognava
e un uccellino
che non volava.
…
- sOle/sOle
fammi salire
sul raggio argEntato
fammi volare
sul raggio dOrato
e il mio bambino
si salveràe l’uccellino
cantò e
v
o
l
ò…
Mia cara Eugenia, sì, la parola era stata tanto abusata, abrasa, vilipesa, suffragata o invasa, persuasa,
pervasa, quando ce l’hanno prestata, insegnata, affidata in custodia (diciamo verso la fine degli anni ’60), che non
era più buona nemmeno per usarla, spenderla ad alti fini poetici… Lo capì perfino Montale, che di quell’arte lirica,
pura o ermetica che fosse, era stato certo il leader maximo… Non chiederci la parola che mondi possa aprirti…
Ora il nostro Eugenio nazionale, mia cara omonima Eugenia, motteggiava sarcastico e sliricante, nei
borborigmi concettuali di Satura, del ‘71:
La poesia
L’angosciante questione
se sia a freddo o a caldo l’ispirazione
non appartiene alla scienza termica.
Il raptus non produce, il vuoto non conduce,
non c’è poesia al sorbetto o al girarrosto.
Si tratterà piuttosto di parole
molto importune
che hanno fretta di uscire
dal forno o dal surgelante.
Il fatto non è importante. Appena fuori
si guardano d’attorno e hanno l’aria di dirsi:
che sto a farci?
…
Una ormai datata antologia del povero Antonio Porta, Poesia degli anni Settanta, si sforzò finalmente di
comprendere anche la poesia cosiddetta visiva (o “visuale”), nonché quella “performativa” tra le novità salienti di
quel decennio tutto fervorosamente (anche drammaticamente) in progress… Resta infatti rubricato come il
decennio del terrorismo, degli anni di piombo… Ma fu anche il periodo in cui Sebastiano Vassalli registrava,
mimopoetava Il millennio che muore:
…
entro contrasti fortissimi di luce e d’ombra, singole consonanti, N
M H F X W T R B Q K eccetera
- poi oltre i deserti vegetazioni di parole, coltivazioni di parole, in
ordinati filari, in bell’ordine
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FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea)
…
Mentre Corrado Costa e Adriano Spatola sommuovevano e teatraleggiavano l’intero alfabeto…
Costa dialogando degnamente con un bravo amico artista: Baruchello! Facciamo, una buona volta, il
catalogo delle vocali
…
U
sta sull’A di acqua
U cammina sull’A che cammina sulle acque
l’U di acqua è invisibile
anche A di invisibile è
invisibile
l’U di illeggibile è
illeggibile
…
Spatola con La composizione del testo:
un aggettivo la respirazione la finestra aperta
l’esatta dimensione dell’innesto nel fruscio della pagina
oppure guarda come il testo si serve del corpo
guarda come l’opera è cosmica e biologica e logica
nelle voci notturne nelle aurorali esplosioni
nel gracidare graffiare piallare od accendere
qui sotto il cielo pastoso che impiastra le dita
parole che parlano
Dopo tanti anni, cara Eugenia, ho finalmente ritrovato, in artepoesia, incredibile a dirsi, delle parole – le tue
– che parlano e insieme che sotto il cielo pastoso impiastrano le dita… E aggettivi che respirano, finestra aperte
ogni fruscio di pagina, un’opera minima ma assoluta, semplice e cosmica e biologica e logica…
Così come tanti strani felici verbi richiami in una poesia di parole, aveva ragione Montale, e per fortuna,
molto importune, cioè in realtà MOLTO OPPORTUNE!!!, e “che hanno fretta di uscire / dal forno o dal
surgelante” della lingua, dei linguisti, dei Signori critici di poesie, e perfino di tanti, troppi (sedicenti) colleghi
poeti, poco sediziosi, ma certamente anche troppo oziosi e leziosi, neniosi, odiosi, se come tuonava il tuo, il nostro
Ferlinghetti, suonano l’arpa mentre Romabrucia… Ma ecco svolano Les oiseaux, e le ali brevi di questi tuoi
amabili, liberi, liberati e librati versi, già ci conducono – o se immeritevoli – ci relegheranno, ci confineranno, qui
terribilmente vicino, o peggio, struggentemente, irrimediabilmente lontano:
…
qualcuno parlò
qualcuno sapeva
qualcuno
parlava di stelle
turchine
parlava di azzurro
e violetto
di rossorubino e
verdesmeraldo
qualcuno
parlava di mare
di sole
diceva parole
inusitate
parlava colore
…
Cara Eugenia, evviva! Sempre con gioia provvida, meditata.
