la politica energetica dell`italia - Padis

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA
“LA SAPIENZA”
________________________________________
TESI DI DOTTORATO DI RICERCA
IN
STORIA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI
LA POLITICA ENERGETICA
DELL’ITALIA REPUBBLICANA TRA
INTERESSE NAZIONALE E VINCOLI
ATLANTICI (1945-1975)
COORDINATORE:
Prof.re Gianluigi ROSSI
TUTOR:
Prof.ssa Laura SCALPELLI
DOTTORANDO:
Silvio LABBATE
________________________________________
2009
Ai miei cari che non ci sono più
I
Ringraziamenti
Vorrei porgere i più sentiti ringraziamenti a tutti coloro che mi hanno aiutato
con preziosi consigli nelle ricerche archivistiche e nella stesura di questa tesi. In
particolare vorrei ringraziare il Prof. Daniele Caviglia per avermi indirizzato nella
scelta di questo argomento molto affascinante, il Prof. Luca Micheletta e il Prof.
Giampaolo Malgeri per avermi guidato nei primi passi della ricerca e la Prof.ssa
Laura Scalpelli per il suo contributo finale.
Un grazie anche a tutto il personale delle biblioteche e degli archivi che ho
visitato. Soprattutto alla gentilissima dott.ssa Elena Accorinti dell’ENEL, alla dott.ssa
Lucia Nardi dell’ENI, al dott. Carmine Marinucci e all’avv. Davide Ansanelli
dell’ENEA, alla dott.ssa Stefania Ruggeri dell’archivio Storico Diplomatico del
Ministero degli Affari Esteri, alla dott.ssa Nicoletta Vernillo e alla dott.ssa
Margherita Martelli dell’Archivio Centrale di Stato, al Prof. Giovanni Battimmelli
del Dipartimento di Fisica dell’Università La Sapienza, al dott. Grégoire Eldin degli
Archivi Diplomatici del Ministère des Affaires Étrangères, al gentilissimo Prof.
Giovanni Paoloni della Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari dell’Università
La Sapienza e al dott. Giuliano Garavini per i suoi utili suggerimenti.
Un ringraziamento speciale infine va al dott. Giuseppe Accorinti e all’ing.
Paolo Fornaciari per le preziose indicazioni e per avermi concesso un’intervista.
Silvio Labbate
II
Indice generale
Ringraziamenti
II
Indice generale
III
Sigle e abbreviazioni
VI
CAPITOLO I
GLI ALBORI DELLA POLITICA ENERGETICA ITALIANA
1.
“Politica energetica” e centralità delle fonti primarie
1
2.
La situazione energetica italiana prima della seconda guerra mondiale
2
3.
Le conseguenze del conflitto e i primi passi verso una politica energetica nazionale
7
4.
I primi passi della collaborazione europea nel settore nucleare
15
CAPITOLO II
LA POLITICA ENERGETICA ITALIANA NEGLI ANNI CINQUANTA
1.
Gli sviluppi dell’energia elettrica
17
2.
L’espansione dell’energia nucleare
36
2.1
Dall’INFN al CNRN
36
2.2
Gli albori della collaborazione internazionale
41
2.3
Le prime centrali nucleari italiane
52
2.4
Dal CNRN al CNEN
56
3.
La politica petrolifera di Mattei
59
III
CAPITOLO III
LA POLITICA ENERGETICA DELL’ITALIA NEGLI ANNI SESSANTA
1.
2.
3.
Gli sviluppi dell’energia elettrica e del nucleare
69
1.1
ENEL: organizzazione, investimenti e risultati
69
1.2
Gli investimenti dell’ENEL nel settore nucleare
75
1.3
Il caso Ippolito
79
1.4
Il CNEN dopo Ippolito
87
1.5
La CEE e i tentativi di avviare una politica energetica nucleare
90
1.6
Tra ambizioni nazionali e collaborazione internazionale
94
1.7
La nuova crisi del CNEN
104
La politica petrolifera italiana durante gli anni Sessanta
106
2.1
L’ENI dopo Mattei
106
2.2
L’ENI e il nucleare
111
2.3
Una politica energetica comune
115
La guerra dei Sei Giorni e la politica energetica
118
CAPITOLO IV
LA CRISI ENERGETICA DEGLI ANNI SETTANTA
1.
L’Italia alla vigilia dello “shock”
137
2.
Il sogno di una politica energetica comunitaria
141
3.
L’Italia e la crisi petrolifera dello Yom Kippur
144
4.
La politica energetica italiana dopo lo scoppio della guerra del Kippur
157
5.
L’Italia, la cooperazione europea e i rapporti con gli Stati Uniti
170
6.
La politica filo-araba del governo italiano
190
7.
La conferenza di Washington e la cooperazione internazionale
199
IV
CAPITOLO V
LA RISPOSTA ITALIANA ALLA CRISI PETROLIFERA
1.
Gli sviluppi dell’energia nucleare
209
2.
I progetti di cooperazione nucleare europea
216
3.
L’Italia e la politica energetica comunitaria
225
4.
L’ENI e la politica petrolifera
230
5.
La cooperazione internazionale
236
6.
Il Piano Energetico Nazionale
251
7.
L’Italia da Rambouillet alla CIEC
258
8.
Dai problemi di attuazione del PEN all’abbandono del nucleare
265
CONCLUSIONI
271
Fonti e bibliografia
276
Indice dei nomi
310
V
Sigle e abbreviazioni
ACEU
ACLI
ACP
ACS
AECL
AEN
AEEN
AGIP
AID
AIEA
AIPA
AMI
ANIC
ANIDEL
ARAMCO
ASE
ASENEA
ASENEL
ASGEN
ASMAE
ASSR
BIRS
CCR
CEA
CECA
CED
CEE
CEEA
CEGB
CEL
CENTEC
CERN
CESI
CHAN
CIA
CIAU
CIEC
CIEP
CIGRE
CIP
CIPE
CIRENE
CISE
CLNAI
CNEN
CNR
CNRN
Archive of the Council of the European Union
Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani
African, Caribbean and Pacific Group of States
Archivio Centrale di Stato
Atomic Energy of Canada Limited
Agenzia per l’Energia Nucleare
Agenzia Europea per l’Energia Nucleare
Azienda Generale Italiana Petroli
Agency for International Development
Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica o IAEA
Azienda Italiana Petroli Albanesi
Agenzia Multimediale Italiana NIGERIA
Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili
Associazione Nazionale Imprese produttrici e Distributrici di Energia
Elettrica
Arabian American Oil Company
Archivio Storico dell’ENI
Archivio Storico dell’ENEA
Archivio Storico dell’ENEL
Ansaldo San Giorgio Compagnia Generale S.p.A
Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri
Archivio Storico del Senato della Repubblica
Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo
Centro Comune di Ricerca dell’EURATOM
Commissariat à l’Énergie Atomique
Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio
Comunità Europea di Difesa
Comunità Economica Europea
Comunità Europea dell’Energia Atomica o EURATOM
Central Electricity Generating Board
Oleodotto nell’Europa Centrale
Gesellschaft für Centrifugentechnik m. b. H.
Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire
Centro Elettrotecnico Sperimentale Italiano
Centre Historique des Archives Nationales
Central Intelligence Agency
Comitato Italiano per l’Arricchimento dell’Uranio
Conferenza sulla Cooperazione Economica Internazionale
Council on International Economic Policy
Conférence Internationale des Grands Réseaux Électriques
Comitato Italiano Petroli
Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica
CISE Reattore Nebbia
Centro Italiano di Studi ed Esperienze
Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia
Comitato Nazionale Energia Nucleare
Consiglio Nazionale delle Ricerche
Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari
VI
Coll.
COREDIF
CPE
DC
DGAE
DGAP
DL
DM
DPR
EDF
EFIM
ENE
ENEA
ENEL
ENEN
ENI
ENSI
ENUSA
ERDA
ERP
ESE
ESK
ESSO
EURATOM
EUREX
EURODIF
FAST
FCO
FIAT
FIEN
FLN
FNAN
FO
GeV
GFL
GIAU
GLAT
GNR
GWe
HAEC
HAEU
IAEA
ICMESA
IEA
IEOC
INA
INFN
Collezione
Compagnie de Realisation d’Usine de Diffusion Gazeuse
Cooperazione Politica Europea
Democrazia Cristiana
Direzione Generale Affari Economici
Direzione Generale Affari Politici
Decreto Legge
Decreto Ministeriale
Decreto del Presidente della Repubblica
Électricité de France
Ente Partecipazioni e Finanziamento Industrie Manifatturiere
Ente Nazionale Energia
Comitato nazionale per la ricerca e lo sviluppo dell’Energia Nucleare e delle
Energie Alternative, divenuto successivamente Ente per le Nuove tecnologie,
l’Energia e l’Ambiente
Ente Nazionale Energia Elettrica
Ente Nazionale per Energia Nucleare
Ente Nazionale Idrocarburi
Energia Nucleare Sud Italia
Empresa Nacional del Uranio SA
Energy Research and Development Administration
European Recovery Program
Ente Siciliano di Elettricità
Europäische Schnellbrüter Kernkraftwerkgesellschaft
nome commerciale internazionale utilizzato dalla EXXON e dalle sue
compagnie
Comunità Europea dell’Energia Atomica (CEEA)
Enriched Uranium Extraction
European Gaseous Diffusion Uranium Enrichment Consortium
Federazione delle Associazioni Scientifiche e Tecniche
Foreign and Commonwealth Office
Fabbrica Italiana Automobili Torino
Forum Italiano dell’Energia Nucleare
Fronte di Liberazione Nazionale algerino
Federazione Nazionale delle Aziende elettriche
Foreign Office
Giga electron Volt
Gerald Ford Library
Gruppo Italiano Arricchimento Uranio
Gruppo di Lavoro per l’Area Tecnologica
Groupement Neutron Rapides
Gigawatt elettrico
Historical Archives of the European Commission
Historical Archives of the European Union
International Atomin Energy Agency
Industrie Chimiche Meda Società Azionaria
International Energy Agency
International Egyptian Oil Company
Istituto Nazionale delle Assicurazioni
Istituto Nazionale di Fisica Nucleare
VII
IPALMO
IPC
IRI
ISMES
JET
KV
KWh
LBJL
MAE
MAEF
MEC
MERISINTER
MW
MWe
NARA
NATO
Nda
NEA
NERSA
NIOC
NIRA
NPMP
NRC
NSC
NSF
NSSM
NUCLIT
OAPEC
OCSE
OECD
OECE
OLP
ONU
OPEC
OPEN
OTAN
PAC
PCUT
PEC
PEN
PIL
PLI
PRI
PRO
PSDI
PSI
PUN
PVS
PWR
ROVI
Istituto per le Relazioni tra l’Italia e i Paesi dell’Africa, America Latina,
Medio ed Estremo Oriente
Iraq Petroleum Company
Istituto per la Ricostruzione Industriale
Istituto Sperimentale Modelli e Strutture
Joint European Tourus
Chilovolt
Chilowattora
Lyndon Baines Johnson Library
Ministero degli Affari Esteri
Ministère de Affaires Étrangères Français
Mercato Europeo Comune
Società per azioni Meridionale Prodotti Sintetizzati
Megawatt
Megawatt elettrico
National Archives and Record Administration
North Atlantic Treaty Organization
Nota dell’autore
Nuclear ENEL Alusuisse
Nucléaire Européenne à Neutrons Rapides S. A.
National Iranian Oil Company
Nucleare Italiana Reattori Avanzati
Nixon Presidential Materials Project
Nuclear Regulatory Commission
National Security Council
National Security Files
National Security Study Memorandum
Nucleare Italiana
Organization of Arab Petroleum Exporting Countries
Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico o OECD
Organisation for Economic Co-operation and Development o OCSE
Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea
Organizzazione per la Liberazione della Palestina
Organizzazione delle Nazioni Unite
Organization of Petroleum Exporting Countries
Organizzazione di Produttori di Energia Nucleare
Organisation du Traité de l’Atlantique du Nord
Politica Agricola Comune
Programma Ciclo Uranio-Torio
Prova Elementi di Combustibile
Piano Energetico Nazionale
Prodotto Interno Lordo
Partito Liberale Italiano
Partito Repubblicano Italiano
Progetto Reattore Organico
Partito Socialista Democratico Italiano
Partito Socialista Italiano
Progetto Unificato Nucleare
Paesi in Via di Sviluppo
Pressurized Water Reactor
Reattore Organico Vapore Industriale
VIII
RWE
SADE
SAIP
SAIPEM
SALT
SELNI
SEEA
SENN
SGES
SGHWR
SICN
SICS
SIEN
SIMEA
SIP
SIRIP
SME
SNAM
SNIA
SNR
SOFIDIF
SOMAIR
SOMICEM
SOMIREN
SORIN
START
SVIMEZ
SWUCO
SYBESI
TAPLINE
TNA
TNP
TNPG
TRA
TVA
Udc.
UKAEA
UNCTAD
UNESCO
UNIEL
UNIPÈDE
URENCO
URSS
USA
USAEC
VDEW
Rheinisch-Westfälisches Elektrizitätswerk
Società Adriatica di Elettricità
Società Automazioni Impianti Produttivi
SAIP e Montaggi
Strategic Arms Limitation Talks
Società Elettronucleare Italiana
Società Europea per l’Energia Atomica
Società Elettronucleare Nazionale
Società Generale Elettrica della Sicilia
Steam Generatine Heavy Water Reactor
Société Industrielle de Combustibles Nucléaires
Società Italiana Carburanti Sintetici
Société Industrielle de Combustibles Nucléaires
Società italiana meridionale per l’energia atomica
Società Idroelettrica Piemontese
Società Irano-Italienne des Pétroles
Società Meridionale dell’Elettricità
Società Nazionale Metanodotti
Società Nazionale Industrie Applicazioni
Schnell Natrium Reaktor
Société Franco-Iranienne pour l’Enrichissement de l’uranium par Diffusion
gazeuse
Société des Mines de l’Aïr
Società Mineraria Centro Meridionale
Società Minerali Radioattivi Energia Nucleare
Società Ricerche Impianti Nucleari
Strategic Arms Reduction Treaty
Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno
Separative Work Units Corporation
Syndicat Belge pour la Séparation Isotopique
Trans-Arabian Pipeline
The National Archives
Trattato di Non Proliferazione nucleare
The Nuclear Power Group Ltd.
Testimonianza resa all’autore
Tennessee Valley Authority
Unità di condizionamento
United Kingdom Atomic Energy Authority
United Nations Conference on Trade and Development
United Nations Educational Scientific and Cultural Organization
Unione Industrie Elettriche
Union Internationale des Producteurs et Distributeurs d’Énergie Électrique
Uranium Enrichment Company
Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche
United States of America
United States Atomic Energy Commission
Verband Deutscher Elektrizitätswerke
IX
CAPITOLO I
GLI ALBORI DELLA POLITICA ENERGETICA ITALIANA
1. “Politica energetica” e centralità delle fonti primarie
Il termine “politica energetica” venne introdotto durante gli anni Settanta per indicare
tutte
quelle
iniziative
nazionali
volte
a
risolvere
questioni
quali
le
difficoltà
nell’approvvigionamento petrolifero, l’aumento dei costi energetici nazionali e le relative
necessità di razionalizzazione dei consumi interni. Misure simili vennero adottate in tutti i paesi
durante i due conflitti mondiali e vertevano sulla necessità di congelare le risorse esistenti per
evitare periodi di cosiddetto blackout energetico. A partire dalla fine della seconda guerra
mondiale tutto il mondo industrializzato aveva potuto contare su una fonte energetica
abbondante: il petrolio. La caratteristica principale di questa risorsa consisteva nella sua
“economicità”1: risultava competitiva rispetto alle altre fonti, facile da trasportare e molto duttile
nelle sue utilizzazioni2. Queste qualità avevano indotto i governi di tutti i paesi industrializzati a
abbandonare qualsiasi investimento immediato sulle altre risorse esistenti (carbone e energia
nucleare), finendo quasi per far coincidere, almeno fino agli anni Sessanta, le politiche
energetiche nazionali con le iniziative in campo petrolifero3. Non si poteva parlare di vere e
proprie politiche di programmazione settoriale ma la necessità dei paesi poveri, fra cui l’Italia, di
garantirsi le risorse per far fronte al fabbisogno energetico nazionale aveva spinto i governi a
prendere delle contromisure4.
Il punto focale di qualsiasi politica energetica nazionale consisteva dunque nella necessità
di possedere una fonte primaria idonea a produrre energia5: grazie alle innovazioni tecnologiche
introdotte durante il periodo conosciuto come rivoluzione industriale, il carbone svolse questo
ruolo nel corso di tutto il XIX° secolo. L’invenzione del motore a scoppio, tuttavia, comportò
1
Le grandi scoperte del Medio Oriente, del Nord America, dell’America Latina, dell’Unione Sovietica e, successivamente,
dell’Africa settentrionale e occidentale avevano contribuito a aumentare il livello delle riserve di petrolio greggio determinandone in
conseguenza una rilevante diminuzione dei prezzi; per approfondimenti si veda, ad esempio, P. Bairoch, Economia e storia mondiale,
Cernusco, 1996.
2
Cfr. N. J. D. Lucas, Energy and the European Communities, London, 1977, p. 263.
3
Per approfondimenti su questo processo si vedano, tra gli altri, J. G. Clark, The political economy of world energy: a twentiethcentury perspective, New York, 1990, p. 95 e ss.; B. Curli, Le origini della politica energetica comunitaria, 1958-64, in M. Guderzo,
M. L. Napolitano (a cura di), Diplomazia delle Risorse. Le materie prime e il sistema internazionale del Novecento, Firenze, 2004,
pp. 95-97; J. A. Hassan, A. Duncan, The Role of Energy Supplies during Western Europe’s Golden Age, 1950-1972, in «The Journal
of European Economic History», vol. 18, n. 3, 1989, pp. 482-488.
4
Per un’analisi sul problema della sicurezza degli approvvigionamenti e sulla ricerca di fonti di energia alternative si vedano, tra gli
altri, F. Garino, Il petrolio oggi e domani, in «Relazioni Internazionali», XXXVII, n. 42, 1973, pp. 325-328; M. Guderzo, M. L.
Napolitano (a cura di), Diplomazia delle Risorse, cit.
5
Per uno studio sulle fonti e sulle forme di energia si vedano, tra gli altri, A. Cardinale, A. Verdelli, Energia per l’industria in Italia.
La variabile energetica dal miracolo economico alla globalizzazione, Milano, 2008, pp. 17-26; L. Bruni, M. Colitti, La politica
petrolifera italiana, Milano, 1967, pp. 5-16; V. D’Ermo, Le fonti di energia tra crisi e sviluppo. Mercati e operatori, Roma, 1997.
1
una parziale sostituzione del carbone con i primi prodotti petroliferi. Prima di questa invenzione
l’utilizzo del petrolio era rimasto limitato a causa di numerosi ostacoli tecnici: diversamente dal
carbone, infatti, il petrolio non poteva (e ancora oggi è lo stesso) essere utilizzato direttamente
come combustile, ma doveva essere trasformato in prodotti derivati attraverso il procedimento di
raffinazione6. Nel XIX° secolo iniziò inoltre anche la produzione su scala industriale dell’energia
elettrica; quest’ultima, oltre a alimentare gli apparati elettronici, risultava facile da convertire in
energia luminosa, meccanica e termica. Questa energia poteva essere ottenuta sia sfruttando le
risorse idriche presenti nel territorio, sia utilizzando apparecchiature alimentate da carbone e dai
prodotti derivati del petrolio.
A partire dal Novecento, e più precisamente dopo il primo conflitto mondiale,
l’eccezionale sviluppo nel settore dei trasporti portò a una rapida espansione dell’utilizzo del
petrolio. Stessa sorte ebbe l’energia elettrica con i nuovi impieghi per la produzione di energia
meccanica, per l’illuminazione, per il trasporto su rotaia e, infine, per l’alimentazione dei primi
apparecchi elettronici. Il carbone venne invece sempre più accantonato per la creazione di
energia meccanica e usato principalmente nel settore termoelettrico a integrazione dell’energia
idroelettrica. Questi sviluppi risultavano più evidenti negli Stati Uniti, all’avanguardia
nell’utilizzazione del petrolio e dei suoi derivati, ma iniziarono a diffondersi anche nei paesi
dell’Europa Occidentale. Tutto ciò era l’effetto dell’eccezionale aumento della popolazione e
della ricchezza pro-capite che determinavano a loro volta un incremento dei fabbisogni
energetici e la necessità per i governi di assicurare un adeguato approvvigionamento nazionale. Il
secondo conflitto mondiale bloccò temporaneamente questa tendenza, soprattutto in Europa.
2. La situazione energetica italiana prima della seconda guerra mondiale
Il problema della mancanza di fonti energetiche primarie in Italia si presentò in tutta la
sua gravità già a partire dall’avvio del primo processo di industrializzazione. La carenza di
risorse carbonifere7 e l’elevato costo di trasporto determinavano un prezzo di acquisto delle fonti
energetiche primarie molto più alto di quello praticato negli altri paesi europei che disponevano
di proprie risorse carbonifere8. Questa situazione pesò fortemente sull’industria italiana,
specialmente su quella metallurgica, e venne considerata la principale causa del ritardo
6
Per uno studio sulla storia delle raffinerie petrolifere italiane si veda G. E. Kovacs, Storia delle raffinerie di petrolio in Italia,
Roma, 1964.
7
Cfr. C. Bardini, Senza carbone nell'eta del vapore: gli inizi dell'industrializzazione italiana, Milano, 1998, pp. 20-29.
8
Cfr. A. Fossati, Lavoro e produzione in Italia: dalla metà del secolo XVIII alla seconda guerra mondiale, Torino, 1951, pp. 239240.
2
complessivo9. Nulla tuttavia si fece per colmare questo gap, che pure era “ritenuto una causa
permanente di svantaggio dell’industria italiana rispetto a quella degli altri Paesi europei, tale da
giustificare un regime di deciso protezionismo industriale”10. D’altro canto, il ritardo italiano non
era determinato solo dal costo elevato degli approvvigionamenti di materie prime ma risultava
aggravato dalla scarsità di capitali, dalla mancanza di un diffuso spirito imprenditoriale e dalla
carenza di adeguate conoscenze tecniche.
La situazione iniziò a modificarsi con la produzione di energia elettrica11 derivante dallo
sfruttamento delle risorse idriche presenti sul territorio italiano. Durante il primo decennio del
Novecento, l’abbondanza di acque sulle Alpi, e in parte sugli Appennini, portò a un rapido
aumento degli investimenti privati nel settore, associato a uno sviluppo molto elevato della
produzione di energia elettrica e a positive ricadute sull’economia del paese12. A causa della
struttura fisica del territorio il boom degli investimenti e della produttività industriale si verificò
però quasi esclusivamente nel nord del paese, aggravando così lo squilibrio economico e sociale
con il meridione.
Diversamente da quanto avvenuto in tutti gli altri settori produttivi, nell’industria elettrica
gli investimenti pubblici italiani, sia diretti che indiretti, furono praticamente assenti durante il
periodo iniziale. Il governo si limitò a eliminare quegli ostacoli giuridici e infrastrutturali che
avrebbero potuto compromettere l’evoluzione della nascente industria elettrica13. Il settore
energetico italiano non poteva però contare sull’utilizzo delle sole risorse idroelettriche per
rispondere alle esigenze della domanda interna e dovette fare i conti con la necessità di reperire
combustibili solidi dall’estero a prezzi elevati14. Ciò indusse il governo a investire direttamente
nel settore dell’industria elettrica con il Regio Decreto Legge n. 2161 del 9 ottobre 1919 che
9
Per uno studio sul rapporto energia-produttività, soprattutto per quanto concerne il caso italiano, si vedano, tra gli altri, A.
