Periodico semestrale. Anno XI(XV), n. 2 Età moderna e contemporanea FOLIVM Miscellanea di Scienze Umane a cura dell’Accademia in Europa di Studi Superiori ARTECOM ONLUS XI.2 Agosto 2009 Roma 2010 Periodico semestrale. Anno XI (XV), n. 2, . Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 4/99 del 7 gennaio 1999. Direttore responsabile: Grazia Chiesa. Proprietà: Francesco Quaranta. Sede: c/o ARTECOM-ONLUS, via dei Campani, 38 - 00185 Roma. Direttrice editoriale: Eugenia Serafini. Web: www.artecom-onlus.org e-mail: [email protected] "FOLIVM" è un periodico semestrale. Pur essendo una raccolta di ricerche e osservazioni culturali specifiche che rispecchiano gli interessi dei singoli autori, il primo numero è dedicato alle antichità (dalle origini al 1492), il secondo all’arte e letteratura moderne e contemporanee. Non è in vendita e viene distribuito ai Membri dell’Accademia, agli Enti di diritto, alle Biblioteche, Università, Istituzioni e Riviste specifiche italiane e straniere. È finanziato dall’ARTECOM con le quote associative e con le erogazioni liberali. È consentita la riproduzione totale o parziale dei testi ed il riferimento, purché si citi la fonte. Per ricevere le pubblicazioni dell’Artecom inviare Euro 40,00 a mezzo bonifico bancario su CC n. 10479 intestato ad ARTECOM - ONLUS presso la Banca Popolare di Ancona filiale di Roma, via Nazionale, 258, IBAN: IT75 C053 0803 2020 0000 0010 479 con la dicitura "quota iscrizione anno accademico……”; i versamenti a favor delle ONLUS, ivi comprese le quote di iscrizione, sono detraibili per il 19%. Indice U. M. MILIZIA, Della poesia “è più facile mediocre autore che giusto estimator divenire”, p. 3 INArte, Appunti di arte contemporanea, a cura di E. Serafini, p. 6 CH. STROZZIERI, Pubblicità e arte complice, p. 6 P. GUZZI, Futurismo e performance, p. 10 S. D’ARBELA, Valeria D’Arbela: ritrovamento di un valore, p. 12 L.UGOLINI, Giubbe Rosse – Caffé Storico Letterario – A Firenze 14-3-2009, p. 14 E. SERAFINI, Le architetture dipinte di Massimo Elmi, p. 15 D. CARA, Eugenia Serafini: Strategia e ritmo della Performance alfabetica, p. 16 PL. PERILLI, Performo, dunque sono, p. 18 PAROLANDO. Prove di parola contemporanea, a cura di E. Serafini, p. 22: F. DELLA PORTA, Estiva e Si è fatto tardi, p. 22; G. DI GENOVA, Album d’istantanee, p. 22; FR. MANDRINO, Lapida (a Franco Piri Focardi), p. 23; M. GR. MARTINA, Ianua mundi, p. 25; D. SACCO, Due acrostici, p. 26; E. SERAFINI, A Leo Strozzieri, p. 27; L. STROZZIERI, Sedetti sulla pioggia, p. 28; Ricordando Mario Verdone, p. 28; M. VERDONE, Tutte le anime del vento, p. 29 Segnalazioni e recensioni bibliografiche, p. 30 I collaboratori, p. 32 Norme per gli autori. La collaborazione è libera. I testi vanno inviati su floppy disk o CD o per e-mail in allegato, con indicazione del programma utilizzato. Testi, dischetti e fotografie, anche se non pubblicati, non si restituiscono. La Redazione si riserva di apportare ai testi quelle modifiche che si rendessero necessarie. Agli autori vengono inviate gratuitamente n. 5 copie se Soci, n. 1 copia se no; 1 copia alle riviste e libri recensiti. Eventuali copie in più dovranno essere prenotate e pagate dietro rimborso del prezzo di costo. I testi possono essere redatti in lingua italiana, francese, inglese, o latina. Ogni singolo autore è responsabile dei suoi testi. Libri e riviste per le recensioni, articoli per la pubblicazione vanno inviati a FOLIVM/ARTECOM, via dei Campani 38, I - 00185 - ROMA. I testi (ad eccezione di quelli strettamente creativi) vanno corredati da idonea documentazione scientifica. Finito di stampare nel mese di marzo dell’anno 2010 dalla Tipografia Rotastampa, Roma 2 FOLIVM XI(XV).2 (età moderna e contemporanea) DELLA POESIA “È PIÙ FACILE MEDIOCRE AUTORE CHE GIUSTO ESTIMATOR DIVENIRE” di Umberto Maria Milizia Della poesia “è più facile mediocre autore che giusto estimator divenire” GIANVINCENZO GRAVINA, Della Ragion Poetica, Introduzione. Il seguente articolo è il primo di una serie che approfondisce temi ed argomenti di estetica e teoria della comunicazione già proposti in altre opere 1 dello stesso autore. LA NASCITA E LO SVILUPPO DEL CONCETTO DI POSTMODERNO PREMESSA: Anzitutto, queste brevi note sono aliene da qualsiasi sistematicità, infatti si tratta di un insieme di appunti proposti al lettore così come sono in questa prima fase della ricerca. Inoltre, come si vedrà, il Postmoderno forse non è mai esistito né come stile artistico né come ideologia, e perciò tutto l’articolo, per sua stessa natura, è inutile. Si vive lo stesso benissimo senza leggerlo. Ora che il Postmoderno è passato di moda ci si può chiedere: da dove viene l'idea di abolire il “moderno” e con esso “l'antico”? È apparentemente un problema inconsistente. Da un certo punto di vista coincide, con esiti opposti, con tutte quelle teorie che si chiedono se il progresso sia sempre necessario e se valga la pena di cambiare sempre e comunque. Il termine nasce dalla mania delle Avanguardie Storiche di dare sempre un nome nuovo a concetti vecchi o inventati e di fingere che sia un “movimento” quello che è semplicemente una “affinità elettiva” di ignoranti. Chiariamoci: si tratta di uno status culturale puramente intellettuale, perché non viene dalla mancanza di conoscenza del passato, ma dalla volontà specifica di ignorarlo, cosa che risulta molto più comoda per giustificare il proprio operato. Non a caso si tratta di un atteggiamento molto diffuso tra gli architetti, che si liberano, così, dall’obbligo di rispettare l’ambiente preesistente e gli elementari concetti di decoro urbano. Un po’ come il mondo del potere finanziario, che finge nuove teorie per coprire la mancanza di regole, e c'è sempre un professore universitario che teorizza proprio quello che fa comodo al potere per giustificare la propria avidità. Del resto c'è sempre anche un critico d'arte pronto a teorizzare qualunque cosa faccia l'artista di turno che deve essere lanciato sul mercato; per non parlare dell'architettura, dove bisogna sempre dimostrare la necessità di spendere grosse cifre. Non si concepisce più un essere umano che abbia una vita virtuale più estesa della propria vita fisica, che inizi dal passato e prosegua nel futuro, se non della persona almeno della civiltà. Manca il senso della morte che ormai è solo un accidens casuale e statistico, come tale, ha scarso valore; peccato che venga sempre. Da tempo l'uomo nuovo del Comunismo è morto, anzi era già morto alla nascita, lasciando in eredità un materialismo totale ad un liberalismo ormai sfrenato. I terroristi, in fondo, sono i più conservatori di tutti, a partire da quelli del '68, ma anche i più ignoranti. Essi sono la punta violenta di chi non può rinunciare ad una cultura del rivolgimento obbligato come mezzo lecito per imporre le proprie idee: si pensi ai danni fatti in Italia alla scuola ed alla cultura, danni superati solo da chi concepisce in senso esclusivamente utilitaristico ed egoistico (possibilmente a proprio vantaggio) la vita umana e si è trovato, improvvisamente, solo al potere. E dire che nel nostro paese c'era, da secoli, un sistema culturale forse troppo autoreferenziale, è vero, ma anche del tutto autosufficiente, capace di assicurare un adeguato sviluppo del pensiero umano. Si perdoni lo sfogo, ma quello italiano è un caso che dimostra sia il danno delle rivoluzioni forzate che delle finte restaurazioni, almeno sulla Cultura con la “C” maiuscola, che è di fatto scomparsa come valore collettivo e vive in piccole isole più o meno protette, quasi una specie in estinzione. Il Postmoderno rinunciando al passato rinunciava anche all'idea di progresso dimostrandone l'inutilità; quasi ci si potrebbe chiedere se non sia stato inutile anche il Postmoderno stesso. Da un punto di vista logico si tenga presente che un regresso è sempre possibile perché il concetto di progresso non ha in sé connaturata l’esistenza come Dio per Sant’Anselmo ed il Postmoderno è comunque un regresso perché non ha un termine di raffronto col passato, che viene volontariamente ripudiato. Crediamo che una teleleogia sia necessaria, non perché sia facile averla ma perché ideologicamente ciò che conta è il fatto stesso di cercarla. È il caso di dire: “Barbarie di natura e barbarie di artificio.” Citiamo un concetto del Gravina aggiungendo che una barbarie di artificio non può essere che volontaria. Ma che il Postmoderno non sia stato che una forma di barbarie? Cercando i precedenti ideologici del Postmoderno ci è capitata sott’occhio una 1 Ricordiamo in particolare: Trattazione del Bello e del Buono nell’Arte, Roma 2002; How About Aesthetics?, Roma 2005 (testo in Inglese ed Italiano); Note sulle Categorie della Comunicazione e della Lettura, Roma 2007. 3 U. M. MILIZIA, Della poesia “è più facile mediocre autore che giusto estimator divenire” vecchia edizione de “La Ragion Poetica” 2 del Gravina ed è stata occasione per rimeditare alcuni concetti già espressi altrove. Lo spunto è venuto non solo dallo scritto del Gravina ma anche, e soprattutto, dall’ampia introduzione del Natali. Da questa introduzione iniziamo il nostro discorso: “Certamente, l'arte è intuizione, ma non le sole intuizioni, sì anche i concetti, purché ridiventino intuizioni, son materia d'arte. L'arte è fatta da tutto l'uomo, non dal puro homo aestheticus, che è un'astrazione, ma anche dall'uomo logico e morale.” Più oltre Natali spiega di essere contrario a Cartesio perché non comprende il mondo fantastico e poetico come Vico e, soprattutto, rinnega la storia. L’affermazione di Natali è certamente ancora valida e soddisfa alle esigenze di diverse correnti di pensiero ma va corretta un poco: i concetti sono materia d’arte non tanto se ridiventano intuizioni, quanto se divengono intuibili; l’intuizione si ha quando ciò che è intuibile è riconosciuto. La conoscenza è tale per se stessa (altrimenti rimane ignoranza) e con essa i concetti che la esprimono, almeno in parte. Differiscono i modi di acquisizione, anche perché l’intuizione è sempre una forma del pensiero, non esplicita al soggetto pensante, ma logica e, soprattutto, inquadrata in processi e categorie logiche. Il pensiero umano è logico per sua stessa natura o non è pensiero ed è sempre nuovo e creativo, perché pensa sempre rinnovando se stesso 3 . La cosiddetta intuizione si genera con la formazione del pensiero e del linguaggio e ne è un’espressione. Chi mai, parlando, analizza le proprie frasi indicando a se stesso “questo è il soggetto, questo è il predicato, questo è l’oggetto, questo un complemento di tempo e quest’altro di spazio e così via…? Pure, le categorie della conoscenza sono corrispondenti proprio a questi complementi 4 . Non si può neppure parlare di categorie dell’intuizione perché, come stiamo cercando di chiarire, le categorie sono concetti usati per formare e studiare concetti. Anche i rapporti soggetto – predicato – oggetto, citiamo i più semplici, sono studiati nella forma del sillogismo, ma sillogismi e categorie, per rimanere nell’ambito della filosofia aristotelica, sono proprio i mezzi usati per definire la conoscenza. Ecco perché, in altre sedi, abbiamo sempre sostenuto la necessità di categorie di lettura dell’opera d’arte. Sia per distinguere la conoscenza in genere da quella ottenuta mediante la lettura (indifferentemente di un testo o di altre forme di comunicazione), sia per spiegare perché ciò che non sia inerente ad un altro già conosciuto possa essere conosciuto o intuito, come l’arte astratta o, meglio, informale. Anche se il maggior rappresentante della cultura italiana prima della Rivoluzione Francese è forse il Vico, Gravina è anche il primo rappresentante di quella corrente di pensiero che darà origine al Neoclassicismo. Era uno studioso di diritto romano ma non dobbiamo meravigliarci che si interessasse di Arte e di Poetica, perché quello che egli voleva esprimere era il suo particolare rapporto con il passato; un rapporto vitale nel quale il presente trova la sua ragion d’essere e, assieme, le sue leggi ed il suo svolgimento. Gravina studia il diritto nella storia, come fattore ed espressione a un tempo della civiltà. Egli anticipò Vico sostenendo che “nello studio delle leggi che governano le potenze dell'anima, si debbon trovare le leggi cui vanno soggette nel loro svolgimento le nazioni e le società civili.” Sul piano degli studi di poesia, anzi, di “Ragion Poetica” rimette in onore l'estetica oraziana dell'utile: “omne tulit punctum qui miscuit utile dulci”. Base della poesia sono l’imitazione ed il trasporto dal vero al finto. L'idea [poetica] è tratta dalla mente umana di dentro alla Natura. La poesia è imitazione del vero sia logico che storico e naturale che si origina e vive dentro l’uomo. Questo verosimile è, perciò, sia fisico che, soprattutto, morale e sentimentale. Fine della Poesia è il diletto e l'utile insieme. “È la poesia una maga, ma salutare, ed un delirio che sgombra le pazzie!” Gravina reagiva al Seicentismo per tornare a semplicità e naturalezza. L'utile più la fantasia sono alla base della poesia stessa. Canoni dell'arte, perciò, sono il verosimile ed il convenevole: “Il poeta conseguisce tutto il suo fine per opera della verisimile e della naturale e minuta espressione: perché con la mente, astraendosi dal vero, s'immerge nel finto, e s'ordisce un mirabile incontro di fantasia.” Nel secolo successivo se si baderà maggiormente alla morale ed al comportamento, anche sociale, dell’uomo, si avrà il Neoclassicismo, se prevarrà una maggiore considerazione del sentimento si avrà il Romanticismo. 5 La poetica di Gravina fu la poetica del Neoclassicismo e, come questa, è intellettualistica e teleologica. Noi facciamo presente che l’imitazione della Natura sia fisica che interiore all’uomo è semplicistica nella sua formulazione ma è anche il recupero di una concretezza dell’arte che ha origine proprio dal disprezzato Barocco (e dalla reazione alle imitazioni dell’Arcadia) che agiva sulla psiche creando realtà vituali. Già Gravina stesso dà all’uomo interiore la capacità ed il valore di una realtà. Abbiamo citato Cartesio; per comprendere meglio il dibattito che travaglia la società occidentale nel suo rapporto con il passato non sembri esagerato risalire fino a lui che, in fondo fu il primo a porsi il problema in ter2 GIANVINCENZO GRAVINA, Della Ragion Poetica, con un’introduzione di GIULIO NATALI, Lanciano 1933. Sarà il caso di citare anche Bergson. 4 L’analisi logica del linguaggio, fondata sulla logica aristotelica, si studia in Italia ed in Francia a scuola, anche per favorire lo studio del Latino e nei paesi anglosassoni attraverso l’esame di un’opera letteraria, spesso di Shakespeare, ma sempre sugli insegnamenti aristotelici. Il risultato non cambia: lo studente non sa di avere studiato Aristotele e la sua logica. 