IL PARADOSSO DI ZENONE DELLA DICOTOMIA

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I PARADOSSI DI ZENONE E LA SCIENZA MODERNA
Vincenzo Fano
IL PARADOSSO DI ZENONE DELLA DICOTOMIA
Ci sono due versioni diverse del paradosso di Zenone detto della dicotomia: una
riportata da Aristotele nella Fisica e una da Platone nel Parmenide. Il primo
argomento sembra essere soprattutto contro la possibilità del moto il secondo contro
la pluralità degli enti. Mi occuperò della prima formulazione. Non terrò conto più di
tanto della sua formulazione storicamente esatta, per cui analizzerò un argomento
che, pur essendo simile a quello riportato da Aristotele1, ci consente di affrontare
delicati e importanti problemi sul rapporto fra fisica, matematica, spazio, tempo,
materia e infinito.
Carlo è in casa con la sorella Gianna e la ha vista poco prima in camera sua che
studiava i paradossi di Zenone. Dalla sua camera, dove sta giocando con la play
station, Carlo si reca in cucina, per bere una coca cola. Trova lì la sorella che si sta
preparando il caffè. Dato che Gianna prima era in camera sua e adesso è in cucina,
deduce prontamente che “Gianna è andata dalla sua camera in cucina”. Dove il verbo
“andare” indica un moto. Immaginiamo a questo punto il seguente dialogo:
Zenone – Gianna, per andare da camera sua alla cucina, ha dovuto percorrere la metà
del tragitto, giusto?
Carlo – Certamente.
Z – Prima di arrivare alla metà del tragitto, ha però dovuto percorrere la metà della
metà, cioè un quarto, del percorso. Non ti pare?
C – E’ ovvio.
Z – E prima di raggiungere un quarto del percorso ha dovuto camminare per la metà
di un quarto, cioè un ottavo, del percorso. Corretto?
C – Senz’altro.
Z – E questa divisione può essere reiterata all’infinito, o sbaglio?
C – Non sbagli.
Z. Dunque Gianna, per andare dalla sua camera alla cucina, avrebbe dovuto
attraversare una quantità infinita di tratti di percorso, per cui ci avrebbe impiegato
una quantità infinita di tempo. Siccome il tempo trascorso da quando l’hai vista
l’ultima volta in camera sua è senz’altro finito, Gianna non si è mai mossa.
L’argomento viene formulato da Aristotele in Phys. VI, 9 239b 11ss., luogo in cui si elencano i paradossi di Zenone. Viene
però risolto in Phys. VI, 2 233° 20ss e in Phys. VIII, 8 263° 5ss.
1
1
Carlo resta un po’ perplesso.
Questa è una presentazione informale dell’argomento della dicotomia. Adesso
dobbiamo esaminarlo in modo più preciso.
1. Supponiamo che un corpo c si muova da A a B, due differenti luoghi spaziali, con
velocità costante. Supponiamo inoltre, per semplicità, che la distanza fra A e B sia
uguale a 1 in una qualche unità di misura che non ci interessa e che ci impieghi un
tempo unitario in qualche unità di misura. In questo modo, secondo la cinematica
classica, c impiega esattamente 1/M unità di tempo per percorrere un qualsiasi tratto
di lunghezza 1/M contenuto in AB.
2. Supponiamo poi che lo spazio compreso fra A e B sia infinitamente divisibile, nel
senso dell’infinito numerabile.
3. Allora possiamo dire che c, per andare da A a B, deve percorrere una serie infinita
di intervalli di spazio adiacenti l’ultimo dei quali è lungo ½, il penultimo ¼, il
terzultimo 1/8 ecc., che possiamo così indicare:
.......
1
1 1 1
....... , ,
n
2
8 4 2
(1)
Oppure così rappresentare graficamente:
A
1/8
B
1/4
1/2
Dove i puntini stanno a indicare che la serie di intervalli è regressivamente infinita.
4. E’ ragionevole supporre che c per attraversare ognuno degli intervalli della serie
(1) adoperi una quantità finita di tempo.
5. Quindi c impiega una quantità infinita di tempo per andare da A a B, dato che un
qualsiasi numero finito moltiplicato per infinito dà comunque infinito.
2
Il ragionamento così costruito prende le mosse dalle assunzioni difficilmente
contestabili 2. (infinita divisibilità dello spazio) e 4. (necessità di un tempo finito per
percorrere uno spazio finito) e porta all’assurdo l’ipotesi 1., cioè che c si sia mosso da
A a B. Assurdo perché sarebbe un moto che durerebbe un tempo infinito.
La soluzione del dilemma viene in mente in modo abbastanza naturale, e infatti è
quella proposta dallo stesso Aristotele: è vero che gli spazi che c deve percorrere
sono infiniti, ma sono sempre più piccoli, per cui anche i tempi impiegati sono
sempre più piccoli, poiché il tempo pure è infinitamente divisibile. Dunque non ci
vuole un tempo infinito2.
Più o meno la risposta andrebbe bene, senonché essa utilizza due premesse tutt’altro
che scontate:
I. Il tempo è infinitamente divisibile;
II. La somma della serie infinita degli elementi della (1) è minore o uguale a 1.
Discutiamo innanzitutto II., che è più facile, se ci avvaliamo delle moderne tecniche
matematiche introdotte a partire dall’opera di Eulero, matematico tedesco del
Settecento.
Poniamo:
Sn 
1 1
1
  ....  n
2 4
2
(2)
Dividiamo la (2) per 2 da entrambe le parti:
Sn 1 1
1
1
   ...  n  n1
2 4 8
2 2
(3)
Sottraiamo la (3) dalla (2) membro a membro:
Sn 1
1
  n1
2 2 2
Il discorso aristotelico, come nota N. Huggett, Space from Zeno to Einstein, MIT Press, Cambrudge Mass., 1999. pp. 39-40, è
articolato. Egli nota che non è detto che sia necessario un tempo infinito per attraversare un numero infinito di parti
contenute in un segmento finito, Phys., 233° 14-21, poi però nota che questo non è sufficiente in Phys., 263° 15-22, in un
passo per me alquanto oscuro, che Huggett interpreta come l’affermazione che non è detto che una somma infinita di
numeri dia un numero finito. L’interpretazione non sembra del tutto convincente. Nelle righe successive Aristotele osserva
che in una grandezza finita infinitamente divisibile, l’infinito è solo in potenza e per questo la somma infinita di un numero
infinito di parti in potenza può essere finita.
2
3
Cioè:
Sn  1 
1
2n
(4)
Dalla (4) si vede che n può diventare grande quanto si vuole ma S n non sarà mai
maggiore di 13.
Con questo abbiamo dimostrato la veridicità della II. Dobbiamo ora affrontare il
problema della correttezza della I., che è assai più complesso.
Per fare questo, prendiamo prima in considerazione la premessa 2., cioè che lo spazio
sia infinitamente divisibile. Notiamo innanzitutto che finora, per quel che ne so, non
esiste una definizione rigorosa del predicato “infinitamente divisibile”4. Questo
probabilmente per il carattere modale di tale locuzione (divisibile). Dunque per
formulare con esattezza la 2., dobbiamo dire che lo spazio è “denso”, cioè che fra due
punti spaziali ce ne è sempre almeno un altro. Questo non significa ancora che lo
spazio sia continuo, cioè che sia isomorfo ai numeri reali. Vuol dire però che non è
come i numeri naturali, che sono discreti, bensì come i numeri razionali, cioè le
frazioni. Infatti prese due frazioni quanto si vuole vicine fra loro, come ad esempio
99/100 e 98/100 ne troviamo facilmente un’altra che è più piccola della prima e più
grande della seconda come 985/1000. Teniamo anche conto che il fatto che lo spazio
sia un insieme denso di punti non significa che non sia continuo, ma solo che per il
nostro ragionamento è sufficiente che sia denso. Infatti ogni insieme continuo è a
fortiori denso.
