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Centro Studi di
Terapia della Gestalt
Riccardo Zerbetto
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Psiche
Capitolo tratto dalla Encliclopedia del corpo edito dalla Treccani (novembre
2000)
A cura di Riccardo Zerbetto
Dal greco , connesso con  «respirare, soffiare». L’etimologia del
termine si riconduce all’idea del «soffio», cioè del respiro vitale; presso i Greci
designava l’anima in quanto originariamente identificata con quel respiro; in
questo senso, la storia del concetto di psiche viene a coincidere con quella
del concetto di anima (v.). Nella psicologia moderna (e anche nell’uso
comune) la psiche è intesa come il complesso delle funzioni e dei processi
che danno all’individuo esperienza di sé e del mondo e che ne informano il
comportamento.
1. I modelli della mente. 2 Il rapporto mente/cervello. 3. Il cervello. 4.Le
dimensioni del cervello. 5 Aspetti anatomofisiologici dell’encefalo. 6.
Sensibilità e percezione. 7. Apprendimento e intelligenza. 8. Memoria. 9.
Creatività. 10. I due cervelli. 11. Coscienza
«I confini dell’anima (psyche) non li potrai trovare - afferma Eraclito - quando
pur li cercassi per ogni via, tanto profondo è il suo logos». Tale profondità
rappresenta forse la caratteristica che maggiormente distingue, nel pensiero
filosofico dei greci, l’essenza dell’anima da ciò che invece viene riferito al
corpo e alla materia contraddistinti, al contrario, dalla categoria del limite.
La differenziazione tra corpo e anima affonda le sue radici negli albori stessi
della cultura dell’Occidente se, già in Omero, psyche viene considerata come
l’alito vitale che spira dalla bocca (o dalla ferita) di colui che muore per unirsi
agli altri fantasmi (immagini dei defunti) nel regno di Ade. Si può notare
ancora, sempre nel linguaggio omerico, come anche gli organi del corpo
vengono descritti separatamente e non come parti di un tutto che le unifica.
La parola soma, infatti, che si riferisce all’intero corpo, lo definisce in quanto
privo di vita. Così anche le funzioni psichiche vengono considerate come
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distinte in psyche, appunto, thymos «emozioni» e nous «intelletto» (Snell
1963).
Tale molteplicità delle funzioni viene da Platone ricondotta ad una unitarietà
sotto forma di un principio, chiamato sempre psyche, cui si attribuisce tuttavia
non più il significato di soffio collegato ad un corpo vivente (da cui può
appunto allontanarsi con la morte) ma di essenza trascenedente il corpo
stesso (e quindi da allora tradotto come anima) in quanto partecipe di una
realtà sovramondana solo temporaneamente imprigionata nei limiti della
corporeità. “Fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta
invischiata in un amale siffatto, noi non raggiungeremo mai ciò che
ardenemente deisderiamo, ossia la verità (dal Fedone).
Tale scissione ontologica dell’anima dal corpo attraversa tutta la storia
dell’Occidente dal momento che la concezione platonica finisce per assorbire,
nella visione cristiana (ed in particolare paolina), il principio ebraico per il
quale “il male non è nel corpo ma nella separazione dell’uomo da Dio” e
identificando, sempre citando la mirabile ricostruzione fattane da U. Galimberti
(1979, p. 95), ruah (spirito divino) con l’anima in quanto partecipe dell’essenza
immateriale divina e nefes (indigenza) con lo stato di limite e di bisogno
collegato alla realtà corporea.
Ben diversa è la posizione di Aristotele per il quale – nel suo trattato su
L’anima appunto – non si può parlare di un’esistenza della stessa in quanto
separata dal corpo dal momento in cui tutte le sue affezioni (coraggio,
dolcezza, audacia etc.) si producono come fenomeni collegati al corpo e alle
sue modificazioni. Delle molteplici accezioni attribuite dal filosofo alla psyche
(principio vitale del corpo, principio della sua possibilità di movimento e di
realizzazione) particolarmente interessante appare quella che la identifica
come forma del corpo (morfè somatos) un principio cioè che implica la
corporeità stessa da cui promana e che nello stesso trascende come
elemento unificante e significante. Psyche è quindi la forma di un corpo
vivente, il principio che ne sottende tutte le attività e, in quanto ‘atto primario’,
è inscindibile dal corpo, contrariamente alla nous che, in quanto puro
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intelletto, può concepirsi come distinto da questo e di carattere
sovrapersonale.
È interessante osservare infatti come questa singolare parola, psyche, evochi
tuttora nelle nostre menti tutta la pregnanza dell’eterno quesito che a essa si
associa: la stessa rappresenta infatti il ‘complesso’ delle funzioni psicologiche
degli individui, come si può leggere nei vocabolari, ma anche quel principio,
pur connesso al corpo vivente, che in qualche modo se ne distingue fino ad
assumere (o a dare l’impressione che così sia) una propria autonomia dallo
stesso.
La dialettica tra queste due impostazioni, qualla monistica che concepisce la
psiche come espressione mentale della realtà corporea e quella dualistica che
la concepisce al contrario come entità collegata ma pur concettualmente
distinta dal corpo stesso, rappresenta il fulcro del dibattito filosofico e
scientifico più acceso sui tema della conoscenza e dell’identità dell’essere
umano (M. Di Francesco 1966).
1. I modelli della mente. Da quando l’uomo ha preso a interrogarsi su se
stesso si è confrontato con il quesito relativo al dove risiedesse la sede della
propria identità e della capacità di pensare e al come potessero operarsi le
meraviglie dei propri processi di pensiero. Le risposte a tali complessi
interrogativi si sono evolute generalmente in collegamento con altri modelli
funzionali che via via l’uomo andava scoprendo.
Solo per restare nella tradizione dell’Occidente, ci imbattiamo in un vizio di
partenza relativo a un grossolano errore compiuto da Aristotele il quale,
osservando come una gallina fosse in grado di muoversi e anche di
camminare pur essendo stata decapitata, ne arguì che la sede più importante
del principio vitale non fosse il cervello ma il cuore. L’autorevolezza del
filosofo sopravvissse sotto diverse forme sino in età prescientifica, nonostante
le argomentazioni assai più consistenti di Galeno fondate su esperimenti di
compressione del cervello in animali domestici e sugli esiti di traumi cranici dei
gladiatori di cui era medico a Pergamo.
