Stefano Olivares – Lanfranco Belloni
Elementi di
Informazione Quantistica
Informazione Quantistica
per gli insegnanti delle scuole secondarie superiori
Pubblicati nella Collana dei Materiali Didattici dell’Indirizzo FIM (n. 4):
S. Olivares, L. Belloni
Elementi di Informazione Quantistica
(CUSL, Milano, 2008) ISBN: 97888-8132-488-0
Scritto con LATEX2e
Milano, 20 maggio 2008
Prefazione
L
’ INFORMAZIONE viene sempre codificata in un sistema fisico la cui evoluzione è, in
ultima analisi, governata dalle leggi della meccanica quantistica. L’informazione
quantistica è una branca della scienza che abbraccia diversi campi, dalla fisica alla matematica, dalla computazione all’ingegneria. Il suo scopo è quello di investigare come ed
entro quali limiti le leggi fondamentali della fisica possano essere impiegate per migliorare la trasmissione e l’elaborazione di segnali. L’informazione quantistica nasce dalla
scoperta che la meccanica quantistica può essere utilizzata in modo da eseguire compiti
altrimenti impossibili, quali la creazione di codici crittografici indecifrabili, il teletrasporto di stati di raggi di luce, la soluzione di problemi computazionali in maniera più rapida
rispetto a qualsiasi computer classico.
Queste dispense sono state pensate per un pubblico che non ha conoscenze matematiche e fisiche tali da permettere uno studio approfondito dell’informazione quantistica. Per questa ragione, nei limiti del possibile, abbiamo deciso di usare termini che
risultino familiari ed adeguati a studenti della scuola secondaria superiore. Scopo di
queste dispense non è, quindi, quello di descrivere in dettaglio, a livello universitario,
determinati argomenti dell’informazione quantistica, ma quello di far cogliere al lettore
alcuni aspetti peculiari della meccanica quantistica, il più possibile applicativi, e di fornire alcuni strumenti matematici per poterne dare una descrizione non solo “a parole” o
“qualitativa”.
Accanto a capitoli “tecnici”, finalizzati, cioè, ad introdurre il lettore al formalismo
della meccanica quantistica e alla sua applicazione all’informazione quantistica, abbiamo
inserito due capitoli “storici”, che, a nostro avviso, ci permetteranno di immergerci nel
panorama storico del periodo in cui è nata e si è sviluppata la meccanica quantistica, con
particolare attenzione alla nascita del concetto di fotone (capitolo 3) ed al passaggio dal
determinismo classico all’indeterminismo quantistico (capitolo 5).
Il capitolo 1 ripropone alcuni elementi del formalismo della meccanica quantistica
che verranno impiegati nel corso del libro. In questo capitolo, che si apre con un breve richiamo ai numeri complessi, vine introdotta rappresentazione quantistica di un generico
sistema a due livelli mediante il formalismo dei “bra” e “ket”. Si passa quindi al concetto
di probabilità quantistiche e come queste vengano calcolate una volta assegnato lo stato
del sistema. Il capitolo 1 si chiude considerando i quanti del campo elettromagnetico, i
fotoni, e i loro stati di polarizzazione.
Nel capitolo 2 illustriamo alcuni semplici esperimenti di ottica classica che si possono
eseguire avendo a disposizione una sorgente di luce laser e dei filtri polarizzatori. Il
discorso prosegue, quindi, passando al caso quantistico considerando esperimenti con
singoli fotoni ed introducendo il concetto di sovrapposizione quantistica di due stati.
Il capitolo 3 è il primo capitolo “storico” di queste dispense. Sebbene non sia direttamente legato all’informazione quantistica, in questo capitolo viene riproposto in modo
molto semplificato il ragionamento (termodinamico) che ha portato A. Einstein al quanto
della radiazione elettromagnetica, al “fotone”. Ne proponiamo due versioni: una didattica, che potrebbe essere utile per un eventuale percorso didattico, ed una più avanzata. Il quadro storico è reso più completo riproponendo e commentando alcuni brani di
E. Fermi, che mostrano le reazioni più o meno favorevoli al “fotone”.
Senza dubbio, l’aspetto più caratteristico della meccanica quantistica è l’intreccio (“entanglement”, in Inglese) quantistico che viene discusso nel capitolo 4. Per comprenderne
la peculiarità, in questo capitolo si introduce il formalismo matematico per descrivere
due fotoni e si illustra la differenza tra stati intrecciati e stati separabili. Le caratteristiche di uno stato intrecciato vengono analizzate considerando un esperimento eseguito
su una coppia di fotoni che porta alla scrittura della cosiddetta disuguaglianza di Bell,
intimamente legata al principio di località di Einstein, che viene brevemente enunciato.
Grazie al progresso tecnologico degli ultimi anni, le problematiche dell’entanglement e
delle disuguaglianze di Bell sono tornate ad occupare una parte centrale dell’indagine
scientifica. Questo perché l’intreccio quantistico risulta essere una inesauribile risorsa
per la gestione e l’elaborazione dell’informazione quantistica.
Le questioni riguardanti l’intreccio di stati, in realtà, hanno origini lontane, che possono essere ricondotte addirittura al passaggio dal determinismo, proprio della fisica
classica, all’indeterminismo quantistico. Abbiamo, perciò, dedicato il secondo capitolo
“storico”, il capitolo 5, per fornire al lettore alcuni spunti di approfondimento.
Così come nel mondo dell’informazione classica l’unità fondamentale è detta “bit”,
nel reame quantistico si parla di “bit quantistico” o, meglio, di “qubit”. Le potenzialità
della computazione quantistica e, in particolare, il principio di sovrapposizione quantistico, sono discusse nel capitolo 6 mediante l’analisi dettagliata dell’algoritmo di DeutschJosza, che mostra come un computer quantistico sia in grado di eseguire dei compiti più
rapidamente rispetto ad uno classico.
I qubit possono essere utilizzati per codificare ed inviare informazione, così come
avviene classicamente con i bit. D’altra parte, grazie alle proprietà quantistiche dei qubit, diventa possibile inviare dei messaggi in modo totalmente sicuro. Questo aspetto è
descritto nel capitolo 7, dove, tra l’altro, viene esposto, passo dopo passo, il protocollo
crittografico BB84.
Il teletrasporto quantistico di qubit è illustrato nel capitolo 8, dove abbiamo messo in
particolare risalto cosa s’intenda con il termine “teletrasporto”.
Alcuni capitoli sono indubbiamente più impegnativi di altri. Per questo motivo abbiamo pensato di concludere questi capitoli riportando in un “box” i suoi punti più rilevanti. È molto facile perdersi e scoraggiarsi davanti ai conti: il box finale sarà, quindi,
una “mappa” per potersi orientare indicando di volta in volta quali siano i concetti fondamentali da ricordare. Sono stati, inoltre, pensati alcuni semplici esercizi che il lettore
troverà nei vari paragrafi per aiutarne la comprensione e l’assimilazione.
Buona lettura!
Stefano Olivares, Lanfranco Belloni
Milano, 20 maggio 2008
Indice
Prefazione
1
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1
1
3
4
6
9
2
Esperimenti con la luce
2.1 Filtri polarizzatori e separatori di fascio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2.2 Dalla “luce” ai “fotoni”: dal classico al quantistico . . . . . . . . . . . . . .
2.3 Sovrapposizione quantistica e interferenza . . . . . . . . . . . . . . . . . .
11
11
14
17
3
La via di Einstein al fotone
3.1 Richiami di termodinamica e meccanica statistica . . . .
3.2 Dal gas di particelle al gas di fotoni (didattico) . . . . . .
3.2.1 Appendice – Calcolo della pressione di radiazione
3.3 Dal gas di particelle al gas di fotoni (avanzato) . . . . . .
3.4 Dilemmi sul campo elettromagnetico . . . . . . . . . . . .
3.5 Considerazioni finali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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19
19
22
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25
27
32
Intreccio (entanglement) quantistico
4.1 Sistemi di due fotoni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4.2 Stati separabili e stati intrecciati (entangled) di due fotoni
4.3 Stati intrecciati: un esempio . . . . . . . . . . . . . . . . .
4.4 Stati intrecciati e correlazioni nonlocali . . . . . . . . . . .
4.5 Principio di località e disuguaglianza di Bell . . . . . . .
4.6 Esperimenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4.7 Considerazioni finali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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37
38
38
42
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47
47
Dal determinismo classico all’indeterminismo quantistico
5.1 Meccanica classica, statistica e quantistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5.2 Dalla statistica classica al gatto di Schrödinger . . . . . . . . . . . . . . . .
5.3 Considerazioni finali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
49
50
54
56
4
5
Elementi di meccanica quantistica
1.1 Richiami sui numeri complessi . . . . . . . . . . .
1.2 Sistemi a due livelli: ket e bra . . . . . . . . . . . .
1.3 Probabilità quantistiche . . . . . . . . . . . . . . .
1.4 Dagli atomi ai fotoni: stati di polarizzazione . . .
1.5 Rappresentazione vettoriale degli stati quantistici
i
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ii
6 Dal bit al qubit
6.1 Numeri binari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6.2 Il qubit . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6.3 Operazioni sui qubit . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6.4 Parallelismo quantistico: l’algoritmo di Deutsch-Josza
6.5 Algoritmo di Deutsch-Josza in dettaglio . . . . . . . .
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59
60
61
62
64
7 Crittografia quantistica
7.1 Chiavi di crittazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.2 Comunicazione binaria con singoli fotoni . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.3 Distribuzione quantistica di chiavi: protocollo BB84 . . . . . . . . . . . . .
69
69
70
72
8 Teletrasporto quantistico
8.1 Cosa è e cosa non è il teletrasporto quantistico
8.2 Il protocollo del teletrasporto quantistico . . .
8.3 Esperimenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
8.4 Considerazioni finali . . . . . . . . . . . . . . .
77
77
78
81
81
Bibliografia
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83
Capitolo
1
Elementi di meccanica quantistica
1.1 Richiami sui numeri complessi
L’insieme dei numeri complessi si indica con il simbolo
può essere sempre scritto come:
z = x + iy
con
x, y ∈
C e un numero complesso z ∈ C
R,
(1.1)
dove i è detta unità immaginaria ed è tale che:
Unità
immaginaria
i2 = −1.
(1.2)
I numeri reali x e y, che compaiono nella (1.1), sono detti rispettivamente parte reale e parte
immaginaria di z e si indicano nel modo seguente:
x = Re[z]
e
y = Im[z],
(1.3)
da cui segue che:
(1.4)
z = Re[z] + i Im[z].
Il complesso coniugato di un numero complesso z si indica con il simbolo z ∗ e si ottiene Complesso
coniugato di z
cambiando il segno alla sua parte immaginaria, cioè:
z = x + iy
⇒
z ∗ = x − iy.
(1.5)
Il modulo di un numero complesso z si indica con il simbolo |z| ed è definito come Modulo di z
segue:
p
(1.6)
|z| = (Re[z])2 + (Im[z])2 .
Analogamente la quantità:
Argomento di z
arg[z] = arctan
Im[z]
Re[z]
(1.7)
è chiamata argomento di z.
Esercizio 1.1 Si verifichi che |z ∗ | = |z| e che arg[z ∗ ] = − arg[z].
1
2
Capitolo 1: Elementi di meccanica quantistica
Figura 1.1: Nello schema sono raffigurati due possibili modi per rappresentare graficamente un
numero complesso z = x + iy. La prima, che utilizza la parte reale e la parte immaginaria di z è
detta rappresentazione cartesiana di z; la seconda, che utilizza il modulo e l’argomento di z, è detta
rappresentazione polare di z.
Rappresentazione
grafica di un
numero
complesso
Un numero complesso z può essere rappresentato graficamente mediante un punto
Z = (Re[z], Im[z]) in un piano cartesiano, come mostrato in Figura 1.1. In questo modo è
anche possibile associare il modulo |z| del numero complesso alla lunghezza del vettore
che unisce l’origine 0 del piano al punto Z; analogamente, arg[z] corrisponde all’angolo formato dal questo vettore con l’asse delle ascisse. Questi due modi equivalenti di
rappresentare i numeri complessi sono detti rappresentazione cartesiana, poiché impiega le
coordinate cartesiane, e rappresentazione polare, poiché si rifà alle coordinate polari.
Grazie all’identità:
eiφ ≡ cos φ + i sin φ,
(1.8)
diventa possibile riscrivere il numero complesso z = x + iy anche nel modo seguente:
p
(1.9)
z = |z| ei arg[z] = x2 + y 2 ei arctan(y/x) .
Utilizzando la (1.8) si ha anche:
Re[z] = |z| cos(arg[z])
e Im[z] = |z| sin(arg[z]).
(1.10)
Esercizio 1.2 Si calcolino il modulo e l’argomento dei numeri complessi
z = 2 + 3i,
z = 5i,
1+i
z= √ ,
2
e se ne diano la rispettive rappresentazioni polari.
Ricordiamo, infine, che, dati z1 = x1 + iy1 e z2 = x2 + iy2 , allora:
z1 + z2 = (x1 + x2 ) + i(y1 + y2 )
(1.11)
z1 z2 = (x1 + iy1 )(x2 + iy2 ) = (x1 x2 − y1 y2 ) + i(x1 y2 + x2 y1 ),
(1.12)
e
dove abbiamo sfruttato la proprietà distributiva della moltiplicazione e si è utilizzata la
proprietà (1.2).
Esercizio 1.3 Si calcolino z + z ∗ e z − z ∗ .
3
1.2 Sistemi a due livelli: ket e bra
1.2 Sistemi a due livelli: ket e bra
Uno dei primi successi della meccanica quantistica è stato quello di risolvere il cosiddetto enigma degli spettri atomici: gli elettroni di un atomo occupano livelli energetici ben
definiti e dettati dalle leggi della meccanica quantistica. L’esistenza dei livelli atomici ha
avuto importanti ricadute tecnologiche, che vanno dall’invenzione del laser ai semiconduttori, che stanno alla base di quasi tutta l’odierna tecnologia (basti pensare ai transitor
e microprocessori).
La luce emessa dagli atomi ha un colore altretE
tanto ben definito che è dovuto al passaggio o, me|ei
glio, transizione di un elettrone da un livello ad
energia più alta ad uno ad energia più bassa. Vi|f i
ceversa, un elettrone può passare da un livello di
energia più bassa ad uno superiore solo se gli vie- Figura 1.2: Schema dei livelli energetine fornita un’energia sufficiente. Per semplificare ci |f i e |ei di un atomo.
la nostra trattazione, focalizziamo la nostra attenzione sull’atomo di idrogeno, che ha un solo elettrone. In questo luogo ci accontenteremo
di considerare solo due livelli dell’atomo di idrogeno, che chiameremo rispettivamente Atomo a due
livello “fondamentale” e livello “eccitato”. Il livello “fondamentale”, è quello occupato livelli
dall’elettrone quando l’atomo si trova nello stato ad energia più bassa; quando l’atomo è
disturbato o, meglio, perturbato, ad esempio illuminandolo con una luce di colore opportuno, allora l’elettrone passa ad un livello ad energia più alta, che chiamiamo, appunto,
livello “eccitato”. A volte ci si dimentica degli elettroni e si fa riferimento semplicemente
all’atomo, dicendo che l’atomo si trova nello “stato fondamentale” oppure nello “stato
eccitato”.
Nel formalismo matematico della meccanica quantistica il fatto che un determinato
sistema (atomo, elettrone o fotone che sia) abbia una certa proprietà o, meglio, si trovi in
“ket”
un determinato “stato”, si rappresenta con il seguente simbolo (chiamato “ket”)1 :
| · · ·i,
(1.13)
dove al posto di “· · · ” i Fisici pongono lo stato del sistema. Ad esempio, per indicare un
atomo nello stato fondamentale un fisico scrive:
|atomo nello stato fondamentalei,
(1.14)
oppure, se l’atomo è eccitato:
|atomo nello stato eccitatoi.
(1.15)
Il lettore concorderà che questo modo di scrivere gli stati di un sitema è piuttosto scomodo da usare in pratica. Per questa ragione, in genere si sott’intende il sistema e si abbrevia
il nome dello stato. Nel caso precedente si ha:
|f i,
(1.16)
per l’atomo nello stato fondamentale, oppure:
|ei,
(1.17)
1
Qui ci accontentiamo di dare una descrizione simbolica e formale degli stati, senza approfondirne
l’aspetto matematico.
4
Capitolo 1: Elementi di meccanica quantistica
se l’atomo è eccitato. Più in generale, si può anche dire che un atomo si trova nello stato
|ψi, dove ψ è la lettera greca “psi”: in questo caso si intenderà |ψi = |ei oppure |ψi = |f i a
seconda che l’atomo sia rispettivamente nello stato eccitato o fondamentale. Così facendo
abbiamo introdotto uno dei postulati della meccanica quantistica: ad ogni sistema fisico
è associato uno stato o, meglio, un vettore di stato.
In Figura 1.2 sono rappresentati schematicamente due livelli energetici di un atomo
in funzione dell’energia. Il lettore osserverà innanzitutto che le due righe, che rappresentano i livelli, sono tra loro ben separate e distinguibili. Utilizzando un termine più
tecnico possiamo dire che |f i e |ei sono mutuamente ortogonali, proprietà, questa, che si
esprime scrivendo:
|f i · |ei = |ei · |f i = 0,
(1.18)
Prodotto interno
di due stati
dove il simbolo “·” indica il prodotto interno tra i due stati. D’altra parte in tutti i testi di
meccanica quantistica il lettore non troverà mai il prodotto interno tra due stati scritto
come nell’Eq. (1.18). . . Per descrivere il prodotto tra uno stato |ψi e uno stato |φi, dove φ
è la lettera greca “fi”, si introduce il simbolo hψ| e si ha2 :
|ψi · |φi = hψ|φi,
(1.19)
hf |ei = he|f i = 0.
(1.20)
e l’Eq. (1.18) si riscrive nel modo seguente:
Il simbolo h· · · | si chiama “bra”. Si noti che il prodotto interno tra due stati corrisponde,
dunque, a “moltiplicare” il bra del primo stato per il ket del secondo ed il risultato è un
numero3 . C’è di più. I due stati |f i e |ei non sono semplicemente ortogonali, bensì sono
Stati ortonormali ortonormali, ovvero hanno anche la seguente proprietà:
“bra”
hf |f i = 1 e
(1.21)
he|ei = 1.
In altre parole, se moltiplichiamo il ket di uno stato del sistema per il corrispondente bra
si ottiene 1: questo deve essere vero sempre ed è una delle richieste che deve soddisfare
uno stato di qualsiasi sistema4 .
1.3 Probabilità quantistiche
Una delle peculiarità della meccanica quantistica è la seguente: se |f i e |ei sono stati
atomici allora anche
(1.22)
|ψi = a|f i + b|ei, a, b ∈
C
può essere uno stato dello stesso sistema. In questo caso si deve però avere hψ|ψi = 1
e ciò pone delle condizioni su a e b. Utilizzando la proprietà distributiva del prodotto
interno definito nell’Eq. (1.19) abbiamo:
hψ|ψi = (a∗ hf | + b∗ he|) (a|f i + b|ei)
{z
}|
{z
}
|
hψ|
|ψi
= |a| hf |f i +a b hf |ei +b∗ a he|f i +|b|2 he|ei = |a|2 + |b|2 ,
| {z }
| {z }
|{z}
| {z }
2
1
2
(1.23)
∗
0
0
(1.24)
1
Il lettore che ha seguito un corso di meccanica quantistica riconoscerà nel simbolo hψ| il complesso
coniugato dello stato |ψi.
3
In generale si tratta di un numero complesso, ma per il nostro discorso il lettore può assumere che tale
numero sia reale.
4
In termini tecnici: lo stato di un sistema deve essere normalizzato.
5
1.3 Probabilità quantistiche
dove a∗ e b∗ indicano il complesso coniugato di a e b, rispettivamente. Quindi affinché
|ψi sia uno stato occorre richiedere che |a|2 + |b|2 = 1. Nel caso in cui a, b ∈ , allora
|a|2 = a2 e |b|2 = b2 , e la condizione di normalizzazione diventa a2 + b2 = 1. Nel seguito
specificheremo sempre se stiamo considerando coefficienti reali o complessi.
Stati come quello dell’Eq. (1.22) sono detti “stati sovrapposizione” poiché si ottengo- Stati
no “sovrapponendo”, cioè sommando diversi stati in modo tale che lo stato risultante sovrapposizione
sia “normalizzato”, cioè hψ|ψi = 1. Le proprietà degli stati sovrapposizione verranno
approfondite nel capitolo 2, dove ne vedremo anche alcune applicazioni.
Dato il seguente stato sovrapposizione di un atomo
R
|ψi = a|f i + b|ei,
|a|2 + |b|2 = 1,
(1.25)
si hanno i seguenti casi limite:
se a = 1 e b = 0 ⇒ |ψi = |f i;
(1.26)
se a = 0 e b = 1 ⇒ |ψi = |ei.
(1.27)
A questo punto ci si può chiedere cosa accade quando sia a che b sono entrambi diversi da zero. Per rispondere a questa domanda immaginiamo di avere a disposizione N
atomi tutti nello stesso stato (1.25) e di inviare ciascuno di essi in un apparato di misura
in grado di dirci se l’atomo si trova nello stato eccitato o fondamentale. Un tipico risultato potrebbe essere quello riportato nella Tabella 1.1. Come si può osservare i risultati
sembrano del tutto casuali. . . Innanzitutto, se indichiamo con Nf e Ne il numero di atomi
trovati rispettivamente nello stato fondamentale ed eccitato, possiamo definire la probabilità Pf di trovare un atomo nello stato fondamentale e la probabilità Pe di trovarlo in
quello eccitato nel modo seguente:
Pf =
Nf
,
N
Pe =
Ne
.
N
(1.28)
Se, ora, eseguissimo veramente questo esperimento, troveremmo che esiste un legame
ben preciso tra i risultati della Tabella 1.1 e lo stato (1.25), in particolare troveremmo che:
e
Pf = |a|2 ,
(1.29)
Pe = |b|2 .
(1.30)
Il lettore, a questo punto, può verificare che valgono le seguenti relazioni, che legano le
probabilità Pf e Pe allo stato |ψi:
Pf = |hf |ψi|2 ,
Pe = |he|ψi|2 .
Esercizio 1.4 Si riveda la prima parte di questo paragrafo assumendo che a, b ∈
Esercizio 1.5 Si dimostri che se |ψi = |ei si ha Pf = 0 e Pe = 1.
(1.31)
R.
Esercizio 1.6 Si consideri lo stato
1
|ψi = √ (|f i + |ei).
2
Si calcolino esplicitamente Pf e Pe .
6
Capitolo 1: Elementi di meccanica quantistica
Atomo nr.
1
2
3
4
5
..
.
stato misurato
eccitato
eccitato
fondamentale
eccitato
fondamentale
..
.
N −1
N
eccitato
fondamentale
Tabella 1.1: Esempio di risultati di un esperimento atto a misurare lo stato di un atomo nello stato
sovrapposizione (1.25).
Esercizio 1.7 Si considerino tre possibili stati atomici |f i, |ei e |gi mutuamente ortonormali (si
pensi ad un atomo a tre livelli). Si verifichi che lo stato
1
i
|ψi = √ |f i + (|ei + |gi)
2
2
è normalizzato e si calcolino esplicitamente Pf , Pe e Pg .
Confrontando l’equazione (1.25) e le probabilità (1.29) e (1.30) possiamo giungere alla seguente conclusione che permetterà di semplificare i conti, almeno nei casi trattati
in queste lezioni. Come il lettore può facilmente osservare, la probabilità Pf è data da
|a|2 , ovvero dal quadrato del coefficiente complesso a che appare davanti al ket |f i nell’equazione (1.25). Analogo ragionamento vale per Pe e |b|2 . Per questo motivo, dato, ad
esempio, lo stato
|ψi = a|ei + b|f i + c|gi + d|hi,
(1.32)
con |a|2 + |b|2 + |c|2 + |d|2 = 1, allora, se |ei, |f i, |gi e |hi sono mutuamente ortonormali
possiamo scrivere immediatamente le seguenti probabilità:
Pe = |a|2 ,
Pf = |b|2 ,
Pg = |c|2 ,
e Ph = |d|2 ,
(1.33)
con ormai ovvio significato dei simboli.
Esercizio 1.8 Si rivedano gli esercizi precedenti tenendo conto di quanto appena osservato.
1.4 Dagli atomi ai fotoni: stati di polarizzazione
Fino ad ora abbiamo parlato di livelli atomici. In realtà esistono altri sistemi fisici in cui si
possono identificare due livelli o stati ortonormali. Accanto agli atomi, in queste pagine
incontreremo i “fotoni”, ovvero i pacchetti o quanti di energia del campo elettromagneStati di tico. Come vedremo nel capitolo 2, gli esperimenti compiuti in laboratorio sui singoli
polarizzazione di fotoni hanno mostrato che un singolo fotone non può essere diviso in entità più piccole.
un fotone
Al di là delle affascinanti proprietà quantistiche del campo elettromagnetico, in questo
luogo focalizzeremo la nostra attenzione sulla sua polarizzazione. Così come la luce può
7
1.4 Dagli atomi ai fotoni: stati di polarizzazione
|V i
|Hi
Figura 1.3: Rappresentazione grafica delle polarizzazioni di un fotone: polarizzazione orizzontale
e verticale. Si tratta di due vettori ortogonali di lunghezza unitaria.
Figura 1.4: Rappresentazione grafica degli stati di polarizzazione di un fotone. Lo stato di polarizzazione di un fotone lungo una direzione θ può essere scritto in funzione degli stati |Hi e |V i.
Si noti che i coefficienti che appaiono davanti a |Hi e |V i corrispondono alla proiezione dello stato
preso in considerazione di lunghezza unitaria (| + 45◦ i, | − 45◦ i, |θi o |θ − 90◦ i) su rispettivamente
|Hi e |V i.
essere polarizzata, anche un fotone lo può essere. Per descrivere, ad esempio, un fotone
polarizzato orizzontalmente, utilizzando quanto detto nel paragrafo 1.2, scriveremo:
|fotone polarizzato orizzontalmentei,
(1.34)
|fotone polarizzato verticalmentei,
(1.35)
oppure scriveremo:
per un fotone con polarizzazione verticale. Come nel caso degli atomi, questa scrittura è pittosto ingombrante, così quando ci riferiremo a fotoni polarizzati scriveremo più
semplicemente:
|Hi oppure |V i
(1.36)
per un fotone polarizzato orizzontalmente (H proviene dalla parola Inglese “horizontal”)
oppure verticalmente5 . Come nel caso degli stati atomici |f i e |ei, anche gli stati |Hi e
|V i sono ortonormali, cioè:
hH|V i = 0,
hV |Hi = 0,
hH|Hi = 1,
e hV |V i = 1.
(1.37)
Stato di
In Figura 1.3 sono rappresentati graficamente gli stati |Hi e |V i di un fotone.
Partendo dalla Figura 1.3, è possibile scrivere lo stato di un fotone polarizzato lungo polarizzazione
una direzione generica θ. In Figura 1.4 abbiamo dato una rappresentazione grafica degli generica
5
Si è scelto di usare la notazione |Hi anziché |Oi per non creare confusione con lo stato |0i che, nei
prossimi capitoli, indicherà il qubit “0” (zero).
8
Capitolo 1: Elementi di meccanica quantistica
stati |+45◦ i, |−45◦ i, |θi e |θ −90◦ i scritti in funzione degli stati |Hi e |V i: i coefficienti che
compaiono davanti ai ket |Hi e |V i corrispondono alle proiezioni su di essi dello stato
preso in considerazione. In questo modo si ottiene:
1
| + 45◦ i = √ (|Hi + |V i) ,
2
1
| − 45◦ i = √ (|Hi − |V i) ,
2
(1.38a)
(1.38b)
e
|θi = cos θ|Hi + sin θ|V i,
|θ⊥ i = sin θ|Hi − cos θ|V i,
(1.39a)
(1.39b)
dove, per comodità, abbiamo definito |θ⊥ i ≡ |θ − 90◦ i.
Esercizio 1.9 Si verifichi che gli stati (1.38) e (1.39) sono ortonormali.
Esercizio 1.10 Si consideri un fotone nello stato
|θi = cos θ |Hi + sin θ |V i.
Si calcolino le probabilità PH e PV , corrispondenti alle probabilità di trovare il fotone con polarizzazione rispettivamente orizzontale o verticale.
Infine, invertendo le (1.39) è anche possibile scrivere gli stati |Hi e |V i in funzione di
|θi e |θ⊥ i come segue:
|Hi = cos θ|θi + sin θ|θ⊥ i,
|V i = sin θ|θi − cos θ|θ⊥ i.