5 Abbiamo proposto altrove il problema della vita autonoma del personaggio romantico che è creato dal poeta e vive sia nel fruitore che nell’autore. 3 4 FOLIVM XI(XV).2 (età moderna e contemporanea) mini attuali. Cogito ergo sum, una frase idiota ma che implica un l’uomo che non ha bisogno dell’autorità del passato perché trova sempre un'origine interiore immutabile 6 . Sempre in Cartesio è l’immutabilità della legge fisica e matematica (cui la fisica è ridotta) che rende inutile il ricorso al passato. Indirettamente ciò influì nella “Querelle des Ancients e des Modernes” in cui, secondo i modernisti, l'identità della Natura immutabile nelle sue leggi, rende inutile il ricorso agli antichi. Come si sa, due secoli dopo le teorie di Darwin modificarono il concetto di immutabilità della Natura, con particolare riguardo a quella umana. Fontenelle, il principale sostenitore dei “moderni” considera inutile chiedersi se gli antichi siano superiori, ma i moderni possono evitare di ripeterne gli errori. Questo concetto non implica l'abbandono dello studio degli antichi e, soprattutto restringe il concetto di progresso alla correzione degli errori precedenti. Il concetto di un progresso che “modifichi in meglio” l'antecedente modificando proprio i concetti e le credenze di base su cui si fondava la cultura è ancora lontano. Bisogna comunque dimostrare che il moderno sia meglio dell'antico. L'errore più grande è proprio non porsi alcun problema, considerazione sulla quale siamo d’accordo anche noi. A ben guardare nella querelle l'idea di Progresso contraddice l'idea di una natura, anche sentimentale e psichica, immutabile. La coincidenza di due proposizioni, quella di immutabilità delle leggi naturali e quella di Progresso della specie umana non solo non è necessaria ma l’una ostacola l’altra. Allora la questione fu posta anche nei termini di un’utilità degli studi storici, specie se non si consideravano gli Antichi superiori ai moderni, caso in cui il loro esempio sarebbe comunque insostituibile. Compiendo un salto di quattro generazioni ci viene in mente Kant che mette in relazione l’uomo con il proprio punto di osservazione, senza creare una falsa obiettività che non può esistere nei confronti di ciò che non si conosce ancora. Ma se il punto di osservazione fosse dato da un altro da sé? Magari dall’oggetto osservato? Oggetto, ovviamente, è anche il pensiero stesso mentre si genera. Valutare l’uomo nel tempo e nello spazio come fa Kant equivale a storicizzarlo, il Postmoderno ne è la negazione. Se l’uomo può sentirsi virtualmente esteso nel tempo e nello spazio, perché ridurlo? La scienza non ha minimamente aumentato l’essere (e l’essenza) dell’uomo. Kant stesso, più tardi, finirà sempre per far prevalere la mancanza di autorità del passato sull’essere storico dell’uomo, cercando un compromesso con le sue sensazioni, le cui origini vengono interiorizzate a cominciare da Spazio e Tempo, ma non si preoccupò mai di estendere l’uomo alla storia. Dopo Kant, poi, la filosofia si è sbrindellata perché Kant non osò portare il proprio discorso sino alla fine e pochi, tranne Hegel, hanno osato farlo. Dicevamo che l’inizio del Postmoderno è in Cartesio. La scienza post-galileiana crede di superare il passato e di progredire ma si contraddice nella sua fede matematica; tra l’altro senza porsi neppure il problema di studiare sistemi logici diversi da quelli aristotelici. Sono i risultati che cambiano mano a mano che cambiano sperimentalmente, i postulati. Non si escludono le categorie aristoteliche ma si “saltano” come passaggio quelle Kantiane. A nostro giudizio le vere categorie della conoscenza sono quelle aristoteliche, inerenti l’oggetto; l’unica logica usata per istituire relazioni conoscitive, matematiche o no, è quella aristotelica. Questo spiega e rivaluta il comportamento degli scienziati, che preferiscono una strada sicura della conoscenza perché verificabile con “metodo”, come si riteneva necessario fare sin dal tempo di Cartesio. Se, poi, il metodo debba essere induttivo o deduttivo in questa sede è secondario, anche se il metodo deduttivo, almeno, parte da qualcosa di già esistente. La Scienza da Cartesio non esiste più, va a tentoni e poi cerca di razionalizzare i risultati trovati sperimentalmente, cioè a tentoni. Prima l’esperimento e poi la teoria. Attualmente si formulano teorie fisico-matematiche e poi si cerca, a tentoni, appunto, di consolidarle con qualche esperimento, “sparando”, letteralmente, in seguito, migliaia di teorie matematiche sui computer fino a trovarne una che risponda, più o meno, ai risultati sperimentali. Creare un sistema di categorie che non si applica all’oggetto da conoscere ma al mezzo usato per essere conosciuto. Questa trasmissione potrebbe essere considerata la prima fase della conoscenza, la seconda è l’interiorizzazione di ciò che è trasmesso, ecco perché riteniamo che siano utili delle categorie di lettura di questo mezzo (media?) e che queste categorie siano, se necessario, fornite dal mezzo stesso. Bisogna tornare a delle categorie relazionali (non morali o del gusto) ma adatte all’uomo che parte da se stesso e si espande al mondo e non assolute; non basta cambiare il punto di vista, come nell’arte barocca, ma crearne di nuovi. La Filosofia dovrebbe uscire dalla contraddizione di strettoie generate da finti relativismi inseguiti, però, con i rigidi metodi logici antichi. Sapere (oltre che conoscere) l’età dell’universo serve a qualcosa (semplicemente a vivere ad esempio) o è inutile? Se posso vivere estendendomi oltre il me, si; altrimenti erano meglio i miti dei Greci. UMBERTO MARIA MILIZIA 6 Notiamo subito che chi cercasse questa origine direttamente in Dio, senza mediazioni che dall’esterno entrino nella sua coscienza, implicitamente svaluta la tradizione di cui è custode la Chiesa di Roma e si avvicina al mondo delle chiese protestanti. Il passato non diviene più necessario per risolvere il problema esistenziale e dare un senso al presente. 5 CH. STROZZIERI, Pubblicità e arte complice INARTE: APPUNTI DI ARTE CONTEMPORANEA (a cura di Eugenia Serafini) PUBBLICITÀ E ARTE COMPLICE Reciprocità e influenze di due mondi eccezionalmente affini. di Chiara Strozzieri Aleksandr Rodcenko, Manifesto fiera dei libri A chi trova che quello della pubblicità sia un concetto inavvicinabile all’arte, citando a vantaggio della propria ipotesi la sua scarsa durevolezza e l’elevata riproducibilità, dovrebbe chiedersi il perché nella Francia di inizio ’900 la procura dovette intervenire contro gli attacchini che, invece di affiggere i manifesti del Moulin Rouge, li trattenevano per le proprie abitazioni. L’unica risposta possibile è che quelle pubblicità, eseguite da Jules Chéret e Henri Toulouse-Lautrec, fossero belle quanto opere d’arte con le loro avvenenti ballerine immerse in colori chiassosi e scritte invitanti. La verità è che la pubblicità è sempre stata un sinonimo di modernità e per questo ha aiutato l’arte a diventare moderna. Non è un caso ad esempio che il primo pittore moderno della storia, quell’Édouard Manet che presentò al Salon di Parigi del 1863 la sua Colazione sull’erba suscitando grande scalpore, sia stato anche il primo autore a interessarsi di réclame. Fu lui infatti, a disegnare il manifesto per il libro Les Chats di Champfleury, compiendo anche un’evoluzione importante per l’opera pubblicitaria, che prima di allora aveva parlato del negozio o dell’impresa, piuttosto che del prodotto. Bisogna considerare che tra arte e pubblicità si è stabilito fin da subito un rapporto di reciproca influenza, per cui spesso le agenzie di comunicazione hanno chiamato grandi maestri d’arte a dilettarsi prima nel manifesto, poi anche nello spot televisivo, e d’altra parte l’arte ha rubato alla pubblicità aspetti interessanti del suo metalinguaggio e dei meccanismi creativi. L’Italia ha giocato un ruolo fondamentale in questo sistema biunivoco, perché è stato uno dei suoi artisti a praticare una scissione tra arte e pubblicità, come tra due sfere distinte ma vicine, capaci di differenziare e allo stesso tempo condizionare le rispettive soluzioni formali: sto parlando del livornese Leonetto Cappiello, autore di capolavori come il manifesto per il cioccolato Klaus (1903), ricordato come “il cioccolato della donna verde”, tanto è forte l’immagine di questa elegante figura a cavallo che campeggia su sfondo nero. Cappiello rivoluziona i canoni della grafica pubblicitaria realizzando “personaggi-idee”, come lui stesso li definisce, che non hanno più attinenza diretta con il prodotto da pubblicizzare, ma creano un’immagine del marchio, giocando spesso sulla surrealtà (basti pensare alla zebra rossa di Cinzano e alla buccia d’arancia da cui esce un folletto per Campari). La sua pubblicità non riceve altro che consensi e risulta fonte d’ispirazione per noti artisti italiani. Quando nel 1936, in occasione della I Mostra del Cartellone e della Grafica pubblicitaria, allestita presso il Palazzo delle Esposizioni a Roma, Leo Longanesi pubblica la sua aspra critica sul settimanale romano Quadrivio, l’unico autore esente da commenti negativi è proprio Leonetto Cappiello. Scrive il noto giornalista anti-avanguardista: “Il manifesto da lui disegnato verso il 1900, per una ditta napoletana di confezioni, sta a testimoniare in questa disordinata rassegna di opere vecchie e nuove, che al di sopra di ogni avventato modernismo e di ogni sciocca rettorica (sic), sta l’unità dello stile, cioè l’intonazione dei colori, l’armonia del disegno, la proporzione, ed ogni altra regola del buon artista”. Cappiello insomma dà esempio di un approccio prettamente artistico alla pubblicità, perché, come è lui stesso a dichiarare nel 1939, “l’artista deve essere prima di tutto il guardiano rigoroso e attento dell’estetica della strada. Un manifesto, una volta esaurita la funzione pubblicitaria, deve restare come mezzo efficace di educazione estetica della folla”. Il suo lavoro apre le danze a quell’arte della pubblicità che tutt’oggi si lascia guardare. L’importanza della riconoscibilità per i cubisti. Se l’artista fa pubblicità, la pubblicità entra nel quadro grazie ai cubisti. Pablo Picasso, rappresentando una natura morta, dipinge il marchio del brodo Kub, facendo così un chiaro richiamo al nome del proprio gruppo di 6 FOLIVM XI(XV).2 (età moderna e contemporanea) avanguardia. Si spingono oltre alcuni quadri di Georges Braque, in cui addirittura le etichette entrano letteralmente nell’opera attraverso collage e papiers collés. In entrambi i casi comunque la pubblicità è uno strumento di cui i cubisti dispongono per ovviare al rischio che la scomposizione della forma sia eccessiva e perda di riconoscibilità. L’importanza delle sperimentazioni sulla figura infatti, possono portare a un’astrazione totale e al conseguente smarrimento da parte dell’osservatore. È a questo punto che subentra l’etichetta, riconducendo l’occhio alla sfera del reale e del riconoscibile. Se per Braque e Picasso è centrale il riconoscimento della marca, per un’altra cubista, Sonia Delaunay, è fondamentale piuttosto il riconoscimento dell’artista. Da sempre affezionata alla pubblicità, Sonia si affianca al compagno di vita, Robert Delaunay, con il quale si lancia in un audace tentativo di autopromozione. Molte opere iniziano a parlare dell’uno e dell’altro, caratterizzando le loro differenti ricerche, finché questa collaborazione/competizione non sfocia in due dipinti finali: Robert esegue nel 1912 La squadra di Cardiff, inserendo il proprio nome nel quadro e associandogli la parola “astra” (“stelle”); Sonia gli risponde ironica con un manifesto del ’37, l’ultimo da lei eseguito, dove, sopra una bottiglia lasciata su un tavolo, compare la scritta “Un Delaunay est bon à tout heure” (“Un Delaunay è buono a ogni ora”). L’opera è diventata l’etichetta di un liquore, chiamato Liquore Delaunay, prodotto in Germania in occasione di una retrospettiva sui due artisti. Le sperimentazioni futuriste invadono il campo pubblicitario. Se i futuristi si rendono conto immediatamente che quella della pubblicità è una delle tante sfere che devono essere dominate dai loro principi di velocità, dinamismo, libertà e futuro, i manifesti dell’epoca apportano dei sostanziali cambiamenti grafici: l’andamento dinamico delle figure, la semplificazione bidimensionale delle forme, le prospettive ardite delle scritte, la scomposizione cromatica. Ma l’assoluta novità sta nelle libera disposizione delle parole, chiaramente frutto della rivoluzione delle Parolibere attuata da Filippo Tommaso Marinetti: si tratta di poesie in cui le parole sono sparse sul foglio a seconda del loro significato e della loro importanza nel testo, parole spesso onomatopeiche, scritte per lo più secondo un percorso istintivo e genuino. Ebbene, tutt’a un tratto anche negli annunci pubblicitari compaiono le parole in libertà e addirittura i verbi iniziano a sfuggire alle abitudini letterarie e alla sintassi. È poi con il Futurismo che nasce il più grande artistapubblicitario di tutti i tempi, Fortunato Depero, autore del primo quadro pubblicitario, Squisito al selz del 1926, e del Manifesto dell’arte pubblicitaria futurista del ’32. Prima di tutto Depero è pubblicitario di se stesso: inventa slogan per sé e per la sua Casa d’Arte Futurista a Rovereto, dove produce arazzi, cartelli pubblicitari, mobili e suppellettili di gusto futurista, e pubblica il libro imbullonato Depero Futurista, così chiamato perché assemblato da due grossi bulloni, ideato per promuovere la propria ricerca artistica. Inoltre egli collabora con importantissime ditte italiane, quali Campari, Strega, Verzocchi, S. Pellegrino, e, durante il periodo newyorkese, con grandi riviste come Movie Makers, Vanity Fair, The New Yorker, Vogue. In tutti i suoi lavori spiccano un carattere ironico e un tono giocoso che influenzano fortemente il campo pubblicitario, dove non ci si limita più a imitare la realtà e si inventa piuttosto un linguaggio alternativo, fatto di simpatiche marionette dai colori sgargianti e buffe elaborazioni della figura umana. In un certo qual modo, sulla scia di Depero e degli altri futuristi, prende il via anche l’astrazione della forma in pubblicità, quell’abbandono delle convenzioni figurative che si verificherà appieno negli anni ’30 grazie al Costruttivismo. Il Dadaismo inventa l’elemento sorpresa. Quando sorge il movimento Dada, la pubblicità mostra dei cambiamenti sostanziali. Lo spirito dei dadaisti è uno spirito paradossale, conseguenza del disprezzo nei confronti di un’Europa che si affaccia alla prima guerra mondiale. Lo stesso nome del gruppo ci parla del legame col mondo pubblicitario, dato che deriva probabilmente dalla marca di prodotti di bellezza di una ditta di Zurigo, le creme e lozioni per capelli Dada. Per questi artisti è una scelta non-sense, nel tentativo di allontanarsi da qualsiasi concezione dell’arte precedente e dai valori estetici formali, assolutamente da loro rifiutati. Anche la pubblicità si riempie di non-sense, per cui ciò che viene pubblicizzato non è più un prodotto specifico, bensì un atteggiamento. È invenzione dei dadaisti l’elemento sorpresa, ancora oggi utilizzato in pubblicità: gli stessi manifesti da loro prodotti sono pieni di contraddizioni, come “Con Dada tutti i giorni, appuntamento ovunque” e “Se vuoi avere idee tue, cambiale come camicie”. Non si può parlare di elemento sorpresa senza citare Marcel Duchamp, che si sente fortemente influenzato dalla pubblicità e per i suoi ready-made riprende proprio oggetti di uso comune visti nei cataloghi pubblicitari. La famosissima Ruota di bicicletta non è altro che un’idea presa dagli allestimenti delle vetrine, dove sono esposte appunto ruote di biciclette singole e libere su un sostegno verticale, per poterne apprezzare meglio le qualità. Sono sue due opere pubblicitarie davvero sorprendenti: una boccetta di profumo, chiamata la Belle Haleine, Eau de Voilette, sulla cui etichetta l’artista compare nei panni del suo doppio femminile, desiderando sostanzialmente promuovere se stesso; e ancora, la famosa Fontana, che pubblicizza pubblicandone la fotografia sulla rivista The Blind Man e raccontando del clamore da questa suscitato, clamore che però è in quel momento solo immaginato, perché successivo all’uscita dell’articolo. 