Quando si propone un’ipotesi matematicamente esatta sulla natura di un oggetto
reale, credo che la prima cosa sia confrontarla con la percezione5. Un continuo
spaziale percepito, come ad esempio un tratto di matita nera sul foglio bianco, non
viene colto come un insieme denso di punti. Certo possiamo definire in esso dei
minimi percepibili, considerando che la percezione visiva spaziale possiede una
soglia. Possiamo anche dire che esso è in potenza formato da un insieme finito e
discreto di minimi percepibili. Ma tali minimi non risultano evidenti attualmente.
Possiamo quindi dire, con Grünbaum che la percezione non testimonia contro
l’affermazione che lo spazio sia composto da un insieme denso di punti. Anche se
non testimonia neanche a favore di questa tesi.
Huggett, op. cit., pp. 42-43, e nella voce “Zeno’s paradoxes” della Stanford Enciclopedia of Philosophy,
http://plato.stanford.edu/entries/paradox-zeno/ § 3.3, sostiene che per risolvere matematicamente la dicotomia di Zenone
è necessario il concetto di somma infinita di Cauchy, ma sembra invece che la questione sia più semplice, come mostrato nel
testo.
4 Forse il più importante tentativo in questo senso è il metodo dell’astrazione estensiva proposto da Whitehead, criticato
però da A. Grünbaum, “Whitehead’s method of extensive abstraction”, The British Journal for the Philosophy of Science, 4, 1953,
pp. 215-226.
5 Come fa A. Grünbaum, Modern science and Zeno’s paradoxes, Allen and Unwin, London, 1968, p. 44.
3
4
L’argomento più forte a favore del fatto che lo spazio fisico sia composto da un
insieme denso di punti è il successo delle attuali teorie fisiche: meccanica classica,
meccanica quantistica, relatività ristretta e generale, elettromagnetismo,
elettrodinamica quantistica e modello standard. Tutte queste presuppongono uno
spazio fisico denso (in realtà continuo), per cui, se abbracciamo una forma di
realismo scientifico, anche moderato, arriviamo alla conclusione che, per quanto ne
sappiamo, lo spazio fisico è denso. Il realismo scientifico moderato infatti afferma
che le migliori spiegazioni di un dato dominio di oggetti sono almeno in parte vere
anche riguardo a ciò che non è osservabile. Dove il termine “vere” va inteso nel senso
della verità come corrispondenza. Dunque è ragionevole supporre che lo spazio fisico
sia effettivamente denso6.
Detto questo, dobbiamo occuparci del caso del tempo. Notiamo innanzitutto che il
tempo percepito, a differenza dello spazio, è discontinuo (James Whitehead,
Grünbaum7). La temporalità vissuta infatti è scandita dal farsi presente di situazioni
successive. In effetti, se non proiettiamo sul tempo percepito la sua geometrizzazione
tipica delle teorie fisiche, possiamo dire, ad esempio, che fra il momento in cui è
squillato il telefono e quello in cui mi è caduto sul piede un martello non ci sono
istanti intermedi. Tuttavia, il fatto che il tempo percepito sia discreto non implica
necessariamente che il tempo fisico sia discreto. Quante volte è capitato, a partire
dalla rivoluzione copernicana, che ci siamo resi conto che i nostri sensi ci ingannano?
Tuttavia il caso del tempo è più complesso rispetto a quello dello spazio, perché
mentre là i sensi non testimoniavano contro la densità dello spazio, ma restavano, per
così dire, neutrali, qui la percezione, invece, si contrappone alla densità del tempo.
Dunque in questa situazione, affermare, come abbiamo fatto per lo spazio, che le
migliori teorie fisiche presuppongono che il tempo sia denso, non sembra sufficiente.
Già Aristotele afferma che (Phys. 233a 15ss.) a causa del moto8, che lega lo spazio
(che egli chiama la “grandezza”) con il tempo, se uno è infinitamente divisibile anche
l’altro lo sarà. L’argomento aristotelico è stato così riformulato da Adolf Grünbaum
(che però non cita Aristotele, op. cit. pp. 56ss.). Chiamiamo “fatto” che una certa
entità fisica c minimamente individuata si trovi a un certo istante in un certo luogo.
Se una stessa entità fisica minimamente individuata si trova nel punto spaziale A al
tempo tA e nel punto spaziale B al tempo tB, diciamo che i due fatti FA e FB sono
“genidentitci”. Prendiamo ora le mosse da questo primo principio:
Si tenga conto, però, che nei più recenti tentativi di unificazione di gravità e teorie quantistiche non sempre lo spazio alle
dimensioni di Planck resta denso, ma possiederebbe delle discontinuità. Si tratta però di ipotesi ancora in discussione.
7 Op. cit., pp. 45ss.
8 Giustamente Elena Piatti (studente di filologia classica a Urbino, ha notato che l’argomento aristotelico non avrebbe
convinto Zenone, in quanto presuppone l’esistenza del moto. Nella riformulazione di Grünbaum, che discuteremo fra poco,
questo problema sembra essere superato, perché non si assume l’esistenza del moto.
6
5
i. In tutte le teorie fisiche attuali, presi due qualsiasi fatti genidentici F A e FB, se A è
diverso da B allora tA è diverso da tB9.
Ora viene il punto ontologico fondamentale che rende possibile il trasferimento della
densità dello spazio al tempo.
ii. Se FA e FB sono due fatti genidentici, con A diverso da B, allora esiste un insieme
lineare e denso di fatti genidentici rispetto a FA e FB che ha FA e FB come estremi,
ovvero la traiettoria del corpo c da A a B. Anche questo è vero in tutte le teorie
fisiche contemporanee10.
A questo punto prendiamo una qualsiasi coppia di fatti genidentici FA e FB riguardanti
il corpo c, essi, per i., non saranno simultanei. Ma, per ii., esisterà un insieme denso e
lineare di fatti (tutti genidentici con FA e FB) che ha come estremi FA e FB,
chiamiamolo FAB. Tutti gli elementi di FAB sono genidentici fra loro, dunque per i.,
nessun membro di FAB sarà simultaneo a un altro membro di FAB. Questo significa
che esiste un insieme denso di istanti temporali. Lo stesso Zenone non può negare
l’esistenza di due fatti genidentici a partire dai suoi argomenti contro il moto, poiché
in questo ragionamento non abbiamo mai utilizzato l’esistenza di un moto di c, ma
solo i principi i. e ii. rispettati dalle migliori teorie fisiche attuali.
Resta da spiegare come mai, se il tempo è denso, noi lo percepiamo discontinuo.
Occorre notare, al riguardo, che l’argomento proposto da Grünbaum mostra il
carattere denso del tempo in connessione con il moto. Il tempo psicologico ha però
una struttura assai complessa. Se tuttavia ci limitiamo a esaminare la percezione del
tempo che accompagna la sensazione di un moto continuo, ci accorgiamo subito che
per la percezione di questo particolare aspetto del tempo vale una situazione simile a
quella precedente dello spazio. Cioè in questo caso la percezione non testimonia né
contro né a favore della densità del tempo, poiché la percezione di un moto continuo
tende a nascondere il carattere discontinuo della percezione temporale sovrapponendo
a esso la continuità del moto11.
Qui dovremmo prendere in considerazione la non località quantistica, in accordo con la quale sembrerebbe che una
particella possa stare in due luoghi diversi simultaneamente, anche se in modo probabilistico. In realtà la meccanica
quantistica è una teoria che non può essere interpretata realisticamente, per cui questa non località è più un fatto matematico
che una caratteristica del mondo. Inoltre, più che non località, si tratta di non separabilità, per cui l’oggetto fisico unico si
trova in un unico ampio luogo che comprende A e B. Si veda al riguardo V. Fano, “Non materialità of non località”,
Foundations of Physics, 34, 2004, pp. 2005-2013.
10 Di nuovo occorre prendere in considerazione il caso della meccanica quantistica, che sembra violare tale principio, in
quanto, come è noto, in generale non è possibile ricostruire la traiettoria delle particelle. Tuttavia, come dicevamo nella nota
precedente, la non località è in realtà una non separabilità. Per cui la traiettoria sarà non unidimensionale.