Stati di
polarizzazione
circolare
(1.40a)
(1.40b)
Fino a questo punto abbiamo considerato stati di sovrapposizione di fotoni con coefficienti reali. Anche se al lettore potrà sembrare inusuale l’esistenza di stati fisici di
sovrapposizione con coefficienti complessi, tanto da condurlo a pensare ad una semplice astrazione matematica, concludiamo questo capitolo con un esempio di una tale
sovrapposizione:
1
| i = √ (|Hi + i|V i) ,
2
1
| i = √ (|Hi − i|V i) .
2
(1.41a)
(1.41b)
Gli stati (1.41) indicano, rispettivamente, un fotone con polarizzazione circolare destra
(senso orario) e sinistra (senso antiorario).
Esercizio 1.11 Si verifichi che gli stati (1.41) sono ortonormali e si calcolino le probabilità PH e
PV di trovare il fotone con polarizzazione orizzontale o verticale.
9
1.5 Rappresentazione vettoriale degli stati quantistici
1.5 Rappresentazione vettoriale degli stati quantistici
Concludiamo questo capitolo mostrando come sia possibile associare ai “ket” di un sistema a due livelli opportuni vettori bidimensionali. Anche se un ragionamento analogo vale per qualsiasi sitema a due livelli, in questo paragrafo focalizzeremo la nostra
attenzione sugli stati di polarizzazione di un fotone.
Innanzitutto ricordiamo che un vettore bidimensionale ~a può essere rappresentato
elencando le sue componenti a1 e a2 (si pensi alla decomposizione cartesiana di ~a) in un
vettore colonna nel modo seguente:
a1
~a =
.
(1.42)
a2
La somma di due vettori ~a e ~b è allora data da:
a1 + b1
.
~a + ~b =
a2 + b2
(1.43)
Il prodotto interno di ~a e ~b si ottiene invece nel modo seguente:
b1
~
~a · b = (a1 , a2 ) ·
= a1 b1 + a2 b2 ,
b2
(1.44)
ovvero le componenti del primo vettore del prodotto interno (nel nostro caso ~a) vengono scritte in un vettore riga che viene quindi moltiplicato (prodotto matriciale righe per
colonne) con il vettore colonna delle componenti del secondo vettore (nel nostro caso ~b).
Nel caso degli stati |Hi e |V i di polarizzazione di un fotone si pone (cfr. Figura 1.3):
1
0
|Hi =
, |V i =
.
(1.45)
0
1
I “bra” corrispondenti ai “ket” (1.45) sono:
hH| = (1, 0) ,
(1.46)
hV | = (0, 1) .
Grazie alla definizione di prodotto interno tra due stati, data nel paragrafo 1.2, è possibile
scrivere:
1
hH|Hi = (1, 0) ·
= 1,
(1.47)
0
e:
0
= 0.
(1.48)
hH|V i = (1, 0) ·
1
Esercizio 1.12 Utilizzando la rappresentazione vettoriale per gli stati quantistici si verifchi che
hV |V i = 1 e hV |Hi = 0.
Veniamo ora a considerare la rappresentazione vettoriale di uno stato |ψi. Grazie alle
proprietà dei vettori e della loro somma si ha:
1
0
a
|ψi = a|Hi + b|V i = a
+b
⇒ |ψi =
,
(1.49)
0
1
b
dove a, b ∈
C, |a|2 + |b|2 = 1. Analogamente, il “bra” hψ| diventa:
hψ| = a∗ hH| + b∗ hV | = a∗ (1, 0) + b∗ (0, 1)
⇒
hψ| = (a∗ , b∗ ) .
(1.50)
10
Capitolo 1: Elementi di meccanica quantistica
Esercizio 1.13 Utilizzando la rappresentazione vettoriale per gli stati quantistici si verifchi che
lo stato:
√
6
1
|ψi = √ |Hi +
|V i
3
3
è normalizzato, ovvero hψ|ψi = 1.
La rappresentazione degli stati quantistici di un sistema mediante vettori risulta essere molto utile, soprattutto quando si deve descrivere la sua evoluzione temporale quando
è soggetto a qualche trasformazione.
Da ricordare:
☞ Ad ogni sistema fisico si associa uno stato. I sistemi a due livelli sono
caratterizzati da due soli stati. Esempi di sistemi a due livelli:
Atomo: |f i (stato fondamentale), |ei (stato eccitato).
Fotone: |Hi (polarizzazione orizzontale), |V i (polarizzazione verticale).
☞ Gli stati |f i e |ei così come |Hi e |V i sono ortonormali, cioè:
hf |f i = he|ei = 1 e hf |ei = he|f i = 0
hH|Hi = hV |V i = 1 e hH|V i = hV |Hi = 0
☞ Dati due numeri a, b ∈
sovrapposizione:
R tali che a2 + b2 = 1 possiamo scivere i seguenti stati
|ψi = a|f i + b|ei con Pf = a2 e Pe = b2 le probabilità di trovare l’atomo
rispettivamente nello stato fondamentale o eccitato;
|ψi = a|Hi + b|V i con PH = a2 e PV = b2 le probabilità di trovare il fotone
rispettivamente nello stato con polarizzazione orizzontale o verticale.
Capitolo
2
Esperimenti con la luce
2.1 Filtri polarizzatori e separatori di fascio
In questo capitolo parleremo di luce, fotoni e di alcuni semplici ma significativi esperimenti che li coinvolgono. In Figura 2.1 sono illustrati quattro esperimenti che si possono
eseguire avendo a disposizione una sorgente di luce laser e due filtri polarizzatori. Ricordiamo, qui, che un filtro polarizzatore orientato nella direzione θ (dove θ indica l’angolo
rispetto all’orizzontale misurato in senso antiorario) è un oggetto che trasmette (lascia
passare) la luce polarizzata in quella direzione. Se indichiamo, come in Figura 2.1, con
I0 l’intensità della luce (polarizzata orizzontalmente) dopo il primo filtro, allora la sua
intensità I dopo il secondo filtro sarà:
I = I0 cos2 θ.
(2.1)
Questa formula, nota come legge di Malus, tornerà utile in seguito. È importante osser- Legge di Malus
vare che se l’intensità della luce che attraversa il filtro è data dalla formula (2.1), allora
quella assorbita, indicata con Iabs , sarà data da:
Iabs = I0 − I = I0 (1 − cos2 θ) = I0 sin2 θ.
Esercizio 2.1 Usando la formula (2.1) si verifichino gli esempi di Figura 2.1.
(2.2)
Figura 2.1: Varie combinazioni di filtri polarizzatori: I0 indica l’intensità della luce dopo il primo
filtro mentre I indica quella dopo il secondo filtro.
11
12
Capitolo 2: Esperimenti con la luce
Figura 2.2: Un raggio di luce inizialmente non polarizzata viene diviso in due raggi con
polarizzazioni ortogonali (qui assunte essere H e V ), detti raggi ordinario e straordinario.
Figura 2.3: Birifrangenza osservata con un cristallo di calcite. Se si osserva l’immagine della freccia attraverso il cristallo di calcite illuminandolo con una luce non polarizzata (figura a sinistra),
l’immagine appare sdoppiata. Se, mediante un filtro, la si osserva con luce polarizzata V oppure
H, allora si distingue una sola immagine (figure al centro e a destra).
Calcite
Birifrangenza
Separatore di
fascio ottico
polarizzante
(SFOP)
In natura esistono alcuni cristalli, tra cui il più conosciuto è la calcite (CaCO3 ), che
hanno la proprietà di separare una raggio di luce incidente in due raggi emergenti con
polarizzazioni ortogonali. Questa proprietà, nota come birifrangenza, è riconducibile alla
struttura cristallina microscopica dei cristalli stessi. Come noto, l’angolo con cui viene rifratto un raggio luminoso quando attraversa un mezzo mezzo trasparente dipende
dall’indice di rifrazione n (legge di Snell). In genere n è indipendente dalla polarizzazione della radiazione incidente; tuttavia per i cristalli birifrangenti esistono due indici di
rifrazione differenti per due componenti ortogonali della radiazione, che qui assumeremo essere H e V . Come rappresentato in Figura 2.2, questo fa sì che un raggio di luce,
inizialmente non polarizzato, che incida su un
cristallo birifrangente, venga diviso in due raggi di emergenti: uno detto “ordinario”, l’altro “straordinario”. Nella Figura 2.3 sono rappresentate tre fotografie di un cristallo di calcite posto su un disegno di una freccia illuminato con luce non polarizzata, polarizzata
verticalmente e polarizzata orizzontalmente.
Introduciamo, ora, il vero protagonista di
questo primo paragrafo, che è strettamente leFigura 2.4: Fotografia di un separatogato al fenomeno della alla birifrangenza. Si re di fascio ottico polarizzante, SFOP
tratta di un elemento ottico che si trova in qua- (la fotografia è stata tratta dal sito web
si tutti i moderni esperimenti di ottica quan- http://www.lin-optics.com.tw/).
tistica (ovvero l’ottica che studia le proprietà
quantistiche del campo elettromagnetico) e che si chiama “separatore di fascio ottico polarizzante”, in breve SFOP. In queste dispense abbiamo deciso di utilizzare, ove possibile,
2.1 Filtri polarizzatori e separatori di fascio
13
Figura 2.5: Azione di un SFOP su di un raggio laser precedentemente polarizzato verticalmente
medinate un filtro polarizzatore V : la luce passa attraverso il SFOP senza essere perturbata. Il
disegno a colori (in alto) si riferisce ad una rappresentazione realistica dell’esperimento, quello in
bianco e nero (in basso) si riferisce alla rappresentazione schematica dello stesso esperimento.
Figura 2.6: Azione di un SFOP su di un raggio laser precedentemente polarizzato orizzontalmente
medinate un filtro polarizzatore H: la luce viene deviata dal SFOP. Il disegno a colori (in alto) si
riferisce ad una rappresentazione realistica dell’esperimento, quello in bianco e nero (in basso) si
riferisce alla rappresentazione schematica dello stesso esperimento.
solo termini in Italiani. Tuttavia in questo caso è importante ricordare il SFOP viene anche
indicato con la traduzioe inglese Inglese polarizing beam splitter o, più in breve, PBS.
In Figura 2.4 è mostrata una fotografia di un SFOP mentre nelle Figure 2.5 e 2.6 è rappresentata l’azione del SFOP su un raggio (fascio) di luce laser precedentemente polarizzata verticalmente (Figura 2.5) oppure orizzontalmente (Figura 2.6). Come si può vedere
il SFOP devia la luce dal suo percorso solo quando la luce è polarizzata orizzontalmente.
Cosa accade, sperimentalmente, se indirizziamo in un SFOP una luce polarizzata a
+45◦ ? Dalla Figura 2.7 osserviamo che, indicando con I0 l’intensità della luce che arriva
al SFOP, dopo di esso troviamo due fasci di luce di uguale intensità 21 I0 (la metà di quella
in ingresso), uno deviato (che sarà, quindi, polarizzato H) e uno non deviato (polarizzato
V ). Possiamo affermare che l’azione del SFOP su di una luce polarizzata a +45◦ è quella
di separare, appunto, le due componenti polarizzate H e V , che risultano uguali nella
radiazione polarizzata a +45◦ . Se indirizzassimo nel SFOP una luce polarizzata lungo
l’angolo θ rispetto all’orizzontale, allora troveremmo che l’intensità della luce trasmessa
è I0 sin2 θ e l’intensità di quella riflessa è I0 cos2 θ (si veda la Figura 2.7). Lasciamo al
lettore il confronto di questo risultato con la formula (2.2).
14
Capitolo 2: Esperimenti con la luce
Figura 2.7: Azione di un SFOP su di un raggio laser precedentemente polarizzato a +45◦ . Sono
riportate le intensità della luce prima e dopo il SFOP.
2.2 Dalla “luce” ai “fotoni”: dal classico al quantistico
Il fotone non può
essere diviso in
unità più piccole
Fotoni nello stato
| + 45◦ i
Partendo dall’esperimento rappresentato in Figura 2.1, immaginiamo, ora, di sostituire
al laser una sorgente di singoli fotoni, ad esempio un atomo eccitato che, diseccitandosi,
emette un solo fotone. Come nel caso della luce laser, quando un fotone attraversa un
filtro polarizzatore la sua polarizzazione risulta essere proprio quella del filtro stesso. Per
verificarlo sperimentalmente si possono eseguire degli esperimenti del tutto analoghi a
quelli di Figura 2.1, solo che ora, anziché misurare l’intensità della luce che attraversa
il filtro, si misura il numero di fotoni che lo hann attraversato. Prima di procedere è
opportuno ricordare che un fotone è l’unità fondamentale del campo elettromagnetico e,
come tale, non può essere diviso in unità più piccole. Questo significa che un fotone o
attraversa il filtro oppure viene assorbito da esso: non esiste una situazione intermedia in
cui una parte di esso passi e l’altra venga assorbita come per l’intensità della luce. Più
sotto mostreremo lo schema di un esperimento in grado di illustrare questo fatto.
Ritorniamo gli esperimenti di Figura 2.1. Per “vedere” i fotoni, nei moderni laboratori
si impiegano dei rivelatori molto sofisticati, detti fotorivelatori, che forniscono un impulso elettrico ogni qualvolta un fotone arrivi su di essi. Per semplificare la nostra trattazione possiamo schematizzare questi rivelatori come dei sensori che emettono un “click”
quando rivelano un fotone. Questo significa che, nel caso dell’esperimento in alto a sinistra della Figura 2.1, un fotorivelatore posto dopo il secondo filtro non farà mai “click”!
Vediamolo più in dettaglio, cercando di darne una descrizione quantistica. I fotoni che
giungono al secondo filtro polarizzatore sono polarizzati orizzontalmente. Utilizzando
quanto detto nel paragrafo 1.4, lo stato di ciascuno di questi fotoni può essere indicato
con il simbolo |Hi. Come si è appreso nel capitolo 1, il simbolo |Hi indica che il fotone
ha probabilità 1 di trovarsi polarizzato orizzontalmente (ovvero è certamente polarizzato
orizzontalmente), mentre ha probabilità 0 di essere polarizzato verticalmente (ovvero non
è assolutamente polarizzato verticalmente): in altre parole, se considerassimo un gran
numero di fotoni tutti nello stato |Hi e ne misurassimo la polarizzazione orizzontale (H)
o verticale (V ), troveremmo che tutti risulterebbero polarizzati H e nessuno V . Per questo motivo, quando tali fotoni arrivano al filtro polarizzatore V (si veda la Figura 2.1 in
alto a sinistra) vengono tutti assorbiti e il rivelatore non fa mai “click”!
In Figura 2.8 è rappresentato un altro interessante esperimento. Ora i fotoni, inizialmente nello stato1 | + 45◦ i, giungono su un filtro polarizzatore orizzontale: questo, come
ormai il lettore avrà appreso, significa che i fotoni che superano il filtro si trovano nello
stato |Hi. Cosa fa in questo caso il rivelatore? Se eseguissimo l’esperimento inviando sul
filtro un numero molto elevato di fotoni tutti nello stato | + 45◦ i, troveremmo che solo
1
In seguito non parleremo più di fotoni “polarizzati”, ma di fotoni “nello stato”.
2.2 Dalla “luce” ai “fotoni”: dal classico al quantistico
15
Figura 2.8: Esperimento con fotoni singoli. I fotoni nello stato | + 45◦ i giungono ad un filtro polarizzatore H: quelli trasmessi, che si trovano, dunque, nello stato |Hi, e giungono al fotorivelatore
sono il 50% di quelli inviati. La freccia indica la traiettoria dei fotoni.
Figura 2.9: Esperimento con fotoni singoli. I fotoni nello stato | + 45◦ i giungono ad un SFOP:
quelli trasmessi, che si trovano, dunque, nello stato |V i, giungono al fotorivelatore 1 sono il 50%
di quelli inviati; quelli riflessi, che si trovano nello stato |Hi, giungono al fotorivelatore 2 sono
il 50% di quelli inviati La freccia indica la traiettoria dei fotoni. Si noti che i due rivelatori non
scattano mai contemporneamente: ogni fotone è inscindibile.
nel 50% dei casi si avrebbe un “click”, nel restante 50% il filtro assorbirebbe i fotoni ed il
rivelatore, quindi, non rivelerebbe nulla.
Per comprendere meglio le proprietà di un fotone nello stato | + 45◦ i, riconsideriamo
l’esperimento di Figura 2.8 sostituendo al filtro polarizzatore un SFOP e ponendo dopo
di esso due fotorivelatori lungo la due possibili traiettorie (riflessa e trasmessa) seguite
dai fotoni (si veda la Figura 2.9). Analogamente al caso della luce laser, i fotoni che
vengono trasmessi dal SFOP si trovano nello stato |V i, quelli che vengono riflessi nello
stato |Hi. Dall’esperimento si osserva che, in questo caso, scatta sempre almeno uno dei
due rivelatori, ma questi non scattano mai contemporaneamente: un fotone è inscindibile.
Questo risultato si può facilmente descrivere grazie alla meccanica quantistica. Infatti,
grazie alle (1.38) possiamo scrivere:
1
| + 45◦ i = √ (|Hi + |V i).
2
(2.3)
In altre parole lo stato | + 45◦ i è una sovrapposizione degli stati |Hi e |V i.
Esercizio 2.2 Dato un fotone nello stato (2.3), si mostri che le probabilità PH e PV di trovare il
fotone rispettivamente nello stato |Hi e |V i sono uguali a 1/2.
Esercizio 2.3 Si descriva l’esperimeto di Figura 2.9 considerando fotoni nello stato | − 45◦ i, dato
dalla (1.38b), e negli stati di polarizzazione circolari | i e | i, dati dalle (1.41).
16
Capitolo 2: Esperimenti con la luce
Figura 2.10: Esperimento con fotoni singoli. I fotoni nello stato |Hi giungono ad un SFOP(α), ovvero un SFOP che riflette la radiazione polarizzata nella direzione α e trasmette quella polarizzata
nella direzione α⊥ = α − 90◦ . Il fotorivelatore 1 fa click con probabilità Pα⊥ = sin2 α mentre il 2
con probabilità Pα = cos2 α.
La differenza fondamentale tra un fotone nello stato (2.3) e un fascio laser polarizzato a +45◦ risiede nel fatto che mentre il laser è diviso in due fasci di uguale intensità,
uno polarizzato H l’altro V , che due rivelatori posti lungo i due percorsi rivelerebbero
contemporaneamente; il fotone viene rivelato o da un rivelatore oppure dall’altro, ma mai
da entrambi contemporaneamente! Attenzione, però. Questo non significa che il fotone
nello stato | + 45◦ i sia già inizialmente nello stato |Hi oppure nello stato |V i con il 50% di
probabilità, ma tale stato è una vera e propria sovrapposizione, si trova, cioè, nello stato
|Hi e nello stato |V i “nello stesso momento”.
La sovrapposizione di stati quantistici o, meglio, il principio di sovrapposizione, sta
alla base dei fenomeni di interferenza quantistica, che esula dall’argomento di queste
lezioni e quindi non tratteremo, ma che contribuisce a rendere la maccanica quantistica una teoria così peculiare. Come avremo modo di vedere nei prossimi paragrafi,
nella sovrapposizione di stati quantistici risiedono le potenzialità della computazione
quantistica.
SFOP(α)
Nella Figura 2.10 è illustrata l’azione di un SFOP(α), ovvero un SFOP che riflette la
radiazione polarizzata nella direzione α e trasmette quella polarizzata nella direzione
α⊥ = α − 90◦ . Se si invia un fotone nello stato |Hi attraverso il SFOP(α) e si misura
il numero di “click” dei fotorivelatori, si osserverà che il fotorivelatore 1 fa click con
probabilità Pα⊥ = sin2 α mentre il 2 con probabilità Pα = cos2 α, in accordo col fatto che
lo stato |Hi può essere scritto come segue (si vedano le equazioni (1.40)):
|Hi = cos α|αi + sin α|α⊥ i.
(2.4)
Facciamo osservare che uno dei metodi per realizzare in pratica un SFOP(α) è quello di
ruotare un SFOP di un angolo α.
A questo punto è anche possibile verificare che lo stato | + 45◦ i non si trova già all’inizio nello stato |Hi o |V i. Se ciò fosse vero, allora utilizzando per un esperimento
l’apparato di Figura 2.10 con α = +45◦ dovremmo trovare dei click anche nel fotorivelatore 2, che rivela i fotoni nello stato | − 45◦ i. Infatti dalle (1.40) con θ = +45◦ e θ⊥ = −45◦
si ottiene:
1
(2.5a)
|Hi = √ (| + 45◦ i + | − 45◦ i) ,
2
1
|V i = √ (| + 45◦ i − | − 45◦ i) ,
(2.5b)
2
2.3 Sovrapposizione quantistica e interferenza
17
Figura 2.11: Rappresetazione schematica di un esperimento di interferenza con elettroni (a sinistra) e proiettili classici (destra). Nello schema a sinistra gli elettroni sono inviati su di uno
schermo in cui sono praticate due fenditure. Al di là di questo schermo è posta una lastra fotografica su cui compare un puntino per ogni elettrone che la raggiunge. Dopo aver inviato un
gran numero di elettroni, sulla lastra fotografica si osserva una figura di interferenza con bande
chiare, dove arrivano degli elettroni, e scure, dove non ne arrivano, del tutto analoga a quella che
si ottiene con le onde. Nello schema a destra lo stesso esperimento è ripetuto usando proiettili
classici al posto degli elettroni: sullo schermo si osservano dei buchi distribuiti in modo più o
meno uniforme. (Le grandezze non sono in scala.)
da cui si ricava che un fotone nello stato |Hi o |V i ha probabilità 1/2 di essere trovato
nello stato | − 45◦ i. In realtà, dal momento che lo stato iniziale è | + 45◦ i, nel nostro
esperimento il fotorivelatore 2 non scatterà mai e, quindi, possiamo concludere che il
fotone si trova in uno stato di sovrapposizione.
2.3 Sovrapposizione quantistica e interferenza
La sovrapposizione di stati è alla base di uno degli aspetti più peculiari della meccanica
quantistica in cui, per dirla con le parole di R. Feynman, “risiede il cuore della mecccanica quantistica”: l’interferenza quantistica. Per illustrare questo effetto considereremo
una versione quantistica del noto esperimento delle due fenditure. Nell’ottica classica,
ovvero nel caso in cui si considera la luce come un’onda che propaga (come fosse un’onda sulla superficie di uno stagno), quando un fascio di luce giunge su uno schermo dove
sono state praticate due piccole fenditure al di là di esso si osserva il comparire di una
successione di bande (dette frange) chiare, in cui vi arriva la luce, e scure, in cui non vi
arriva: questo è un fenomeno di interferenza. Nella versione quantistica di questo esperimento, rappresentato in Figura 2.11, delle particelle, che assumeremo essere elettroni, ma
ciò vale per atomi, fotoni ed anche per molecole, vengono inviate attraverso le due fenditure (a) e (b) in figura. Al di là delle fenditure viene posta una lastra fotografica su cui
compare un puntino chiaro per ogni elettrone che vi giunge. L’esperimeno è eseguito in
modo tale da essere sicuri che un solo elettrone alla volta giunga alle fenditure. Come si
può osservare dalla Figura 2.11 (a sinistra), sulla lastra ci sono regioni in cui arrivano gli
elettroni ed altre in cui non vi arrivano affatto, in analogia alle bande chiare e scure nell’esperimento di ottica. Questo esperimento viene descritto dalla meccanica quantistica
Nella
sovrapposizione
risiede il cuore
della meccanica
quantistica
18
Capitolo 2: Esperimenti con la luce
Figura 2.12: Comparsa della figura di interferenza di elettroni che attraversano due fenditure. In questo esperimento singoli elettroni sono inviati attraverso due fenditure e,
quindi, rilevati su uno schermo fluorescente (puntini bianchi). Man mano che il numero di elettroni rivelati aumenta compare una figura di interferenza. (Tratto dal sito web
http://www.bo.imm.cnr.it/)
associando a ciascun elettrone al di là delle fenditure lo stato seguente:
1
|Ψi = √ (|ψa i + |ψb i) ,
2
(2.6)
dove con |ψa i e |ψb i abbiamo indicato lo stato di un elettrone che è passato rispettivamente dalla fenditura (a) o (b). L’equazione (2.6) indica che il passaggio di un elettrone
da una fenditura non esclude il passaggio dell’altra! Se ciò non fosse vero e l’elettrone
passasse o da una o dall’altra fenditura, allora sulla lastra fotografica osserveremmo una
distribuzione più o meno uniforme di punti, come si vede nella Figura 2.11 (a destra).
Nella Figura 2.12 è raffigurata una sequenza di immagini di un esperimento reale di interferenza con elettroni, dove si osserva il comparire delle frange di interferenza man
mano che il numero di elettroni aumenta.
Per approfondire ulteriormente questo aspetto della meccanica quantistica, dovremmo far uso di strumenti matematici che vanno ben oltre lo scopo di queste lezioni. Per
questa ragione rimandiamo il lettore interessato alla bibliografia finale.
Da ricordare:
☞ Un fascio di luce inviato su di un SFOP(α) viene diviso in due parti: una,
polarizzata nella direzione α, viene riflessa, l’altra, polarizzata nella direzione α⊥ = α − 90◦ , viene trasmessa. La legge di Malus permette di calcolare
l’intensità della luce trasmessa e riflessa data quella incidente.
☞ Un fotone non può essere diviso in unità più piccole. Questo si può verificare
ponendo due rivelatori di singoli fotoni dopo un SFOP(α): quando un solo fotone è inviato sul SFOP(α) si osserva che solamente uno dei due rivelatori scatta
rivelando il fotone.
☞ Le probabilità con cui scattano i due rivelatori posti dopo il SFOP(α) si ricavano
applicando le leggi della meccanica quantistica.
☞ Il principio di sovrapposizione è alla base dei fenomeni di interferenza
quantistica.
Capitolo
3
La via di Einstein al fotone
3.1 Richiami di termodinamica e meccanica statistica
Se indichiamo con ∆U la variazione di energia interna di un gas perfetto che durante una
trasformazione compie un lavoro L e scambia una quantità di calore Q, il primo principio
della termodinamica può essere scritto come segue:
Q = ∆U + L.
(3.1)
Per una trasformazione infinitesima, in cui la variazione di energia interna è dU , lavoro
compiuto è dL e il calore scambiato è δQ, la (3.1) si scrive nella seguente forma differenziale:
δQ = dU + dL.
(3.2)
Consideriamo, ora, un gas che sottoposto ad una trasformazione isoterma, cioè una
variazione dello suo stato fisico, durante la quale la temperatura rimane costante. Dal
momento che l’energia interna U del gas perfetto dipende solo dalla sua temperatura T ,
cioè U = U (T ), in una trasformazione isoterma si ha ∆U = 0 ed il primo principio della
termodinamica (3.1) diventa:
Q = L,
(3.3)
ovvero il calore scambiato corrisponde al lavoro compiuto. Se il gas compie una trasformazione isoterma passando da uno stato A ad uno stato B, in cui il sistema passa dal
volume iniziale VA al volume finale VB , il lavoro L compiuto dal gas è dato da:
Z B
Z VB
VB
dV
= nRT ln
,
(3.4)
L=
P dV = nRT
V
VA
A
VA
dove abbiamo usato l’equazione di stato dei gas perfetti:
P V = nRT,
(3.5)
essendo P la pressione del gas, V il volume occupato, n il numero di moli, T la sua
temperatura e R è la costante universale dei gas (R = 8.31 J K−1 mol−1 ). Inoltre la
variazione di entropia ∆S durante questa trasformazione (isoterma) è data da:
∆S =
L
VB
∆Q
= = nR ln
,
T
T
VA
19
(3.6)
20
Capitolo 3: La via di Einstein al fotone
Figura 3.1: Espansione libera di un gas. All’apertura della valvola il gas a bassa pressione inizialmente contenuto nel volume V1 si espande liberamente fino ad occupare tutto il volume V1 + V2 .
Questa esperienza è stata realizzata da Joule per mostrare che l’energia interna di un gas perfetto
dipende dalla temperatura e non dal volume.
dove ∆Q indica il calore scambiato ed abbiamo usato (3.3).
In seguito sarà utile la seguente definizione per la variazione di entropia associata ad
una trasformazione (qualsiasi) infinitesima:
dS =
δQ
,
T
(3.7)
cioè la variazione dS è uguale al rapporto tra la quantità infinitesima di calore scambiato,
δQ, e la temperatura a cui viene scambiato T . La (3.7) è la forma differenziale della variazione di entropia, che può essere utilizzata per calcolare ∆S associata alla trasformazione
isoterma descritta sopra:
Z VB
Z B
Z B
nRT dV
VB
δQ
=
= nR ln
,
(3.8)
dS =
∆S =
VT
VA
VA
A T
A
dove si è usato δQ = P dV con dL = P dV e P si ricava dall’equazione di stato dei gas
perfetti. È immediato vedere che, sempre per una trasformazione isoterma, la forma
differenziale (3.7) dell’entropia diventa:
dS = nR
dV
.