Cardinale, A. Verdelli, Energia per l’industria in Italia. La variabile energetica dal miracolo economico alla globalizzazione, cit.,
pp. 27-34; A. Clô, Crisi energetica: consumi, risparmi e penetrazione elettrica, in G. Zanetti (a cura di), Storia dell’industria
elettrica in Italia, vol. 5, Gli sviluppi dell’ENEL. 1963-1990, Roma-Bari, 1994, pp. 85-87; U. Colombo, Energia: storia e scenari,
Roma, 2000, p. 63 e ss.; C. Pavese, L’energia, le risorse, l’ambiente, in P. A. Toninelli (a cura di), Lo sviluppo economico moderno:
dalla rivoluzione industriale alla crisi energetica, Venezia, 2006, pp. 107-154; V. Smil, Storia dell’energia, Bologna, 2000, p. 9 e ss.
10
L. Bruni, M. Colitti, La politica petrolifera italiana, cit., p. 36.
11
L’uso di questa energia in Italia venne avviato alla fine dell’Ottocento grazie all’opera svolta dal Comitato promotore per
l’applicazione dell’energia elettrica fondato a Milano nel 1881. Nei primi anni essa venne prodotta mediante piccole centrali termiche
a carbone all’interno delle città e impiegata per l’illuminazione civile e urbana; il raggio limitato di azione e il costo elevato delle reti
elettriche rendevano però poco appetibile l’energia elettrica e favorivano l’impiego del gas.
12
A favorire questo sviluppo intervenne anche l’invenzione del motore a corrente alternata che rese possibile il trasporto dell’energia
elettrica a distanza e a costi sostenibili. Furono i tedeschi a investire in modo massiccio in Italia, spinti non solo dalla possibilità di
effettuare investimenti decisamente redditizi, ma anche dall’opportunità di creare un nuovo mercato in cui esportare i propri
macchinari elettrici.
13
Nel 1898 ci fu un acceso dibattito nazionale sull’opportunità o meno di procedere a una nazionalizzazione del settore elettrico, ma
nel 1903 si scelse di emanare solo una legge sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei comuni, permettendo la nascita di
società municipalizzate con lo scopo di erogare energia elettrica a costi più bassi rispetto a quelli praticati dai soggetti privati (cfr.
legge n. 103 del 29 marzo 1903).
14
Per uno studio sul problema della disponibilità delle fonti primarie per lo sviluppo dell’energia elettrica in Italia si veda F. Silari,
L’industria elettrica e i problemi energetici, in V. Castronovo (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia, vol. 4, Dal
dopoguerra alla nazionalizzazione 1945-1962, Roma-Bari, 1994, pp. 275-319.
3
concesse forti agevolazioni tributarie e contributive per la costruzione di serbatoi e finanziamenti
in funzione della potenza installata15. Quest’ultima, grazie alle disposizioni governative, aumentò
rapidamente, così come la produzione nazionale di elettricità, ma il carbone continuò a essere la
principale fonte di calore industriale e i costi complessivi dell’energia in Italia rimasero di gran
lunga superiori a quelli degli altri paesi industrializzati.
Durante gli anni del regime fascista, grazie a varie favorevoli concessioni, il numero delle
società che operavano nel settore elettrico aumentò considerevolmente. Nel 1925 le principali
aziende elettriche operanti in Italia, oltre alle cosiddette municipalizzate, erano la SIP, l’Edison,
la SADE e la SME. Dal 1921 al 1931 gli investimenti ricevettero un forte impulso grazie
soprattutto all’afflusso di capitali americani e di massicci contributi statali: gli impianti
idroelettrici alpini vennero raccordati con quelli appenninici, furono create altre linee di trasporto
e di distribuzione e, infine, continuò l’utilizzo dell’energia elettrica nelle ferrovie. Con il crollo
della borsa di Wall Street del 24 ottobre 1929, l’Italia perse gran parte degli investimenti
americani ma guadagnò posizioni nel settore dell’intervento pubblico mediante la costituzione
nel 1933 dell’IRI. Nato come ente provvisorio con il compito di salvare il sistema creditizio
italiano dalla crisi, l’IRI assunse il controllo della SIP e si fece promotore di un nuovo sviluppo
del settore elettrico attraverso la proprietà di banche e di imprese che comunque continuarono a
mantenere la loro struttura giuridica di società per azioni. Nel 1937 l’IRI da ente temporaneo
divenne permanente con l’incarico di gestire direttamente le imprese che fino a quel momento
aveva indirettamente controllato. Lo Stato italiano, quindi, si trovò nel giro di pochi anni a
controllare ampie porzioni dell’industria nazionale e del sistema creditizio, in particolare nei
settori ad alta intensità di capitale con imprese di grandi dimensioni, fra cui l’ottanta percento del
settore bancario e ben il trenta percento dell’industria elettrica. Il numero delle centrali andava
sempre più aumentando e così anche la diversificazione della produzione, concentrata per ben tre
quarti in Piemonte, in Lombardia e in Veneto16.
Oltre che per l’energia elettrica, l’interesse dell’Italia si manifestò anche nei confronti del
petrolio. La ricerca di questa fonte primaria sul territorio nazionale iniziò già nel 1862, ma i
risultati furono decisamente deludenti17. L’intera penisola venne considerata di scarso interesse
da parte degli investitori privati che abbandonarono quasi del tutto le ricerche. La convenienza
economica del rischio di investimento venne ulteriormente minata dalla notevole diminuzione
dei prezzi all’importazione del petrolio che scesero da 330 a 170 lire la tonnellata fra il 1870 e il
15
Cfr. Regio Decreto Legge n. 2161 del 9 ottobre 1919.
Per approfondimenti si veda B. Bottiglieri, L’industria elettrica dalla guerra agli anni del «miracolo economico», in V.
Castronovo (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia, vol. 4, cit., pp. 62-66.
17
Cfr. M. Boldrini, Problemi economici del metano in Italia, Roma, 1953, p. 13.
16
4
191018. Ciò indusse il governo a intervenire direttamente concedendo dapprima premi ai
perforatori in funzione alle profondità raggiunte e rinunciando a qualunque forma di imposta o
royalty e, successivamente, istituendo compensi proporzionali alla quantità di derivati petroliferi
prodotti con greggio di provenienza italiana e offrendo ai privati l’uso gratuito degli impianti di
perforazione. Nonostante questi tentativi, le quantità di petrolio trovate nel territorio nazionale
risultarono praticamente insignificanti così che l’intera porzione di prodotti petroliferi utilizzati
in Italia veniva importata19.
Anche se i risultati furono deludenti, principalmente per quanto riguardava le ricerche
petrolifere, il governo decise di investire ancora nel settore delle fonti di energia. Questo
indirizzo divenne quasi obbligatorio in quanto la profonda crisi finanziaria e i successivi tentativi
di salvataggio bancario portarono lo Stato a rilevare un numero considerevole di società operanti
nel settore elettrico. D’altra parte, i notevoli investimenti effettuati costrinsero in un certo qual
modo il governo a continuare sulla strada dell’intervento pubblico nel tentativo di ottenere dei
risultati soddisfacenti e di permettere all’economia italiana di arginare la crisi in atto. Un primo
significativo esempio di questa politica fu la creazione nel 1926 dell’AGIP, un ente statale con il
compito specifico di operare nel settore petrolifero20. Nonostante in quegli anni il carbone fosse
ancora la principale fonte di energia consumata con più del cinquanta percento di utilizzo21, il
governo decise di operare una scelta lungimirante, ritenendo che anche in Italia il petrolio si
avviasse verso un considerevole sviluppo, ritenuto fondamentale per soddisfare i consumi del
tempo. Del resto negli altri Stati industrializzati l’oro nero aveva avuto e continuava a avere un
ruolo determinante nell’avvio di un nuovo processo di crescita finanziaria e di sviluppo
economico. L’obiettivo principale del governo consisteva quindi nel garantire al paese un
approvvigionamento petrolifero adeguato attraverso la creazione di un ente statale che operasse
sia nel mercato interno che in quello estero. Considerati gli anni in cui si prese questa decisione è
plausibile ritenere che gli interessi militari giocarono un ruolo importante: era impensabile che in
caso di un nuovo conflitto bellico l’esercito italiano si ritrovasse infatti sprovvisto di risorse
petrolifere e non potesse utilizzare i propri mezzi di difesa, oppure, ipotesi ancora peggiore,
18
Cfr. L. Bruni, M. Colitti, La politica petrolifera italiana, cit., p. 39.
Per uno studio sulle vicende che portarono alla nascita di una politica nazionale nel settore petrolifero si vedano, tra gli altri, C.
Alimenti, La questione petrolifera in Italia, Torino, 1937; L. Bruni, M. Colitti, La politica petrolifera italiana, cit.; M. Magini,
L’Italia e il petrolio tra storia e cronologia, Milano, 1976; M. Pizzigallo, Alle origini della politica petrolifera italiana (1920-1925),
Milano, 1981; D. Pozzi, Dai gatti selvaggi al cane a sei zampe: tecnologia, conoscenza e organizzazione nell'AGIP e nell'ENI di
Enrico Mattei, Venezia, 2009, pp. 19-140; F. Squarzina, Le ricerche di petrolio in Italia: cenni storici dal 1860 e cronache
dell’ultimo decennio, Roma, 1958.
20
La costituzione dell’AGIP avvenne ufficialmente mediante il Regio Decreto Legge n. 556 del 3 aprile 1926 e con la formula di
società per azioni. Il capitale sociale era conferito per il sessanta percento dal Ministero del Tesoro, per il venti percento dall’INA e
per il restante venti percento dalle Assicurazioni Sociali. Il primo presidente fu Ettore Conti, imprenditore del settore elettrico.
21
Per uno studio sui consumi energetici italiani si rimanda a P. Malanima, Energy consumption in Italy in the 19th and 20th centuries.
A statistical outline, Napoli, 2006.
19
5
dovesse dipendere dalle società straniere operanti in Italia che potevano anche risultare ostili nel
corso dello scontro armato.
La creazione dell’AGIP indicava quindi in un certo qual modo la fine dell’intervento
pubblico nel settore petrolifero; il governo sembrava orientato a far operare il nuovo ente nel
mercato come azienda privata, seguendo l’esempio delle grandi compagnie petrolifere
internazionali22. L’AGIP rappresentava uno “strumento della politica autarchica dello Stato, cui
era affidato il compito di sopperire alla carenza di iniziative dei gruppi industriali privati, poco
propensi ad affrontare il rischio della ricerca petrolifera”23; per questo motivo gli vennero
affidate competenze molto estese che andavano dalla ricerca e produzione di greggio, al
trasporto e alla raffinazione, fino a comprendere la distribuzione e la vendita del prodotto finito.
Nella sua attività l’AGIP24 operò attraverso la creazione di altre società controllate che agivano
in settori precisi e zone limitate; nel campo dell’esplorazione petrolifera, inoltre, “più che
operare in proprio, agiva da contrattista per lo Stato, che stanziava appositi fondi ed incaricava
l’AGIP di attuare piani di ricerca approvati volta per volta”25.
Il primo obiettivo del nuovo ente consisteva ovviamente nell’assicurare al paese un
adeguato approvvigionamento di petrolio attraverso la ricerca mineraria sul territorio nazionale
ma anche in quello delle colonie e in Albania. In secondo luogo, la nuova azienda cercò di
acquisire partecipazioni in società petrolifere dell’Europa orientale e nel Medio Oriente. A
favorire l’AGIP nelle ricerche nazionali intervenne la cosiddetta “legge mineraria fondamentale”
del 192726 che attribuiva la proprietà del sottosuolo al demanio dello Stato e imponeva che
qualsiasi attività di perforazione e prelievo fosse preventivamente soggetta a autorizzazione e/o a
concessione governativa. Piccoli giacimenti di gas naturale vennero scoperti nel 1929 a
Fontevivo (Parma), nel 1935 a Bellena e a Podenzano e nel 1942 a S. Giorgio, vicino Bolzano; il
primo ritrovamento di un certo rilievo avvenne però solo nel 1944-1945 con il ricco giacimento
di gas naturale di Caviaga (Lodi). Le ricerche petrolifere da parte degli imprenditori privati
continuarono ma non assunsero mai dimensioni paragonabili a quelle dell’AGIP. Sul mercato
interno quest’ultima operò anche grazie all’aiuto dell’ANIC, una società costituita nel 1935 in
accordo con la Montecatini e in cui l’AGIP aveva una partecipazione rilevante, creata con
l’obiettivo di aumentare velocemente la capacità di raffinazione e di diminuire le importazioni di
22
Cfr. L. Bruni, M. Colitti, La politica petrolifera italiana, cit., p. 43.
Appunto interno all’ENI (non firmato), ASE, coll. AS. III. 6, udc. 8.
24
Per uno studio sulla storia dell’AGIP si vedano R. Fabiani, La ricerca del petrolio: A.G.I.P., Azienda Generale Italiana Petroli,
Roma, 1950; F. Guidi, History of AGIP: an example of upstream development, San Donato Milanese, 1994; M. Pizzigallo, L’AGIP
degli anni ruggenti (1926-1932), Milano, 1984; Id., La “politica estera” dell’AGIP (1933-1940). Diplomazia economica e petrolio,
Milano, 1992; D. Pozzi, Dai gatti selvaggi al cane a sei zampe, cit., pp. 141-268; AA. VV., Nascita e trasformazione d’impresa:
storia dell’AGIP Petroli, Bologna, 1993.
25
L. Bruni, M. Colitti, La politica petrolifera italiana, cit., p. 43.
26
Cfr. Regio Decreto Legge n. 1443 del 29 luglio 1927.
23
6
prodotti raffinati sostituendoli direttamente con petrolio greggio27. Per quanto concerneva il
settore della distribuzione dei prodotti petroliferi, l’AGIP tentò di aumentare il più possibile la
propria quota di mercato ricorrendo perfino a vere e proprie guerre di prezzi28.
Le attività di ricerca all’estero produssero risultati limitati; giacimenti petroliferi
produttivi si scoprirono in Albania e l’estrazione avvenne mediante la costituzione, in
collaborazione con le Ferrovie dello Stato, dell’AIPA, anche se il greggio risultò di cattiva
qualità e la sua lavorazione scarsamente redditizia. Le promettenti operazioni di prospezione
avviate in Iraq e in altri paesi vennero invece abbandonate a causa delle notevoli spese sostenute
per le campagne coloniali italiane. Solo in Libia le prospezioni continuarono grazie alla scoperta
casuale di petrolio avvenuta nel 1939 e da cui ebbe origine la cosiddetta “operazione Petrolibia”:
si trattava di una collaborazione dell’AGIP con la FIAT mediante la creazione della SICS che si
proponeva di ricavare benzina dalla sintesi chimica. L’AGIP aveva deciso infatti di investire
molte risorse nella ricerca di fonti di energia alternative, ma i risultati si rivelarono inferiori alle
aspettative.
In concomitanza con i primi anni del conflitto, l’azienda pubblica italiana si interessò
soprattutto al metano: nel 1940 venne infatti costituito l’Ente Nazionale Metano con il compito
di eseguire, controllare e coordinare le ricerche di sorgenti e di giacimenti metaniferi sul
territorio nazionale29. L’anno successivo si creò invece la SNAM il cui mandato prevedeva la
costituzione di una rete di metanodotti per unire le zone produttive scoperte fino a quel momento
dall’AGIP alle centrali di compressione.
3. Le conseguenze del conflitto e i primi passi verso una politica energetica nazionale
Il secondo conflitto mondiale, a causa del massiccio bombardamento subito dall’Italia e
per via del drammatico esito finale, rappresentò una grave battuta d’arresto per la politica
energetica nazionale. Nel settore elettrico si dovette registrare la distruzione di ben un quarto
della potenza installata precedentemente; a farne le spese fu principalmente l’energia
termoelettrica in quanto i relativi impianti erano situati nei pressi di zone portuali e industriali e,
27
La norma protezionistica emanata con il Regio Decreto Legge del 2 novembre 1933 in materia di raffinerie permise all’AGIP di
ottenere vantaggi anche in questo settore (cfr. Regio Decreto Legge n. 1741 del 2 novembre 1933, “Disciplina dell'importazione,
della lavorazione, del deposito e della distribuzione degli oli minerali e dei carburanti”, convertito nella legge n. 367 dell’8 febbraio
1934 e dotato di un regolamento di attuazione con il Regio Decreto Legge n. 1303 del 20 luglio 1934).
28
Cfr. L. Bruni, M. Colitti, La politica petrolifera italiana, cit., p. 46.
29
Cfr. legge n. 1501 del 2 ottobre 1940.
7
quindi, vicino ai principali obiettivi bellici30. I primi anni del dopoguerra si impiegarono dunque
per la ricostruzione di tutto ciò che era stato danneggiato, nel tentativo di riportare la situazione
al periodo prebellico31. Con la nascita della Repubblica si decise inoltre di inserire nella nascente
Costituzione l’articolo 43 secondo cui:
“Ai fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante
espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di
utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o
a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse
generale”.
Si decise pertanto di non eliminare l’IRI ma di trasformarlo in uno strumento di
ammodernamento del paese. L’uso dei massicci aiuti internazionali32 risultò determinante per la
ripresa nel settore elettrico mediante la graduale conversione delle industrie nazionali belliche in
imprese varie che iniziarono a produrre, tra l’altro, componenti tecnologici per la produzione
della stessa energia elettrica33.
Conseguenze meno distruttive si ebbero nel settore petrolifero, comunque costretto a uno
sforzo di rilancio. Dopo l’armistizio di Cassibile, nella Repubblica Sociale Italiana venne deciso
di commissariare l’AGIP e di spostarne la sede sociale a Milano; si paventò addirittura l’ipotesi,
dietro pressioni americane, di chiudere completamente l’ente di Stato. Ciononostante, le ricerche
di giacimenti produttivi sul territorio italiano continuarono e, come già accennato, portarono alla
scoperta del gas naturale di Caviaga, presso Lodi. In un primo momento le dimensioni del
giacimento non erano state ben determinate e si pensava fossero simili agli altri siti produttivi
precedentemente rinvenuti e rivelatisi decisamente esigui. La guerra e le precarie condizioni
economiche pesarono notevolmente in questa prima affrettata valutazione. Con il passare dei
mesi, invece, il gas naturale che veniva estratto non sembrava diminuire e ciò indusse i tecnici
dell’AGIP a ritenere il nuovo giacimento ben più grande di quanto inizialmente ipotizzato. In
ogni caso le vicende postbelliche non agevolavano la vita dell’ente statale. Nel febbraio del 1945
30
Per uno studio sulla situazione strutturale italiana nel settore elettrico e sulle innovazioni introdotte a partire dalla fine degli anni
Quaranta si veda L. De Paoli, Programmi di investimento e novità tecniche, in V. Castronovo (a cura di), Storia dell’industria
elettrica in Italia, vol. 4, cit., pp. 167-238.
31
Per uno studio sul ruolo della ricerca di fonti energetiche nazionali in funzione della ricostruzione si veda R. Ranieri,
L’approvvigionamento di materie prime nella ricostruzione italiana, in L. Tosi (a cura di), Politica ed economia nelle relazioni
internazionali dell’Italia del secondo dopoguerra. Studi in ricordo di Sergio Angelini, Roma, 2002, p. 211 e ss.
32
Del resto la questione energetica divenne uno dei problemi centrali dello stesso Piano Marshall (per uno studio sul rapporto fra
aiuti americani e problemi energetici europei si vedano E. B. Kapstein, The Insecure Alliance: Energy Crises and Western Politics
since 1944, Oxford, 1990, p. 68 e ss.; L. Maugeri, L'arma del petrolio. Questione petrolifera globale, guerra fredda e politica
italiana nella vicenda di Enrico Mattei, Firenze, 1994, pp. 49-54).
33
Per ulteriori approfondimenti si veda B. Bottiglieri, L’industria elettrica dalla guerra agli anni del «miracolo economico», in V.
Castronovo (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia, vol. 4, cit., pp. 68-75.
8
si insediò a Roma un consiglio di amministrazione che riportò la sede sociale nella capitale e
nominò alla presidenza il senatore Arnaldo Petretti; per un periodo sopravvissero dunque due
sezioni dello stesso ente. Le pressioni anglo-americane si indirizzarono verso il tentativo di
indurre la chiusura della stessa AGIP; inoltre, gli interessi di Londra e Washington nel settore
petrolifero erano notevolmente cresciuti dopo una serie di ingenti investimenti. La sola
potentissima Standard Oil of New Jersey (EXXON) era giunta a controllare una miriade di
società34 e si temeva che l’AGIP, qualora fosse rimasta in vita, potesse ricevere vantaggi statali a
danno degli interessi stranieri35. Il clima politico italiano spingeva del resto verso una soluzione
non molto dissimile: l’ente statale veniva visto come uno dei tanti istituti voluti dalla politica
autarchica degli anni del fascismo che bisognava eliminare per dare spazio allo sviluppo
dell’iniziativa privata. Di certo sull’AGIP pesava fortemente il clima di sfiducia per le tante e
lunghe ricerche infruttuose effettuate fino a quel momento e il suo smantellamento sembrava
anche venire incontro alla terribile situazione economica che suggeriva di dismettere
definitivamente ogni società che non risultasse utile al risollevamento del paese36.
Il governo italiano decise quindi di chiudere la sezione ricerche dell’AGIP lasciando
operativo il solo settore commerciale; mentre dal canto loro gli Alleati, al fine di gestire proprio
quest’ultima area, avevano costituito il Comitato Italiano Petroli37, alla guida del quale, oltre a
rappresentanti dell’AGIP, vennero nominati manager della SHELL e della Standard Oil of New
Jersey. Le grandi compagnie straniere38 sembravano voler trasformare l’Italia in una specie di
34
Cfr. N. Perrone, Mattei, il nemico italiano: politica e morte del presidente dell’ENI attraverso i documenti segreti, 1945-1962,
Milano, 1989, p. 18.
35
Per questo motivo all’AGIP fu preclusa la possibilità di attingere dagli aiuti americani (per approfondimenti si veda L. Maugeri,
L'arma del petrolio, cit., pp. 74-75).
36
Appunto interno all’ENI (non firmato), ASE, coll. AS. III. 6, udc. 8; per approfondimenti si veda G. E. Kovacs, Storia delle
raffinerie di petrolio in Italia, cit., p. 145.
37
Il CIP venne creato con il DL n. 238 del 1 marzo 1945 che assegnava il compito di “coordinare in via straordinaria
l’approvvigionamento dei prodotto petroliferi per le forze armate sia italiane, sia alleate e per gli usi civili, rispettando l’autonomia
amministrativa, gestionale ed organizzativa delle società del settore esistenti in Italia” (M. Magini, L'Italia e il petrolio tra storia e
cronologia, cit., p. 89). Per ulteriori approfondimenti si veda P. H. Frankel, Petrolio e potere: Enrico Mattei, Firenze, 1970, p. 58 e
ss.
38
Le cosiddette big seven o “sette sorelle” erano: la anglo-olandese Royal Dutch Shell Oil Company (SHELL), la inglese British
Petroleum Company (ex Anglo-Iranian) e le cinque compagnie americane: la EXXON, la Socony Mobil Oil Company (Standard Oil
of New York), la SOCAL (Standard Oil Company of California), la TEXACO e la Gulf Oil Company (si vedano, tra gli altri, G.
Buccianti, Enrico Mattei. Assalto al potere petrolifero mondiale, Milano, 2005, p. 26; A. Roncaglia, L'economia del petrolio, RomaBari, 1983, p. 61; A. Sampson, Le sette sorelle: le grandi compagnie petrolifere e il mondo che hanno creato, Milano, 1976, p. 91).
Secondo l’interpretazione di Francisco Parra, segretario generale dell’OPEC nel 1968, il termine “seven sisters” sarebbe stato
pronunciato per la prima volta proprio dallo stesso Mattei (cfr. F. Parra, Oil politics: a modern history of petroleum, London, 2004, p.