11
Al riguardo vedi V. Fano, “A Meinongian solution of McTaggart’s paradox”, http://philsciarchive.pitt.edu/archive/00003041/. M. Dummett, “Is time a continuum of instants?”, Philosophy, 75, 2000, pp. 497-515, e
“How should we conceive of time?”, Philosophy, 77, 2002, pp. 193-209, propone argomenti significativi contro la densità del
9
6
Ci stiamo dunque avvicinando a una riformulazione contemporanea della soluzione
aristotelica del paradosso della dicotomia. Abbiamo infatti appena dimostrato la
correttezza di II. Ci rimane un ultimo tassello. Siamo sicuri che possiamo sommare la
lunghezza degli intervalli temporali esattamente come sommiamo i numeri? Ovvero,
come si misura la lunghezza di un intervallo temporale e tali lunghezze sono
additive?
In effetti se il tempo fisico è rappresentabile come un insieme lineare12 e denso di
istanti, lo possiamo mettere in corrispondenza biunivoca con i numeri razionali. Tale
corrispondenza la possiamo costruire in modo che se un istante è prima di un altro,
allora il numero corrispondente è minore e se è dopo allora è maggiore. Dopo di che
possiamo facilmente definire la “distanza temporale” o “lunghezza di un intervallo
temporale” fra due istanti come la differenza fra i due corrispondenti numeri
razionali. In questo modo otteniamo una misura delle distanze temporali. Ci
chiediamo ora se tali distanze sono additive, cioè se esiste una operazione fisica,
chiamiamola “□” tale che presi due qualsiasi intervalli temporali Ta e Tb, se vale
Ta□Tb=Tc allora la lunghezza di Tc è uguale alla somma della lunghezza di Ta e di
quella di Tb. E’ chiaro che gli intervalli temporali non si possono spostare facilmente
come quelli spaziali, però possiamo immaginare di formare l’intervallo T c somma a
partire dagli intervalli Ta e Tb facendo iniziare Tb esattamente quando finisce Ta.
Dunque l’operazione “□” esiste, per cui la misura delle lunghezze temporali è
additiva.
Ne segue che possiamo applicare il semplice calcolo (1)-(4) per mostrare che la
somma degli intervalli temporali non eccede mai l’unità. Di modo che il paradosso
della dicotomia di Zenone, già risolto da Aristotele, anche rispetto alla fisica e alla
matematica contemporanea risulta superato. Ricordiamoci però, che nella nostra
analisi ci siamo spesso avvalsi di istanze fondate empiricamente, cioè la nostra
argomentazione non è stata meramente concettuale, per cui il futuro della ricerca
empirica potrà modificare queste conclusioni.
ACHILLE E LA TARTARUGA
tempo. Per contro, A.A. Fingelkurts e A.A. Fingelkurts, “Time in cognition and EEG dynamics: Discreteness versus
continuity”, Cognitive Processing, 2007, 7, pp. 135-162, discutono la questione anche da un punto di vista neurologico,
cercando di trovare una mediazione. Infine R. Patterson, “Perceptual moment models”, in Cognitive model of psychological time, a
cura di R.A. Block, Erlbaum, 1990, pp. 86-101, nota che il carattere discreto dell’esperienza temporale meglio si attaglia a
un’interpretazione in termini computazionali della percezione.
12 “lineare” significa che presi due qualsiasi istanti t e t esiste una relazione R tale che o t Rt o t Rt ; se t Rt allora non
A
B
A B
B A
A B
tBRtA e viceversa se tBRtA non tARtB; se tARtB e tBRtC, allora tARtC. Cioè R è totale, antisimmetrica e transitiva. Per gli istanti del
tempo fisico (se non prendiamo in considerazione le curve di tipo tempo chiuse della relatività generale) R esiste, cioè
“prima di” o “dopo di”.
7
Risolto il paradosso della dicotomia diventa relativamente facile affrontare il più
famoso degli argomenti di Zenone, cioè quello della corsa fra Achille e la tartaruga.
Lo scrittore sudamericano Augusto Monterroso racconta che Achille arrivò al
traguardo un decimiliardesimo di secondo dopo la tartaruga bestemmiando contro un
certo Zenone! L’argomento può essere così formulato:
1. Lo spazio è un insieme denso di punti.
2. Achille parte con una velocità costante V dal punto A e si muove in linea retta
verso il punto B, che è situato a una distanza d da A, dal quale parte la tartaruga con
una velocità costante v minore di V, muovendosi anch’essa in linea retta.
3. Dopo un tempo t1=d/V Achille arriva nel punto B. Ma nello stesso tempo la
tartaruga è arrivata nel punto C la cui distanza da B è d 1=t1v=dv/V. Dopo un ulteriore
tempo t2=dv/V2 Achille è arrivato nel punto C, ma la tartaruga sarà nel punto D la cui
distanza da C è dv2/V2. In pratica il distacco fra Achille e la tartaruga diminuisce
progressivamente seguendo la seguente successione13:
d,d
v
v2
v n1
, d 2 ,....d n1 ,..... (5)
V V
V
4. Dunque per raggiungere la tartaruga Achille deve attraversare un insieme infinito
di tratti spaziali.
5. Ma per attraversare un insieme infinito di tratti spaziali occorre un tempo infinito,
quindi Achille non raggiungerà mai la tartaruga.
La soluzione del paradosso è molto simile alla precedente14. Bisogna prima di tutto
argomentare a favore della densità del tempo. Occorre quindi introdurre una metrica
per il tempo. Bisogna poi mostrare che gli intervalli di tempo sono sommabili come i
numeri che corrispondono alle loro lunghezze. Infine è necessario mostrare che la
somma degli intervalli temporali:
t1  t2  ...  tn  ...
(6)
non supera mai un certo limite finito. Le prima tre fasi della soluzione sono uguali a
quelle già proposte per la dicotomia, mentre per la quarta si procede con un metodo
simile, che ora presenteremo.
Per capire questi semplici calcoli basta ricordare che la velocità media di un corpo è uguale allo spazio percorso diviso il
tempo trascorso, per cui lo spazio percorso a una certa velocità costante è uguale al tempo trascorso per la velocità.
14 Si veda Grünbaum, op. cit., pp. 105-109. Anche Aristotele ne è consapevole, quando afferma “Questo ragionamento
[l’Achille] è appunto quello della dicotomia […]”, Phys. 239b 17.
13
8
Sostituendo i valori dei tempi abbiamo:
d dv dv 2
dv n1


...  n  ...
V V2 V3
V
(7)
Definiamo le somme parziali finite:
Tn 
d dv dv 2
dv n1
 2  3  ...  n
V V
V
V
(8)
Usando la stessa procedura utilizzata per la dicotomia avremo che:
Tn
v dv dv 2 dv3
dv n1 dv n
 2  3  4  ......  n  n1
V V
V
V
V
V
(9)
Sottraendo la (9) dalla (8) otteniamo:
v d dv n
Tn  Tn   n1
V V V
(10)
Facendo un po’ di conti dalla (10) si ottiene:
Tn 
d
vn
(1  n )
V v
V
Da cui si vede facilmente che Tn non diventerà mai maggiore di d/V-v. E in effetti
d/V-v è esattamente il tempo che Achille ci impiega per raggiungere la tartaruga.
Questo significa che il ragionamento di Zenone dimostra solamente che Achille non
raggiungerà mai la tartaruga nell’intervallo temporale d/V-v il che è assolutamente
ovvio15.
LO STADIO
La fonte principale per questo argomento è la Fisica di Aristotele che recita così:
Che Aristotele fosse consapevole della logica sottostante alla soluzione del paradosso di Achille, anche se forse non di
tutti i dettagli matematici, è desumibile dalla sua conclusione dell’analisi dell’argomento di Achille: “Ma in realtà è falso
ritenere che ciò che precede non venga raggiunto: infatti, solo fin quando precede, non viene raggiunto.” Phys., 239b 26 (ovviamente
il corsivo è nostro).