Un forte abbraccio, credimi, tuo
Plinio
(PLINIO PERILLI, Roma, 30 marzo 2009)
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PAROLANDO: PROVE DI PAROLA CONTEMPORANEA, rubrica ideata e curata da E. Serafini
PAROLANDO: PROVE DI PAROLA CONTEMPORANEA
rubrica ideata e curata da Eugenia Serafini
FORTUNA DELLA PORTA
Inedito da La sonnolenza delle cose
Estiva
La sonnolenza delle cose
colpisce stanotte
l’arsura del patio
e lassù la luna sinuosa
non regge lo scirocco
Dietro la casa colline calve
come seni avvizziti
da che il tempo è girato
e scruta inviolabile
l’enigma
delle cose indolenti e il silenzio
Si è fatto tardi
Torna all’indietro la vita:
l’orologio è sfinito.
Ammutoliscono gli uccelli:
stremato, il capo penzola.
Oramai non fruscia il tempo,
tra le foglie di questo languido rosso autunnale
fluttuano solo sassi a pel d’acqua
quasi un brivido sottopelle.
Le sere cadono come manti di piombo
dalle finestre chiuse. S’accovaccia sotto il paralume
una lampada tanto assorta nel suo chiarore
da dimenticare il suo scopo.
La piattezza di ogni respiro lacera
il passo sul punto di fermarsi:
troppi sono gli opercoli che sfilacciano il passato
ora che il resto si è mutato in cenere.
ALBUM D’ISTANTANEE
Inedito di Giorgio Di Genova
Istantanea 87
nell’agosto 1943 mio padre per intercessione dell’Opera Maternità Infanzia era riuscito a farmi accettare nel
convento di suore di Acuto. qui avevo imparato a riconoscere dal differente rombo dei motori gli aerei tedeschi e
italiani e i bombardieri americani, che sorvolavano la zona. la sera dell’8 settembre passò sopra il convento uno
stormo di aerei e le monache mi chiesero se erano bombardieri americani. no, sono tedeschi, dissi e poco dopo alla
radio il Maresciallo Badoglio comunicò al paese che era stato firmato l’armistizio con le truppe anglo-americane.
la stessa sera mio padre venne a prendermi per riportarmi a casa. i mezzi di trasporto durante la guerra erano
irregolari e perciò aspettammo a lungo l’azzurro trenino delle Ferrovie Laziali. finalmente a casa assaporai
nuovamente il pane di farina bianca, che mi parve così morbido e leggero a differenza di quello con la crusca che
veniva dato con la tessera annonaria. dopo tutto il riso in brodo servito dalle suore ogni sera in scodelle di
alluminio con due-tre fichi secchi fu una vera festa, che purtroppo dal giorno dopo non si ripeté. da allora
comunque non ho voluto più mangiare il riso in brodo.
22
FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea)
Istantanea 88
prima del tramonto cominciarono a sentirsi colpi di cannoncini e mitragliatrice non lontano da via Florio.
appiattito sul pavimento guardai verso via Rubattino dall’inferriata del balconcino della nostra abitazione al quinto
piano. lunghe scie di fuoco attraversavano longitudinalmente la via. mia madre mi scongiurò di rientrare. il
combattimento durò a lungo ma i colpi si spostarono progressivamente verso destra. il giorno dopo si seppe della
battaglia di Porta San Paolo e dell’eroica resistenza di soldati italiani e popolani contro le truppe tedesche. il
giovane Manlio Gelsomini vi perse la vita. da allora le truppe tedesche divennero di occupazione. ancora oggi
alcuni palazzi di via Rubattino mostrano le ferite di quella battaglia sui muri a mattoni. dopo la Liberazione il viale
laterale al Palazzo delle Poste all’Aventino di Libera e De Renzi ed il largo antistante la caserma dei pompieri
vennero intitolati a Manlio Gelsomini, mentre il giardino retrostante alle poste è stato denominato Parco della
Resistenza.
istantanea 89
nel mio palazzo in via Florio 4 abitavano con le famiglie cinque macellai, che lavoravano al Mattatoio di
Testaccio. uno di essi abitava al pianoterra e durante l’occupazione tedesca un pomeriggio si portò un asinello a
casa e lo mattò nella vasca da bagno (per un paio di giorni diverse famiglie di via Florio 4 poterono mangiare
carne, rara in quei tempi). un altro abitava al quinto piano e con il contrabbando del sale per la concia delle pelli si
arricchì tanto che finita la guerra si trasferì in bell’appartamento all’Aventino ed il figlio maschio mio amico sposò
un’attrice de I Vitelloni. c’erano poi due famiglie di ebrei, alcune di impiegati come mio padre che lavorava alle
Assicurazioni Generali di Piazza Venezia, proprio davanti al famoso balcone, la famiglia del colonnello dei
bersaglieri, una di commercianti, una di un venditore ambulante, una di un professore, affetto di cataromania, tanto
che portava sempre i guanti per proteggere le mani cotte dal continuo lavarle, una del tipografo Sciavarella,
imprigionato perché comunista ed ucciso alle Fosse Ardeatine dai nazisti. a primavera del 1944 le giornate
cominciarono ad allungarsi e all’inizio del coprifuoco il sole era ancora alto. in alcuni appartamenti per trascorrere
il tempo si riunivano le donne a chiacchierare e gli uomini per giocare a carte o per ascoltare radio Londra, di
nascosto dal commissario di polizia che era subentrato in uno degli appartamenti abbandonato dopo l’occupazione
tedesca dalle famiglie di ebrei. la notte della Liberazione sparì alla chetichella con la moglie ed i figli, uno della
mia stessa età.