6). Per un approfondimento sulle “big seven” cfr. A. Clô, Economia e politica del petrolio, Bologna, 2000, pp. 68-72; N. H. Jacoby,
Multinational oil: a study in industrial dynamics, New York, 1974; G. Luciani, L’OPEC nella economia internazionale, Torino,
1976, pp. 3-17; V. Marcel, J. V. Mitchell, Oil titans: national oil companies in the Middle East, London, 2006; L. Maugeri, Petrolio.
Storie di falsi miti, sceicchi e mercati che tengono in scacco il mondo, Milano, 2001, pp. 35-42; J. V. Mitchell, Companies in a
World of Conflict, London, 1998; E. Penrose, International Oil Companies and Governments in the Middle East, in J. D. Anthony,
The Middle East: Oil, Politics and Development, Washington, 1975, pp. 3-19; A. Roncaglia, L'economia del petrolio, cit., pp. 61-87;
B. Shwadran, The Middle East, Oil and the Great Powers, London, 1985; J. Stork, Il petrolio arabo, Torino, 1978; C. Tugendhat, A.
Hamilton, Oil: the biggest business, London, 1975; L. Turner, Oil companies in the international system, London, 1980; F. Venn, Oil
Diplomacy in the Twenthieth Century, London, 1986; D. Yergin, The Prize. The Epic Quest for Oil, Money and Power, New York,
1991. Per un’analisi generale sul mercato petrolifero internazionale e sul controllo politico delle fonti energetiche si vedano M. A.
Adelman, The world petroleum market, Baltimore, 1972; Id., The genie out of the bottle: world oil since 1970, Cambridge, 1995; J.
9
centro di raffinazione e di snodo per la commercializzazione del petrolio proveniente dal Medio
Oriente39. La direzione dell’AGIP accolse le decisioni del governo riservandosi tuttavia la
possibilità di continuare le ricerche nelle zona di Lodi e decise la creazione di una commissione
con il compito di studiare i problemi relativi alla liquidazione della sezione ricerche40.
All’interno dello stesso ente statale si levarono però molte proteste e le sezioni di Milano e
Roma, rimaste entrambe in vita, non concordarono sulla strada da intraprendere. La commissione
centrale per l’economia del CLNAI, che operava nelle regioni ancora occupate, decise di
nominare Enrico Mattei41 commissario straordinario dell’AGIP con il compito di porre la società
in liquidazione, facendo seguito alla volontà del governo di smobilitare quelle aziende che, con i
loro deficit, si riteneva gravassero pesantemente sul bilancio dello Stato42. Nell’ottobre del 1945
le due sezioni di Roma e di Milano vennero riunificate e Mattei nominato vicepresidente della
M. Blair, The Control of Oil, New York, 1976; P. F. Cowhey, The Problems of Plenty: Energy Policy and International Politics,
Berkeley, 1985; D. Durand, La politique pétrolière internationale, Paris, 1970; W. N. Greene, Strategies of the Major Oil
Companies, Ann Arbor, 1982; R. Engler, The Brotherhood of Oil: Energy Policy and the Public Interest, Chicago, 1977; B. I.
Kaufman, The Oil Cartel Case: A Documentary Study of Antitrust Activity in the Cold War Era, Westport, 1978; W. J. Levy, Oil
Strategy and Politics, 1941-1981, edited by M. A. Conant, Boulder, 1982; A. Nouschi, Pétrole et relations internationales de 1945 a
nos jours, Paris, 1995; A. E. Safer, A strategy of oil proliferation: a study, Washington, 1980; C. E. Solberg, Oil Power, New York,
1976. Per uno studio sull’economia del petrolio negli anni cinquanta-settanta in relazione ai paesi in via di sviluppo si veda, ad
esempio, E. T. Penrose, The Large International Firm in Developing Countries. The International Petroleum Industry, London,
1968.
39
Cfr. M. Magini, L'Italia e il petrolio tra storia e cronologia, cit., p. 96. Questa ipotesi venne avanzata perché in Italia le grandi
compagnie petrolifere stavano avviando una serie di iniziative che avrebbero portato a una disponibilità della capacità di raffinazione
superiore al fabbisogno nazionale. Tuttavia, le motivazioni di questa politica erano da attribuirsi a questioni “di ordine più generale:
la maggiore convenienza al trasporto su lunghe distanze del greggio rispetto ai prodotti raffinati; la maggiore stabilità politica rispetto
ai paesi in via di sviluppo; la maggiore «flessibilità» fiscale rispetto ai paesi più sviluppati, di un paese a «industrializzazione
ritardata» come l’Italia” (A. Roncaglia, L'economia del petrolio, cit., nota 48, pp. 146-147).
40
Cfr. L. Bruni, M. Colitti, La politica petrolifera italiana, cit., p. 50.
41
Per uno studio sulla figura di Enrico Mattei e sulle sue iniziative nel settore petrolifero si vedano G. Accorinti, Quando Mattei era
l’impresa energetica. Io c’ero, Matelica (Mc), 2008; B. Bagnato, Petrolio e politica: Mattei in Marocco, Firenze, 2004; L. Bazzoli,
R. Renzi, Il miracolo Mattei. Sfida e utopia del petrolio italiano nel ritratto di un incorruttibile corruttore, Milano, 1984; M.
Boldrini, Enrico Mattei, Roma, 1968; F. Briatico, Ascesa e declino del capitale pubblico in Italia. Vicende e protagonisti, Bologna,
2004; L. Bruni, M. Colitti, La politica petrolifera italiana, cit.; G. Buccianti, Enrico Mattei, cit.; A. Clô (a cura di), ENI (1953-2003),
Bologna, 2004; M. Colitti, Energia e sviluppo in Italia: la vicenda di Enrico Mattei, Bari, 1979; Id., ENI. Cronache dall’interno di
un’azienda, Milano, 2008; Id., Enrico Mattei (1906-1962), in A. Mortara (a cura di), I protagonisti dell’intervento pubblico in Italia,
Milano, 1984, pp. 683-719; S. De Angelis, Enrico Mattei, Roma, 1966; C. R. Dechert, Ente Nazionale Idrocarburi: profile of a State
corporation, Leiden, 1963; P. H. Frankel, Petrolio e potere: Enrico Mattei, cit.; G. Galli, La sfida perduta: biografia politica di
Enrico Mattei, Milano, 1976; Id., Enrico Mattei: petrolio e complotto italiano, Milano, 2005; B. Li Vigni, Il caso Mattei: un giallo
italiano, Roma, 2003; Id., La grande sfida: Mattei, il petrolio e la politica, Milano, 2006; C. M. Lomartire, Mattei: storia
dell’italiano che sfidò i signori del petrolio, Milano, 2004; M. Magini, L'Italia e il petrolio tra storia e cronologia, cit.; E. Mattei,
Enrico Mattei, 1945-1953: scritti e discorsi, a cura di A. Trecciola, Matelica, 1982; Id., Enrico Mattei, 1953-1962: scritti e discorsi,
a cura di A. Trecciola, Matelica, 1992; L. Maugeri, L'arma del petrolio, cit.; C. Moffa (a cura di), Enrico Mattei. Contro
l’arrembaggio al petrolio e al metano: una vita per l’indipendenza e lo sviluppo dell’Italia, del Medio Oriente e dell’Africa, Roma,
2006; N. Perrone (a cura di), Giallo Mattei: i discorsi del fondatore dell'ENI che sfidò gli USA, la NATO e le Sette sorelle, Roma,
1999; Id., Enrico Mattei, Bologna, 2001; Id., La morte necessaria di Enrico Mattei, Roma, 1993; Id., Mattei, il nemico italiano:
politica e morte del presidente dell’ENI attraverso i documenti segreti, 1945-1962, cit.; Id., Obiettivo Mattei: petrolio, Stati Uniti e
politica dell’ENI, Roma, 1995; I. Pietra, Mattei: la pecora nera, Roma, 1987; D. Pozzi, Dai gatti selvaggi al cane a sei zampe, cit.,
pp. 141-458; H. Roh, Enrico Mattei: chevalier des temps modernes, Sion, 1960; A. Roncaglia, L'economia del petrolio, cit., pp. 146150; F. Rosi, E. Scalfari, Il caso Mattei: un corsaro al servizio della repubblica, Bologna, 1972; G. Sapelli, F. Carnevali, Uno
sviluppo tra politica e strategia. ENI (1953-1985), Milano, 1992; S. Terranova, La Pira e Mattei nella politica italiana: 1945-1962,
Troina, 2001; A. Tonini, Il sogno proibito: Mattei, il petrolio arabo e le ‘sette sorelle’, Firenze, 2003; M. Vittorini, Petrolio &
Potere. Il racket dei petrolieri, Venezia-Padova, 1974; D. Votaw, The six-legged dog: Mattei and ENI a study in power, Los
Angeles, 1964; D. Yergin, The Prize. The Epic Quest for Oil, Money and Power, cit., pp. 501-505.
42
Appunto interno all’ENI (non firmato), ASE, coll. AS. III. 6, udc. 8; risulta interessante notare che, secondo l’opinione alcuni
studiosi tra cui Frankel, l’ordine di sospendere le ricerche petrolifere e di porre in liquidazione tutti gli impianti, nonostante
l’esistenza di numerosi documenti come controprova, non fu mai stato effettivamente impartito (per approfondimenti cfr. P. H.
Frankel, Petrolio e potere: Enrico Mattei, Firenze, 1970, p. 40).
10
società, ma fin da subito si mostrò contrario alla liquidazione dell’AGIP ritenendola una risorsa
strategica nazionale da valorizzare e potenziare. Le perforazioni nella Pianura Padana ebbero
nuovo impulso e dimostrarono la validità delle ipotesi avanzate in precedenza da alcuni tecnici
della società che ritenevano la zona di Caviaga realmente ricca di gas naturale. L’importanza
della scoperta agli inizi del '46 di un secondo pozzo produttivo non era data solo dalle
considerevoli dimensioni del giacimento, ma soprattutto dal fatto che il gas era stato rinvenuto in
strutture molto diffuse nell’intera area43. L’episodio generò nuove speranze sia all’interno
dell’AGIP che in tutto il mondo petrolifero che operava sul territorio nazionale44; furono
principalmente le società private a effettuare notevoli pressioni affinché il processo di
liquidazione dell’azienda di Stato venisse accelerato. Ovviamente non tutto il mondo politico
accettò queste sollecitazioni e ebbe inizio un acceso dibattito pubblico sull’opportunità di
continuare la smobilitazione dell’AGIP. D’altronde, se effettivamente i giacimenti della Pianura
Padana erano così ricchi come veniva ritenuto essi potevano rappresentare un valido strumento
per promuovere la ricostruzione e lo sviluppo economico così fortemente compromessi dopo il
conflitto. Il fatto che il gas fosse presente proprio in questa area rappresentava un ulteriore
vantaggio per l’Italia vista l’alta concentrazione industriale; la possibilità di rifornire a costi
minori il polmone economico nazionale poteva quindi davvero determinare quella ripresa tanto
auspicata e così difficile da ipotizzare in quegli anni. Per questi motivi risultava fondamentale
avviare nel più breve tempo possibile tutte le attività di ricerca e di estrazione del caso e
affidarne dunque la gestione dei lavori a una società in grado di offrire adeguate garanzie.
Soltanto l’AGIP aveva i requisiti tecnici e le attrezzature necessarie per assicurare una certa
rapidità di esecuzione dato che già operava nell’area e erano stati i suoi esperti a individuare i
due pozzi produttivi; ma, soprattutto, l’azienda italiana era l’unica a assicurare che le riserve di
idrocarburi della Valle Padana rimanessero nelle mani dello Stato.
Durante gli anni del conflitto anche il mercato energetico mondiale aveva subito profonde
modifiche45. La scoperta e lo sviluppo dei giacimenti petroliferi del Medio Oriente poneva
l’Italia – e in generale l’Europa mediterranea – in una condizione più favorevole rispetto al
passato: da paese lontano dalle zone di produzione delle fonti di energia si trovò a essere il più
vicino e, quindi, quello che avrebbe risparmiato maggiormente sui costi di trasporto del greggio
43
Cfr. L. Bruni, M. Colitti, La politica petrolifera italiana, cit., p. 50.
Basti pensare che solo nel 1947 vennero presentate al governo ben 421 domande di concessione nella Valle del Po da parte di ditte
sia italiane che straniere (cfr. M. Magini, L'Italia e il petrolio tra storia e cronologia, cit., p. 101).
45
Il ritrovamento di ingenti quantità di greggio nell’area mediorientale aveva gradualmente reso il mondo occidentale, e soprattutto
l’Europa, dipendente dalle importazioni petrolifere provenienti dalla sponda meridionale del Mediterraneo (per approfondimenti si
veda P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo: vittorie e insuccessi dal XVI secolo ad oggi, Torino, 1999, pp. 1134-1136).
44
11
e dei prodotti raffinati provenienti dall’area mediorientale46. Si andava dunque prospettando
l’ipotesi di avviare, fin dagli anni immediatamente successivi al conflitto, il primo vero passo
verso una politica energetica nazionale; le pressioni da parte delle società private e di quelle
straniere, com’era ipotizzabile, divennero fortissime. Proprio in risposta a queste sollecitazioni,
che nel governo erano molto sentite vista la precarietà del quadro economico, nel 1949 venne
presentato un progetto di legge sulla ricerca mineraria, immediatamente accantonato per le
violente critiche sulle condizioni di favore che esso prevedeva per il settore privato47. Divenne
quasi impossibile per l’esecutivo tentare di rispondere alle pressioni esterne; l’AGIP, di contro,
aveva aumentato ulteriormente il ritmo delle ricerche abbandonando del tutto l’ipotesi dello
smantellamento. Nel 1948 si scoprirono i giacimenti di Ripalta, mentre l’anno successivo quelli
di Cortemaggiore e di una serie di altri pozzi produttivi in tutta la Pianura Padana. Il principale
artefice di questo indirizzo fu Mattei il quale fin da subito ritenne fondamentale, per la
ricostruzione economica italiana, la ricerca di nuovi fonti energetiche; a questo scopo egli non
solo riuscì a modificare efficacemente le iniziali direttive governative, ma stimolò l’avvio di
un’aperta battaglia politica fra chi difendeva la legittimità dell’intervento pubblico nei settori
produttivi strategici e coloro che sostenevano il primato del libero mercato e dell’iniziativa
privata. Ovviamente a sostenere quest’ultima tesi erano gli investitori privati e principalmente gli
industriali petroliferi americani; ragione per la quale la battaglia intrapresa da Mattei presentava
numerose difficoltà48. L’obiettivo principale del vicepresidente dell’AGIP consisteva nel
raggiungimento dell’indipendenza energetica che perseguì cercando di sfruttare a proprio
vantaggio la situazione italiana. Il gas metano, infatti, all’epoca non era preso seriamente in
considerazione dalle altre compagnie petrolifere, ma era già stato utilizzato come combustibile
industriale nel 1944. Seguendo questa strada Mattei dotò l’Italia, primo paese al mondo a farlo,
di una rete di metanodotti che divenne il pilastro fondamentale per l’avvio del processo di
industrializzazione degli anni Cinquanta. Alla costruzione parteciparono sia l’AGIP che,
soprattutto, la SNAM di cui l’azienda italiana aveva acquisito il controllo quasi totale nel 194949.
All’indomani del conflitto, anche un’altra ipotesi energetica si era profilata all’orizzonte:
la possibilità di utilizzare la devastante forza esplosiva del nucleare per applicazioni pacifiche.
L’Italia in questo settore aveva già espresso diverse personalità che avevano avviato una serie di
46
Cfr. L. Bruni, M. Colitti, La politica petrolifera italiana, cit., p. 58. Per uno studio generale sul rapporto tra il Mediterraneo e
l’energia si rimanda a G. Luciani, The Mediterranean and the energy picture, in Id. (a cura di), The Mediterranean region: economic
interdependence and the future of society, Camberra, 1984, pp. 1-40.
47
Cfr. L. Bruni, M. Colitti, La politica petrolifera italiana, cit., pp. 50-51.
48
Per un’analisi sugli innumerevoli tentativi per bloccare l’avvio della politica di Mattei all’interno dell’AGIP si veda M. Colitti,
Mattei (1906-1962), cit. pp. 690-697.
49
Pe approfondimenti sulle iniziative di Mattei nel campo della produzione metanifera si rimanda a A. Giuntini, D. Pozzi (a cura di),
Energia per il territorio: Enrico Mattei e l'industria del metano in Italia, Lodi, 2003.
12
studi promettenti50. Basti pensare a personaggi come Enrico Fermi e Bruno Rossi, costretti a
emigrare negli Stati Uniti alla fine degli anni Trenta51, che avevano contribuito notevolmente al
progresso degli studi generali sulla fisica dell’atomo. Fermi, inoltre, in Italia aveva trasformato
l’Istituto di Fisica di via Panisperna in un moderno centro di ricerca già nel 1926, grazie
all’appoggio del direttore Orso Mario Corbino. Il fisico italiano si avvalse della collaborazione di
giovani ricercatori quali Franco Rasetti, Edoardo Amaldi e Ettore Majorana che passarono alla
storia come i “ragazzi di via Panisperna”52, a cui si aggiunse successivamente anche Bruno
Pontecorvo53. All’indomani del secondo conflitto mondiale, le risorse disponibili per investire
nella ricerca risultarono praticamente inesistenti ma gli studi nel settore nucleare avevano
ricevuto un impulso notevole con l’utilizzazione dell’arma atomica per cui divenne praticamente
impossibile non continuare sulla strada precedentemente intrapresa54. Nel 1945 l’analisi delle
possibilità di un uso pacifico dell’energia atomica venne condotta anche al Politecnico di Milano
da Giuseppe Bolla e dai suoi allievi, fra cui figuravano Giorgio Salvini, Carlo Salvetti, e Mario
Silvestri55. L’Istituto di Fisica dell’Università Statale milanese era oltretutto diretto da Giovanni
Polvani fin dal 1929 e pure in questa città, dunque, le ricerche sull’atomo erano giunte a notevoli
risultati. D’altra parte in Italia iniziò a circolare in tempi rapidi il cosiddetto “Rapporto Smith”,
cioè il libro bianco americano sul programma nucleare militare che comprendeva un’analisi
50
Per uno studio generale sulla tradizione scientifica italiana e sulle personalità che si distinsero a livello internazionale si veda L.
Belloni, Da Fermi a Rubbia, Milano, 1988, pp. 7-62.
51
Bruno Rossi era di origine ebraica mentre Enrico Fermi aveva sposato Laura Capon di religione ebraica; dopo la promulgazione
delle leggi razziali del 14 luglio 1938 entrambi lasciarono l’Italia. Sulla figura di Enrico Fermi si vedano, tra gli altri, L. Fermi, Atomi
in famiglia, Milano, 1954; E. Segré, Enrico Fermi, fisico: una biografia scientifica, Bologna, 1971.
52
Per uno studio sulle vicende della “scuola Fermi”, sui finanziamenti ricevuti e sui risultati conseguiti tra il 1926 e il 1943 si veda
G. Battimelli (a cura di), L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Storia di una comunità scientifica, Roma-Bari, 2002, pp. 3-33.
53
Bruno Pontecorvo, in particolare, si concentrò sui promettenti studi del nucleo atomico, ma importante fu anche il contributo
apportato da studiosi quali Marcello Conversi, allievo di Bruno Ferretti, Ettore Pancini, laureatosi con Bruno Rossi e assistente di
Gilberto Bernardini, e Oreste Piccioni, che faceva parte del gruppo di Fermi. Questi fisici, durante gli anni del secondo conflitto
mondiale e il periodo immediatamente successivo, condussero una serie di esperimenti che determinarono la nascita della cosiddetta
fisica delle alte energie o delle particelle (cfr. L. W. Alvarez, Recent Developments in Particle Physics, in M. Conversi, Evolution of
particle physics: a volume dedicated to Edoardo Amaldi in his sixtieth birthday, Milano, 1970, pp. 1-2). Si veda anche E. Amaldi, Da
via Panisperna all’America. I fisici italiani e la seconda guerra mondiale, a cura di G. Battimelli e M. De Maria, Roma, 1997.
54
Nel novembre del 1945 si tenne a Como un convegno che riunì per la prima volta dopo la guerra i fisici dell’Italia settentrionale e
centro-meridionale; in questa occasione Edoardo Amaldi incontrò il chimico Luigi Morandi (fratello del leader socialista Rodolfo
Morandi) che era stato nominato commissario della società italiana Montecatini e sembrava “molto interessato al problema dei
rapporti tra ricerca universitaria e industria”. Ciò indusse Amaldi a produrre un dattiloscritto dal titolo “La Fisica in Italia” in cui
veniva indicata la necessità per la comunità scientifica italiana di acquisire attrezzature e di avviare la formazione di personale
adeguato “in vista di un decoroso sviluppo anche delle applicazioni pacifiche della fisica nucleare” (E. Amaldi, Gli anni della
ricostruzione, Archivio del Dipartimento di Fisica dell’Università di Roma “La Sapienza”, Fondo Edoardo Amaldi, Archivio Amaldi
Eredi, Busta 89E. Questo scritto venne rielaborato e pubblicato in «Giornale di fisica», XX, 3, 1979, pp. 186-225). Per uno studio
generale sulla situazione della ricerca scientifica in Italia nel dopoguerra si veda anche L. Nuti, La sfida nucleare. La politica estera
italiana e le armi atomiche, 1945-1991, Bologna, 2007, pp. 32-44.
55
Cfr. P. Fornaciari, Il petrolio, l’atomo e il metano: l’Italia nucleare, 1946-1997. Dallo sviluppo a un’irragionevole rinuncia,
Milano, 1997, pp. 11-12. Il primo interessamento a Milano fu del presidente dell’Edison, Giorgio Valerio, e dell’amministratore
delegato della stessa società, Vittorio De Biasi, che all’indomani del bombardamento americano di Hiroshima del 6 agosto 1945
convocarono Mario Silvestri per cercare di conoscere il tipo di combustibile utilizzato dagli statunitensi e per capire se questo potesse
essere usato per scopi pacifici.
13
sull’ipotesi di utilizzazione dell’uranio anche a scopi civili56. Il primo problema che gli studiosi
italiani dovettero affrontare risiedeva nell’eventualità che nel trattato di pace imposto al paese
venisse proibito l’uso dell’energia atomica anche per fini pacifici57; fortunatamente questo si
evitò anche grazie alle pressioni degli stessi scienziati del gruppo milanese58. A sostenere questi
ultimi nelle ricerche intervennero diverse industrie private, interessate alla possibilità di sfruttare
questa nuova fonte di energia per produrre principalmente elettricità. La prima fra queste fu la
Edison59, allora privata, ma figuravano anche, con tempistiche e finanziamenti diversi, la FIAT,
la Cogne, la Montecatini, la SADE, la Falck, la Terni, l’Olivetti e la Pirelli. Grazie ai fondi messi
a disposizione dai maggiori gruppi industriali del nord, il 19 novembre del '46 si istituì il Centro
Italiano di Studi ed Esperienze60, considerato il primo passo verso lo sviluppo dell’energia
nucleare in Italia61. Fin dall’inizio vi collaborarono, tra gli altri, Edoardo Amaldi e Gilberto
Bernardini che in Italia rappresentavano la punta di diamante della fisica nucleare, ai quali si
aggiunsero successivamente anche Bruno Ferretti, noto fisico teorico, Gustavo Colonnetti,
presidente del CNR, e Felice Ippolito, geologo napoletano che in quegli anni iniziava a
interessarsi alle ricerche dell’uranio sul territorio italiano62. Ciò permise alla nuova
organizzazione di rappresentare per qualche anno l’unica struttura di ricerca italiana orientata
verso lo studio dell’energia nucleare fino alla costituzione del Comitato Nazionale per le
Ricerche Nucleari nel 1952. Il principale obiettivo del CISE era quello di sviluppare un reattore
nazionale in proprio63, impresa complessa visto che nessuno scienziato italiano conosceva in
quel periodo quali fossero i principi di funzionamento di un simile dispositivo64. Occorre inoltre
56
Il “Rapporto Smith” conteneva una serie di indicazioni importanti sulla base del “Progetto Manhattan”, il programma di ricerca
condotto dagli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale che produsse la costruzione della prima bomba atomica e al quale
partecipò anche Enrico Fermi in qualità di direttore scientifico.