15
9
Stian ferme le masse uguali AA; invece le masse BB, uguali alle prime per numero e
per grandezza, comincino a muoversi dalla metà; e, ancora, le masse ΓΓ, uguali alle
precedenti per numero e per grandezza, comincino a muoversi dalle estremità, e si
muovano con la stessa velocità di B. (Phys. 240a 4-9)
Direi che le tre masse in questione possono essere rappresentate come tre regoli di
lunghezza uguale e divisi in due parti contigue16. Però, contrariamente a quanto si
suppone, appare che i tre regoli alla partenza sono così disposti:
AA
BB
ΓΓ
Sembra, infatti, che BB parta perfettamente allineato con AA, così come Aristotele
dice anche in Phys. 239b 35, dove le masse si muovono da in mezzo allo stadio
(indicato con la linea verticale tratteggiata). Per contro le ΓΓ si muovono dalle
estremità, nel senso che vengono collocate o alla estrema sinistra o all’estrema destra
di AA. Infatti in questa versione il regolo AA fa le funzioni che nella prima
esemplificazione di Aristotele faceva lo stadio, cioè il sistema fermo. Inoltre
sappiamo da 239b 34 che le velocità sono in senso opposto, come segnato nella figura
con le frecce.
Aristotele prosegue:
Accade che il primo B e il primo Γ sono simultaneamente alle estremità, muovendosi
l’uno accanto all’altro. (Phys. 240a 10)
Questa frase sembra che voglia dire che avviene il seguente movimento:
Come fa K. Davey, “Aristotle, Zeno and the stadium paradox”, History of Philosophy Quarterly, 24, 2007, pp. 127-148,
articolo al quale faremo riferimento e che è una svolta negli studi sull’argomento.
16
10
AA
BB
ΓΓ
Ovvero la testa di BB e la testa di ΓΓ, indicate con la punta della freccia, che erano
allineate all’inizio, adesso sono allineate con l’altra estremità di ΓΓ e di BB
rispettivamente.
Aristotele continua:
Accade pure che Γ abbia compiuto il percorso lungo tutti i [B] nella loro interezza,
mentre B avrà compiuto il percorso lungo la metà degli [A]. (Phys. 240a 11-12)17
Con il Γ che compare nella citazione Aristotele intende probabilmente la testa di ΓΓ e
con il B non espunto, invece, intende BB. Allora in effetti nel moto la testa di Γ ha
percorso l’intero BB fino alla coda. Con il B espunto, invece, Aristotele si riferisce al
centro di BB, che ha effettivamente costeggiato la metà di AA.
Potrebbe anche essere che Aristotele pensi a una situazione di partenza di questo tipo:
AA
X
BB
Y
ΓΓ
E di arrivo così sistemata:
Il B fra parentesi quadre compare nella tradizione del testo pur essendo stato espunto, mentre l’A è un’aggiunta molto
ragionevole di Russo.
17
11
AA
BB
X
Y
ΓΓ
Ma allora non si comprende bene che cosa significhi che BB parte dalla metà e ΓΓ
dalle estremità, dato che i due corpi sarebbero perfettamente simmetrici rispetto ad
AA18. Comunque la questione non è molto importante ai fini dell’argomento.
A questo punto viene il passaggio di difficile interpretazione:
Sicché anche il tempo è dimezzato, perché ciascuna [sua] parte è uguale in relazione
a ciascuna [massa]. (Phys. 240a 13)19
Molti interpretano questo passo come la conclusione che il moto di BB rispetto ad
AA è la metà che rispetto a ΓΓ. Da cui deriverebbe un’impossibilità del moto, in
quanto indeterminato. Sembra confermare questa lettura la soluzione proposta da
Aristotele:
Il paralogismo sta nel supporre che una uguale grandezza venga spostata con uguale
velocità in un tempo uguale sia lungo ciò che è mosso sia lungo ciò che è in quiete.
(Phys. 240a 1-4)
Se così fosse, però, Zenone avrebbe commesso una fallacia indegna della sua
acutezza. Inoltre Aristotele non confronta BB con AA e con ΓΓ, ma ΓΓ con BB BB
con AA. Solo dopo dirà che BB percorre tutto ΓΓ; adesso ha detto esclusivamente
che ΓΓ ha percorso tutto BB. Certo è un’ovvia conseguenza, ma lo stagirita ha
esplicitato la reciproca.
Per contro, altri20 hanno interpretato l’argomento come una dimostrazione
dell’impossibilità del moto in una concezione atomista del tempo e dello spazio.
Vediamo come funziona.
Così la intende Davey, op. cit.
La traduzione letterale sarebbe “Infatti ciascuno dei due è uguale accanto a ciascuna.” Il primo “ciascuno si riferisce a due,
e quindi non possono che essere le due masse B e Γ; il secondo sembra riferirsi a ciascuna parte di tempo, come interpretato
da Russo.
20 G. Owen, “Zeno and the mathematicians”, Proceedings of the Aristotelian Society, 58, 1957, pp. 199-222.
18
19
12
Le masse devono essere almeno tre e ognuna collocata in una celletta spaziale
indivisibile. La situazione di partenza potrebbe essere questa:
A1 A2 A3 A4
B1 B2 B3 B4
Γ1
Γ2
Γ3
Γ4
Il tempo è diviso in istanti. Dopo un istante di moto ogni massa si sposterebbe di una
casella, di modo che si raggiungerebbe la seguente disposizione:
A1 A2 A3 A4
B1 B2 B3 B4
Γ1
Γ2
Γ3
Γ4
Da cui risulta che la massa B4 è prima allineata con A2 e poi con A3, il che è del tutto
regolare. Tuttavia la massa Γ1, ad esempio, all’inizio non è allineata con nessun B,
mentre dopo un istante sarebbe allineata direttamente con B3, avendo saltato B4.
Questo salto sarebbe paradossale rispetto al fatto che le masse Γ e B scorrono una a
fianco dell’altra.
Di tale interpretazione non vi è traccia nel testo aristotelico, per cui, per renderla
coerente con le fonti, bisognerebbe ipotizzare o che Aristotele non avesse capito
l’argomento di Zenone, oppure che non avesse una fonte affidabile riguardo a questo
paradosso. Entrambe le ipotesi sono fortemente congetturali.
Vale la pena riflettere brevemente sulla soluzione del paradosso appena presentato 21.
Alcuni sostengono che l’errore nell’argomento pseudo-zenoniano starebbe nel fatto
che solo in un tempo denso ci dovrebbe essere necessariamente un istante in cui Γ1 e
B4 sono allineati. In un tempo discreto, invece, possono esserci dei salti del genere
nel moto. In realtà questa analisi non è convincente, perché in una configurazione del
moto diversa può accadere che Γ1 e B4 siano allineati. Di fatto l’evento Γ1 e B4
allineati non si verifica perché la velocità relativa di B e Γ è di due celle spaziali per
ogni istante. Per cui anche in questo caso si giunge infine al solito problema della
velocità.
21
Seguendo le osservazioni di Grünbaum, op. cit. pp. 117ss.
13
Seguendo una linea simile a quella di Davey (op. cit.), proporrei questa
riformulazione del paradosso dello stadio, che ha molteplici vantaggi:
1. Il tempo, lo spazio e la materia sono divisibili in parti piccole a piacere22.
2. Data una qualsiasi lunghezza piccola a piacere d il numero di parti lunghe d
contenute in un regolo è uguale alla sua lunghezza diviso d.
3. Il numero di parti uguali di tempo T del moto di un regolo può essere misurato
mediante il numero di parti uguali di materia del regolo che transitano in un luogo
dato durante quel moto.
INIZIO
MOTO
FINE
MOTO
Nell’esempio della figura un regolo composto da 7 parti di lunghezza d transita per
un luogo dato – il trattino – si vede allora che il moto è durato 7 parti di tempo uguali
a T.
4. Consideriamo l’ultima sistemazione che abbiamo presentato. Dividiamo AA, BB e
ΓΓ in N parti uguali di lunghezza d.