LAPIDA
Inedito di Francesco Mandrino
A Franco Piri Focardi
Io sono ancora qui
da questa parte insieme agli altri
ad ascoltare
la mia voce
che appare sempre più confusa
al contrario di te
di cui in fondo agli occhi
ricerco ancora
la flebile parola
ma pure
omnicomprensiva
tanto da poter essere
l’ultima.
Perciò che cos’ancora potrei dirti
che tu non sappia già
più di quello che so
e che non riesco ancora a dire
ma in fondo tu conosci già
perché lo hai letto in fondo agli occhi
dunque è perché tu possa andare
che io rimango qui
dove ho voluto essere
e dove tu non sei.
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PAROLANDO: PROVE DI PAROLA CONTEMPORANEA, rubrica ideata e curata da E. Serafini
Quindi perché parlare ancora
e poi per chi
per te che da sempre
aspetti l’occasione buona
per accorgerti d’essere frainteso
che la favella faticosa
getti ridendo come un legno a un cane;
non parlerò per la tua coscia
lunga più del torace
per l’inguine che pulsa più del cuore
il fegato irrorato
più ossigenato del cervello
per l’epatite
giudicata
meno dannosa del pensiero
dovrei farlo per te
cara la mia trentadenari
e il mutuo prima casa al mare
che non s’è acceso come amore.
Io tacerò per te le mie parole
che non vanti a schermirti
progetti editoriali
sotto mentite spoglie d’imprimatur
te cui non servono frasari
griffati da editori
né l’alibi di non capire
per promuovere vuoti comprensibili
per te che non temi di fraintendere
io tacerò parole nuove
amore irrinunciabile
di verità indicibili
pure trasmesse con il senso
che essente riesci a porti
sempre in disprezzo all’apparente.
Per l’esistenza tua negata
voglio un silenzio che non sia mutismo
e la forza dell’autorevolezza
voglio l’autorità del sogno
e poi ci puliremo tu sai cosa
col civile buon senso
dunque pur se incompreso parlo
perché parole altre
tu non oda
e taccio perché tu intenda le nostre.
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FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea)
JANUA MUNDI
JANUA MUNDI
Inedito di Maria Grazia Martina
RACCONTO LIBERAMENTE ISPIRATO IN POCHE VERSIONI
Soglia
Per Dire
Soglia
Per Restare
Soglia
Per Tacere
Soglia
Per Partire
Confine Misterioso
Valve Crittate
Segnaletiche
Sperate
Segnaletiche
Sfigate
ALLA PORTA SI BUSSA
Dove Si Trova
Dove Si Va
Oltre
Passare
Passare
Oltre
ALLA PORTA SI BUSSA
Paradiso
Chiuso Per Ferie
Inferno
Aperto Per Ferie
Dripping
Verbalizzato
Golpe
Giallo
Flash
Rosso
A. D. 22 Settembre MMVI
A. D. 24 Settembre MMVI
ALLA PORTA SI BUSSA
Rapporti
Di Riporto
S. O. S. P E N S I O N I
Dire
Fare
Amare
Un Mare Di Parole
Trabocca
E
Limitare
Dell’ Assenza
Mano
ALLA PORTA SI BUSSA
AA. VV., MGM per OFFICINA FERRARESE, 2006
Questa scrittura, calligraficopittorica, è ispirata ad un labirintico “gioco” di parole, date, messaggi d’amore, di
amicizia, politici, d’imprecazioni… simboli….
Colta in digitale in Ferrara A.D. 2005, fotocopiata in digitale, dipinta A. D. 2006 da me stessa. Si ringraziano gli
ignoti, ma autonotificati, autori che mi hanno permesso di scrivere alla porta del mondo… un portale sempre attivo
del dire e del non dire, destinato all’estinzione.