57
Per uno studio sulla politica estera italiana e le armi atomiche si veda, tra gli altri, L. Nuti, La sfida nucleare, cit.; per un’analisi
comprendente anche i progetti europei e il ruolo dell’Italia durante gli anni della guerra fredda cfr. P. Cacace, L’atomica europea: i
progetti della guerra fredda, il ruolo dell’Italia, le domande del futuro, Roma, 2004.
58
Cfr. G. Battimelli (a cura di), L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, cit., p. 63; M. Silvestri, Il costo della menzogna: l’Italia
nucleare (1945-1968), Torino, 1968, pp. 29-30. Bolla, Silvestri, Salvini e Salvetti si recarono di persona a Parigi, dove si stava
discutendo il trattato di pace, grazie a un finanziamento ottenuto proprio dalla società Edison (cfr. P. Fornaciari, Il petrolio, l’atomo e
il metano: l’Italia nucleare, 1946-1997, cit., p. 12).
59
Per approfondimenti sulla Edison e sui suoi progetti elettrici si rimanda a B. Bezza, Energia e sviluppo: l'industria elettrica
italiana e la Societa Edison, Torino, 1986.
60
Nel nome del nuovo istituto si evitò volontariamente qualsiasi riferimento all’energia nucleare perché in quegli anni essa era
sinonimo di distruzione.
61
Alla creazione del CISE contribuì notevolmente l’opera di Giuseppe Bolla il quale si recò personalmente da Amaldi a Roma nel
febbraio del 1946 per illustrare il progetto messo a punto con Salvetti, Salvini e Silvestri e sostenuto da finanziamenti privati. Bolla
mirava a promuovere una collaborazione tra i gruppi di Roma e di Milano, evitando rischi di competizione o concorrenza [cfr. G.
Paoloni, Gli esordi del nucleare, in V. Castronovo (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia, vol. 4, cit., p. 384].
62
Per approfondimenti sulle disponibilità di uranio sul territorio italiano e sulle prospettive delle ricerche alla fine degli anni
Cinquanta si veda F. Ippolito, L’EURATOM e la politica nucleare italiana, Roma, 1958, pp. 66-95.
63
Più precisamente il CISE mirava a costruire un reattore nucleare da dieci megawatt termici a uranio naturale moderato a acqua
pesante [cfr. F. Ippolito, F. Simen, La questione energetica: dieci anni perduti (1963-1973), Milano, 1974, p. 75].
64
Programmi per sviluppare le utilizzazioni pacifiche dell’energia nucleare erano stati avviati anche in Francia, in Inghilterra e in
Unione Sovietica, oltre che, ovviamente, negli Stati Uniti. In questi paesi le ricerche venivano finanziate e controllate da organismi
statali costituiti ad hoc: lo United States Atomic Energy Commission negli USA, il Commissariat à l’énergie atomique in Francia e lo
14
considerare che la ricerca nucleare italiana non era immune dalle influenze esercitate dal sistema
internazionale della seconda metà degli anni Quaranta. Innanzitutto, le scoperte in questo settore
erano protette dal segreto militare e nell’agosto del 1946 gli Stati Uniti approvarono il McMahon
Act65 con il quale sospesero ogni scambio di informazione in materia nucleare con tutti i paesi
stranieri. Inoltre, le possibilità di riuscire a ottenere approvvigionamenti di uranio erano
decisamente limitate66. Si ritenne dunque necessario coinvolgere direttamente lo Stato mediante
la concessione di finanziamenti pubblici ad opera del Consiglio Nazionale delle Ricerche;
l’ottenimento di queste sovvenzioni, però, oltre a dover superare l’ostilità di alcune società
private si rivelò insufficiente. Per questo motivo e al fine di permettere a tutti gli studiosi italiani
di contribuire allo sviluppo di una fisica nucleare nazionale mediante il coordinamento tra le
varie attività scientifiche svolte sul territorio nazionale, il presidente del CNR, Colonnetti,
decise, in accordo con Amaldi, di dar vita a un apposito organismo all’interno dello stesso
Consiglio Nazionale delle Ricerche: venne così creato a Roma, l’8 agosto 1951, l’Istituto
Nazionale di Fisica Nucleare67.
4. I primi passi della collaborazione europea nel settore nucleare
Il notevole gap tecnologico di cui i paesi europei soffrivano nei confronti delle
avanzatissime ricerche americane sull’atomo aveva dato vita a un interessantissimo dibattito
sulla possibilità di unire le forze del vecchio continente per rispondere alla sfida proveniente
d’oltreoceano. L’ipotesi di una cooperazione europea nel settore nucleare venne formulata in
Italia per la prima volta dagli stessi Amaldi e Bernardini attorno al 194868; entrambi erano infatti
molto vicini ai movimenti europeistici che suggerivano un’integrazione economica e politica fra
i vari paesi del vecchio continente. L’opportunità di condividere le risorse nel campo tecnico-
United Kingdom Atomic Energy Authority in Gran Bretagna. All’esterno di queste istituzioni non trapelava tuttavia alcuna notizia
sui metodi utilizzati e sulle sperimentazioni che si stavano studiavano.
65
Nel 1943 si firmarono anche gli accordi di Quebec tra il presidente americano e il premier britannico. In un protocollo segreto, essi
prevedevano piena e effettiva collaborazione tra i due paesi nel settore atomico e, in particolare, Roosevelt e Churchill si
impegnarono a non fornire alcuna informazione sull’energia nucleare a paesi terzi. Gli Stati Uniti si riservavano inoltre la possibilità
di usare questa fonte per un possibile uso industriale e commerciale.
66
Per uno studio sull’uranio si veda N. Frandi, La questione dell’uranio negli anni Quaranta e Cinquanta, in M. Guderzo, M. L.
Napolitano (a cura di), Diplomazia delle Risorse, cit., pp. 87-93.
67
Per un’analisi sulle vicende che portarono alla nascita dell’INFN si veda G. Battimelli (a cura di), L’Istituto Nazionale di Fisica
Nucleare, cit., pp. 38-72.
68
Un evento importantissimo in questo senso fu il primo congresso internazionale dopo la guerra organizzato dalla British Physical
Society e il Cavendish Laboratory che si svolse a Cambridge dal 22 al 27 luglio 1946 con il titolo “Fundamental Particles and Low
Temperature”: “Esso fu l’occasione per un primo incontro fra fisici delle diverse parti del mondo che non si erano più scambiati idee
da anni, una occasione per riallacciare vecchie amicizie e per ascoltare cosa avevano fatto gli altri” (E. Amaldi, Gli anni della
ricostruzione, Archivio del Dipartimento di Fisica dell’Università di Roma “La Sapienza”, Fondo Edoardo Amaldi, Archivio Amaldi
Eredi, Busta 89E, p. 30).
15
scientifico venne proposta anche da altri studiosi e nel 1948, durante il congresso dell’Aja,
nacque il Movimento Europeo che raggruppò al proprio interno le diverse organizzazioni
europeiste e si dotò di una propria sezione culturale. Si convocò in seguito a Losanna (8-12
dicembre 1949) una conferenza per discutere, tra l’altro, delle questioni legate alla cooperazione
scientifica. Durante i dibattiti, a cui partecipò anche Gustavo Colonnetti, presidente del CNR, si
prospettò l’ipotesi di istituire un laboratorio di ricerca internazionale che unisse le menti e le
risorse nel campo della collaborazione scientifica. La proposta, patrocinata da Louis de Broglie,
matematico e fisico francese, nell’immediato non ebbe riscontri. Le discussioni tuttavia
proseguirono e in occasione della Conferenza Generale dell’UNESCO, tenutasi a Firenze nel
maggio-giugno 1950, il fisico americano Isaac Isidor Rabi riprese l’idea di Louis de Broglie per
l’istituzione di un laboratorio europeo, limitandolo però al solo settore delle ricerche nucleari.
Tutti questi contributi possono essere considerati i primi passi verso la nascita di una
cooperazione comunitaria nel settore dell’energia nucleare e il preludio all’istituzionalizzazione
dell’EURATOM e del più grande laboratorio al mondo per lo studio della fisica delle particelle:
il CERN (Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire)69.
69
Per uno studio sugli eventi e sulle discussioni per una cooperazione scientifica europea negli anni immediatamente successivi al
secondo conflitto mondiale si veda L. Belloni, Da Fermi a Rubbia, cit., pp. 58-94. Per un’analisi completa sulla nascita del CERN
cfr. L. Belloni, Sulla genesi del CERN, in «Storia contemporanea», XVII, n. 4, Milano, agosto 1986, pp. 615-663.
16
CAPITOLO II
LA POLITICA ENERGETICA ITALIANA NEGLI ANNI CINQUANTA
1. Gli sviluppi dell’energia elettrica
La produzione di energia elettrica fino agli anni Quaranta era stata assicurata quasi
esclusivamente dagli impianti idroelettrici. A partire dai primi anni Cinquanta furono invece
promossi una serie di investimenti aziendali che miravano alla creazione e allo sviluppo di
centrali termoelettriche, impianti nei quali la fonte primaria viene convertita in energia elettrica
utilizzando un processo termodinamico. Le società che operavano in Italia erano ben
duecentocinquantanove, ma risultavano controllate in misura maggioritaria soltanto da sei gruppi
industriali che assicuravano la copertura dell’ottantacinque percento della produzione nazionale
e erano organizzati secondo modelli strutturali decisamente antiquati. Diversa era la struttura
amministrativa della Finelettrica, una holding finanziaria del gruppo IRI a cui appartenevano
anche le società SIP, SME e Terni, che nel 1952 controllava il 25,4% della potenza idroelettrica,
il 14,8% della potenza termoelettrica e complessivamente il 25% della produzione nazionale70.
Accanto a queste società, operavano nel settore anche le aziende elettriche municipalizzate che
ampliarono negli anni Cinquanta la loro capacità di produzione, e i cosiddetti autoproduttori,
imprese che agivano in altre aree economiche ma che producevano energia elettrica per le
proprie necessità aziendali.
Questa diversificazione settoriale dei soggetti produttori di energia elettrica non influì
però positivamente sulle tariffe. Nel 1944 era stato istituito il Comitato interministeriale prezzi
che negli anni successivi emanò una serie di provvedimenti sulla revisione delle tariffe pubbliche
e disciplinò con nuove disposizioni i prezzi delle forniture elettriche. Nel 1953 si realizzò un
primo tentativo di unificare le tariffe cercando di favorire anche la costruzione di nuovi impianti.
Gli sforzi del Comitato interministeriale prezzi non si rivelarono però efficaci: molto spesso alle
società elettriche venivano infatti concessi ritocchi tariffari in cambio di impegni verbali per la
costruzione di nuovi impianti; gli utili prodotti dalle imprese in seguito agli aumenti venivano
invece quasi sempre investiti per finanziare altri campi di attività. Si venne dunque a delineare
nel corso del tempo un vero e proprio monopolio del mercato dell’elettricità, suggellato dai
generosi finanziamenti che gli imprenditori operanti in questo settore concedevano alla carta
stampata e ai partiti politici garantendo il sostegno socio-istituzionale dei loro interessi
70
Cfr. B. Bottiglieri, L’industria elettrica dalla guerra agli anni del «miracolo economico», in V. Castronovo (a cura di), Storia
dell’industria elettrica in Italia, vol. 4, cit., p. 70.
17
economici. La presenza dell’IRI, pur notevole in questo settore, non riuscì a rendere il mercato
italiano dell’industria elettrica concorrenziale; al contrario, in più circostanze l’istituto operò in
maniera del tutto simile agli altri soggetti privati cercando di ottenere vantaggi economici. A
farne le spese furono ovviamente gli utenti privati e quelle aziende che necessitavano di energia
elettrica per sviluppare attività e investimenti. Il costo di questa energia variava infatti da zona a
zona e, specialmente al sud, influì negativamente sulla ripresa economica e industriale. Tutto ciò
acuì nell’opinione pubblica italiana la convinzione della necessità di modificare l’intero settore a
vantaggio di una possibile nazionalizzazione, appoggiata politicamente anche dai liberali.
D’altra parte, gli interventi statali a sostegno delle società elettriche operanti in Italia
erano già stati avviati e sembravano indirizzarsi proprio verso la necessità di un controllo
maggiore di questo settore produttivo. Nel 1947 l’Associazione nazionale imprese produttrici e
distributrici di energia elettrica71 aveva infatti presentato un piano di sviluppo che prevedeva la
realizzazione di nuovi impianti i quali, entro il '52, avrebbero dovuto consentire una produzione
annua di energia elettrica pari a 11,3 miliardi di chilowattora, prevedendo un incremento medio
di due miliardi di KWh all’anno72. Il progetto venne fatto proprio dal governo ma fu bocciato
dall’OECE73 perché ritenuto troppo ambizioso. L’anno successivo si presentò un nuovo piano in
cui nello stesso periodo si ipotizzava la costruzione di impianti per 5,3 miliardi di kWh e
l’attivazione di quasi seicento chilometri di reti elettriche. Il nuovo progetto venne ampliato e
presentato dal governo come “Programma Nazionale” nel settore elettrico e ottenne, seppur con
qualche riserva sulle possibilità di attuazione e alcune modifiche apportate in corso d’opera,
l’approvazione dell’OECE e i finanziamenti del caso74. Tutto questo, tuttavia, risultò
insufficiente per far fronte ai reali fabbisogni interni di energia e di ciò divennero presto
71
L’ANIDEL venne costituita il 24 luglio 1945 in sostituzione dell’UNIEL considerata troppo compromessa con il regime fascista.
Mediante la raccolta dei programmi di nuove costruzioni di impianti elettrici elaborati autonomamente dai singoli gruppi regionali,
l’Associazione nazionale imprese produttrici e distributrici di energia elettrica aveva lo scopo di formare uno strumento di
informazione sulle attività del settore e di mettere in evidenza le esigenze finanziarie di questi investimenti e, conseguentemente, di
rimarcare la necessità di un adeguamento delle tariffe elettriche che erano sottoposte al controllo del governo (cfr. F. Silari,
L’industria elettrica e i problemi energetici, cit., pp. 282-283).
72
Cfr. B. Bottiglieri, L’industria elettrica dalla guerra agli anni del «miracolo economico», in V. Castronovo (a cura di), Storia
dell’industria elettrica in Italia, vol. 4, cit., pp. 73-74.
73
L’OECE venne istituita il 16 aprile 1948 come organizzazione permanente destinata a controllare la distribuzione degli aiuti
americani per la ricostruzione dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale. In origine vi parteciparono diciotto Stati membri:
Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Svezia,
Svizzera, Turchia, Regno Unito, Germania Occidentale e la Zona A del Territorio libero di Trieste (fino al 1954, quando ritornò sotto
la sovranità italiana).
74
La programmazione governativa iniziale, analizzata anche dal Comitato interministeriale per la ricostruzione e dal Comitato
interministeriale dei prezzi e scaturita da un accordo firmato tra le parti in causa, prevedeva: un aumento tariffario immediato pari a
ventiquattro volte il livello dei prezzi registrati nel 1942 e un ulteriore aumento nel primo semestre nel 1949 che non venne concesso;
la liberalizzazione dei prezzi delle forniture con potenza impegnata superiore a trenta chilowattora (anch’esso non attuato); l’impegno
da parte delle società elettriche a realizzare in un quinquennio impianti di produzione idroelettrica con una potenza media annua pari
a 5.899 milioni di kWh, oltre a un impianto termoelettrico di sessanta megawatt in Sicilia e il completamento dell’elettrodotto
nazionale lungo la dorsale tirrenica che avrebbe dovuto congiungere il nord del paese al sud (cfr. L. De Paoli, Programmi di
investimento e novità tecniche, cit., p. 175).
18
consapevoli sia il governo che le stesse imprese elettriche75. Furono però gli esperti dell’OECE,
analizzando i programmi inviati dai vari partecipanti, a richiedere a tutti i paesi di predisporre un
altro piano di sviluppo per incrementare la produzione elettrica interna. L’Italia presentò il
cosiddetto “Programma Complementare”, basato esclusivamente su impianti idroelettrici, che
avrebbe dovuto incrementare in un quinquennio la capacità produttiva per una ulteriore
produzione annuale pari a 8.306 milioni di chilowattora76. In un secondo momento e solo dopo
che alcune imprese elettriche italiane decisero autonomamente di aumentare il programma di
costruzione di centrali termoelettriche, si previdero anche importanti incentivi statali per la
progettazione di impianti siffatti, suscitando veementi proteste fra quanti ritenevano che essi non
si sarebbero potuti sviluppare in un territorio privo delle fonti di energia indispensabili. Tuttavia,
alla fine degli anni Quaranta il quadro della situazione iniziò a mutare: le novità tecnologiche
allo studio e la costante diminuzione dei costi del carburante produssero un atteggiamento più
favorevole nei confronti della produzione di energia termoelettrica77. Grazie anche agli incentivi
governativi previsti per lo sviluppo di questa energia, l’incremento e l’attivazione di nuovi
impianti, sia termoelettrici che idroelettrici, portarono nel 1953 a una capacità produttiva annua
pari a trentasette miliari e mezzo di chilowattora.
Lo sviluppo del settore elettrico fu anche favorito dallo sfruttamento della fonte
geotermica, per molti versi assimilabile all’energia idraulica fluente. Essa si sfruttò già a partire
dal 1916 e conobbe un impiego pressoché stabile sino alla scoperta di nuovi campi di vapore
nella metà degli anni Trenta; ciò riaccese l’interesse imprenditoriale per lo sfruttamento di questa
risorsa. Si creò nel 1939 la Società Larderello, controllata dalle Ferrovie dello Stato, che
contribuì a portare nel '42 la produzione di energia elettrica tramite lo sfruttamento delle fonti
geotermiche fino al cinque percento del totale nazionale78. Alla fine degli anni Quaranta anche la
Società Larderello presentò un programma di sviluppo delle centrali geotermiche che
contemplava il raddoppio dell’intera produzione entro il 1954. Questa previsione ottimistica
traeva origine dalle eccezionali condizioni geologiche presenti nella zona di Volterra,
difficilmente riscontrabili in altre parti del territorio79.
75
Per un’analisi critica sul “Programma nazionale” si veda V. De Biasi, Le origini, lo sviluppo e la situazione attuale dell’Industria
elettrica italiana, Milano, 1949, p. 33.
76
In sede OECE venne inoltre elaborato un “Programma Internazionale” in base al quale dovevano essere finanziati anche alcuni
impianti idroelettrici che coinvolgevano i bacini idrici di più paesi; l’Italia, ad esempio, doveva realizzare impianti congiuntamente
con Francia e Svizzera (cfr. L. De Paoli, Programmi di investimento e novità tecniche, cit., p. 178).
77
In questa direzione influì notevolmente anche la scelta statunitense di non introdurre nell’ERP finanziamenti per lo sviluppo e per
il mantenimento delle centrali idroelettriche. L’ERP era un progetto di aiuti alla ricostruzione economica europea, varato il 5 giugno
del 1947 dal generale americano George Marshall, segretario di Stato degli Stati Uniti, e meglio conosciuto come Piano Marshall. Lo
scopo politico di questo piano era quello di legare economicamente e socialmente i paesi dell’Europa, senza escludere a priori gli
Stati nell’orbita dell’influenza sovietica, al sistema economico statunitense.
78
Cfr. L. De Paoli, Programmi di investimento e novità tecniche, cit., p. 171.
79
Ibidem, pp. 179-180.
19
Nonostante i risultati positivi, il settore elettrico italiano rimaneva fortemente influenzato
dalla presenza dei potenti gruppi privati che avevano come unico scopo il raggiungimento di
maggiori profitti attraverso l’aumento delle tariffe80. La necessità di un nuovo assetto giuridico e
economico e la prospettiva di una nazionalizzazione dell’intero settore erano infatti temi sempre
più presenti nel dibattito politico. Queste esigenze erano d’altronde condivise anche dagli altri
paesi europei all’indomani del conflitto: gli indirizzi di programmazione politica e economica
miravano a dare allo Stato un ruolo più importante, sia come pianificatore che come protagonista
nei settori produttivi e, quindi, anche in quello dell’energia. Nella fattispecie si cercò di eliminare
i particolarismi e gli squilibri settoriali e regionali, potenziando le infrastrutture e tentando di
aumentare il numero di aziende pubbliche nelle varie aree di produzione affinché diminuissero
gli operatori privati monopolisti. Ovviamente in ogni paese i governi attuarono queste direttive
con modalità e risultati diversi. La Francia fu la prima a operare la nazionalizzazione
dell’industria elettrica nel 1946, istituendo la società “Électricité de France” per la produzione e
la distribuzione di questa energia. Le imprese private che fino a quel momento operavano nel
settore elettrico vennero espropriate in cambio di un modesto risarcimento economico e quelle
che non operavano in altre aree economiche si sciolsero per legge81. L’Inghilterra operò invece la
nazionalizzazione dell’industria elettrica nel '47 creando la “British Electricity Authority” a capo
di quattordici enti pubblici regionali ciascuno con la propria area di competenza per la
produzione e la distribuzione82 e si indennizzarono le società espropriate mediante titoli azionari
della “British Electricity Compensation Stock”83.
In Italia, nonostante una cospicua partecipazione dell’IRI, pari a circa il venticinque
percento della produzione di energia elettrica interna, il processo di nazionalizzazione settoriale
venne bloccato di pari passo con l’emarginazione dal governo dei partiti di sinistra. Presente tra i
punti programmatici salienti prospettati dai principali movimenti politici alle elezioni del 1946,
statalizzazione dell’energia elettrica si scontrò “con le posizioni ancora assai salde dei gruppi
privati, ai quali una serie di collegamenti industriali, finanziari e politici conferivano un notevole
potere di pressione e comunque una forza più che sufficiente ad allontanare i rischi della
nazionalizzazione”84.
80
Per approfondimenti sulle caratteristiche del sistema elettrico prima della nazionalizzazione si vedano, ad esempio, E. Scalfari (a
cura di), La lotta contro i monopoli, Bari, 1955; Id., Le baronie elettriche, Bari, 1960; Id., Storia segreta dell’industria elettrica,
Bari, 1963.
81
Cfr. H. Morsel, Modelli ed esperienze della nazionalizzazione in Francia, in V. Castronovo (a cura di), La nazionalizzazione
dell’energia elettrica. L’esperienza italiana e di altri paesi europei, Roma-Bari, 1989, pp. 29-72.
82
Cfr. L. Hannah, Modelli ed esperienze della nazionalizzazione in Gran Bretagna, ibidem, pp. 15-28.
83
Cfr. B. Bottiglieri, L’industria elettrica dalla guerra agli anni del «miracolo economico», in V. Castronovo (a cura di), Storia
dell’industria elettrica in Italia, vol. 4, cit., p. 76.
84
Ibidem, p. 77.