La concezione predominante in epoca ellenistica era che tutti i viventi
partecipassero di un unico flusso vitale, il pneuma, che, assunto attraverso gli
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alimenti e passando attraverso il fegato e il cuore, giungeva infine nelle cavità
vuote del cervello, i ventricoli cerebrali. Qui si trasformava in ‘spirito animale’
per giungere a tutti gli organi attraverso microscopici tubicini contenuti nei
nervi. Al fine di verificare tale impostazione anche Leonardo da Vinci si
adoperò nello studio attento sia dei nervi sia degli stessi ventricoli, avanzando
in conclusione l’ipotesi che il primo ventricolo fosse deputato al senso
comune, il secondo al ragionamento e il terzo alla memoria.
Il primato del cuore sul cervello sopravvisse nel Seicento a Vesalio, che pure
descrisse in modo dettagliato tutto il sistema nervoso centrale e periferico, e
anche a W. Harvey, che dimostrò la teoria della circolazione del sangue.
Anche laddove gli uomini di scienza non si appellavano più a entità
metafisiche, quali l’anima e lo spirito, per legittimare i poteri della mente e del
libero arbitrio, veniva ciononostante invocato in ogni caso un intervento di
realtà astrali o di ‘spiriti vitali’. Con il succedersi delle scoperte di Copernico,
Galileo e Newton la visione spiritualistica del cosmo lasciò posto a una
concezione fondata sulle leggi fisiche intrinseche alla materia. La meccanica,
che in quei secoli polarizzava la grande attenzione della scienza, venne
invocata quale modello per spiegare i meccanismi, appunto, della mente. La
‘pascalina’, prima macchina in grado di svolgere operazioni matematiche
progettata da Pascal, venne presa quindi a modello delle operazioni svolte dal
cervello. Già Leibniz, tuttavia, contestava il fatto che il cervello, immaginato
come un gigantesco mulino pieno di ingranaggi, potesse produrre una
percezione, cioè un’esperienza sensoriale collegata a un vissuto personale.
Al primato della meccanica successe nell’Ottocento quello dell’idraulica e
dell’elettricità e anche queste discipline vennero invocate per spiegare il
funzionamento della mente. Mentre sul modello idraulico Freud appoggiò
molte delle sue metafore relative alla teoria degli istinti e delle pulsioni
(blocco, congestione, canalizzazione, scarica ecc.), le stimolazioni della
corteccia cerebrale con deboli scariche elettriche consentirono in effetti di
compiere le prime mappature del sistema nervoso centrale individuando le
prime aree deputate a funzioni specifiche. La scoperta e lo sviluppo del
telegrafo e del telefono offrì ovviamente un nuovo modello analogico che
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ipotizzava il cervello come un intricato centralino alle prese con miriadi di
connessioni interneuroniche (A., A. Oliverio 1989).
Il modello che in età recente si è proposto con più forza è quello
computazionale (P.S.Churchland, T.J. Sejnowski, 19929. Il sistema nervoso
sarebbe cioè assimilabile a un potentissimo computer in grado di svolgere le
sue operazioni che, seppure più complesse di quelle usualmente eseguibili
con i computer, non se ne discosterebbero in linea di principio.
2. Il rapporto mente/cervello. Con il suo sbalorditivo numero di neuroni e
soprattutto di connessioni sinaptiche il cervello non può essere paragonato
che in modo assai riduttivo a un centralino telefonico o a un computer per
quanto potente. Al di là del dato quantitativo, il modello computazionale
utilizzato negli studi sulla Intelligenza artificiale implica infatti che un computer
sia dotato di un hardware, o struttura portante, e di un software, o programma
operativo, che gli consentano di svolgere le sue funzioni. Sia l’uno sia l’altro
sono tuttavia programmati dall’uomo e svolgono quindi una funzione
esecutiva di compiti, mentre, almeno allo stato attuale, non sembra che un
computer possa dotarsi della prerogativa più distintiva dell’essere umano
identificata nell’intenzionalità (E. Boncinelli 1999).
Quale che sia il modello invocato dal mondo della fisica e della tecnologia,
resta il quesito di fondo: le funzioni del sistema nervoso sono riconducibili alle
leggi della fisica e della biologia o bisogna ipotizzare un elemento che in
qualche modo le trascende sotto il profilo qualitativo?
A tale quesito, come è noto, Cartesio cercò di dare una risposta avanzando
una concezione dualistica contraddistinta da una componente biologica,
denominata res extensa, distinta da una componente spirituale, denominata
res cogitans,
tenute in comunicazione da un anello di congiunzione
identificato nella ghiandola pineale
(R. Descartes 1641) . Tale organo,
situato nel centro dell’encefalo, seppur esistente, è in realtà deputato a
tutt’altra funzione: la produzione di melatonina e la definizione dell’identità
biologica attraverso l’attivazione del sistema immunitario.
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Ma cerchiamo ora di delineare sineticamente alcune prerogative di questa
sofisticatissima macchina sulla quale, a mò di guidatore, si instaura la facoltà
della coscienza.
3. Il cervello. Sono oltre dieci miliardi i neuroni del cervello umano adulto, le
cellule cioè che costituiscono la struttura portante del sistema nervoso
centrale (SNC). Ai neuroni si affiancano le cellule gliali che svolgono una
funzione nutritiva e di supporto.
Il numero dei neuroni è già praticamente completo alla nascita e non è quindi
suscettibile di aumento se non (come si è dimostrato di recente) nel corso di
processi riparativi. Il numero dei neuroni, tuttavia, rappresenta solo un aspetto
che incide sulla complessità del sistema nervoso. L’altro elemento sono le
sinapsi o connessioni tra i neuroni stessi. Il numero di queste, valutato attorno
a un milione di miliardi, ci rende ragione del fatto che nessun calcolatore
attualmente disponibile è ancora in grado di assemblare l’insieme delle
funzioni che un cervello è in grado di svolgere. Per tale motivo il peso del
cervello alla nascita rappresenta solo un quarto del peso che raggiungerà nel
periodo tardo-adolescenziale allorchè raggiungerà la sua piena maturità
funzionale. A livello di circuiti cerebrali e quindi di arricchimento del bagaglio
della memoria, dell’esperienza e dell’elaborazione dei concetti, il cervello
potrà ovviamente continuare a evolversi, magari a spese di altre competenze
che con l’età tenderanno a essere meno valide, quali la memorizazione di
eventi recenti, le abilità motorie, le acuità sensoriali e così via (G. Denes, L.
Pizzamiglio 1996).
L’immaturità dell’encefalo alla nascita, seppure comporta un handicap per il
neonato nella sua condizione di incapacità di provvedere ai propri bisogni
essenziali, rappresenta una condizione indispensabile per garantire la
complessità delle funzioni che in seguito sarà in grado di svolgere. Solo una
parte delle connessioni tra i neuroni dei vari circuiti nervosi sono infatti
predeterminati da un programma genetico alla nascita. La maggior parte delle
connessioni si costituirà infatti durante le tumultuose fasi di crescita della
prima infanzia e, con ritmo meno frenetico, in quelle successive, allorché
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l’individuo verrà esposto a stimoli adeguati in grado di rendere operanti le
connessioni predisposte a livello potenziale.