10:43
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PAROLANDO: PROVE DI PAROLA CONTEMPORANEA, rubrica ideata e curata da E. Serafini
DUE ACROSTICI
Inediti di Domenico Sacco
1° ACROSTICO: DOMENICO SACCO
Diletto grande provo nel creare
Ogni tecnica, pure inconsueta,
Mi piace con passion sperimentare
E questo rende la mia vita lieta.
Nello stil prediletto per poesia
Indico ciò che faccio e ve lo scrivo:
Con l’arte io vo’ arricchir la vita mia,
Onde il mio tempo sia pieno e giulivo.
Se dei procedimenti artigianali,
Anche il meno pensato, il più bislacco,
Colsi quelli a me più congeniali
Così che a noia dessi sempre scacco
Or posso dire che ne ho fatti un..…Sacco.
2° ACROSTICO: SPAGHETTI AGLIO OLIO E PEPERONCINO
Se amici tuoi si fermano per cena
Però la tua dispensa non è piena
Abbi presente questa mia ricetta
Gustosa e la prepari pure in fretta.
Hai da prendere molti spicchi d’aglio
E - abbondando con l’olio - senza taglio
Tratta gli spicchi che devi pestare
Tutti mettendo dopo a rosolare
Insieme a un pezzo di peperoncino
Aggiunto a dar sapore in tegamino;
Gastronomico avrai certo successo.
Là sopra il fuoco, accanto all’olio messo,
Inizia pure a cuocere la pasta
Osservando che cuocia quanto basta.
Ottenuta di sale la giustezza
Li puoi buttar di certo con ricchezza
I tuoi spaghetti dentro il pentolone,
Osando pur di farne a profusione:
Eviterai che la tua spaghettata,
Possa, mancando qualche forchettata,
Esigua rimaner; spesso controlla
Perché la pasta non divenga molla
E resti al dente, perché mette angoscia
Rifocillarsi con la pasta moscia.
Ora, dopo aver fatto scolatura,
Nella teglia concludi la cottura
Coniugando spaghetto ben bollito
Insieme all’olio prima insaporito;
Nel piatto, infin, prezzemolo tritato
Ostenta, crudo, sopra il cucinato.
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FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea)
EUGENIA X LEO STROZZIERI
Inedito di Eugenia Serafini
Su un quadro di Leo Strozzieri
Dipani
linee dorate
racchiudono
sOgni
seGreti
sVelano
lUne aranciate
oCChi
eCo
di ignoto
triAngoli
e
priSmi
al cOlmo
della noTte
POi
in
vOlo
COlOri e utOpie
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PAROLANDO: PROVE DI PAROLA CONTEMPORANEA, rubrica ideata e curata da E. Serafini
SEDETTI SULLA PIOGGIA
Inedito di Leo Strozzieri
Ripeto ogni giorno il rito della riflessione
per donare baci ideali
a chi mi mi permette di posare il capo
chiudendo gli occhi.
Mugghiava quel giorno il mare
e sedetti sulla pioggia.
Vidi la nascita di un sogno
genuflesso
come salice illividito
da carezze infantili.
Lì mi accorsi ascoltando la risacca
di essere sfiorato da una farfalla
reduce dai giardini pensili.
RICORDANDO MARIO VERDONE
Eugenia Serafini con il nipotino Alessandro e Mario Verdone al Premio A.R.G.A.M., Roma 2004
Mario Verdone ha collaborato con la rivista FOLIVM e con le iniziative dell’Accademia in Europa di
Studi Superiori Artecom-onlus per tanti anni e nel 2008 è stato insignito nella Biblioteca Vallicelliana
di Roma, del Premio ARTECOM-onlus per la Cultura. In questo numero abbiamo pubblicato l’ultima
poesia che inviò ad Eugenia Serafini perché la inserisse nella rubrica “PAROLANDO”. A lui, grande
maestro, studioso e amico, il ricordo affettuoso e la stima di tutti i Soci dell’Artecom-onlus, dei
Redattori, di noi tutti.
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FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea)
TUTTE LE ANIME DEL VENTO
Inedito di Mario Verdone
Fuori
l’aria sembra tranquilla.
Una grande luce.
Ma nel vento
che ogni tanto torna a soffiare
ci sono tutti:
appartengono al cielo
quelli che sono trapassati.
Ci saremo presto anche noi.
Ignoriamo il giorno.
Ora arriva una intensa
folata di vento.
Siamo noi che passiamo
senza freno
rapidi
liberati da ogni legame
da ogni pena
anche da ogni gioia provvisoria.
E tutti voi
restate
senza sospettare
senza sapere
che anche voi
diventerete vento.
24/5/2008
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Recensioni e segnalazioni bibliografiche
RECENSIONI E SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE
*FORTUNA DELLA PORTA, Mulinare di mare e di muri, Faloppio 2008.