20
D’altra parte, i pareri espressi alla Commissione economica dell’Assemblea Costituente
da importanti personalità operanti nel settore, quali il presidente della Compagnia nazionale
imprese elettriche, Giovanni Silva, e il presidente dell’Edison, Pietro Ferrerio, avevano fatto
intendere fin da subito ai politici italiani le difficoltà che avrebbero incontrato intraprendendo la
strada della statalizzazione: lo Stato non sarebbe riuscito a operare in maniera diversa e migliore
rispetto alle imprese private sia nella gestione della produzione di energia elettrica che nella
possibilità finanziaria di concedere ulteriori investimenti necessari. Anche il problema delle
tariffe sarebbe stato difficilmente risolvibile se non mediante una programmazione economica
rapida che rendesse più moderna l’intera rete produttiva; ciò, tuttavia, avrebbe richiesto ingenti
finanziamenti pubblici che la situazione critica del bilancio statale non era in grado di garantire.
Forse anche per queste motivazioni i governi centristi, all’interno dei quali alcuni leader erano
strettamente legati al trust elettrico, cercarono di mantenere fuori dal dibattito parlamentare
l’intera questione. Furono le esigenze economiche del paese, spesso interpretate da esponenti
dell’opposizione di sinistra, a spingere in direzione della riproposizione periodica nelle sedi
istituzionali di discussioni circa la convenienza per lo Stato a intervenire nell’industria elettrica.
Si presentarono dunque diverse proposte di legge finalizzate alla nazionalizzazione del settore:
fra queste le più importanti furono quelle avanzate da Riccardo Lombardi, esponente del Partito
d’Azione85 e poi del Partito Socialista Italiano, da Luigi Longo, appartenente al Partito
Comunista Italiano, e più tardi da Guido Ceccherini del Partito Socialista Democratico Italiano.
Tuttavia, in Parlamento i dibattiti svolti su questi progetti incontrarono sempre l’opposizione dei
governi centristi86, contribuendo così alla creazione di un fronte politico-sociale che spostò
l’attenzione del problema sulle alte tariffe elettriche praticate che influivano notevolmente sui
costi per l’economia italiana e per le imprese. Oltre agli esponenti della sinistra, ai sindacati e a
alcune associazioni come le ACLI, al blocco favorevole alla statalizzazione partecipava anche
l’Unione nazionale consumatori di energia elettrica, creata nel 1948 ad opera della FIAT e del
gruppo Montecatini e a cui aderirono successivamente anche la Confagricoltura e la
Confartigianato. Questa convergenza di forze sociali e economiche così diverse fra loro
dimostrava quanto il problema energetico fosse sentito in quegli anni e potesse rappresentare una
sorta di terreno comune su cui incardinare una rigorosa azione politica. Purtroppo, però, ogni
confronto tra queste componenti si trasformò in una mera contrapposizione fra i fautori
85
Nel 1947 Riccardo Lombardi riuscì a ottenere la costituzione dell’Ente Siciliano di Elettricità allo scopo di promuovere
l’industrializzazione della Sicilia mediante finanziamenti pubblici che potenziassero le infrastrutture. Da presidente dell’ESE realizzò
le centrali idroelettriche di Pelino, Troina e Carboi e i grandi impianti termici di Termini Imerese e di Augusta.
86
Per approfondimenti si veda B. Bottiglieri, L’industria elettrica dalla guerra agli anni del «miracolo economico», in V.
Castronovo (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia, vol. 4, cit., pp. 76-79.
21
dell’ideologia statalista e gli antistatalisti, ritardando ogni possibile compromesso in vista della
nazionalizzazione dell’energia elettrica in Italia.
Inoltre, a partire dal 1954 il ministro delle Finanze, Ezio Vanoni, elaborò un piano
economico nel tentativo di adeguare la produzione elettrica nazionale allo sviluppo industriale87
dal momento che l’offerta di energia elettrica rimaneva sempre precaria88. La previsione della
crescita media del consumo di energia elettrica venne fissata al 5,7% per il decennio successivo,
aumentata al 6,2% in un secondo momento. L’ANIDEL adottò invece nel '56 un programma di
sviluppo per la costruzione di nuovi impianti produttivi che in cinque anni avrebbero aumentato
la capacità di diffusione capillare dell’elettricità89. Grazie ai nuovi progetti adottati dall’ANIDEL
e a quelli di altri produttori privati, si realizzarono impianti capaci di garantire una produzione
potenziale di oltre cinquantotto miliardi di chilowattora; nel 1960 la produzione effettiva di
energia elettrica divenne pari a cinquantasei miliardi di chilowattora, marciando di pari passo
con la crescita economica del paese90.
Il tema della nazionalizzazione ritornò in auge nella seconda metà degli anni Cinquanta in
coincidenza con i primi segnali di crisi delle maggioranze centriste e con l’avvio di un lungo
periodo di gestazione al termine del quale il quadro politico italiano si sarebbe ricomposto
intorno alla formula del centrosinistra91. In questo nuovo contesto, l’accentramento economico
dell’industria elettrica divenne uno dei punti programmatici principali: si ritenne indispensabile
la nazionalizzazione per garantire uno sviluppo industriale più omogeneo e una distribuzione
delle risorse più equilibrata. Si ipotizzava la creazione di un ente nazionale unico che riunisse le
diverse società elettriche già operanti in Italia e ne coordinasse le attività. In questo modo si
87
Per uno studio sul progetto economico del ministro Vanoni si veda M. Ferrari-Aggradi, Il piano Vanoni. Premessa ai discorsi di
Ezio Vanoni sul programma di sviluppo economico, Roma, 1956. Il cosiddetto Piano Vanoni, segnando una svolta nella politica
economica italiana, perseguiva tre obiettivi: pieno assorbimento dell’offerta di lavoro esistente nel paese; progressiva eliminazione
dello squilibrio tra nord e sud; pareggio della bilancia dei pagamenti. Le innovazioni introdotte da Vanoni nel settore energetico
erano da supporto al miglioramento della condizione economica del paese e miravano a: intensificare la ricerca e lo sfruttamento nel
settore energetico, nei limiti della economicità e nel quadro della progressiva diminuzione delle importazioni; razionalizzare lo
sfruttamento delle varie fonti energetiche nel tentativo di massimizzare i rendimenti e di comprimere i costi; migliorare la
distribuzione territoriale delle disponibilità nell’intento di attenuare e di ridurre progressivamente lo squilibro esistente a svantaggio
del Mezzogiorno; sviluppare la collaborazione internazionale e, in particolare, quella europea [per un’analisi sui risultati ottenuti dal
Piano Vanoni nei vari settori energetici italiani si veda G. Galloni, A. Repetto (a cura di), Esigenze del settore energetico per una
politica di sviluppo nazionale, numero speciale dell’agenzia giornalistica «Radar», non datato, in ASE, coll. BG. III. 6, udc. 2].
88
La realizzazione dei nuovi impianti elettrici previsti tardava a completarsi e rischiava di non riuscire a rispondere adeguatamente
all’incremento della domanda interna. Nell’aprile 1954 si costituì pertanto una “Commissione Ministeriale per lo studio dei problemi
relativi alla produzione e alla distribuzione dell’energia elettrica” presieduta dal consigliere di Stato, Santoro. Le previsioni formulate
dalla Commissione Santoro furono alla base dello “Schema di sviluppo della occupazione e del reddito in Italia nel decennio 19551964” (ovvero dello “Schema Vanoni”) e ipotizzavano nel 1964 una domanda di energia elettrica pari a sessanta miliardi di kWh
(cfr. L. De Paoli, Programmi di investimento e novità tecniche, cit., p. 181).
89
Il nuovo programma di sviluppo dell’ANIDEL rispose a un ulteriore accordo raggiunto con il governo sulla base delle previsioni
della Commissione Santoro e di un gruppo di esperti guidati da Pasquale Saraceno e, quindi, in virtù del cosiddetto “Schema Vanoni”
(ibidem, p. 183).
90
Cfr. B. Bottiglieri, L’industria elettrica dalla guerra agli anni del «miracolo economico», in V. Castronovo (a cura di), Storia
dell’industria elettrica in Italia, vol. 4, cit., p. 79.
91
Per uno studio sui processi di trasformazione che investirono l’Italia e le sue istituzioni dalla fine dell’età degasperiana
all’affermazione del centrosinistra si veda, tra gli altri, P. L. Ballini, S. Guerrieri, A. Varsori (a cura di), Le istituzioni repubblicane
dal centrismo al centro-sinistra (1953-1968), Roma, 2006.
22
sarebbe eliminato il monopolio presente nel settore che, con l’imposizione dei prezzi
differenziati, aveva fino a quel momento avvantaggiato la grande impresa e danneggiato gli
utenti e le piccole e medie imprese fortemente dipendenti dall’energia elettrica. Malgrado le
difficoltà che molti si attendevano nella fase di realizzazione del piano, numerosi esponenti
politici paragonarono l’impresa ai grandi piani riformatori sviluppati durante il New Deal
americano92.
La nazionalizzazione del settore elettrico si analizzò anche in funzione dell’ipotesi,
certamente molto pretenziosa ma sicuramente affascinante, di creare un unico ente pubblico nel
campo dell’energia93. Presentato come necessità di dare un assetto più organico alle
partecipazioni statali nel settore energetico, il raggruppamento di tutte le competenze relative in
un unico istituto statale venne proposto nei documenti programmatici dei partiti di governo nel
1958 e, in particolare, nel programma elettorale della DC, nel piano governativo concordato tra
quest’ultimo partito e il PSDI e nelle dichiarazioni programmatiche presentare dal presidente del
Consiglio, Amintore Fanfani, in Parlamento94. Gli obiettivi perseguiti, secondo quanto presentato
in campagna elettorale dai rappresentanti della Democrazia cristiana per le elezioni del 25
maggio del '58, comprendevano: un equilibrio fra il settore pubblico e quello privato, la
valorizzazione delle risorse energetiche nazionali e l’intensificazione dello sviluppo economico
generale. All’indomani delle elezioni politiche, la DC e il PSDI formarono un nuovo governo, il
secondo presieduto da Fanfani, stilando un programma di venti punti programmatici nel quale si
evidenziarono ulteriori particolari sulle misure che si sarebbero dovute adottare nel settore
dell’energia. Al punto undici, in particolare, si prendeva l’impegno di “concentrare in un ente
pubblico tutte le imprese statali o a prevalente partecipazione statale che [attendevano] alla
ricerca, alla produzione, alla distribuzione dell’energia di qualsiasi origine”95.
92
Per approfondimenti sul New Deal si vedano, tra gli altri, C. A. Chambers, The New Deal at home and abroad, 1929-1945, New
York, 1965; W. E. Davies, The New Deal interpretations, New York, 1964; E. Fossati, New Deal: il nuovo ordine economico di F.
D. Roosevelt, Padova, 1937; E. W. Hawley, Il New Deal e il problema del monopolio: lo Stato e l’articolazione degli interessi
nell’America di Roosevelt, Bari, 1981; W. E. Leuchtenburg, Roosevelt e il New Deal (1932-1940), Roma-Bari, 1976; D. Perkins, The
new age of Franklin Roosevelt: 1932-45, Chicago, 1957; M. Pierro, L’esperimento Roosevelt e il movimento sociale negli Stati Uniti
d’America, Milano, 1937; A. U. Romasco, The politics of recovery: Roosevelt’s New Deal, New York, 1983; M. Vaudagna (a cura
di), Il New Deal, Bologna, 1981; F. Villari, Democrazia e capitalismo: il New Deal, Reggio Calabria-Roma, 1983.
93
All’interno dell’ENI si ritenne infatti possibile che l’intero settore elettrico venisse inglobato dall’Ente Nazionali Idrocarburi.
Particolarmente interessato a questa ipotesi era ovviamente Mattei che si era da sempre battuto per un prezzo competitivo per la
produzione di energia elettrica; il presidente dell’ENI “sosteneva che il massimo delle sinergie nel rifornimento delle materie prime
avrebbe determinato il massimo delle economie per la produzione di quella energia elettrica che per tutti gli anni Cinquanta non
riforniva completamente il paese. Del resto Mattei fu uno dei motori della nazionalizzazione dell’energia elettrica e il suo obiettivo
era di modificare la ragione sociale di ENI in ENE: Ente Nazionale Energia” (TRA dall’ex vicepresidente dell’AGIP Petroli, dott.
Giuseppe Accorinti). Si veda in proposito anche G. Buccianti, Enrico Mattei, cit., pp. 51-54; D. Pozzi, Dai gatti selvaggi al cane a
sei zampe, cit., pp. 351-363.
94
Cfr. Appunti sulla costituzione di un Ente Nazionale dell’Energia, redatto da Manlio Magini, responsabile della pubblicità per
l’ENI, marzo 1958, ASE, coll. BG. III. 6, udc. 2.
95
A. Fanfani, Da Napoli a Firenze (1954-1959): proposte per una politica di sviluppo democratico, Milano, 1959, p. 318.
23
Secondo le intenzioni del neopresidente del Consiglio, ciò doveva avvenire “in modo da
affidare con successo [all’ente unico nel campo dell’energia] un intervento sistematico diretto ad
integrare le manifeste insufficienze dell’iniziativa privata, e a sostenere con efficacia una
doverosa politica regolarizzatrice della distribuzione e dei prezzi dell’energia, specie secondo le
esigenze dello sviluppo del Sud e delle aree depresse. […] Per rendere più incisiva e ad effetto
sicuro l’azione del suddetto ente si pensa[va] di passare ad esso, via via che scadranno, le
concessioni in corso per la produzione di energia, ed affidare allo stesso il compito di utilizzare
gli utili di gestione od altri fondi messi a disposizione per il riscatto anticipato di altre
concessioni”96.
Il nuovo istituto avrebbe dovuto rafforzare la sicurezza degli approvvigionamenti di ogni
genere di energia; provvedere all’ottimizzazione delle risorse energetiche nazionali e delle fonti
importate al fine di coprire il fabbisogno interno ai costi più convenienti attraverso
l’eliminazione di sperperi e distorsioni; stabilire una connessione organica tra i problemi dello
sviluppo elettrico, sempre più condizionato dall’approvvigionamento di olio combustibile, e i
problemi di importazione, di lavorazione e di mercato dei prodotti petroliferi; sfruttare in
maniera conveniente le risorse carbonifere del Sulcis nel quadro dei programmi di incremento
termoelettrico; fissare i tempi dell’utilizzazione della fonte nucleare per la produzione su vasta
scala di elettricità in funzione della convenienza di questa energia e, di conseguenza, stabilire
l’ubicazione delle centrali elettronucleari in rapporto all’esigenza di accelerare lo sviluppo
economico in determinate zone del paese; razionalizzare il sistema di trasporti e di distribuzione
dell’energia mediante il completamento di una rete nazionale di elettricità, in modo da porre
nelle mani dello Stato uno strumento efficace per l’unificazione tariffaria; rilevare le opere di
derivazione idrica e riscattare gli impianti; integrare la produzione di determinati settori e di fasi
di lavorazione nell’area dei combustibili. Si trattava di un disegno decisamente ambizioso che
non risolveva, tra le altre cose, la questione riguardante gli enti statali che già operavano nel
settore dell’energia. Non veniva chiarito, ad esempio, quali rapporti avrebbe dovuto avere il
nuovo istituto con l’IRI o, addirittura, con l’Ente Nazionale Idrocarburi creato nel 1953:
bisognava verificare se nelle intenzioni governative si pensava alla costituzione di un organismo
ex novo, che quindi avrebbe potuto inglobare gli altri enti già esistenti, o se si ipotizzava
l’allargamento delle competenze di uno di questi ultimi, come ad esempio dell’ENI, a tutti i
settori energetici sfruttando le strutture nazionali funzionanti. L’Ente Nazionale Idrocarburi
occupava una posizione decisamente preponderante dal punto di vista del patrimonio e del
volume di produzione, controllando quasi totalmente il settore del gas naturale, larga parte di
96
Discorso di Amintore Fanfani alla Camera dei Deputati, Comunicazione del Governo, Atti parlamentari, Legislatura III,
Discussioni, Seduta del 9 luglio 1958, parte IV, p. 102 (http://legislature.camera.it).
24
quello petrolifero e della collaterale industria petrolchimica, e operando già nell’ambito
nucleare97. Risultava quindi improponibile l’ipotesi di smantellarlo a vantaggio di un nuovo
istituto nazionale; oltretutto, la dirigenza dell’ENI, Enrico Mattei in primis, godeva di una fitta
rete di interessi pubblici da cui derivava una potente lobby, difficilmente scalfibile. Furono
probabilmente queste premesse a spingere per una modifica del progetto governativo principale a
favore di una nazionalizzazione del solo ramo elettrico, mantenendo in vita gli altri enti operanti
nel settore.
In questo clima si sviluppò anche il concetto della cosiddetta “programmazione
generale” che il ministro del Bilancio, Ugo La Malfa98, presentò al Parlamento il 22 maggio
196299. Secondo l’opinione del leader repubblicano, come per una buona parte della sinistra
italiana, l’amministrazione dell’intero settore dell’industria elettrica (e in generale della politica
energetica) rappresentava uno degli elementi fondamentali per una programmazione economica
efficace. Risultava dunque necessario individuare un piano di sviluppo per assicurare la
copertura elettrica totale del territorio, sia per gli utenti privati che per le aziende, mediante
l’introduzione di una tariffa unica; bisognava inoltre attuare una riduzione generale dei costi e
cercare di ottenere una disponibilità di riserve adeguate in caso di necessità. In questa atmosfera i
fautori della nazionalizzazione del settore elettrico ricominciarono a far sentire la loro voce,
riuscendo a sensibilizzare l’opinione pubblica attraverso una vasta azione di propaganda
sviluppata sia all’interno dei partiti che in sede di convegni. Così, ad esempio, durante il
congresso socialista del marzo 1961 Riccardo Lombardi sottolineò la necessità di contrapporre i
poteri pubblici “al potere soverchiante che i gruppi più avanzati del capitalismo, cioè i gruppi del
neo-capitalismo, esercita[va]no nella società italiana. Il modo concreto per combattere il neocapitalismo – secondo il leader socialista – [era] di opporsi realmente al suo concetto di sviluppo
obiettivo sostituendo al criterio assoluto del profitto il criterio dell’utile collettivo, sostituendo
alla scala dei consumi che corrisponde ai bisogni elementari, i bisogni elevati della
collettività”100.
97
Si veda ad esempio la descrizione fatta sulle attività posseduta da Mattei in L. Bazzoli, R. Renzi, Il miracolo Mattei. Sfida e utopia
del petrolio italiano nel ritratto di un incorruttibile corruttore, cit., p. 164 e ss. Per uno studio sull’industria petrolchimica in Italia si
rimanda a S. Vaccà, L’industria petrolchimica in Italia: anatomia di una crisi, Milano, 1979.
98
Per uno studio sulla figura di Ugo La Malfa, i suoi progetti per l’Italia e per l’Europa, si vedano, tra gli altri, P. J. Cook Jr., Ugo La
Malfa e le tradizioni politiche dell’Italia laica, Bologna, 1999; Fondazione Ugo La Malfa, Annali dell’Istituto Ugo La Malfa, Roma,
1985-2001; Istituito Ugo La Malfa (a cura di), L’Italia negli anni del centrismo: 1947-1958, Roma, 1990; L. Mechi, L’Europa di
Ugo La Malfa. La via italiana alla modernizzazione (1942-1979), Milano, 2003.
99
Cfr. Ministero del Bilancio, Problemi e prospettive dello sviluppo economico italiano. Nota presentata al Parlamento dal ministro
del Bilancio on. Ugo La Malfa il 22 Maggio 1962, Roma, 1962.
100
L. Orizio, F. Radice, Storia dell’industria elettrica in Italia (1882-1962), Milano, 1964, p. 305.
25
Un’opinione favorevole alla nazionalizzazione del settore elettrico venne espressa anche
dal segretario della Democrazia cristiana, Aldo Moro, durante il famoso discorso di sei ore
pronunciato all’VIII° congresso del partito tenutosi dal 27 al 31 gennaio '62 a Napoli:
“Giova premettere che non [eravamo] in alcun modo contrari in linea di principio al pensiero
di portare nella sua interezza il settore elettrico nella sfera pubblica; [era] questa, però, una misura
che noi [avremmo dovuto] prendere in relazione ad un determinato obiettivo di una politica
dell’energia e non come una misura che si giustifica[va] in sé, per il solo fatto che essa riduce[va]
l’area dell’iniziativa privata”101.
Una simile impostazione, secondo Moro, “doveva essere accetta da tutti i partiti dell’arco
democratico che non si trova[va]no sulle due posizione estreme di respingere pregiudizialmente
l’iniziativa pubblica o di ridurre pur pregiudizialmente l’area dell’iniziativa privata”102. Per
questo il leader democristiano continuò la sua esposizione evidenziando i notevoli limiti
strutturali del settore elettrico:
“L’attuale struttura produttiva ripartita in gruppi regionali ed interregionali non permette[va]
la più appropriata utilizzazione degli impianti disponibili e non rende[va] conveniente l’adozione,
nel campo termo-elettrico, di unità di grande potenza che le tecniche più recenti [avevano]
apprestato e che [avrebbero permesso] ulteriori riduzioni di costi; gli inconvenienti di questa
situazione [erano] destinati ad aggravarsi con la messa a punto delle centrali termonucleari e con
la possibilità oggi conseguita di trasportare l’energia a grandi distanze a costi relativamente
modesti. Una politica dell’energia, se [voleva] conseguire le riduzioni di costi possibili, [doveva]
quindi tendere oggi a dare al sistema elettrico nazionale un grado di unitarietà maggiore
dell’attuale”103.
In realtà egli propendeva per una soluzione intermedia piuttosto che per la
nazionalizzazione settoriale, cercando di operare modifiche strutturali con gradualità104. Nella
101
A. Moro, Scritti e discorsi, a cura di G. Rossini, vol. II, 1951-1963, Roma, 1982, p. 1050 [cit. anche in L. Orizio, F. Radice,
Storia dell’industria elettrica in Italia (1882-1962), cit., p. 306].
102
A. Moro, Scritti e discorsi, a cura di G. Rossini, vol. II, 1951-1963, Roma, 1982, p. 1050.
103
Ibidem, p. 1051.
104
Al congresso di Napoli, infatti, nel proseguo del suo discorso Moro sottolineò anche che il processo di nazionalizzazione avrebbe
accollato allo Stato un impegno sul piano organizzativo e un onere finanziario che potevano invece essere più utilmente spostati in
altri settori dell’azione pubblica. Solo nel caso in cui il processo di riordinamento del settore, proposto come alternativa alla
nazionalizzazione, non avesse avuto successo si contemplava l’ipotesi di un cambiamento radicale del sistema elettrico, nel quadro
della generale politica di sviluppo del paese e a condizione che esso fosse davvero necessario per fornire energia a costo minore
(ibidem, pp. 1051-1052). Questo concetto venne espresso con più chiarezza nel discorso del 9 marzo 1962 pronunciato alla Camera
dei Deputati durante la discussione generale delle dichiarazioni programmatiche del governo Fanfani: “Per quanto riguarda l’energia,
noi [avevamo] espresso a Napoli nel modo più netto l’esigenza di un coordinamento che [assicurasse] il rendimento di questo
servizio fondamentale per la vita economica ai costi più bassi ed alle condizioni più vantaggiose per la collettività. Mentre [avevamo]
26
relazione presentata in occasione del Consiglio Nazionale della Democrazia cristiana del luglio
'62, il segretario DC precisò che al congresso si era volutamente limitato a indicare delle direttive
generali senza entrare nel merito della questione:
“Una politica dell’energia doveva proporsi tre obiettivi: assicurare la tempestiva copertura di
ogni possibile fabbisogno, mantenendo costantemente adeguate riserve di producibilità;
assicurare a tutte le categorie di utenza la energia domandata a condizioni uniformi determinate,
per di più, in conformità alle esigenze di progresso civile e di sviluppo di cui si intende farsi
carico; in terzo luogo la politica dell’energia [doveva] ottenere che gli obiettivi di cui sopra
[venissero] conseguiti riducendo al minimo i costi. I primi due obiettivi [potevano] considerarsi
acquisiti o in via di acquisizione. Nessuna carenza si [era], infatti, verificata in Italia in fatto di
energia né si prevede[va] si [verificasse] in futuro. […] Per il terzo obiettivo, invece, […] non
poteva darsi un giudizio positivo e […] non poteva considerarsi neppure parzialmente raggiunto.