AA
X
BB
Y
ΓΓ
Chiamiamo X la parte più a destra di BB e Y la parte più sinistra di ΓΓ. Dunque, per
ipotesi X è lunga come Y. Allora vale: ogni parte lunga d nella metà destra di AA
transita per X durante il moto.
5. Dunque, per 3., il numero di parti di tempo T di moto è uguale al numero di d
contenuti nella metà destra di AA, cioè, per 2., N/2.
Sappiamo che una riformulazione rigorosa di questa affermazione richiederebbe il concetto di insieme denso. Tuttavia in
questa parte del lavoro non ci stiamo occupando solo della soluzione del paradosso, ma anche della sua storicità, per cui è
meglio utilizzare delle nozioni più vicine alla concettualizzazione di quel tempo.
22
14
6. In analogia con 4. vale: ogni parte lunga d di BB transita per Y durante il moto.
7. Dunque, per 3., il numero di parti di tempo T del moto è uguale al numero di parti
di BB lunghe d, cioè, per 2., N.
8. Dunque il numero di parti di tempo T che dura il moto è sia N che N/2. E questo
vale per qualsiasi N.
Si spiega così l’affermazione di Aristotele secondo cui: “E con questo ragionamento
egli crede nel risultato che la metà del tempo sia uguale al doppio.” (Phys. 239b 36)
Un modo un po’ impreciso per dire che la metà è uguale all’intero 23. Così diventa
anche più chiara l’affermazione in 240a 13, secondo cui il tempo è dimezzato perché
sussiste una corrispondenza fra le parti del tempo e quelle delle masse. Inoltre si
capisce perché Aristotele fa scorrere la testa di Γ su tutti i B e la testa di B su metà
degli A.
Se questa interpretazione è corretta, allora la soluzione aristotelica presentata in 240a
1-4 non è una semplice critica a Zenone che si sarebbe dimenticato della relatività del
moto, ma una messa in discussione del punto 3. del precedente ragionamento. Cioè
non è vero che si può misurare il tempo mediante lo spazio percorso, perché la misura
dipende anche dalla velocità del moto.
In questo modo l’argomento di Zenone è tutt’altro che banale, le poche righe di
Aristotele diventano ancora più chiare e non bisogna ipotizzare che la presentazione
di Aristotele sia per qualche ragione falsa. Dunque questa di Davey sembra la lettura
migliore del ragionamento dello stadio. Passiamo ora brevemente alla soluzione del
paradosso.
Secondo Davey (op. cit., p. 141), per risolvere del tutto il problema, bisogna
utilizzare la matematica dell’infinito. Infatti, se la materia è infinitamente divisibile,
occorre dire che essa è composta da un’infinità densa di punti materiali e il tempo
sarà composto da un’infinità densa di istanti. Ma, se è così, per superare il paradosso,
basta dividere il regolo e quindi il tempo in infiniti punti, in modo che la conclusione
8. non sarà più paradossale, dato che se N è infinito N=2N.
Direi che questo non è necessario. Basta l’osservazione di Aristotele secondo cui non
si possono contare le parti del tempo utilizzando il principio 3., perché bisogna tenere
conto della velocità del moto.
Angelo sostiene che così gli antichi dicono, anche se a noi sembra che se la metà è uguale al doppio, risulterebbe che è un
quarto.
23
15
IL PARADOSSO DELL’ESTENSIONE
Torniamo a una considerazione meramente analitica dei paradossi di Zenone e
prendiamo in considerazione l’argomento sulla divisibilità infinita dello spazio (De
generatione et corruptione 316a 19). L’argomento può essere così riformulato:
1. Lo spazio è infinitamente divisibile.
2. Consideriamo un segmento di lunghezza data L. Il risultato finale di questa infinita
divisione o avrà estensione nulla oppure una quantità finita.
3. Non può essere una quantità finita, perché altrimenti sarebbe ancora divisibile.
4. Dunque ha estensione nulla.
5. Ma sommando anche infinite volte “0” si ottiene sempre “0”, quindi il segmento
avrà lunghezza “0”, contro l’ipotesi che fosse lungo L.
Il paradosso così formulato ha una fallacia abbastanza lampante, che comunque è
stata commessa anche da autori del calibro di Bernoulli e Peirce (Grünbaum, p. 13031). E’ chiaro che non esiste “il risultato finale di una divisione infinita”, altrimenti
non sarebbe infinita. In effetti la soluzione aristotelica del paradosso è proprio che la
divisibilità infinita di un segmento è solo in potenza.
Si può però riformulare il paradosso provando a proporre una definizione più precisa
della nozione di infinita divisibilità24. Per fare questo non possiamo non considerare il
segmento come composto da infiniti punti. Allora possiamo dire che un insieme di
punti è infinitamente divisibile quando è possibile trovare in esso un’infinità di
sottoinsiemi propri a intersezione nulla. Allora, se prendiamo le mosse dal
presupposto che un segmento è composto da un insieme infinito di punti (o meglio di
sottoinsiemi contenenti un solo punto), possiamo dire che il segmento è infinitamente
divisibile e che in un certo senso il risultato finale di tale infinita divisione sarebbero
questi punti. Possiamo allora procedere in questo modo:
1. Un segmento di lunghezza L è composto da infiniti punti.
2. Ogni punto del segmento ha lunghezza nulla25.
3. Sommando un’infinità di “0” si ottiene sempre “0”.
4. Quindi il segmento avrebbe lunghezza “0” contro l’ipotesi.
Prima di procedere dobbiamo esaminare con una certa cura il punto 2. Dobbiamo
cioè chiederci come si determina la lunghezza di un segmento. La procedura
Si tenga presente che dal punto di vista percettivo ogni segmento non è infinitamente divisibile, perché vi è una soglia
della percezione.
25 Se avesse lunghezza finita, allora risulterebbe che il segmento L è infinitamente lungo.
24
16
l’abbiamo già vista in precedenza a grandi linee. Dobbiamo costruire una
corrispondenza biunivoca fra i numeri reali e i punti della retta su cui giace il
segmento e fra l’ordine “<” o “>” fra numeri e l’ordine dei punti sulla retta. Dopo di
che stabiliamo che la lunghezza del segmento è data dalla differenza fra i numeri
associati ai suoi due estremi, cioè se a un estremo del segmento corrisponde il
numero a e all’altro il numero b e b>a allora la lunghezza sarà data dal numero b-a.
Da questa definizione deriva che la lunghezza di un punto è “0”, dato che in esso a
coincide con b. Un punto è una specie di segmento degenerato.
Detto questo, dobbiamo esaminare ora il punto 3. E’ abbastanza facile sommare le
lunghezze di un insieme infinito di segmenti associando, come abbiamo già visto, alla
somma di due o più lunghezze la somma dei corrispettivi numeri determinati con il
metodo appena delineato. Per esaminare meglio, il nostro caso, dobbiamo però
chiederci che cosa significhi sommare un insieme infinito di segmenti. E’ possibile
definire una somma infinita di numeri quando abbiamo a che fare con l’infinto
numerabile. Ma, come ha dimostrato Cantor, non esiste solo l’infinito numerabile, ma
anche quello non numerabile.
Fin dai tempi di Galileo26 e ancora nell’opera di Leibniz e Bolzano, l’infinito attuale
veniva considerato un’entità paradossale. Già Aristotele aveva distinto fra l’infinito in
potenza, che di fatto è una sorta di ecceterazione o di indefinitezza, cioè, ad esempio,
che dato un numero naturale grande a piacere è sempre possibile trovarne uno più
grande, e l’infinito in atto che consisterebbe in una effettiva infinità di elementi. E’
quest’ultimo la fonte dei paradossi, non il primo che ha sempre avuto diritto di
cittadinanza in matematica e filosofia. In particolare, l’infinito attuale ha la
spiacevole caratteristica di violare uno degli assiomi fondamentali del pensiero
matematico fin dai tempi di Euclide (Libro I, Nozioni comuni, 8), cioè che il tutto è
maggiore della parte. Vediamo come. Si dice che due insiemi sono equinumerosi se è
possibile costruire una corrispondenza biunivoca fra loro. Ad esempio {Gigi, Marina,
Filippo} e {1,2,3} sono equinumerosi. Il numero di elementi che compongono un
insieme viene chiamato la sua cardinalità.
