Pasqua di Gesù Cristo, Pasqua della Chiesa
Della Pasqua, come del resto di ogni altro «mistero» della fede e della vita della
Chiesa e dei cristiani, si dovrebbe parlare anzitutto nel registro della lode, della dos sologia: e dunque nel registro della poesia e del canto. Per questo, all’inizio di queste
riflessioni ci sta bene uno dei numerosi testi con i quali la tradizione delle Chiese ha
meditato e cantato il grande evento del Risorto e della nuova creazione inaugurata
dalla sua Pasqua.1 «Pasqua di Gesù, il Salvatore! / Cristo regna vittorioso, / Trionfo
dell’amore: / Le braccia aperte in croce / Portano a Dio il peso della vita / E volgono i
nostri cuori a Lui. - Risorti, vivere per Dio / In una luce nuova, / Aurora della gioia: /
Gli uomini sorgeranno / Per la grande speranza / Che sale nei loro corpi / Nell’alba di
questo mattino. - Popolo di battezzati, segnàti / col Sigillo della promessa, / Testimoni
di Cristo, / Venite a mangiare la carne / A bere il sangue / Del Figlio amato da Dio /
Per vivere del suo Spirito. - L’ora è vicina ormai: vegliate! / Dio prepara la tavola / Per
le nozze dell’Agnello: / Il Maestro, il Signore / Viene per servire / Il vino del suo Av vento: / Vittoria di carità».
Sviluppando con una certa libertà suggestioni e immagini di questo testo, ci lasciamo trascinare prima di tutto nel movimento pasquale, nel passaggio del Figlio «da
questo mondo al Padre» (cf. Gv 12,1s): passaggio che nella vittoria sulla morte di Colui che i suoi discepoli hanno incontrato e proclamato vivente trova senza dubbio il
suo vertice, imprevedibile e stupefacente, vero culmine escatologico della creazione e
della storia; ma che, come ogni altra dimensione della vicenda di Gesù Cristo, è già anticipata nell’insieme della sua vita terrena. Il «passaggio verso il Padre», infatti, è già
iscritto nel cuore di un’esistenza che si è fin dall’inizio abbandonata a colui che Gesù
di Nazaret chiama «il Padre mio»; e non tanto perché «questo mondo» debba essere
oltrepassato o, peggio, «disprezzato», quanto perché appunto soltanto nella dinamica
pasquale esso trova la sua verità e consistenza: soltanto «risorgendo», potremmo dire
– e dunque accettando di entrare nella «morte» – il mondo e l’uomo potranno accedere alla loro autentica pienezza.
La Pasqua è il “desiderio” di Gesù
È per questo che l’attesa della Pasqua costituisce, si direbbe, il solo grande «desiderio» di Gesù. È noto che la Scrittura non utilizza la parola eros, e sembra così trascurare un dinamismo antropologico fondamentale, che sta alla base di quella potente vi sione «unitaria» del mondo che, da Platone in poi, non ha cessato di attraversare e segnare la storia culturale dell’Occidente, tanto nella sua versione «mistica» che nelle
versioni «secolari» che si riconoscono oggi nelle diverse forme di «monismo» più o
meno materialistico.2 E tuttavia, vi sono alcuni testi, in particolare nel vangelo di Luca,
1
Il testo dell’inno che segue (tradotto con qualche libertà da chi scrive) è opera di Jean-Marie Delvaux, della Commissione francofona cistercense, e fa parte degli inni per il tempo di Pasqua inseriti nella versione francese della Liturgia delle Ore (cf. Prière du temps présent, Paris 1980, 348s).
2
Cf. su questo G. LAFONT, Que nous est-il permis d’espérer?, Cerf, Paris 2009 (in corso di traduzione
presso le Ed. Dehoniane di Bologna); sulla questione del «desiderio di Cristo», cf. in particolare le pp.