L’obiettivo di integrare maggiormente fra loro i complessi di impianti che [componevano] il
sistema elettrico nazionale [era] un problema che si [era] sempre presentato in questo dopoguerra
ogni volta che [erano] venute in discussione le linee di sviluppo della nostra economia e della
nostra società. Questo problema di razionale unificazione deriva[va], da un lato, dal progresso
delle tecniche che [avevano] creato esigenze di coordinamento molto maggiori che in passato,
dall’altro, dal ruolo che una politica dell’energia inevitabilmente [veniva] ad assumere nella vita
del nostro tempo”
105
.
Il progetto di Moro presentato a Napoli costituì un punto fondamentale nell’alleanza
politica di centrosinistra106, da cui nacque un nuovo governo fra la DC, il PRI, il PLI e il PSDI,
con l’appoggio esterno del Partito socialista, che, come da programma, avrebbe dovuto
presentare al Parlamento un piano per la nazionalizzazione dell’energia elettrica entro i primi tre
mesi di attività107. Nel nuovo esecutivo, presieduto da Fanfani e entrato in carica il 21 febbraio
1962, sembrava delinearsi una forte spinta riformatrice sulla base di un ampio consenso politico.
sin da allora indicato alcune forme possibili e certo esse almeno essenziali di questo coordinamento, [avevamo] aggiunto che, se
l’adozione di questi mezzi [fosse apparsa] insufficiente in ordine ai fini da raggiungere, noi non avremmo avuto alcuna obiezione nei
confronti di una pubblicazione del settore che apparisse necessaria. Questa [era] appunto la nostra posizione. Noi non [eravamo]
naturalmente, come [avevamo] detto a Napoli, in favore della nazionalizzazione per una ragione di principio, al solo scopo di
restringere la sfera di azione della iniziativa privata; ma [eravamo] ad essa favorevoli senza riserve tutte le volte che essa [fosse
apparsa] necessaria per soddisfare un interesse pubblico che altrimenti [sarebbe rimasto] inattuato” (ibidem, pp. 1114-1115).
105
Discorso del segretario della Democrazia cristiana, Aldo Moro, al Consiglio Nazionale tenutosi a Roma dal 3 al 5 luglio del
1962, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 1, Scritti e discorsi 1953-1978, Sottoserie annuali, Busta 4 (si veda anche A. Moro, Scritti e
discorsi, a cura di G. Rossini, vol. II, 1951-1963, Roma, 1982, pp. 1164-1197).
106
Per approfondimenti sulla formula del centrosinistra e sui suoi sviluppi si vedano, tra gli altri, P. Di Loreto, La difficile
transizione. Dalla fine del centrismo al centro-sinistra (1953-1960), Bologna, 1993; G. Tamburrano, Dal centrosinistra al
neocentrismo. I difficili rapporti tra cattolici e socialisti, Firenze, 1973; Id., Storia e cronaca del centro-sinistra, Milano, 1976. Si
veda anche P. Nenni, Gli anni del centro-sinistra. Diari 1957-1966, Milano, 1982.
107
Cfr. B. Bottiglieri, L’industria elettrica dalla guerra agli anni del «miracolo economico», in V. Castronovo (a cura di), Storia
dell’industria elettrica in Italia, vol. 4, cit., pp. 82-83.
27
Ciò malgrado, le innovazioni prospettate apparivano diverse a seconda delle appartenenze
politiche e sociali dei protagonisti, tanto che era possibile distinguere tre correnti di pensiero. Da
un lato, vi erano coloro che guardavano a delle riforme di tipo correttivo miranti a migliorare il
sistema di sviluppo italiano senza modificarne la struttura economica capitalistica.
Appartenevano a questa corrente i settori democristiani più progressisti rappresentati, ad
esempio, da Achille Ardigò e Pasquale Saraceno, ma vi faceva parte anche il repubblicano Ugo
La Malfa. Diversa, invece, la spinta riformatrice proposta dai socialisti che miravano a attuare
una serie di cambiamenti tali da avvicinare il paese a un graduale socialismo. Molto meno
ambiziosa, infine, la ricetta riformatrice che lo stesso Moro aveva delineato con precisione.
Questa corrente, detta minimalista, anziché intendere le riforme come un obiettivo primario le
considerava piuttosto uno strumento necessario per unire le forze del centrosinistra in un governo
stabile e duraturo:
“Come [era] noto i partiti che partecipa[va]no direttamente o indirettamente alla
maggioranza erano […] orientati verso la nazionalizzazione. Non solo per il partito socialista
italiano la disponibilità in mano pubblica delle fonti di energia rappresentava «condizione
necessaria» per il processo di industrializzazione e di sviluppo economico del Paese, ma anche
per il partito socialdemocratico «la nazionalizzazione dell’energia idroelettrica, termoelettrica e
nucleare, concepita come pubblico servizio, [veniva] ritenuta necessaria per realizzare una
politica di sviluppo. L’ente nazionalizzato che [avrebbe realizzato] – proseguiva il documento
programmatico del PSDI – la avocazione a pubblica impresa dell’industria energetica [doveva]
essere strutturato in modo da realizzare un efficiente decentramento che [valorizzava] e
[rispettava] l’apporto delle aziende municipalizzate e provincializzate e [garantiva] una serie di
democratici controlli ai quali [avrebbero partecipato] i rappresentanti dei consumatori e dei
lavoratori». Anche il partito repubblicano [aveva] assunto al riguardo una posizione analoga: pur
affermando la funzione essenziale dell’iniziativa privata e dichiarando che il settore elettrico
doveva essere l’unico settore da nazionalizzarsi, si [era] mostrato su tale punto fermo ed
intransigente. Il nostro atteggiamento fu dunque in partenza diverso da quello dei partiti alleati. E
tale atteggiamento prudente, ma libero da ogni preconcetto, ribadimmo in occasione delle
dichiarazioni programmatiche del Governo”108.
108
Discorso del segretario della Democrazia cristiana, Aldo Moro, al Consiglio Nazionale tenutosi a Roma dal 3 al 5 luglio del
1962, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 1, Scritti e discorsi 1953-1978, Sottoserie annuali, Busta 4.
28
A emergere con maggiore forza rispetto alle altre proposte fu la corrente minimalista; la
questione della nazionalizzazione109 dell’energia elettrica rappresentò dunque il punto centrale
del programma di riforme governativo110:
“Il problema dell’energia in sede tecnica e politica ebbe – malgrado la brevità del periodo
trascorso – un notevole approfondimento. E fu attraverso questo approfondimento che prevalse
l’opinione che un trasferimento integrale nella sfera pubblica dell’industria elettrica sarebbe stata
la soluzione preferibile. A parte le già rilevate posizioni degli altri partiti che [costituivano] o
[condizionavano] la maggioranza, la nostra riserva poté essere sciolta per la considerazione della
pressante esigenza del coordinamento della impresa elettrica in Italia e per il dubbio che le forme
parziali ed esterne di unificazione si rivelassero col tempo inadeguate e riproponessero il
problema in condizioni aggravate e con la perdita di un tempo prezioso per il nostro sviluppo
economico e sociale. Ci [era] sembrato preferibile, conservando inalterata la presente situazione
politica, contribuire in modo determinante a strutturare il provvedimento in maniera che fossero
rispettate due condizioni: a) che una misura di nazionalizzazione fosse fatta con modalità tali da
non creare motivi di squilibrio in quel mercato finanziario, dal quale si [sarebbero dovuti]
attingere i mezzi necessari alla realizzazione del complessivo programma di Governo; b) che la
misura venisse adottata in modo conforme a quei principi di giustizia e di libertà cui si [era]
111
costantemente ispirata la nostra azione”
.
109
In realtà il termine pubblicamente utilizzato “in sede di dichiarazioni programmatiche del governo” non fu nazionalizzazione
bensì “«pubblicizzazione», termine che senza escludere la soluzione nazionalizzatrice la considera[va] solo come una fra quelle
possibili” [Lettera di Riccardo Lombardi, presidente del Comitato del PSI per l’attuazione del programma di governo, a Ugo La
Malfa, ministro per il Bilancio, 29 maggio 1962, ACS, Carte Ugo La Malfa, Serie 3, Cariche di Governo, Sottoserie 4, Ministro del
Bilancio (IV° Governo Fanfani), “Carteggio Onorevole Riccardo Lombardi”, Busta 27].
110
Fu proprio grazie a questa promessa che il Partito socialista decise infatti di appoggiare, seppur esternamente, il nuovo esecutivo.
Questa condizione sine qua non venne ribadita chiaramente in una lettera inviata il 29 maggio 1962 da Riccardo Lombardi, in qualità
di presidente del Comitato del Partito socialista per l’attuazione del programma di governo, al ministro per il Bilancio, Ugo La Malfa:
“Devo ribadire che il consenso del PSI al programma del governo fu esplicitamente subordinato alla condizione economicamente,
tecnicamente e politicamente pari alla natura e al grado di maturazione nel Paese del problema energetico; condizione che assumeva
un valore quanto mai vincolante per la congiunta dichiarazione fatta da due dei tre partiti partecipanti al governo di condividere la
posizione del PSI, cioè di ritenersi vincolati, solo ad una soluzione nazionalizzatrice e non di altra diversa” [Lettera di Riccardo
Lombardi, presidente del Comitato del PSI per l’attuazione del programma di governo, a Ugo La Malfa, ministro per il Bilancio, 29
maggio 1962, ACS, Carte Ugo La Malfa, Serie 3, Cariche di Governo, Sottoserie 4, Ministro del Bilancio (IV° Governo Fanfani),
“Carteggio Onorevole Riccardo Lombardi”, Busta 27]. Il punto di vista coercitivo dei socialisti venne fatto conoscere al segretario
della DC con una lettera di Nenni del 30 maggio '62, prima cioè che si tenesse la riunione del 4 giugno a Villa Madama alla quale
parteciparono i segretari dei quattro partiti di maggioranza, Moro, Fanfani, La Malfa, (ministro del Bilancio), Giacinto Bosco
(ministro di Grazia e Giustizia) e, in qualità di esperti, Mario Ferrari-Aggradi, Pasquale Saraceno e lo stesso Riccardo Lombardi, che
doveva trattare proprio il tema della nazionalizzazione del settore elettrico [cfr. Lettera di Pietro Nenni a Aldo Moro, Roma, 30
maggio 1962, in Fondazione Pietro Nenni (a cura di), Pietro Nenni,Aldo Moro: Carteggio 1960-1978, Scandicci (Firenze), 1998, p.
4].
111
Discorso del segretario della Democrazia cristiana, Aldo Moro, al Consiglio Nazionale tenutosi a Roma dal 3 al 5 luglio del
1962, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 1, Scritti e discorsi 1953-1978, Sottoserie annuali, Busta 4. Un chiarimento ulteriore è possibile
trarlo dalla replica del segretario della DC alle discussioni sviluppatesi durante il citato Consiglio Nazionale di Roma: “Per quanto
riguarda[va] il tema centrale del dibattito […] [era] emerso chiaramente che la nazionalizzazione dell’energia elettrica [era] stata
decisa in un quadro politico determinato, che noi [ritenevamo] importante conservare inalterato. [Era] vero che a Napoli avevo
accennato ad altre possibilità ma in seguito gli organi responsabili del Partito [erano] addivenuti alla convinzione della necessità della
nazionalizzazione sia per un naturale accostamento di posizioni con i partiti alleati, sia perché ci [eravamo] persuasi che le misure
surrogatorie non sarebbero state sufficienti ad attuare una reale unificazione ed un coordinamento adeguato del settore, come tutti
[riconoscevano] unanimamente essere necessario” (A. Moro, Scritti e discorsi, a cura di G. Rossini, vol. II, 1951-1963, Roma, 1982,
p. 1194).
29
L’accordo raggiunto portò al disegno di legge presentato da Fanfani il 2 giugno 1962112
che prevedeva sia l’istituzione dell’ente statale per l’energia elettrica che una serie di obiettivi di
politica economica: completamento dell’elettrificazione dell’intera penisola, stabilizzazione e
contenimento delle tariffe, programmazione delle risorse energetiche e una politica di
investimenti allo scopo di favorire lo sviluppo del sud del paese113. La direzione intrapresa
produsse però forti resistenze all’interno degli stessi partiti114: nella Democrazia cristiana
insorsero i rappresentanti delle posizioni cosiddette di destra, i quali si opponevano sia alla
procedura di statalizzazione del settore elettrico che allo stesso programma elettorale preparato
per la coalizione di governo; perfino nei partiti di sinistra si manifestarono molti dubbi,
soprattutto fra coloro che temevano venissero abbandonati i vecchi principi anticapitalitistici pur
di trovare un accordo con le forze centriste115. Anche i giornali si schierarono: erano contrari alla
112
Tuttavia, già a partire da maggio si ebbero una serie di consultazioni sulle caratteristiche che la normativa sulla nazionalizzazione
dell’energia elettrica avrebbe dovuto assumere. Particolarmente interessante, ad esempio, fu un’altra lettera inviata il 10 maggio 1962
da Lombardi al ministro La Malfa. Nella prima parte del testo si sottolineava la necessità che la competenza ministeriale del nuovo
ente che si avviavano a costituire fosse del ministro per le Partecipazioni Statali e non di quello per l’Industria e Commercio, come
ipotizzato in principio, “poiché [bisognava] garantire che l’azienda [ottemperasse] alla programmazione generale e del settore statale
e del complesso economico nazionale; perciò [era] previsto il concerto del Ministro delle Partecipazioni con quello del Bilancio”.
Nella seconda parte della lettera, invece, Lombardi rilevava che solo “la forma del decreto-legge” dava “il massimo di garanzie anche
dal punto delle difficoltà parlamentari”. Così facendo “la discussione parlamentare […] sarebbe [stata] limitata a un solo articolo,
quello di ratifica contenente l’elenco delle eventuali modificazioni introdotte e non invece la somma di ben 45 articoli che
[costituivano] il progetto; là dove la procedura nel caso di legge delegata sarebbe [stata] molto più complessa e [avrebbe reso]
inevitabile la defaticante discussione eventualmente ostruzionistica in sede di formulazione delle leggi delegate per le quali [sarebbe
stata] difficilmente evitabile l’assistenza e il parere magari vincolante di una commissione parlamentare. Ma la preoccupazione più
seria emerge[va] dal fatto che nel caso di legge delegata non si [sarebbe passati] immediatamente agli atti esecutivi. […] Il vero e
principale vantaggio del decreto legge [era] appunto la esecuzione immediata almeno della parte essenziale e irreversibile del
provvedimento che [sarebbe valsa] a deludere ogni prospettiva di efficace azione contraria” [Lettera di Riccardo Lombardi,
presidente del Comitato del PSI per l’attuazione del programma di governo, a Ugo La Malfa, ministro per il Bilancio, 10 maggio
1962, ACS, Carte Ugo La Malfa, Serie 3, Cariche di Governo, Sottoserie 4, Ministro del Bilancio (IV° Governo Fanfani), “Carteggio
Onorevole Riccardo Lombardi”, Busta 27]. Durante una riunione governativa del 15 giugno 1962 si era deciso anche di raggiungere
“una soluzione comune” che ponesse particolare tutela per i piccoli azionisti interessati (cfr. Diario n. 14 dell’On. Amintore Fanfani,
15 giugno 1962, ASSR, Fondo Amintore Fanfani).
113
Cfr. F. Mazzonis, La nazionalizzazione elettrica: un’interpretazione storica, in G. Toniolo (a cura di), L’industria elettrica dai
monopoli nazionali ai mercati globali, Roma, 2000, pp. 80-83.
114
Per uno studio sul lungo e aspro dibattito sulla nazionalizzazione si vedano, tra gli altri, G. Mori, La nazionalizzazione in Italia: il
dibattito politico-economico, in V. Castronovo (a cura di), La nazionalizzazione dell’energia elettrica, cit., p. 107; E. Rossi,
Elettricità senza baroni, Bari, 1962, pp. 70-71.
115
Le forti opposizioni presenti anche all’interno dei partiti di maggioranza spinsero Lombardi a scrivere un’ulteriore lettera
indirizzata a La Malfa al fine di chiarire la situazione. Le soluzioni che si prospettavano erano principalmente due: nazionalizzazione
o semplice «pubblicizzazione» del settore elettrico. Nel primo caso si sarebbe creato un “Ente nazionale unitario ma decentrato nelle
funzioni: gli organi di decentramento privi di personalità giuridica; l’Ente, cioè, [doveva essere] […] un vero organismo unitario che
affida[va] determinate funzioni a organi territoriali di decentramento. […] Questa soluzione implica[va] che la legge,
contemporaneamente all’istituzione dell’ente, [stabilisse] la riserva in esclusiva all’Ente dei nuovi impianti, la riserva delle
concessioni e la decadenza di quelle in atto, la decadenza delle subconcessioni in atto, la liquidazione delle società azionarie
nazionalizzate conferendo ai commissari liquidatori tutti i poteri ordinari e straordinari spettanti ai consigli di amministrazione”.
Nell’eventualità fosse stata scelta la «pubblicizzazione» si sarebbe stabilito “subito il passaggio di proprietà all’Ente delle imprese
esistenti, e ciò mediante legge ordinaria, ma si affida[va] a leggi delegate il compito di organizzare l’Ente come azienda nazionale
oppure come azienda a partecipazione, maggioritaria o totale, di capitale pubblico. Difatti la legge [avrebbe provveduto] solo
l’appropriazione mediante riscatto con obbligazioni e la costituzione dell’Ente che [avrebbe assunto] la figura di una holding
finanziaria. Si [sarebbe lasciato] alle leggi delegate […] il compito di attribuire all’Ente la struttura di holding, partecipando, con
pacchetto maggioritario o addirittura totale, al capitale delle imprese ex private; i titoli azionari eventualmente di tipo «privileggiato»
privi cioè del diritto di nomina degli amministratori”. Quest’ultima alternativa, ammoniva Lombardi, “non optando preventivamente
per la nazionalizzazione (ma semplicemente per la proprietà pubblica) non risponde[va] agli impegni di tre fra i partiti della
maggioranza che si [erano] pronunciati per la nazionalizzazione”. La «pubblicizzazione», dunque, sembrava essere quasi una
«irizzazione». [Lettera di Riccardo Lombardi, presidente del Comitato del PSI per l’attuazione del programma di governo, a Ugo La
30
nazionalizzazione, tra gli altri, «Il Sole», il «24 ore» e il «Corriere della Sera»; a favore «Il
Mondo», «L’Espresso», il «Giorno» e «La Stampa»116. L’editoriale de «L’Unità» del 21 giugno
'62, a firma di Mario Alicata, sottolineava come l’accordo governativo per la nazionalizzazione
dovesse rappresentare il primo passo verso l’abolizione di ogni monopolio privato nell’economia
italiana e richiamava all’unità tutte le forze di sinistra presenti nel paese:
“[Il] primo importante successo della lunga e tenace lotta delle forze di sinistra per imporre
la liquidazione del dominio dei monopoli privati in un settore chiave della nostra economia. […]
Le resistenze da battere [richiedevano] che l’azione delle forze di sinistra si [sviluppasse] unita in
tutto il paese su di un terreno più avanzato: per imporre, cioè, che la nazionalizzazione [segnasse]
effettivamente l’avvio di una nuova politica energetica; per imporre che ciò avvenga nel quadro
di una nuova politica economica generale antimonopolistica”117.
La posizione dei socialisti venne invece sintetizzata da un articolo di Lombardi
pubblicato sempre il 21 giugno '62 sull’«Avanti!» in cui sosteneva che la nazionalizzazione
costituiva il punto di svolta nella contrapposizione pubblica alle carenze delle iniziative private
nel settore; essa rappresentava di fatto:
“una rottura nell’equilibrio economico tradizionale [perché] per la prima volta dalla
Liberazione, un governo italiano si trova[va] nella condizione di fare una scelta contro
l’opposizione dichiarata dei gruppi di interesse. […] Alla carente, o minacciata di carenza,
iniziativa dell’imprenditore privato, occorre[va] supplire con una aumentata iniziativa pubblica.
Altrimenti l’economia s’inceppa[va] e ristagna[va] e la collettività paga[va] un alto prezzo
all’insipienza dei suoi inefficaci riformatori”118.
Il giornale socialdemocratico «La Giustizia» si limitò a pubblicare il 26 giugno il
resoconto dei lavori del Comitato Centrale del PSDI che, nella mozione conclusiva, si
impegnava “ad assecondare la realizzazione del programma governativo e si compiace[va] della
decisione raggiunta di presentare al Parlamento il progetto di legge per la nazionalizzazione
dell’energia elettrica che pone[va] la gestione di un servizio pubblico fondamentale a servizio
Malfa, ministro per il Bilancio, 8 giugno 1962, ACS, Carte Ugo La Malfa, Serie 3, Cariche di Governo, Sottoserie 4, Ministro del
Bilancio (IV° Governo Fanfani), “Carteggio Onorevole Riccardo Lombardi”, Busta 27].
116
Cfr. B. Bottiglieri, L’industria elettrica dalla guerra agli anni del «miracolo economico», in V. Castronovo (a cura di), Storia
dell’industria elettrica in Italia, vol. 4, cit., p. 83.
117
M. Alicata, editoriale de «L’Unità», 21 giugno 1962.
118
R. Lombardi, «Avanti!» 21 giugno 1962.
31
della nazione ed [era] la premessa di una seria programmazione della economia senza alcuna
mortificazione delle sane iniziative private”119.
Secondo le parole del direttore del giornale «La Voce Repubblicana», Ugo La Malfa, la
statalizzazione non era dettata da una astratta simpatia ideologica ma rispondeva alla necessità di
porre a disposizione della collettività un essenziale servizio pubblico del quale era tributaria
l’intera attività produttiva del paese:
“[La forma della nazionalizzazione era] stata scelta proprio in vista degli obiettivi che si
[intendevano] raggiungere con la pubblica gestione dell’energia elettrica: obiettivi di
incentivazione delle attività produttive, fornendo a tutti la possibilità di facile accesso a parità di
condizioni alle fonti energetiche e per ciò obiettivi squisitamente liberali, intesi ad assicurare la
vera libertà del mercato; obiettivi di perequazione tra diversi settori produttivi e fra le varie
regioni; obiettivi di sviluppo economico”120.
Di parere diametralmente opposto erano sia le considerazioni de «Il Secolo d’Italia», per
il quale alla base del provvedimento vi erano esclusivamente motivi politici che avrebbero avuto
gravissime conseguenze sull’economia nazionale121, che le valutazioni del direttore del
quotidiano «Il Roma», Alberto Giovannini, vicino ai monarchici, il quale nell’editoriale del 23
giugno affermava che il nuovo ente avrebbe rappresentato uno strumento di lottizzazione per i
socialisti e per i clericali:
“L’ENEL [era questo il nome ipotizzato per il nuovo ente nazionale per l’energia elettrica]
non [era stato] costituito per ragioni sociali ma per fornire ai socialisti uno strumento di potere, un
pascolo riservato per il riempimento di sempre nuove clientele; e un modo per spartire ciò che
rimane della torta italiana tra clericali e socialisti”122.
Il liberale Francesco Malagodi, infine, in un articolo del 21 giugno 1962 su «Il Giornale
d’Italia» rivelava come quella del settore elettrico non poteva essere considerata come la prima e
l’ultima nazionalizzazione in quanto lo statalismo socialista non si sarebbe accontentato della
sola elettricità123.
Le imprese private che operavano nel settore elettrico cercarono con ogni mezzo di
impedire che il governo portasse avanti il progetto. Esse cercarono l’appoggio dei piccoli
119
«La Giustizia», 26 giugno 1962.