V
(3.9)
La verifica è lasciata al lettore.
Rivolgiamo l’attenzione all’espansione di un gas perfetto (a bassa pressione) composto da N particelle inizialmente contenuto in un contenitore di volume V1 = VA . Questo
contenitore è collegato mediante una valvola ad un secondo contenitore di volume V2 ,
in cui è stato praticato il vuoto (Figura 3.1). Nel momento in cui si apre la valvola, il
gas si espande liberamente occupando tutto il disponibile, ovvero VB = V1 + V2 . Questa espansione (libera) avviene adiabaticamente ed in modo tale che la temperatura dello
stato finale e di quello iniziale siano la stessa, come è stato mostrato sperimentalmente
da Joule. Dal momento che l’entropia è una funzione di stato, possiamo calcolare la variazione di entropia di questa trasformazione adiabatica scegliendo una trasformazione
isoterma che conduca dallo stato iniziale a quello finale. Questa è data dalla (3.6), che
può essere scritta anche come:
∆S = nR ln
VA
VA
= N kB ln
,
VB
VB
(3.10)
21
3.1 Richiami di termodinamica e meccanica statistica
dove si è utilizzato il fatto che R = NA kB , dove NA = 6.022 1023 mol−1 è il numero di
Avogadro e kB = 1.381 10−23 J K−1 è la costante di Boltzmann, e che nNA = N .
Calcoleremo, ora, la variazione di entropia utilizzando la definizione di entropia data
da Boltzmann. Questa afferma che l’entropia di un sistema di N particelle che si trova in
un determinato stato è data da:
(entropia di Boltzmann),
S = kB ln PN
(3.11)
dove PN indica la probabilità che le N particelle si trovino nello stato considerato. Nel
nostro caso, dopo avere aperto la valvola, la probabilità P che una singola particella di
gas si trovi nel volume di partenza V1 può essere scritta come:
P=
VA
V1
=
.
V1 + V2
VB
(3.12)
(i)
Come conseguenza, la probabilità iniziale PN che le N particelle del gas si trovino tutte
in V1 è data dal prodotto di N volte P, cioè:
(i)
PN
=P
· · · P} =
| P{z
N −volte
VA
VB
N
.
(3.13)
Questo significa che l’entropia di Boltzmann dello stato iniziale (tutto il gas nel contenitore 1) è:
N
VA
VA
= N kB ln
.
(3.14)
Si = kB ln
VB
VB
Dal momento che, una volta aperta la valvola, lo stato finale di equilibrio è quello più
(f )
probabile, possiamo considerare che la probabilità PN che le N particelle si trovino nello
stato finale sia molto vicina a 1; l’entropia finale corrispondente è:
(f )
Sf = kB ln PN = 0.
(3.15)
La variazione di entropia fra lo stato iniziale e quello finale è quindi:
∆S = Sf − Si = −N kB ln
VA
VB
. = N kB ln
,
VB
VA
(3.16)
che è uguale, come deve essere, alla (3.10). Se al posto di una variazione macroscopica
consideriamo una variazione infinitesima di volume, assumiamo, cioè, che il gas passi dal
volume VA = V al volume VB = VV + dV , allora la (3.10) può essere scritta nel modo
seguente:
dV
V + dV
= N kB ln 1 +
dS = N kB ln
(3.17)
V
V
dV
,
(3.18)
= N kB
V
dove dS indica la variazione infinitesima di entropia e abbiamo utilizzato l’espansione
ln(1 + x) = x valida quando x ≪ 1. Si noti che, mutatis mutandis, la (3.18) è uguale alla
(3.9).
22
Capitolo 3: La via di Einstein al fotone
3.2 Dal gas di particelle al gas di fotoni (didattico)
In questo paragrafo presentiamo una versione molto semplificata del lavoro di Einstein
del 1905, che ha condotto al fotone1 .
Supponiamo ora che il nostro contenitore sia un contenitore metallico riempito di onde
elettromagnetiche. In particolare, le onde prima riempiono il volume V1 e poi vengono
lasciate espandere, a temperatura costante, fino ad occupare il volume V1 + V2 . Vogliamo
determinare la variazione di entropia in questo processo. Consideriamo allora un ipotetico processo reversibile, che provochi una espansione del volume di dV . La variazione
di entropia è data dalla (3.7), dove, in questo caso:
δQ = dE + P dV,
(3.19)
E è l’energia interna della radiazione elettromagnetica, ovvero l’analogo dell’energia interna U di un gas ideale, e P è la pressione di radiazione esercitata dalle onde elettromagnetiche sulle pareti del contenitore. Analogamente a quello che accade per un gas perfetto,
gli esperimenti sulla radiazione di corpo nero dimostrano che l’energia interna E dipende
solo dalla temperatura T , e non dal volume V . Come conseguenza si ha dE = 0 per una
trasformazione isoterma e, quindi, la variazione infinitesima di entropia è:
dS =
P dV
.
T
(3.20)
Nel caso del sistema considerato P si scrive come segue (per i calcoli dettagliati si rimanda il lettore al pargrafo 3.2.1.):
E
(3.21)
P = ,
V
da cui:
dS =
E dV
.
T V
(3.22)
L’energia E dipende dallo spettro della radiazione elettromagnetica presente all’interno del nostro contenitore. Segue che un calcolo preciso e rigoroso della variazione di
entropia richiede di considerare lo spettro della radiazione, ovvero come sono distribuite le diverse lunghezze d’onda o frequenze, come ha fatto Einstein nel suo lavoro del
1905. D’altra parte, dal momento che il nostro sistema è un contenitore metallico in equilibrio termodinamico alla temperatura T , la distribuzione spettrale corrisponde a quella
di un corpo nero alla stessa temperatura e, come tale, ha un picco di emissione e, quindi,
un massimo di energia, in corrispondenza di una determinata lunghezza d’onda λmax .
Per questa ragione semplificheremo la nostra trattazione assumendo che nella cavità sia
presente la sola lunghezza d’onda λmax .
La legge dello spostamento di Wien mette in relazione la λmax con la temperatura ed
afferma che esiste una proporzionalità inversa tra la lunghezza d’onda per il quale si ha
il picco e la temperatura, ovvero:
λmax =
b
,
T
(legge dello spostamento di Wien)
(3.23)
1
Si veda anche: G. Margaritondo, A historically correct didactic first step in the quantum world: stressing the
interplay of relativity, thermodynamics and quantum physics, Eur. J. Phys. 24, 15–19 (2003).
23
3.2 Dal gas di particelle al gas di fotoni (didattico)
dove b = 2.898 10−3 m K è la costante dello spostamento di Wien. La frequenza corrispondente è:
c
(3.24)
νmax = T,
b
dove si è ricordato che νmax = c/λmax . Da questo punto in poi porremo ν = νmax . Grazie
alla (3.24), la (3.22) diventa.
c E dV
ν V
kB E dV
=
.
hν V
dS =
(3.25)
(3.26)
dove abbiamo posto:
kB b
= 1.339 10−34 J s.
(3.27)
c
Il paragone fra le due equazioni (3.26) e (3.18) per la variazione di entropia guidò Einstein
all’ipotesi del fotone. Infatti la variazione dell’entropia per le onde elettromagnetiche è
formalmente identica a quella di un gas ideale, se si assume che la quantità:
h=
E
hν
(3.28)
sia il corrispettivo del numero di particelle di un gas di fotoni e, di conseguenza, che:
ε = hν
(3.29)
sia l’energia di una particella di radiazione luminosa. È importante osservare che il valore di h dato dalla (3.27) non corrisponde esattamente a quello della costante di Planck
h = 6.626 10−34 J s, sebbene l’ordine di grandezza sia lo stesso. Questo è essenzialmente
dovuto all’approssimazione che abbiamo fatto sostituendo alla distribuzione delle lunghezze d’onda, la lunghezza d’onda della radiazione per cui si ha il massimo di densità
di energia.
Concludiamo questo paragrafo con una considerazione finale sulla legge dello spostamento di Wien, che si inquadrava, appunto, nelle ricerche di Wien, ai cui risultati
Einstein prestava particolare attenzione. Nell’articolo originale del 1905, Einstein scrisse:
«a livello termodinamico, una radiazione monocromatica di piccola densità (all’interno del dominio di validità della formula della radiazione di Wien) si comporta come
se consistesse di quanti di energia fra loro indipendenti di grandezza hν/kB T . »2
Aveva quindi particolarmente presente il dominio delle alte frequenze e delle basse temperature: hν > kB T . Questa, in sostanza, era la base della sua assimilazione fra la legge
di Wien per la densità di energia dello spettro della radiazione del corpo nero, e le leggi
dei gas perfetti, valide per gas a bassa densità. Un paragone del genere, così rischioso e
temerario, denotava, secondo Abraham Pais, «una vena di follia di tipo particolare». . .
Passò quindi ad applicare a questa situazione di bassa densità di energia considerazioni
statistiche alla Boltzmann, che, nel caso particolare da lui trattato, risultano valide. Oggi
2
A. Einstein, Ann. Physik 17, 132 (1905). Per consultare la traduzione italiana del lavoro originale si veda:
A. Einstein, Su un punto di vista euristico relativo alla produzione e trasformazione della luce, in L’anno memorabile
di Enstein, i cinque scritti che hanno rivoluzionato la fisica del Novecento, a cura di J. Stachel, Edizioni Dedalo
(2001).
24
Capitolo 3: La via di Einstein al fotone
Figura 3.2: Un’onda elettromagnetica incide su di una superficie A per un tempo dt: in questo tempo l’onda percorre una lunghezza dl = c dt, per cui il volume infinitesimo attraversato
dall’onda è dV = A dl = A c dt.
sappiamo che la vera statistica dei fotoni non è la statistica classica di Boltzmann, ma la
statistica quantistica di Bose-Einstein, sviluppata negli anni Venti del secolo scorso. D’altra parte, nell’approssimazione scelta da Einstein, è valida la statistca di Boltzmann come
limite di quella di Bose-Einstein.
3.2.1 Appendice – Calcolo della pressione di radiazione
Per calcolare l’espressione (3.21) della pressione di radiazione delle onde elettromagnetiche in un contenitore metallico in condizioni di equilibrio, ragioniamo come segue. La
pressione di radiazione è data, come al solito, da:
P =
dove
1 dp
F
=
,
A
A dt
(3.30)
dp
dt
indica la forza esercitata perpendicolarmente sulla superficie A dall’onda elettromagnetica e p è la quantità di moto trasportata (perpendicolarmente) dall’onda stessa:
F =
p=
E
,
c
(3.31)
dove c è la velocità della luce. In regime stazionario possiamo assumere che, statisticamente, il numero delle onde elettromagnetiche incidenti sulla superficie A sia uguale al
numero di onde riflesse. Per questo motivo, se indichiamo con E = E/V la densità di
energia all’interno del contenitore di volume V , allora la densità di energia delle onde
incidenti su A sarà E /2.
La quantità di moto infinitesima dp trasferita alla superficie A da un’onda incidente
nell’intervallo di tempo dt è data da3 :
dpinc =
1E
1EAc
EA
dE
=
dV =
dt =
dt
c
c2
c 2
2
(3.32)
dove il significato di dV = A c dt è illustrato in Figura 3.2. D’altra parte anche l’onda
riflessa dalla superficie le trasferisce la quantità di moto infinitesima dprif = dpinc (nella
3
Dal momento che abbiamo assunto un contenitore metallico, l’urto tra l’onda elettromagnetica e la
superficie è elastico.
3.3 Dal gas di particelle al gas di fotoni (avanzato)
25
stessa direzione e verso), così che alla fine la quantità di moto infinitesima totale trasferita
risulta essere4 :
dp = dprif + dpinc = E A dt,
(3.33)
e, sostituendo in (3.30), si ha:
P =E =
E
.
V
(3.34)
3.3 Dal gas di particelle al gas di fotoni (avanzato)
La trattazione generale fatta da Einstein nel suo lavoro del 1905, che ci apprestiamo ad
illustrare, tiene conto di come sono distribuite le frequenze della radiazione all’interno
del contenitore metallico (corpo nero) considerato nel paragrafo precedente.
Innanzitutto assumiamo che della radiazione elettromagnetica a diverse frequenze
sia contenuta in un corpo nero di volume V . Definiamo la densità di entropia φ(ρ, ν), che è
una funzione della densità di energia ρ = ρ(ν, T ) e che indica l’entropia della radiazione
per unità di volume nell’intervallo di frequenze comprese fra ν e ν + dν. Si noti che ρ è
una funzione della frequenza ν e della temperatura T . In questo modo, l’entropia della
radiazione in un volume V per l’intervallo di frequenze che va da ν a ν + dν è:
S = V φ(ρ, ν) dν.
(3.35)
Se, ora, aumentiamo la temperatura del corpo nero di dT , allora la corrispondente
variazione di entropia dS è data da:
∂φ
dS =
∂ρ
Z
ν=∞
| ν=0
∂φ
δQ,
dρ(ν, T ) dν =
∂ρ
{z
}
(3.36)
δQ
dove δQ indica il calore necessario per variare la temperatura e si è utilizzato il fatto che
la derivata parziale di φ(ρ, T ) fatta rispetto a ρ(ν, T ) non dipende da ν. D’altra parte
utilizzando la definizione di entropia (3.7) si ha:
1
∂φ
= .
∂ρ
T
(3.37)
Per calcolare esplicitamente φ(ρ, ν) occorre, a questo punto, introdurre un’espressione
per ρ(ν, T ). Einstein assume la seguente legge, postulata da W. Wien per il corpo nero:
ρ(ν, T ) = α ν 3 e−βν/T ,
(legge di Wien)
(3.38)
dove α = 6.10 10−58 J s4 m−3 e β = 4.866 10−11 K s, che sono i valori che si leggono nel
lavoro di Einstein. Come sottolinea lo stesso Einstein la (3.38)
«non è esattamente valida. Tuttavia ha ricevuto buone conferme sperimentali per
valori grandi di ν/T . Baseremo la nostra analisi su questa formula, tenendo in mente
che che i nostri risultati sono validi solo entro certi limiti.»
4
Si noti l’analogia con il caso classico di un corpo che urta elasticamente una parete.
26
Capitolo 3: La via di Einstein al fotone
Risolvendo la (3.38) rispetto a 1/T si ottiene:
1
1
ρ(ν, T )
=−
ln
,
T
βν
αν 3
(3.39)
1
ρ(ν, T )
∂φ
=−
ln
,
∂ρ
βν
αν 3
(3.40)
e, sostituendo nella (3.37), si ha:
da cui si ricava5 :
ρ(ν, T )
φ(ρ, ν) = −
βν
ρ(ν, T )
−1 .
ln
αν 3
(3.41)
A questo punto possiamo calcolare l’entropia S della radiazione contenuta in un volume V con frequenze nell’intervallo di frequenze ν e ν +dν e di energia E = V ρ(ν, T ) dν:
(3.42)
S = V φ(ρ, ν) dν
V ρ(ν, T ) dν
V ρ(ν, T ) dν
=−
ln
−1
βν
V αν 3 dν
E
E
−
1
.
ln
=−
βν
V αν 3
(3.43)
(3.44)
Se focalizziamo la nostra attenzione sullo studio della dipendenza dell’entropia dal
solo volume occupato ed indichiamo con Si l’entropia della radiazione in un volume
iniziale VA e con Sf quella in un volume finale Vb raggiunto con una trasformazione
isoterma, si ottiene:
VB
E
ln
,
(3.45)
∆S = Sf − Si =
βν
VA
che indica la variazione di entropia per una radiazione monocromatica di densità sufficientemente bassa, questo perché la legge di Wien vale per βν ≫ 1.
L’equazione (3.45) è formalmente simile alla (3.16), che indica la variazione di entropia
per un gas perfetto. Le due equazioni vengono a coincidere se si pone:
E
= N kB ,
βν
(3.46)
ovvero se si assume che nell’intervallo di frequenze tra ν e ν + dν l’energia è suddivisa in
N quanti ciascuno di grandezza:
ε = βkB ν.
(3.47)
5
Riscrivendo la (3.40) come segue:
∂φ = −
e ricordando che:
Z
ρ
1
ln
∂ρ,
βν
αν 3
ln(ax) dx = x[ln(ax) − 1],
si ottiene la (3.41). Si è posta la costante di integrazione uguale a zero poiché deve essere:
˛
˛Z
˛
˛
˛ φ(ρ, ν) dx˛ < ∞.
˛
˛
3.4 Dilemmi sul campo elettromagnetico
27
Infine, sostituendo il valore di β, si ottiene:
βkB = 6.720 10−34 J s,
(3.48)
in buon accordo6 con il valore corrente della costante di Planck h = 6.626 10−34 J s.
Concludiamo questo paragrafo riportando le parole di Einstein:
«[. . .] una radiazione monocromatica di bassa densità (entro i limiti di validità della
formula di Wien per la radiazione) si comporta, dal punto di vista termodinamico,
come se consistesse di un numero di quanti di energia indipendenti [. . .].»
Qui emerge l’idea del lavoro, cioè l’ipotesi che un sistema di onde elettromagnetiche
stazionarie si comporti come un gas perfetto. Dal momento che un gas è perfetto solo a basse densità, Einstein, per analogia, considera il caso di basse densità di energia
elettromagnetica, ben rappresentata dalla formula di Wien (3.38).
3.4 Dilemmi sul campo elettromagnetico
Einstein non considerò il suo ragionamento una pura astrazione matematica, ma lo ritenne una conseguenza della vera natura quantistica della luce. Questo succedeva quando
la comunità dei fisici aveva ormai completato l’assimilazione della teoria elettromagnetica della luce formulata da Maxwell decenni prima e quando la verifica di Hertz della
teoria di Maxwell sembrava avere risolto definitivamente la secolare diatriba sulla natura
ondulatoria o corpuscolare della luce. Nel paragrafo iniziale del suo lavoro sull’effetto
fotoelettrico, Einstein delinea chiaramente la via al fotone:
«Fra i concetti teorici che i fisici si sono formati dei gas e di altri corpi ponderabili, e la teoria di Maxwell dei processi elettromagnetici nel cosiddetto spazio vuoto,
esiste una profonda differenza formale. Mentre consideriamo lo stato di un corpo
completamente determinato dalle posizioni e dalle velocità di un numero finito, benché grandissimo, di atomi ed elettroni, per determinare lo stato elettromagnetico di
un volume di spazio, utilizziamo funzioni spaziali continue, cosicché un numero finito di grandezze non può essere considerato sufficiente per definire in modo compiuto
tale stato. Secondo la teoria di Maxwell, in tutti i fenomeni puramente elettromagnetici, quindi anche nel caso della luce, l’energia deve essere considerata una funzione
spaziale continua, mentre, secondo l’attuale concezione dei fisici, l’energia di un corpo ponderabile dovrebbe essere rappresentata da una somma estesa agli atomi e agli
elettroni. L’energia di un corpo ponderabile non può essere suddivisa in parti arbitrariamente numerose e arbitrariamente piccole, ma secondo la teoria di Maxwell
(o, più in generale, secondo ogni teoria ondulatoria) l’energia di un raggio luminoso
emesso da una sorgente puntiforme si distribuisce in modo continuo su un volume
sempre più grande.
La teoria ondulatoria della luce, che fa uso di funzioni spaziali continue, si è
dimostrata eccellente per la descrizione dei fenomeni puramente ottici e non sarà
probabilmente mai sostituita da un’altra teoria. Si dovrebbe tener presente, tuttavia,
che le osservazioni ottiche si riferiscono a valori medi temporali e non a valori istantanei; e a dispetto della piena conferma sperimentale della teoria della diffrazione,
della riflessione, della rifrazione, della dispersione e così via, è concepibile che la teoria della luce, fondata su funzioni spaziali continue, porti a contraddizioni qualora
venga applicata ai fenomeni di emissione e trasformazione della luce.
6
La leggera differenza risiede nel valore di β che, ai giorni nostri, corrisponde a 4.780 10−11 K s, che porta
al valore esatto di h.
28
Capitolo 3: La via di Einstein al fotone
In realtà, a me sembra che le osservazioni sulla “radiazione di corpo nero”, la
fotoluminescenza, la generazione dei raggi catodici tramite luce ultravioletta, e altri
fenomeni associati all’emissione o alla trasformazione della luce appaiano più comprensibili assumendo una distribuzione spaziale discontinua dell’energia luminosa.
Secondo l’ipotesi qui considerata, quando un raggio luminoso si propaga partendo
da una sorgente puntiforme, l’energia non si distribuisce con continuità su volumi
di spazio via via crescenti, bensì consiste in un numero finito di quanti di energia,
localizzati in punti dello spazio, che si muovono senza dividersi e possono essere
assorbiti o generati solo come unità intere.»7
Una volta arrivato all’ipotesi del fotone, Einstein passò subito a utilizzarla per predire
le proprietà dell’effetto fotoelettrico: per predirle e non per spiegarle, perché all’epoca, cioè
nel 1905, si avevano conoscenze molto nebulose sul fenomeno. Si sapeva che c’era una
relazione fra l’energia degli elettroni emessi da una superficie irradiata e la frequenza
della radiazione incidente. Ma non si aveva nessuna idea sul carattere di questa relazione,
se cioè fosse lineare o meno.
La situazione è stata inquadrata da Fermi in un lavoro del 1926 pubblicato sulla rivista Il nuovo cimento dal titolo Argomenti pro e contro la ipotesi dei quanti di luce8 , di cui
riportiamo ampi stralci qui di seguito.
«Vi fu un periodo di tempo, dopo la scoperta di Maxwell della teoria elettromagnetica della luce, in cui si credette definitivamente risolto il problema della struttura
della luce, che si interpretava come un fenomeno ondulatorio consistente nella propagazione di vettori elettrici e magnetici, corrispondenti allo spostamento dell’etere
della teoria di Fresnel. Negli ultimi venticinque anni però lo studio accurato degli
scambi energetici tra radiazione e materia ha condotto alla scoperta di un gruppo di
fenomeni, il cui numero e la cui importanza sono andati fino ad oggi sempre crescendo, la cui esistenza appare difficilmente conciliabile con la struttura continua della
luce; tanto da indurre alcuni scienziati, e primo tra di essi Einstein, a contrapporre
alla teoria ondulatoria una teoria di tipo corpuscolare, la così detta teoria dei quanti
di luce, rinnovando così, con le modificazioni corrispondenti ai tempi mutati, l’antica
questione sulla struttura della luce, già dibattuta tra Newton e Huyghens.»
Dopo aver inquadrato brevemente l’emissione e l’assorbimento di radiazione da parte di atomi e molecole, Fermi passa all’effetto fotoelettrico ed alla descrizione data da
Einstein per arrivare alla seguente conclusione:
«I fenomeni dell’effetto fotoelettrico sembrano suggerire spontaneamente l’ipotesi dei quanti di luce. Secondo questa ipotesi la luce è costituita di corpuscoli propagantisi, nel vuoto, con la velocità della luce, i quali hanno un contenuto di energia
proporzionale alla frequenza, ed espresso precisamente da
ε = hν.
(3.49)
Ci si rende anora conto del come avviene che tutte le volte che viene assorbita
della luce, la energia assorbita sia data da w = hν −w0 (dove w0 rappresenta l’energia
necessaria per estrarre un elettrone dal metallo, così che l’energia totale comunicata
7
A. Einstein, Su un punto di vista euristico relativo alla produzione e trasformazione della luce, in L’anno memorabile di Enstein, i cinque scritti che hanno rivoluzionato la fisica del Novecento, a cura di J. Stachel, Edizioni
Dedalo (2001).
8
E. Fermi, Nuovo Cimento 3, R47–R54 (1926).
29
3.4 Dilemmi sul campo elettromagnetico
all’elettrone dalla luce risulta appunto eguale, conformemente alla legge di Einstein,
a w+w0 = hν) e si capisce anche come questa energia debba essere indipendente dalla
intensità. Infatti la differenza tra una luce intensa e una luce debole consiste solo nel
fatto che i quanti della prima sono più fitti di quelli della seconda, ma quando un
atomo viene colpito da un quanto esso assorbe in ogni caso tutta la sua energia.»
Il brano seguente, invece, rivolge l’attenzione alla quantità di moto (momento) associato al quanto di luce ed alle sue conseguenze:
«Come al quanto di luce si attribuisce una energia, data da (3.49), così gli si deve
anche attribuire una quantità di moto. Per trovarne il valore ricordiamo il risultato,
confermato dalla esistenza della pressione di radiazione, che ad una propagazione di
energia luminosa W è legata la quantità di moto elettromagnetica W/c; ad un quanto
di energia hν dovremo dunque attribuire anche la quantità di moto
q=
hν
.
c
(3.50)
Naturalmente, come contro la teoria ondulatoria si ha l’obbiezione che essa non
spiega l’effetto fotoelettrico, così contro la teoria dei quanti di luce, come contro tutte
le teorie corpuscolari, si può obbiettare che esse non spiegano i fenomeni interferenziali.
È caratteristico, a questo proposito, osservare come l’attribuire al quanto la quantità di moto (3.50) riesca tuttavia a rendere conto di certe particolarità che, a prima
vista, apparirebbero potersi soltanto interpretare per mezzo del meccanismo ondulatorio. A titolo di esempio possiamo mostrare come la teoria dei quanti di luce possa
rendere conto dell’effetto Doeppler.
Ricordiamo perciò che, secondo la teoria dei quanti, l’emissione della luce da
parte di un atomo è legata al salto dell’atomo tra due orbite di energia differente, e
che la frequenza di emissione si calcola dividendo per h la differenza delle energie.
Consideriamo allora un atomo A che abbia due orbite quantistiche le cui energie
siano risp. 0 e w. La frequenza emessa dall’atomo fermo, corrispondente al salto tra
queste due orbite, sarà
w
ν0 = .
(3.51)
h
Supponiamo ora (Fig. 1) che l’atomo, prima di emettere, quando cioè si trova
nello stato di energia interna w, si muova con velocità V .
Fig. 1
La sua energia sarà la somma dell’energia cinetica e di quella interna, cioe verrà
data da
1
mV 2 + w.
(3.52)
2
30
Capitolo 3: La via di Einstein al fotone
Supponiamo ora che, ad un certo istante, l’atomo salti dallo stato di energia interna w allo stato di energia interna 0, emettendo un quanto di frequenza ν in una
direzione formante l’angolo θ con V . Per il principio della conservazione della quantità di moto, l’atomo dovrà subire il rinculo del quanto emesso, per modo che la sua
velocità verrà ad essere variata, e diventera V ′ . Indichiamo con v la differenza (vettoriale) tra V ′ e V . Per la conservazione della quantità di moto si dovrà avere, tenendo
presente (3.50)
hν
mv =
.
(3.53)
c
Dopo avvenuta l’emissione, l’energia dell’atomo si riduce alla sola energia cinetica,
cioè, trascurando il quadrato di v e tenendo presente (3.52), a
1
1
mV ′2 = m(V 2 + v 2 − 2V v cos θ) =
2
2
1
hν
1
2
mV − V v cos θ = mV 2 −
V cos θ.
2
2
c
Per il principio della conservazione dell’energia, l’energia del quanto emesso deve essere eguale alla differenza delle energie dell’atomo prima e dopo l’emissione; si
deve cioè avere
1
hν
hν
1
2
2
hν = mV + w −
mV −
V cos θ = w +
V cos θ
2
2
c
c
di qui si ricava, con ovvie semplificazioni, tenendo presente (3.51)
ν=
ν0
1−
V
c
cos θ
.
(3.54)
La formula precedente coincide con quella data dalla teoria ondulatoria dell’effetto Doeppler per il cambiamento di frequenza della luce emessa da una sorgente in
moto. »
Nel 1926 non si era ancora a conoscenza della possibilità di descrivere i fenomeni di
diffrazione ed interferenza con la teoria quantistica, tanto che lo stesso Fermi sottolineava
che:
«[. . .] la teoria dei quanti di luce, costruita appositament per spiegare questa ultima
classe di fenomeni, non riesce a render conto dei fenomeni interferenziali, nemmeno
nei casi più semplici [. . .].»
D’altra parte, utilizzando argomentazioni simili a quelle impiegate sopra per spiegare
l’effetto Doppler con i quanti di luce, alcuni scienziati, tra cui Compton e Duane, erano
riusciti a descrivere la diffrazione ottenuta da un reticolo e questo, per Fermi:
«[. . .] può dare un inizio di una via per una spiegazione quantistica dei fenomeni
interferenziali.»