Ora consideriamo i seguenti tre insiemi: i numeri naturali N, i numeri naturali N
senza i primi 1000 elementi e i numeri naturali pari. Fra essi è possibile costruire una
corrispondenza biunivoca nella maniera seguente:
N
1
2
3
4
5
6
7
.
N:n>1000 1.001 1.002 1.003 1.004 1.005 1.006 1.007 .
N: n pari 2
4
6
8
10
12
14
.
26
.
.
.
G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni su due nuove scienze, Giornata prima.
17
Questo significa che i tre insiemi sono equinumerosi, cioè hanno la stessa cardinalità.
Ma ciò è paradossale, perché i numeri pari e i numeri naturali maggiori di 1000 sono
sottoinsiemi propri di N. Cioè sembra che il tutto e la parte siano uguali!
Sarà Georg Cantor a far diventare una risorsa quello che sembrava un paradosso. Egli
infatti definirà un insieme infinito proprio quando ha la proprietà di poter essere
messo in corrispondenza biunivoca con un suo sottoinsieme proprio.
Si dice che un insieme A è numerabile se e solo se può essere posto in
corrispondenza biunivoca con i numeri naturali N (cardinalità ‫ אּ‬0). A questo punto ci
poniamo la domanda: tutti gli insiemi infiniti hanno la stessa cardinalità?
Consideriamo l’insieme G costituito da tutte le successioni infinite di 0 e 1.
Teorema della diagonale di Cantor: G è più che numerabile.
Dimostrazione: Procediamo per assurdo27, ipotizzando che esista un elenco dei
membri di G del tipo:
s0, s1, s2, s3........
Indichiamo con sij il j-esimo elemento della successione si. Consideriamo allora la
seguente tabella infinita, che elenca tutte le successioni e i loro membri:
s0
s1
s2
s3
...
s00
s10
s20
s30
...
s01
s11
s21
s31
...
s02
s12
s22
s32
...
s03
s13
s23
s33
...
...
...
...
...
...
Consideriamo la successione formata con gli elementi della diagonale principale:
s00, s11, s22, s33.......
Definiamo ora una successione d=d1, d2, d3, d4.......in modo che se sii=0, allora di=1 e
se sii=1 allora di=0. E’ chiaro che la successione d non compare nella tabella, perché è
diversa da s0 nell’elemento s00, è diversa da s1 nell’elemento s11 ecc. Il che è contro
l’ipotesi. Quindi non esiste una corrispondenza biunivoca fra G e i numeri naturali.
Da questo straordinario ragionamento nasce quasi tutta la riflessione di cui qui
discutiamo.
Nelle dimostrazioni per assurdo si procede nella maniera seguente: poniamo che si voglia dimostrare A, allora si ipotizza
che valga non A, dal che si deduce una contraddizione, allora, se vale il terzo escluso, si può dedurre A. Non tutti i
matematici accettano questo tipo di dimostrazioni.
27
18
Cantor dimostrò una prima volta questo teorema mediante altri metodi più complessi;
tuttavia nel 1894, quando ormai era attanagliato da una grave crisi depressiva
pubblicò questo metodo semplice ed elegante per dimostrare la più che numerabilità
dei numeri reali.
La cardinalità di un insieme è sostanzialmente il numero dei suoi elementi. Il teorema
precedente ha mostrato che esistono diverse cardinalità infinite, cioè quella
numerabile dei numeri naturali e quella più che numerabile delle successioni infinite
di 0 e 1. Si può dimostrare che la cardinalità di G è uguale a quella dei numeri reali,
che, a sua volta, è uguale a quella dei punti di un segmento28. Per cui tale cardinalità
viene chiamata del continuo (C)29. In realtà non esistono solo due cardinalità infinite
(transfinite), ma se ne possono costruire quante se ne vuole.
Una somma infinita nel senso numerabile di zeri dà senz’altro “0”, ma, dobbiamo
chiederci, vale lo stesso per una somma infinita più che numerabile di punti?
Notiamo innanzitutto che il segmento non contiene una quantità numerabile di punti,
perché, come era già noto agli antichi, ci sono segmenti lunghi 2 , che certo non è
un numero razionale. Vale la pena presentare brevemente la dimostrazione, già nota
ad Aristotele (An. Pr.¸41° 27), come spiegato dal suo commentatore Alessandro di
Afrodisia, (An 260, 9-261, 28). Consideriamo un quadrato di lato L:
Chiamiamo la sua diagonale D. Ipotizziamo per assurdo che la lunghezza della
diagonale sia commensurabile rispetto al lato, cioè che esistano due numeri fra loro
primi n e p tali che D:L=n:p. Si può dimostrare che se n e p sono primi fra loro, anche
n2 e p2 sono primi fra loro. Ma, per il teorema di Pitagora, n2=2p2. Quindi n2 deve
Il teorema della diagonale si può utilizzare anche per dimostrare la non numerabilità, ad esempio, di tutti i numeri
compresi fra 0 e1; abbiamo però scelto le serie infinite di 0 e 1, perché così risalta meglio l’analogia con il teorema della
fermata di Turing.
29 Resta ancora aperto il problema della cosiddetta “ipotesi del continuo”, cioè l’ipotesi che fra ‫ אּ‬e C non ci siano altri
0
numeri transfiniti. Cohen ha dimostrato che con i metodi matematici attuali la questione è indecidibile.
28
19
essere un numero pari. Il quadrato di un numero dispari è sempre dispari, per cui
anche n sarà pari. Poniamolo quindi uguale a 2s. Dunque 2p2=(2s)2. Da cui p2=2s2.
Dunque anche p2 è pari. Ma per ipotesi p2 e n2 sono primi fra loro, perciò n2 deve
essere dispari e avevamo appena dimostrato che doveva essere pari. Quindi n e p non
esistono. Ovvero la diagonale di un quadrato non è commensurabile al suo lato.
Questo significa che in un segmento ci sono punti che non corrispondono a un
numero razionale; dunque, se vogliamo conoscere la lunghezza del segmento,
dobbiamo sommare un numero infinito più che numerabile di punti. Questo è
aritmeticamente impossibile. Lo si vede bene dalla seguente figura:
O
Dove risulta che non esiste una retta che passi per il segmento più lungo ma non per
quello più corto e abbia l’origine nel punto O. Questo vuol dire che abbiamo costruito
una corrispondenza biunivoca fra i punti dei due segmenti. Ovvero che segmenti di
lunghezza diversa sono equinumerosi. Per cui la lunghezza di un segmento non
dipende dal numero dei suoi elementi. Arriviamo quindi alla conclusione che il
passaggio 3. del precedente argomento non è valido e così abbiamo eliminato il
paradosso.
Teniamo anche presente, che per fare della fisica matematizzata, che si basa sulla
rappresentazione di un segmento mediante infiniti punti, dobbiamo assumere che lo
spazio, e qualsiasi altra grandezza fisica, sia divisibile in un insieme più che
numerabile di punti, proprio per evitare il paradosso di Zenone. Per cui, benché i
risultati della misurazione siano sempre dei numeri razionali, per questa ragione la
fisica deve presupporre l’esistenza del continuo.
20
IL PARADOSSO DELLA FRECCIA
Platone racconta che Zenone di Elea fosse amante di Parmenide, oltre che suo allievo.
Di certo egli introdusse i suoi celebri paradossi per portare all’assurdo le opinioni
diverse da quelle del suo maestro, il quale sosteneva la completa illusorietà della
pluralità degli enti e del divenire30.
Fra i più noti è senz’altro il paradosso della freccia, secondo il quale una freccia che
vola, in ogni istante occupa un singolo luogo; ma se qualcosa occupa un singolo
luogo, allora è immobile, dunque la freccia che vola è immobile31.