2
che mettono in luce una dimensione «desiderante» di Gesù: che è appunto rivolta alla
pasqua. «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!
Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia
compiuto!» (Lc 12,49s); «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima
della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia
nel regno di Dio» (Lc 22,14s). Potremmo leggere in queste parole un desiderio di verità e di compimento; desiderio che ogni ombra sia fugata, ogni ambiguità dissolta; desiderio che si mostri con verità ciò che sta racchiuso, e al tempo stesso progressivamente si manifesta in ogni gesto, in ogni parola di Gesù: il fatto che egli «vive per Dio»,
il fatto che l’intera sua esistenza è attraversata dal passaggio pasquale, il fatto che
ogni suo passo è un tratto di quell’esodo (cf. Lc 9,31) che lo conduce verso il Padre.
Al tempo stesso, questo desiderio è certo un desiderio «redentore». Come suggerisce l’inno di Delvaux che abbiamo riportato in apertura, «Le braccia aperte in croce /
Portano a Dio il peso della vita / E volgono i nostri cuori a Lui». L’esodo pasquale di
Gesù è senza dubbio solitario: e dobbiamo pensare che sicuramente l’abbandono, il
rinnegamento, la fuga dei discepoli abbiano avuto un peso non secondario nella sofferenza appassionata che porta Gesù verso la croce. Dal centro più profondo della coscienza filiale di Cristo scaturisce, tuttavia, una convinzione inamovibile: «Ecco, viene
l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto suo e mi lascerete
solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me» (Gv 16,32). In questa certezza di
essere con il Padre e nel Padre, Gesù può muovere anche verso di Lui, nel passaggio
decisivo, portando con sé quelli che il Padre gli ha affidato; e, con essi, l’intera creazione. Come canta un altro inno della stessa tradizione liturgica già richiamata, «Il Figlio
di Dio, a braccia aperte / Ha preso tutto nella sua offerta: / La fatica dell’uomo, il suo
lavoro, / Il peso perduto della sofferenza. - Lo slancio potente del suo amore / Attira a
lui il mondo intero; / Egli fa entrare nel suo riposo / Il mondo incamminato verso il
Padre».3
La «redenzione» pasquale si presenta così non solo come rimedio alle deficienze di
un’umanità e di una creazione segnate dal peccato, ma anche e prima ancora quale
compimento di un orientamento promesso sin dall’inizio all’intera creazione: perché
la Pasqua di Gesù Cristo manifesta il segreto della creazione secondo il disegno originario di Dio, che è invito rivolto all’uomo e al mondo a entrare nello spazio della vita
trasfigurata dallo Spirito (la risurrezione, appunto!), camminando fiduciosamente
nella via dell’esodo, che è la risposta credente alla parola amorosa di Dio. La frattura
del peccato, che conferisce alla Croce di Cristo tutta la sua drammaticità, non dovreb be distorcere agli occhi del credente il primato di un «disegno amoroso», 4 in virtù del
quale Dio fa della Pasqua del suo Figlio il cuore originario di tutta la realtà.
290-293. Com’è noto, il tema dell’eros in rapporto con la fede cristiana e con l’agape è sviluppato da
papa Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est, in particolare nn. 2-18.
3
Inno per l’Ora sesta nel tempo di Pasqua: cf. Prière du temps présent, 589.
4
Riprendo anche questa espressione da G. LAFONT, Que nous est-il permis d’espérer?, 301.