Ovviamente, così come si tentava di spiegare fenomeni tipicamente ondulatori, quali
la diffrazione e l’interferenza, con una teoria corpuscolare, così si si tentava di interpretare
l’effetto fotoelettrico con la teoria ondulatoria della luce:
«Di questi [tentativi] il più autorevole è quello fatto recentemente da Bohr, Kramers e Slater. Secondo questi autori un atomo, illuminato con luce di frequenza ν
eguale ad una delle sue frequenze caratteristiche, avrebbe una probabilità proporzionale alla intensità della luce di eccitarsi, aumentando la propria energia interna di
3.4 Dilemmi sul campo elettromagnetico
31
hν. Parimenti un atomo che si trovi in uno stato eccitato emetterebbe un sistema di
onde che trasmetterebbe agli atomi circostanti la probabilità di venire alla loro volta
eccitati. Si capisce come, per restare d’accordo coi fatti osservabili, bisogna determinare tali probabilita in modo che resti statisticamente soddisfatto il principio della
conservazione dell’energia; secondo le predette idee di Bohr, Kramers e Slater dunque il principio della conservazione dell’energia non sarebbe valido in ogni singolo
processo atomico, ma lo sarebbe solo in media, sopra un numero molto grande di tali
processi.
Questo punto particolare della teoria è stato negli ultimi tempi assoggettato ad
un controllo sperimentale. Il risultato è stato nettamente contrario alla concezione di
Bohr, Kramers e Slater, ed ha portato alla dimostrazione che i principi della conservazione dell’energia e della quantità di moto conservano il loro valore anche in ogni
singolo processo atomico.
Il processo atomico utilizzato in queste esperienze è la diffusione di raggi X da
parte di elementi leggeri, e precisamente il così detto effetto Compton. [. . . ] Secondo
la teoria dei quanti di luce l’elettrone, inizialmente fermo, viene urtato da un quanto
[della radiazione X], che, in seguito a questo urto, viene deviato dando luogo alla
radiazione diffusa. Per il principio della conservazione della quantità di moto, al
mutamento di direzione del quanto deve corrispondere un impulso trasmesso all’elettrone il quale dunque dovrà mettersi in moto, cosicchè, secondo questa teoria, ad
ogni quanto diffuso deve corrispondere un elettrone di rimbalzo. Siccome inoltre il
quanto perde un po’ della sua energia, che viene ceduta sotto forma di energia cinetica all’elettrone di rimbalzo, si avrà che la frequenza del quanto diffuso dovrà essere
un po’ minore di quella del quanto incidente. È noto come l’esperienza confermi
completamente questa ultima conclusione. Restava da vedere se effettivamente ad
ogni quanto diffuso corrispondesse un elettrone di rimbalzo e se tra la direzione in
cui viena diffuso il quanto e quella in cui è proiettato l’elettrone passasse effettivamente la relazione voluta dalla teoria. I risultati delle esperienze, eseguite da Geiger
e Bothe in Germania, e, in modo ancora assai piu espressivo, da Compton e Simon in
America, [. . .] sono stati a conferma completa della teoria quantistica estrema.»
L’articolo di Fermi del 1926, del quale abbiamo citato ampi brani, è basato sulle conoscenze più avanzate, che si avevano in quegli anni, sull’interazione fra materia e radiazione. In esso Fermi sottolinea ripetutamente la mancanza di unitarietà che si aveva
nella descrizione dei fenomeni ondulatori, da una parte, e, dall’altra, nelle spiegazioni proposte dell’effetto fotoelettrico e Compton, ottenute grazie ad una teoria quantistica
estrema. Mancava dunque un quadro unitario, che rappresenta sempre la meta finale di
ogni ricerca in fisica.
Nell’anno successivo a quello dell’articolo citato di Fermi, e cioè nel 1927, vennero
pubblicati i primi lavori di P. A. M. Dirac sulla teoria quantistica della radiazione. Fermi passò subito a studiarli e a rielaborarne il contenuto. Il risultato dei suoi sforzi si
concretizzò in un lavoro di rassegna del 1932, intitolato Quantum Theory of Radiation9 ,
che costituì un testo di riferimento per più di una generazione di studiosi Americani ed
Europei. Le motivazioni di partenza non costituivano una novità:
«Fino a qualche anno fa era stato impossibile costruire una teoria della radiazione
che poteva tenere conto in modo soddisfacente sia dei fenomeni di interferenza che
di quelli di emissione e assorbimento della luce da parte della materia. Il primo insieme di fenomeni fu interpretato mediante la teoria delle onde, e il secondo insieme
9
E. Fermi, Rev. Mod. Phys. 4, 87 (1932).
32
Capitolo 3: La via di Einstein al fotone
attraverso la teoria dei quanti di luce. Solo nel 1927 Dirac costruì con successo una
teoria della radiazione che poteva spiegare in modo unificato entrambi i fenomeni.»
Il dualismo onda-corpuscolo veniva dunque risolto con l’elettrodinamica quantistica,
cioè con una trattazione quantistica unitaria del campo elettromagnetico e della materia,
in termini di campi quantizzati.
Come detto, nel lavoro di rassegna del 1932, Fermi rielaborò le idee di Dirac con un
approccio tendenzialmente più pedagogico. La base di partenza comune ai due era quella di considerare l’atomo ed il campo elettromagnetico non come due sistemi distinti, ma
come un sistema unico. Qui Fermi fece sfoggio delle sue capacità didattiche, presentando
un esempio che evoca l’immagine di un sistema fisico materiale, dotato di un comportamento analogo a quello dell’insieme costituito dall’atomo e dal campo. Si tratta di un
esempio rimasto celebre, in quanto dà un’idea concreta del tipo di unificazione raggiunto
in una trattazione quantistica completa di materia e radiazione:
«Consideriamo un pendolo, che corrisponde all’atomo, e una corda vibrante in
prossimità del pendolo, che rappresenta il campo di radiazione. Se non vi è alcuna
connessione fra il pendolo e la corda, i due sistemi oscilleranno del tutto indpendentemente l’uno dall’altro; l’energia è in questo caso semplicemente la somma dell’energia del pendolo e di quella della corda, e non vi è un termine dovuto alla mutua
interazione fra i due sistemi. Per ottenere una rappresentazione meccanica di questo
termine, colleghiamo la massa del pendolo a un punto della corda mediante un elastico molto sottile. L’elastico perturba leggermente il moto sia del pendolo che della
corda. Supponiamo, per esempio, che inizialmente la corda vibri mentre il pendolo
sia fermo. Attraverso l’elastico la corda vibrante trasmette al pendolo delle piccolissime sollecitazioni, aventi lo stesso periodo delle proprie oscillazioni. Se i periodi della
corda e del pendolo sono diversi, l’ampiezza delle sue oscillazioni resta piccola; se
però il periodo della corda è uguale a quello del pendolo, l’ampiezza delle oscillazioni del pendolo diviene considerevole. Questo processo corrisponde all’assorbimento
della radiazione da parte di un atomo. Se, al contrario, supponiamo che inizialmente
il pendolo oscilli, e che la corda sia ferma, ha luogo il fenomeno opposto. Le sollecitazioni trasmesse attraverso l’elastico dal pendolo alla corda pongono la corda in
vibrazione; ma solo le frequenze armoniche della corda che sono molto prossime alla
frequenza del pendolo raggiungono una ampiezza considerevole. Questo processo
corrisponde all’emissione di radiazione da parte dell’atomo.»
3.5 Considerazioni finali
Pur avendo ampiamente giustificato e confermato la teoria di Einstein con esperienze diventate classiche, Robert Millikan si rifiutò di attribuire un qualunque valore o significato
fisico all’ipotesi dei fotoni. Sono numerose le prese di posizione di Millikan, fatte dopo
l’esecuzione dei suoi esperimenti, in cui dichiarava insostenibile l’idea delle particelle di
luce, perché del tutto contradditoria rispetto alla spiegazione maxwelliana dei fenomeni
ondulatori, a partire dall’interferenza. Anzi, Millikan si disse convinto che ormai, dopo
tanti anni passati dal 1905, anche Einstein si fosse arreso, nel suo isolamento, ed avesse
abbandonato quell’ipotesi, nonostante proprio Millikan l’avesse confermata in pieno.
Nella sua ricostruzione degli eventi sulla storia del fotone, Fermi cita giustamente il
solo Einstein fra i sostenitori dell’idea. La stragrande maggioranza della comunità dei
3.5 Considerazioni finali
33
fisici era infatti contraria, inclusi i fisici più innovatori, come Planck e Bohr. Fra le citazioni che si possono fare in materia, ve n’è una significativa. Nel 1913, Max Planck e
altri fisici tedeschi importanti proposero Einstein come membro dell’Accademia Prussiana delle Scienze. Presentarono un rapporto sull’attività del candidato, che veniva raccomandato per l’associazione all’Accademia con le più alte lodi, per i brillanti risultati da
lui raggiunti. Il rapporto terminava con le seguenti considerazioni:
«In conclusione, si può dire che non c’è uno dei grandi problemi, dei quali la
fisica moderna è così ricca, al quale Einstein non abbia dato un contributo notevole.
Che qualche volta possa avere mancato il bersaglio nelle sue speculazioni, come,
ad esempio, nella sua ipotesi dei quanti di luce, non può essere tenuto in eccessivo
conto contro di lui, perchè non è possibile introdurre idee realmente nuove, anche
nelle scienze più esatte, senza prendersi a volte qualche rischio.»
La comunità dei fisici si convinse della natura quantistica della radiazione elettromagnetica solo dopo l’effetto Compton del 1923–24. Naturalmente Compton progettò ed
eseguì il suo classico esperimento proprio al fine di dimostrare quanto l’ipotesi del fotone
di Einstein fosse errata ed insostenibile. . .
Secondo A. Pais, un progresso capitale venne dalla contemporanea derivazione da parte di Arthur Compton e Peter Debye, che indipendentemente ricavarono la cinematica
relativistica per la diffusione di un fotone da parte di un elettrone in quiete. Si trattava
di equazioni elementari, basate sulla conservazione dell’energia e della quantità di moto, come quelle presentate nei brani di Fermi riportati sopra, e ci si può chiedere come
mai non fossero state pubblicate cinque o dieci anni prima. Anche gli oppositori della
quantizzazione della radiazione avrebbero dovuto trovare quelle relazioni di loro genio,
perché danno la possibilità di una semplice verifica dell’ipotesi del fotone.
Pais ammette di non avere una risposta convincente a questa domanda. Anzi si chiede
come mai Einstein stesso non avesse preso in considerazione quelle relazioni, dato che
forniscono differenze significative rispetto alle teorie classiche della diffusione della luce
dalla materia10 .
Però, aggiunge Pais, la maggioranza dei fisici considerava i fotoni come qualcosa di
completamente fuori mano. Per cui non si avvertiva la necessità della verifica di una idea
in cui non credeva nessuno.
Peter Debye menzionò, nel suo lavoro, il suo debito nei confronti di Einstein, mentre
Compton non lo citò per niente e concluse il suo lavoro sottolineando che «il supporto
sperimentale della teoria indica, in modo molto convincente, che un quanto di radiazione
trasporta anche quantità di moto direzionale, oltre che energia».
La scoperta di Compton fece sensazione fra i fisici dell’epoca. Sorsero inevitabili controversie, ma l’idea del fotone venne rapidamente accettata. Arnold Sommerfeld incluse
l’effetto Compton nella nuova edizione del suo trattato Atombau und Spektrallinien, considerato la Bibbia della fisica atomica. Secondo Sommerfeld, quella dell’effetto Compton
era «probabilmente la scoperta più importante che si fosse potuto fare nella situazione
corrente della fisica».
Per quanto riguarda la reazione di Einstein, un anno dopo gli esperimenti di Compton
scrisse un articolo divulgativo per il Berliner Tageblatt, che finiva così:
10
Per dei calcoli espliciti su un tentativo di spiegazione classica dell’effetto Compton, contrapposto alla
corretta spiegazione quantistica, si veda: E. Corinaldesi e A. Messina, Introduzione alla meccanica quantistica,
Pitagora Editrice (1980),
34
Capitolo 3: La via di Einstein al fotone
«Il risultato positivo dell’esperimento di Compton dimostra che la radiazione si
comporta come se consistesse di proiettili discreti di energia, non solo in relazione al
trasferimento di energia, ma anche in relazione al trasferimento di quantità di moto.»
L’opposizione di Bohr all’ipotesi del fotone, viene inquadrata dal Pais ricordando la
posizione della maggior parte dei fisici teorici dei primi decenni del secolo. Erano convinti che la descrizione convenzionale continua del campo di radiazione libero dovesse
essere mantenuta ad ogni costo e che gli interrogativi di natura quantistica, riguardanti la radiazione, come quelli sollevati da Einstein, dovessero essere risolti mediante una
revisione del meccanismo dell’interazione fra radiazione e materia, come già aveva fatto
Planck. In altre parole non andavano modificate le equazioni di Maxwell del campo elettromagnetico nel vuoto, come proponeva Einstein nel 1905. Andavano solo modificate le
proprietà dell’interazione fra il campo elettromagnetico libero e gli eventuali oscillatori
nella materia.
Su questa linea si poneva il lavoro, brevemente discusso nell’articolo di Fermi, detto BKS, dalle iniziali degli autori Bohr-Kramers-Slater. Più che un resoconto dettagliato
di ricerca, il lavoro BKS era un programma, una dichiarazione di intenti, che non conteneva nessun formalismo. Ebbe però un impatto notevole, in quanto stimolò ricerche
sperimentali importanti, come quelle di Compton e A. W. Simon.
Il punto di partenza era il seguente. Consideriamo un atomo, che emette radiazione
in una transizione da uno stato di alta energia a uno di energia inferiore. BKS assumono
che, in questo processo, l’energia sia di due tipi:
«da un lato vi è l’energia del campo, che varia con continuità. Dall’altra vi è una
energia, quella dell’atomo, che cambia in modo discontinuo.»
Ma come può esserci conservazione dell’energia quando questa consiste di due parti,
una che varia con continuità e l’altra in modo discontinuo? La soluzione di BKS era di
abbandonare una diretta applicazione dei principi di conservazione dell’energia e della
quantità di moto quando si trattava di transizioni fra uno stato e l’altro e si trattava delle
transizioni che stavano alla base della teoria quantistica. In altri termini, la conservazione
dell’energia e della quantità di moto non doveva essere considerata valida per i processi
individuali elementari. I due principi avrebbero dovuto avere solo una validità statistica,
cioè essere il risultato di una media su molti processi.
L’idea della non-conservazione dell’energia era da tempo nella mente di Bohr. Sarebbe riemersa ancora negli anni Trenta, in relazione alla spiegazione del decadimento
beta. Per fare fronte a Bohr, che proponeva la conservazione dell’energia solo in senso
statistico, W. Pauli e Fermi furono costretti a inventare il neutrino, ma questa è un’altra
storia.
Il verdetto sperimentale sulla conservazione dell’energia e della quantità di moto nei
singoli processi individuali elementari, venne dalle esperienze di Compton e Simon e
dalle loro osservazioni alla camera a nebbia sui foto-elettroni. L’ultima resistenza ai fotoni
ebbe fine. Bohr ammise la sconfitta, e nel giugno del 1925 scrisse:
«Si deve essere preparati al fatto che la richiesta generalizzazione della teoria
elettrodinamica classica richiede una profonda rivoluzione nei concetti, sui quali si è
fin qui fondata la descrizione della natura.»
È interessante sottolineare, infine, che Einstein conseguì il Premio Nobel nel 1921 “per
i suoi servizi alla Fisica Teorica , e specialmente per la sua scoperta della legge dell’effetto fotoelettrico”. Quindi Einstein venne premiato grazie agli esperimenti di Millikan,
3.5 Considerazioni finali
35
il quale ottenne a sua volta il Nobel nel 1923, mentre Arthur H. Compton lo conseguì
nel 1927. Einstein non venne premiato per la teoria della relatività, perché all’epoca i
comitati della Fondazione Nobel erano dominati dai chimici: Alfred Nobel stesso era
un chimico, inventore della dinamite, e la sua famiglia aveva vasti interessi industriali
nel campo petrolifero. Quella dei chimici era la corporazione scientifica più potente ed
influente, grazie agli stretti legami con il mondo dell’industria e dei militari. Particolarmente influente era la figura di Svante Arrhenius, Nobel per la chimica del 1903, il quale
incidentalmente fu fra i primissimi studiosi dell’effetto serra. Evidentemente, ai chimici
interessava molto poco una teoria come la relatività speciale, che, negli anni Venti, non
disponeva di conferme sperimentali univoche ed universalmente accettate. La relatività
generale, in quanto teoria della gravitazione, non interessava per nulla.
Il termine “fotone” comparve per la prima volta nel titolo di un lavoro scritto nel 1926:
La Conservazione dei Fotoni. L’autore era un importante fisico-chimico di Berkeley, Gilbert
Newton Lewis, che, di lì a qualche anno, avrebbe scoperto l’acqua pesante. L’argomento
del lavoro riguardava una speculazione secondo la quale la luce consiste «di un nuovo
genere di atomo, [. . .] che non può essere nè creato nè distrutto, e per il quale propongo
il nome di fotone». Lo scopo di Lewis era di ridicolizzare un’idea poco seria con un
nome strano. Le intenzioni di Lewis vennero dimenticate e, nell’Ottobre 1927, si svolse
la quinta conferenza Solvay, che radunava periodicamente i più grossi nomi della fisica,
grazie al finanziamento dell’industria belga. L’argomento era :“Électrons et photons”!
36
Capitolo 3: La via di Einstein al fotone
Capitolo
4
Intreccio (entanglement) quantistico
4.1 Sistemi di due fotoni
Fino a questo momento abbiamo considerato sistemi quantistici formati da una singola
entità fisica, quale un solo atomo o un solo fotone. Supponiamo, ora, di voler descrivere
quantisticamente un sistema di due fotoni, di cui il primo è polarizzato orizzontalmente
il secondo verticalmente. Presi singolarmente, tali fotoni sono descritti dai seguenti stati:
e |V i2 ,
|Hi1
(4.1)
dove i pedici “1” e “2” si riferiscono rispettivamente al fotone “1” e al fotone “2”. Il Stato di due
sistema formato da questi fotoni viene complessivamente descritto dallo stato |Ψi12 (do- fotoni
ve il pedice “12” indica che lo stato si riferisce al sistema “1+2”) ottenuto formalmente
accostando i due ket |Hi1 e |V i2 come segue1:
(4.2)
|Ψi12 = |Hi1 |V i2 .
Esercizio 4.1 Dire qual è la polarizzazione dei due fotoni negli stati seguenti:
|V i1 |V i2 ,
|V i1 |Hi2 ,
|Hi1 |Hi2 .
Dal momento che |Hi1 e |V i1 così come |Hi2 e |V i2 sono tra loro ortonormali, allora
si può dimostrare che lo sono anche i quattro stati
|Hi1 |V i2 ,
|V i1 |V i2 ,
|V i1 |Hi2 ,
questo significa che dato il seguente stato di due fotoni:
|Hi1 |Hi2 ,
|ψi12 = a|Hi1 |V i2 + b|V i1 |V i2 + c|V i1 |Hi2 + d|Hi1 |Hi2 ,
C
(4.3)
con |a|2 + |b|2 + |c|2 + |d|2 = 1 e a, b, c, d ∈ , allora si hanno le seguenti probabilità che,
Probabilità
coinvolgendo due fotoni, vengono chiamate probabilità congiunte:
P (H, V ) = |a|2 ,
P (V, V ) = |b|2 ,
P (V, H) = |c|2 ,
e
P (H, H) = |d|2 ,
(4.4)
dove P (X, Y ) indica la probabilità di trovare il primo fotone con polarizzazione X ed il
secondo con polarizzazione Y .
1
Rigorosamente parlando, il sistema dei due fotoni è descritto dal prodotto tensoriale |Hi1 ⊗ |V i2 degli
stati dei singoli costituenti.
37
congiunte
38
Capitolo 4: Intreccio (entanglement) quantistico
4.2 Stati separabili e stati intrecciati (entangled) di due fotoni
Stato separabile
di due fotoni
Uno stato |Ψi12 di due fotoni è detto separabile se si può riscrivere nel modo seguente:
(4.5)
|Ψi12 = |ψi1 |φi2 ,
dove |ψi1 e |φi2 sono stati che si riferiscono rispettivamente allo stato del fotone 1 e a
quello del fotone 2. Un chiaro esempio di stato separabile è lo stato (4.2). Un esempio più
difficile è il seguente:
1
|Ψi12 = (|Hi1 |Hi2 + |V i1 |Hi2 − |Hi1 |V i2 − |V i1 |V i2 )
2
(4.6)
che può essere riscritto come2 :
1
1
|Ψi12 = √ (|Hi1 + |V i1 ) √ (|Hi2 − |V i2 )
2
2
{z
}|
{z
}
|
|ψi1
|φi2
= |ψi1 |φi2 ,
(4.7)
(4.8)
e, quindi, è separabile!
Esercizio 4.2 Si mostri che gli stati seguenti possono essere riscritti nella forma (4.5) e quindi
sono separabili:
1
(|Hi1 |Hi2 + |Hi1 |V i2 + |Hi1 |V i2 + |V i1 |V i2 ),
2
1
= (|Hi1 |Hi2 − |Hi1 |V i2 − |Hi1 |V i2 + |V i1 |V i2 ),
2
1
= (|Hi1 |Hi2 − |Hi1 |V i2 − |Hi1 |V i2 + |V i1 |V i2 ).
2
|Ψi12 =
|Ψi12
|Ψi12
Stato intrecciato
o entangled di
due fotoni
Quando uno stato di due fotoni non può essere scritto come nell’equazione (4.5) allora
si dice che è intrecciato o, utilizzando il termine inglese corrispondente, entangled. Un
esempio di stato intrecciato è:
1 |Φ+ i12 = √ |Hi1 |Hi2 + |V i1 |V i2 .
(4.9)
2
Il lettore può verificare che non esistono due stati |ψi1 e |φi2 tali che il loro prodotto
(tensore) dia lo stato (4.9). Gli stati entangled (intrecciati) possiedono delle proprietà che
non hanno nessun analogo nella fisica classica, come vedremo da alcuni esperimenti che
ci apprestiamo a descrivere nel prossimo paragrafo.
4.3 Stati intrecciati: un esempio
Lo stato (4.9) è uno stato sovrapposizione di due fotoni che possono essere entrambi o
nello stato |Hi oppure nello stato |V i con il 50% di probabilità. Come si osserva dall’equazione (4.9), non può accadere mai che se un fotone è nello stato |Hi l’altro sia |V i o
viceversa.
2
Il prodotto tensoriale gode della prorpietà distributiva.
39
4.3 Stati intrecciati: un esempio
Figura 4.1: Una sorgente emette coppie di fotoni nello stato |Φ+ i, che viaggiano in direzioni
opposte, attraversano dei SFOP e, quindi, vengono rivelati dai rivelatori D1 , D2 , D3 e D4 . Nella
Tabella 4.1 sono riportati alcuni possibili risultati.
coppia nr.
1
2
3
4
5
6
7
8
..
.
D1
D2
click
click
click
D3
click
click
click
click
click
click
click
click
..
.
D4
click
click
click
click
..
.
..
.
click
..
.
Tabella 4.1: Possibili conteggi dei rivelatori dell’esperimento di Figura 4.1. Si osservi che quando
scatta D1 allora scatta anche D3 , quando scatta D2 allora scatta anche D4 . Non accade mai che
quando viene rivelato un fotone in D1 (o D2 ) l’altro venga rivelato in D4 (o D3 ). Se si cosiderassero
solamente D1 e D2 (oppure D1 e D2 ), si osserverebbe che questi scattano nel 50% dei casi.
Nella Figura 4.1 è rappresentato un tipico esperimento che si può effettuare sullo stato
(4.9). Una sorgente di coppie di fotoni emette due fotoni nello stato (4.9); i due fotoni, che
viaggiano in direzioni opposte, vengono inviati su due SFOP e vengono rivelati i conteggi (“click”) dei quattro rivelatori D1 , D2 , D3 e D4 . Si noti che D1 e D3 rivelano fotoni
polarizzati orizzontalmente, mentre D2 e D4 fotoni polarizzati verticalmente. Nella Tabella 4.1 sono rappresentati alcuni possibili risultati di tale esperimento. Concentriamoci,
inizialmente, sui “click” dei rivelatori D1 e D2 . Come si osserva, quando viene rivelato
un fotone in D1 , D2 non scatta e viceversa. Lo stesso vale anche per la coppia di rivelatori D3 e D4 . Se ora, invece, consideriamo tutti e quattro i rivelatori notiamo che quando
scatta D1 allora scatta anche D3 , quando scatta D2 allora scatta anche D4 . Non accade
mai che quando viene rivelato un fotone in D1 l’altro venga rivelato in D4 . La medesima
conclusione si ottiene per D2 e D3 . Per questo motivo, osservando i conteggi di D1 e D2
possiamo affermare con certezza quale dei rivelatori D3 e D4 sia scattato oppure, se la misura non è ancora avvenuta, scatterà. Questi risultati sperimentali sono confermati dalla
meccanica quantistica; infatti, usando le (4.4), possiamo ricavare le seguenti probabilità
per lo stato (4.9):
P (H, H) = P (V, V ) = 1/2,
P (H, V ) = P (V, H) = 0.
(4.10)
In questo modo possiamo ora comprendere il motivo per cui o scattano i rivelatori D1
40
Capitolo 4: Intreccio (entanglement) quantistico
e D3 , che rivelano fotoni polarizzati orizzontalmente, o D2 e D4 , che rivelano fotoni
polarizzati verticalmente.
In realtà questi risultati potrebbero essere interpretati (erroneamente!) pensando che
i due fotoni non vengano prodotti nello stato intrecciato (4.9), bensì nello stato:
|ψi12 = |Hi1 |Hi2 ,
(4.11)
|φi12 = |V i1 |V i2 ,
(4.12)
oppure nello stato:
con il 50% di probabilità: otterremmo, in questo caso, dei risultati del tutto analoghi a
quelli di della Tabella 4.1. . . Per distinguere i due casi si può allora operare come segue
(Figura 4.2). Al posto dei SFOP poniamo dei SFOP(+45◦ ), come descritto nel paragrafo
2.2. Se eseguissimo l’esperimento in queste condizioni troveremmo che i risultati per lo
stato (4.9) sarebbero ancora analoghi a quelli della Tabella 4.1, mentre per gli stati (4.11)
e (4.12) si avrebbero dei “click” del tutto casuali, nel senso che il rivelatore D4 può scattare
anche quando scatta D1 e il rivelatore D3 può rivelare un fotone anche quando lo rivela
D2 .
Per spiegare questo risultato occorre calcolare le probabilità congiunte P (±45◦ , ±45◦ )
per lo stato (4.9) e per gli stati (4.11) e (4.12). Utilizzando le equazioni (1.40) con θ = +45◦
e θ⊥ = −45◦ possiamo scrivere:
1 |Φ+ i12 = √ |Hi1 |Hi2 + |V i1 |V i2
2
"
1 1 1
= √ √ | + 45◦ i1 + | − 45◦ i1 √ | + 45◦ i2 + | − 45◦ i2
2
2
2
|
{z
}|
{z
}
|Hi1
|Hi2
1 1 + √ | + 45◦ i1 − | − 45◦ i1 √ | + 45◦ i2 − | − 45◦ i2
2
2
{z
}|
{z
}
|
|V i1
#
(4.13)
(4.14)
|V i2
(
1 h
◦ (((◦(
= √ | + 45◦ i1 | + 45◦ i2 + (
| +(45
i1 | − 45 i2
((
2 2
h◦h
◦
◦
◦
+ | − 45
i1h
|+
ih
h45
2 + | − 45 i1 | − 45 i2
hh
hh
◦ (( ◦
| +(45
i1 | − 45 i2
+ | + 45◦ i1 | + 45◦ i2 − (
((
(
((
h◦h
◦
◦
◦
− | − 45
i1h
|+
ih
h45
2 + | − 45 i1 | − 45 i2
hh
1 = √ | + 45◦ i1 | + 45◦ i2 + | − 45◦ i1 | − 45◦ i2 ,
2
hh
i
(4.15)
(4.16)
da cui si ottengono le seguenti probabilità congiunte:
P (+45◦ , +45◦ ) = P (−45◦ , −45◦ ) = 1/2,
P (+45◦ , −45◦ ) = P (−45◦ , +45◦ ) = 0. (4.17)
41
4.3 Stati intrecciati: un esempio
Figura 4.2: Una sorgente emette coppie di fotoni nello stato |Φ+ i, che viaggiano in direzioni
opposte, attraversano dei SFOP(+45◦ ) e, quindi, vsono rivelati dai rivelatori D1 , D4 , D2 e D3 .