7 CH. STROZZIERI, Pubblicità e arte complice Marcel Duchamp, La belle Haleine Fotografia e astrazione costruttiviste. L’impiego della fotografia e dell’astrazione in pubblicità risale al periodo costruttivista e più precisamente ai collage di Kurt Schwitters. I suoi fotomontaggi ironici e dissacranti desiderano scate-nare le polemiche, inserendo ad esempio il volto di una donna ritagliato da un’immagine pubblicitaria sulla testa della Madonna Sistina di Raffaello, come avviene nel quadro Das Wenzelkind. La fotografia che inizialmente egli ruba alla pubblicità, viene successivamente restituita, quando l’artista fonda nel ’23 una propria agenzia pubblicitaria e avvia un uso massiccio di immagini fotografiche. Queste gli permettono di mostrare oggettivamente il prodotto, in modo da fornire una concreta promessa di qualità, e di articolare un discorso più complesso grazie all’uso di più immagini contemporaneamente. A Schwitters si deve anche la diffusione negli annunci di un certo geometrismo, a partire da quei caratteri tipografici che preconizzano il carattere Futura, di cui egli calcola esattamente le misure e gli spazi. Molti manifesti per clienti importanti, come l’inchiostro Pelikan, i prodotti alimentari Bahlsen, il comune di Hannover, hanno un assetto astratto, in cui sono componenti geometriche i prodotti, le parole, i simboli grafici come le frecce. La geometria aiuta il manifesto a farsi notare grazie all’ordine che la caratterizza e che fa distinguere una pubblicità di impostazione geometrica da una in cui si affastellano disordinati gli elementi compositivi. Altro esempio egregio è l’opera del costruttivista russo Aleksandr Rodčenko, impiegato nella difficile pubblicità di propaganda. Nel Manifesto per la fiera del libro di Leningrado egli rappresenta una compagna proletaria che dice a gran voce qualcosa. Il suo grido si staglia sulla carta stampata sotto forma geometrica ed attira l’attenzione, in modo che anche l’analfabeta resti colpito e possa chiedere a qualcuno che sa leggere cosa ci sia scritto. Surrealismo e sfera del desiderio. Il legame tra Surrealismo e pubblicità è evidente, a partire dall’ambiguità tra reale e immaginario a cui entrambi aspirano. Il movimento surrealista regala alla storia un personaggio straordinario come René Magritte, che per le sue opere prende spunto dai cataloghi pubblicitari, disponendo gli oggetti in maniera ordinata nel quadro e inserendone la definizione sotto ogni figura. Tuttavia il surrealista gioca con lo scollamento tra parola e immagine, nominando ad esempio un cavallo come “la porta” nel famoso dipinto del 1936 La chiave dei sogni. Questo esempio di stile magrittiano descrive bene l’influenza che in quegli anni ha sull’autore la psicanalisi, che in qualche modo va a toccare anche il mondo della pubblicità, introducendo due elementi presenti ancora oggi: le immagini oniriche, per cui il prodotto sembra appartenere alla sfera dei sogni realizzabili (tramite l’acquisto ovviamente) e un costante rimando sessuale, più o meno velato, che conferisce al prodotto un potere di conquista. Basti guardare il Manifesto per Norine, eseguito da Magritte per l’importante casa di abbigliamento belga, dove il manichino è sia personaggio metafisico, che rimando al corpo femminile. L’artista porta avanti contemporaneamente arte e pubblicità fin dagli inizi, quando è ancora studente presso l’Accademia di Belle Arti di Bruxelles. Nel 1931 crea con il fratello lo Studio Dongo e prende a lavorare per diverse ditte importanti. Nonostante debba accettare diversi compromessi con i clienti, egli cerca sempre di lasciar trapelare dai lavori di agenzia la sua vena surrealista. Il manifesto per le caramelle Tonny’s sembra consueto, ma dà un effetto di straniamento grazie al contrasto tra i due animaletti che si contendono la caramella; la pubblicità per le sigarette Belga è apparentemente priva di alcunché, invece la fissità della protagonista ipnotizza e immerge nel cielo pieno di nuvole alle sue spalle. A volte Magritte inserisce direttamente un suo quadro nella pubblicità o viceversa, come nel caso del manifesto per i profumi Mem del 1946, che due anni dopo porterà al dipinto La voix du sang. Come noto poi, molti suoi quadri sono stati di ispirazione al mondo pubblicitario, come quello raffigurante l’uomo con la bombetta, utilizzato più volte dal cappellificio Borsalino. Ad ogni modo, quando Magritte si dedi- 8 FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea) ca alla réclame, molte aziende non sono ancora pronte ad accettare la pubblicità surrealista, per cui la sua vicenda professionale è tappezzata di fallimenti e lo porta a lasciare spesso dichiarazioni polemiche nei confronti della pubblicità. Naturalmente la verità è che l’artista resterà talmente innamorato di questa forma d’arte da non abbandonarla mai fino alla fine. La pubblicità è arte. Concludiamo il nostro excursus sulla storica influenza tra arte e pubblicità, parlando del movimento artistico che in assoluto ha elevato l’opera pubblicitaria a capolavoro estetico: la Pop Art. Gli artisti Pop intuiscono che la società dei consumi ha ormai travolto ogni aspetto dell’esistenza umana ed è ormai impossibile pretendersi dentro o fuori il sistema, perché un “fuori il sistema” non esiste. Essi chiariscono che l’arte e la pubblicità hanno in comune l’immagine e, se l’immagine è l’essenza della società di massa, è possibile che la pubblicità, riportando le sue immagini sulla tela, diventi arte. Andy Warhol, Brillo Andy Warhol è l’artista che più si è immischiato nel mondo pubblicitario, avendo iniziato a lavorare nel campo della grafica e del design, prima ancora di approdare a quello dell’arte, e avendo inventato elementi da riportare nell’attività artistica, come la linea interrotta, il timbro, la partenza da una fotografia. Poi la svolta, quando nel 1961 utilizza dei dipinti tratti direttamente dalla pubblicità per allestire la vetrina di un negozio di New York. Da quel momento prende vita un’attività artistica definitivamente adorante i simulacri pubblicitari, come immagini di una società fatta dalla massa e non da individui con una precisa identità. Warhol introduce il tema della ripetizione, molto caro al mondo pubblicitario: ripetere vuol dire omologare, perché la prima lattina di minestra avrà lo stesso sapore dell’ultima, così come un individuo sarà identico all’altro in quanto avrà le stesse esigenze di consumo. La ripetizione degli oggetti d’altro canto ricorda la loro disposizione sugli scaffali dei supermercati: l’artista assume il punto di vista dello spettatore acquirente e utilizza attraenza del packaging e disposizione del prodotto per renderlo più appetibile e quindi più facilmente acquistabile. Ma soprattutto egli utilizza la star, come la pubblicità utilizza il testimonial. Questo permette di banalizzare ironicamente sulla persona famosa, perché tutti i volti dei personaggi di spicco vengono trattati allo stesso modo, ripetuti in diverse colorazioni, che si tratti del ritratto di Mao o di quello di Marilyn, di quello di Elvis o di quello dei tanti personaggi ricchi e famosi che glielo commissionano. Ogni soggetto non ha personalità, è solo banalmente una star. Andy Warhol è sicuramente la prova vivente che la pubblicità è arte e che ancora oggi la fusione tra questi due mondi possa essere oggetto di ricerca. Magnifico immaginare che si possa ripetere uno degli episodi più eclatanti riguardo il valore dell’arte della pubblicità: in una mostra alla Stable Gallery di New York nel 1964 Andy Warhol simula un magazzino di merci, dove vengono impilate decine di scatole del sapone Brillo, talmente stipate da rendere quasi impossibile il passaggio. La particolarità è che l’artista sceglie proprio un marchio creato da un espressionista di seconda generazione, che si procura da vivere con la grafica pubblicitaria, di nome James Harvey. Quest’ultimo intenta un processo contro Warhol, ma non può vincerlo: Harvey ha separato l’arte dalla pubblicità, Warhol le ha identificate. CHIARA STROZZIERI 9 P. GUZZI, Futurismo e performance FUTURISMO E PERFORMANCE di Paolo Guzzi Non credo ci sia qualche critico che non veda come ogni tentativo, più o meno riuscito, di fare arte di ricerca, anche oggi, in Italia, si volga in primis al Futurismo, unico movimento d’avanguardia storica in Italia, e poi al Surrealismo, al Dada al concettuale dei nostri tempi più recenti. La relazione tra Futurismo e performance è ampiamente riconosciuta e se ne evidenzia il legame stretto anche oggi. Il Futurismo produsse alcuni manifesti dedicati alla musica (Pratella li pubblicò nel 1910 e 1911) e alla drammaturgia futurista nel gennaio 1911. Tali testi incoraggiavano gli artisti a produrre spettacoli più elaborati. A loro volta, tali spettacoli producevano manifesti più dettagliati. Gli spettacoli improvvisati per mesi e mesi, durante i quali gli artisti sperimentarono diverse tattiche sceniche, furono, per esempio, all’origine del Manifeste du théâtre de variétés che fu il testo ufficiale del teatro futurista. Pubblicato nell’ottobre del 1913 e, un mese più tardi, nel londinese Daily Mail, quindi nella rivista fiorentina Lacerba, che divenne nel 1913 l’organo ufficiale del Futurismo, il Teatro di varietà era ammirato da Marinetti per la semplice ragione che esso ”aveva la fortuna di essere senza tradizioni, senza maestri, senza dogmi”. In realtà tale teatro aveva le sue regole e i suoi maestri, ma proprio questa varietà, mescolanza di cinema e di acrobazie, di canzoni e di danza, di numeri di clowns e di “tutta la gamma di stupidaggini, di imbecillità, di sciocchezze e di assurdità, che respingono l’intelligenza ai limiti della follia” ne faceva un modello ideale per le serate futuriste. I Futuristi amavano tale teatro, inoltre, perché non aveva intrighi, né intrecci e obbligava gli autori e i tecnici a “inventare senza sosta nuovi elementi di stupore.” Inoltre tale teatro costringeva il pubblico a partecipare, togliendolo dalla condizione di “spettatore stupido” e così l’azione doveva svolgersi simultaneamente nei camerini, sulla scena e in platea. Per poco che si conosca lo stato della performance di questi anni, non è chi non ricordi alcuni spettacoli di Fabio Mauri, di Bartolomé Ferrando di Julien Blaine, di Giovanni Fontana, che realizzano, ciascuno a suo modo, ancora oggi le teorie futuriste. La divulgazione, attraverso il teatro futurista, di teorie politiche esemplificate anche per i bambini, sono riprese da noi e non solo, negli anni Sessanta, da performer che hanno dato ai loro interventi, connotazioni politiche sovente di estrema sinistra (Gruppo 70 con i fiorentini Pignotti, Miccini, Ori, Chiari). Il teatro di varietà futurista, il cabaret, in sostanza, sedusse Marinetti per “la rapidità delle sue scoperte e per la semplicità dei suoi mezzi”. Si trattava, per Marinetti, di un teatro che” distruggeva il Solenne, il Sacro, il Serio, e il sublime dell’Arte con la A maiuscola.” Il Solenne ed il Sublime fu distrutto definitivamente da una interprete, un’attrice: Valentine de Saint-Point. Autrice di un Manifesto del desiderio (1913) dette alla Comédie des Champs Elysées, il 20 dicembre 1913, a Parigi, un singolare spettacolo, fatto di poesie d’amore, di guerra, di atmosfera, danzando davanti a grandi tele che facevano da fondale, illuminate da luci colorate. Sui muri circostanti erano proiettate formule matematiche, mentre musiche di Satie e di Debussy accompagnavano la sua complessa coreografia. Lo spettacolo fu replicato a New York nel 1917 (Metropolitan Opera House). Non a caso, qualche anno fa, al teatro dei Dioscuri a Roma durante una Vetrina del Centro Nazionale di Drammaturgia Teatro Totale (2000) diretto da Alfio Petrini, Giovanni Fontana presentò Piedigrotta di Cangiullo. Scritto dunque da Cangiullo sotto la forma del teatro delle “parole in libertà ”il testo era stato recitato o meglio “declamato” come diceva Marinetti, da Marinetti stesso, da Balla e da Cangiullo, nella galleria Sprovieri di Roma il 29 marzo e poi in replica, il 5 aprile 1914. Vi erano state precedentemente alcune versioni dello stesso testo, ma in quel caso si ebbe una migliore cura nell’elaborare e nell’illustrare le nuove idee presenti nel Manifeste du théâtre de variétés. La galleria Sprovieri era illuminata con luci rosse e alle pareti erano stati messi quadri di Carrà, Balla, Boccioni, Russolo e Severini. Una stravagante compagnia (Sprovieri, Balla, Depero, Radiante e Sironi) assisteva alle “parole in libertà” dette da Marinetti e da Balla mentre Cangiullo accompagnava al piano. La compagnia, stravagante con grandi cappelli di carta di seta, suonava strani strumenti “fatti in casa”: grandi conchiglie, una sega che faceva da archetto di violino, ed altri aggeggi simbolici e “assurdi” che avrebbero dovuto combattere con l’ironia la tendenza decadente alla nostalgia e al ”chiaro di luna”. Lo spettacolo fu l’occasione di un altro manifesto, quello della Déclamation dynamique et synoptique che condannava la staticità della recitazione, abituale a quei tempi, esaltando invece il movimento di tutti gli arti dell’attore, e la necessità di accompagnarsi con strumenti rumorosi. Piedigrotta fu il primo spettacolo del genere e fu seguito, verso la fine di aprile 1914 alla galleria Doré di Londra, poco dopo il ritorno di Marinetti da un viaggio a Mosca e a San Pietroburgo dal suo Zang tumb tumb. Teatro rumorista, musica rumorista che fu codificata dall’Art des