3
Entrare nel dinamismo pasquale
Si tratterà allora, per chi accoglie il Cristo morto e risorto e nella vita sacramentale
si lascia inserire nel suo dinamismo pasquale, di tradurre nell’esistenza secondo il
vangelo questa «chiave di volta» pasquale della realtà: «Risorti, vivere per Dio / In
una luce nuova, / Aurora della gioia». Se indubbiamente tutta l’esistenza del cristiano
può e deve diventare, nella forza dello Spirito, attestazione di che cosa significhi «vivere per Dio» (precisamente allo stesso modo in cui «vivere per Dio» è la descrizione
sintetica perfetta di tutto l’atteggiamento di Gesù di Nazaret: e dove si vede che la
cosa coincide perfettamente nel «porre la vita» per coloro che si amano: cf. Gv
10,11.17s; 15,13 ecc.), la Pasqua sollecita il credente a cercare e a porre in atto veri e
propri «segni di risurrezione», anticipazione e promessa di quanto la risurrezione di
Cristo ha già posto irrevocabilmente nel mondo.
Segni, dicevamo, che sono anche da cercare. Perché non si tratta in primo luogo di
un impegno volontaristico. Per il credente, il frutto immediato e decisivo della Pasqua
è l’effusione dello Spirito, principio della nuova creazione (cf. Gv 20,22s). E i discepoli
di Cristo sanno che lo Spirito è all’opera, che la sua potenza non è confinata dentro le
forme strutturate e compatte di un’organizzazione umana: se dobbiamo far credito ai
racconti apostolici, si direbbe anzi che proprio lo Spirito fa saltare i confini e gli stec cati umani, proprio lo Spirito dischiude ai testimoni del Risorto campi nuovi e inaspettati per il loro annuncio, li previene inopinatamente (cf. At 10,44), a volte persino
li ostacola (cf. At 16,6s), quando preferiscono continuare a battere i sentieri già speri mentati, anziché volgersi coraggiosamente verso l’ignoto di Dio. C’è davvero bisogno,
sempre, di far credito allo Spirito del Risorto; ma oggi forse più che in altri momenti,
soprattutto per una Chiesa, qual è quella occidentale, che si scopre a volte timorosa,
che si sente accerchiata, o che tende a giocare prevalentemente negli spazi della difesa e a lasciarsi condizionare da uno sguardo arcigno e severo nei confronti del «mondo».
Lo Spirito del Risorto ha liberato Pietro da incertezze e intralci di tabù religiosi, e
gli ha permesso di entrare fiducioso in uno spazio abitato da «pagani», ma che la Parola e lo stesso Spirito già orientavano al Risorto; lo Spirito ha permesso a Paolo e ai
suoi compagni di missione di non vedere, negli ostacoli e nei contrasti inevitabilmente incontrati durante l’attività apostolica, solo qualcosa di negativo, ma di presentire
altri appelli, altre ricerche del Dio vivente. Nello Spirito sarà possibile scorgere ancora
oggi il grande lavoro di fermentazione che la Pasqua di Cristo opera nella pasta del
mondo.
Il tutto, naturalmente, a patto di riconoscere e «ospitare» lo Spirito senza dubbio
operante nel «Popolo di battezzati, segnàti / col Sigillo della promessa, / Testimoni di
Cristo»; e di decifrare anche e prima di tutto nella comunità cristiana i segni della po tenza del Risorto, che nel suo Spirito la raccoglie e la invia al mondo. Comunità capaci
4
di diventare sempre più spazi dell’accoglienza lieta, gratuita e perdonante dell’altro
(giacché ogni volta che il fratello viene accolto nella pace e nella riconciliazione, colui
che era morto «è tornato in vita»: cf. Lc 15,32); comunità che lasciano fiorire i semi
della fraternità in Cristo, e la attestano in particolare nei confronti di coloro che la
mentalità comune tende piuttosto a escludere, perché privi di successo, di potere, di
risorse: insomma, comunità capaci di accogliere il «povero» e di farne il loro Signore
(e che cos’è la Pasqua di Gesù, se non appunto il fatto che il povero è costituito Signo re,5 la pietra scartata e disprezzata è resa pietra angolare?), attestano che il dinami smo pasquale non orienta soltanto alla speranza ultima, ma trasforma già il mondo.