La massa dei geni necessaria per predeterminare tale infinita rete di
connessioni risulterebbe infatti un bagagio insostenibile per i complessi
meccanismi legati alla trasmissione del patrimonio genetico (esposto oltretutto
a possibili errori di mutazione nei processi di replicazione). Il ruolo
determinante svolto dall'apprendimento, e quindi dallo sviluppo delle
connessioni intersinaptiche, rispetto alla trasmissione genetica è anche
all'origine dell’ampia diversità individuale riscontrabile nell’uomo rispetto alle
altre specie animali (A. Oliverio 1995).
4. Le dimensioni del cervello. Il volume medio del cervello umano è di 1.230
centrimetri cubi, tre volte più grande di quello dei primati più evoluti che,
assieme ai cetacei e ai delfini, rappresentano gli animali con maggiore massa
cerebrale relativa. ‘Relativa’ in quanto il volume assoluto è ovviamente
collegato alla massa corporea nel suo insieme. Un elefante è dotato infatti di
un cervello di dimensioni quattro volte superiori a quella dell’uomo, ma va
detto che, in proporzione, sono i mammiferi più piccoli ad avere un cervello
con più alto peso percentuale rispetto alla massa corporea. Questo, sempre
nell’uomo, corrisponde al 2% mentre nei ratti, pipistrelli e altri piccoli
mammiferi può superare anche di dieci volte tale percentuale (R.D. Martin
1998). Dove i primati superano indiscutibilmente gli altri concorrenti nella
scala filogenetica è tuttavia nella dimensione encefalica durante lo sviluppo
fetale che rappresenta ben il 12% del peso corporeo nei confronti del 6%
della media degli altri animali, evidenziando in tal modo il maggior peso svolto
nei primati dai procesi di apprendimeno rispetto alla dotazione di competenze
innate.
Tornando ai rapporti tra i primati e l’uomo è noto come il cervello di
quest’ultimo abbia raggiunto le attuali dimensioni a seguito di una progressiva
crescita lungo le diverse fasi dell’ominazione. È stato valutato infatti che la
dimensione cerebrale media nell’Australopithecus africanus fosse di 440
centimetri cubi (paragonabile a quella delle grandi scimmie attuali come il
gorilla), di 640 nell’Homo habilis, di 940 nell’Homo erectus, e di 1.230
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nell’Homo sapiens. Enigmatica resta la questione relativa alle dimensioni
maggiori riscontrate nell’Homo neanderthalensis, dal momento che nel corso
degli ultimi 20.000 anni, periodo in cui più vistosamente si è espresso il
processo di civilizzazione dell’uomo, si è determinata un’inversione di tedenza
nel rapporto tra crescita della massa cerebrale e sviluppo delle potenzialità
intellettive.
Inevitabile, a questo punto, è interrogarci su quali siano stati verosimilmente i
fattori che hanno portato allo sviluppo del neopallio, di quella parte
dell’encefalo cioè che, a partire dalle strutture più arcaiche, come l’archipallio
e il paleopallio, consente le funzioni intellettive e associative più sofisticate.
Un primo collegamento sembra potersi stabilire con il tipo di alimentazione.
Anche tra le scimmie, infatti, quelle che si cibano di risorse alimentari più
povere e facilmente procacciabili, come le foglie, sono dotate di masse
cerebrali inferiori a quelle che si cibano di frutti e di insetti. L’apporto
alimentare più ricco e diversificato si accompagna inoltre alla formazione di
gruppi più ampi e quindi all’intrecciarsi di una più complessa gamma di
interazioni sociali. Il territorio di caccia, inoltre, tende a essere più vasto e
questo comporta l’esposizione degli animali a una maggiore messe di stimoli
e quindi all’apprendimento di maggiori abilità di adattamento all’ambiente.
Con un lento meccanismo a circolo virtuoso, l’andatura bipede, le conseguenti
premesse anatomiche per la discesa della laringe, la possibilità quindi di
articolare in modo più ricco e differenziato il linguaggio, la progressiva
utilizzazione della mano grazie all’opposizione del pollice e quindi alla
possiblità di fabbricare utensili hanno congiuntamente operato allo sviluppo
del sistema nevoso e delle sue funzioni specifiche (M. Barucci 1997).
Se il cervello è andato progressivamente sviluppandosi, è evidente che, in
una logica evolutiva, si è dimostrato utile allo sviluppo della specie. Tali
vantaggi si associano tuttavia a un costo che, in un equilibrio dinamico, non
va sottovalutato. Il «partorirai con dolore», che il racconto della Genesi
ricorda, rimanda indubbiamente alle difficoltà che le madri della specie uomo
affrontano più di ogni altra specie nel partorire, considerate le dimensioni
sproporzionate del capo nel neonato. E questo nonostante il bambino, al
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momento della nascita, si trovi tuttora in una fase relativamente immatura
dello sviluppo, con gli stessi processi di mielinizzazione non ultimati. Nè le
funzioni sensoriali, né quelle motorie consentono infatti a un neonato di
provvedere minimamente a se stesso, contrariamente a quanto avviene in
altre specie laddove il cucciolo è già in grado di mantenere attivamente la
vicinanza alla madre per difendersi dai predatori e di indirizzarsi ai capezzoli
per alimentarsi.
Il cervello del neonato, inoltre, è sottoposto a un frenetico processo di
sviluppo: consuma fino al 60% delle risorse caloriche fornitegli dalla madre
(R.D. Martin 1998). Questa, a sua volta, è costretta a un notevole sforzo
alimentare, tanto da non essere in grado di nutrire più di un nuovo nato - e
solo raramente più di uno - per un periodo di tempo relativamente lungo.
Seppure le dimensioni dell’encefalo sono ovviamente collegate allo sviluppo
di funzioni intellettive superiori non è dato tuttavia dimostrare, almeno
nell'uomo in assenza di chiare forme di patologia, una relazione diretta tra
dimensioni del cervello e prestazioni intellettuali, stando a verifiche
sperimentali condotte attraverso i test di intelligenza attualmente disponibili.
5. Aspetti anatomofisiologici dell'encefalo. Il sistema nervoso centrale (SNC),
a livello anatomico, evidenzia una notevole unità strutturale in tutti i vertebrati.