U. La Malfa, «La Voce Repubblicana», 21 giugno 1962.
121
Cfr. editoriale de «Il Secolo d’Italia», 23 giugno 1962.
122
A. Giovannini, «Il Roma», 23 giugno 1962.
123
Cfr. F. Malagodi, «Il Giornale d’Italia», 21 giugno 1962.
120
32
azionisti che con la nazionalizzazione avrebbero potuto perdere i loro risparmi, ma anche dei
gruppi politici della destra e dei liberali. In Parlamento più volte si sollevarono questioni di
incostituzionalità al disegno di legge e venne praticato un massiccio ostruzionismo. Sulla stampa
si scatenò una lunga battaglia in seguito alla quale, in un’intervista concessa al settimanale «Il
Borghese» l’11 ottobre '62, il ministro del Bilancio cercò di tranquillizzare l’opinione pubblica
affermando che “nelle presenti condizioni, cioè nelle stesse condizioni in cui si sarebbe trovata
l’impresa privata, l’ENEL non [avrebbe aumentato] le tariffe agli utenti”124. In risposta alle
dichiarazioni del ministro, il direttore della rivista, Mario Tedeschi, nel numero successivo del
giornale sottolineò come anche La Malfa fosse a conoscenza del fatto che il nuovo ente si
sarebbe trovato a operare in una situazione strutturale e ambientale completamente diversa dalla
presente e, quindi, esso sarebbe stato costretto, per motivi meramenti economici, a aumentate i
costi del servizio offerto:
“l’ENEL, nel momento stesso della sua nascita, e sol perché nasce, non si [sarebbe trovata]
«nelle stesse condizioni in cui si sarebbe trovata l’industria privata». Il Governo [aveva] cercato
di nascondere questa realtà all’opinione pubblica, tanto [era] vero che nel progetto di legge non
[veniva] previsto alcun finanziamento per la costituzione dell’Ente: in altre parole, l’organismo
centrale che [avrebbe dovuto] nazionalizzare le varie imprese elettriche, nominare circa cinquanta
commissari straordinari ed altrettanti vicecommissari, assumere la gestione collettiva di un
patrimonio smisurato, secondo il progetto di legge governativo [avrebbe dovuto] nascere senza
bisogno d’una lira, per virtù dello Spirito Santo. Tutti [capivano] che ciò non [era] possibile, ma il
Governo non poteva confessare che, soltanto per mettere in piedi il «carrozzone» dell’ENEL, si
[sarebbero spese] molte decine di miliardi. Così, nella relazione alla Camera si [era] ricorsi ad una
scappatoia, e si [era] detto che all’inizio l’Ente [avrebbe vissuto] con una «apertura di credito a
suo favore presso il Tesoro», di settanta-ottanta miliardi. Un debito, insomma, che poi [doveva]
essere pagato. Inoltre, l’onorevole La Malfa [sapeva] che la nascita dell’ENEL [avrebbe
provocato] una notevole decurtazione degli introiti fiscali. […] La perdita per il fisco, a giudizio
dei più, si [sarebbe aggirata] sui trenta miliardi di lire. Il Governo, perciò, una volta costituito
l’ENEL, se [voleva] rifarsi, [aveva] soltanto una strada: aumentare le tariffe; farsi pagare più caro
il servizio, per tappare le falle della nazionalizzazione”125.
Anche all’interno dello stesso esecutivo emersero forti dubbi; fra i contrari, ad esempio,
figurava il ministro della Difesa, Giulio Andreotti, il quale richiese ufficialmente assicurazioni
124
I protagonisti della «svolta». Intervista col Ministro La Malfa di Gianna Preda in «Il Borghese», XIII, vol. XXIII, n. 41, Milano,
11 Ottobre 1962.
125
Risposta al Ministro La Malfa di Mario Tedeschi in «Il Borghese», XIII, vol. XXIV, n. 42, Milano, 18 Ottobre 1962.
33
affinché provvedimenti analoghi non venissero adottati anche in altri settori126. Un gruppo di
studio composto dai senatori democristiani era addirittura giunto alla conclusione che la
nazionalizzazione sarebbe stata in contrasto con la linea politica approvata dal Congresso di
Napoli; in una relazione degli inizi di novembre 1962 veniva detto che:
“Il quadro obiettivamente delineato [era] sufficiente per efficacemente ed ineccepibilmente
dimostrare e convincere – quando non si [avessero] preconcetti e pregiudizi – che gli obiettivi di
una politica dell’energia ispirata all’interesse generale del paese [potevano] essere conseguiti
senza la nazionalizzazione e più efficacemente che con la nazionalizzazione”127.
Nonostante le tante voci contrarie, l’iter legislativo si compì e il 6 dicembre 1962 venne
promulgata la legge n. 1643 che sanciva la nascita dell’Ente Nazionale Energia Elettrica128.
Durante i dibattiti politici sulla nazionalizzazione, l’industria elettrica italiana conobbe
una netta espansione nel pieno del “miracolo economico”: tra la fine degli anni Cinquanta e gli
inizi degli anni Sessanta la domanda di energia aumentò considerevolmente e si effettuarono
ingenti finanziamenti per la costruzione di nuovi impianti che però apparivano poco adatti a
rispondere alle nuove esigenze del mercato. L’accresciuto fabbisogno energetico richiedeva
infatti la costruzione di centrali elettriche decisamente più potenti che erano ritenute a ragion
veduta più convenienti dal punto di vista economico129. Anche le caratteristiche territoriali
dell’Italia, con l’ulteriore riduzione dell’apporto delle risorse idriche, spingevano verso una
diversificazione degli investimenti: in impianti termici o nucleari. Nel 1960 il settore privato
copriva il 61,6% della produzione ma quest’ultima era suddivisa in tante società più o meno
grandi e si avvertiva la necessità di assicurare unità anche sul piano tecnico per rispondere in
maniera adeguata alla crescente domanda. I programmi di sviluppo presentati in quegli anni
furono decisamente ambiziosi nel tentativo di bloccare il processo di nazionalizzazione e
126
Cfr. F. Mazzonis, La nazionalizzazione elettrica: un’interpretazione storica, cit., p. 83.
F. Arcidiacono, La Commissione speciale per l’ENEL non ha accolto tutte le proposte DC, «Il Giornale d’Italia», 12 Novembre
1962.
128
Per uno studio sulle leggi emanate dallo Stato e riguardanti l’istituzionalizzazione dell’ENEL si veda Ente Nazionale Energia
Elettrica, Provvedimenti legislativi di carattere generale riguardanti l’ENEL, Roma, 1966. Per un’interpretazione diretta con il
commento di alcuni dei protagonisti (Amintore Fanfani, Emilio Colombo, Francesco De Martino, Mario Ferrari-Aggradi, Riccardo
Lombardi, Giovanni Malagodi, Pasquale Saraceno) si veda G. Schiavi, La rivoluzione elettrica. ENEL, storia di una
nazionalizzazione, Roma, 1989.
129
Per un’analisi a carattere generale tra le necessità energetiche e la disponibilità delle fonti primarie nella seconda metà degli anni
Cinquanta e agli inizi degli anni Sessanta si veda A. M. Angelini, L’accesso alle fonti di energia nel quadro dei rapporti
internazionali, Estratto da «L’elettronica», vol. XLVIII, n. 3 bis, 1961, in Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, ENEL,
Società Italiana per il Progresso delle Scienze, Raccolta di Scritti sull’Energia Elettrica del Prof. Arnaldo Maria Angelini, Roma,
2006, pp. 141-159. In quegli anni il prof. Angelini faceva parte, tra l’altro, della Commissione Consultiva dell’Energia dell’OECE e
nel 1963 fu chiamato a assumere dapprima la Direzione Generale e, successivamente, durante gli anni Settanta, la presidenza proprio
dell’ENEL. Per uno studio sul ruolo economico che l’energia ebbe nel determinare la crescita dell’industria italiana dal 1953 al 2005
si veda, tra gli altri, A. Cardinale, A. Verdelli, Energia per l’industria in Italia. La variabile energetica dal miracolo economico alla
globalizzazione, cit., pp. 37-57.
127
34
dimostrare che anche i privati erano in grado di sostenere le nuove esigenze imposte
dall’ingresso dell’Italia nel Mercato Comune Europeo. L’ANIDEL stimò una crescita per il
triennio '60-'63 pari al 7,2% che, anche se leggermente ritoccata, portò nel '63 la produzione
effettiva a 71,3 miliardi di kWh e un consumo pari a 62,8 miliardi130. Uno sviluppo garantito
essenzialmente dalla costruzione di nuovi impianti di tipo termico e, per la prima volta, da
piccoli impianti nucleari.
Il nuovo ente istituito con la legge n. 1643 del 6 dicembre 1962 non poteva dunque
prescindere dalle caratteristiche tecniche delle industrie elettriche presenti131; era necessario
considerare in modo unitario tutto il sistema per cercare di raggiungere il più alto grado di
coordinamento e il migliore utilizzo possibile delle risorse. Per questa ragione si optò per “il
trasferimento ad un Ente di diritto pubblico delle imprese che esercita[vano] le attività di
produzione, trasporto, trasformazione e distribuzione dell’energia elettrica da qualsiasi fonte
prodotta, attività che [venivano] riservate all’Ente”132.
All’ENEL si riconobbe massima autonomia e operatività, non vincolando fin da subito
l’attività a obiettivi redditizi come per le aziende private o a partecipazione statale. Per quanto
concerneva gli indennizzi alle società private, si stabilì che il totale venisse dedotto dalle
quotazioni di mercato e che su questi debiti venisse riconosciuto un tasso di interesse del
5,50%133. Una parte delle azioni delle imprese venne acquistata direttamente dal nuovo ente,
corrispondendo un prezzo pari a quello stabilito per l’indennizzo, mentre per le necessità di
investimenti e impianti si fece ricorso sia all’autofinanziamento che all’emissione di
obbligazioni. Il sistema delle liquidazioni si rivelò decisamente positivo in quanto permise a
diversi imprenditori di non subire danni finanziari e di investire queste somme in altri settori. In
questo contesto la Edison si fuse con la Montecatini, la SIP acquisì il controllo del servizio
telefonico e le potenti società elettriche private, che per anni avevano creato una posizione forte
di comando nell’economia italiana, cessarono di esistere.
130
Cfr. F. Mazzonis, La nazionalizzazione elettrica: un’interpretazione storica, cit., p. 84.
Per un’analisi sulle caratteristiche tecniche del settore elettrico italiano nel 1962 si veda G. Verzì, Struttura e problemi
dell’industria elettrica italiana nel 1962, Milano, 1962.
132
G. Mori, La nazionalizzazione in Italia: il dibattito politico-economico, in V. Castronovo (a cura di), La nazionalizzazione
dell’energia elettrica, cit., p. 98.
133
Anche sulla forma e sulle modalità di indennizzò delle società elettriche private si scontrarono due idee differenti: la prima, di
Guido Carli, prevedeva un pagamento in contanti che avrebbe permesso a queste di continuare a operare come società finanziarie; la
seconda, fatta propria da Riccardo Lombardi, consisteva nell’emissione di obbligazioni varate dall’ENEL e garantite dallo Stato. Si
preferì, proprio per evitare una linea troppo radicale, il piano previsto da Carli (cfr F. Mazzonis, La nazionalizzazione elettrica:
un’interpretazione storica, cit., p. 84). Per ulteriori approfondimenti si veda anche P. Bolchini, Le aziende municipalizzate e la
nazionalizzazione dell’energia elettrica, in V. Castronovo (a cura di), La nazionalizzazione dell’energia elettrica, cit., pp. 187-219.
131
35
2. L’espansione dell’energia nucleare
2.1. Dall’INFN al CNRN
Costituito nel 1951, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare rappresentò da subito il polo
attorno al quale si raccolsero le personalità più attive in Italia nel settore della ricerca nucleare
fondamentale. Venne considerato dai più come lo strumento decisivo mediante il quale la fisica
italiana riuscì a recuperare e a mantenere una posizione di prestigio internazionale nel campo
delle alte energie e delle particelle elementari, un settore che si contraddistingueva per una
crescita innovativa molto rapida e per una forte competizione134. L’INFN aveva il compito di
coordinare le attività dei vari centri di studio del Consiglio Nazionale delle Ricerche ma si
sviluppò al punto da acquisire una propria distinta autonomia e rappresentare, sul piano dei
risultati scientifici, uno dei centri di ricerca più prestigiosi per l’Italia. L’istituto fin dall’inizio
fece propri gli obiettivi principali del CISE: costruire un grande acceleratore di particelle e un
potente reattore nucleare italiano. Il Centro informazioni studi ed esperienze alla fine del 1951
aveva già raggiunto alcuni importanti traguardi: erano stati realizzati un impianto pilota per la
produzione di acqua pesante mediante elettrolisi, un sistema sperimentale per la metallurgia
dell’uranio e era stata approntata un’attrezzatura elettronica di alta qualità. Ciò nondimeno, il
maggiore risultato era da considerarsi la formazione di personale qualificato che negli anni
successivi svolse un ruolo importante per lo sviluppo della ricerca nucleare italiana135. Agli inizi
del 1952, secondo il parere di Giuseppe Bolla, esistevano nel paese le premesse scientifiche
ideali per lo sviluppo dei promettenti stugli studi sull’atomo ma le risorse finanziarie messe a
disposizione erano insufficienti e sembrava mancare l’interesse stesso della politica:
“Si [poteva] affermare che [esistevano] in Italia i presupposti scientifici e tecnici
fondamentali per la costruzione di una pila sperimentale. Esiste[va] cioè un nucleo di ricercatori
specializzati e capaci di inquadrare il lavoro di altri ricercatori; [esistevano] inoltre impianti pilota
dai quali derivare gli impianti di produzione. [Il problema principale che il Centro informazioni
studi ed esperienze doveva affrontare era la mancanza di finanziamenti adeguati per cui]
delude[va] […] il ritardo di un interessamento ufficiale a sostegno dello sforzo degli industriali,
degli universitari, dei ricercatori”136.
134
Per uno studio effettuato da uno dei protagonisti si veda E. Amaldi, Gli anni della ricostruzione, Archivio del Dipartimento di
Fisica dell'Università di Roma “La Sapienza”, Fondo Edoardo Amaldi, Archivio Amaldi Eredi, Busta 89E, pp. 55-56. Per un’analisi
sui risultati raggiunti dalla ricerca nel settore nucleare già nel '51 cfr. Id., Recenti progressi e prospettive dello sviluppo della energia
nucleare, aprile 1951, ibidem, Busta 8E.
135
Cfr. M. Silvestri, Il costo della menzogna, cit., pp. 58-59.
136
Ibidem, p. 58; G. Battimelli (a cura di), L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, cit., p. 79.
36
Ciò che da più parti veniva richiesto era quindi un intervento dello Stato mediante
sovvenzioni pubbliche che permettessero al CISE di proseguire le ricerche in atto e, in generale,
sostenessero adeguatamente l’intero settore del nucleare137. Diversi tentativi per sensibilizzare i
politici italiani si fecero già a partire dalla nascita del CISE e, in particolare, ci provò anche
Edoardo Amaldi nel 1951 con un promemoria fatto recapitare direttamente a De Gasperi, il
quale, noto per avere un atteggiamento, secondo l’opinione di Silvestri138, poco favorevole nei
confronti della ricerca scientifica, non cambiò le proprie convinzioni139. Con la formazione del
VII° governo De Gasperi il 26 luglio 1951, la nomina a ministro dell’Industria e Commercio di
Pietro Campilli fornì un nuovo impulso che si sostanziò, nell’aprile successivo, nella creazione
della Finelettrica, la finanziaria dell’IRI nella quale erano state raggruppate le quote di
partecipazione pubblica nell’industria elettrica. Il neo ministro appariva sensibile alle questioni
energetiche e, in particolare, comprese fin da subito il ruolo che avrebbe potuto assumere
l’energia nucleare140; per queste motivazioni venne contattato direttamente dal professore
Francesco Giordani141, in quel momento in carica come presidente della SVIMEZ, nel tentativo
di conseguire impegni governativi anche nel settore nucleare. Campilli riuscì a trovare un
accordo con il ministro della Pubblica Istruzione, Antonio Segni, e, facendo pressione su De
Gasperi, ottenne, il 26 giugno '52, il varo del decreto che istituì il Comitato nazionale per le
ricerche nucleari142. Il nuovo istituto si classificò come organo di ricerca e coordinamento nel
settore degli studi atomici. Al CNR fu riservato il compito di dirigerne la ricerca scientifica,
mentre il Ministero dell’Industria e Commercio doveva dettare i criteri per l’esecuzione degli
137
Per uno studio sulle varie osservazioni che ci furono in merito alla scarsa considerazione del mondo politico nei confronti dello
sfruttamento delle ricerche sul nucleare a scopi industriali si vedano, tra gli altri, B. Curli, Il progetto nucleare italiano (1952-1964),
Soveria Mannelli, 2000, p. 146; L. De Paoli, Programmi di investimento e novità tecniche, cit., pp. 212-213; F. Ippolito, F. Simen, La
questione energetica: dieci anni perduti (1963-1973), cit., p. 83; G. Paoloni (a cura di), Energia, ambiente, innovazione: dal CNRN
all’ENEA, Roma-Bari, 1992, p. 9-11; M. Silvestri, Il costo della menzogna, cit., p. 65.
138
Cfr. ibidem, pp. 61-63.
139
Cfr. G. Battimelli (a cura di), L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, cit., p. 77-78; G. Paoloni, Gli esordi del nucleare, cit., pp.
386-387.
140
Cfr. R. Maiocchi, Il ruolo delle scienze nello sviluppo industriale italiano, in G. Micheli (a cura di), Storia d’Italia. Annali 3.
Scienza e tecnica nella cultura e nella società dal Rinascimento a oggi, Torino, 1980, p. 968, cit. in A. R. Rigano, La Banca d’Italia
e il progetto ENSI: fonti per la storia dello sviluppo energetico italiano degli anni Cinquanta nelle carte dell’Archivio della Banca
d’Italia, in Banca d’Italia, «Quaderni dell’Ufficio Ricerche Storiche», n. 4, Roma, 2002, p. 15, nota 16.
141
Francesco Giordani, professore di elettrochimica ed impianti industriali, ricoprì fino al 1951 le cariche di vicepresidente dell’IRI
dal 1937 al 1939; presidente dell’IRI dal 1939 al 1943; vicepresidente dell’Ente nazionale cellulosa e carta dal 1937 al 1938;
presidente del CNR dal 1943 al 1944; alternate executive director dell’Italia presso la Banca internazionale per la ricostruzione e lo
sviluppo dal 1947 al 1950. Tra gli studi sulla sua figura si vedano B. Curli, Francesco Giordani, in «La città nuova», 1994, n. 4-5; L.
Scalpelli, Francesco Giordani (1896-1961) in A. Mortara (a cura di), I protagonisti dell’intervento pubblico in Italia, cit., pp. 471499.
142
Cfr. G. Battimelli (a cura di), L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, cit., p. 80-81; L. Nuti, La sfida nucleare, cit., pp. 53-70; G.
Paoloni, Gli esordi del nucleare, cit., p. 386.
37
studi sull’impiego industriale del nucleare143. In base al decreto istitutivo il CNRN doveva
assolvere i seguenti compiti:
“Effettuare studi, ricerche e sperimentazioni nel campo della fisica nucleare; promuovere il
coordinamento delle iniziative che [potevano] sorgere nello stesso campo di studi e ricerche;
attuare eventualmente tale coordinamento nell’ambito delle leggi vigenti; promuovere ed
incoraggiare lo sviluppo delle applicazione industriali dell’energia nucleare; mantenere i rapporti
e sviluppare la collaborazione con le organizzazioni internazionali e con gli enti stranieri che
opera[vano] nel campo degli studi nucleari”144.
Per svolgere queste funzioni si misero a disposizione dell’organismo circa un miliardo di
lire, di cui seicento milioni destinati al CISE, duecento all’INFN145, cento agli impegni
internazionali e cento alle spese per il funzionamento del Comitato, alle missioni e alle ricerche
minerarie146. Se paragonati ai risultati che si volevano conseguire gli investimenti effettuati dal
governo italiano erano decisamente contenuti e molto inferiori rispetto alle sovvenzioni concesse
nello stesso periodo negli altri paesi147. Nel caso italiano, inoltre, occorreva fare i conti anche
con una forte opposizione fra gli appartenenti alle diverse istituzioni create nel settore nucleare;
in particolare emerse una certa diffidenza all’interno del CISE, organismo finanziato da società
private, all’indomani della nascita dello stesso CNRN, sovvenzionato e gestito direttamente dal
governo, a cui si aggiunse la personale ostilità del presidente del CNR, Gustavo Colonnetti, nei
confronti del presidente Francesco Giordani148. Con la concessione di finanziamenti pubblici al
CNRN le divergenze aumentarono: anche se le decisioni sulle somme da stanziare erano in realtà
143
Cfr. F. Ippolito, L’EURATOM e la politica nucleare italiana, cit., pp. 49-55; A. R. Rigano, La Banca d’Italia e il progetto ENSI,
cit., p. 15.
144
Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari, Un piano quinquennale per lo sviluppo delle ricerche nucleari in Italia, Roma,
1958, pp. 1-2. All’interno del CNRN lavorarono personalità quali Modesto Panetti (docente del Politecnico di Torino, presidente del
Comitato nazionale per l’ingegneria e l’architettura del CNR e senatore democristiano) con il ruolo di vicepresidente, Edoardo
Amaldi, Enrico Medi (fisico, allievo di Antonino Lo Surdo e deputato DC), Aldo Silvestri-Amari (direttore generale per la
produzione industriale), Felice Ippolito, Bruno Ferretti, Arnaldo Maria Angelini, Vittorio De Biasi e lo stesso Francesco Giordani,
nominato primo presidente.
145
Per uno studio sulle ricerche tecniche e i relativi risultati raggiunti dall’INFN durante gli anni Cinquanta si vedano G. Battimelli
(a cura di), L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, cit., p. 77-138; Relazione sull’attività svolta dall’Istituto Nazionale di Fisica
Nucleare. Storia dell’Istituto, in Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari, Un piano quinquennale per lo sviluppo delle ricerche
nucleari in Italia, cit., pp. 374-397. Per un’analisi generale si veda G. Battimelli, V. Patera (a cura di), L’Istituto Nazionale di Fisica
Nucleare. La ricerca italiana in fisica subatomica, Roma-Bari, 2003. Per gli anni successivi cfr. C. Villi (a cura di), La Fisica
nucleare fondamentale in Italia. Relazione sul complesso di attività dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare nel periodo 19701975, Padova, 1976.
146
Il Ministero dell’Industria e Commercio mise a disposizione seicento milioni, il CNR inizialmente duecento che poi diventarono
duecentocinquanta milioni, l’IRI ne stanziò cento e altrettanto fece la Confindustria che, tuttavia, non li versò mai (cfr. G. Paoloni,
Gli esordi del nucleare, cit., p. 387).
147
Negli Stati Uniti, ad esempio, l’USAEC nel 1952 disponeva circa di un miliardo e ottocento milioni di dollari (circa ottocento
miliardi di lire); in Gran Bretagna l’UKAEA aveva ottenuto un finanziamento pari a sessantadue milioni di sterline (circa centodieci
miliardi di lire); il CEA francese ben cinquecento milioni di franchi (ibidem, 388).
148
Per approfondimenti si vedano L. Belloni, Sulla genesi del CERN, in «Storia contemporanea», cit., pp. 615-663; G. Paoloni (a
cura di), Energia, ambiente, innovazione: dal CNRN all’ENEA, cit., pp. 9-11; M. Silvestri, Il costo della menzogna, cit., pp. 64-79.