Basterebbe l’incipit del Prologo di questa raccolta di poesie a dare il senso di un percorso, di un camminamento
che Fortuna della Porta vuole materiale e metaforico allo stesso tempo: “Mare dalle lunghe ombre/mi
affretto./Sciolgo i piedi e la piena/quieto del mio respiro./Discendo/l’ultimo ricciolo della vita,/in partenza saluto
/gli alberi, la nube che si fece ricordo/e i gigli fratelli…/Abbraccio i fiati altrui/gli animali e le costellazioni/e le
pietre che servirono/a lastricare un passo e poi subito l’ultimo”. Percorso che è di ricerca interiore quotidiana,
intensa, snervante e simbolicamente realizzata nel viaggio attraverso il mare, che si fa soggetto vivo e partecipe di
sensazioni ed emozioni esistenziali: “Godo talora a fingere il ritorno/a un mare di età percorsa,/nell’ora cruciale
del tramonto./E ogni volta da quelle onde,/dagli amatilasciati territori,/luccica l’ossidiana/di un pesce sgranato
d’azzurri,/braccia di agavi scoscese/e parlate lasche, oh note del cuore!/…Debbo confidarci. Debbo
appartenere/ora che la direzione è quella della notte./Pure quel mare è così lontano.” Così in Mare amaro, titolo
reiterato, che diventa Mare nostrum, Mari del mondo, Mare occidentale, Mare inquinato, Mare infido e infine Il
mare dell’inconoscibile: “…Le cose durano nel marmo di un letargo vile/affine alla zana della falena nell’ambra
brunita/noi in preghiera slabbrati a valicarne il confine.”, a significare che gli stessi titoli indicano uno svolgersi
delle sensazioni amorose, degli aneliti vitali, delle prostrazioni sfibranti che si liberano nei versi sempre
incalzanti, densi di immagini e colori, ora vividi e mediterranei, ora sfumati, ora notturni e ammiccanti di luci. Su
tutto domina la parola colta, sapientemente dosata nei suoi ritmi e nei significati, nelle trame talvolta volutamente
criptiche ma sempre allusive ad un male di vita, amore e morte che è poi espressione dell’odierno male di vivere.
(Eugenia Serafini)
*GABRIELLA DI TRANI, sanmicheleinisola, installazione luci suoni immagini, stabilimento della Val printing
2009, presentazione di Ivana d’Agostino. Catalogo dedicato all’installazione omonima, illustra ampiamente il
percorso artistico della brava artista che si articola nel campo dell’arte totale fra immagine e performance, luci,
colori e suoni, evocando emozioni legate, in questa occasione, al cimitero veneziano di San Michele in Isola e
presentate nella galleria Studioarte fuoricentro di Roma dal 5 al 22 maggio 2009. Se ci attendevamo una atmosfera
velata di dolore, ebbene dovremo ricrederci: tutta l’installazione è percorsa da una ironia gentile ma ben precisa,
alla quale fanno riscontro i pratini fioriti di plastica, le foto degli amici in gruppo proiettate sulle pareti. (E. S.)
*ROMANO FORLEO, L’uomo che curava le donne, Cesano Boscone (MI) 2009. Alla sua seconda prova
Romano Forleo si conferma romanziere di classe. Il suo primo romanzo, L’altro amore (Baldini Castaldi Dalai
2004), ha vinto il Premio Federspev (Fiuggi 2005) ed è stato finalista al Premio Roma, affermandosi per le doti di
sensibilità narrativa, approfondimento psicologico dei caratteri nei personaggi, sicuro e realistico impianto generale
dell’opera ambientata ai nostri giorni, che scava nella personalità complessa del protagonista in bilico tra eros e
caritas, amore sensuale e terreno per una donna e amore mistico, etico e diremmo salvifico, per l’Ente supremo:
Dio. Questo secondo romanzo ci trasporta inaspettatamente ma tutto sommato prevedibilmente, data la profonda
cultura medica e storica dell’autore, in tempi lontanissimi: la scena iniziale si apre tra il I e il II secolo dopo Cristo e
con una tecnica che non esitiamo a definire cinematografica, ci troviamo catapultati nei vicoli di Efeso: in piena
notte, sotto una pioggia battente una donna, un ragazzino e un centurione romano corrono per salvare una
partoriente. Scopriremo poi che la donna è ostetrica e il ragazzo, suo figlio, è Sorano, colui che diventerà “l’uomo
che curava le donne”: personaggio storicamente esistito e riscoperto dopo il ritrovamento nel XIX secolo del suo
fondamentale trattato di ginecologia: Le malattie delle donne. Può stupire chi non conosce la personalità
dell’autore, la sua ricchissima cultura, l’amore per i libri antichi in particolare, la capacità di spaziare nelle
problematiche mediche legate alla sua professione di ginecologo e docente universitario, di insegnate di Storia della
Medicina e Sessuologia: tutto invece si coniuga e rimodella nella creazione del romanzo, che questa volta è storico
ma possiede una forza di ambientazione attualissima, tanto è vero che nei passaggi in cui il protagonista Sorano
vive in Asia Minore le rivolte contro i Romani invasori, e quindi a Roma la progressiva cristianizzazione della città,
sembra di cogliere tragiche e complesse coincidenze con la storia contemporanea, dagli atti di terrorismo alle
problematiche dei popoli migranti.