Si forma a partire da un solco dorsale nel rivestimento embrionale detto
‘epiblasto’ che si scava per poi richiudersi progressivamente in un tubo grazie
al riavvicinamento dei dei suoi bordi esterni o creste neurali, processo che,
nell’uomo, si verifica nella terza settimana dello sviluppo embionale. La parte
anteriore, che andrà incontro a un progressivo rigonfiamento, darà luogo
all’encefalo mentre la parte cilindrica al midollo spinale. L’encefalo, a sua
volta, si suddividerà in un rigonfiamento anteriore, o proencefalo, uno
intermedio, o mesencefalo, e uno posteriore o romboencefalo. Il proencefalo,
particolarmente nelle specie più evolute, si dividerà inoltre in diencefalo e
telencefalo. Nei pesci e in altri animali filogeneticamente più antichi il
telencefalo è costituito dal bulbo olfattivo (che nell’uomo andrà relativamente
ridimensionandosi nei confronti di altri organi di senso), da una parte inferiore
denominata corpo striato e dal mantello dorsale o pallio.
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Con l’avvento dei tetrapodi, e l’avvio della deambulazione sulla terra ferma, il
pallio si differenzia nei due emisferi cerebrali che ospiteranno le altre funzioni
sensoriali e motorie. Queste si distribuiranno nella parte anteriore e postriore,
rispettivamente, della scissura di Rolando, una marcata introflessione nel
mantello corticale, che dividerà appunto le due competenze fondamentali
legate, le prime, alle afferenze sensoriali tattili e, le seconde, alla motricità
volontaria. Nelle due circonvoluzioni che si affacciano direttamente sulla
scissura di Rolando è possibile identificare i cosiddetti ‘omuncoli’ sensoriale e
motorio. Lo schema corporeo, cioè, trova una precisa corrispondenza nella
disposizione dei neuroni per cui una stimolazione elettrica degli stessi evoca
precise sensazioni o reazioni motorie nelle corrispondenti parti del corpo. Tali
parti di corteccia, detta ‘primaria’, vengono precedute e seguite da fasce di
corteccia detta ‘associativa’ e deputata a schemi più complessi di tipo
percettivo, quella anteriore, e a schemi motori complessi quella posteriore.
Procedendo anteriormente troviamo infine la corteccia prefrontale che
consente l’integrazione delle percezioni con i dati della memoria e quindi con
la visione del mondo che il soggetto si è creato grazie all’elaborazione
concettuale mutuata dalle sue esperienza di vita. Tali componenti, come
vedremo a proposito della memoria, non si presentano tuttavia come
autonome ma come intrinsecamente interconnesse consentendo
l’indispensabile integrazione tra dati sensoriali, tonalità emotive ed
eleborazione cognitiva.
Nella corteccia temporale, inoltre, si trova la sede privilegiata della memoria
semantica, quella cioé deputata al riconoscimento delle esperienze, delle
parole e dei concetti. La sua lesione, specie a carico del lobo di sinistra,
determina quadri di anomia (incapacità di riconoscere i nomi), afasie
semantiche e amnesie concettuali e altri disturbi del linguaggio.
6. Sensibiità e percezione. Camminiamo per la strada e a un tratto, tra la folla,
ci sembra di scorgere un volto conosciuto. La nostra reazione, specie se la
persona è significativa per noi, può essere intensa e coinvolgere un insieme di
risposte sensoriali, intellettive, emotive e anche corporee. Il nostro passo può
inavvertitamente rallentare, il cuore battere più forte e possiamo avvertire un
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aumento della sudorazione. È anche possibile che spezzoni di immagini si
affastellino in fulminee sequenze nella nostra mente. Quel viso, che magari
ancora non riusciamo a contestualizzare nelle coordinate di tempo e spazio
che ce lo rendono noto, può richiamare sequenze archiviate nella memoria,
collegarsi a frasi dette o che potremmo pronunciare in un possibile incontro ed
evocare infine una reazione comportamentale che ci orienti sulla scelta tra il
richiamare l’attenzione di questa persona o di far finta di nulla per evitare di
incontrarla.
È un esempio, tratto dalla nostra esperienza quotidiana, che ci dà un’idea di
come il dato sensoriale, nel nostro caso l’aver scorto un volto conosciuto (ma
analogo discorso potrebbe farsi per un odore, un sapore, un suono, una
carezza), non ci perviene in modo isolato ma si integra già dal suo nascere a
un insieme di riverberazioni che coinvolgono sistemi senso-percettivi ed
elaborazioni cognitive che rimandano alla memoria, al linguaggio, agli schemi
comportamentali e infine ai processi associativi più complessi coinvolgenti il
sistema dei valori etici e delle scelte esistenziali.
Contrariamente a una concezione primitiva, detta “associazionistica” , che
ipotizzava la giustapposizione in sequenza dei differenti attributi sensoriali
relativi a un oggetto percepito, si è progressivamente fatta strada una
concezione “olistica” ispirata alla cosiddetta Psicologia della forma. Secondo
questa impostazione è l’insieme, la gestalt, che viene colta fin dall’inizio e non
la somma dei suoi elementi costitutivi. La gestalt ‘mela’, per fare un esempio,
viene attivata nel suo insieme e non dalla sommatoria dei suoi connotati di
sapore, colore, profumo, consistenza ecc. Tale concezione, sviluppata già nel
primi del Novecento dalla scuola tedesca di Köhler, Koffka e altri, ha trovato
conferme sperimentali dallo studio delle reti neurali, evidenziate attraverso
l’uso di sofisticate metodologie di indagine, prime fra tutte la tomografia a
emissione di positroni (PET), che consente di evidenziare i circuiti cerebrali in
stato di attivazione grazie alla localizzazione di glucosio radioattivo ed è
capace di impressionare una lastra fotografica a colori. Attraverso tali
strumenti di indagine, si è potuto constatare come l’immagine visiva di un
oggetto non rimanga confinata a una rete locale di connessioni neuroniche
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ma inneschi una serie di circuiti riverberanti di quantità e complessità
proporzionate al significato dell’esperienza personale collegata al rapporto
con l’oggetto stesso (W.J. Freeman 1998)
Studi approfonditi sui processi visivi, quelli maggiormente studiati, hanno
confermato come il processo dell’appercezione sensoriale e del
riconoscimento cognitivo, pur coinvolgendo reti neurali diverse (i corpi
genicolati e la corteccia occipitale per i primi e la corteccia prestriata per i
secondi), avvengano in modo contemporaneo, e quindi parallelo, e non
sequenziale. Lesioni della componente deputata alla decodifica simbolica
possono dare luogo al mancato riconoscimento dell’oggetto visto, mentre
lesioni della componente corticale possono dare luogo al fenomeno della
‘visione cieca’. Il soggetto, cioè, pur essendo cieco e quindi non in grado di
cogliere informazioni sensoriali visive, può tuttavia ricostruire in modo
inferenziale attributi visivi come movimenti di oggetti in un campo o le diverse
lunghezze d’onda collegate ai colori.