Analogamente, per gli stati (4.11) e (4.12) si ha:
1 1 |ψi12 = √ | + 45◦ i1 + | − 45◦ i1 √ | + 45◦ i2 + | − 45◦ i2
2
2
{z
}|
{z
}
|
|Hi1
(4.18)
|Hi2
1
= | + 45◦ i1 | + 45◦ i2 + | + 45◦ i1 | − 45◦ i2
2
+ | − 45◦ i1 | + 45◦ i2 + | − 45◦ i1 | − 45◦ i2
da cui:
P (+45◦ , +45◦ ) = P (−45◦ , −45◦ ) = P (+45◦ , −45◦ ) = P (−45◦ , +45◦ ) = 1/4,
(4.19)
(4.20)
e
1 1 |φi12 = √ | + 45◦ i1 − | − 45◦ i1 √ | + 45◦ i2 − | − 45◦ i2
2
2
{z
}|
{z
}
|
|V i1
(4.21)
|V i2
1
= | + 45◦ i1 | + 45◦ i2 − | + 45◦ i1 | − 45◦ i2
2
+ | − 45◦ i1 | + 45◦ i2 − | − 45◦ i1 | − 45◦ i2
da cui:
P (+45◦ , +45◦ ) = P (−45◦ , −45◦ ) = P (+45◦ , −45◦ ) = P (−45◦ , +45◦ ) = 1/4.
(4.22)
(4.23)
Quindi, mentre per lo stato |Φ+ i12 si ha P (+45◦ , −45◦ ) = P (−45◦ , +45◦ ) = 0, per |φi12 e
|ψi12 si ha P (+45◦ , −45◦ ) = P (−45◦ , +45◦ ) = 1/4: ecco il perché in un caso certe coppie
di rivelatori (D1 − D3 e D2 − D4 ) non scattano mai insieme e nell’altro lo fanno.
Altri stati che si comportano come |Φ+ i12 , ovvero sono stati entangled, sono i seguenti:
1
|Φ− i12 = √ (|Hi1 |Hi2 − |V i1 |V i2 )
2
1
|Ψ+ i12 = √ (|Hi1 |V i2 + |V i1 |Hi2 ),
2
1
|Ψ− i12 = √ (|Hi1 |V i2 − |V i1 |Hi2 ).
2
(4.24)
(4.25)
(4.26)
42
Capitolo 4: Intreccio (entanglement) quantistico
Figura 4.3: Una sorgente emette coppie di fotoni nello stato |Φ+ i, che viaggiano in direzioni
opposte. Il fotone 1 attraversa un SFOP(ϑ) e viene rivelato dai rivelatori D1 e D2 dell’osservatore
A; il fotone 2 attraversa un SFOP(ϕ) e viene rivelato dai rivelatori D3 e D4 dell’osservatore B.
Base di Bell
È importante, infine, osservare che, mentre |Φ+ i12 e |Φ− i12 sono sovrapposizioni di due
fotoni con la stessa polarizzazione, negli stati |Ψ+ i12 e |Ψ− i12 i due fotoni hanno polarizzazioni ortogonali. L’insieme degli stati |Ψ+ i12 , |Ψ− i12 , |Φ+ iv e |Φ− i12 è talvolta chiamata base di Bell. Si può mostrare che questi quattro stati sono mutuamente ortonormali e,
quindi, dato lo stato
|ψi12 = a|Ψ+ i12 + b|Ψ− i12 + c|Φ+ i12 + d|Φ− i12 ,
(4.27)
e possibile affermare che la probabilità di trovare i due fotoni, ad esempio, nello stato
|Φ+ i12 è data da:
P (|Φ+ i12 ) = c2 .
(4.28)
Esercizio 4.3 Dato lo stato a due fotoni (4.27) dire quanto valgono le probabilità P (|Ψ+ i12 ),
P (|Ψ− i12 ) e P (|Φ− i12 ).
Esercizio 4.4 Utilizzando le equazioni (1.40) si mostri che:
1
|Ψ+ i12 = √ (|θi1 |θ⊥ i2 + |θ⊥ i1 |θi2 ),
2
1
|Ψ− i12 = √ (|θi1 |θ⊥ i2 − |θ⊥ i1 |θi2 ),
2
1
|Φ+ i12 = √ (|θi1 |θi2 + |θ⊥ i1 |θ⊥ i2 ),
2
1
|Φ− i12 = √ (|θi1 |θi2 − |θ⊥ i1 |θ⊥ i2 ).
2
(4.29a)
(4.29b)
(4.29c)
(4.29d)
4.4 Stati intrecciati e correlazioni nonlocali
Rivolgiamo, ora, l’attenzione alla Figura 4.3. Come nei casi precedenti (Figure 4.1 e 4.2)
due fotoni vengono emessi in direzioni opposte nello stato |Φ+ i12 . Il fotone 1 attraversa
un SFOP(ϑ) e viene rivelato dal rivelatore D1 o D2 ; il fotone 2 attraversa un SFOP(ϕ)
e viene rivelato dal rivelatore D3 o D4 . A questo punto è lecito chiedersi quale sia la
probabilità congiunta P (ϑ, ϕ⊥ ) di trovare il fotone 1 nello stato |ϑi1 e il 2 nello stato
43
4.4 Stati intrecciati e correlazioni nonlocali
|ϕ⊥ i2 , ovvero la probabilità che scattino insieme i rivelatori D1 e D4 . Per rispondere a
questa domanda è necessario riscrivere |Hi1 e |V i1 in funzione di |ϑi1 e |ϑ⊥ i1 e |Hi2 e
|V i2 in funzione di |ϕi1 e |ϕ⊥ i1 . Grazie alle equazioni (1.40) si ha:
"
1 +
|Φ i12 = √
cos ϕ|ϕi2 + sin ϕ|ϕ⊥ i2
cos ϑ|ϑi1 + sin ϑ|ϑ⊥ i1
2 |
{z
}|
{z
}
|Hi1
"
|Hi2
sin ϕ|ϕi2 − cos ϕ|ϕ⊥ i2
+ sin ϑ|ϑi1 − cos ϑ|ϑ⊥ i1
{z
}|
{z
}
|
|V i1
|V i2
#
1
= √ cos(ϑ − ϕ) |ϑi1 |ϕi2 + |ϑ⊥ i1 |ϕ⊥ i2
2
#
+ sin(ϑ − ϕ) |ϑ⊥ i1 |ϕi2 − |ϑi1 |ϕ⊥ i2 ,
(4.30)
(4.31)
da cui si ricavano le seguenti probabilità congiunte:
P (ϑ, ϕ) = P (ϑ⊥ , ϕ⊥ ) =
cos2 (ϑ − ϕ)
,
2
P (ϑ, ϕ⊥ ) = P (ϑ⊥ , ϕ) =
sin2 (ϑ − ϕ)
.
2
(4.32)
Si osservi che, ponendo ϑ = ϕ = +45◦ , si ottengono i risultati del paragrafo precedente.
Immaginiamo, ora, che l’osservatore A della Figura 4.3 possa scegliere liberamente e
casualmente tra due possibili valori di ϑ, diciamo ϑ = 0◦ e ϑ = +45◦ , mentre assumiamo
che l’osservatore B abbia a disposizione solo una valore di ϕ, ad esempio ϕ = +45◦ . Si
possono verificare due casi:
Caso 1 – Assumiamo che A scelga ϑ = 0◦ e ottenga come risultato un click nel rivelatore D1 , ovvero il suo fotone si trova nello stato |0◦ i1 . Dalle (4.32), ponendo ϑ = 0◦ e
ϕ = +45◦ , otteniamo3 :
1
(4.33)
P (0◦ , +45◦ ) = P (0◦ , −45◦ ) = ,
4
ovvero l’osservatore B avrà uguale probabilità di trovare il suo fotone nello stato | + 45◦ i2
o | − 45◦ i2 .
Caso 2 – Se, invece, A sceglie ϑ = +45◦ , allora l’equazione (4.31) diventa semplicemente la (4.16), da cui si vede chiaramente che se A trova il suo fotone nello stato | + 45◦ i1
allora B troverà con certezza il fotone 2 nello stato | + 45◦ i2 . Analogo ragionamento vale
per | − 45◦ i1 e | − 45◦ i2 . Questo fatto è confermato dalle (4.32) da cui si ottiene che:
P (+45◦ , −45◦ ) = P (−45◦ , +45◦ ) = 0.
(4.34)
Questi due possibili scenari ci portano a concludere che il risultato della misura di B
dipende da quale ϑ decida di misurare A e dal risultato che ottiene. Ad esempio, se A
pone ϑ = +45◦ e trova | − 45◦ i1 , allora può affermare con certezza che | − 45◦ i2 ; ciò non
è possibile se A avesse posto ϑ = 0◦ . Un risultato di questo tipo indica che la coppia
di fotoni deve possedere delle correlazioni particolari, tali da permettere ai due fotoni di
scambiarsi l’informazione sul tipo di misura che viene di volta in volta eseguita. C’è di
3
Trattandosi di probabilità congiunte si ottiene 1/4 anziché l’atteso 1/2. Questo perché il risultato
dell’osservatore A ha il 50% di probabilità di essere |Hi1 o |V i1 .
Per uno stato
intrecciato il
risultato di una
misura su un
fotone dipende
dal risultato della
misura sull’altro
44
Capitolo 4: Intreccio (entanglement) quantistico
più. L’esperimento può essere progettato in modo che la distanza tra A e B non permetta
una comunicazione locale tra i fotoni, ovvero il tempo impiegato da un eventuale segnale
per andare da un fotone all’altro dovrebbe viaggiare ad una velocità maggiore di quella
della luce o, al limite, infinita (comunicazione istantanea)! Questo aspetto si riassume
dicendo che le correlazioni tra la coppia di fotoni intrecciati sono nonlocali.
La meccanica quantistica afferma, a questo punto, che occorre accettare il fatto che
una misura su quello che appare un sottosistema (un fotone della coppia), va vista in
realtà come una misura su tutto il sistema.
Un’altra interpretazione è quella di ammettere che, quando i due fotoni vengono generati, i due fotoni “sappiano” già come comportarsi di fronte a determinate misure: in
questo caso le correlazioni risultano essere locali, dal momento che non è necessario che
avvenga un ulteriore scambio di informazaione.
Le cosiddette disuguaglianze di Bell mostrano, anche sperimentalmene, che quest’ultima soluzione locale non è accettabile, come ci apprestiamo a mostrare con un esempio
nel prossimo paragrafo.
4.5 Principio di località e disuguaglianza di Bell
Se si esclude l’interpretazione data dalla meccanica quantistica, il fatto che la misura su
di un fotone di una coppia entangled influenzi il risultato della misura sull’altro porta
alla conclusione che tra i fotoni entangled deve esistere una comunicazione “istantanea
a distanza” o “nonlocale”, nel senso che viola un postulato fondamentale della teoria
della relatività, ovvero che la velocità massima per la trasmissione dell’informazione è
finita e corrisponde a quella della luce. Il pensiero dei molti fisici, che non accettavano
l’interpretazione quantistica ma non potevano nemmeno concepire la nonlocalità, può
essere riassunto con il seguente principio di località di Einstein4 :
“[...] la reale situazione del sistema S2 è indipendente da quanto accade al
sistema S1 , quando esso è spazialmente separato dal primo.”
Principio di
località di
Einstein
Partendo dal principio di località sono state formulate delle teorie alternative alla
meccanica quantistica in grado di descrivere altrettanto bene i risultati sperimentali. Queste teorie sono basate su variabili nascoste, non accessibili cioè sperimentalmente, che permettono di interpretare esperimenti come quelli descritti sopra senza ricorrere alla nonlocalità. D’altra parte, nel 1964 J. Bell dimostrò che le teorie alternative locali portano
ad una disuguaglianza verificabile sperimentalmente contraddetta dalla meccanica quantistica. Qui di seguito ricaveremo la disuguaglianza di Bell nell’ambito di un modello molto
semplice basato su quanto visto in precedenza sui fotoni.
Consideriamo nuovamente l’esperimento di Figura 4.3. Abbiamo visto che esistono
delle correlazioni ben precise tra le misure effettuate da A e quelle di B. Questi risultati
Teoria aternativa possono essere descritti da una teoria alternativa locale assumendo che ogni fotone, in
locale realtà, porti con sè il risultato della misura che subirà, una sorta di vademecum su come
comportarsi a seconda del SFOP che incontrerà sulla sua strada. Nel caso dell’esperimento di Figura 4.3 questo significa assumere che, se prendiamo un gran numero di fotoni 1,
allora ad una certa frazione di essi possiamo attribuire, ad esempio, la seguente proprietà:
4
Questo principio è stato enunciato in un lavoro A. Einstein, B. Podolsky e N. Rosen, Phys. Rev. 47,
777 (1935). Non approfondiremo la questione della completezza o meno della meccanica quantistica o della
nonlocalità. Per questo rimandiamo a letture più specializzate e al prossimo capitolo.
45
4.5 Principio di località e disuguaglianza di Bell
classe nr.
1
2
3
4
fotone 1
(α, β)1
(α⊥ , β⊥ )1
(α, β⊥ )1
(α⊥ , β)1
fotone 2
(α, β)2
(α⊥ , β⊥ )2
(α, β⊥ )2
(α⊥ , β)2
Tabella 4.2: Classi di una teoria alternativa locale per interpretare l’esperimento di Figura 4.3.
Dati i due valori generici α e β per ϑ:
• se si usa un SFOP(α), si ottiene lo stato |αi1 con certezza;
• se si usa un SFOP(β), si ottiene lo stato |β⊥ i1 con certezza.
Indicheremo un tale fotone nel modo seguente: (α, β⊥ )1 . Si osservi che si sta usando o un
SFOP(α) oppure un SFOP(β): è impossibile usarli insieme! In altre parole un fotone del tipo (α, β⊥ )1 porta con sé una “ricetta” su “cosa fare” quando incontra un SFOP(α) oppure
un SFOP(β). I risultati ottenuti nel paragrafo precedente si possono quindi descrivere con
la teoria alternativa locale assumendo che ogni coppia di fotoni 1 − 2 appartenga ad una
delle quattro classi equiprobabili (con probabilità 1/4) della Tabella 4.2. Per comprendere
meglio quanto stiamo dicendo consideriamo, ad esempio, la classe 4. In questo, caso se il
fotone 1 incontra un SFOP(β) allora si ottiene lo stato |βi1 , indipendentemente dal fatto
che il fotone 2 incontri un SFOP(α) (per cui si avrebbe con certezza |α⊥ i2 ) o SFOP(β) (per
cui si avrebbe con certezza |βi2 ). Il risultato ottenuto da A e B è già “scritto” nella classe
cui appartiene il fotone ed è in accordo con il principio di località di Einstein: il risultato
di A non dipende dalle scelte di B e viceversa.
Vediamo, ora, come questa teoria alternativa dia gli stessi risultati della meccanica
quantistica per l’esperimento di Figura 4.3. Se A sceglie SFOP(α) con α = 0◦ e ottiene,
come prima, lo stato |0◦ i1 , allora significa che il fotone 1 può appartenere alla classe 1 o
alla classe 3 con probabilità 1/4 (si veda la Tabella 4.2 con α = 0◦ ). Ora, B utilizza un
SFOP(β) con β = +45◦ : se il fotone 1 apparteneva alla classe 1, allora il fotone 2 viene
trovato nello stato | + 45◦ i2 ; se apparteneva alla 3 allora il fotone 2 viene trovato nello
stato | − 45◦ i2 , essendo β⊥ = −45◦ . Possiamo quindi scrivere:
1
P (0◦ , +45◦ ) = P (0◦ , −45◦ ) = ,
4
(4.35)
che sono uguali alle (4.33) ottenute quantisticamente. Se, al contrario, A e B scelgono lo
stesso SFOP(α) con ovvero α = 45◦ , allora ottengono sempre che i loro fotoni hanno la
stessa polarizzazione, da cui:
P (+45◦ , −45◦ ) = P (−45◦ , +45◦ ) = 0.
(4.36)
che sono uguali alle (4.34).
Anche se la teoria alternativa dà lo stesso risultato della meccanica quantistica, rispetto ad essa incorpora il principio di località e, quindi, non si hanno i problemi di
interpretazione descritti alla fine del paragrafo precedente.
Considerando il modello alternativo appena introdotto, mostreremo come si giunga
ad una disuguaglianza violata dalle previsioni quantistiche. Per far questo, riconsideriamo l’esperimento di Figura 4.3, ma ora assumiamo che sia A che B possono scegliere tre
46
Capitolo 4: Intreccio (entanglement) quantistico
classe nr.
1
2
3
4
5
6
7
8
fotone 1
(α, β, γ)1
(α, β, γ⊥ )1
(α, β⊥ , γ)1
(α⊥ , β, γ⊥ )1
(α⊥ , β, γ)1
(α, β⊥ , γ⊥ )1
(α⊥ , β⊥ , γ)1
(α⊥ , β⊥ , γ⊥ )1
fotone 2
(α, β, γ)2
(α, β, γ⊥ )2
(α, β⊥ , γ)2
(α⊥ , β, γ⊥ )2
(α⊥ , β, γ)2
(α, β⊥ , γ⊥ )2
(α⊥ , β⊥ , γ)2
(α⊥ , β⊥ , γ⊥ )2
popolazione
N1
N2
N3
N4
N5
N6
N7
N8
Tabella 4.3: Classi di una teoria alternativa locale per interpretare l’esperimento di Figura 4.3 con
tre valori possibili per ϑ e ϕ. La popolazione indica il numero di coppie di fotoni appartenenti ad
una determinata classe.
valori per ϑ e ϕ, diciamo α, β e γ. Dal momento che per ciascuno dei tre valori ci sono
due stati possibili, in tutto ci saranno 23 = 8 classi possibili elencate nella Tabella 4.3 insieme alla popolazione di ogni classe, ovveroPil numero di coppie di fotoni appartenenti
ad una determinata classe sul totale Ntot = 8k=1 Nk di coppie misurate. La popolazione non può essere misurata direttamente ma viene fornita dalla teoria alternativa stessa,
infatti per ogni misura si possono considerare solo due valori tra α, β e γ scelti da A
e B. Per comprendere meglio le informazioni contenute nella Tabella 4.3, consideriamo,
ad esempio, la classe 5. Il fotone 1 è descritto da (α⊥ , β, γ)1 e, quindi, se inviato su un
SFOP(α) troveremo |α⊥ i1 , se inviato su un SFOP(β) troveremo |βi1 , se, infine, inviato su
un SFOP(γ) troveremo |γi1 . Un ragionamento analogo vale per il fotone 2 della classe 5.
Lasciamo al lettore l’analisi delle altre classi.
Supponiamo che l’osservatore A scelga un SFOP(α) e l’osservatore B un SFOP(β) ed
ottengano come risultati gli stati |αi1 e |βi2 , rispettivamente. Studiando la Tabella 4.3
possiamo notare che solamente le classi 1 e 2 sono tali da dare il risultato ottenuto da A e
B (solo in queste due classi compaiono sia α che β). Segue che il numero totale di coppie
che possono dare il risultato ottenuto è dato da N1 + N2 . Dal momento che le popolazioni
sono numeri positivi o nulli, allora possiamo scrivere la seguente ovvia disuguaglianza:
N1 + N2 ≤ (N1 + N3 ) + (N2 + N4 ),
(4.37)
dove il secondo membro è stato ottenuto sommando N3 e N4 al primo. Dividendo per
Ntot entrambi i membri della disuguaglianza precedente si ottiene:
N1 + N3 N2 + N4
N1 + N2
≤
+
.
Ntot
Ntot
Ntot
(4.38)
Osservando la Tabella 4.3 notiamo che:
• N1 + N3 è il numero totale di coppie per cui se l’osservatore A sceglie un SFOP(α)
e l’osservatore B un SFOP(γ), ottengano con certezza gli stati |αi1 e |γi2 , rispettivamente, indipendentemente da β (se A o B scegliesse un SFOP(β) potrebbe ottenere
sia |βi che |β⊥ i).
• N2 + N4 è il numero totale di coppie per cui se l’osservatore A sceglie un SFOP(β)
e l’osservatore B un SFOP(γ), ottengano con certezza gli stati |βi1 e |γ⊥ i2 , rispettivamente, indipendentemente da α (se A o B scegliesse un SFOP(α) potrebbe ottenere
sia |αi che |α⊥ i).
47
4.6 Esperimenti
Se Ntot è sufficientemente elevato allora possiamo scrivere:
N1 + N2
= P (α, β),
Ntot
N1 + N3
= P (α, γ),
Ntot
N2 + N4
= P (β, γ⊥ ),
Ntot
(4.39)
e la (4.38) diventa:
Disuguaglianza di
P (α, β) ≤ P (α, γ) + P (β, γ⊥ ).
(4.40) Bell per uno stato
di due fotoni: è
Questa è la disuguaglianza di Bell che segue dal principio di località di Einstein. La (4.40) possibile testare
può essere verificata sperimentalmente, dal momento che le probabilità congiunte P (α, β), l’eventuale
differenza tra
P (α, γ) e P (β, γ⊥ ) possono essere ottenute da un esperimento come quello di Figura 4.3. teoria alternativa
Sostituendo, ora, nella (4.40) le probabilità congiunte (4.32) ottenute dalla meccanica locale e
meccanica
quantistica e, quindi, senza il principio di località, abbiamo:
quantistica
cos2 (α
2
− β)
≤
cos2 (α
2
− γ)
2
+
sin (β − γ)
.
2
(4.41)
Se, a questo punto, scegliamo α, β e γ in modo che (α − β) = (β − γ) = 30◦ e, quindi,
(α − γ) = 60◦ , dalla (4.41) si ottiene:
3 ≤ 2,
(4.42)
che è palesemente falsa: la meccanica quantistica viola la disuguaglianza di Bell (4.40).
Esiste, quindi, una differenza verificabile sperimentalmente tra la meccanica quantistica e una teoria alternativa che soddisfi il principio di località di Einstein.
4.6 Esperimenti
Sono stati realizzati diversi esperimenti per testare la disuguaglianza di Bell, impiegando
fotoni, spin e particelle elementari. . . In tutti gli esperimenti la disuguaglianza è stata
violata dimostrando un ottimo accordo con le previsioni della meccanica quantistica.
4.7 Considerazioni finali
Il fatto che, per una scelta opportuna dei parametri, la disuguaglianza di Bell venga violata significa che i risultati ottenuti in un esperimento che coinvolge stati intrecciati (entangled) come quello in Figura 4.3, non possono essere interpretati con una teoria locale,
che assuma, cioè, come postulato il principio di località di Einstein. Ricordiamo, infine, il
punto di vista quantistico: uno stato intrecciato (entangled) deve essere pensato come un
unico sistema e, di conseguenza, non si può parlare di una misura su una parte di esso
(un fotone della coppia) escludendo l’altra.
48
Capitolo 4: Intreccio (entanglement) quantistico
Da ricordare:
☞ Uno stato di due fotoni che si può scrivere come:
|Ψi12 = |ψi1 |φi2 ,
dove il primo è nello stato |ψi1 ed il secondo nello stato |φi2 , è detto separabile;
se non si può scrivere in questo modo è detto intrecciato o entangled.
☞ Gli stati in trecciati di due fotoni, ma ciò vale per ogni entità fisica, hanno
proprietà non locali, nel senso che il risultato di una misura su uno dei due
influenza istantaneamente il risultato della misura sull’altro.
☞ La meccanica quantistica afferma che gli stati intrecciati devono essere
considerati come un tutt’uno inseparabile.
☞ Una teoria alternativa, che tenti di descrivere in modo locale il comportamento
degli stati intrecciati, porta a scrivere una disuguaglianza, detta disuguaglianza
di Bell, del tipo:
A ≤ B,
dove A e B sono quantità misurabili sperimentalmente (solitamente si tratta di
somme di probabilità congiunte).
☞ La meccanica quantistica prevede che per gli stati intrecciati possa verificarsi
A > B e, quindi, la disuguaglianza di Bell è violata.
☞ Gli esperimenti sugli stati intrecciati hanno mostrato che le previsioni della
meccanica quanistica sono corrette e, perciò, non è possibile utilizzare una
teoria locale per descrivere gli stati intrecciati!
Capitolo
5
Dal determinismo classico
all’indeterminismo quantistico
Quando abbiamo introdotto la disuguaglianza di Bell nel capitolo 4, abbiamo accennato
al principio di località, legato al postulato fondamentale della teoria della relatività, secondo cui la velocità massima per la trasmissione dell’informazione è finita e corrisponde
alla velocità della luce.
Molti fisici e, sopra tutti, Einstein, non potevano assolutamente concepire la nonlocalità, in quanto contraria al senso e alla forma che il padre della relatività aveva dato
al concetto di simultaneità, nel suo lavoro del 1905. La definizione einsteiniana della
simultaneità non lascia infatti spazio a segnali ultra-luminali, e a istantanee azioni a distanza. Einstein respingeva anche la possibilità teorica di queste ultime, definendole spettrali
azioni a distanza e accoppiamenti telepatici. Qui si tocca una problematica, al limite fra la
teoria della relatività e la quantistica: si tratta di un soggetto vastissimo, che richiede
molti e raffinati strumenti analitici per essere adeguatamente approfondito e che esula
dallo scopo di queste pagine1 .
Come descritto nel capitolo 4, si è tentato di far fronte alla questione della nonlocalità mediante teorie locali a variabili nascoste, ovvero, ricorrendo a teorie che legano
la “apparente” nonlocalità alla mancanza di conoscenza di certe variabili del sistema in
questione, dette, appunto, nascoste, la cui conoscenza permetterebbe di interpretare “localmente” gli esperimenti su stati intrecciati. Sebbene tali teorie locali vengano contraddette dagli esperimenti, è comunque possibile ricercare altre teorie a variabili nascoste
che rinuncino al principio di località.
D’altra parte, lo sviluppo delle teorie a variabili nascoste si inquadrava in un contesto
ben più generale e precedente alla scoperta degli stati intrecciati, segnato dal passaggio
dalle teorie cosiddette classiche e deterministiche al nuovo paradigma quantistico. I testi
discussi in questo capitolo riflettono la consapevolezza, maturata negli anni Trenta, del
trapasso compiuto negli anni Venti con la creazione della meccanica quantistica. Trattano,
quindi, il passaggio dallo schema deterministico all’indeterminismo proprio della meccanica quantistica, e alla prospettiva di un suo ulteriore superamento grazie ad eventuali
teorie di variabili nascoste.
Sebbene proporre come materiale didattico brani di Enrico Fermi, John von Neumann
ed Erwin Schrödinger possa sembrare a prima vista temerario, siamo convinti che una
1
Su questo aspetto ha indagato a fondo R. Penrose in La strada che porta alla realtà, BUR, 2006.
49
50
Capitolo 5: Dal determinismo classico all’indeterminismo quantistico
tale scelta permetterà al lettore di avere a disposizione una visione più ampia del contesto storico-scientifico in cui certe problematiche sono nate e si sono sviluppate e di
apprezzare maggiormente il lavoro di questi grandi scienziati.
5.1 Meccanica classica, statistica e quantistica
Una definizione formale del determinismo classico è quella data da Fermi nel 1936:
«Lo stato di un sistema meccanico si caratterizza, nella meccanica classica, mediante la conoscenza della posizione e della velocità di tutti i punti materiali che
lo costituiscono. Limiteremo per semplicità le nostre considerazioni al caso dei sistemi olonomi a vincoli indipendenti dal tempo , tanto più che a questa categoria
appartiene la quasi totalità dei sistemi che occorre considerare nelle applicazioni fisiche. Per questi sistemi, la posizione viene caratterizzata dai valori di certi parametri
q1 , q2 , . . . , qf detti coordinate generali; il numero f di questi parametri è il numero
dei gradi di libertà del sistema. La conoscenza delle f coordinate generali determina
soltanto le posizioni, e non le velocità dei punti costituenti il sistema; per avere queste ultime occorre, oltre alle q1 , q2 , . . . , qf conoscere anche le loro derivate rispetto al
tempo q̇1 , q̇2 , . . . , q̇f . Possiamo dunque affermare che, per definire completamente lo
stato di un sistema meccanico, occorre dare 2f grandezze: q1 , q2 , . . . , qf ; q̇1 , q̇2 , . . . , q̇f .
È usuale e conveniente, nella meccanica analitica, usare un insieme di coordinate
differente da questo: precisamente in luogo delle f grandezze: q̇1 , q̇2 , . . . , q̇f se ne introducono delle altre f = p1 , p2 , . . . , pf definite al modo seguente. L’energia cinetica
T , come del resto qualsiasi altra funzione dello stato del sistema, è una funzione delle
q e delle q̇:
T = T (q1 , q2 , . . . , qf ; q̇1 , q̇2 , . . . , q̇f ).