bruits, manifesto redatto da Russolo, dopo lo spettacolo di Balilla Pratella dato al Costanzi di Roma nel marzo 1913. Il suono delle macchine dunque ha una sua musica e lo dimostra la Macchina tipografica (1914) di Balla durante una rappresentazione privata in onore di Diaghilev. Non a caso, nel 1999, a Parigi, galérie Satellite, davanti ad un pubblico di artisti e poeti, fu riproposta, sempre dall’attento Giovanni Fontana, la macchina tipografica balliana cui parteciparono, coinvolti nella rappresentazione, lo stesso Fontana, Tomaso Binga, Lamberto Pignotti, Sylvie Ferré, Paolo Guzzi. Ad ogni esecutore era stato attribuito un suono onomatopeico affinché ciascuno rappresentasse “l’anima dei differenti pezzi di una rotativa”. E’ chiaro che tali esecuzioni non facevano che realizzare le idee di Gordon Graig 10 FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea che pubblicava a Firenze la sua rivista teorica The Mask in cui arrivò a teorizzare l’abolizione dell’interprete a vantaggio di una supermarionetta, da lui mai realizzata sulla scena, ma che passò ai Futuristi, in parte modificata, nel senso che i Futuristi accolsero sulla scena marionette e interpreti umani che interagivano (Le Marchand de coeurs di Prampolini e Casavola). Nell’avvicinamento progressivo del Futurismo alla performance, e viceversa, non possiamo non tenere conto del teatro sintetico. Il Futurismo, come si sa, non lasciò scoperto alcuno spazio dell’arte, del teatro, della letteratura, della musica e della maniera di vivere stessa, impegnandosi nel dettare leggi sulla moda, sulla gastronomia, sul maquillage. Il teatro sintetico fu un’altra pratica assai coinvolgente, arrivata sino a noi anche nel cinema (i “corti”) e ancora nel teatro (i “corti teatrali”) più volte impiegato dalle neo avanguardie degli anni 60, ma che agli inizi del XX secolo ebbe un impatto notevole sul pubblico. La condensazione delle idee e dell’azione specialmente, che ritroviamo anche nella pubblicità, oggi, è ripresa nella performance, che, definita in circa quattrocento modi, può dirsi sicuramente art vivant e cioè arte in movimento. Oggi, la crescita esponenziale di artisti performativi in tutti i continenti, i corsi universitari e i numerosi libri dedicati alla performance, gli innumerevoli musei che aprono le loro porte ai media, provano che la performance, agli inizi del XXI secolo, non ha perduto nulla della sua energia né del suo potenziale, sin da quando i futuristi italiani vi si dedicarono per cogliere la velocità e il dinamismo del XX secolo che incominciava. Oggi la performance si nutre della nuova, complessa tecnologia di cui tutti fruiamo, al minimo o al massimo grado di abilità, e quindi maggiormente riflette il gusto per la velocità dell’industria e della comunicazione mentre è, allo stesso tempo, un antidoto alla alienazione frutto della nuova tecnologia dei nostri tempi. Infatti è la stessa presenza dell’artista performativo cha agisce in tempo reale arrestando quasi il tempo e la sua velocità (si pensi ad Allister MacLellan, a Vaara, al giapponese Shimoda ed ai nostri Pignotti, Fontana, Binga, Miccini, Fabio Mauri, Mambor, Carlo Marcello Conti) a conferire a questa tecnica artistica una posizione centrale. La sua espressione, in diretta, suscita nel pubblico che sempre più frequentemente assiste, nei musei o durante i numerosi festival (si pensi a quello di Lione, vera e propria rassegna e ratifica degli stati generali della performance, si pensi al nuovo museo Pecci di Prato, dedicato alla poesia visiva e alla performance, inaugurato nel 2006 con performances di Julien Blaine, Arrigo Lora Totino, Lamberto Pignotti) una vera e propria seduzione. E non importa se qualcosa riesce male, durante la realizzazione del performer, il tutto si avvicina molto agli insuccessi dei futuristi, tanto esaltati e, in un certo senso, cercati da Marinetti. L’apparente casualità di alcune performances, che si affiancano invece alla maniacale preparazione minuziosa di altre, rende il pubblico più vicino agli artisti in carne ed ossa, che si accampano nello spazio senza che di solito vi sia un luogo assolutamente deputato, ma che trovano nella piazza, nella strada, ovunque, perfino nei musei e nelle gallerie d’arte, diciamo paradossalmente, la sede ottimale per “performare”. Opere d’arte in movimento, dunque, più vive a volte di quelle immobili appese alla parete. Il movimento, direi, è la caratteristica che maggiormente è stata mutuata dal Futurismo, oggi, quindi anche il suo opposto, che è l’immobilità estrema, con cui in alcuni casi si esprimono alcuni performer. Naturalmente si moltiplicano gli studi su questa singolare forma d’arte. L’espressione “performance artistica” sembra ormai buona per tutte le forme di performance e quindi diventa insufficiente a stabilirne le varie forme. Interattività con lo spettatore, installazioni nelle discoteche, sfilate di moda, obbligano i critici e gli spettatori a maggiormente definire il genere cui si va assistendo sotto angolazioni nuove, a decrittarne le forme concettuali di espressioni che si vanno diversificando. Il termine “performativo” si va estendendo in architettura, in semiotica, in antropologia e nell’ambito di studi sui codici in trasformazione. Si studiano i materiali della performance, ci si obbliga alla catalogazione, a studi più ampi, si invadono altri territori. Lungo la sua storia, che, possiamo datare, inizia intorno al 1933, negli USA, ad opera di transfughi dal Bauhaus, tutte le volte che, come un’onda marina, o come la luce e l’ombra, o come il sonno e la veglia, la performance, dopo un periodo di eclisse, si è ripresentata al giudizio del pubblico, è sembrata cambiata. Tuttavia, dagli anni 70, è apparsa più continua e più omogenea. Mentre i Futuristi, dopo un’esplosiva esperienza, se ne sono serviti per approfondire il campo della pittura e della scultura tradizionali, se vogliamo, come già dal 1960 hanno fatto Rauschenberg e Oldenburg e negli anni 70 Acconci e Oppenheim, numerosi artisti quali Meredith Monk e Laurie Anderson si sono dedicati esclusivamente a questo campo artistico, lavorando per parecchi anni all’elaborazione di un coerente percorso. La performance, nonostante il successo degli anni 80 e maggiormente degli anni 90, forse oggi, che espande il suo successo, perde invece la sua carica eversiva. Imprevedibile e imprendibile, difficilmente definibile, rischia di essere ripudiata dagli stessi artisti, e alcuni se ne servono ancora soltanto per stupire e scandalizzare il pubblico, seguendo la moda. Divenuta materia di studio, ha perso la sua connotazione di work in progress e si museifica nei CD rom e nei Video e negli studi minuziosi degli specialisti. Come è stato ed è ancora per il Futurismo, che però, dopo decenni, oggi si fa risentire con rinnovata forza, ricomparendo qua e là, anche nella performance. PAOLO GUZZI 11 S. D’ARBELA, Valeria D’Arbela: ritrovamento di un valore VALERIA D’ARBELA: RITROVAMENTO DI UN VALORE di Serena d’Arbela E’ stato proprio a Venezia, di fronte ai quadri della retrospettiva Alchimie veneziane alla Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro ( marzo e aprile 2008) che ho avuto piena conferma dell’importanza di VALERIA, nel panorama pittorico della seconda metà del ‘900. Non solo nel quadro di una riscoperta delle impronte femminili, ma come specchio delle inquietudini ideali, contenutistiche e formali di un’epoca in continuo movimento. La sua personalità sensibile e incisiva, solitaria e fantasiosa, appartata, ma nello stesso tempo attenta ai fermenti contemporanei si rivelava tutta intera in quella scorrevole interpretazione alchemica. L’immagine lagunare, imprendibile e labirintica densa e trasparente di linee e colori, gravida di passato e presente sfilava nel percorso evolutivo delle sue opere, ricco di riferimenti temporali e cambiamenti di ottica. Ma sapevo bene, per aver seguito da vicino l’intera attività della pittrice, che era solo uno dei suoi tanti cicli ispirativi. Ritratto di Valeria VALERIA D’ARBELA ( 1930-2002) debutta con una espressività istintuale, ricca di colore e con evocazioni espressioniste, nella serie di tempere con figure “baudelairiane” (gli “umiliati e offesi” della prima personale all’Arco, Palazzo delle Prigioni, nel 1945). Appartiene alla generazione uscita dalla gabbia del fascismo che raccolse gli stimoli del pensiero liberato dalla Resistenza. Approdò all’ARCO, associazione culturale d’avanguardia di pittura, scultura, musica, poesia, teatro e letteratura ove si cimentavano tra gli altri Emilio Vedova, Giuseppe Santomaso, Armando Pizzinato. Fu subito chiaro che l’artista quindicenne non cercava, trovava. Dove? Nella sua mente. Questo rimase un tratto inconfondibile della sua creazione. Soluzioni pittoriche che ad altri costavano elaborati studi erano per lei immediate illuminazioni. Poi spazia nel clima effervescente di libertà culturale. Si tuffa nel bianco e nero con un disegno graffiante che unisce la carica espressionista al proposito di raffigurare il paesaggio lagunare e i pescatori. Un ulteriore passo sull’onda del realismo la porta nel 1950 a confrontarsi con gli scenari sociali delle fabbriche e delle campagne sommosse dalle lotte di rinnovamento e progresso, con le zone depresse del Delta Padano. Operai, minatori, contadini alluvionati nei loro luoghi, alle prese con povertà e sfruttamento. Era il momento del grande bivio del dibattito artistico fra realismo e astrattismo. La contaminazione diretta tra arte e istanze sociali conquistava gli animi. La scelta di VALERIA di aderire ad un linguaggio teso a dare forma esplicita al mondo del lavoro non cancellava tuttavia la tensione espressionista della sua visione pittorica e la persistente tentazione onirica. Trasferita a Milano, viene in contatto fisico e spirituale con la metropoli, con l’anonimato della grande città, dei caseggiati di periferia, con le solitudini, gli andirivieni e i traumi di individui imprigionati nelle strettoie urbane. I suoi disegni a china, a colori e in bianco e nero, offrono la visione drammatica di falansteri disseminati di monadi, da cui trapela, rimpiattata, la sofferenza (“lo spazio oscuro,l’inferno della metropoli” come lo definisce il critico Giuseppe Marchiori). Nella serie di disegni sulle donne che hanno per tema la violenza ( I Murders ) balzano agli occhi i contesti brutali e nel contempo le ambiguità. Sono sanguigni, crudeli, suggeriscono la complessità di sentimenti e identità contrapposte. Il femminismo sta sollevando i veli di antiche soggezioni che nella vita si complicano di intrichi. Valeria dipinge la rivolta della femminilitudine ma è anche approdata ad un relativismo pirandelliano che si riflette nei tratti e nei gesti dei suoi personaggi, aleggianti fra cronaca e mistero. A questo punto di osservazione non è estraneo il contatto con il Piccolo Teatro di Strehler e le sue rappresentazioni ricche di stimoli e di complessità. Negli anni ‘70 la contestazione giovanile non la lascia indifferente. Il bulldozer sessantottino che ha travolto privilegi, tradizioni, leggi, costume, ora aggiustando e innovando, ora distruggendo,la spinge a raffigurazioni sim- 12 FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea) simboliche dove nella dinamica espressionista si affacciano sintesi astratte. VALERIA è coerente con la propria linea espressiva interiore ma è sempre aperta alle esperienze artistiche parallele. In queste composizioni vediamo muoversi e fronteggiarsi due forze, i cavallini rampanti e le forbici e cavatappi. Gli uni galoppano con slancio in tutte le direzioni verso un’ipotetica conquista, gli altri si protendono in agguato come congegni pronti a schiacciare e reprimere. Il colore delle chine è vivido e contribuisce al contrasto degli intrecci grafici. Ma un nuovo ciclo fantastico ed epicureo, quello del luna park e del Carnevale brasiliano mostra la duplicità dell’ideazione dell’artista che sempre oscillerà tra l’immaginazione e gli imperativi del mondo reale, alla continua ricerca di una risposta poetica. In lei pittura e vita s’intrecciano in una instancabile creazione. Lei stessa lo afferma in una lettera: “L’arte è stata la mia salvezza sempre, la mia isola felice ,il mio specchio, il mio paradiso, il mio dialogo con gli altri”. Qui nell’ abbandono ludico dei luna park e delle fieste trova un viatico alle angosce esistenziali. Tante certezze, speranze, ideali si sono alternati in questo ‘900 pregno di contraddizioni. Illusioni e delusioni hanno sostituito le utopie infrante. Ma VALERIA non abbandona l’interesse e l’impegno per l’uomo, cerca nella Natura e nel cosmo delle risposte filosofiche più ampie e relative. Il paesaggio per lei non è mai veduta, ma orma vitale e messaggio cifrato inseguito dai suoi pennini vibranti o dal pennello. Ed ecco nel suo soggiorno romano, il succo quasi musicale dei suoi Giardini, degli Alberi, dei Mari solcati dalle fragili imbarcazioni degli abitanti dell’isola di Aran, metafore di pace apparente nella bellezza e di lotte tempestose di opposti nel loro rovescio. La duttilità che guida i valori grafici e cromatici a volte li fa più lievi ed evanescenti, a volte, come nei dipinti a olio, irrobustiti da un impeto espressionista. Nelle composizioni sono individuabili molteplici spunti visuali che sembrano pienamente amalgamati, ma che, ingigantiti da uno zum, potrebbero divenire nuovi quadri. Anche questi grovigli grafici in nuce queste tracce proliferanti sono una caratteristica originale del suo talento. La tendenza astratta apparsa nei Cavatappi riappare nei cicli degli anni 80 e 90. In quello delle Scale, iter di costruzioni ipotetiche e senza uscita, nelle Utopie ( 88- 90 ) illustrazioni simboliche della volontà autoritaria che incombe su folle di formiche e incarna la demistificazione del socialismo reale. Nella serie di disegni della Guerra del Golfo (92) con i cumuli e piramidi di vittime le chine colorate e il bianco e nero hanno un forte potere allegorico. La guerra ha corpi e volti. I segni fissano in un gesto allusivo le figure e architetture sospendendole nel vuoto. Il bianco del foglio diviene spazio storico. Nelle ultime collezioni inedite di Natura Arte e Spazio (2001) in cui le linee sfrecciano e fluttuano verso un’ignota collocazione cosmica rinchiudendosi in aeree geometrie e nelle grafiche del Nuovo Luna Park (2002) troviamo più decisi esperimenti di astrazione e stilizzazione. Forse Valeria stava per lanciarsi in un nuovo stile, con la sua instancabile giovinezza spirituale. Ma la morte, nel 2002, ne interruppe il cammino. Nel 2001 invece, parallelamente, ridipingeva Venezia su grandi tele (alcune presenti nella mostra del 2008) rivisitando le sue creazioni degli anni 60. Sceglieva il bianco e nero non a caso, come colore della memoria, conferendo drammaticità e volume a rii e palazzi. Quasi a testimoniare la forza ricostruttiva