IL PARADOSSO DI ZENONE DELLA DICOTOMIA Ci sono due versioni diverse del paradosso di Zenone detto della dicotomia: una riportata da Aristotele nella Fisica e una da Platone nel Parmenide. Il primo argomento sembra essere soprattutto contro la possibilità del moto il secondo contro la pluralità degli enti. Mi occuperò della prima formulazione. Non terrò conto più di tanto della sua formulazione storicamente esatta, per cui analizzerò un argomento che, pur essendo simile a quello riportato da Aristotele1, ci consente di affrontare delicati e importanti problemi sul rapporto fra fisica, matematica, spazio, tempo, materia e infinito. Carlo è in casa con la sorella Gianna e la ha vista poco prima in camera sua che studiava i paradossi di Zenone. Dalla sua camera, dove sta giocando con la play station, Carlo si reca in cucina, per bere una coca cola. Trova lì la sorella che si sta preparando il caffè. Dato che Gianna prima era in camera sua e adesso è in cucina, deduce prontamente che “Gianna è andata dalla sua camera in cucina”. Dove il verbo “andare” indica un moto. Immaginiamo a questo punto il seguente dialogo: Zenone – Gianna, per andare da camera sua alla cucina, ha dovuto percorrere la metà del tragitto, giusto? Carlo – Certamente. Z – Prima di arrivare alla metà del tragitto, ha però dovuto percorrere la metà della metà, cioè un quarto, del percorso. Non ti pare? C – E’ ovvio. Z – E prima di raggiungere un quarto del percorso ha dovuto camminare per la metà di un quarto, cioè un ottavo, del percorso. Corretto? C – Senz’altro. Z – E questa divisione può essere reiterata all’infinito, o sbaglio? C – Non sbagli. Z. Dunque Gianna, per andare dalla sua camera alla cucina, avrebbe dovuto attraversare una quantità infinita di tratti di percorso, per cui ci avrebbe impiegato una quantità infinita di tempo. Siccome il tempo trascorso da quando l’hai vista l’ultima volta in camera sua è senz’altro finito, Gianna non si è mai mossa. Carlo resta un po’ perplesso. Questa è una presentazione informale dell’argomento della dicotomia. Adesso dobbiamo esaminarlo in modo più preciso. 1. Supponiamo che un corpo c si muova da A a B, due differenti luoghi spaziali, con velocità costante. Supponiamo inoltre, per semplicità, che la distanza fra A e B sia uguale a 1 in una qualche unità di misura che non ci interessa e che ci impieghi un L’argomento viene formulato da Aristotele in Phys. VI, 9 239b 11ss., luogo in cui si elencano i paradossi di Zenone. Viene però risolto in Phys. VI, 2 233° 20ss e in Phys. VIII, 8 263° 5ss. 1 1 tempo unitario in qualche unità di misura. In questo modo, secondo la cinematica classica, c impiega esattamente 1/M unità di tempo per percorrere un qualsiasi tratto di lunghezza 1/M contenuto in AB. 2. Supponiamo poi che lo spazio compreso fra A e B sia infinitamente divisibile, nel senso dell’infinito numerabile. 3. Allora possiamo dire che c, per andare da A a B, deve percorrere una serie infinita di intervalli di spazio adiacenti l’ultimo dei quali è lungo ½, il penultimo ¼, il terzultimo 1/8 ecc., che possiamo così indicare: ....... 1 1 1 1 ....... , , n 2 8 4 2 (1) Oppure così rappresentare graficamente: A 1/8 B 1/4 1/2 Dove i puntini stanno a indicare che la serie di intervalli è regressivamente infinita. 4. E’ ragionevole supporre che c per attraversare ognuno degli intervalli della serie (1) adoperi una quantità finita di tempo. 5. Quindi c impiega una quantità infinita di tempo per andare da A a B, dato che un qualsiasi numero finito moltiplicato per infinito dà comunque infinito. Il ragionamento così costruito prende le mosse dalle assunzioni difficilmente contestabili 2. (infinita divisibilità dello spazio) e 4. (necessità di un tempo finito per percorrere uno spazio finito) e porta all’assurdo l’ipotesi 1., cioè che c si sia mosso da A a B. Assurdo perché sarebbe un moto che durerebbe un tempo infinito. La soluzione del dilemma viene in mente in modo abbastanza naturale, e infatti è quella proposta dallo stesso Aristotele: è vero che gli spazi che c deve percorrere sono infiniti, ma sono sempre più piccoli, per cui anche i tempi impiegati sono sempre più piccoli, poiché il tempo pure è infinitamente divisibile. Dunque non ci vuole un tempo infinito2. 