La variabile pr , che prende il nome di momento coniugato alla qr , è data, per
definizione da
∂T
pr =
(r = 1, 2, . . . , f )
(5.1)
∂ q̇r
Invece che per mezzo delle coordinate generali e delle loro derivate rispetto al
tempo,rappresenteremo lo stato del sistema per mezzo delle 2f variabili di stato:
q1 , q2 , . . . , qf ; p1 , p2 , . . . , pf .
(5.2)
Le leggi che determinano come le variabili di stato variano col tempo (equazione
del movimento), si possono scrivere, nella forma canonica di Hamilton:
q̇r =
∂H
,
∂pr
ṗr = −
∂H
∂qr
(r = 1, 2, . . . , f )
(5.3)
dove la funzione H(q1 , q2 , . . . , qf ; p1 , p2 , . . . , pf ), detta funzione di Hamilton o semplicemente Hamiltoniana, si identifica, per il caso dei sistemi conservativi, con l’energia
del sistema.
È assai opportuno per la rappresentazione degli stati di un sistema ,introdurre la
seguente locuzione geometrica . Chiameremo , secondo J. W. Gibbs, spazio delle fasi
uno spazio di 2f dimensioni, avente le 2f variabili di stato (5.2) come coordinate cartesiane ortogonali. Esiste evidentemente una corrispondenza fra i punti dello spazio
delle fasi e gli stati del sistema: invero, dato lo stato, sono noti i valori delle qr e delle
pr , e quindi si può costruire un punto dello spazio delle fasi; viceversa, dato un punto
nello spazio delle fasi, se ne conoscono le coordinate qr e pr , e queste definiscono uno
stato del sistema. Possiamo dunque affermare che un punto nello spazio delle fasi
rappresenta uno stato del sistema e nel seguito parleremo indifferentemente degli
stati del sistema oppure dei punti che li rappresentano nello spazio delle fasi.
5.1 Meccanica classica, statistica e quantistica
51
Figura 5.1: Spazio delle fasi per un sistema monodimensionale. Una volta assegnato il punto
iniziale P0 al tempo t = 0 e l’Hamiltoniana del sistema, la sua evoluzione è rappresentata dalla
linea P (t) = (q(t), p(t)).
Come lo stato di un sistema varia col tempo per effetto del movimento del sistema, così il punto che rappresenta lo stato nello spazio delle fasi si muove descrivendo
una traiettoria. Il movimento è determinato dalle equazioni di Hamilton (5.3) che determinano le derivate rispetto al tempo delle coordinate qr e pr del punto rappresentativo e cioè le 2f componenti della sua velocità nello spazio a 2f dimensioni delle
fasi.
Dalla forma delle equazioni di Hamilton risulta che, note le qr e le pr al tempo
t = 0, resta determinato lo stato del sistema, e quindi i valori delle qr e delle pr , per
ogni istante t passato o futuro. Ciò s’interpreta geometricamente dicendo: se è noto
il punto P0 che rappresenta lo stato al tempo zero, si può determinare il punto P (t)
che rappresenta lo stato del sistema ad un istante qualunque. Per il punto P0 passa
dunque una traiettoria (e una sola), luogo geometrico di tutti i punti P (t) [. . .].»2
Nella Figura 5.1 è rappresentato lo spazio delle fasi di un sistema monodimensionale
(con un solo grado di libertà). Come spiegato sopra, una volta noto il punto P0 , ovvero
una volta assegnate q e p all’istante t = 0 e l’Hamiltoniana del sistema, la sua evoluzione
è rappresentata da una ben determinata linea di punti P (t) = (q(t), p(t)).
Il paradigma deterministico, che risaliva nelle sue lontane origini settecentesche a
Pierre-Simon Laplace, era già stato superato nella seconda metà dell’Ottocento con la
teoria cinetica dei gas, ovvero l’interpretazione delle leggi termodinamiche macroscopiche dei gas, e in genere della materia, in termini di atomi e molecole. La situazione è stata
così inquadrata da Fermi:
«Lo studio della struttura atomica e molecolare della materia ha reso necessario
lo sviluppo di metodi particolari, adatti alla discussione delle proprietà di sistemi
costituiti da un enorme numero di individui costituenti. [. . .] La complicazione del
calcolo matematico del moto di un sistema costituito da miriadi di particelle [. . .] è
tanto grande da non lasciare alcuna speranza di una trattazione esatta. Conviene
peraltro osservare che gli elementi del problema che interessa determinare si riferiscono in generale a proprietà di media su un gran numero di individui. [. . .] Ora si
trova che l’andamento di queste proprietà di media è estremamente più regolare, e
quindi più facilmente accessibile allo studio, che non le proprietà individuali delle
singole molecole. Le forti fluttuazioni di queste tendono infatti a livellarsi tra loro
nell’effettuare le medie e, se il numero degli individui è abbastanza grande, vengono
praticamente a sparire.
2
E. Fermi, Meccanica statistica, Scritti scelti, a cura di G. Altarelli e G. Capon, Edizioni Teknos, Roma, 1986.
52
Capitolo 5: Dal determinismo classico all’indeterminismo quantistico
Così per esempio è ben noto che la pressione esercitata da un gas sulle pareti del
recipiente che lo contiene è dovuta agli urti del gas contro la parete stessa: ciascun
urto trasmette un leggero impulso alla parete e la pressione risulta dall’insieme di
questi impulsi elementari. È evidente che gli urti delle varie molecole differiscono
molto in intensità a seconda della velocità della molecola urtante e dell’angolo di
incidenza dell’urto; ma ciò che interessa agli effetti della determinazione della pressione, non è l’impulso trasmesso in un singolo urto, bensì il valore medio di questo
impulso e il numero (grandissimo) degli impulsi che hanno luogo nell’unità di tempo. Entrambi questi due fattori sono indipendenti dalle fluttuazioni accidentali nelle
proprietà delle singole molecole; e conseguentemente la pressione esercitata da un
gas è anch’essa un fenomeno perfettamente regolare.»3
In termini analoghi a quelli di Fermi si espresse von Neumann già nel 1932:
«La meccanica classica è una disciplina causale, cioè se in essa noi conosciamo
esattamente lo stato di un sistema — per cui , con k gradi di libertà , sono necessari
2k numeri: le k coordinate spaziali q1 , . . . , qk , e le loro k derivate rispetto al tempo o
al posto di queste i k momenti p1 , . . . , pk — allora possiamo fornire il valore di ogni
quantità fisica (energia,momento angolare) univocamente e in modo numericamente
esatto. Tuttavia, la meccanica classica può essere trattata anche con metodi statistici.
Ma, a dir il vero, questa è un lusso o un’aggiunta esterna. Ossia, possiamo non conoscere tutte le variabili, ma soltanto alcune di esse, allora mediando in qualche modo
sulle variabili sconosciute, possiamo almeno fare delle asserzioni statistiche su tutte
le quantità fisiche.»4
In altre parole, già nella statistica cosiddetta classica erano stati formulati principi, o
assiomi, di tipo statistico e probabilistico, necessari per lo sviluppo di metodi particolari,
adatti alla trattazione di sistemi complessi. Come l’equiprobabilità a priori degli stati e il
principio dell’ equipartizione dell’energia fra i gradi di libertà di un sistema. Tali principi
o assiomi probabilistici erano però come sovra-imposti ad una dinamica sottostante, che si
supponeva essere sempre di tipo classico e, quindi, deterministica. Essi avevano dunque
la funzione di ovviare all’ignoranza sul comportamento esatto della moltitudine dei singoli costituenti di un sistema complesso, come le singole molecole di un gas. Nel caso
della statistica classica, si trattava dunque di un probabilismo per ignoranza, ben diverso
dal probabilismo della meccanica quantistica , che è invece intrinseco e riflette il carattere
statistico delle leggi naturali.
Per le caratteristiche della statistica classica, sempre von Neumann spiega che
«la teoria cinetica dei gas fornisce una buona rappresentazione delle relazioni (statistiche). Una mole (32g) di ossigeno contiene 6 1023 molecole di ossigeno e, se osserviamo che ogni molecola di ossigeno è composta da due atomi di ossigeno (dei quali
ignoreremo la struttura interna, cosicchè saranno trattati come punti massa dotati di
solo tre gradi di libertà), una tale mole è un sistema meccanico di 2 × 3 × 6 1023 =
36 1023 = k gradi di libertà. Il suo comportamento potrebbe essere considerato causalmente determinato se si avesse la conoscenza di 2k variabili, ma la teoria dei gas
ne impiega solo 2: pressione e temperatura, che sono certe funzioni complicate di
3
E. Fermi, Ibidem.
J. von Neumann, I fondamenti matematici della meccanica quantistica, a cura di G. Boniolo, Il Poligrafo,
Padova, 1998, p. 170-171.
4
5.1 Meccanica classica, statistica e quantistica
53
queste 2k variabili indipendenti. Di conseguenza, essa può fare solo osservazioni
statistiche (probabilistiche). Che queste siano in molti casi quasi causali, cioè che le
probabilità siano quasi 0 o quasi 1, non altera la natura intrinseca della situazione.»5
Passando alla meccanica quantistica, von Neumann sottolinea quanto segue:
«Le proposizioni statistiche che abbiamo trovato nella meccanica quantistica hanno un carattere differente. Qui, per k gradi di libertà, lo stato è descritto da una
funzione d’onda φ(q1 , . . . , qk ). [. . .] Sebbene si creda, dopo avere specificato φ, di conoscere lo stato completamente, sui valori delle quantità fisiche coinvolte si possono
fare solo asserzioni statistiche.
D’altra parte, questo carattere statistico è limitato a proposizioni sui valori delle quantità fisiche, mentre gli stati precedenti e successivi possono essere calcolati causalmente da φt0 = φ [dove φt0 indica la funzione d’onda al tempo t0 ]. Ed è
l’equazione di Schrödinger dipendente dal tempo che lo rende possibile [. . .].»6
In altri termini, così come in meccanica classica, assegnate le condizioni iniziali (il punto
P0 nello spazio delle fasi) e la sua Hamiltoniana, un sistema evolve in maniera deterministica, in meccanica quantistica l’evoluzione deterministica è riservata alla funzione
d’onda associata al sistema, ma non all’evoluzione delle quantità fisiche, che, invece,
sono determinate statisticamente. A tal riguardo prosegue von Neumann:
«Se vogliamo spiegare il carattere acausale del legame fra φ e i valori delle quantità fisiche seguendo il modello della meccanica classica, l’interpretazione corretta a cui
arriviamo è la seguente: in realtà lo stato non è determinato esattamente da φ e per
conoscerlo completamente sono necessari altri dati numerici . Cioè il sistema, oltre a
φ, ha altri attributi determinanti, altre coordinate. Se noi le conoscessimo tutte, allora
potremmo dare il valore di tutte le quantità fisiche esattamente e con certezza. D’altra parte, con l’uso della sola φ sono possibili solo asserti statistici, proprio come in
meccanica classica, quando sono conosciute solo alcune delle q1 , . . . , qk e p1 , . . . , pk .
Naturalmente questa tesi è solo ipotetica. È un tentativo il cui valore dipende dal
fatto se sia effettivamente possibile o meno trovare le coordinate aggiuntive che contribuiscono a φ e costruire, con il loro aiuto, una teoria causale che sia in accordo
con l’esperiemento e che riproduca gli enunciati statistici della meccanica quantistica
quando è data solo φ (e su tutte le altre coordinate è fatta una media).
È usuale chiamare queste ipotetiche coordinate aggiuntive “parametri nascosti”,
o “coordinate nascoste”, dal momento che devono giocare un ruolo nascosto rispetto
a φ, che è l’unica che è stata scoperta dagli studi finora fatti. [. . .]
Se una spiegazione di questo tipo, mediante parametri nascosti, sia possibile o
meno, è un problema molto discusso. Attualmente la concezione secondo cui un
giorno esso avrà una risposta positiva ha molti eminenti sostenitori. Se tale approccio
fosse corretto, esso stigmatizzerebbe la presente forma della teoria come provvisoria
poiché la discussione dello stato sarebbe essenzialmente incompleta.»7
Attenzione, però. Sebbene nel suo trattato del 1932 von Neumann discuta la possibilità dell’introduzione delle variabili nascoste, fornendo, tra l’altro anche un argomento
contrario ad esse di cui qui non parliamo, le sue convinzioni sono di certo esplicite:
«ammetteremo come dato di fatto che le leggi naturali che governano i processi
elementari (cioè le leggi della meccanica quantistica) abbiano una natura statistica.»8
5
J. von Neumann, Idibem, p. 360.
J. von Neumann, Ibidem, pp. 172.
7
J. von Neumann, Ibidem, pp. 171-172.
8
J. von Neumann, Ibidem, p. 173.
6
54
Capitolo 5: Dal determinismo classico all’indeterminismo quantistico
Infatti, l’interpretazione ortodossa, secondo von Neumann, è quella
«concezione della meccanica quantistica, che considera le sue espressioni statistiche come la forma reale delle leggi di natura e che quindi abbandona il principio
di causalità.»9
Si noti, infine, che le considerazioni di von Neumann sulle variabili nascoste risalgono al
1932, precedendo di alcuni anni il lavoro di Einstein, Podolsky e Rosen, che indicheremo
brevemente con EPR, che risale al 1935. In questo lavoro gli autori mostrano per la prima
volta l’esistenza degli stati intrecciati.
La questione dibattuta da von Neumann era dunque quella della completezza o meno della meccanica quantistica e della necessità o desiderabilità di introdurre variabili
aggiuntive. La stessa questione, quella della completezza, è stata riproposta con forza
nel lavoro EPR, focalizzando l’attenzione sulla questione della località, individuata come l’indice più evidente della necessità di un completamento della meccanica quantistica.
Proprio utilizzando il formalismo quantistico, EPR hanno mostrato che l’entanglement
(intreccio) di due particelle, che prima hanno interagito e poi si sono separate, implicava
azioni spettrali a distanza.
EPR hanno dunque posto in primo piano la questione della località, nell’ambito della questione di fondo che era quella della completezza o meno della teoria quantistica.
Indirettamente, il lavoro di EPR stimolò la ricerca di soluzioni alternative alla meccanica quantisica ispirate a variabili nascoste anche se, in realtà, Einstein non pensava a
completare la meccanica quantistica in quella direzione.
Nel prossimo paragrafo presenteremo una breve rassegna delle reazioni dei principali
fisici di fronte alla questione del passaggio dal probabilismo classico a quello quantistico
e alla problematica della completezza della meccanica quantistica. Come possibile chiave
di lettura, si può individuare, per così dire, un indice di gradimento del nuovo paradigma
quantistico, che appare connesso ad un maggiore o minore attaccamento al modello del
probabilismo classico; mentre il problema della località, posto con forza dirompente da
EPR, ha portato un’ulteriore carica di provocazione intellettuale, che ancora non sembra
essersi esaurita .
5.2 Dalla statistica classica al gatto di Schrödinger
Einstein, che fu sempre un gran virtuoso della statistica classica, ha dimostrato un atteggiamento fortemente critico nei confronti della meccanica quantistica. Il suo lavoro del
1905, detto dell’effetto fotoelettrico, rappresenta in realtà la via statistico-classica, percorsa da Einstein, per arrivare al concetto di fotone. Rimandiamo al capitolo 3 per ulteriori
dettagli.
Riferendosi alla meccanica quantistica, Einstein usò sempre il termine “teoria quantistica statistica” (statistische quanten-theorie): la riteneva una teoria statistica, alla quale
mancava, a suo parere, una adeguata dinamica sottostante. Nella statistica classica tale
ruolo veniva svolto dalla dinamica newtoniana. Secondo lo storico Max Jammer, il lavoro EPR sull’incompletezza della meccanica quantistica diede forti incentivi allo sviluppo
delle teorie di variabili nascoste. E senza dubbio, Einstein aveva in simpatia ogni sforzo
volto ad esplorare alternative alla meccanica quantistica. In realtà però, non appoggiò
mai nessuna teoria del genere a variabili nascoste. Lo prova fra l’altro, una sua lettera
9
J. von Neumann, Ibidem, p. 173.
5.2 Dalla statistica classica al gatto di Schrödinger
55
a Max Born del 12 maggio 1952, a proposito del tentativo di David Bohm in quella direzione. Secondo Abraham Pais, Einstein era sì alla ricerca di una adeguata dinamica
sottostante o di un fondamento ulteriore per statistische quanten-theorie, ma la ricercava in
direzione di una teoria unificata di campo. Naturalmente non pensava a campi di probabilità quantistici. Al contrario, puntava ad una teoria strettamente causale, in grado di
unificare le forze gravitazionali e quelle elettromagnetiche. Le particelle note avrebbero
dovuto emergere come soluzioni particolari delle equazioni generali del campo, e i postulati quantistici ne avrebbero dovuto essere una conseguenza. I suoi ripetuti tentativi
verso un simile obiettivo, perseguiti per decenni, non ebbero successo.
Contrariamente ad Enstein, Bohr non fu mai uno studioso appassionato della statistica classica e di Boltzmann. Era convinto che non ci fosse un mondo quantistico, o un
livello quantistico al di sotto dei fenomeni, così come vengono rilevati dagli esperimenti. La meccanica quantistica è in grado di prevedere, sia pure in termini probabilistici,
i risultati degli esperimenti. È quindi necessario ammettere, come dato di fatto, che le
leggi naturali, che governano i processi elementari, cioè le leggi della meccanica quantistica, abbiano una natura statistica. In definitiva, proprio il probabilismo intrinseco fa
della meccanica quantistica una teoria fondamentale, non fenomenologico-statistica. Non
vi è alcun bisogno di renderla completa, introducendo variabili nascoste.
La reazione di Schrödinger in particolare all’articolo di EPR era tutta giocata sul contrasto fra il probabilismo classico alla Boltzmann e il probabilismo intrinseco alla Bohr.
Schrödinger fu sempre uno studioso appassionato della fisica statistica e aveva ben presente che la teoria quantistica era sorta da un problema centrale della statistica del calore,
come l’irraggiamento del corpo nero, studiato da Max Planck. Riteneva però che, mentre
la statistica classica dava una descrizione coerente dei fenomeni macroscopici, ai quali
veniva applicata, altrettanto non facesse la teoria quantistica:
«Si può persino sollevare un caso ridicolo. Un gatto viene posto in un contenitore
di acciaio, con il seguente dispositivo [. . .]: in un contatore Geiger vi è una piccola
quantità di una sostanza radio-attiva, così piccola che forse, nel giro di un’ora, uno
degli atomi decade, ma forse, con uguale probabiltà, non ne decade nessuno. Se
avviene il decadimento di un nucleo, si ha una scarica nel tubo del contatore, che
attraverso un circuito, mette in azione un martello, che rompe un flacone, contenente
acido idrocianidrico. Supponiamo che uno abbia lasciato il sistema a se stesso per
un’ora. Si potrebbe dire che il gatto è ancora vivo, se nel frattempo nessun nucleo
è decaduto. La funzione d’onda dell’intero sistema esprimerebbe ciò con il gatto
miscelato o (mi si perdoni l’espressione) spalmato fra lo stato di vivo e quello di
morto, in parti uguali.»10
Usando il formalismo introdotto nel capitolo 1 possiamo dire che la funzione d’onda del gatto è una sovrapposizione di due possibili stati11 : |gatto vivoi e |gatto mortoi. Il
famoso “paradosso del gatto” occupa però poche righe nel lungo intervento contro la
meccanica quantistica, svolto da Schrödinger nel 1935. In effetti, oltre a ridicolizzare le
10
J. D. Trimmer, The Present Situation in Quantum Mechanics: Translation of Schrödinger’s “Cat Paradox” Paper,
Proceedings of the American Philosophical Society, Vol. 124, No. 5. (Oct. 10, 1980), p. 328.
11
In realtà la funzione d’onda |ψi da utilizzare è quella che descrive il sistema flacone + gatto, ovvero:
´
1 `
|ψi = √ |flacone integroi|gatto vivoi + |flacone rottoi|gatto mortoi ,
2
che mostra non solo la sovrapposizione ma anche l’intreccio tra flacone e gatto.
56
Capitolo 5: Dal determinismo classico all’indeterminismo quantistico
sovrapposizoni quantistiche di “gatto vivo” e “gatto morto”, Schrödinger svolge considerazioni più lunghe e articolate sull’intreccio fra stati, evidenziato nel lavoro EPR, che
oggi viene chiamato entanglement:
«Questo è il punto. Quando uno ha una conoscenza massimale — una funzione
ψ — per due corpi completamente separati, o meglio, per ciascuno di essi singolarmente preso, allora ovviamente l’ha anche per i due corpi considerati assieme.
[. . .]
Ma l’inverso non è vero. La conoscenza massimale di un sistema complessivo non include necessariamente la conoscenza totale di tutte le sue parti, nemmeno quando queste sono
completamente separate l’una dall’altra e non sono per nulla in grado di influenzarsi a vicenda. Così può essere che qualcosa di quello che uno sa, può riguardare le relazioni
o le stipulazioni fra i due sotto-sistemi [. . .] nel modo seguente: se una certa misura
sul primo sistema dà un certo risultato, allora per una misura eseguita sul secondo,
il valore di aspettazione statistico è questo e quello. Ma se la stessa misura, eseguita
sul primo sistema, dovesse dare un altro risultato, allora per il secondo sistema sarebbero validi altri valori di aspettazione. [. . .] In questo modo, qualunque processo di
misura, o ciò che è lo stesso, qualunque variabile del secondo, può essere collegata al
valore, ancora sconosciuto, di qualche variabile del primo sistema, e viceversa. [. . .]
Diventa inevitabile un intreccio (entanglement) nelle predizoni statistiche. L’origine di ciò può solo risalire al fatto che i due corpi, in qualche istante precedente,
formavano veramente un solo sistema, cioè hanno interagito fra di loro, e tale interazione ha lasciato una traccia su ciascuno di essi. Se due corpi, ciascuno conosciuto
in maniera massimale, entrano in una situazione in cui si influenzano a vicenda, e
poi si separano, allora si verfica regolarmente ciò che ho appena chiamato l’intreccio
(entanglement) della nostra conoscenza dei due corpi.»12
Per comprendere meglio questo brano, rimandiamo il lettore al capitolo 4 e, in particolare, al paragrafo 4.4 dove viene illustrato un esempio fisico di quanto detto a parole.
Secondo Schrödinger, gli stati entangled, permessi nel formalismo quantistico, erano del
tutto incompatibili con la rappresentazione della realtà data dalla fisica classica. In altri termini, la rappresentazione dello stato di un sistema, data dalla funzione d’onda ψ,
non poteva essere considerata ragionevole: oltre al caso ridicolo del gatto, gli esempi,
per allora ancora teorici, di stati entangled indicavano stranezze irrecuperabili e limiti
fondamentali del formalismo quantistico.
5.3 Considerazioni finali
Le discussioni che si sono svolte negli anni Trenta nei piani alti della fisica fra Bohr, Einstein e Schrödinger, sono state analizzate in una letteratura sterminata13 . Si tratta di
dispute che hanno ripreso vigore nell’ultimo decennio per motivi cui accenniamo più
avanti.
Secondo lo storico Jammer, le dispute odierne fra i sostenitori dell’interpretazione ortodossa della meccanica quantistica, detta “di Copenhagen”, e i fautori delle variabili
nascoste, hanno un precedente storico significativo. Ricordano, infatti, le diatribe del periodo a cavallo fra Otto e Novecento, fra i sostenitori dell’interpretazione meccanicisticocinetica della termodinamica, come Ludwig Boltzmann, e i loro oppositori, che non cre12
J. D. Trimmer, Ibidem, pp. 331-332.
Si veda, ad esempio: G. Auletta, Foundations and interpretations of quantum mechanics, World Scientific,
2001.
13
5.3 Considerazioni finali
57
devano all’esistenza degli atomi, come Ernst Mach. Le critiche di Mach partivano da una
esigenza di semplicità e di economia dei postulati di base di una teoria. Per spiegare
gli scambi di energia e le trasformazioni descritte dalla termodinamica fenomenologica,
secondo Mach, non vi era bisogno di ricorrere a ipotesi astratte, di tipo atomico o molecolare, che (ancora) non avevano un supporto sperimentale diretto. Non era quindi
necessario dare una interpretazione della temperatura in termini di velocità quadratica
media delle molecole, o della pressione in termini di urti delle molecole di un gas contro
una parete. Non vi era alcun bisogno di complicati metodi statistici per spiegare le leggi
dei gas, ad esempio, sulla base di meccanismi più fondamentali, che agirebbero nascosti
alla esperienza normale.
L’approccio dei moderni sostenitori delle variabili nascoste, secondo Jammer, sarebbe
quindi analogo a quello di Boltzmann, che ambiva a raggiungere, con i suoi formalismi,
un livello di realtà più fondamentale rispetto alla pura fenomenologia descritta dalla
termodinamica classica (non statistica). I sostenitori dell’interpretazione ortodossa della
meccanica quantistica, per i quali le variabili nascoste sono complicazioni metafisiche e
scientificamente inutili, riecheggiano, in sostanza, le accuse di Mach a Boltzmann. Al
contrario, i fautori delle variabili nascoste sarebbero i continuatori di Boltzmann nella
ricerca di un livello di realtà più fondamentale di quello descritto dai formalismi quantistici. In altri termini, la teoria quantistica sarebbe limitata ad una pura fenomenologia,
senza uno sforzo volto a comprendere i meccanismi profondi e nascosti, che agiscono,
ad un livello fondamentale, nel determinare i vari fenomeni: per completare la meccanica
quantistica, sarebbero quindi necessarie ulteriori teorie a variabili nascoste.
L’approccio di Jammer è tipico dello storico che scava nel passato. A parte il suo punto di vista, la disputa avvenuta, a partire dagli anni Trenta, fra Einstein e Bohr è stata
l’episodio più famoso della storia della fisica, rievocato in moltissimi libri, storici e divulgativi. In particolare è rimasta famosa la discussione sull’esperimento ideale della doppia
fenditura; ideale perchè eseguito mentalmente con elettroni, fotoni o particelle quantistiche singole. Questa discussione è stata brillantemente ripresa da Feynman14 . Ora, negli
anni Trenta, e ancora negli anni Sessanta di Feynman, un esperimento del genere era
puramente di tipo gedanken, mentale15 . La tecnologia dell’epoca non ne consentiva la
realizzazione pratica!
Veniamo qui alla ragione del riemergere negli ultimi dieci anni dell’interesse per le
tematiche già introdotte e discusse negli anni Trenta: le tecnologie moderne hanno infatti
trasformato gli esperimenti di tipo “gedanken” in reali fatti di laboratorio. Per inquadrare la situazione attuale, è necessario fare un ultimo salto all’indietro nel tempo. Negli
anni Trenta, Bohr, von Neumann e altri argomentavano sulla base di esperimenti ideali,
nei quali entravano in gioco oggetti quantistici singoli. La trattazione di quei casi ideali, relativi a particelle quantistiche singole, doveva infatti essere incorporata nella teoria
quantistica. Le loro approfondite analisi teoriche, però, avevano un’utilità limitata nelle
applicazioni che interessavano all’epoca. Infatti, fra il 1940 ed il 1980, queste applicazioni
riguardavano le interazioni di fotoni, dei nuclei atomici, delle particelle elementari, la
teoria dei laser, le proprietà della materia, quali la superfluidità, la superconduttività, i
14
Si veda R. P. Feynman, La fisica di Feynman Vol. 3: meccanica quantistica, Zanichelli, 2001.
Incidentalmente, gli esperimenti gedanken rappresentano un procedimento classico dell’indagine in fisica. Galileo stesso era solito “defalcare dagli impedimenti”, cioè trascurava gli attriti nelllo studio del moto
dei gravi, e Maxwell inventava “diavoletti” in grado di agire a livello molecolare. Il termine usato dagli
scienziati tedeschi per indicare questo processo cognitivo era appunto gedanken-experiment, cioè esperimento
mentale.
15
58
Capitolo 5: Dal determinismo classico all’indeterminismo quantistico
semiconduttori. In parole povere, chi doveva occuparsi di un fascio di elettroni in un
acceleratore non aveva molto da imparare dagli esperimenti “gedanken” con elettroni
singoli. Analogamente, chi si occupava di laser, non aveva motivo di approfondire esperimenti ideali con fotoni singoli. In tutte le applicazioni, che si erano moltiplicate proprio
a partire dagli anni Trenta, i fenomeni studiati erano sì di tipo quantistico, ma l’unico elemento fondamentale della teoria, che interveniva nell’interpretazione degli esperimenti,
era il calcolo dei valori di aspettazione di determinate quantità fisiche e l’interpretazione
della probabilità in termini di quadrato dell’ampiezza della funzione d’onda.