del ricordo e la profondità dello sguardo all’indietro, forse presago della fine. Valeria nella città Di tutto il complesso delle opere di Valeria – una traccia continua che rimanda ad essenze, date, stili, fondali delle vicende artistiche di un secolo - ci sono parti ancora inedite. Un nutrito catalogo è in via di preparazione e nuove occasioni retrospettive consentiranno di presentarle al pubblico e alla critica. L’iniziativa di Ca’ Pesaro frutto di scelte non effimere dei promotori e dell’attenzione intelligente del conservatore Silvio Fuso, ha aperto la strada al ritrovamento di un valore autentico. Una proposta controcorrente, rispetto ai depistaggi della marketizzazione generale del prodotto artistico, nella giungla espositiva priva di sicuri parametri di giudizio. SERENA D’ARBELA 13 L. UGOLINI, Caffè Storico Letterario – A Firenze 14-3-2009 GIUBBE ROSSE – CAFFÈ STORICO LETTERARIO – A FIRENZE 14-3-2009 dI Liliana Ugolini Di nuovo siamo ad un passaggio di gestione e le “ Giubbe Rosse” nel cuore dei Fiorentini risuonano di silenzio. Un velo di mistero accompagna il passaggio e sul sito delle Giubbe sono evidenti inesattezze e dimenticanze in sobbalzi di vuoto. Come si riempiranno i bei locali interni ed esterni, ospiteranno ancora voci poetiche, corpi in movimento, poesia sonora, video, sperimentazioni e libri e riviste e piccoli convegni? Ci riuniremo Domenica prossima cioè domani 15/3/2009 durante il periodo che in anni passati ha visto manifestazioni con performer internazionali nel Festival a + Voci diretto da Massimo Mori durante le Giornate della Poesia volute dall’Unesco dove è stata ospite, fra gli altri, anche Eugenia Serafini. Ci saremo quelli che si interessano di cultura e che lì hanno operato per sapere se lo spazio (fra i tanti spazi gratis tolti alla cultura) ci sarà ancora. Forse per guardarci l’un altro, per commentare e scuotere la testa per dirci che così non va oppure ci daranno la bella notizia che tutto continuerà come prima? Questo il clima intorno al fatidico 15 Marzo 2009. Mi è stato richiesto da Eugenia Serafini di scrivere su questo locale per la rivista da lei diretta «Folium» e desidero partire da qui da questa sospensione per decisioni che non ci competono, pare. Locale amato o odiato a Firenze,che ha le sue origini alla fine dell’800 primo Caffè affacciato sulla piazza nuova sorta al posto del mercato vecchio e “ a vita nuova restituita” la piazza fra gli improperi dei fiorentini colti che l’hanno sempre considerata uno scempio al colmo del quale fu detto da Antonio Viviani “che ce n’era abbastanza per far diventare futurista anche Sant’Antonio”. I proprietari che per primi aprirono sulla Piazza Nuova intitolata a Vittorio Emanuele II ora Piazza della Repubblica, erano tedeschi, i fratelli Reininghaus, fabbricanti di birra e avevano portato le giubbe rosse dal loro paese, indossate dai camerieri. Per i fiorentini sbrigativi il loro nome impegnativo fu sostituito subito dal caffè delle Giubbe Rosse e così è rimasto. Da subito fu luogo di lettura perché qui si potevano trovare i giornali italiani e internazionali ma fu dal 1913 che la sala interna divenne la sede fissa del Gruppo di “Lacerba” e quindi dei futuristi che da qui tentavano di svegliare l’Italia sonnacchiosa. Qui, fra gli altri, Palazzeschi incontrò Papini futurista ante litteram. Iniziarono le diatribe tra i Gruppi con voli di ceffoni fra Boccioni, Soffici, Prezzolini. Volarono anche tavoli e bicchieri e posso dire io che da 16 anni conduco programmi di poesia multimediale a Firenze e da cinque anni alle Giubbe Rosse che avvenimenti simili si sono verificati anche di recente per fortuna a parole che sono volate alte e basse da sostenitori o contestatori. E’ sempre il nuovo che travolge per poi divenire accettato fino alla prossima diatriba. Poi come facevano già i poeti ai primi del 900 all’uscità dal Caffè si mescolano fra la folla portando le loro convinzioni fino alla prossima volta per ritornare vivaci e polemici sui tavolini del Caffè. Passa il tempo, gli avvenimenti cambiano e cambiano le idee e i bollenti spiriti. La guerra cambiò veramente tutto e di conseguenza anche il caffè rientrò in una normalità di frequentatori delusi e nostalgici. Con il Gruppo di “ Solaria” si scelse il silenzio, fuori dai parametri chiassosi e si faceva cultura. I Grandi che sono passati di qui sono tanti e prestigiosi e non li elenco. Qui si è fatta la storia di buona parte della cultura italiana fino a Montale e a Luzi ed oltre. Nel periodo fascista le giubbe che i camerieri indossavano erano bianche per un poco fino a diventare rosse dopo la guerra. Nel ’37 gli intellettuali “ pericolosi” furono allontanati (fu l’epoca del cambio delle Giubbe): fino al “44” il Caffè era considerato “angolino da ripulire”. Dal 45 al 47 fu sequestrato dal Quartiere Generale Americano con grande disappunto dell’allora proprietario Gino Pini. Il caffè riaprì al pubblico nel ’47. I camerieri indossavano le Giubbe Rosse e i frequentatori vecchi e nuovi tornarono nuovamente a sedersi alle Giubbe Rosse come superstiti. Il caffè aveva perso il ruolo di centralità e decadde fino al 91. Alla nuova gestione degli Smalzi fu deciso di dare al Caffè il ruolo e l’immagine che meritava come scambio culturale e circolazione di idee. E con l’impegno ci sono riusciti grazie all’apporto di Massimo Mori direttore della sezione letteraria degli ultimi 20 anni, da Franco Manescalchi col suo succedersi di autori facenti capo a Pianeta Poesia che prevede un settore multimediale da me diretto, alle presentazioni dei libri editi dal Gazebo di Mariella Bettarini e Gabriella Maleti, ai Festival A+Voci diretti da Massimo Mori e tanto altro organizzato da Fiorenzo Smalzi stesso e dai suoi fratelli. Ci sono stati convegni, riunioni di filosofi, la collaborazone dell’Istituto Francese. Ora siamo tornati in un limbo di non conoscenza del futuro. Ma questo caffè che è nella mente dei fiorentini per la sua storia e per le personalità della cultura che da qui sono passate, non può non proseguire il suo cammino particolare. Questo ci auguriamo mentre domani saremo tutti lì a domandare e domandarci se si può credere che un luogo possa avere già acquisito una sua più vasta natura e connotazione fuori da ogni valenza commerciale. LILIANA UGOLINI 14 FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea) "LE ARCHITETTURE DIPINTE" DI MASSIMO ELMI di Eugenia Serafini Massimo Elmi, Interno/esterno, olio su tela, 2005, cm. 70X40 Antiche architetture romane diroccate, colonne sopravvissute all'usura del tempo, bassorilievi sberciati e pure miracolosamente integri nel loro messaggio sono i soggetti che da tanti anni appaiono nelle opere di Massimo Elmi. E conoscendolo da quasi quarant'anni e ritornando con la memoria alle tante opere prodotte dalla sua fantasia mi sembra che si venga formando nella mia mente una sorta di immaginifera Wunderkammer, o meglio una "Galleria immaginaria" alla maniera di quella che dipinse Giovanni Paolo Pannini intorno al 1756, conservata attualmente alla Staatsgalerie di Stoccarda: traboccanti l'una e l'altra dei capolavori della scultura e dell'architettura romana e insieme testimoninanza di un profondissimo e insostituibile amore per una civiltà che totalmente sembra esigere dedizione. Massimo Elmi, Torre, Olio su tela 15 E. SERAFINI, “Le architetture dipinte” di Massimo Elmi – D. CARA, Eugenia Serafini:strategia e ritmo della … Dunque in questa "Galleria immaginaria" vado collocando tele e carte dell'Elmi dipinte pazientemente ad olio, con la cura e la sapienza tecnica che gli derivano da una inclinazione naturale ma anche da tanti anni di studio (non ultima la conoscenza profonda delle teciche di restauro), di osservazione, di lavoro e da quel vivere nell'ambito dei Musei Vaticani che quotidianamente lo pone a contatto con le opere e le collezioni più straordinarie che siano mai state prodotte. E come il Pannini vado collocando sui registri più alti della mia Galleria una rovina del Colosseo tutta riverberata di arancio in mezzo ad un prato di verdissime erbe, un capriccio di templi in rovina, un arco di Costantino, un Pantheon, una tomba di Cecilia Metella, uno scorcio di Mura Aureliane, un rudere di acquedotto e tutto visto sempre in una luce che allude a un tramonto aranciato di quelli che a Roma indorano l'aria e il cielo e l'atmosfera tutta attorno alle case, agli alberi e perfino alle persone e ai loro sogni. E sembra che ogni cosa possa realmente fermarsi in quell'ora d'incanto: dal colore che l'Elmi ruba al tramonto, al cielo profondamente azzurro, al tempo che magicamente chiude il suo cerchio sulle rovine romane. Poi vado mettendo sui registri più bassi della mia "Galleria" i quadri che recuperano scorci d'interni, quasi il viaggio della memoria si sia trasferito con un atto di coraggio, dentro quelle rovine che prima si potevano solo osservare dall'esterno: e eccoli i bassorilievi di cavalli rampanti, i fregi di chissà quali architravi, i busti in torsione di un Gallo morente o di un atleta pronto alla gara. Ora che entriamo nelle rovine, il nostro viaggio si trasforma improvviso in luogo della ricerca esistenziale, dell'indagine psicologica, della tensione come del dubbio o dell'abbandono: mirabilia e artificialia assumono le fattezze della nostra inquietudine, scavano nella nostra esistenza assumendo quei colori stranianti che non appartengono unicamente alla realtà o al sogno ma ad un immaginario, per certi versi ancora "sublime": certamente del tutto attuale. EUGENIA SERAFINI EUGENIA SERAFINI: STRATEGIA E RITMO DELLA PERFORMANCE ALFABETICA di Domenico Cara La via primaria di tutto il teatro poetico di Eugenia Serafini è senza dubbio l'invenzione mobile e gestuale della metamorfosi. Nella medesima dinamica (del sentimento, del corpo, delle riflessioni, del proprio modificarsi, ecc.) è invenzione di una circostanza che l'artista adegua al suo pensiero, all'etica ormai dell'intensa esperienza, alle aree e al movimento che in effetti analizzano la parola dal principio alla fine della propria "recita" visuale "per puri eventi", come direbbe Gilles Deleuze, e ramificante, secondo le spirali iconografiche e le spirali verbali. La sua persona non resta quindi esemplare nello schema guidato a freddo per il teatro, ma per la diversa misura di rendere la devota azione, strato della fiaba, libero corso della fantasia sull'ellissi di un tema che è spostamento della logica di un senso, attraverso una mobilità visibile, memoria di fili, di controllati adempimenti cognitivi per produrre (e provocare) eventi, desideri, assedi poetico-esistenziali, lenti e meditati e, insieme, spettacoli pubblici di civiltà estetica, antropologica, funzionale nei suoi cicli appassionati e senza artifici. Nel volume della stessa performer, Canti di Cantastorie: il mio teatro di performance edito da ARTECOM-onlus (Roma 2008) di 368 pagine, con premessa di Mario Verdone, e un'introduzione di Luigi Rendine, accompagnata da una nota dell'Autrice, con postfazione di Cesare Pitto, Eugenia Serafini assolve per il lettore alle incertezze di esplicazione, di conoscenza e di messa in spazio della sua prodigiosa opera. Un'antologia delle rappresentazioni compiute nel mondo, didascalie spontanee (e necessarie) sugli argomenti eseguiti, i testi disposti in forma visuale, propria della poesia scritta che in Italia conta nomi impegnati e famosi, pubblicazioni da contemplare e indagare, e una letteratura a pulsione felice, sorta nei diversi decenni del Novecento, e in più esposizioni e letture, tutt'altro che naufraghe in ogni parte: Roma, Firenze, Bologna, Venezia, ecc.. La vitalità è dunque tenuta in vita dalla poetessa e docente romana con effusione ed esecutivo equilibrio, quasi come condizione umana del vivere la conoscenza, il sapere, l'amore del teatro e la festa dello spettacolo (e della cultura) nel suo più teso e inquieto meccanismo grafico e sonoro. L'opera creativa è abitata e determinata da un contatto diretto dell'espressione, sceglie la voce perché la realizzazione della sua lettura abbia un maggiore contatto con gli altri, regolarizzata dagli effetti di voce, dalla musica del ritmo in cui l'alfabeto si riproduce senza monotone estasi e passive o corrugate modalità accademiche. Si avvertono nelle diverse cognizioni, ricerche e penombre di cui sono capaci soltanto il gesto e il giardino dell'immaginazione, così come lo sguardo di chi agisce continuando a farsi figura dell'intevento trasgressivo e del 16 FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea) disincanto, nel controllo delle pause, nel grido improvviso, nel disegno generale in cui un poema è permesso, per rifacimento, disposizione creativa (e ricreativa), adozioni visuali e concrete, lievi. Il tutto coltivato da Eugenia Serafini con sensibile maestria, episodi per episodi, punti di fuga e alfabeti variabili nei codici di un resurgere vocale, non soltanto lirico-emotivo, ma teologia di un'esperienza mimica polivalente, e direi radicale per la sua vocazione al fronteggiare il testo e le possibili derive dell'espressione. In un gioco sognante o ironico, fabbricato per riprodurre una realtà tutt'altro che secondaria, i pretesti tematici poetico-fiabeschi impongono, al di là delle forme tradizionali e protocollari fini a se stesse, modelli senza contrasto e sfida fonetico-progressiva. Nel volume, anche graficamente non velleitaria, è colma l'altalena tipografica, oltre ai sussulti lineari, epigrafici, a ondosità calcolata o d'urto, non impassibile, né sterile all'intensa causa performativa. Senza dire del desiderio d'amore per le scelte che ormai sono diventate le "favole" di quella modernità che distingue Eugenia Serafini nel clima del suo sogno ipnotico, complici certe libere evanescenze che reintroducono il moto nel senso della vita e delle sue relazioni linguistiche. Missione e lotta di un lavoro insistente; nell'opera, l'armoniosa impaginazione conferisce all'occasione culturale una coerente indicazione di nostalgia del detto e della tecnica di svolgimento: più parametro d'individuazione personale che mero catalogo di contenuti e di documenti giustificativi esemplarmente superati. L'indice contiene la citazione delle più importanti esecuzioni, gli stralci, le informazioni (anche illustrate) delle frequentazioni teatrali, gli altri luoghi degli avvenimenti e le schede, le date, i collaboratori agenti nei vari casi, lontani dalle frivolezze e dalla spocchiosità di possibili ebbrezze o lusinghe esterne integrate alle rappresentazioni. Sottoscrivo alcune perle: Cartee!!!, Canto all'indipendenza del popolo Inuit, Angeli, Les oiseaux, Canzone per un olocausto, I viaggi della memoria, Omaggio a Ferlinghetti, La guerra uccide le farfalle???, Vino, Lode all'ozio poetico, Chiamata alle donne per la pace, Il pescatore di sogni, Le filastrocche di Diedo e Ale, Canto per Marilena, Dichiarazione