7. Apprendimento e intelligenza. Il peso rilevante giocato dai comportamenti
legati all’apprendimento nei confronti di quelli predeterminati a livello biologico
comporta tuttavia il prezzo di condizioni svantaggiose per quei soggetti che,
specie nelle prime fasi della maturazione psicofisica, sono esposti ad ambienti
privi dei necessari stimoli evolutivi. Bambini ospedalizzati in età pecoce, e che
hanno trascorso il primo anno di vita in una culla, evidenziano infatti uno
sviluppo psicofisico molto più ritardato rispetto ai loro coetanei che hanno
goduto di situazioni più stimolanti.
Anche lo studio di bambini allevati da animali e fuori dal contesto umano ha
evidenziato come le facoltà intellettive e del linguaggio rimangano a uno
stadio primitivo mentre, per converso, la velocità nella corsa o nel muoversi a
quattro zampe risulti assai potenziata. Tale svantaggio può venire in parte
recuperato nell’uomo grazie alle proprietà di plasticità dell’encefalo, mentre
risulta congelato irreversibilmente negli animali che si situano a livelli più bassi
della scala evolutiva. In questi infatti il periodo dell’imprinting, scoperto dal
premio Nobel K. Lorenz, risulta molto definito e vincolante. Nell’esperienza
classica, gli anatroccoli seguono come madre sostitutiva qualunque oggetto si
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muova davanti a loro, nel breve periodo stabilito geneticamente per
l’apprendimeno di tale comportamento; una volta che tale periodo sia passato
senza un’esposizione allo stimolo che lo rende operante, il comportamento
non verrà più appreso. Analogamente un agnellino separato dalla madre
svilupperà la cosiddetta sindrome dello stone ship: rimarrà cioè pietrificato e
senza possibilità di recuperare le sue capacità di socializzazione all’interno del
gregge.
L’importanza degli stimoli ha portato a enfatizzare l’opportunità di offrire
ambienti iperstimolanti al fine di accelerare l’acquisizione di competenze e
possiblità di apprendimento. Nell’esperienza forse più nota, quella introdotta
da G. Doman fondatore dell'Institute for the Achievement of Human Potential
di Filadelfia, i bambini sono esposti a stimoli crescenti a partire dagli 8 mesi di
età. Con tale metodo è stato possibile insegnare loro a tradurre dal
giapponese all’inglese e a far di conto già all’età di tre anni (da A.,A. Oliverio
1989).
Studi più approfonditi, tesi a verifcare la maturazione complessiva dei
soggetti, hanno tuttavia evidenziato gli svantaggi di tali metodi di
iperstimolazione, in particolare per quanto riguarda la maturazione
emozionale. I bambini superdotati infatti risultavano marcatamente dipendenti
dalle figure genitoriali e incapaci di assumere inziative autonome.
Analogamente a quanto si sostiene attualmente nel campo della dieta, la
formula migliore sembra essere quella di un ambiente variato di stimoli, senza
indurre forzatamente apprendimenti precoci che vanno a scapito di una
maturazione più armoniosa della personalità.
8. Memoria. «Cantami o diva del pelide Achille l’ira funesta». Con questa
invocazione omerica a Mnemosine, la dea della memoria, possiamo dire che
si inaugura la storia cosciente dell’Occidente. Che cosa ha caratterizzato
infatti il conflitto sotto le mura di Troia se non la traccia lasciata nella memoria
collettiva? Gli atti acquistano spessore, tridimensionalità nel momento in cui
depositano un segno che permane nel tempo, che può essere colto e
riconosciuto da altri viventi e rappresentare quindi la premessa di un sapere
condiviso, quindi di cultura.
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Nessuna prerogativa, come quella della memoria, ci rende unici tra i viventi,
dotati cioè di quella caratteristica della conoscenza che, sempre per i greci, la
rende divina: capace cioè di comprendere sia la dimensione del presente sia
del passato e, a partire da questo, del futuro.
La memoria costituisce ancora l’elemento che rende la nostra attitudine al
conoscere ineluttabilmente personalizzata. Accanto a un sapere legato alla
specie, denominato ‘memoria filetica’, in nessun vivente come nell’uomo si
innesta un sapere connesso all’esperienza personale sotto forma di
conoscenza soggettiva e legata a una storia individuale.
Tale forma di accumulazione del sapere, legata quindi a un processo di
apprendimento e non di trasmissione genetica, è resa possibile dalla grande
disponibilità di zone associative della corteccia cerebrale e ha la caretteristica
di non presentarsi come un patrimonio di conoscenza immutabile ma aperto a
un continuo processo di modellamento in funzione dei vissuti squisitamente
personali cui il soggetto si espone nei sui percorsi conoscitivi.
Ma quali sono le premesse neurobiologiche di tale portentosa prerogativa?
Sappiamo che gli animali che si trovano ai livelli inferiori della scala evolutiva
sono dotati quasi unicamente di memoria filetica, quel bagalio cioé di
conoscenze che consente alla specie di adattarsi all’ambiente e di perpetuarsi
in modo relativamente uguale a se stessa nel susseguirsi delle generazioni.
Solo la comparsa della corteccia, che si sviluppa progressivamente nelle
specie più evolute, consente capacità crescenti di apprendimento e
memorizzazione. Anche nella maturazione del bambino, il cosiddetto
processo ontogenetico che in qualche modo ripercorre le tappe del processo
filogenetico, o evoluzione delle specie, avviene qualcosa di simile. Già da
prima della nascita il feto è in grado di memorizzare informazioni di qualche
tipo, per esempio le caratteristiche della voce materna che saprà distinguere,
già alla nascita, da voci estranee.
Affinché il processo del riconoscimento diventi consapevole si richiederanno
tuttavia alcuni mesi. Se a 5-6 mesi un bambino sarà in grado di riconoscere il
volto di un fratellino, acquisterà di fatto la capacità di rievocarlo solo a partire
dagli 8-12 mesi. A questa età si renderanno infatti evidenti le modifiche
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dell’espressione allorché un volto conosciuto verrà messo a confronto con
volti che non lo sono (A. Oliverio, C. Castellano 1998).
Anche la durata della memoria collegata al riconoscimento di un oggetto che
viene fatto sparire dopo essere stato mostrato aumenterà progressivamente
in misura del processo di mielinizzazione dei neuroni e della loro capacità di
intessere reti neuroniche deputate allo strutturarsi di circuiti di riverberazione.
Questo è infatti il presupposto neurobiologico che consente la
memorizzazione: la strutturazione di un loop, di un circuito tra diversi neuroni
che congiuntamente configurano la traccia mnesica.