2 Il discorso aristotelico, come nota N. Huggett, Space from Zeno to Einstein, MIT Press, Cambrudge Mass., 1999. pp. 39-40, è articolato. Egli nota che non è detto che sia necessario un tempo infinito per attraversare un numero infinito di parti contenute in un segmento finito, Phys., 233° 14-21, poi però nota che questo non è sufficiente in Phys., 263° 15- 2 Più o meno la risposta andrebbe bene, senonché essa utilizza due premesse tutt’altro che scontate: I. Il tempo è infinitamente divisibile; II. La somma della serie infinita degli elementi della (1) è minore o uguale a 1. Discutiamo innanzitutto II., che è più facile, se ci avvaliamo delle moderne tecniche matematiche introdotte a partire dall’opera di Eulero, matematico tedesco del Settecento. Poniamo: Sn 1 1 1 .... n 2 4 2 (2) Dividiamo la (2) per 2 da entrambe le parti: Sn 1 1 1 1 ... n n1 2 4 8 2 2 (3) Sottraiamo la (3) dalla (2) membro a membro: Sn 1 1 n1 2 2 2 Cioè: Sn 1 1 2n (4) Dalla (4) si vede che n può diventare grande quanto si vuole ma Sn non sarà mai maggiore di 13. Con questo abbiamo dimostrato la veridicità della II. Dobbiamo ora affrontare il problema della correttezza della I., che è assai più complesso. Per fare questo, prendiamo prima in considerazione la premessa 2., cioè che lo spazio sia infinitamente divisibile. Notiamo innanzitutto che finora, per quel che ne so, non 22, in un passo per me alquanto oscuro, che Huggett interpreta come l’affermazione che non è detto che una somma infinita di numeri dia un numero finito. L’interpretazione non sembra del tutto convincente. Nelle righe successive Aristotele osserva che in una grandezza finita infinitamente divisibile, l’infinito è solo in potenza e per questo la somma infinita di un numero infinito di parti in potenza può essere finita. 3 Huggett, op. cit., pp. 42-43, e nella voce “Zeno’s paradoxes” della Stanford Enciclopedia of Philosophy, http://plato.stanford.edu/entries/paradox-zeno/ § 3.3, sostiene che per risolvere matematicamente la dicotomia di Zenone è necessario il concetto di somma infinita di Cauchy, ma sembra invece che la questione sia più semplice, come mostrato nel testo. 3 esiste una definizione rigorosa del predicato “infinitamente divisibile”4. Questo probabilmente per il carattere modale di tale locuzione (divisibile). Dunque per formulare con esattezza la 2., dobbiamo dire che lo spazio è “denso”, cioè che fra due punti spaziali ce ne è sempre almeno un altro. Questo non significa ancora che lo spazio sia continuo, cioè che sia isomorfo ai numeri reali. Vuol dire però che non è come i numeri naturali, che sono discreti, bensì come i numeri razionali, cioè le frazioni. Infatti prese due frazioni quanto si vuole vicine fra loro, come ad esempio 99/100 e 98/100 ne troviamo facilmente un’altra che è più piccola della prima e più grande della seconda come 985/1000. Teniamo anche conto che il fatto che lo spazio sia un insieme denso di punti non significa che non sia continuo, ma solo che per il nostro ragionamento è sufficiente che sia denso. Infatti ogni insieme continuo è a fortiori denso. Quando si propone un’ipotesi matematicamente esatta sulla natura di un oggetto reale, credo che la prima cosa sia confrontarla con la percezione5. Un continuo spaziale percepito, come ad esempio un tratto di matita nera sul foglio bianco, non viene colto come un insieme denso di punti. Certo possiamo definire in esso dei minimi percepibili, considerando che la percezione visiva spaziale possiede una soglia. Possiamo anche dire che esso è in potenza formato da un insieme finito e discreto di minimi percepibili. Ma tali minimi non risultano evidenti attualmente. Possiamo quindi dire, con Grünbaum che la percezione non testimonia contro l’affermazione che lo spazio sia composto da un insieme denso di punti. Anche se non testimonia neanche a favore di questa tesi. L’argomento più forte a favore del fatto