Per discutere meglio la questione, possiamo riformulare l’argomento di Zenone
seguendo in parte lo schema proposto recentemente da Sheldon Smith32:
1. Ogni intervallo di tempo è divisibile in un numero infinito più che numerabile di
istanti indivisibili.
2. Una freccia in movimento in ogni istante occupa una porzione definita di spazio.
3. Se un oggetto occupa una porzione definita di spazio, allora è immobile.
4. Se la freccia in ogni istante è immobile, allora è immobile in tutto il percorso.
5. Dunque la freccia in movimento è immobile.
Al fine di evitare la conclusione contraddittoria in 5, si possono negare una o più
delle quattro premesse del ragionamento.
La premessa 1 è implicita in tutta la tradizione moderna della fisica matematizzata,
che discute liberamente di stati di un sistema fisico in un determinato istante. Non è
impossibile costruire una fisica senza questa premessa, come ha mostrato il grande
Caratheodory33, ma non ci occuperemo in questa sede di tale prospettiva34 che di
certo di primo acchito è piuttosto contro-intuitiva.
Anche la premessa 2 può essere messa in discussione: in effetti qualcosa del genere
accade nei tentativi di risolvere il paradosso basati sulla concezione degli infinitesimi
di Lawvere, in cui però non vale il principio del terzo escluso. Anche su ciò non
parleremo35.
Anche la premessa 4 può essere negata, poiché, in accordo con quella che a volte
viene chiamata la teoria at-at, che risale almeno a Occam e viene ripresa da Russell,
il movimento non è tanto qualcosa che accade nell’istante, quanto l’essere in luoghi
diversi in istanti diversi del tempo, per cui, anche se in ogni istante la freccia è
30
Huggett, 2004.
31
Si veda Aristotele, Fisica. 239b 30).
Smith, 2003.
33 Caratheodory, 1963.
34 Al riguardo si veda Arntzenius, 2000.
35 Al riguardo vedi però Smith, 2003.
32
21
immobile, essa globalmente può essersi mossa. Come ha notato Arntzenius 36, questa
teoria è molto contro-intuitiva, in quanto impedisce qualsiasi nozione di causalità.
Infatti, se in un certo istante la freccia è immobile, non si comprende per quale
ragione in un istante successivo dovrebbe trovarsi da un’altra parte e perché proprio
in quel luogo in cui la troviamo effettivamente.
Fra tutte, la strada più praticabile sembra essere quella di negare 3, tanto più che la
meccanica newtoniana consente di definire la velocità istantanea, ovvero la derivata
rispetto al tempo della funzione che descrive il moto della freccia calcolata in un
punto. Se, infatti, la freccia, in accordo con la sua descrizione meccanica, in ogni
istante, pur occupando una precisa regione dello spazio, ha una velocità determinata,
allora essa si sta muovendo, contro la 3.
Il concetto di velocità istantanea non è, tuttavia, così scevro da problemi come
sembrerebbe. Cerchiamo, dunque, di discutere criticamente tale nozione nel contesto
della fisica classica.
Velocità istantanea e calcolo infinitesimale
Proviamo a considerare un'equazione meccanica molto semplice, che descrive un
fenomeno elementare, cioè la formula galileiana della caduta dei gravi:
(1)
s
gt 2
,
2
dove s è lo spazio percorso, g la costante di gravità e t il tempo trascorso.
La (1) è soluzione dell'equazione:
d 2s
 g,
dt
che integrata da ambo le parti rispetto al tempo dà:
ds
 gt
dt
trascurando una costante di integrazione.
Ora, in questa ultima equazione la parte sinistra esprime la velocità del grave in
caduta libera. Questo concetto di velocità è una delle grandi novità teoriche della
36
Rimandiamo ad Arntzenius 2000 anche per i riferimenti storici. Grünbaum, 1967, p. 39 concorda con Russell.
22
meccanica classica, dato che esso è inconcepibile all'interno della fisica aristotelica.
In quel sistema concettuale, infatti, non ha senso parlare di velocità istantanea, dato
che la velocità è la quantificazione del movimento e il movimento è strettamente
legato al tempo. Non c'è dunque movimento senza che sia trascorso del tempo e
quindi non è possibile considerare la velocità in un istante.37 Nella fisica aristotelica,
perciò, avrebbe senso parlare solo di quella che noi chiamiamo velocità media,
mentre nella fisica newtoniana si può definire la velocità in ogni istante.
Generalmente si afferma che l'impossibilità di concepire la velocità istantanea è uno
dei grandi difetti della fisica antica, ovvero è una delle ragioni che ha contribuito
all'affermarsi della fisica newtoniana a discapito di quella aristotelica. E' senz'altro
vero che la possibilità di calcolare la quantità di movimento in ogni istante è uno dei
maggiori meriti della fisica classica, bisogna, tuttavia, considerare con attenzione
come il formalismo della meccanica consenta di realizzare questo calcolo.
Osserviamo innanzitutto che, dal punto di vista sperimentale, noi misuriamo sempre
una velocità media, magari calcolata sulla base di una distanza brevissima, ma non
certo infinitesima; per tale ragione dobbiamo dire che la velocità istantanea è
comunque un termine teorico, cioè non si riferisce a un’entità osservabile. La nostra
percezione del movimento, infatti, come ben aveva intuito Aristotele, è legata
necessariamente a un certo lasso di tempo. D'altra parte, è abbastanza naturale
ipotizzare che un corpo, il quale si muove lungo un certo percorso, in ogni istante del
suo tragitto sia in movimento. Si può quindi pensare di elaborare teoricamente il
concetto di particella di movimento che corrisponda effettivamente allo stato di moto
del corpo in un certo istante.
Consideriamo allora la velocità media lungo un certo percorso s1 s2 calcolata nel
modo seguente:
vm 
s2  s1
.
t2  t1
Si può allora provare a diminuire infinitamente il denominatore, calcolando così
quello che è il limite della velocità media, ovvero la velocità istantanea:
(2)
vi  lim t  0
s
.
t
37Aristotele,
Fisica, 234a 24ss. Aristotele conclude dicendo che "necessariamente, dunque, solo nel tempo il mosso si muove
e il quieto riposa".
23
Questa maniera di ragionare va incontro a una critica assai semplice, messa in luce da
Geoge Berkeley nel suo The Analyst.38 Il rapporto incrementale espresso dalla (2) si
avvale dell'idea che trascorra un tempo infinitesimo. Ora, è questo concetto di
infinitesimo che incorre in una contraddizione. Se, infatti, vogliamo calcolare un
rapporto incrementale, dobbiamo condurre il nostro conto ammettendo che
l'infinitesimo, pur piccolo, sia diverso da zero, poiché, se fosse zero, la (2) perderebbe
il suo senso matematico. D'altronde alla fine questo infinitesimo, se veramente
vogliamo calcolare la velocità istantanea, deve essere uguale a zero. Per cui il calcolo
infinitesimale è avviluppato in una semplice contraddizione, in quanto si avvale di
una grandezza - l'infinitesimo - che è sia uguale a zero sia diversa da zero39.
Questa semplice osservazione, che ispira le sottili analisi di Berkeley, rimane una
spina nel fianco dell'analisi infinitesimale fino a quando la nozione di limite guadagna
una definizione chiara ed esente da contraddizioni con Cauchy. In questa diversa
prospettiva, il senso della (2) assume un esplicito connotato relazionale. Il limite per
t che tende a 0 di s/t è quel numero l tale che:
(3)
  0  0: 0  t   
s
l  .
t
Una definizione il cui senso è che l è il limite del rapporto incrementale per t che
tende a 0 quando, preso un numero piccolo quanto si vuole , si riesce sempre a
trovare un valore di t tale che, per qualsiasi incremento  più piccolo di t, la
differenza fra il rapporto incrementale e l sia più piccola del numero piccolo che
abbiamo scelto.
In questo modo il concetto di infinitesimo viene sostanzialmente bandito dall'analisi e
sostituito da quello di limite inteso come una relazione.