di follia, L'homme qui regarde, Viaggio nella protesta, Culinaria. Titoli trascritti fra maiuscole e minuscole, punti interrogativi ed esclamativi, in un'ambientazione bibliografica e monografica di completa duttilità percettiva, nei segni dell'arte totale limpidamente trasparente e musicale, mai stanca, reattiva per richiami attuali al quotidiano e alla fabulosità visionaria applicata al reale. Dagli anni Settanta ai nostri giorni la fatica si snoda modellata senza esclusione, su svolgimenti sperimentali suggestivi, proficui nelle narratio evocanti, preziose nella veste, evidenziate come sogni, nel segno e nel senso di una partecipazione emozionale animata, senza stanchi o particolari deliri o involuzioni. Un rapporto unitario (e quasi diario individuale) di una pratica coinvolgente, frantumata e colta attraverso un percorso a energia iconica e cronologica, organizzata come un fiore che cresce in un campo naturale e solerte video in tutte le sue stagioni interpretative. "Canti di cantaStorie" dunque, e ritratto non museificabile di una professionalità creativa così vicina alla poesia e alla fiaba, che colorano la riflessione sul medesimo senso del nuovo mondo, tra automatica coniugazione orale e regolarissima dignità. DOMENICO CARA 17 PL. PERILLI, Performo, dunque sono PERFORMO, DUNQUE SONO di Plinio Perilli (Per Eugenia Serafini, cantastorie “totale”, dentro e oltre un’arte per fortuna in-visibile, in-dicibile, in-gestibile, in-fruibile, in-frangibile, inaudita, risibile, eppure esorcizzata, salvata, concretata, inscenata...) Eugenia cara, immergersi nel tuo nuovo libro è davvero come salire su una strana, inopinata ma necessaria Macchina del Tempo, e votarsi a un sacrosanto rito di gesti ariosi, fantasia e colori, implosi e perfino esplosi come accelerata pulsione d’anima, rapimento estatico, fuga d’esorcismo; senza mai perdere però di vista l’urgenza inderogabile dei grandi problemi planetari, gli equivoci della modernità, gli snodi insomma epocali – che trovano quasi in te una laica, iniziata e autoironica (ma non meno sentìta e caparbia, ludica “pasionaria”) sacerdotessa d’intensità… Conoscere per conoscersi, giocare per soverchiare e oltrepassare ogni lutto o angustia del reale più sterile, più grigio: su cui poi sempre, tu, intridi o posi i colori, fecondi il sorriso che in trasparenza, in immanenza, ci libera (il mio computer, con salto geniale, mimetico refuso di battitura, aveva scritto “ci libra”!), ci ridona agli altri. “I miei scritti di teatro di performance raccolti in questo primo volume, al quale farà seguito un secondo” – scrivi – “originano tutti da una comune matrice tra parola e installazione o meglio tra parola poetica e opera d’arte: esse si articolano nello spazio prendendone possesso, sia che si tratti della pagina bianca sulla quale la parola si frantuma, si disperde e di nuovo si coagula; sia che si tratti di uno spazio architettonico nel quale vive un insieme di oggetti artistici generati con la parola stessa e che in questo spazio si vogliono necessariamente collocare per appropriarsene conferendogli diversi piani interpretativi; sia che si tratti della mia voce che interpreta e canta questi spazi performativi”… Le tue installazioni performative, vissute e trasferiteci in piena, rispecchiante simbiosi creativa, seducono, esigono ma anche sviano, adulterano deliziose parole immaAginiFere “dalle quali scaturisce” – giuri e propugni – “una cascata di suoni e immagini, perché non posso fare a meno di pensare alla fortissima presa emotiva che l’aedo deve avere esercitato sulla società, ancor prima di Omero: a quel modo di trasferire la conoscenza, tra cronaca e storia, tra scienza e intuizione, tra sentimento e commozione.” Commozione da commuovere (lat. Commovēre, comp. di cŭm ‘con’ e movēre ‘muovere’)… Performo, ergo sum potresti davvero parafrasare l’illustre vis raziocinante del nostro avo Cartesio… Performo, dunque sono. Performance, performer… Curiosamente, quelle che ormai sono e sembrano parole perfettamente inglesi, straniere importate – nel sacro, veridico gioco etimologico, non sono altro che derivate dalla voce tardo-latina del verbo performāre, comp. di per- e formāre: “dare forma, conformare”… Il passaggio all’antico francese parformance, da parformer, ‘compiere’; e poi all’inglese performance, o to perform, ‘eseguire’, performative = ‘esecutivo’, sono successivi… Vedi, Eugenia, come anche le parole viaggiano, performano ininterrotte, infine cantastorie si fanno dei propri stessi introiettati romanzi epocali… La commozione de’venti non ascende più di due o tre miglia in alto… meditava il “tuo” Galilei! E dunque, da dove cominciò, per la tua, per la mia generazione, questo agile rito laico della performance come miracoloso viatico artistico? Forse dalle scombiccherate, sublimi perché autoironiche “pose” di Claes Oldenburg, leader con Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Tom Wesselmann e pochi altri, della c.d. pop-art, in qualche piazza o sito di Londra… Sì, Oldenburg scultura vivente su un piedistallo nei pressi di Grosvenor Square, a Londra… Mentre Rauschenberg metteva in scena (era il 1963) il suo primo spettacolo di danza Pelican in una pista di pattinaggio a rotelle… E Londra, Parigi, New York, si mischiavano come un’unica Metropoli del Fare (Cambiare l’) Arte… Yoko Ono, intanto, rivestiva di carta – “impacchettava”, anche prima di Christo – i leoni di Trafalgar Square, li cavalcava da ferma come nemmeno un sogno dipinto di Rousseau il Doganiere avrebbe ipotizzato… E tutto allora contava, tutto: i lasciti surrealisti, i debiti eterno futuristi (di recente, sai, ho prefato una ristampa del bel Diario parafuturista del nostro mitico Mario Verdone, con un saggio che è insieme omaggio e dichiarazione di poetica, e che ho infatti battezzato: “Futurismo ininterrotto”… Ininterrotto, come la poesia – e certo anche l’amore – per un Paul Eluard!)… Mi frullano in mente dei versi al solito entusiasti di Libero Altomare: Vogliamo dare la scalata al cielo! strappare il velo azzurro che riveste l’androgino Mistero. Tuonare rulli di tamburi elettrici, saettare fluidici dardi su gli astri beffardi. 18 FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea) Avevo poi visto uno degli ultimi spettacoli del pallido, imbiancato e lunare Marcel Marceau, infarinato, candido padre e nume dei mimi (a Roma, al Teatro Olimpico, in una di quelle balde serate dell’Accademia Filarmonica, per noi ragazzi un evento)… Le Pantomimes de Bip, il personaggio che ha consacrato come novello, estremo Pierrot della sua Fantasia… E soprattutto avevo anch’io amato tutta la sequela e la ironica, impennata rivoluzione della cosiddetta beat generation: i Kerouac, i Ginsberg, i Corso, i Ferlinghetti… Poeti che inscenavano sia con le loro opere che con le loro vite una ininterrotta performance tra anima e gesto, musica, parole, colori, vorrei dire perfino sapori… La Società era lì, da denunciare, ammonire, sorvegliare, rinfrancare, catechizzare al Nuovo – ma loro vagabondavano fantasia, tenerezza, gesti belli di tutto, e verso tutti… Ricorda Dennis McNally, l’appassionato biografo di Jack Kerouac come Angelo desolato: “Visioni di Cody era un monologo americano, qualcosa di ‘simile al bop’, riteneva Jack, ‘a cui stiamo arrivando indirettamente e troppo tardi, tuttavia decisamente da tutti i punti di vista eccetto quello che nessuno di noi conosce’. Era libero. Con esultanza scrisse a Holmes: ‘Quello che sto iniziando a scoprire ora è qualcosa al di là del romanzo e al di là dei confini arbitrari del racconto… nei domini della pittura rivelata… la forma selvaggia, amico, la forma selvaggia… la mia mente sta esplodendo per dire qualcosa su ogni immagine e su ogni ricordo”… Ferlinghetti, Corso e John Giorno, ho fatto anch’io in tempo a conoscerli tutti – divaganti e fervidi per le vie di Roma… Guarda caso, vedo che proprio col grande Lawrence tu hai collaborato, segnando nel 1996, in occasione della sua Mostra personale al Palazzo delle Esposizioni, uno dei picchi del tuo percorso: “… L’indomani siamo insieme a mangiare pastasciutta e insalata in un barcone sul Tevere, dentro il mio atelier, poi si distende fuori sulla sdraio. Lungo il fiume vogano i canottieri e i gabbiani segnano il cielo in voli biancoalati. La coppia di anatre arriva come sempre, ondeggiando con indifferenza e le gatte si distendono sul pontile, lascive... Lui continua. Ormai è una valanga di idee, di parole. ‘Da quando Andy Warhol è morto sono finite le Belle Arti. Le vostre Gallerie sono morte. La definizione di Post Moderno non basta più. È vuota, neutra, sciapa. Io propongo il termine Arte Dopo”… me ne sto qui per la via Appia con il cUore in mano e dentro il cuOre Ferlinghetti e la sua pOESia e la tenereZza e la raBBia e i suoi oCChi luCCicanti! no no nOn tutto O:K:! mentre il Tevere se ne va se ne va se ne va e io sono l’onda del fiume ho un blues nell’anima che mi fa piangere … Anche in te, Eugenia, riconosco e onoro questa gestualità dolcemente caustica, sapientemente iterata e conscia… Le tue parole sanno urlare o tacere, i tuoi silenzi, sanno quasi cantare, intonarsi a raggiungere oltre la cima dell’Albero più alto Delle Nostre Parole, che è insieme l’albero “maestro”, nautico marittimo e veliero, ma anche l’ancestrale albero del pane (e cioè, l’Artocarpus communis), o quelli rispettivamente dei tulipani, corallo, del sapone, del sego, del pepe, del burro (la botanica ha non meno fantasia d’Eugenia Serafini!!!)… E ancora, l’Albero del rosario o del paternoster, l’Albero della vita o del paradiso (Thuya orientalis), l’Albero della morte (Tasso, Manzaniglio), l’Albero del paradiso (Ailanto), l’Albero del viaggiatore (Ravenala madagascariensis Ravenala); l’Albero di Giuda, quello di Giosuè, quello di Sant’Andrea… Forse perfino il celentanesco, ecologico e metropolitano “albero di trenta piani” – o magari un pentamillenario baobab, ma per fortuna non più e non mai il dogmatico, biblico e angosciante Albero del Bene e del Male… Tanto codeste entità, categorie magne o ben più usuali e banali attitudini sembrano ormai così lontane perfino da ogni nostro gesto etico od orizzonte sacrale… Con qualche recuperato, pionieristico biplano di ferro e tela, di legno e stoffa dei primi aviatori futuristi, aeropittori o poeti rombanti che dir si voglia, tu Eugenia sorvoli territori, intere epoche, movimenti già battezzatisi d’avanguardia, e tutto guardi, tutto raccogli, tutto contempli, esigi, contemperi… Frammenti fumiganti, paesaggi in fiamme di Storia e battelli ebbri di gesti controestetici, bombardamenti emotivi… Infine e soltanto – quale candida, amabile presunzione salvifica, e salvatrice, tu chiedi la Luna – e ci restituisci la luna, anzi la giraluna… La appendi insomma lassù in aria, sul soffitto del ricordo che si fa bianco, lattiginoso schermo, al contempo, di presente e futuro… Una luna, macché una: tante, tutte le lune e Giralune che ci servono, che mai potranno bastarci… E le giri, le volti, le carezzi, le prepari a rivelare ombra o nascondere, assorbire altra luce… Le consegni insomma a tanti nuovi giorni di sole, ma anche notti rabbuianti che solo Selene potrà dunque chiarirci e schiarirci 19 PL. PERILLI, Performo, dunque sono … In serissimo gioco di linguaggio… E, per fortuna, di fiaba argentea o dorata: c’era un bambino che non sognava e un uccellino che non volava. … - sOle/sOle fammi salire sul raggio argEntato fammi volare sul raggio dOrato e il mio bambino si salveràe l’uccellino cantò e v o l ò… Mia cara Eugenia, sì, la parola era stata tanto abusata, abrasa, vilipesa, suffragata o invasa, persuasa, pervasa, quando ce l’hanno prestata, insegnata, affidata in custodia (diciamo verso la fine degli anni ’60), che non era più buona nemmeno per usarla, spenderla ad alti fini poetici… Lo capì perfino Montale, che di quell’arte lirica, pura o ermetica che fosse, era stato certo il leader maximo… Non chiederci la parola che mondi possa aprirti… Ora il nostro Eugenio nazionale, mia cara omonima Eugenia, motteggiava sarcastico e sliricante, nei borborigmi concettuali di Satura, del ‘71: La poesia L’angosciante questione se sia a freddo o a caldo l’ispirazione non appartiene alla scienza termica. Il raptus non produce, il vuoto non conduce, non c’è poesia al sorbetto o al girarrosto. Si tratterà piuttosto di parole molto importune che hanno fretta di uscire dal forno o dal surgelante. Il fatto non è importante. Appena fuori si guardano d’attorno e hanno l’aria di dirsi: che sto a farci? … Una ormai datata antologia del povero Antonio Porta, Poesia degli anni Settanta, si sforzò finalmente di comprendere anche la poesia cosiddetta visiva (o “visuale”), nonché quella “performativa” tra le novità salienti di quel decennio tutto fervorosamente (anche drammaticamente) in progress… Resta infatti rubricato come il decennio del terrorismo, degli anni di piombo… Ma fu anche il periodo in cui Sebastiano Vassalli registrava, mimopoetava Il millennio che muore: … entro contrasti fortissimi di luce e d’ombra, singole consonanti, N M H F X W T R B Q K eccetera - poi oltre i deserti vegetazioni di parole, coltivazioni di parole, in ordinati filari, in bell’ordine 20 FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea) … Mentre Corrado Costa e Adriano Spatola sommuovevano e teatraleggiavano l’intero alfabeto… Costa dialogando degnamente con un bravo amico artista: Baruchello! Facciamo, una buona volta, il catalogo delle vocali … U sta sull’A di acqua U cammina sull’A che cammina sulle acque l’U di acqua è invisibile anche A di invisibile è invisibile l’U di illeggibile è illeggibile … Spatola con La composizione del testo: un aggettivo la respirazione la finestra aperta l’esatta dimensione dell’innesto nel fruscio della pagina oppure guarda come il testo si serve del corpo guarda come l’opera è cosmica e biologica e logica nelle voci notturne nelle aurorali esplosioni nel gracidare graffiare piallare od accendere qui sotto il cielo pastoso che impiastra le dita parole che parlano Dopo tanti anni, cara Eugenia, ho finalmente ritrovato, in artepoesia, incredibile a dirsi, delle parole – le tue – che parlano e insieme che sotto il cielo pastoso impiastrano le dita… E aggettivi che respirano, finestra aperte ogni fruscio di pagina, un’opera minima ma assoluta, semplice e cosmica e biologica e logica… Così come tanti strani felici verbi richiami in una poesia di parole, aveva ragione Montale, e per fortuna, molto importune, cioè in realtà MOLTO OPPORTUNE!!!, e “che hanno fretta di uscire / dal forno o dal surgelante” della lingua, dei linguisti, dei Signori critici di poesie, e perfino di tanti, troppi (sedicenti) colleghi poeti, poco sediziosi, ma certamente anche troppo oziosi e leziosi, neniosi, odiosi, se come tuonava il tuo, il nostro Ferlinghetti, suonano l’arpa mentre Romabrucia… Ma ecco svolano