che lo spazio fisico sia composto da un insieme denso di punti è il successo delle attuali teorie fisiche: meccanica classica, meccanica quantistica, relatività ristretta e generale, elettromagnetismo, elettrodinamica quantistica e modello standard. Tutte queste presuppongono uno spazio fisico denso (in realtà continuo), per cui, se abbracciamo una forma di realismo scientifico, anche moderato, arriviamo alla conclusione che, per quanto ne sappiamo, lo spazio fisico è denso. Il realismo scientifico moderato infatti afferma che le migliori spiegazioni di un dato dominio di oggetti sono almeno in parte vere anche riguardo a ciò che non è osservabile. Dove il termine “vere” va inteso nel senso della verità come corrispondenza. Dunque è ragionevole supporre che lo spazio fisico sia effettivamente denso6. Detto questo, dobbiamo occuparci del caso del tempo. Notiamo innanzitutto che il tempo percepito, a differenza dello spazio, è discontinuo (James Whitehead, Grünbaum7). La temporalità vissuta infatti è scandita dal farsi presente di situazioni successive. In effetti, se non proiettiamo sul tempo percepito la sua geometrizzazione Forse il più importante tentativo in questo senso è il metodo dell’astrazione estensiva proposto da Whitehead, criticato però da A. Grünbaum, “Whitehead’s method of extensive abstraction”, The British Journal for the Philosophy of Science, 4, 1953, pp. 215-226. 5 Come fa A. Grünbaum, Modern science and Zeno’s paradoxes, Allen and Unwin, London, 1968, p. 44. 6 Si tenga conto, però, che nei più recenti tentativi di unificazione di gravità e teorie quantistiche non sempre lo spazio alle dimensioni di Planck resta denso, ma possiederebbe delle discontinuità. Si tratta però di ipotesi ancora in discussione. 7 Op. cit., pp. 45ss. 4 4 tipica delle teorie fisiche, possiamo dire, ad esempio, che fra il momento in cui è squillato il telefono e quello in cui mi è caduto sul piede un martello non ci sono istanti intermedi. Tuttavia, il fatto che il tempo percepito sia discreto non implica necessariamente che il tempo fisico sia discreto. Quante volte è capitato, a partire dalla rivoluzione copernicana, che ci siamo resi conto che i nostri sensi ci ingannano? Tuttavia il caso del tempo è più complesso rispetto a quello dello spazio, perché mentre là i sensi non testimoniavano contro la densità dello spazio, ma restavano, per così dire, neutrali, qui la percezione, invece, si contrappone alla densità del tempo. Dunque in questa situazione, affermare, come abbiamo fatto per lo spazio, che le migliori teorie fisiche presuppongono che il tempo sia denso, non sembra sufficiente. Già Aristotele afferma che (Phys. 233a 15ss.) a causa del moto8, che lega lo spazio (che egli chiama la “grandezza”) con il tempo, se uno è infinitamente divisibile anche l’altro lo sarà. L’argomento aristotelico è stato così riformulato da Adolf Grünbaum (op. cit. pp. 56ss.). Chiamiamo “fatto” che una certa entità fisica c minimamente individuata si trovi a un certo istante in un certo luogo. Se una stessa entità fisica minimamente individuata si trova nel punto spaziale A al tempo tA e nel punto spaziale B al tempo tB, diciamo che i due fatti FA e FB sono “genidentitci”. Prendiamo ora le mosse da questo primo principio: i. In tutte le teorie fisiche attuali, presi due qualsiasi fatti genidentici FA e FB, se A è diverso da B allora tA è diverso da tB9. Ora viene il punto ontologico fondamentale che rende possibile il trasferimento della densità dello spazio al tempo. ii. Se FA e FB sono due fatti genidentici, con A diverso da B, allora esiste un insieme lineare e denso di fatti genidentici rispetto a FA e FB che ha FA e FB come estremi, ovvero la traiettoria del corpo c da A a B. Anche questo è vero in tutte le teorie fisiche contemporanee10. A questo punto prendiamo una qualsiasi coppia di fatti genidentici FA e FB riguardanti il corpo c, essi, per i., non saranno simultanei. Ma, per ii., esisterà un insieme denso e lineare di fatti (tutti genidentici con FA e FB) che ha come estremi FA e FB, chiamiamolo FAB. Tutti