La vita di questo antico e straordinario personaggio della Medicina, Sorano, viene ricostruita e rivissuta con
grande credibilità dalla penna di Romano Forleo che ne disegna personalità e avventure avvincenti seguendolo
dall’infanzia all’adolescenza tumultuosa, alla maturità complessa e segnata da forti spinte erotiche, per lasciarlo
nella vecchiaia appagato nel suo desiderio di amore ma ancora aperto alla curiosità del ricercatore. La lettura
procede veloce e appassionante tra storia e invenzione, passione amorosa e pietas, permettendo al lettore di
addentrarsi nel complesso humus culturale ed esistenziale dell’epoca, ma perfino nello specifico ambito di una
antica scuola di ginecologia per ostetriche, e tutto ciò confluisce nel rafforzare il sentimento dell’etica, intesa in
senso ampio e profondo, come fondamento di vita, anche se in modo problematico, non scevro di interrogativi
esistenziali, come ancora una volta piace all’autore, Romano Forleo. (Eugenia Serafini)
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FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea
*CETTA PETROLLO, Che se volemo di?, Roma 2009. Edita da Le impronte degli uccelli, questa plaquette è un
vero libro d’artista, che ha per copertina un’opera di Bruno Aller e la prefazione del poeta Mario Lunetta. Ogni
poesia è chiosata da foto d’epoca di quell’immenso palcoscenico teatrale che sono le architetture dell’Urbs,
Roma, concesse per l’occasione dalla raccolta fotografica della Biblioteca Vallicelliana di cui Cetta da qualche
anno è Direttrice. E non ci sorprende più di tanto che questa sua produzione poetica sia in lingua romana,
diciamolo così, date anche le sue precedenti attenzioni: basti citare i Sonetti e Stornelli (Tam Tam 1984) o La
Peppina (ed. Ogopoco 2004), per capire il suo interesse quasi antropologico verso l’habitat della nostra città che,
pur allargandosi giornalmente a macchia d’olio per dimensioni ed etnie, continua ad avere un cuore che batte
romano.
Ecco, questo ci sembra il senso profondo dell’opera di Cetta Petrollo: recuperare la nostra appartenenza, la
quotidianità, le emozioni ed il senso della vita sentendosi legati aqd un habitat esistenziale che pulksa ancora vivo
di carne e sangue. “Le mie so’ du poesiole senza attese/senza pretese de cambiare er monno/che se volevo
ffa’/ciavevo da penza’ da giovinetta/e invece so’ stata appresso/ ar bagno e alla cuscina/ho cucinato brodo e
spezzatino/preso er tajere per fa la pasta in casa/so’ salita sur tranve a la matina/la machina ar garagge e gambe in
spalla.” (Eugenia Serafini)
*ANNA PETRUNGARO, La tenera mattanza, Messina 2009. Raccolta di poesie in tre “quadri”, introdotta da una
nota significativa dell’autrice, Anna Petrungaro: ”La tenera mattanza trae ispirazione da una esperienza di
alfabetizzazione
per
adulti
svolta
all’interno
di
una
struttura
di
riabilitazione
neuropsichiatrica.…Quotidianamente attraversiamo, sorvegliamo e/o eludiamo i drammi. Le grandi maglie
dell’organizzazione dettano dall’esterno le regole e i tempi di ognuno, in un gioco al micro-massacro che lascia chi
lo vive in una costante e pressoché totale impotenza.” Esperienza forte e densa di emozioni questa della
Petrungaro, nata anche dal suo percorso di vita e professionalità impegnate nella ricerca e nel sociale, la porta ad
immergersi volente ma non completamente consapevole delle conseguenze a venire e che a lei stessa si
chiariranno poco a poco, in quello che definisce micro-massacro dell’impotenza. Un progetto di alfabetizzazione
per malati neuro-psichiatrici si trasforma per lei in parola poetica che assume toni ora drammatici, ora tragici
addirittura.”Siamo stati ammansiti e costipati/in questa cripta di ore contate/Consumate a rancio/Siamo feriti