Les oiseaux, e le ali brevi di questi tuoi amabili, liberi, liberati e librati versi, già ci conducono – o se immeritevoli – ci relegheranno, ci confineranno, qui terribilmente vicino, o peggio, struggentemente, irrimediabilmente lontano: … qualcuno parlò qualcuno sapeva qualcuno parlava di stelle turchine parlava di azzurro e violetto di rossorubino e verdesmeraldo qualcuno parlava di mare di sole diceva parole inusitate parlava colore … Cara Eugenia, evviva! Sempre con gioia provvida, meditata. Un forte abbraccio, credimi, tuo Plinio (PLINIO PERILLI, Roma, 30 marzo 2009) 21 PAROLANDO: PROVE DI PAROLA CONTEMPORANEA, rubrica ideata e curata da E. Serafini PAROLANDO: PROVE DI PAROLA CONTEMPORANEA rubrica ideata e curata da Eugenia Serafini FORTUNA DELLA PORTA Inedito da La sonnolenza delle cose Estiva La sonnolenza delle cose colpisce stanotte l’arsura del patio e lassù la luna sinuosa non regge lo scirocco Dietro la casa colline calve come seni avvizziti da che il tempo è girato e scruta inviolabile l’enigma delle cose indolenti e il silenzio Si è fatto tardi Torna all’indietro la vita: l’orologio è sfinito. Ammutoliscono gli uccelli: stremato, il capo penzola. Oramai non fruscia il tempo, tra le foglie di questo languido rosso autunnale fluttuano solo sassi a pel d’acqua quasi un brivido sottopelle. Le sere cadono come manti di piombo dalle finestre chiuse. S’accovaccia sotto il paralume una lampada tanto assorta nel suo chiarore da dimenticare il suo scopo. La piattezza di ogni respiro lacera il passo sul punto di fermarsi: troppi sono gli opercoli che sfilacciano il passato ora che il resto si è mutato in cenere. ALBUM D’ISTANTANEE Inedito di Giorgio Di Genova Istantanea 87 nell’agosto 1943 mio padre per intercessione dell’Opera Maternità Infanzia era riuscito a farmi accettare nel convento di suore di Acuto. qui avevo imparato a riconoscere dal differente rombo dei motori gli aerei tedeschi e italiani e i bombardieri americani, che sorvolavano la zona. la sera dell’8 settembre passò sopra il convento uno stormo di aerei e le monache mi chiesero se erano bombardieri americani. no, sono tedeschi, dissi e poco dopo alla radio il Maresciallo Badoglio comunicò al paese che era stato firmato l’armistizio con le truppe anglo-americane. la stessa sera mio padre venne a prendermi per riportarmi a casa. i mezzi di trasporto durante la guerra erano irregolari e perciò aspettammo a lungo l’azzurro trenino delle Ferrovie Laziali. finalmente a casa assaporai nuovamente il pane di farina bianca, che mi parve così morbido e leggero a differenza di quello con la crusca che veniva dato con la tessera annonaria. dopo tutto il riso in brodo servito dalle suore ogni sera in scodelle di alluminio con due-tre fichi secchi fu una vera festa, che purtroppo dal giorno dopo non si ripeté. da allora comunque non ho voluto più mangiare il riso in brodo. 22 FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea) Istantanea 88 prima del tramonto cominciarono a sentirsi colpi di cannoncini e mitragliatrice non lontano da via Florio. appiattito sul pavimento guardai verso via Rubattino dall’inferriata del balconcino della nostra abitazione al quinto piano. lunghe scie di fuoco attraversavano longitudinalmente la via. mia madre mi scongiurò di rientrare. il combattimento durò a lungo ma i colpi si spostarono progressivamente verso destra. il giorno dopo si seppe della battaglia di Porta San Paolo e dell’eroica resistenza di soldati italiani e popolani contro le truppe tedesche. il giovane Manlio Gelsomini vi perse la vita. da allora le truppe tedesche divennero di occupazione. ancora oggi alcuni palazzi di via Rubattino mostrano le ferite di quella battaglia sui muri a mattoni. dopo la Liberazione il viale laterale al Palazzo delle Poste all’Aventino di Libera e De Renzi ed il largo antistante la caserma dei pompieri vennero intitolati a Manlio Gelsomini, mentre il giardino retrostante alle poste è stato denominato Parco della Resistenza. istantanea 89 nel mio palazzo in via Florio 4 abitavano con le famiglie cinque macellai, che lavoravano al Mattatoio di Testaccio. uno di essi abitava al pianoterra e durante l’occupazione tedesca un pomeriggio si portò un asinello a casa e lo mattò nella vasca da bagno (per un paio di giorni diverse famiglie di via Florio 4 poterono mangiare carne, rara in quei tempi). un altro abitava al quinto piano e con il contrabbando del sale per la concia delle pelli si arricchì tanto che finita la guerra si trasferì in bell’appartamento all’Aventino ed il figlio maschio mio amico sposò un’attrice de I Vitelloni. c’erano poi due famiglie di ebrei, alcune di impiegati come mio padre che lavorava alle Assicurazioni Generali di Piazza Venezia, proprio davanti al famoso balcone, la famiglia del colonnello dei bersaglieri, una di commercianti, una di un venditore ambulante, una di un professore, affetto di cataromania, tanto che portava sempre i guanti per proteggere le mani cotte dal continuo lavarle, una del tipografo Sciavarella, imprigionato perché comunista ed ucciso alle Fosse Ardeatine dai nazisti. a primavera del 1944 le giornate cominciarono ad allungarsi e all’inizio del coprifuoco il sole era ancora alto. in alcuni appartamenti per trascorrere il tempo si riunivano le donne a chiacchierare e gli uomini per giocare a carte o per ascoltare radio Londra, di nascosto dal commissario di polizia che era subentrato in uno degli appartamenti abbandonato dopo l’occupazione tedesca dalle famiglie di ebrei. la notte della Liberazione sparì alla chetichella con la moglie ed i figli, uno della mia stessa età. LAPIDA Inedito di Francesco Mandrino A Franco Piri Focardi Io sono ancora qui da questa parte insieme agli altri ad ascoltare la mia voce che appare sempre più confusa al contrario di te di cui in fondo agli occhi ricerco ancora la flebile parola ma pure omnicomprensiva tanto da poter essere l’ultima. Perciò che cos’ancora potrei dirti che tu non sappia già più di quello che so e che non riesco ancora a dire ma in fondo tu conosci già perché lo hai letto in fondo agli occhi dunque è perché tu possa andare che io rimango qui dove ho voluto essere e dove tu non sei. 23 PAROLANDO: PROVE DI PAROLA CONTEMPORANEA, rubrica ideata e curata da E. Serafini Quindi perché parlare ancora e poi per chi per te che da sempre aspetti l’occasione buona per accorgerti d’essere frainteso che la favella faticosa getti ridendo come un legno a un cane; non parlerò per la tua coscia lunga più del torace per l’inguine che pulsa più del cuore il fegato irrorato più ossigenato del cervello per l’epatite giudicata meno dannosa del pensiero dovrei farlo per te cara la mia trentadenari e il mutuo prima casa al mare che non s’è acceso come amore. Io tacerò per te le mie parole che non vanti a schermirti progetti editoriali sotto mentite spoglie d’imprimatur te cui non servono frasari griffati da editori né l’alibi di non capire per promuovere vuoti comprensibili per te che non temi di fraintendere io tacerò parole nuove amore irrinunciabile di verità indicibili pure trasmesse con il senso che essente riesci a porti sempre in disprezzo all’apparente. Per l’esistenza tua negata voglio un silenzio che non sia mutismo e la forza dell’autorevolezza voglio l’autorità del sogno e poi ci puliremo tu sai cosa col civile buon senso dunque pur se incompreso parlo perché parole altre tu non oda e taccio perché tu intenda le nostre. 24 FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea) JANUA MUNDI JANUA MUNDI Inedito di Maria Grazia Martina RACCONTO LIBERAMENTE ISPIRATO IN POCHE VERSIONI Soglia Per Dire Soglia Per Restare Soglia Per Tacere Soglia Per Partire Confine Misterioso Valve Crittate Segnaletiche Sperate Segnaletiche Sfigate ALLA PORTA SI BUSSA Dove Si Trova Dove Si Va Oltre Passare Passare Oltre ALLA PORTA SI BUSSA Paradiso Chiuso Per Ferie Inferno Aperto Per Ferie Dripping Verbalizzato Golpe Giallo Flash Rosso A. D. 22 Settembre MMVI A. D. 24 Settembre MMVI ALLA PORTA SI BUSSA Rapporti Di Riporto S. O. S. P E N S I O N I Dire Fare Amare Un Mare Di Parole Trabocca E Limitare Dell’ Assenza Mano ALLA PORTA SI BUSSA AA. VV., MGM per OFFICINA FERRARESE, 2006 Questa scrittura, calligraficopittorica, è ispirata ad un labirintico “gioco” di parole, date, messaggi d’amore, di amicizia, politici, d’imprecazioni… simboli…. Colta in digitale in Ferrara A.D. 2005, fotocopiata in digitale, dipinta A. D. 2006 da me stessa. Si ringraziano gli ignoti, ma autonotificati, autori che mi hanno permesso di scrivere alla porta del mondo… un portale sempre attivo del dire e del non dire, destinato all’estinzione. 10:43 25 PAROLANDO: PROVE DI PAROLA CONTEMPORANEA, rubrica ideata e curata da E. Serafini DUE ACROSTICI Inediti di Domenico Sacco 1° ACROSTICO: DOMENICO SACCO Diletto grande provo nel creare Ogni tecnica, pure inconsueta, Mi piace con passion sperimentare E questo rende la mia vita lieta. Nello stil prediletto per poesia Indico ciò che faccio e ve lo scrivo: Con l’arte io vo’ arricchir la vita mia, Onde il mio tempo sia pieno e giulivo. Se dei procedimenti artigianali, Anche il meno pensato, il più bislacco, Colsi quelli a me più congeniali Così che a noia dessi sempre scacco Or posso dire che ne ho fatti un..…Sacco. 2° ACROSTICO: SPAGHETTI AGLIO OLIO E PEPERONCINO Se amici tuoi si fermano per cena Però la tua dispensa non è piena Abbi presente questa mia ricetta Gustosa e la prepari pure in fretta. Hai da prendere molti spicchi d’aglio E - abbondando con l’olio - senza taglio Tratta gli spicchi che devi pestare Tutti mettendo dopo a rosolare Insieme a un pezzo di peperoncino Aggiunto a dar sapore in tegamino; Gastronomico avrai certo successo. Là sopra il fuoco, accanto all’olio messo, Inizia pure a cuocere la pasta Osservando che cuocia quanto basta. Ottenuta di sale la giustezza Li puoi buttar di certo con ricchezza I tuoi spaghetti dentro il pentolone, Osando pur di farne a profusione: Eviterai che la tua spaghettata, Possa, mancando qualche forchettata, Esigua rimaner; spesso controlla Perché la pasta non divenga molla E resti al dente, perché mette angoscia Rifocillarsi con la pasta moscia. Ora, dopo aver fatto scolatura, Nella teglia concludi la cottura Coniugando spaghetto ben bollito Insieme all’olio prima insaporito; Nel piatto, infin, prezzemolo tritato Ostenta, crudo, sopra il cucinato. 26 FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea) EUGENIA X LEO STROZZIERI Inedito di Eugenia Serafini Su un quadro di Leo Strozzieri Dipani linee dorate racchiudono sOgni seGreti sVelano lUne aranciate oCChi eCo di ignoto triAngoli e priSmi al cOlmo della noTte POi in vOlo COlOri e utOpie 27 PAROLANDO: PROVE DI PAROLA CONTEMPORANEA, rubrica ideata e curata da E. Serafini SEDETTI SULLA PIOGGIA Inedito di Leo Strozzieri Ripeto ogni giorno il rito della riflessione per donare baci ideali a chi mi mi permette di posare il capo chiudendo gli occhi. Mugghiava quel giorno il mare e sedetti sulla pioggia. Vidi la nascita di un sogno genuflesso come salice illividito da carezze infantili. Lì mi accorsi ascoltando la risacca di essere sfiorato da una farfalla reduce dai giardini pensili. RICORDANDO MARIO VERDONE Eugenia Serafini con il nipotino Alessandro e Mario Verdone al Premio A.R.G.A.M., Roma 2004 Mario Verdone ha collaborato con la rivista FOLIVM e con le iniziative dell’Accademia in Europa di Studi Superiori Artecom-onlus per tanti anni e nel 2008 è stato insignito nella Biblioteca Vallicelliana di Roma, del Premio ARTECOM-onlus per la Cultura. In questo numero abbiamo pubblicato l’ultima poesia che inviò ad Eugenia Serafini perché la inserisse nella rubrica “PAROLANDO”. A lui, grande maestro, studioso e amico, il ricordo affettuoso e la stima di tutti i Soci dell’Artecom-onlus, dei Redattori, di noi tutti. 28 FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea) TUTTE LE ANIME DEL VENTO Inedito di Mario Verdone Fuori l’aria sembra tranquilla. Una grande luce. Ma nel vento che ogni tanto torna a soffiare ci sono tutti: appartengono al cielo quelli che sono trapassati. Ci saremo presto anche noi. Ignoriamo il giorno. Ora arriva una intensa folata di vento. Siamo noi che passiamo senza freno rapidi liberati da ogni legame da ogni pena anche da ogni gioia provvisoria. E tutti voi restate senza sospettare senza sapere che anche voi diventerete vento. 24/5/2008 29 Recensioni e segnalazioni bibliografiche RECENSIONI E SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE *FORTUNA DELLA PORTA, Mulinare di mare e di muri, Faloppio 2008. Basterebbe l’incipit del Prologo di questa raccolta di poesie a dare il senso di un percorso, di un camminamento che Fortuna della Porta vuole materiale e metaforico allo stesso tempo: “Mare dalle lunghe ombre/mi affretto./Sciolgo i piedi e la piena/quieto del mio respiro./Discendo/l’ultimo ricciolo della vita,/in partenza saluto /gli alberi, la nube che si fece ricordo/e i gigli fratelli…/Abbraccio i fiati altrui/gli animali e le costellazioni/e le pietre che servirono/a lastricare un passo e poi subito l’ultimo”. Percorso che è di ricerca interiore quotidiana, intensa, snervante e simbolicamente realizzata nel viaggio attraverso il mare, che si fa soggetto vivo e partecipe di sensazioni ed emozioni esistenziali: “Godo talora a fingere il ritorno/a un mare di età percorsa,/nell’ora cruciale del tramonto./E ogni volta da quelle onde,/dagli amatilasciati territori,/luccica l’ossidiana/di un pesce sgranato d’azzurri,/braccia di agavi scoscese/e parlate lasche, oh note del cuore!