Comunità che credono all’evangelo non soltanto come «contenuto» teologico o etico
da trasmettere e insegnare, ma lo scelgono per così dire anche come metodo, in modo
da non voler sapere altro in mezzo agli uomini, se non il Cristo crocifisso, così da volerlo testimoniare non basandosi sui discorsi persuasivi della sapienza, ma fondandosi sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza (cf. 1 Cor 2,2-4), saranno comunità per le quali la Pasqua di Cristo è al cuore della loro esistenza, e non solo un capitolo del catechismo o un tempo, fosse pure il più «forte», dell’anno liturgico.
L’eucaristia “luogo dei chiamati”
Il «luogo», nel quale il cristiano si sente più che mai convocato per inserirsi nel dinamismo pasquale del Signore, è la sua eucaristia: «Venite a mangiare la carne / A
bere il sangue / Del Figlio amato da Dio / Per vivere del suo Spirito». Il memoriale
della beata passione e della gloriosa risurrezione è il luogo dove sempre da capo la
Chiesa ripete e rinnova il racconto della sua origine,6 che è anche, al tempo stesso, racconto «fondativo» offerto e proposto al mondo, perché vi riconosca il senso ultimo,
entro il quale raccogliere la vastità delle sue acquisizioni, misurare l’estensione dei
suoi scacchi e fallimenti (inclusi quelli che dipendono dal peccato), aprirsi a una speranza senza la quale il suo respiro sarebbe corto e le sue iniziative, per quanto strabilianti nelle capacità tecniche, si rivelerebbero incerte e, alla lunga, persino a rischio di
catastrofe.
Nell’eucaristia, il cristiano può riconoscere e offrire al mondo le linee del «meravi glioso scambio» realizzato dalla Pasqua di Cristo, e che trova la sua icona più forte nel
linguaggio nuziale sul quale si chiude la rivelazione biblica (cf. Ap 21,9), e che anche
l’inno pasquale già citato riprende a suo modo: «L’ora è vicina ormai: vegliate! / Dio
prepara la tavola / Per le nozze dell’Agnello: / Il Maestro, il Signore / Viene per servi re / Il vino del suo Avvento: / Vittoria di carità».
Nella Pasqua, la verità dell’uomo e del mondo è proposta nella verità di Cristo: il
cui compimento pasquale consiste nella vita «trovata» (e in pienezza: egli è il Risorto,
per sempre!) perché «perduta», nella vita trasfigurata dalla potenza dello Spirito, perché non è stata mai difesa, mai «trattenuta» come rapina o possesso da difendere (cf.
5
6
Cf. D. BARTHÉLEMY, Il povero scelto come Signore, Qiqajon, Magnano 2010.
Cf. G. LAFONT, Que nous est-il permis d’espérer?, 275-280.
5
Fil 2,6). Il Figlio, che vive nella piena docilità al Padre, e fa della sua volontà il «cibo»
di cui nutrire la propria vita (cf. Gv 4,34), giunge fino all’estremo della sua dedizione,
«offrendosi al Padre in uno Spirito eterno» (cf. Eb 9,14), e portando con sé quelli che il
Padre gli ha dato – e portando in loro quella stessa umanità che lo respinge, sicché anche il peccato è assunto nella dedizione radicale di Cristo.
Nello stesso Spirito (cf. Rm 1,3s), il Padre risponde definitivamente al Figlio, accogliendolo nella pienezza della vita. Così si dischiude l’accesso del mondo alla pienezza
della vita: perché nello Spirito del Risorto sarà d’ora in poi possibile entrare nella
stessa logica, secondo la quale non la preoccupazione ossessionante di salvare se stessi, non l’autosufficienza del sapere o del potere salva l’uomo, ma il consenso alla Parola di vita con la quale Dio interpella l’uomo e gli dischiude, nel momento stesso in cui
gli domanda di «morire» non solo al peccato, ma anche a una propria autosufficienza
di corto respiro, la pienezza della vita che nulla potrà più minacciare.
Daniele Gianotti