La tecnologia degli anni dal 1940 al 1980 ,non consentiva misure ripetute su singoli
sistemi quanto-meccanici. Riguardava invece ensemble di misure singole, eseguite su un
numero grandissimo di sistemi quantistici, come i muoni, che fuoriescono dall’area di un
esperimento di scattering alle alte energie. Inoltre, nel caso delle particelle elementari,
ogni misura distrugge il sistema quantistico nel processo stesso, in cui se ne misurano le
proprietà, come nel caso dei muoni in un rivelatore.
Negli anni Ottanta, la tecnologia ha raggiunto il livello richiesto dalle analisi teoriche
degli anni Trenta. Ha permesso cioè di passare da esperimenti “gedanken” ad esperimenti reali eseguiti ripetutamente su particelle singole. Di qui la ripresa dell’interesse
per una problematica apparsa per lungo tempo decisamente remota, e per di più ristretta
ai piani alti della fisica, come il famoso dialogo fra Bohr e Enstein. È evidente, in questo,
il ruolo della tecnologia e la spinta connessa verso più o meno future applicazioni.
Per approfondire:
Riportiamo qui di seguito una bibliografia essenziale sugli argomenti trattati in
questo capitolo:
☞ M. Jammer, The philosophy of quantum mechanics, John Wyley & Sons, New York
(1974).
☞ M. Born, The Born-Einstein Letters, MacMillan, London (1971).
☞ A. Pais, Subtle is the Lord, Oxford University Press, New York (1982).
☞ J. D. Trimmer, The Present Situation in Quantum Mechanics: Translation of Schrödinger’s “Cat Paradox” Paper, Proceedings of the American Philosophical Society,
Vol. 124, No. 5. (Oct. 10, 1980), pp. 323–338 (http://www.jstor.org).
Capitolo
6
Dal bit al qubit
6.1 Numeri binari
L’entità basilare della scienza dell’informazione è il “bit”, ovvero un sistema (ad esempio
un condensatore) che può assumere due valori ben distinti, che si indicano con “0” (condensatore scarico) oppure “1” (condensatore carico). Lasciamo a letture più specializzate
il compito di fornire esempi di realizzazioni fisiche del bit. Mediante una successione
ordinata di bit è possibile codificare dell’informazione. L’esempio più semplice è la codifica binaria di un qualsiasi numero decimale con una successione ben determinata di 0 e
di 1. Rivediamo brevemente come si passa da un numero decimale, ad esempio 19, alla
sua codifica binaria. Innanzitutto si divide il numero per 2 (base, appunto, bi-naria) e si
considera il resto della divisione:
19 : 2 = 9 resto: 1.
Ora si considera il quoziente della divisione, nel nostro esempio 9, e lo si divide nuovamente per 2 e così di seguito fino a quando il quoziente dell’ultima divisione è 0:
9 : 2 = 4 resto: 1,
4 : 2 = 2 resto: 0,
2 : 2 = 1 resto: 0,
1 : 2 = 0 resto: 1.
Infine, il numero 19 in codice binario si ottiene scrivendo i resti delle divisioni precedenti
partendo da quello dell’ultima divisione, 1:2, fino a quello della prima, 19:2, ovvero:
19 → 10011.
Facciamo un altro esempio considerando il numero 22:
22 : 2 = 11
resto: 0,
11 : 2 = 5
resto: 1,
5:2=2
resto: 1,
2:2=1
resto: 0,
1:2=0
resto: 1,
59
(6.1)
Il bit: l’entità
fondamentale
della scienza
dell’informazione
60
Capitolo 6: Dal bit al qubit
da cui:
(6.2)
22 → 10110.
È importante sottolineare che il numero binario
10011
e il numero binario
000010011
sono lo stesso numero, infatti tutti gli zeri che compaiono a sinistra possono essere omessi
(a meno che il numero binario sia fatto di soli zeri: in questo caso si scrive semplicemente
0), come sarà chiaro tra poco.
Vediamo, ora, come si passa da un numero binario alla sua controparte decimale.
Per far questo procediamo non un esempio considerando il numero binario 110110. Riscriviamo il numero binario e sotto ciascuna delle sue cifre scriviamo una potenza di 2
partendo da destra con 20 verso sinistra, ovvero:
1
25
1
24
0
23
1
22
1
21
0
20
e moltiplichiamo ciascun numero della riga superiore per quello corrispondente della
riga inferiore e sommiamo i risultati come segue:
1
1
0
1
1
0
5
4
3
2
1
2
2
2
2
2
20
,
5
4
2
1
2 + 2 + 0 + 2 + 2 + 0 = 54
dove il numero decimale 54 corrisponde al numero binario 110110. Appare ora chiaro
perché, ad esempio, i numeri binari 101 e 000101 indichino lo stesso numero decimale.
Abbiamo, infatti:
1
0
1
2
1
2
2
20
,
2
2 + 0 + 20 = 5
e
0
0
0
1
0
1
25
24
23
22
21
20
,
2
0
0 + 0 + 0 + 2 + 0 + 2 = 5
ovvero i numeri 0 che compaiono a sinistra del numero binario possono essere omessi.
6.2 Il qubit
Il qubit: la
controparte
quantistica del bit
La controparte quantistica del bit è il “qubit” o “bit quantistico”. Così come per il bit, il
qubit è un sistema a due livelli, i cui stati sono indicati semplicemente con |0i e |1i e con
le ormai note proprietà:
h0|0i = 1,
h1|1i = 1,
h0|1i = 0,
h1|0i = 0.
(6.3)
In questo modo, un fotone e un atomo possono essere visti come dei qubit, facendo le
seguenti identificazioni:
61
6.3 Operazioni sui qubit
qubit
|0i
|1i
fotone
|Hi
|V i
atomo
|f i
|ei
Il lettore avrà forse intuito che, mentre il bit può assumere solo uno dei due valori possibili, “0” oppure “1”, il qubit può trovarsi nello stato |0i o |1i, oppure in infiniti stati
sovrapposizione del tipo
|ψi = a|0i + b|1i,
(6.4)
R
con le infinite combinazioni di a, b ∈ tali che a2 +b2 = 1. Un qubit del tipo (6.4) è sia “0”
che “1” con probabilità date dalle leggi della meccanica quantistica. Ciò ha importanti
ripercussioni nella computazione quantistica.
Consideriamo, ora, due qubit. Escludendo gli stati di sovrapposizione, abbiamo Stati di due qubit
quattro possibili stati a cui possiamo assegnare, ad esempio, quattro numeri decimali
passando dalla codifica binaria, come mostrato nella tabella seguente:
stato
quantistico
|0i1 |0i2
numero
binario
00
numero
decimale
0
|0i1 |1i2
01
1
10
2
|1i1 |1i2
11
3
|1i1 |0i2
Come nel caso del singolo qubit, anche per due qubit possiamo considerare stati sovrapposizione del tipo:
|ψi12 = a|0i1 |0i2 + b|0i1 |1i2 + c|1i1 |0i2 + d|1i1 |1i2 ,
(6.5)
R
con a2 + b2 + c2 + d2 = 1 e a, b, c, d ∈ (si veda anche il capitolo 4).
Nell’esistenza di stati sovrapposizioni risiedono le principali potenzialità della meccanica quantistica e, in particolare, della computazione quantistica. Vedremo in seguito
una semplice applicazione che mostrerà queste potenzialità.
6.3 Operazioni sui qubit
In questo paragrafo introduciamo due operazioni che modificano lo stato di un qubit e
che ci torneranno utili in seguito. La prima, il NOT, esiste anche nella computazione NOT
classica e agisce sullo stato di un qubit come segue:
NOT|0i = |1i,
NOT|1i = |0i,
(6.6)
in altre parole, il PNOT trasforma lo stato |0i in |1i e lo stato |1i in |0i.
La seconda operazione, chiamata trasformazione di Hadamard, che indicheremo con H, Hadamard
non esiste nella computazione classica, infatti agisce sugli stati |0i e |1i trasformandoli in
stati sovrapposizione come segue:
1
H|0i = √ (|0i + |1i),
2
1
H|1i = √ (|0i − |1i).
2
(6.7)
62
Capitolo 6: Dal bit al qubit
Esempi fisici della trasformazione di Hadamard per stati di fotoni (in cui |Hi ≡ |0i e
|V i ≡ |1i) sono dei rotatori di polarizzazione R45◦ , che agiscono sugli stati |Hi e |V i
come segue:
1
R45◦ |Hi = | + 45◦ i = √ (|Hi + |V i) ≡
2
1
R45◦ |V i = | − 45◦ i = √ (|Hi − |V i) ≡
2
1
√ (|0i + |1i),
2
1
√ (|0i − |1i).
2
(6.8)
(6.9)
È interessante notare cosa accade quando si applica la H ad uno stato sovrapposizione
del tipo:
1
(6.10)
|ψi = √ (|0i + |1i);
2
in questo caso si ha:
1
H|ψi = √ (H|0i + H|1i)
2
"
#
1
1
1
= √ √ (|0i + |1i) + √ (|0i − |1i) = |0i.
2
2
2
|
{z
} |
{z
}
H|0i
(6.11)
(6.12)
H|1i
Lo stato |ψi, che inizialmente aveva probabilità uguali a 1/2 di essere nello stato |0i o |1i,
dopo la trasformazione di Hadamrd si trova con certezza nello stato |0i.
Esercizio 6.1 Si mostri che H|φi = |1i dove si è posto |φi =
√1 (|0i
2
− |1i).
Facciamo infine osservare che se si applica due volte la trasformazione di Hadamard
ad uno stato qualsiasi si ottiene lo stesso stato.
Esercizio 6.2 Si mostri che:
HH(a|0i + b|1i) = a|0i + b|1i.
(Aiuto: Prima si calcoli H(a|0i + b|1i) e poi si applichi H al risultato ottenuto.)
6.4 Parallelismo quantistico: l’algoritmo di Deutsch-Josza
Un computer
quantistico è più
veloce di uno
classico
L’algoritmo di Deutsch-Josza, proposto da D. Deutsch e R. Josza nel 1992, è stato il primo esempio esplicito in cui si è mostrato come una computazione possa essere eseguita
in maniera esponenzialmente più veloce impiegando stati quantistici anziché semplici
mezzi classici.
Consideriamo una funzione f definita su due soli punti, l’insieme {0, 1}, a valori nello
stesso insieme {0, 1}, in formula:
f : {0, 1} → {0, 1}.
(6.13)
Questo significa che se scriviamo f (x), allora x può essere scelto uguale a 0 oppure a
1, poiché x ∈ {0, 1}. Analogamente, f (x) potrà essere uguale a 0 oppure a 1, poiché
f (x) ∈ {0, 1}. Una funzione di questo tipo può essere di due tipi.
6.4 Parallelismo quantistico: l’algoritmo di Deutsch-Josza
63
Figura 6.1: Per decidere se f è costante o bilanciata un computer classico deve valutare sia f (0)
che f (1) e, quindi, verificare se f (0) = f (1) oppure no.
Figura 6.2: Per decidere se f è costante o bilanciata un computer quantistico prende come dato
in ingresso un qubit. Dopo una sola valutazione, al posto di due come nel caso classico, se lo
stato in uscita del qubit è |0i1 allora f è costante se è |1i1 allora è bilanciata. Si noti che mentre
un computer classico calcola f quello quantistico opera sui qubit mediante la trasformazione
(unitaria) Uf .
– Primo tipo: costante. Valutata in 0 o 1 assume lo stesso valore:
f (0) = f (1).
(6.14)
– Secondo tipo: bilanciata. Valutata in 0 o 1 assume valori differenti:
f (0) 6= f (1).
(6.15)
Il problema che affrontiamo in questo paragrafo è il seguente: data la funzione (6.13) dire
se si tratta di una funzione costante o bilanciata. Se avessimo a disposizione solamente
dei mezze classici, per rispondere alla domanda dovremmo calcolare la funzione in 0 e 1,
ovvero f (0) e f (1), e controllare se f (0) = f (1) (f costante) o f (0) 6= f (1) (f bilanciata).
In altre parole, un computer classico calcolerebbe sia f (0) che f (1) e questo richiederebbe almeno due computazioni, come rappresentato schematicamente in Figura 6.1. Un
computer quantistico darebbe la soluzione con un passaggio solo, come rappresentato
in Figura 6.2: come dato in ingresso per il computer quantistico viene inserito un qubit
nello stato |0i1 ; se all’uscita il qubit si trova ancora nello stato |0i1 allora la funzione f è
costante. In questo caso basta una sola computazione. È importante osservare che mentre il computer classico deve valutare due volte f , in 0 e in 1, il computer quantistico
fa la valutazione una sola volta. Questo, come vedremo, è possibile poiché il computer
quantisico sfrutta la sovrapposizione quantistica di |0i e |1i, ovvero valuta in parallelo la
funzione in 0 e 1.
Dal momento che per comprendere come possa il computer quantistico darci il risultato con una sola computazione è necessario andare un po’ più nei dettagli, qui di seguito
64
Capitolo 6: Dal bit al qubit
è riportato l’algoritmo di Deutsch-Josza, ovvero quello che accade all’interno del computer quantistico e che permette di avere la risposta cercata con una sola elaborazione dei
dati in ingresso.
6.5 Algoritmo di Deutsch-Josza in dettaglio
Innanzitutto occorre specificare come sia possibile calcolare f con la meccanica quantistica. Questo compito si realizza con una trasformazione opportuna, che indicheremo con
Uf . Dal momento che la meccanica quantistica ha delle regole matematiche ben precise, affinché Uf sia una trasformazione permessa deve necessariamente agire su due qubit
anziché uno solo. Questo garantisce che Uf sia una trasformazione unitaria per ogni
possibile funzione f e, quindi, che rispetti le regole della meccanica quantistica. La sua
azione è la seguente:
Uf |xi1 |yi2 = |xi1 |y ⊕ f (x)i2
(6.16)
dove x e y possono assumere il valori 0 o 1, f (x) ∈ {0, 1} e “⊕” indica una “somma
modulo 2” tale che
0 ⊕ 0 = 0,
(6.17a)
0 ⊕ 1 = 1,
(6.17b)
1 ⊕ 1 = 0.
(6.17d)
1 ⊕ 0 = 1,
(6.17c)
Si noti che lo stato del primo qubit, |xi1 , resta invariato dopo la trasformazione, mentre
lo stato del secondo, inizialmente |yi2 , assume il valore y ⊕ f (x), ovvero y ⊕ |f (x)i2 . Si
osservi che se y = 0, allora la (6.16) si può scrivere anche come:
Uf |xi1 |0i2 = |xi1 |f (x)i2 .
(6.18)
In questo caso se |f (x)i2 = |0i2 possiamo affermare che f (x) = 0, se |f (x)i2 = |1i2
avremo invece che f (x) = 1. Se nella (6.16) al posto di |0i2 si usasse |1i2 si otterrebbe:
Uf |xi1 |1i2 = |xi1 |1 ⊕ f (x)i2 .
(6.19)
Ora siamo finalmente in grado di descrivere in dettaglio l’algoritmo l’algoritmo di
Deutsch-Josza. Il punto di partenza per questa computazione è un qubit in ingresso nello
stato:
|0i1 ,
(6.20)
come illustrato nella Figura 6.2. Vediamo quello che succede all’interno del computer
quantistico.
• Come abbiamo descritto sopra, per valutare f il computer quantistico necessita di
due bit. Per questo motivo, il computer affianca al qubit in ingresso un secondo
qubit ausiliario nello stato |1i2 , ottenendo un sistema di due qubit nello stato:
|0i1 |1i2 .
(6.21)
Vedremo che, alla fine dell’algoritmo, lo stato del secondo qubit sarà ancora |1i2 .
65
6.5 Algoritmo di Deutsch-Josza in dettaglio
• Applichiamo la trasformazione di Hadamard H ad entrambi i qubit (separatamente), ovvero:
1
1
|0i1 |1i2 → H|0i1 H|1i2 = √ (|0i1 + |1i1 ) √ (|0i2 − |1i2 ) .
2
2
{z
}|
{z
}
|
H|0i1
(6.22)
H|1i2
Riscriviamo l’ultimo membro dell’equazione precedente come segue:
"
#
1
|1i1 |0i2 − |1i2 + |0i1 |0i2 − |1i2
2
• Applichiamo Uf allo stato (6.23) utilizzando le (6.18) e (6.19):
#)
( "
1
|1i1 |0i2 − |1i2 + |0i1 |0i2 − |1i2
=
Uf
2
#)
( "
1
|1i1 |0i2 − |1i1 |1i2 + |0i1 |0i2 − |0i1 |1i2
= Uf
2
1
=
Uf |1i1 |0i2 − Uf |1i1 |1i2 + Uf |0i1 |0i2 − Uf |0i1 |1i2
2
(6.23)
(6.24)
(6.25)
!
!
1
=
|1i1 |f (1)i2 − |1i1 |1 ⊕ f (1)i2 + |0i1 |f (0)i2 − |0i1 |1 ⊕ f (0)i2 .
2
(6.26)
(6.27)
Dall’equazione (6.27) possiamo osservare che compare sia f (1) che f (0): il computer quantistico ha valuto in un solo passaggio sia f (1) che f (0) sfruttando la
sovrapposizione quantistica. A questo punto dobbiamo distinguere i quattro casi
possibili dei valori che possono assumere f (1) e f (0), cioè:
f (0) = f (1) = 0
f costante,
(6.28a)
f (0) = f (1) = 1
f costante,
(6.28b)
f (0) = 1 , f (1) = 0
f bilanciata,
(6.28c)
f (0) = 0 , f (1) = 1
f bilanciata.
(6.28d)
Per scrivere le equazioni seguenti in forma più compatta, introduciamo gli stati:
1
|ψi = √ (|0i + |1i),
2
1
|φi = √ (|0i − |1i),
2
(6.29)
Si noti che hψ|φi = hφ|ψi = 0. Nel caso (6.28a), grazie alle (6.17) la (6.27) diventa:
!
1
(6.30)
|1i1 |0i2 − |1i1 |1i2 + |0i1 |0i2 − |0i1 |1i2 = |ψi1 |φi2 .
2
Nel caso (6.28b), grazie alle (6.17) la (6.27) diventa:
1
|1i1 |1i2 − |1i1 |0i2 + |0i1 |1i2 − |0i1 |0i2
2
!
= −|ψi1 |φi2 .
(6.31)
66
Capitolo 6: Dal bit al qubit
Nella realtà si verifica uno solo di questi casi. Nel caso (6.28c), grazie alle (6.17) la
(6.27) diventa:
!
1
(6.32)
|1i1 |0i2 − |1i1 |1i2 + |0i1 |1i2 − |0i1 |0i2 = −|φi1 |φi2 .
2
Nel caso (6.28d), grazie alle (6.17) la (6.27) diventa:
1
|1i1 |1i2 − |1i1 |0i2 + |0i1 |0i2 − |0i1 |1i2
2
!
= |φi1 |φi2 .
(6.33)
• Applichiamo la trasformazione di Hadamard H ad entrambi i qubit delle equazioni
(6.30)–(6.33). Dal momento che:
H|ψi = |0i,
H|φi = |1i,
(6.34)
dove |ψi e |φi sono data della (6.29), le equazioni (6.30) e (6.31) si trasformano in1 :
|0i1 |1i2
(se f costante),
(6.35)
mentre le equazioni (6.32) e (6.33) diventano:
|1i1 |1i2
(se f bilanciata).
(6.36)
Si noti che lo stato del secondo qubit, quello ausiliario, in tutti i casi è ritornato
ad essere quello iniziale, cioè |1i2 . Per questa ragione può essere ignorato, ovvero
eliminato2 , ed in uscita dal computer quantistico abbiamo semplicemente:
|0i1
(se f costante),
(6.37)
(se f bilanciata).
(6.38)
e:
|1i1
• Misura del qubit in uscita. Osservando gli stati (6.37) e (6.38) si nota che se la f
è costante, allora il qubit in uscita è con certezza, cioè con probabilità uguale a 1,
nello stato |0i1 ; se f è bilanciata allora il qubit in uscita è sicuramente nello stato
|1i1 . Viceversa, se osservando lo stato del qubit in uscita troviamo che esso si trova
nello stato |0i1 , allora possiamo concludere con certezza che f è costante, altrimenti
è bilanciata.
Ovviamente un computer quantistico esegue i passaggi precedenti in modo automatico, così come è automatica la valutazione di f (0) e f (1) in un computer classico. La
differenza fondamentale è che un computer classico deve eseguire due computazioni di
f , deve, cioè, valutare f (0) e f (1) separatamente; un computer quantistico, al contrario,
valuta f (0) e f (1) contemporaneamente sfruttando gli stati sovrapposizione (si veda l’equazione (6.27)). Quello che quindi dobbiamo fare in pratica per rispondere alla nostra
domanda si può riassumere come segue:
1
Il segno “−” che compare davanti ad uno stato quantistico può essere ignorato poiché non ha significato
fisico. Come conseguenza gli stati |ψi e −|ψi sono lo stesso stato. Per rendersi conto di ciò, si considerino lo
stato |Hi e −|Hi: si tratta sempre di fotoni polarizzati orizzontalmente che inviati su un FSOP fanno scattare
lo stesso rivelatore e, quindi, non c’è modo di distinguerli.
2
Se lo stato del secondo qubit fosse stato diverso da quello iniziale, allora avremmo dovuto tenerlo in
considerazione!
6.5 Algoritmo di Deutsch-Josza in dettaglio
67
1. inserire nel computer quantistico un qubit nello stato |0i1 ;
2. se, in uscita, troviamo ancora |0i1 allora f è costante, altrimenti è bilanciata.
Nel caso di un computer classico dovremmo invece procedere in quest’altra maniera:
1. inserire il bit “0”;
2. inserire il bit “1”;
3. se f (0) = f (1) allora f è costante, altrimenti è bilanciata.
Quindi, rispetto al caso quantistico, dobbiamo fare una passaggio in più. Si potrebbe
pensare che inserendo i due bit 0 e 1 nel computer classico sia possibile avere la risposta
in un solo passaggio: in realtà anche in questo caso occorrerebbe valutare due volte f . . .
L’algoritmo di Deutsch-Josza può essere esteso al caso in cui la funzione da valutare
abbia come variabili un numero N arbitrariamente grande di bit. In questo caso, il problema di scoprire se la funzione è costante oppure no viene risolto dal computer quantistico
in tempi esponenzialmente più brevi rispetto a quelli richiesti da un computer classico.
Alla fine di questo capitolo ribadiamo che il computer quantistico riesce a dare la
risposta più velocemente, perché è in grado di sfruttare la sovrapposizione quantistica e,
quindi, può valutare in parallelo la f sui due valori 0 e 1 allo stesso momento: è questo il
parallelismo quantistico.
Non approfondiremo ulteriormente questo affascinante argomento: basti dire che sono stati creati algoritmi quantistici ben più complicati in grado di risolvere in tempi molto
più brevi problemi computazionali proibitivi anche per il computer classico più potente.
Da ricordare:
☞ La controparte quantistica del bit è il qubit, che può esistere in stati
sovrapposizione del tipo:
|ψi = a|0i + b|1i,
dove a, b ∈
R e a2 + b2 = 1.
☞ Ogni sistema fisico a due livelli può essere visto come un qubit.
☞ L’algoritmo di Deutsch-Josza è stato il primo esempio di come una computazione possa essere eseguita in maniera esponenzialmente più veloce impiegando
stati quantistici anziché semplici mezzi classici.
☞ La potenza del calcolo quantistico risiede nell’esistenza delle sovrapposizioni
quantistiche: in questo modo si possono eseguire operazioni in parallelo con
un solo passaggio (parallelismo quantistico).
68
Capitolo 6: Dal bit al qubit
Capitolo
7
Crittografia quantistica
7.1 Chiavi di crittazione
Ev diolfa zucefata ze azzicogora be zgeffasgupeu diuvfelfezu.
Non abbiamo improvvisamente deciso di usare una lingua sconosciuta. Abbiamo
solo crittato, cioè mascherato, la prima frase di questo paragrafo. Un appassionato di
enigmistica sarà sicuramente in grado di decrittare tale frase trovando la chiave che abbiamo utilizzato per crittarla. Avendo tempo a sufficienza, crediamo che, armato con un po’
di pazienza, chiunque potrebbe essere in grado di trovare il modo di decifrare quanto
abbiamo scritto. D’altra parte, se volessimo che un lettore fosse in grado di interpretare
la nostra frase più velocemente degli altri, dovremmo fornirgli la chiave per decrittarla, Chiave
ovvero la regola che abbiamo utilizzato per mascherare le sue parole. Nel nostro caso la
chiave consiste nel sostituire le lettere che compaiono nella prima frase come indicato qui
di seguito:
A
↓
O
B
↓
D
C
↓
P
D
↓
Q
E
↓
I
F
↓
T
G
↓
R
H
↓
V
I
↓
U
L
↓
S
M
↓
H
N
↓
Z
O
↓
E
P
↓
F
Q
↓
B
R
↓
M
S
↓
G
T
↓
L
U
↓
A
V
↓
N
Z
↓
C
In questo modo dovreste trovare: “In questo capitolo ci occuperemo di crittografia quantistica”. Ovviamente, più il messaggio che si vuole nascondere è riservato, più la chiave
dovrà essere difficile da trovare.
Quando si vuole trasmettere un messaggio crittato in modo che solo il diretto interessato sia in grado di decifrarlo, è necessario che l’interlocutore riceva non solo il messaggio, ma anche la chiave. È chiaro che se una spia fosse in grado di intercettare la chiave
allora riuscirebbe a comprendere il messaggio. Quindi se, da una parte, si può creare una
chiave estremamente difficile da trovare, dall’altra occorre fare in modo che tale chiave
venga distribuita in modo sicuro ai legittimi utilizzatori.
Nel prossimo paragrafo illustreremo come, grazie alla meccanica quantistica, sia possibile distribuire una chiave di crittazione in modo assolutamente sicuro, riuscendo perfino a scoprire se tale chiave sia stata intercettata da una spia. Come il lettore può immaginare, quest’ultimo aspetto è di fondamentale importanza: una volta che si ha la certezza
che un interlocutore abbia ricevuto la chiave senza che questa sia caduta nelle mani di
69
70
Capitolo 7: Crittografia quantistica
Figura 7.1: Schema di un canale di comunicazione basato sugli stati di polarizzazione di singoli
fotoni. I bit “0” e “1” vengono codificati dal trasmettitore rispettivamente negli stati |Hi e |V i e
spediti al ricevitore. Il ricevitore analizza il segnale (i fotoni) con un SFOP: in questo modo può
sapere se il fotone che ha ricevuto è nello stato |Hi (corrispondente al bit “0”) o nello stato |V i
(corrispondente al bit “1”).
una spia, allora si può inviare tranquillamente il messaggio crittato, senza il timore che
questo possa venire decifrato in tempi utili da terze persone.
7.2 Comunicazione binaria con singoli fotoni
Codifica con stati
di polarizzazione
di fotoni
Un qualsiasi messaggio può essere codificato utilizzando il codice binario, come descritto nel capitolo 6. Per tal ragione focalizzeremo la nostra attenzione sulla spedizione di
messaggi codificati in modo binario. Utilizzando gli stati di polarizzazione |Hi e |V i dei
fotoni possiamo codificare il bit “0” e il bit “1” come segue (si veda anche il capitolo 6):
bit
0
1
stato fotone
|Hi
|V i
oppure, utilizzando gli stati | + 45◦ i e | − 45◦ i:
bit
0
1
stato fotone
| + 45◦ i
| − 45◦ i
In Figura 7.1 è rappresentata una possibile realizzazione di un canale di comunicazione basato sugli stati |Hi e |V i dei fotoni (un canale del tutto analogo può essere pensato
per gli stati | + 45◦ i e | − 45◦ i). Generalizzando quanto illustrato in Figura 7.1, se il trasmettitore volesse spedire al ricevitore una stringa, ovvero una successione ordinata di
bit, del tipo:
10011010001
allora dovrebbe spedire in successione e uno alla volta i seguenti fotoni (il primo ad essere
spedito è l’ultimo a destra!):
|V i, |Hi, |Hi, |V i, |V i|Hi, |V i, |Hi, |Hi, |Hi, |V i.
7.2 Comunicazione binaria con singoli fotoni
71
Figura 7.2: Schema di un canale di comunicazione basato sugli stati di polarizzazione di singoli
fotoni con la presenza di una spia. La spia intercetta i fotoni negli stati dopo aver decodificato
il messaggio, lo ricodifica negli stati |Hi e |V i prima che giungano al ricevitore e, dopo aver
decodificato il messaggio, lo ricodifica negli stati |Hi e |V i e lo rispedisce al ricevitore che non si
accorge di nulla: il messaggio ricevuto è uguale a quello inviato.