/…Debbo confidarci. Debbo appartenere/ora che la direzione è quella della notte./Pure quel mare è così lontano.” Così in Mare amaro, titolo reiterato, che diventa Mare nostrum, Mari del mondo, Mare occidentale, Mare inquinato, Mare infido e infine Il mare dell’inconoscibile: “…Le cose durano nel marmo di un letargo vile/affine alla zana della falena nell’ambra brunita/noi in preghiera slabbrati a valicarne il confine.”, a significare che gli stessi titoli indicano uno svolgersi delle sensazioni amorose, degli aneliti vitali, delle prostrazioni sfibranti che si liberano nei versi sempre incalzanti, densi di immagini e colori, ora vividi e mediterranei, ora sfumati, ora notturni e ammiccanti di luci. Su tutto domina la parola colta, sapientemente dosata nei suoi ritmi e nei significati, nelle trame talvolta volutamente criptiche ma sempre allusive ad un male di vita, amore e morte che è poi espressione dell’odierno male di vivere. (Eugenia Serafini) *GABRIELLA DI TRANI, sanmicheleinisola, installazione luci suoni immagini, stabilimento della Val printing 2009, presentazione di Ivana d’Agostino. Catalogo dedicato all’installazione omonima, illustra ampiamente il percorso artistico della brava artista che si articola nel campo dell’arte totale fra immagine e performance, luci, colori e suoni, evocando emozioni legate, in questa occasione, al cimitero veneziano di San Michele in Isola e presentate nella galleria Studioarte fuoricentro di Roma dal 5 al 22 maggio 2009. Se ci attendevamo una atmosfera velata di dolore, ebbene dovremo ricrederci: tutta l’installazione è percorsa da una ironia gentile ma ben precisa, alla quale fanno riscontro i pratini fioriti di plastica, le foto degli amici in gruppo proiettate sulle pareti. (E. S.) *ROMANO FORLEO, L’uomo che curava le donne, Cesano Boscone (MI) 2009. Alla sua seconda prova Romano Forleo si conferma romanziere di classe. Il suo primo romanzo, L’altro amore (Baldini Castaldi Dalai 2004), ha vinto il Premio Federspev (Fiuggi 2005) ed è stato finalista al Premio Roma, affermandosi per le doti di sensibilità narrativa, approfondimento psicologico dei caratteri nei personaggi, sicuro e realistico impianto generale dell’opera ambientata ai nostri giorni, che scava nella personalità complessa del protagonista in bilico tra eros e caritas, amore sensuale e terreno per una donna e amore mistico, etico e diremmo salvifico, per l’Ente supremo: Dio. Questo secondo romanzo ci trasporta inaspettatamente ma tutto sommato prevedibilmente, data la profonda cultura medica e storica dell’autore, in tempi lontanissimi: la scena iniziale si apre tra il I e il II secolo dopo Cristo e con una tecnica che non esitiamo a definire cinematografica, ci troviamo catapultati nei vicoli di Efeso: in piena notte, sotto una pioggia battente una donna, un ragazzino e un centurione romano corrono per salvare una partoriente. Scopriremo poi che la donna è ostetrica e il ragazzo, suo figlio, è Sorano, colui che diventerà “l’uomo che curava le donne”: personaggio storicamente esistito e riscoperto dopo il ritrovamento nel XIX secolo del suo fondamentale trattato di ginecologia: Le malattie delle donne. Può stupire chi non conosce la personalità dell’autore, la sua ricchissima cultura, l’amore per i libri antichi in particolare, la capacità di spaziare nelle problematiche mediche legate alla sua professione di ginecologo e docente universitario, di insegnate di Storia della Medicina e Sessuologia: tutto invece si coniuga e rimodella nella creazione del romanzo, che questa volta è storico ma possiede una forza di ambientazione attualissima, tanto è vero che nei passaggi in cui il protagonista Sorano vive in Asia Minore le rivolte contro i Romani invasori, e quindi a Roma la progressiva cristianizzazione della città, sembra di cogliere tragiche e complesse coincidenze con la storia contemporanea, dagli atti di terrorismo alle problematiche dei popoli migranti. La vita di questo antico e straordinario personaggio della Medicina, Sorano, viene ricostruita e rivissuta con grande credibilità dalla penna di Romano Forleo che ne disegna personalità e avventure avvincenti seguendolo dall’infanzia all’adolescenza tumultuosa, alla maturità complessa e segnata da forti spinte erotiche, per lasciarlo nella vecchiaia appagato nel suo desiderio di amore ma ancora aperto alla curiosità del ricercatore. La lettura procede veloce e appassionante tra storia e invenzione, passione amorosa e pietas, permettendo al lettore di addentrarsi nel complesso humus culturale ed esistenziale dell’epoca, ma perfino nello specifico ambito di una antica scuola di ginecologia per ostetriche, e tutto ciò confluisce nel rafforzare il sentimento dell’etica, intesa in senso ampio e profondo, come fondamento di vita, anche se in modo problematico, non scevro di interrogativi esistenziali, come ancora una volta piace all’autore, Romano Forleo. (Eugenia Serafini) 30 FOLIVM XI(XV).2, agosto 2009 (età moderna e contemporanea *CETTA PETROLLO, Che se volemo di?, Roma 2009. Edita da Le impronte degli uccelli, questa plaquette è un vero libro d’artista, che ha per copertina un’opera di Bruno Aller e la prefazione del poeta Mario Lunetta. Ogni poesia è chiosata da foto d’epoca di quell’immenso palcoscenico teatrale che sono le architetture dell’Urbs, Roma, concesse per l’occasione dalla raccolta fotografica della Biblioteca Vallicelliana di cui Cetta da qualche anno è Direttrice. E non ci sorprende più di tanto che questa sua produzione poetica sia in lingua romana, diciamolo così, date anche le sue precedenti attenzioni: basti citare i Sonetti e Stornelli (Tam Tam 1984) o La Peppina (ed. Ogopoco 2004), per capire il suo interesse quasi antropologico verso l’habitat della nostra città che, pur allargandosi giornalmente a macchia d’olio per dimensioni ed etnie, continua ad avere un cuore che batte romano. Ecco, questo ci sembra il senso profondo dell’opera di Cetta Petrollo: recuperare la nostra appartenenza, la quotidianità, le emozioni ed il senso della vita sentendosi legati aqd un habitat esistenziale che pulksa ancora vivo di carne e sangue. “Le mie so’ du poesiole senza attese/senza pretese de cambiare er monno/che se volevo ffa’/ciavevo da penza’ da giovinetta/e invece so’ stata appresso/ ar bagno e alla cuscina/ho cucinato brodo e spezzatino/preso er tajere per fa la pasta in casa/so’ salita sur tranve a la matina/la machina ar garagge e gambe in spalla.” (Eugenia Serafini) *ANNA PETRUNGARO, La tenera mattanza, Messina 2009. Raccolta di poesie in tre “quadri”, introdotta da una nota significativa dell’autrice, Anna Petrungaro: ”La tenera mattanza trae ispirazione da una esperienza di alfabetizzazione per adulti svolta all’interno di una struttura di riabilitazione neuropsichiatrica.…Quotidianamente attraversiamo, sorvegliamo e/o eludiamo i drammi. Le grandi maglie dell’organizzazione dettano dall’esterno le regole e i tempi di ognuno, in un gioco al micro-massacro che lascia chi lo vive in una costante e pressoché totale impotenza.” Esperienza forte e densa di emozioni questa della Petrungaro, nata anche dal suo percorso di vita e professionalità impegnate nella ricerca e nel sociale, la porta ad immergersi volente ma non completamente consapevole delle conseguenze a venire e che a lei stessa si chiariranno poco a poco, in quello che definisce micro-massacro dell’impotenza. Un progetto di alfabetizzazione per malati neuro-psichiatrici si trasforma per lei in parola poetica che assume toni ora drammatici, ora tragici addirittura.”Siamo stati ammansiti e costipati/in questa cripta di ore contate/Consumate a rancio/Siamo feriti nell’eccentrico dei nostri inni a morire/Schizzato sangue sulla neve…/stiamo in singolare simbiosi/Tesi come i fili dei tralicci/adornati dalla solitudine dell’ultimo colombo”. Sono i toni di chi si è addentrato in un mondo ignoto, nel quale sembra possibile soltanto una forma di empatìa, di simbiosi a pelle: talvolta la parola, che è lo strumento principe di cui si fa portatrice nella sua alfabetizzazione Anna Petrungaro, dona al folle il volo divino dell’essenza poetica e subito lei, Anna, lo coglie e lo ripete con ritmi e assonanze simbiotiche, entrando in immaginazioni, movenze, contaminazioni verbali che bruciano, esplorano, con-fondono e confortano la disperante immensità dell’inesplorabile follìa. “Tiene la bocca spalancata per ore/E una fissità di grido/Tiene gli occhi fessurati/Gettati dentro/Un’orridezza che sa lei/Quando la chiami tende la guancia/Chiude il discorso e ferma l’oscillare/Si mette composta sulla sedia/Subito dopo ti riscaglia/Muta come un pesce/Il suo boccheggio di ore”. Nasce dunque da una esperienza, per certi versi terribile, autentica, dilaniante, una raccolta poetica di intensa vibrazione, che vale la pena di leggere e sulla quale bisogna tornare e fermarsi e “sentire”, per ritrovare i temi forti del vivere, le ragioni dell’essere anche dentro una insondabile diversità. Colta e consapevole del percorso poetico del novecento e in particolare del secondo novecento, non scevra dell’esperienza di una Alda Merini, di un Sanguineti o di un Pagliarani, la nostra autrice mette in atto un dramma denso, fortemente etico nei suoi interrogativi non risolti, che sembrano appellarsi ad un insondabile mistero: “Ogni giorno c’è una sacra rappresentazione”. (Eugenia Serafini) *CLAUDIA MANUELA TURCO: Ilbacodaseta. Nella ragnatela di DomenicoCara, prefazione di Sandro GrosPietro, in copertina Musa di seta di Fëdor Antonovič Moller. Edizioni del Punto Più Alto, Milano, 2006, pp. 134, euro 12,50. Ilbacodaseta: tutt’attaccato, a meglio significare la lunghissima continuità del filo lucido e prezioso secreto dal bruco per tessere il bozzolo dove trasformarsi in crisalide; e, nell’efficace metafora di cui si serve Claudia Manuela Turco in questo libro dedicato all’opera di Domenico Cara, a far risaltare l’ininterrotto flusso creativo dalla sua scrittura. Filo, precisa l’Autrice, “che conduce il lettore nello smarrimento, inquietandolo, rendendolo vigile e sorprendendolo”; “che tiene insieme tutti i pezzi, che cuce i confini tra un frammento e l’altro” (p. 1). Frammento: parola fondamentale in uno studio su Cara, il cui percorso letterario ha sempre riservato ampi spazi all’aforisma (e il discorso si può estendere alla poesia, così frantumata in allegorie). “Pillola di conoscenza”, il frammento; “unità minima”, certo, ma anche “unità di misura di tutto”, “cellula staminale da cui qualsiasi tipo di cellula si può differenziare” (p. 6). Importante è l’interdipendenza dei frammenti, volti a espandersi verso tutti i lati e gli angoli dell’immenso poliedro che è la realtà, per tutti esplorarli e dunque raccordarli. E se nel pensiero (e nella scrittura) di Cara c’è un’apparente discontinuità e asistematicità, i fili serici del magico baco “tengono insieme il tutto e uniscono le varie parti”. E tutto alla fine si collega, si stringe, “fluisce in musica” (p. 3). 31 Recensioni e segnalazioni bibiogragiche “L’autore taglia i fili, li annoda, cuce e ricama, liberando gli aquiloni del pensiero, [...] la fiamma del reale”, tra contraddizioni e contrasti (p. 69). Del resto, ogni cosiddetto frammento è espressione di una tensione speculativa: lunga maturazione di un concetto e insieme apertura a impensabili sviluppi (pp. 60-61). All’inizio del libro, l’Autrice dichiara di voler compiere il suo viaggio “tra diversi testi cariani”, concentrandosi “su alcuni nodi tematici esemplificativi” (p. 6). (Per inciso, l’immagine del viaggio torna alla pagina 52: “All’idea di frammento, è connessa quella di labirinto, “spazio della poesia cariana, luogo tortuoso, ricco di sorprese” – angoscia ed estasi, ansia ed evento, annullamento o salvezza – (come rileva Massimo Pamio, autore di un primo vasto saggio su Cara, del 1987, di cui la Turco riporta più passaggi); ma anche “la tana della creatività, perché elabora infinite direzioni, scorci che continuamente ritornano” (p. 58). In esso, aggiunge la Turco, “ognuno è solo, [...] l’immaginazione si accende nel fuoco del pericolo, autentico combustibile vitale” un continuo viaggiare e sostare”, e poi alla conclusione dello studio, pagina 118). Ma non solo alcuni nodi, anzi numerosi e vari, e tutti ben documentati, corroborati con un numero impressionante di citazioni, tratte prevalentemente dai libri di Cara e anche da molti altri di cui l’Autrice si è servita per meglio motivare ed estendere il proprio assunto. Le note a piè di pagina, coi riferimenti delle opere da cui le citazioni sono attinte, sono 740 sparse in appena 130 pagine. È evidente che la Turco ha passato e ripassato al setaccio della sua lettura critica i testi di Cara, per scomporli e ricomporli, intrecciarli e distinguerli in una fitta trama di relazioni, sia quelli di poesia sia le raccolte di aforismi, per la saggistica è abbondantemente richiamata la monografia su Corrado Alvaro. La Turco ha fatto in tempo a inserire nelle ultime pagine anche Fisica di sensi, del dicembre 2005, precedente di poco la stampa del Baco. Il tutto a riprova dell’appassionato impegno con cui è voluta penetrare nella fucina di Cara, nel suo variegato e insieme compatto mondo intellettuale e spirituale. Il primo dei “nodi tematici” (e l’unico purtroppo a cui accennerò, ma essenziale) è quello del linguaggio, dello stile: personalissimo, con un forte elemento di cripticità, un incessante flusso di immagini sempre intense, con accensioni di poesia anche nelle pagine in prosa, nutrito da una vivacissima inventiva verbale, venato di una buona dose di sotterranea ironia (alla quale è riservato un altro “nodo” da pagina 45). Sua caratteristica, bene osserva la Turco, è l’“accumulo verbale”, riflesso del “caos contemporaneo” (p. 103). Fronteggiando e avversando inautenticità, gommosità, inesattezza, vacuità, “Domenico Cara è riuscito a dare corpo a un universo letterario completo e autarchico, dotato di complesso fascino”" (p. 7). Questo Bacodaseta segue di soli tre anni un’altra monografia dedicata all’opera di Cara, quella di Franca Alaimo del 2003 (La firma dell’essere), ed è il quarto libro che pone come proprio argomento di analisi lo scrittore calabro-milanese (gli altri sono di Massimo Pamio del 1987, Lo statuto dei labirinti, già ricordato, e di Gaetano delli Santi del 1992, L’aforisma insofferente). Da aggiungere – non meno importanti – le centinaia di scritti brevi tra prefazioni, note, recensioni. Quale immagine di Cara viene fuori dalla lettura del libro, al termine del viaggio durante il quale Claudia Manuela Turco ci ha accompagnati o guidati? Possiamo averne un’idea anche solo scegliendo poche frasi qua e là, quasi a caso, partendo da alcune negatività che ci attorniano. In una società che “troppo spesso si adagia restando ancorata al pregiudizio e alle finte verità” (p. 65), dove “l’uomo è divorato dall’ansia, è in perenne attesa” (p. 95) e vive lo spazio in modo perverso nella “collisione tra spazi naturali e spazi urbani” (p. 104), immesso nella “piaga della cultura di massa” (p. 112), in un’epoca caratterizzata da “monologo, afasia, solipsismo e soliloquio” (p. 115), Cara “rivela di possedere una sensibilità offesa, dietro la dura scorza del fine e distaccato indagatore” (p. 120). Basterebbero per altro due frasi dello stesso Cara, colte anch’esse fra le tante possibili: “Apparteneva alla comunità per non essere solo, ma senza condividere nulla dei suoi trapestii” (p. 114); e “Quanto mi nuoce l’ottimismo degli ottusi!” (p. 120). Ma vorrei affidare la risposta anche a Sandro Gros-Pietro, anche lui guida o compagno, perché nel viaggio ci ha introdotti con la sua prefazione così ricca di motivi e segnali: “La disperazione di essere sopra l’abisso e di non avere intorno a sé nient’altro che le tenebre e il proprio gioco impotente di resistenza all’abisso che inghiotte” (p. VII) (Ferdinando Bianchini). Hanno collaborato a questo numero: Ferdinando Bianchini, Domenico Cara, Serena D’Arbela, Fortuna Dalla Porta, Giorgio Di Genova, Paolo Guzzi, Francesco Mandrino, Maria Grazia Martina, Umberto Maria Milizia, Plinio Perilli, Domenico Sacco, Eugenia Serafini, Chiara Strozzieri, Leo Strozzieri, Liliana Ugolini, Mario Verdone (†). 32