Diversamente da quanto ipotizzato sino alla metà degli anni Settanta, allorché
si riteneva che la memoria riflettese in una o più cellule il modello
dell’impressione fotografica, si è appurato, specie attravero l’indagine PET,
che la memoria è un evento squisitamente connessionale. La strabiliante
capacità di ritenzione, archiviazione e richiamo delle immagini può essere
spiegata solo in base all’infinito numero di sinapsi che i neuroni sono in grado
di intessere tra di loro e non al numero degli stessi che, seppure elevato, è
comunque infinitamente più modesto.
La nostra esperienza quotidiana ci dice inoltre che esistono due tipi di
memoria: una più labile, che si riferisce a eventi che per il loro scarso
significato non lasciano una traccia permanente (e sarebbe un inutile
appesantimento del bagaglio informativo se lo facessero), e una più stabile,
che può sopravvivere anche all’invecchiamento, a traumi cranici o a scosse di
elettroshock che, come è noto, fanno dimenticare eventi passati.
Tale distinzione, intuita inizialmente dallo psichatra italiano E. Tanzi, venne
ripresa e sviluppata negli anni Cinquanta da D. Hebb che sviluppò l’ipotesi
della cosiddetta ‘doppia traccia’. Secondo questa impostazione, attualmente
suffragata da dati sperimentali, un’impressione recente innesca un circuito
cerebrale che tende, come l’onda sulla superficie dell’acqua, a esaurirsi entro
breve tempo. Se lo stimolo è sufficientemente forte o ripetuto si verifica al
contrario un rinforzo della traccia mnesica sino a produrre cambiamenti
strutturali sui collegamenti intersinaptici dei neuroni interessati al particolare
tipo di esperienza. La memoria, infatti, investe tutto il cervello potendo
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interessare sia dati di carattere sensoriale sia di carattere cognitivo e motorio
(J.M. Fuster 1998).
Alcune sostanze, denominate ‘calpine’, hanno infatti la prerogativa di
distruggere e ricostituire connessioni sinaptiche agendo sullo ione del calcio
attraverso un processo continuo di rielaborazione plastica. La memoria, infatti,
non è qualcosa di statico e inerte, ma è soggetta a un continuo processo di
rielaborazione in funzione delle nuove esperienze cui il soggetto si trova
esposto. Un’esperienza ricordata come traumatica, e che quindi produce un
comportamento evitativo, può infatti essere successivamente rielaborata
attraverso una differente prospettiva e quindi integrata dal soggetto sotto una
luce che ne modifica le caratteristiche di negatività.
Sulla plasticità dell’encefalo si fonda anche la possibilità di agire attraverso la
psicoterapia che, come è noto, contempla un richiamo delle esperienze
passate, anche se traumatiche, nella prospettiva di una rielaborazione delle
stesse attraverso una possibilità di integrazione in un quadro di riferimento più
evoluto e meglio raccordato alla realtà attuale del soggetto.
Un elemento attivatore, nei processi di memorizzazione, è la componente
emotiva collegata agli aspetti cognitivi dei vissuti. L’amigdala e l’ippocampo,
strutture sottocorticali implicate nei processi emozionali, sono le strutture che
danno appunto coloritura emozionale e incisività al processo mnesico e che,
se lesionate da traumi incidentali o disturbi della circolazione, maggiormente
determinano la perdita di tali capacità (Oliverio, Castellano 1998).
Riguardo all’intensità emozionale non va trascurato il fatto, tuttavia, che
un’eccessiva intensità emotiva può giocare un ruolo inibitorio. Per un
meccanismo difensivo, infatti, la psiche tende a rimuovere i ricordi dolorosi. In
realtà, come la ricerca psicoanalitica ci ha ampiamente dimostrato, non si
tratta di un'effettiva scomparsa dalla memoria dell’evento traumatico, ma di
una sua rimozione dalla sfera della coscienza. Attraverso un graduale - anche
se talvolta può presentarsi come subitaneo - dissotterramento dei reperti
archeologici (come nella metafora freudiana si usa richiamare) è spesso
possibile far riemergere alla superficie della coscienza fatti che la psiche
aveva rimosso nelle pieghe del cosiddetto inconscio. La vicenda di Edipo, re
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di Tebe che si unì alla regina madre avendo rimosso il fatto che l’uomo ucciso
sul carro potesse essere il padre, indica in modo emblematico l’attitudine della
mente a rimuovere fatti traumatici o incompatibili con la nostra coscienza
morale. Tali ricordi possono successivamente emergere sotto la pressione di
eventi che non possiamo eludere o grazie allo sviluppo di una cosienza più
matura e quindi più aperta ad affrontare la ricostruzione degli eventi collegati
alla nostra storia passata.
La riappropriazione della nostra storia e quindi la narrazione, a noi stessi e/o
ad altri, del filo che collega in una rete di significati plausibili i diversi
frammenti della nostra vicenda personale rappresenta forse uno dei momenti
più significativi del prcesso di ri-conoscimento e di conquista di una identità
personale e irripetibile nell’essere umano.
9. Creatività. Pur con infinite varianti legate alle diverse tradizioni
cosmogoniche, l’uomo ha da sempre ipotizzato che nulla possa nascere da
nulla e che quindi il mondo e l’universo siano scaturiti da un potere primigenio
e sovramondano. È interessante notare come il concetto di evoluzione non
faccia parte del pensiero primitivo e come l’ente creatore, considerato
generalmente come perfetto, non possa creare che esseri anch’essi perfetti.
Tale idea, detta ‘preformazionista’, per la quale il cavallo, una volta creato dal
nulla, è già un purosangue e non il risultato di un lungo processo di
perfezionamento, si ritrova in qualche modo anche nella nozione corrente che
abbiamo di creatività estesa alle attività dell’uomo.
A ben vedere, al contrario, la creazione umana implica sempre una sintesi tra
un bagaglio di esperienze e di informazioni precedenti e un quid novi che il
genio creativo riesce a innestare sul già noto. Sia in ambito scientifico sia
artistico possiamo infatti osservare come niente nasca dal niente e come, al
contrario, l’atto creativo si definisce come innovativo e quindi evolutivo rispetto
a un insieme di premesse che ne rappresentano gli indispensabili
presupposti.