Fino a qui abbiamo descritto una controparte quantistica della comunicazione binaria
classica: non abbiamo sfruttato le proprietà quantistiche dei fotoni. In effetti, se decidessimo di utilizzare il canale di comunicazione della Figura 7.1 per trasmettere una chiave
segreta, ci sarebbe un rischio altissimo di intercettatazione senza che né il trasmettitore né il ricevitore si accorgano di nulla. . . In questo caso una spia potrebbe inserirsi, ad Presenza di una
esempio, a metà del canale di comunicazione e rivelare per prima il segnale ed inviare, spia
in seguito, il risultato della sua misura al ricevitore legittimo, che, quindi, otterrebbe comunque il segnale inviatogli dal trasmettitore. Questo scenario è rappresentato in Figura
7.2.
Supponiamo, ora, che il trasmettitore decida in segreto con il ricevitore di codificare
il messaggio negli stati | + 45◦ i e | − 45◦ i; analogamente assumiamo che una ipotetica
spia intercetti il messaggio e lo decodifichi usando gli stati |Hi e |V i (Figura 7.3). In
questo caso è possibile scoprire la presenza della spia! Vediamo come con un esempio.
Immaginiamo che il trasmettitore invii lo stato | + 45◦ i che corrisponde al bit “0”. Da
quanto abbiamo appreso nel capitolo 2, sappiamo che un fotone nello stato | + 45◦ i è uno
stato sovrapposizione degli stati |Hi e |V i:
1
| + 45◦ i = √ (|Hi + |V i).
2
(7.1)
Quando questo stato arriva al SFOP della spia, ciascuno dei due rivelatori può rivelare il
fotone con il 50% di probabilità. Supponiamo che scatti il rivelatore che rivela lo stato |V i:
la spia concluderebbe che lo stato inviato corrisponde al bit “1” (sbagliato!) e, dunque,
spedirebbe al ricevitore lo stato |V i. Ma lo stato |V i è una sovrapposizione degli stati
| + 45◦ i e | − 45◦ i:
1
(7.2)
|V i = √ (| + 45◦ i − | − 45◦ i),
2
72
Capitolo 7: Crittografia quantistica
Figura 7.3: Schema di un canale di comunicazione basato sugli stati di polarizzazione di singoli
fotoni con la presenza di una spia. Mentre trasmettitore e ricevitore si sono accordati per mandare
e ricevere segnali codificati negli stati | + 45◦ i e | − 45◦ i, la spia intercetta i fotoni, li decodifica e li
rispedisce utilizzando gli stati |Hi e |V i. In questo caso il trasmettitore ed il ricevitore si possono
accorgere della presenza della spia. Si veda il testo per i dettagli.
e, quando arriva al SFOP(+45◦ ) del ricevitore, i suoi due rivelatori possono scattare ciascuno con il 50% di probabilità. Se scattasse il rivelatore che rivela lo stato | − 45◦ i allora
il ricevitore saprebbe con certezza che qualcuno ha intercettato il messaggio (il ricevitore,
infatti, si aspettava con certezza di ricevere lo stato | + 45◦ i)! Un ragionamento analogo
vale nel caso in cui la spia riveli |Hi, che corrisponde al bit “0”: ora, per puro caso, la spia
ha trovato il valore corretto del bit inviato, ma quando rispedisce lo stato |Hi al ricevitore
questo ha ancora una probabilità del 50% che scatti il rivelatore che rivela | − 45◦ i, mostrando la presenza della spia. Dal momento che questi ragionamenti sono basati sulle
probabilità, si può verificare anche che il ricevitore ottenga come risultato della sua misura lo stato | + 45◦ i, ovvero quello aspettato, pur essendoci la spia. Per questa ragione,
al fine di rivelare l’effettiva presenza della spia, il trasmettitore deve inviare un numero
elevato di fotoni, sempre, però, uno alla volta, tutti nello stato | + 45◦ i: allora se c’è una
spia accadrà quasi sicuramente che il ricevitore riceva il segnale sbagliato (a meno che
anche la spia utilizzi un SFOP(+45◦ ))!
7.3 Distribuzione quantistica di chiavi: protocollo BB84
In questo paragrafo discuteremo un metodo per distribuire una chiave di crittazione basato sula trasmissione di singoli fotoni polarizzati in modo opportuno. Questo metodo, o,
meglio, questo protocollo, in quanto richiede l’esecuzione di alcuni passaggi, è stato proposto da C. H. Bennett e G. Brassard. È considerato il primo passo verso la crittografia
quantistica ed è stato recentemente realizzato sperimentalmente lungo una distanza di
184.6 Km da un gruppo di ricercatori Americani del Los Alamos National Laboratory e
del National Institute of Standards and Technology.
Il canale di comunicazione è del tutto simile a quello di Figura 7.1, solo che ora il
73
7.3 Distribuzione quantistica di chiavi: protocollo BB84
trasmettitore decide casualmente se inviare i bit codificandoli in |Hi (bit “0”) e |V i (bit
“1”) oppure in | + 45◦ i (bit “0”) e | − 45◦ i (bit “1”). Il ricevitore, non sapendo la scelta fatta
dal trasmettitore, di volta in volta deciderà casualmente se utilizzare un SFOP oppure un
SFOP(+45◦ ). Per semplificare il formalismo, d’ora in poi utilizzeremo il simbolo “⊕” per
indicare la codifica del bit negli stati |Hi e |V i ed il simbolo “⊗” per la codifica negli stati
| + 45◦ i e | − 45◦ i. Ad esempio, se diciamo che il trasmettitore ha mandato il segnale nella
codifica ⊕ intendiamo che ha inviato lo stato |Hi o |V i; se diciamo che il ricevitore ha
misurato la codifica ⊗ vogliamo dire che ha scelto un SFOP(+45◦ ) e, quindi, misurerà gli
stati | + 45◦ i e | − 45◦ i.
A questo punto abbiamo due possibili scenari che si possono verificare.
Primo scenario – Il ricevitore ha usato la stessa codifica del trasmettitore: in questo caso
il bit inviato e quello ricevuto sono sicuramente uguali.
Secondo scenario – Il ricevitore ha usato una codifica differente da quella scelta dal
trasmettitore: in questo caso il bit inviato e quello ricevuto possono essere differenti,
come è chiaro da quanto descritto nel paragrafo precedente, ma possono anche essere
uguali, sebbene ciò avvenga del tutto casualmente.
A questo punto possiamo descrivere il protocollo per la trasmissione sicura di una
chiave di trasmissione come segue.
• Il trasmettitore codifica una successione di bit “0” e “1” scegliendo casualmente se
utilizzare la codifica ⊕ oppure ⊗.
• Il ricevitore decide casualmente se utilizzare per la sua misura ⊕ oppure ⊗.
• Il trasmettitore dichiara pubblicamente le scelte che ha fatto per la codifica, senza
rivelare quale bit abbia effettivamente inviato. Altrettanto fa il ricevitore.
• Il trasmettitore ed il ricevitore scartano tutti i bit corrispondenti a scelte di codifica/rivelazione differente.
• I bit rimanenti formano una stringa completamente casuale, in possesso sia del
trasmettitore che del ricevitore, che verrà utilizzata come chiave segreta.
Si noti che la chiave non viene mai rivelata! Per vedere all’opera il protocollo consideriamo la seguente tabella che indica le scelte del trasmettitore:
Trasmettitore
nr. bit inviato
codifica
stato
bit
1
⊕
|Hi
0
2
⊕
|V i
1
3
⊗
| + 45◦ i
0
4
⊕
|V i
1
5
⊗
| − 45◦ i
1
6
⊗
| + 45◦ i
0
···
···
···
···
In questa tabella, invece, sono riportate le scelte fatte dal ricevitore ed i risultati ottenuti:
Ricevitore
nr. bit ricevuto
codifica
stato
bit
1
⊗
| + 45◦ i
0
2
⊕
|V i
1
3
⊗
| + 45◦ i
0
4
⊗
| + 45◦ i
0
5
⊗
| − 45◦ i
1
6
⊕
|Hi
0
···
···
···
···
Codifica e
decodifica
casuale
Protocollo BB84
74
Capitolo 7: Crittografia quantistica
A questo punto trasmettitore e ricevitore comunicano le rispettive codifiche:
Codifiche
nr. bit
trasmettitore
ricevitore
stessa codifica?
1
⊕
⊗
2
⊕
⊕
sì!
3
⊗
⊗
sì!
4
⊕
⊗
5
⊗
⊗
sì!
6
⊗
⊕
···
···
···
···
Ora il trasmettitore ed il ricevitore scartano i bit numero 1, 4, 6, . . . delle loro tabelle, che
corrispondono a scelte di codifica differenti, ottenendo:
Trasmettitore
bit
1
0
Ricevitore
1
bit
···
1
0
1
···
ovvero la stessa sequenza di bit! Dal momento che si tratta di una stringa assolutamente
casuale e nota solo a loro due, il ricevitore ed il trasmettitore la possono utilizzare per
crittare i loro messaggi.
Supponiamo, ora, che tra trasmettitore e ricevitore ci sia una spia che scelga casualmente la codifica per la sua misura e ritrasmetta il bit misurato. Possibili codifiche e
risultati della spia potrebbero essere i seguenti (assumiamo che i bit inviati siano ancora
quelli inviati in precedenza dal trasmettitore):
Spia
nr. bit ricevuto
codifica
stato
bit
1
⊕
|Hi
0
2
⊗
| − 45◦ i
1
3
⊕
|V i
1
4
⊗
| + 45◦ i
0
5
⊕
|V i
1
6
⊗
| + 45◦ i
0
···
···
···
···
Se assumiamo che il ricevitore scelga la stessa codifica adottata in precedenza per la sua
misura, ora otterrebbe (ripetiamo che adesso gli stati che arrivano al ricevitore sono quelli
spediti dalla spia e che corrispondo ai risultati delle misure ottenuti dalla spia stessa):
Ricevitore
nr. bit ricevuto
codifica
stato
bit
1
⊗
| − 45◦ i
1
2
⊕
|V i
1
3
⊗
| − 45◦ i
1
4
⊗
| + 45◦ i
0
5
⊗
| − 45◦ i
1
6
⊕
|Hi
0
···
···
···
···
Dopo il confronto pubblico trasmettitore e ricevitore ottengono le seguenti stringe:
Trasmettitore
bit
1
0
Ricevitore
1
···
bit
1
1
1
···
che, al contrario di prima, sono differenti! Dal momento che l’unica informazione comune tra il trasmettitore ed il ricevitore è la codifica utilizzata, questi non possono sapere di
avere ottenuto delle stringhe differenti (dall’analisi teorica sanno che queste sono certamente uguali, in assenza di spie, s’intende). D’altra parte, al fine di verificare la presenza
Una spia è o meno della spia, trasmettitore e ricevitore possono decidere di rivelare una parte della
scoperta con stringa di bit ottenuta per controllare se tutti i bit coincidono, come dovrebbe essere nel
certezza
caso di assenza di intercettazione. Nel caso specifico si nota che il secondo bit è differente
7.3 Distribuzione quantistica di chiavi: protocollo BB84
75
e questo è indice della presenza della spia! Allora il trasmettitore ed il ricevitore sanno
che il canale non è sicuro ed interrompono la trasmissione.
Possiamo finalmente completare il protocollo enunciato nella pagina precedente aggiungendo un altro importantissimo punto:
• Il trasmettitore ed il ricevitore confrontano pubblicamente una o più parti della
loro chiave segreta: se trovano delle differenze sanno per certo che una spia ha
intercettato il messaggio!
Quest’ultimo punto ci permette di affermare che il protocollo BB84 consente di distribuire
una chiave di crittazione in modo tale da avere la certezza che questa chiave sia conosciuta
solamente dalle parti chiamate in causa nella comunicazione.
Ribadiamo che tutto questo è possibile perché possiamo sfruttare le potenzialità degli
stati di sovrapposizione previsti dalla meccanica quantistica.
Da ricordare:
☞ Utilizzando le proprietà quantistiche è possibile generare e distribuire in
maniera completamente sicura una chiave segreta.
☞ Un esempio concreto di distribuzione quantistica di chiavi è dato del protocollo
BB84, che, basandosi sugli stati di polarizzazione dei fotoni per la codifica della chiave, illustra come sia possibile non solo generare e distribuire una chiave di crittazione segreta, ma anche come si possa rivelare la presenza di una
eventuale spia, verificando la sicurezza o meno del canale di comunicazione.
☞ La sovrapposizione quantistica sta alla base dell’efficacia del protocollo BB84.
76
Capitolo 7: Crittografia quantistica
Capitolo
8
Teletrasporto quantistico
8.1 Cosa è e cosa non è il teletrasporto quantistico
Supponiamo che un trasmettitore voglia inviare ad un ricevitore lo stato:
|ψi1 = a|0i1 + b|1i1 ,
|a|2 + |b|2 = 1,
a, b ∈
C
(8.1)
di un generico1 qubit denotato con 1. La soluzione più semplice è sicuramente quella di
spedire direttamente il qubit 1 al ricevitore. Una seconda possibilità potrebbe essere quella di comunicare al ricevitore i valori a e b in modo tale che possa crearsi un qubit identico
√
a (8.1): ad esempio, se il qubit 1 fosse un fotone nello stato | + 45◦ i1 , cioè a = b = 1/ 2 e
|0i1 ≡ |Hi1 e |1i1 ≡ |V i1 , allora il trasmettitore potrebbe dire al ricevitore di “prendere”
un fotone nello stesso stato2 . Se, però, la spedizione diretta non è possibile per qualche
motivo e i coefficienti a e b sono sconosciuti, allora la meccanica quantistica permette di
teletrasportare, cioè ricreare in modo perfetto, lo stato del qubit 1 su di un altro qubit, in
modo che lo stato iniziale e quello finale siano perfettamente uguali, pur riferendosi a qubit diversi. Quindi non si tratta di un teletrasporto come nella serie televisiva Star Trek,
dove le persone venivano smaterializzate in un luogo per essere materializzate istantaneamente in un altro. Quello che si teletrasporta con la meccanica quantistica è lo stato di
una particella e non la particella stessa, fotone, atomo o ione che sia. Per di più questo
processo non avviene istantaneamente. . .
Se volessimo fare un esempio “classico” potremmo dire quanto segue. Immaginiamo
di avere due persone in due luoghi differenti che indossano una maglietta dello stesso
modello e di colore bianco. Dobbiamo, però, assumere che queste due magliette non
siano semplici magliette, ma siano entangled, intrecciate, come descritto per i fotoni nel
capitolo 4. Immaginiamo, ora, che la prima persona abbia a disposizione una seconda
maglietta di colore rosso con una delle due maniche di colore bianco. Con il teletrasporto
è allora possibile trasferire il colore di questa seconda maglietta su quella della seconda
1
Per “generico” intendiamo che i coefficienti a e b non sono specificati e, quindi, generici pur rispettando
la condizione |a|2 + |b|2 = 1.
2
Dal momento che tutti i fotoni della stessa energia sono uguali, quello che li distingue è il loro stato. In
questo modo due fotoni, 1 e 2, negli stati:
1
|ψi1 = √ (|Hi1 + |V i1 ),
2
sono indistinguibili.
77
1
|ψi2 = √ (|Hi2 + |V i2 )
2
Il teletrasporto
quantistico non
trasporta materia
ma solo
informazione e
non avviene
istantaneamente
78
Capitolo 8: Teletrasporto quantistico
persona. Per far questo è sufficiente che la prima persona indossi la seconda maglietta
sulla prima e. . . ecco che la maglietta della seconda persona diventa rossa con una manica bianca! Il prezzo da pagare, però, è che le due magliette rimaste alla prima persona
sono diventate grigie, tranne il colore della manica della prima maglietta, che è rimasto
bianco. . . D’altra parte può accadere che la manica bianca sia quella sbagliata (se la prima
maglietta aveva la manica bianca a destra ora è a sinistra): così, per essere sicura di avere
la maglietta dello stesso colore, la seconda persona deve telefonare alla prima per chiedere quale sia la manica rimasta bianca delle sue magliette e, eventualmente, scambiare le
maniche. Questo ultimo passaggio fa sì che il teletrasporto non sia istantaneo, ma richieda una comunicazione di tipo classico, una telefonata, che avviene a velocità finita. È
importante osservare che la stoffa delle magliette non viene smaterializzata e quindi nel
teletrasporto che ci apprestiamo a descrivere non avviene alcun trasporto di materia!
Il passaggio al caso quantistico si ottiene semplicemente facendo corrispondere alle
magliette il sistema fisico che chiamiamo qubit (il fotone, l’atomo,. . .) e al colore lo stato
del qubit (i coefficienti a e b).
Riassumendo:
• nel processo di teletrasporto (quantistico) non si ha trasporto di materia;
• il teletrasporto (quantistico) non avviene istantaneamente, ma richiede sempre una
comunicazione classica.
• al termine del processo
Avendo ben chiari questi due punti, possiamo passare alla descrizione formale del teletrasporto.
8.2 Il protocollo del teletrasporto quantistico
Il protocollo del teletrasporto quantistico, che ci apprestiamo a descrivere, è stato proposto da Charles H. Bennett e collaboratori nel 19933 . Innanzitutto assumeremo che lo
stato del qubit 1 che si vuole teletrasportare da un osservatore A ad un altro B sia dato
dal’equazione (8.1). I due qubit 3 e 4 (le due magliette entangled) posseduti da A e B si
trovano nello entangled:
1
|Φ+ i23 = √ (|0i2 |0i3 + |1i2 |1i3 ) .
2
(8.2)
Lo stato complessivo |φi123 delle tre particelle è dato, quindi, da
1
|φi123 = |ψi1 |Φ+ i23 = (a|0i1 + b|1i1 ) √ (|0i2 |0i3 + |1i2 |1i3 )
|
{z
} 2
|
{z
}
|ψi1
(8.3)
|Φ+ i23
b
a
b
a
= √ |0i1 |0i2 |0i3 + √ |1i1 |0i2 |0i3 + √ |0i1 |1i2 |1i3 + √ |1i1 |1i2 |1i3 .
2
2
2
2
(8.4)
Come rappresentato in Figura 8.1, l’osservatore A ha a sua disposizione i qubit 1 e 2,
mentre l’osservatore B possiede il qubit 3. A questo punto l’osservatore A deve misurare
8.2 Il protocollo del teletrasporto quantistico
79
Figura 8.1: Rappresentazione schematica del protocollo di teletrasporto quantistico: il qubit che
si vuole teletrasportare, |ψi1 , è misurato dall’osservatore A insieme al qubit 2 di una coppia di
qubit entangled, |Φ+ i23 . Il risultato della misura viene comunicato all’osservatore B che agisce
sul suo qubit 3 con una determinata operazione. Il risultato è il trasferimento (teletrasporto) dello
stato del qubit 1 sul qubit 3. Si veda il testo per i dettagli.
i suoi qubit (che è l’equivalente di indossare le due magliette nell’esempio classico precedente). Per fare questo A esegue una misura di Bell, ovvero una misura che si esegue su Misura di Bell
due qubit e che, come risultato, dice, con una determinata probabilità, se questi si trovavano in uno dei quattro possibili stati di Bell (per la base di Bell si veda anche il capitolo
4):
1
|Φ+ i12 = √ (|0i1 |0i2 + |1i1 |1i2 ) ,
2
1
|Φ− i12 = √ (|0i1 |0i2 − |1i1 |1i2 ) ,
2
1
|Ψ+ i12 = √ (|0i1 |1i2 + |1i1 |0i2 ) ,
2
1
−
|Ψ i12 = √ (|0i1 |1i2 − |1i1 |0i2 ) .
2
(8.5a)
(8.5b)
(8.5c)
(8.5d)
Per calcolare queste probabilità, occorre riscrivere la (8.4) in funzione degli stati (8.5).
Questo si ottiene mediante le seguenti uguaglianze, la cui verifica è lasciata al lettore
come esercizio:
1
|0i1 |0i2 = √
2
1
|1i1 |1i2 = √
2
1
|0i1 |1i2 = √
2
1
|1i1 |0i2 = √
2
|Φ+ i12 + |Φ− i12 ,
(8.6a)
|Φ+ i12 − |Φ− i12 ,
(8.6b)
|Ψ+ i12 − |Ψ− i12 .
(8.6d)
|Ψ+ i12 + |Ψ− i12 ,
(8.6c)
3
C. H. Bennett, et al., Teleporting an Unknown Quantum State via Dual Classical and Einstein-Podolsky-Rosen
Channels, Phys. Rev. Lett. 70, 1895 (1993).
80
Capitolo 8: Teletrasporto quantistico
caso
1
2
3
4
risultato misura
|Φ+ i12
|Φ− i12
|Ψ+ i12
|Ψ− i12
stato qubit 3
a|0i3 + b|1i3
a|0i3 − b|1i3
a|1i3 + b|0i3
a|1i3 − b|0i3
Tabella 8.1: Quattro possibili casi equiprobabili di risultati della misura di Bell sui qubit 1 e 2 e
corrispondenti stato del qubit 3.
Sostituendo le (8.6) in (8.4) si ha:
1
a(|Φ+ i12 + |Φ− i12 )|0i3 + b(|Φ+ i12 − |Φ− i12 )|0i3
2
+ a(|Ψ+ i12 + |Ψ− i12 )|1i3 + b(|Ψ+ i12 − |Ψ− i12 )|1i3
1
= |Φ+ i12 (a|0i3 + b|1i3 ) + |Φ− i12 (a|0i3 − b|1i3 )
2
+ |Ψ+ i12 (a|1i3 + b|0i3 ) + |Ψ− i12 (a|1i3 − b|0i3 ) ,
|φi123 =
(8.7)
(8.8)
da cui concludiamo che le probabilità ricercate, ovvero le probabilità che i qubit 1 e 2
dell’osservatore A si trovino in uno dei quattro elementi della base di Bell sono:
P (|Φ+ i12 ) = P (|Φ− i12 ) = P (|Ψ+ i12 ) = P (|Ψ− i12 ) = 25%.
(8.9)
In altre parole, la misura dà con uguale probabilità uno dei quatro stati. A questo punto, a seconda del risultato di A, il qubit 3 dell’osservatore B si troverà in uno stato che
possiamo ricavare dalla (8.8).
Nella Tabella 8.1 sono mostrati i quattro possibili risultati della misura di Bell ottenibili, con la stessa probabilità, dall’esservatore A con il corrispondente stato del qubit 3.
Come si può notare, solo nel caso 1 il qubit 3 si trova esattamente nello stato (8.1). In tutti
gli altri casi, sebbene compaiano i coefficienti a e b, questi non si trovano al posto giusto
o/e hanno il segno sbagliato. Per risolvere questo problema l’osservatore A deve comunicare a B il risultato della sua misura, così come accadeva nell’esempio delle magliette in
cui si comunicava la posizione della manica bianca. In questo modo B può operare delle
operazioni sul suo qubit quali, ad esempio, scambiare |0i3 con |1i3 o cambiare il segno a
|0i3 o a |1i3 . Si tratta comunque di operazioni, o, meglio, trasformazioni ammesse dalla
meccanica quantistica4 e che, ad esempio, nel caso di fotoni corrispondono a rotazioni di
polarizzazione o sfasamenti.
Si osservi, infine, che, dal suo risultato, l’osservatore A non può risalire ai coefficienti
a e b: questo è analogo al colore grigio delle magliette del nostro esempio classico.
In conclusione, alla fine del processo di teletrasporto lo stato del qubit 1 è stato teletrasportato sul qubit 3. Ribadiamo che non c’è stato teletrasporto di materia e il tutto non
è avvenuto istantaneamente.
Una lettura più accurata del protocollo di teletrasporto quantistico ci porta alla seguente considerazione. Nel processo di teletrasporto l’informazione contenuta nel qubit
iniziale (i coefficienti a e b di |0i1 e |1i1 , rispettivamente) viene divisa in due parti: una
quantistica ed una classica. La parte quantistica viene trasferita al qubit 3 grazie all’entanglement tra i qubit 2 e 3 (formalmente parlando, si veda il passaggio matematico da
4
Quelle citate, infatti, si ottengono mediante trasformazioni unitarie.
8.3 Esperimenti
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Figura 8.2: Immagine della realizzazione sperimentale del teletrasporto quantistico (fotografia
tratta dal sito http://www.quantum.at).
(8.4) a (8.8) e “sposta” a e b dal qubit 1 al qubit 3); la parte classica, invece, necessita di un
canale di comunicazione classico e corrisponde ad una operazione necessaria per fare in
modo che a e b siano effettivamente i coefficienti di |0i3 e |1i3 , rispettivamente, anche con
il segno corretto.
Esercizio 8.1 Si riveda il protocollo di teletrasporto quantistico utilizzando gli stati |Φ− i23 ,
|Ψ+ i23 e |Ψ− i23 al posto di |Φ+ i23 .
8.3 Esperimenti
Il teletrasporto quantistico è stato realizzato sperimentalmente impiegando sia atomi che
fotoni. In questo luogo non parleremo di tutti gli esperimenti che sono stati fatti, ma
ricordiamo, senza andare nei dettagli, che i primi due sono stati eseguiti dal gruppo
di Anton Zeilinger ad Innsbruck5 (Figura 8.2) e dal gruppo di Francesco De Martini a
Roma6 .
8.4 Considerazioni finali
Ribadiamo che il processo della teleportation non avviene istantaneamente, in quanto
necessita di un canale di comunicazione classico in aggiunta a quello quantistico. Anche
se le probabilità delle misure con basi di Bell (8.9) sono assegnate da regole quantistiche,
è necessaria un’operazione finale, per la quale sono richieste informazioni comunicate
per via classica che possono viaggiare ad una velocità finita non superiore a quella della
luce. Non insorge, quindi, un contrasto diretto con la relatività speciale.
Il protocollo del teletrasporto ha la sua lontana origine nella problematica della località sollevata con forza da EPR nel 1935 (si vedano i capitoli 4 e 5), il cui scopo era di
5
D. Bouwmeester, et al., Experimental Quantum Teleportation, Nature 390, 575 (1997).
D. Boschi, et al., Experimental Realization of Teleporting an Unknown Pure Quantum State via Dual classical
and Einstein-Podolsky-Rosen channels, Phys. Rev. Lett. 80, 1121 (1998).
6
82
La necessità del
canale classico
salva il principio
di località
Capitolo 8: Teletrasporto quantistico
sottolineare non solo l’inadeguatezza e l’incompletezza della meccanica quantistica, ma
anche un contrasto insanabile con la teoria della relatività.
Una comunicazione, realizzata solo attraverso il canale quantistico, avrebbe infatti
avuto le caratteristiche di una spettrale azione a distanza o di un accoppiamento telepatico
incorrendo negli strali di Einstein. La necessità del canale classico salva il principio di
località, insieme al principio di causalità, che richiede una successione temporale fra la
causa e l’effetto. In definitiva, proprio il probabilismo intrinseco, tipico della quantistica, rende necessaria la verifica classica e salva la località. Come ha scritto Paul Davies
«la casualità quantistica salva il causalismo»7 , cui non intendeva rinunciare Einstein, e
viceversa.
Da ricordare
☞ L’ingrediente chiave che rende possibile il teletrasporto è l’intreccio quantistico,
ovvero l’entanglement tra due qubit (fotoni, atomi,. . .).
☞ Il processo di teletrasporto richiede due canali di comunicazione: un canale
quantistico, fornito da stati entangled, ed uno classico, che ne limita la velocità
lo rende locale e causale.
☞ Il risultato del teletrasporto è quello di trasferire lo stato quantistico di un qubit su di un altro qubit e, quindi, non si ha trasporto di materia ma solo di
informazione.
7
P. Davies, I misteri del tempo. L’universo dopo Einstein, Mondadori, 1997.
Bibliografia
Riportiamo qui di seguito una lista di letture che possono essere utili per comprendere
meglio e approfondire gli argomenti trattati in queste lezioni.
☞ Libri divulgativi
• G. C. Ghirardi, Un’occhiata alle carte di Dio (Il Saggiatore).
• A. Zeilinger, Il velo di Einstein (Einaudi).
• P. Davies, I misteri del tempo. L’universo dopo Einstein (Mondadori).
• R. Penrose, La strada che porta alla realtà (BUR).
☞ Sulla meccanica quantistica (livello universitario)
• J. J. Sakurai, Meccanica quantistica moderna (Zanichelli).
☞ In lingua Inglese
• D. Bouwmeester, A. K. Ekert, e A. Zeilinger, The Physics of Quantum Information
(Springer).
• M. A. Nielsen, I. L. Chang, Quantum Computation and Quantum Information (Cambridge University Press).
• M. Jammer, The philosophy of quantum mechanics, (John Wyley & Sons).
• M. Born, The Born-Einstein Letters (MacMillan).
• A. Pais, Subtle is the Lord (Oxford University Press).
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