nell’eccentrico dei nostri inni a morire/Schizzato sangue sulla neve…/stiamo in singolare simbiosi/Tesi come i fili
dei tralicci/adornati dalla solitudine dell’ultimo colombo”. Sono i toni di chi si è addentrato in un mondo ignoto,
nel quale sembra possibile soltanto una forma di empatìa, di simbiosi a pelle: talvolta la parola, che è lo strumento
principe di cui si fa portatrice nella sua alfabetizzazione Anna Petrungaro, dona al folle il volo divino dell’essenza
poetica e subito lei, Anna, lo coglie e lo ripete con ritmi e assonanze simbiotiche, entrando in immaginazioni,
movenze, contaminazioni verbali che bruciano, esplorano, con-fondono e confortano la disperante immensità
dell’inesplorabile follìa. “Tiene la bocca spalancata per ore/E una fissità di grido/Tiene gli occhi fessurati/Gettati
dentro/Un’orridezza che sa lei/Quando la chiami tende la guancia/Chiude il discorso e ferma l’oscillare/Si mette
composta sulla sedia/Subito dopo ti riscaglia/Muta come un pesce/Il suo boccheggio di ore”. Nasce dunque da una
esperienza, per certi versi terribile, autentica, dilaniante, una raccolta poetica di intensa vibrazione, che vale la
pena di leggere e sulla quale bisogna tornare e fermarsi e “sentire”, per ritrovare i temi forti del vivere, le ragioni
dell’essere anche dentro una insondabile diversità. Colta e consapevole del percorso poetico del novecento e in
particolare del secondo novecento, non scevra dell’esperienza di una Alda Merini, di un Sanguineti o di un
Pagliarani, la nostra autrice mette in atto un dramma denso, fortemente etico nei suoi interrogativi non risolti, che
sembrano appellarsi ad un insondabile mistero: “Ogni giorno c’è una sacra rappresentazione”. (Eugenia Serafini)
*CLAUDIA MANUELA TURCO: Ilbacodaseta. Nella ragnatela di DomenicoCara, prefazione di Sandro GrosPietro, in copertina Musa di seta di Fëdor Antonovič Moller. Edizioni del Punto Più Alto, Milano, 2006, pp. 134,
euro 12,50. Ilbacodaseta: tutt’attaccato, a meglio significare la lunghissima continuità del filo lucido e prezioso
secreto dal bruco per tessere il bozzolo dove trasformarsi in crisalide; e, nell’efficace metafora di cui si serve
Claudia Manuela Turco in questo libro dedicato all’opera di Domenico Cara, a far risaltare l’ininterrotto flusso
creativo dalla sua scrittura. Filo, precisa l’Autrice, “che conduce il lettore nello smarrimento, inquietandolo,
rendendolo vigile e sorprendendolo”; “che tiene insieme tutti i pezzi, che cuce i confini tra un frammento e
l’altro” (p. 1).
Frammento: parola fondamentale in uno studio su Cara, il cui percorso letterario ha sempre riservato ampi
spazi all’aforisma (e il discorso si può estendere alla poesia, così frantumata in allegorie). “Pillola di conoscenza”,
il frammento; “unità minima”, certo, ma anche “unità di misura di tutto”, “cellula staminale da cui qualsiasi tipo
di cellula si può differenziare” (p. 6). Importante è l’interdipendenza dei frammenti, volti a espandersi verso tutti
i lati e gli angoli dell’immenso poliedro che è la realtà, per tutti esplorarli e dunque raccordarli. E se nel pensiero
(e nella scrittura) di Cara c’è un’apparente discontinuità e asistematicità, i fili serici del magico baco “tengono
insieme il tutto e uniscono le varie parti”. E tutto alla fine si collega, si stringe, “fluisce in musica” (p. 3).
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Recensioni e segnalazioni bibiogragiche
“L’autore taglia i fili, li annoda, cuce e ricama, liberando gli aquiloni del pensiero, [...] la fiamma del reale”,
tra contraddizioni e contrasti (p. 69). Del resto, ogni cosiddetto frammento è espressione di una tensione
speculativa: lunga maturazione di un concetto e insieme apertura a impensabili sviluppi (pp. 60-61).