gli elementi di FAB sono genidentici fra loro, dunque per i., nessun membro di FAB sarà simultaneo a un altro membro di FAB. Questo significa Giustamente Elena Piatti (studente di filologia classica a Urbino, ha notato che l’argomento aristotelico non avrebbe convinto Zenone, in quanto presuppone l’esistenza del moto. Nella riformulazione di Grünbaum, che discuteremo fra poco, questo problema sembra essere superato, perché non si assume l’esistenza del moto. 9 Qui dovremmo prendere in considerazione la non località quantistica, in accordo con la quale sembrerebbe che una particella possa stare in due luoghi diversi simultaneamente, anche se in modo probabilistico. In realtà la meccanica quantistica è una teoria che non può essere interpretata realisticamente, per cui questa non località è più un fatto matematico che una caratteristica del mondo. Inoltre, più che non località, si tratta di non separabilità, per cui l’oggetto fisico unico si trova in un unico ampio luogo che comprende A e B. 10 Di nuovo occorre prendere in considerazione il caso della meccanica quantistica, che sembra violare tale principio, in quanto, come è noto, in generale non è possibile ricostruire la traiettoria delle particelle. Tuttavia, come dicevamo nella nota precedente, la non località è in realtà una non separabilità. Per cui la traiettoria sarà non unidimensionale. 8 5 che esiste un insieme denso di istanti temporali. Lo stesso Zenone non può negare l’esistenza di due fatti genidentici a partire dai suoi argomenti contro il moto, poiché in questo ragionamento non abbiamo mai utilizzato l’esistenza di un moto di c, ma solo i principi i. e ii. rispettati dalle migliori teorie fisiche attuali. Ci stiamo dunque avvicinando a una riformulazione contemporanea della soluzione aristotelica del paradosso della dicotomia. Abbiamo infatti appena dimostrato la correttezza di II. Ci rimane un ultimo tassello. Siamo sicuri che possiamo sommare la lunghezza degli intervalli temporali esattamente come sommiamo i numeri? Ovvero, come si misura la lunghezza di un intervallo temporale e tali lunghezze sono additive? In effetti se il tempo fisico è rappresentabile come un insieme lineare11 e denso di istanti, lo possiamo mettere in corrispondenza biunivoca con i numeri razionali. Dopo di che possiamo facilmente definire la “distanza temporale” o “lunghezza di un intervallo temporale” fra due istanti come la differenza fra i due corrispondenti numeri razionali. In questo modo otteniamo una misura delle distanze temporali. Ci chiediamo ora se tali distanze sono additive, cioè se esiste una operazione fisica, chiamiamola “□” tale che presi due qualsiasi intervalli temporali Ta e Tb, se vale Ta□Tb=Tc allora la lunghezza di Tc è uguale alla somma della lunghezza di Ta e di quella di Tb. E’ chiaro che gli intervalli temporali non si possono spostare facilmente come quelli spaziali, però possiamo immaginare di formare l’intervallo Tc somma a partire dagli intervalli Ta e Tb facendo iniziare Tb esattamente quando finisce Ta. Dunque l’operazione “□” esiste, per cui la misura delle lunghezze temporali è additiva. Ne segue che possiamo applicare il semplice calcolo (1)-(4) per mostrare che la somma degli intervalli temporali non eccede mai l’unità. Di modo che il paradosso della dicotomia di Zenone, già risolto da Aristotele, anche rispetto alla fisica e alla matematica contemporanea risulta superato. Ricordiamoci però, che nella nostra analisi ci siamo spesso avvalsi di istanze fondate empiricamente, cioè la nostra argomentazione non è stata meramente concettuale, per cui il futuro della ricerca empirica potrà modificare queste conclusioni. “lineare” significa che presi due qualsiasi istanti tA e tB esiste una relazione R tale che o tARtB o tBRtA; se tARtB allora non tBRtA e viceversa se tBRtA non tARtB; se tARtB e tBRtC, allora tARtC. Cioè R è totale, antisimmetrica e transitiva. Per gli istanti del tempo fisico (se non prendiamo in considerazione le curve di tipo tempo chiuse della relatività generale) R esiste, cioè “prima di” o “dopo di”. 11 6