Analogamente ai processi sintropici osservabili in natura, per i quali da
elementi più semplici si passa a elementi più complessi ed evoluti, anche a
livello di processi riscontrabili nella creatività umana sembra realizzarsi,
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seppure a un livello di maggiore consapevolezza, un processo evolutivo
morfogenetico. La gestaltung, o processo di evoluzione cioè delle forme,
sembra avvenire per virtù propria, quasi servendosi degli esseri umani che vi
partecipano analogamente a quanto i geni tendono a riprodursi e a
perfezionarsi servendosi degli individui che li veicolano, secondo la teoria
evolutiva di Darwin successivamente ripresa e sviluppata da R. Hawkins. Nel
caso di esseri non dotati solo di un patrimonio genetico-biologico ma anche di
capacità di elaborare e trasmettere informazioni, Hawkins propone di
affiancare il termine di ‘meme’ a quello di gene. La trasmissione del
patrimonio informativo consente cioè il perpetuarsi e il continuo evolversi dei
sistemi conoscitivi e quindi dei prodotti che da questi possono derivare.
10. I due cervelli. In una paziente a cui è stato reciso il corpo calloso con
l’intento di alleviare una grave forma di epilessia si è verificato un quadro di
scissione della personalità. A una domanda postale, la stessa restava
perplessa di fronte a risposte contraddittorie che provenivano dalla sua mente
come fosse separata in due entità indipendenti. Tali forme di scissione della
personalità possono osservarsi anche in quadri psicopatologici di tipo
schizofrenico, ma il dato neurobiologico supporta la tesi secondo cui i due
emisferi svolgono funzioni non simmetriche ma complementari e tali da
richiedere quindi un collegamento strutturale come espressione di un
processo di integrazione tra componenti diverse di cui è composta una
personalità sana ed evoluta.
In modo sintetico possiamo così definire le competenze dei due emisferi.
Quello sinistro, detto anche dominante, controlla i movimenti della mano
destra cui sono affidati i compiti di manipolazione più fine e intenzionale,
come per es. lo scrivere, e coordina le funzioni del linguaggio, matematiche e
della logica cosiddetta lineare. Quello destro presiede alle associazioni tra
entità diverse temporo-spaziali, alla sensibilità musicale, al ragionamento
matematico intuitivo, all'associazionismo immaginativo, ai processi di
riconoscimento delle forme e alla creatività artistica.
La suddivisione di compiti tra i due emisferi non è in ogni caso assoluta e
contempla una possibilità di compensazione reciproca seppure non completa.
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Tale prerogativa giustifica il relativo mantenimento di funzioni anche a seguito
di interventi chirurgici con asportazione di buona parte di uno dei due emisferi.
I collegamenti interemisferici sono garantiti da una struttura nervosa chiamata
‘corpo calloso’. È interessante notare come sino a 3-4 anni siamo tutti
ambidestri. Successivamente, con il prevalere nell’uso di un emisfero che
diventerà dominante, si assiste a una progressiva atrofia di fibre del corpo
calloso (A. Oliverio 1995). Nel 6-7% della popolazione si ha l'inversione
dell'emisfero dominante nota come ‘mancinismo’, una condizione che
attualmente non si consiglia più di contrastare, anche perché accompagnata
in molti casi da aspetti positivi, quali una maggiore bilateralizzazione delle
funzioni e una maggiore propensione per il disegno, il ragionamento
matematico e alcuni sport, come il tennis.
11. La coscienza. La coscienza rappresenta forse il santo Graal della ricerca
scientifica, l’oggetto inafferrabile e sempre sfuggente non solo per la sua
tremenda complessità ma per il fatto stesso di essere, nella sua essenza, il
cuore della soggettività stessa. Sappiamo che il metodo scientifico, codificato
in particolare da Galileo, sta nella possibilità di definire correttamente un
campo di osservazione in cui inserire un oggetto il cui studio possa, appunto,
divenire patrimonio di un sapere condiviso e oggettivo. A parte la difficoltà
estrema di applicare i metodi dell’indagine scientifica a un oggetto misterioso
come la coscienza (e ‘misteriani’ vengono chiamati in effetti coloro che
sostengono l’irriducibilità della coscienza alle categoie della esplicatività
scentifico-descrittiva) emerge il paradosso che ci impone di studiare tale entità
all’interno di una nuova categoria, quella appunto della soggettività.
Questo sembra essere infatti, al di là della sofisticatezza di alcune funzioni
specifiche, l’elemento che distingue qualitativamente il cervello dotato di
coscienza da un computer per quanto potente e multifunzionale: la coscienza
di sé come soggetto.
Costruito un computer se ne potrebbero ovviamente costruire infatti molti altri
di uguali. Tale evenienza si rende assai più improbabile per l’essere umano
che, come abbiamo visto, è dotato alla nascita di una vasta porzione della
corteccia associativa non programmata geneticamente ma esposta a
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plasmarsi in funzione delle esperienze squisitamente individuali a cui il
soggetto sarà esposto. L'elaborazione che a partire dal patrimonio genetico e
dalle successive esperienze si svilupperà in termini di concetti, valori, tonalità
emotive, spunti creativo-adattivi si configurerà come un originale Sé, da-sein o
modo-di-essere-nel-mondo che, come sottolinea la filosofia fenomenologicoesistenzale, si presenterà ogni volta come unico e irripetibile. Tale
dimensione, tragica e sublime insieme, si accompagna ad altre prerogative
che differenziano l’uomo da una macchina. Tra queste l’intenzionalità intesa
da F. Brentano come fenomeno mentale irriducibile ad altri fenomeni della
psiche, e da Husserl come ciò che caraterizza la coscienza in senso
pregnante e come “capacità di orientarsi in un orizzonte di significati”. La
persona – secondo M. Heidegger - è sempre data come esecutrice di “atti
intenzionali, raccolti in una unità di senso».” Le macchine – sostiene anche il
filosofo contemporaneo J. R. Searle (1996) - sono in rado di manipolare
simboli ma non di interpretarli e dare loro un signficato”. La mente umana
sarebbe inoltre in grado di superare una semplicistica logica binaria (del tipo
si/no, vero/falso) propria del computer attraverso una capacità definita ‘logica
fuzzy’ (sfumata) per la quale le scelte umane hanno più spesso a che fare con
le sfumature di grigio che con il bianco e nero; coinvolgono stati cognitivi ed
emotivi, come i desideri, il piacere, le credenze (da E. Carli 1997).
A questi pensatori si contrappondono teorici antichi (ricordiamo F. Nietzsche
del Così parlò Zarathustra con la sua nota asserzione: «corpo io sono in tutto
e per tutto e null’altro; e anima non è altro che una parola per indicare una
parte del corpo») e nuovi che sostengono un più radicale monismo orientato a
un’impostazione post-filosofica (intendendo filosofia come campo
dell’investigazione pre-scientifica) e rigorosamente fondato sul tentativo di
ricondurre tutti i fenomeni della coscienza a leggi fisico-biologiche, che
unicamente rappresentano il fondamento scientifico della conoscenza. «Tutti
fenomeni mentali sono strettamente connessi a fenomeni fisici» sostiene il
filosofo contemporaneo J. A. Fodor (1987) che definisce ‘fisicalismo’ la sua
impostazione per la quale tutti gli eventi sono identici a (o composti da) eventi
fisici.