All’inizio del libro, l’Autrice dichiara di voler compiere il suo viaggio “tra diversi testi cariani”,
concentrandosi “su alcuni nodi tematici esemplificativi” (p. 6). (Per inciso, l’immagine del viaggio torna alla
pagina 52: “All’idea di frammento, è connessa quella di labirinto, “spazio della poesia cariana, luogo tortuoso,
ricco di sorprese” – angoscia ed estasi, ansia ed evento, annullamento o salvezza – (come rileva Massimo Pamio,
autore di un primo vasto saggio su Cara, del 1987, di cui la Turco riporta più passaggi); ma anche “la tana della
creatività, perché elabora infinite direzioni, scorci che continuamente ritornano” (p. 58). In esso, aggiunge la
Turco, “ognuno è solo, [...] l’immaginazione si accende nel fuoco del pericolo, autentico combustibile vitale” un
continuo viaggiare e sostare”, e poi alla conclusione dello studio, pagina 118). Ma non solo alcuni nodi, anzi
numerosi e vari, e tutti ben documentati, corroborati con un numero impressionante di citazioni, tratte
prevalentemente dai libri di Cara e anche da molti altri di cui l’Autrice si è servita per meglio motivare ed
estendere il proprio assunto. Le note a piè di pagina, coi riferimenti delle opere da cui le citazioni sono attinte,
sono 740 sparse in appena 130 pagine. È evidente che la Turco ha passato e ripassato al setaccio della sua lettura
critica i testi di Cara, per scomporli e ricomporli, intrecciarli e distinguerli in una fitta trama di relazioni, sia quelli
di poesia sia le raccolte di aforismi, per la saggistica è abbondantemente richiamata la monografia su Corrado
Alvaro. La Turco ha fatto in tempo a inserire nelle ultime pagine anche Fisica di sensi, del dicembre 2005,
precedente di poco la stampa del Baco. Il tutto a riprova dell’appassionato impegno con cui è voluta penetrare
nella fucina di Cara, nel suo variegato e insieme compatto mondo intellettuale e spirituale.
Il primo dei “nodi tematici” (e l’unico purtroppo a cui accennerò, ma essenziale) è quello del linguaggio,
dello stile: personalissimo, con un forte elemento di cripticità, un incessante flusso di immagini sempre intense,
con accensioni di poesia anche nelle pagine in prosa, nutrito da una vivacissima inventiva verbale, venato di una
buona dose di sotterranea ironia (alla quale è riservato un altro “nodo” da pagina 45). Sua caratteristica, bene
osserva la Turco, è l’“accumulo verbale”, riflesso del “caos contemporaneo” (p. 103). Fronteggiando e
avversando inautenticità, gommosità, inesattezza, vacuità, “Domenico Cara è riuscito a dare corpo a un universo
letterario completo e autarchico, dotato di complesso fascino”" (p. 7). Questo Bacodaseta segue di soli tre anni
un’altra monografia dedicata all’opera di Cara, quella di Franca Alaimo del 2003 (La firma dell’essere), ed è il
quarto libro che pone come proprio argomento di analisi lo scrittore calabro-milanese (gli altri sono di Massimo
Pamio del 1987, Lo statuto dei labirinti, già ricordato, e di Gaetano delli Santi del 1992, L’aforisma insofferente).
Da aggiungere – non meno importanti – le centinaia di scritti brevi tra prefazioni, note, recensioni.
Quale immagine di Cara viene fuori dalla lettura del libro, al termine del viaggio durante il quale Claudia
Manuela Turco ci ha accompagnati o guidati? Possiamo averne un’idea anche solo scegliendo poche frasi qua e
là, quasi a caso, partendo da alcune negatività che ci attorniano. In una società che “troppo spesso si adagia
restando ancorata al pregiudizio e alle finte verità” (p. 65), dove “l’uomo è divorato dall’ansia, è in perenne
attesa” (p. 95) e vive lo spazio in modo perverso nella “collisione tra spazi naturali e spazi urbani” (p. 104),
immesso nella “piaga della cultura di massa” (p. 112), in un’epoca caratterizzata da “monologo, afasia, solipsismo
e soliloquio” (p. 115), Cara “rivela di possedere una sensibilità offesa, dietro la dura scorza del fine e distaccato
indagatore” (p. 120). Basterebbero per altro due frasi dello stesso Cara, colte anch’esse fra le tante possibili:
“Apparteneva alla comunità per non essere solo, ma senza condividere nulla dei suoi trapestii” (p. 114); e
“Quanto mi nuoce l’ottimismo degli ottusi!” (p. 120). Ma vorrei affidare la risposta anche a Sandro Gros-Pietro,
anche lui guida o compagno, perché nel viaggio ci ha introdotti con la sua prefazione così ricca di motivi e
segnali: “La disperazione di essere sopra l’abisso e di non avere intorno a sé nient’altro che le tenebre e il proprio
gioco impotente di resistenza all’abisso che inghiotte” (p. VII) (Ferdinando Bianchini).
Hanno collaborato a questo numero:
Ferdinando Bianchini, Domenico Cara, Serena D’Arbela, Fortuna Dalla Porta, Giorgio Di Genova,
Paolo Guzzi, Francesco Mandrino, Maria Grazia Martina, Umberto Maria Milizia, Plinio Perilli, Domenico
Sacco, Eugenia Serafini, Chiara Strozzieri, Leo Strozzieri, Liliana Ugolini, Mario Verdone (†).
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