Una definizione di velocità istantanea che si avvale di questo concetto non incappa
più nella critica formulata da Berkeley. D'altra parte, qualcosa che le prime
formulazioni del calcolo infinitesimale avevano cercato di esprimere mediante il
formalismo matematico è andato perso, in quanto non si può più dire che la velocità
istantanea così definita sia ancora veramente istantanea.40
Berkeley, 2004. Si veda a tal proposito la nitida esposizione di Neri, 1991, pp. 184ss.
Alcuni, come Bodei, 1975, sostengono addirittura che questa contraddittorietà, messa in luce da Carnot, 1797, sia alla
radice della dialettica hegeliana.
40Si veda ancora Neri, 1991, pp. 175-6. Qualcosa di analogo dice anche Russell, 1903, par. 447 e Russell, 1929, nonché
Courant, Robbins, 1941, p. 453. La questione è stata affrontata con grande acume da Arntzenius, 2000, contro il quale è
intervenuto Smith, 2003, con argomenti che vanno ulteriormente esaminati, ma a una prima indagine non sembrano
convincenti.
38
39
24
In altre parole, se definiamo la velocità istantanea mediante il concetto di derivata,
basando questa ultima nozione su quella di limite nel senso di Cauchy41, allora essa
non è una vera e propria velocità istantanea, in quanto descrive qualcosa che è
comunque una velocità media. Sul piano dell'esperienza, dunque, il movimento e la
velocità sono necessariamente legati al trascorrere del tempo, come voleva Aristotele;
e nella teoria possiamo utilizzare convenientemente il termine teorico velocità
istantanea, ma esso non sembra avere una corrispondente entità.
Il futuro del paradosso
Se così stanno le cose, allora anche il tentativo di risolvere il paradosso di Zenone
della freccia mediante la nozione di velocità istantanea, nozione che falsificherebbe la
premessa 3 dell’argomento, va incontro a notevoli difficoltà.
Dunque, l’argomento di Zenone sembra resistere inossidabile al trascorrere dei
millenni. Simplicio42 racconta che Diogene il cinico, quando gli illustrarono i
paradossi zenoniani contro il movimento, si alzò e si mise a camminare avanti e in
dietro, come a smentire empiricamente la conclusione43. Giustamente Huggett44
sostiene che la risposta di Diogene non avrebbe soddisfatto Zenone, il quale
sosteneva che molte cose appaiono diverse da come sono e noi figli della rivoluzione
copernicana sappiamo bene che spesso questo accade.
Ammesso che non ci siano altre soluzioni al paradosso, si potrebbe sostenere con
Parmenide che il movimento non esiste. Tuttavia è possibile presentare la questione
anche in un altro modo. Con un esempio forse riusciamo a chiarire il punto.
Nella storia della cosmologia si è spesso criticata la tesi aristotelica secondo cui
l’universo sarebbe finito, basandosi sull’argomento di Archita45 il pitagorico secondo
cui è assurdo pensare lo spazio come finito perché, se fosse tale, arrivati al suo limite,
si potrebbe stendere la mano. Questo argomento sarà ripreso da Kant46, in una forma
molto più astratta, proprio per dimostrare l’antitesi della prima antinomia delle idee
cosmologiche. Per millenni dunque la tesi secondo cui l’universo sia finito è sembrata
a molti contraddittoria, esattamente come il movimento della freccia di Zenone. Ma
nel 1917 Albert Einstein, subito dopo aver formulato la teoria della relatività
Bisogna tenere presente che Mclaughlin, Miller, 1992, propongono una soluzione del paradosso della freccia basato
sull’analisi non standard di Robinson, che andrebbe discusso adeguatamente.
42 Simplicio, 1895, 1012, 22.
43 E’ questo quello che viene chiamato “solvitur ambulando”, cioè si risolve passeggiando.
44 Huggett, 2004.
45 Diels e Kranz, 1952, 24A.
46 Vedi Critica della Ragion Pura, A427, B455.
41
25
generale, nota che è possibile che l’universo sia finito e illimitato, nel caso in cui lo
spazio abbia curvatura positiva media, risolvendo così il paradosso di Archita.
Riflettendo su questa analogia, abbiamo la sensazione che il paradosso della freccia
derivi non tanto da un’improbabile irrealtà del movimento, quanto da un’incapacità
delle teorie finora formulate di cogliere adeguatamente questo fenomeno
onnipervasivo.
La freccia e il principio di indeterminazione
Alla fine di un articolo su questa tematica, Arntzenius47 nota che occorre ancora
indagare il significato della meccanica quantistica in relazione al paradosso della
freccia. Diamo un breve cenno al riguardo.
Il fatto che la velocità istantanea sia un termine strumentale privo di realtà potrebbe
suggerire un'interpretazione del paradosso di Zenone sulla freccia che vada a
giustificare filosoficamente il principio di indeterminazione, come ha sostenuto de
Broglie:
Il vero significato del quanto d'azione ci è divenuto accessibile soprattutto da quando
Heisenberg scoprì le sue indeterminazioni quantistiche, su cui torneremo. Oggi
sembra certo che l'esistenza del quanto d'azione esprima un rapporto affatto nuovo tra
il quadro dello spazio e del tempo e i fenomeni dinamici che vi si svolgono. Il quadro
dello spazio e del tempo è essenzialmente statico: un corpo, un'entità fisica, che sia
esattamente localizzata nello spazio e nel tempo, è per ciò stesso privata di qualsiasi
proprietà evolutiva; viceversa, un corpo in evoluzione che sia dotato di proprietà
dinamiche non può essere collegato a nessun punto dello spazio e del tempo. Sono
osservazioni filosofiche che risalgono a Zenone di Elea e ai suoi discepoli. Le
relazioni di indeterminazione di Heisenberg sembrano imparentate a quelle
osservazioni. Esse ci insegnano, infatti, che è impossibile attribuire simultaneamente
a un corpo un movimento ben definito e un posto ben determinato nello spazio e nel
tempo.48
In pratica, de Broglie, inquadrato nel nostro schema del paradosso della freccia,
sembra affermare che il principio di indeterminazione fra la posizione e il momento
di una particella implichi la negazione della premessa 2, cioè che una particella in
movimento occupi una posizione precisa nello spazio. Però il fatto che la particella
sia in movimento non implica che abbia una velocità determinata, per cui in questo
47
Arntzenius, 2000.
Broglie, 1947, p. 134.
48De
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senso il principio di Heisenberg non può aiutare a risolvere il paradosso. Si potrebbe
sostenere allora che in conseguenza del principio di indeterminazione neanche la
premessa 3 sarebbe valida, perché non si può attribuire una velocità determinata, cioè
“0”, a una particella che occupa una posizione precisa nello spazio. Questo però non
vuol dire che la sua velocità sia diversa da zero, ma semplicemente che è
indeterminata. In pratica ne seguirebbe che la premessa 3. sarebbe un non sequitur.
Questo tipo di argomento è riconducibile alla teoria at-at, secondo cui non avrebbe
senso parlare di movimento istantaneo e non per questo la particella sarebbe
immobile.
1. Ogni intervallo di tempo è divisibile in un numero infinito più che numerabile di
istanti indivisibili.
2. Una freccia in movimento in ogni istante occupa una porzione definita di spazio.
3. Se un oggetto occupa una porzione definita di spazio, non è determinato se sia in
movimento o meno.
4. Tuttavia la freccia è in luoghi diversi in tempi diversi, per cui globalmente è
comunque in movimento.
Abbiamo già visto che questo modo di affrontare il problema ha come conseguenza
l’impossibilità di una spiegazione causale del moto. Inoltre tale prospettiva è poco
ragionevole anche in considerazione del fatto che, secondo la meccanica quantistica,
la particella con posizione determinata, prima di essere misurata, ha comunque uno
stato che può essere descritto anche nello spazio dei momenti, per cui in generale non
è priva di uno stato dinamico.
Dunque, in prima istanza, sembra che la descrizione quantistica del mondo non
risolva il paradosso della freccia che ancora oggi come nell’antichità offre agli
studiosi un problema con cui confrontarsi.
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