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Dando la parola a D. C. Dennett (1996), il teorico della concezione
computazionale della mente che rappresenta forse la punta avanzata di tale
orientamento, «non esiste una materia spirituale, una res cogitans separata
dai nostri corpi [...]. Quando avremo risolto i soft problems, gli aspetti
meccanici e tecnologici del cervello e della mente, avremo risolto anche il
problema della coscienza».
A dimostrazione della stretta interdipendenza tra cervello e personalità viene
spesso riferito il caso emblematico di un operaio trafitto da una sbarra
metallica che, entratagli a grande velocità dalla parte inferiore dello zigomo
sinistro, gli uscì dalla parte superiore della fronte. Lo stesso, pur stordito per il
violentissimo trauma, non perse neppure coscienza e anzi cominciò a parlare
poco dopo. Con il passare dei giorni i compagni di lavoro si accorsero tuttavia
che ‘non era più lui’. Pur conservando intatte le sue capacità motorie e
sensoriali, da collega affidabile e capace era diventato bizzarro insolente e
irresponsabile (A.R. Damasio 1994).
Spiccano tra questi pensatori le figure di scienziati spesso insigniti del premio
Nobel in diverse discipline e che hanno dedicato più di recente le loro energie
alle nuove sfide conoscitive sollevate dalle neuroscienze. Per F. Crick (1994),
Nobel per la scoperta del DNA nel 1953, la coscienza rappresenta la nostra
consapevolezza immediata e soggettiva del mondo e di noi stessi, un
fenomeno cioè in cui si combinano attenzione e memoria a breve termine.
Coerentemente alla sua visione rigorosamente materialistica egli sostiene che
«le vostre gioie e i vostri dolori, i vostri ricordi e le vostre ambizioni, il vostro
senso di identità personale e di libero arbitrio, in effetti non sono altro che il
comportamento di un gruppo molto numeroso di cellule nervose e delle
molecole ad esse associate» (F. Crick 1994),
Tali reti nervose, secondo G. Edelman, Nobel nel 1972 per studi
sull'immunologia, sarebbero il risultato di un fenomeno di competizione,
definito ‘darwinismo cellulare’, per il quale le infinite connessioni potenziali che
si presentano nelle prime fasi dello sviluppo cerebrale si autoselezionano
progressivamente in funzione degli stimoli di rinforzo cui un soggetto si
espone nel suo impatto con il mondo circostante. Gli infiniti rami (dendriti
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appunto) che emergono dal tronco del neurone cadranno progressivamente
come rami secchi lasciando spazio solo a quelli che vengono rafforzati dalla
linfa rappresentata dall’esperienza e dal suo consolidamento (G. Edelman
1987).
La tessitura di tali reti sinaptiche costituirà quindi dei circuiti riverberanti, già
menzionati a proposito della percezione e della memoria, a cui un altro Nobel,
F. von Hayek (in questo caso in economia), ha dato il nome di ‘mappe neurali’
(da J. Hogan 1994). Gli stessi neuroni, infine, si presenterebbero a
un’approfondita osservazione, come dotati di un’intricata rete di microtubuli
proteici abilitati a trasmettere le informazioni sia all’interno della singola cellula
sia, attraverso la rete sinaptica, da una cellula all’altra. Mutuando concetti
derivati dalla meccanica quantistica e dal principio di indeterminazione di
Heisemberg, R. Penrose (1989), Nobel nel campo della chimica, sostiene che
né la fisica classica, né l’informatica, né le neuroscienze, assunte
isolatamente, sono in grado di sciogliere i nodi hard della coscienza. Tale
prospettiva riflette il noto teorema di Gödel che sostiene come nessun
sistema di assiomi abbastanza complesso sia in grado di sostenere la
veridicità di un enunciato restando confinato all’interno del proprio orizzonte
concettuale di riferimento. Pur ritenendo che l’obiettivo dell’intelligenza
artificiale è di imitare quanto più possibile per mezzo di macchine,
normalmente elettroniche, l’attività mentale umana, Penrose ritiene che si
rende necessaria «una nuova teoria fisica che faccia da ponte tra la
meccanica quantistica e quella classica e vada oltre la computazione.
Per rimanere ancorati alle funzioni biologiche dell’encefalo, è interessante
riportare il dato sottolineato dall’anestesista S. Hameroff relativo alla perdita
della coscienza indotta appunto dall’anestesia attraverso l’inibizione del
movimento di elettroni all’interno dei microtubuli (da Hogan 1994, p.102).
Questi, infine, rappresenterebbero la trabecolatura connessionale nella cellula
e tra le cellule, analogamente a come un computer, con i suoi circuiti interni, si
collega attraverso la rete di Internet a un numero potenzialmente illimitato di
altri computer sino a formare interconnessioni virtualmente infinite e
organizzabili in sottosistemi in un continuo processo di ristrutturazione.
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Riprendendo ancora Edelman, in conclusione, pur accettando che la mente è
solo materia e coincide con il cervello e rinunciando quindi a ricercare il
cosiddetto ghost in the machine, quell'anima immateriale che abiti il cervello, è
pur vero che «la scienza del cervello e della mente deve necassariamente
stabilire delle relazioni con la filosofia, nel senso di una comune ricerca di
armonie e consonanze tra concezioni diverse» (da E. Carli 1997). Pur avendo
progettato Nomad (Neurally Organized Multiply Adaptive Device) il primo
oggetto non vivente in grado di ‘apprendere’ dall'esperienza attraverso
telecamere, sensori, antenna e collegamento televisivo e radiofonico
bidirezionale collegato a un supercalcolatore dotato di un sistema di
simulazione del cervello e di reti neurali con possibilità di operare scelte in
funzione di valori dati come istruzioni di base, lo stesso scienziato ritiene che
la sua creazione, anche se ulteriormente perfezionata, rappresenti comunque,
rispetto all'uomo, un ‘falso analogo’, dal momento che non potrà identificarsi
in una storia individuale, unica e irripetibile, dal momento che la mente non
può concepirsi al di fuori del mondo e delle interazioni sociali. Secondo la sua
teoria biologica della mente (G.M. Edelman 1992), «un’epistemologia
biologicamente fondata non darà forse una risposta alla singolarità
dell’individuo, alla sua capactà di creare, di provare emozioni, e di produrre
opere artistiche, poetiche, musicali, pittoriche o idee scientifiche, ma
certamente contribuirà a rendere la nostra vita più ricca».
RICCARDO ZERBETTO
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