38
già decise da tempo e il Comitato non doveva fare altro che smistarle fra i vari enti, il CNRN,
promuovendo “il coordinamento delle iniziative” dell’intero settore nucleare, poteva
condizionare i piani di ricerca e, quindi, aveva un certo potere di ingerenza sull’utilizzo delle
sovvenzioni che indirettamente elargiva. A ciò bisognava aggiungere l’assenza di una legge che
disciplinasse l’intero settore e quindi l’impossibilità di definire i compiti che spettavano allo
Stato nell’ambito di tutte le applicazioni e gli usi del nucleare e quelli, invece, che concernevano
il CNRN stesso, privo di una propria personalità giuridica149. D’altronde, era palese che vi
fossero divergenze tecniche profonde anche fra i collaboratori del Comitato nazionale: le idee di
Giordani e di Ippolito, ad esempio, non potevano certo coincidere con quelle di De Biasi150. Si
crearono all’interno del CNRN, dunque, almeno due anime che iniziarono a ostacolarsi
vicendevolmente. Si trattava in ogni caso di un contrasto ipotizzabile anche a priori dal momento
che l’istituzionalizzazione stessa del Comitato nazionale era avvenuta con un decreto del
presidente del Consiglio e senza quindi alcuna discussione parlamentare; segno, questo, che il
CNRN nasceva senza una reale strategia politica che intendesse impiegarlo concretamente per
gli scopi prestabiliti. Né l’iniziativa privata mediante la creazione del CISE, né l’intervento
pubblico successivo tramite il CNRN e le sovvenzioni concesse, potevano ritenersi sufficienti e
adeguate perché si realizzasse un programma strategico nazionale nel settore dell’energia
nucleare.
Dal punto di vista strettamente tecnico, le posizioni principali che emersero
rispecchiavano divergenze di natura socio-politica e economica. Il gruppo milanese del CISE,
diretto dal professore Bolla, più orientato verso l’industria privata, intendeva sviluppare un
reattore nucleare completamente italiano. Era un progetto certamente ambizioso date le ridotte
disponibilità finanziarie, ma di certo, se realizzato, avrebbe potuto dare all’Italia quel know-how
indispensabile per padroneggiare in toto la complessa tecnologia alla base dell’energia nucleare.
L’idea del CNRN e del presidente Giordani, ovviamente più burocratica e statalista data la
composizione stessa del Comitato, mirava ad acquisire all’estero quei prodotti avanzati già
sviluppati e necessari per costruire fin da subito un reattore, evitando i lunghi e fondamentali
stadi intermedi che una siffatta ricerca scientifica nazionale imponeva151. Tuttavia, nella realtà
149
Diversi furono i pareri negativi espressi nei confronti del nuovo istituto all’indomani della sua nascita: “Per il Consiglio delle
Ricerche infatti il CNRN non era che un figlio illegittimo, mostruoso e indisciplinato; per il Ministero dell’Industria uno dei tanti
comitati, come per esempio il «comitato carboni», da ascoltare in alcuni casi, ma lasciando ovviamente il potere decisionale nelle
mani della burocrazia ministeriale; per gli industriali del CISE, il CNRN avrebbe dovuto essere solo lo strumento per pompare
qualche miliardo alle casse dello Stato” [F. Ippolito, F. Simen, La questione energetica: dieci anni perduti (1963-1973), cit., p. 90].
150
Per approfondimenti si vedano L. De Paoli, Programmi di investimento e novità tecniche, cit., pp. 212-213; G. Paoloni, Gli esordi
del nucleare, cit., p. 388.
151
Entrambe le scelte avrebbero tuttavia avuto risvolti sia di natura politica che militare. L’industria elettrica del settore privato, ad
esempio, spingeva per creare in Italia un reattore di tipo americano a uranio arricchito che avrebbe inevitabilmente comportato
l’appoggio definitivo al blocco politico-militare statunitense in piena guerra fredda, ma avrebbe anche permesso l’importazione di
know-how e di prodotti americani. Se si fosse invece seguita l’ipotesi, capeggiata dai fautori di un controllo statale di tutti gli impianti
39
l’unica struttura operante nel campo della ricerca nucleare applicata era proprio il CISE e,
quindi, qualsiasi fosse l’indirizzo programmatico che si voleva perseguire era inevitabile che il
CNRN collaborasse fattivamente con il gruppo milanese capeggiato dal professore Bolla. Questa
condizione di base, come si poteva immaginare, era difficile da ottenere: da una parte, le società
private appartenenti al CISE pretendevano l’autonomia assoluta rispetto al CNRN, dall’altra,
Giordani avversava l’ipotesi che il Comitato nazionale si trasformasse in un semplice istituto
dispensatore di fondi senza alcun compito operativo e senza programmazione degli indirizzi152.
Sulla base di queste considerazioni e per evitare che all’interno del CISE si rafforzasse
notevolmente il ruolo delle aziende private, il presidente del CNRN, in accordo con Felice
Ippolito, decise di limitare i finanziamenti nei confronti di queste ultime imponendo che le
sovvenzioni del Comitato nazionale dirette al CISE fossero equamente divise al suo interno fra
soggetti privati e pubblici. Ne beneficiarono ovviamente le aziende a partecipazione statale quali
l’IRI, l’Ente Nazionale Idrocarburi e la Cogne, ma il provvedimento si rivelò inefficace vista
l’impossibilità di ridurre il ruolo primario svolto dalle società private all’interno del CISE, vera
anima dello stesso Centro Italiano di Studi ed Esperienze153. Le contrapposizioni interne
aumentarono fino a comprendere, oltre alla scelta del tipo di reattore da realizzare, anche
l’ubicazione degli impianti, le effettive competenze tecniche e valutative dei progetti da parte di
alcuni protagonisti, la convenienza economica di certi investimenti e, come se non bastasse,
anche gli accesi dibattiti sulla nazionalizzazione dei vari settori energetici italiani, incluso quello
nucleare154. Nonostante all’interno del CISE si diffondessero le preoccupazioni fra i privati sulla
possibilità di una nazionalizzazione estesa al Centro, quest’ultimo riuscì a ingrandirsi e a
potenziarsi finché, nel 1955, si decise di comune accordo l’ingresso, con il cinquanta percento
nucleari, di creare una filiera a uranio naturale come quelle francesi o inglesi si poteva prevedere anche un utilizzo delle ricerche
atomiche in campo militare. Secondo i protagonisti del tempo questo dilemma risultava decisamente infruttuoso: Giordani e Ippolito
propendevano infatti per la collaborazione statunitense, almeno nella prima fase, anche perché l’Italia, per ovvie motivazioni di tipo
storico-politico, era interessata solo alle utilizzazioni pacifiche dell’energia nucleare [si vedano, tra gli altri, B. Curli, Il progetto
nucleare italiano (1952-1964), cit., pp. 155-156; F. Ippolito, L’EURATOM e la politica nucleare italiana, cit., pp. 56-60; C.
Lombardi, La questione dell’energia nucleare, in G. Zanetti (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia, vol. 5, cit., 1994, p.
601; A. R. Rigano, La Banca d’Italia e il progetto ENSI, cit., p. 17].
152
Per approfondimenti si veda G. Paoloni, Gli esordi del nucleare, cit., p. 406.
153
Cfr. L. De Paoli, Programmi di investimento e novità tecniche, cit., p. 213. Si costituì anche un sottocomitato scientifico per lo
studio dei progetti del reattore nucleare composto sia dai membri del CNRN (Giordani, Angelini e Ferretti) che dagli esperti del
CISE (Bolla, Salvetti e Silvestri). Questo sottocomitato a cui, in un secondo momento collaborarono anche Felice Ippolito, Modesto
Panetti e Giuseppe Gabrielli, aveva il compito di preparare un programma più dettagliato e di studiare il problema della sede del
reattore e dei nuovi impianti del CISE (cfr. G. Paoloni, Gli esordi del nucleare, cit., pp. 388-389).
154
In proposito vennero richieste particolari garanzie da parte degli Stati Uniti per quei paesi che volevano stabilire accordi
commerciali sulle importazioni di uranio: Washington pretendeva che i governi attuassero legislazioni sulla base di quella in vigore
negli Stati Uniti. In questo paese la proprietà dei materiali fissili era sotto il controllo diretto dello Stato in quanto potenzialmente
utilizzabili per scopi militari, mentre i privati, dopo aver richiesto un’autorizzazione all’USAEC, potevano solo sfruttare i
combustibili nucleari, dietro compenso, per usi pacifici [cfr. B. Curli, Il progetto nucleare italiano (1952-1964), cit., p. 25; L. De
Paoli, Programmi di investimento e novità tecniche, cit., p. 237].
40
del capitale, di una finanziaria appositamente costituita, la Finsas, che inglobava le quote
partecipative dell’IRI, dell’AGIP e del Comune di Milano155.
2.2. Gli albori della collaborazione internazionale
Il clima creatosi in seguito alla riunione di Losanna del dicembre 1949 e alla Conferenza
Generale dell’UNESCO di Firenze dell’anno successivo contribuì a intensificare notevolmente i
dibattiti e le ipotesi di cooperazione internazionale anche nel settore delle ricerche nucleari156.
Dopo aver firmato il 18 aprile 1951 a Parigi il Trattato istitutivo della Comunità europea del
carbone e dell’acciaio, mediante il quale Francia, Germania Occidentale, Italia, Belgio,
Lussemburgo e Paesi Bassi mettevano in comune le produzioni di queste due materie prime157,
nel luglio del '53, durante un meeting tenuto nella capitale francese, alcuni Stati europei decisero
di impegnarsi per la costituzione di un altro organismo, a cui venne assegnato il nome
convenzionale di EURATOM158, che avrebbe dovuto coordinare i programmi di ricerca
comunitari relativi all’energia nucleare159. Nello stesso anno, dopo la notizia pubblicata il 12
155
Cfr. G. Paoloni, Gli esordi del nucleare, cit., p. 389.
Per un’analisi delle cooperazioni scientifiche che, nonostante l’assenza di istituzioni internazionali preposte, si avviarono a partire
dagli anni Cinquanta si veda E. Amaldi, Gli anni della ricostruzione, Archivio del Dipartimento di Fisica dell'Università di Roma
“La Sapienza”, Fondo Edoardo Amaldi, Archivio Amaldi Eredi, Busta 89E, pp. 55-63.
157
Il Trattato del 1951 instaurò un vero e proprio mercato comune del carbone e dell’acciaio, eliminando tutti i diritti di dogana e le
limitazioni quantitative che regolavano fino a quel momento il circolo di queste due materie prime, rendendo completamente libera
dunque la loro circolazione; si soppressero anche tutte le misure discriminatorie, gli aiuti o le sovvenzioni accordate in precedenza
dai vari governi in funzione delle relative produzioni nazionali. Anche se l’accordo sembrava regolare aspetti puramente economici,
mediante la CECA i firmatari del Trattato miravano al controllo reciproco della produzione delle materie prime fondamentali per
l’industria bellica, riunendo assieme paesi che fino a qualche anno prima erano stati in guerra tra loro. In particolare furono
importanti le partecipazioni dell’Italia, Stato verso il quale ancora permanevano incertezze e dubbi internazionali sia sull’affidabilità
politica che economica, ma, soprattutto, della Germania Occidentale; riguardo quest’ultimo paese e sul suo possibile e temuto riarmo
si incentrarono infatti gran parte degli studi e dei dibattiti del tempo nel tentativo di evitare il ripetersi di quanto successo
all’indomani del primo conflitto mondiale. In proposito pesava la gravosa questione della Saar tra la Francia e la Germania federale
e, contemporaneamente, la forte ripresa produttiva che si stava avendo nel bacino carbosiderurgico della Ruhr. Il tutto si risolse
grazie all’acuta proposta avanzata il 9 maggio 1950 dal ministro degli Esteri francese, Robert Schuman, che prevedeva la
costituzione di un’alta autorità carbosiderurgica che avrebbe costituito la premessa per l’unificazione europea; l’idea di estendere la
proposta all’Italia e al Benelux avvenne solo in un secondo momento, ma il cosiddetto Piano Schuman venne accolto positivamente,
in maniera non del tutto scontata, anche da Adenauer in quanto prevedeva che i controlli internazionali effettuati sulla Ruhr venissero
sostituiti da un’autorità sovranazionale a cui, da quel momento in poi, avrebbe partecipato anche la Germania che fino a allora era
stata esclusa da qualsiasi decisione in merito (sul piano del ministro degli Esteri francese cfr. W. Diebold Jr., The Schuman plan. A
Study in economic cooperation, 1950-1959, New York, 1959; D. Spierenburg, R. Poidevin, The history of the high authority of the
European coal and steel community: supranationality in operation, London, 1994). Per uno studio sulla nascita delle istituzioni
europee si vedano, tra gli altri, A. Varsori, P. L. Ballini (a cura di), L’Italia e l’Europa: 1947-1979, Soveria Mannelli, 2004; E. Noël,
Le istituzioni delle Comunità europee, Roma, 1972.
158
Prima della definitiva nascita dell’EURATOM, gli istituti nazionali per l’energia nucleare di Belgio, Francia, Gran Bretagna.
Italia, Olanda, Norvegia, Svizzera e Svezia fondarono il 15 giugno '54 a Londra la Società Europea per l’Energia Atomica per creare
un libero scambio di informazioni sulle conoscenze relative all’uso pacifico dell’atomica; per approfondimenti sulla nascita e sugli
scopi della SEEA si veda A. Albonetti, Energia nucleare e crisi energetica europea, Roma, 1974, pp. 98-99.
159
Fra gli studi sull’energia e sulla cooperazione europea si vedano, tra gli altri, P. D’Amarzit, Les entreprises publiques pétrolières
et l’approvisionnement en énergie de la Communauté Economique Européenne, Paris, 1978; Id., Essai d’une politique pétrolière
européenne, 1960-1980, Paris, 1982; J. A. Hassan, A. Duncan, Integrating Energy: the Problems of Developing an Energy Policy in
the European Communities, 1945-1980, in «The Journal of European Economic History», vol. 22, n. 1, 1994, pp. 159-175; M.
Ippolito, Contribution a l’étude du problème énergétique communautaire, Paris, 1969; N. Lucas., Western european energy policies:
a comparative study of the influence of institutional structure on technical change, Oxford, 1985; N. J. D. Lucas, Energy and the
156
41
agosto dagli organi di stampa secondo cui l’Unione Sovietica aveva fatto esplodere la sua prima
bomba all’idrogeno160, Eisenhower, in un discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite
dell’8 dicembre, propose la creazione di un’organizzazione sovranazionale che promuovesse
l’uso pacifico dell’energia nucleare e invitò tutti gli Stati a compiere uno sforzo comune per
evitare che gli studi sull’atomo venissero usati nuovamente per scopi militari. Nella fattispecie, il
presidente americano suggerì l’istituzionalizzazione di una conferenza mondiale, denominata
«Atoms for peace», con il compito di creare un’agenzia internazionale per la collaborazione
sull’utilizzazione pacifica dell’energia atomica161. L’anno successivo, inoltre, si tenne a Ann
Arbor un convegno mondiale di ingegneria nucleare a cui parteciparono anche esperti del CISE;
in questa occasione si preannunciarono una serie di innovazioni tecniche, tra cui il
conseguimento dell’acqua pesante, una sostanza dal ruolo fondamentale negli impianti di
fissione nucleare162. L’organizzazione della conferenza era la dimostrazione che i tempi stavano
cambiando e che una cooperazione internazionale nel campo dell’uso pacifico dell’energia
atomica poteva realmente concretizzarsi. Un primo passo in questo senso venne fatto anche dal
governo statunitense che nell’agosto del 1954 modificò la restrittiva legislazione vigente nel
settore nucleare, emanando l’Atomic Energy Act Amendments163 con il quale si diminuirono i
limiti precedentemente imposti con il McMahon Act del '46 sulla liberalizzazione delle
informazioni riguardanti le ricerche atomiche non militari. Nella primavera del 1955 si tenne
inoltre a Roma un simposio europeo sui metodi di produzione dell’acqua pesante che
rappresentava in quel momento il principale problema tecnico della penisola, mentre mediante la
produzione e la realizzazione di un impianto italiano (il progetto CISE della Montecatini e della
Larderello) ebbe inizio una collaborazione con il centro nucleare inglese di Harwell. In questo
clima di cooperazione internazionale si annunciò, nell’agosto del 1955, l’organizzazione ad
opera delle Nazioni Unite della prima conferenza di Ginevra164.
In vista dell’appuntamento, Giordani propose l’invio negli Stati Uniti di un gruppo di
tecnici con il compito di “prendere contatti con la Commissione atomica americana per la stipula
European Communities, cit.; J. H. Matlary, Energy Policy in the European Union, London, 1991; H. Wallace, C. Webb, W. Wallace
(a cura di), Policy-making in the European communities, London, 1977.
160
Per uno studio sulle iniziative nucleari sovietiche si rimanda a D. Holloway, Stalin and the bomb: the Soviet Union and the
atomic energy, 1939-1956, London, 1994.
161
Più verosimilmente, secondo il parere di Paolo Fornaciari, ex vicedirettore centrale e responsabile dell’attività nucleare
dell’ENEL, la motivazione reale alla base della proposta di Eisenhower “era quella di far dimenticare il tragico modo in cui la nuova
fonte energetica era apparsa sulla scena del mondo con i bombardamenti atomici sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki,
offrendo all’umanità energia elettrica abbondante e a basso prezzo attraverso l’impiego pacifico dell’energia nucleare” (P. Fornaciari,
L’Atomo per la pace, Milano, 2004, p. 5). Gli Stati Uniti puntavano ovviamente al controllo generalizzato dell’utilizzo di questa
nuova fonte energetica.
162
Cfr. B. Curli, Le origini della politica energetica comunitaria, 1958-64, in M. Guderzo, M. L. Napolitano (a cura di), Diplomazia
delle Risorse, cit., pp. 95-118; G. Paoloni, Gli esordi del nucleare, cit., p. 389.
163
Il primo Atomic Energy Act venne emanato nel 1946 e istituì, tra l’altro, l’USAEC.
164
Per uno studio generale sul rapporto tra l’Italia e le Nazioni Unite si veda, tra gli altri, A. Villani, L’Italia e l’ONU negli anni
della coesistenza competitiva (1955-1968), Padova, 2007.
42
di un accordo di collaborazione nello spirito della dichiarazione del presidente Eisenhower del
dicembre 1953 per la collaborazione atomica per usi pacifici”165. Questa scelta non poteva
ovviamente soddisfare i rappresentanti del CISE in quanto, seguendo questa direzione, si sarebbe
abbandonata l’ipotesi di sviluppare un reattore con tecnologie soltanto italiane. L’idea del
presidente del CNRN partiva però dalla necessità di dotare fin da subito l’Italia di impianti
nucleari, anche se ciò avrebbe significato importare quasi completamente il know-how,
soprattutto dagli Stati Uniti, in vista di un uso immediato della tecnologia nucleare nell’industria
del paese166. Superando le opposizioni e i dubbi del CISE, il CNRN portò avanti l’indirizzo
programmatico avviato dal suo presidente raggiungendo un accordo bilaterale con gli Stati Uniti
che entrò in vigore nel luglio '55 e fu alla base delle successive intese fra i due paesi dopo
Ginevra167. In quella sede, dall’8 al 20 agosto 1955 si svolse la prima conferenza internazionale
sull’uso pacifico dell’energia atomica che rappresentò il più grande convegno di scienziati e di
ingegneri nella storia168. Vi parteciparono circa 1.400 delegati provenienti da tutte le parti del
mondo, compresi gli scienziati sovietici che, per la prima volta, parteciparono a un convegno
organizzato fuori dai confini del blocco orientale:
“Apertasi subito dopo l’incontro dei «quattro grandi» e quindi in un euforico clima di
distensione, questa conferenza fu certamente la più grande assise scientifica del mondo. […] Per
la prima volta dopo la guerra uno spirito di grande collaborazione regnò tra gli scienziati e tecnici
di tutti i paesi rappresentati; dati e procedimenti, fino allora oggetto del più assoluto segreto,
furono messi alla portata di tutti”169.
165
Verbale del Comitato Nazionale Ricerche Nucleari, Roma, 9 marzo 1955, ASENEA. In particolare, secondo Giordani, la
missione doveva avere i seguenti scopi: “a) Fornitura di acqua pesante. Per accelerare i tempi di realizzazione del primo reattore e per
utilizzare nel miglior modo le assegnazioni disponibili, sarebbe [stato] estremamente utile all’Italia poter acquistare una prima partita
di acqua pesante, necessaria per la costruzione del primo reattore nucleare […]; b) Acquisto di un primo reattore. Premessi i necessari
accordi di governo, per ottenere la fornitura dei materiali necessari, ed in particolare anche delle modeste quantità di uranio arricchito
che saranno necessarie, si [potevano] avviare trattative con le ditte costruttrici americane per l’acquisto di un reattore di prova,
capace di raggiungere un livello di potenza dell’ordine del MW con una densità di flusso dei neutroni piuttosto elevata in modo che il
dispositivo possa servire, oltre che per esperienza di tipo esponenziale, anche per lo studio del comportamento dei materiali; c)
Impianti in scala industriale. La maggioranza dei competenti [riteneva] che – in dipendenza delle scarse disponibilità e degli alti costi
dell’energia prevalenti in Italia – si [dovevano] raggiungere più rapidamente le condizioni di convenienza economica per l’uso
dell’energia nucleare. Pertanto sarebbe [stato] gradito di poter iniziare lo studio per l’impianto di una prima centrale, esaminando
eventualmente le condizioni di fornitura ed iniziando i contatti per eventuali finanziamenti da parte di quegli organismi bancari che
già annuncia[vano] il loro vivo interesse per questo nuovo campo di attività” (ibidem; per ulteriori approfondimenti si veda G.
Paoloni, Gli esordi del nucleare, cit., p. 390).
166
D’altronde questa scelta fu comune a diversi paesi che, come l’Italia, erano in ritardo nelle applicazioni pacifiche del nucleare,
primi fra tutti la Germania e il Giappone (cfr. F. Silari, L’industria elettrica e i problemi energetici, cit., pp. 303-304).
167
La rappresentanza italiana del CNRN giunse negli Stati Uniti il 18 marzo '55; vi facevano parte Giordani, Salvetti e Amaldi. Ai
colloqui venne invitato a partecipare anche Egidio Ortona, consigliere dell’Ambasciata italiana a Washington (per approfondimenti si
veda E. Ortona, Anni d’America. La diplomazia 1953-1961, Bologna, 1986, pp. 135-140).
168
Per approfondimenti sulla partecipazione italiana alla prima conferenza di Ginevra si veda G. T. Scarascia Mugnozza (presidente
dell’Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL), Introduzione al Convegno sull’uso pacifico dell’energia nucleare da Ginevra
1955 ad oggi: il caso italiano, in Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, L’uso pacifico dell’energia nucleare da Ginevra
1955 ad oggi: il caso italiano, Atti del Convegno di Roma, 8-9 marzo 2006, Collana “Scritti e Documenti”, vol. 40, Roma, 2007, pp.
7-13. Per un’analisi generale sulla conferenza si veda F. Ippolito, L’EURATOM e la politica nucleare italiana, cit., pp. 11-19.
169
F. Ippolito, F. Simen, La questione energetica: dieci anni perduti (1963-1973), cit., pp. 88-89.
43
L’incontro suscitò un grande ottimismo al punto che i principali segreti che avevano
caratterizzato la ricerca nucleare fin dai suoi albori iniziarono a essere rivelati. Alla
pubblicazione degli atti del convegno furono infatti allegate più di mille pubblicazioni
scientifiche, tra cui, ad esempio, quella riguardante la tecnologia francese per processare il
combustibile nucleare e ricavarne plutonio. Fra il 1957 e il 1958 anche la Gran Bretagna, gli
Stati Uniti e l’URSS resero pubbliche le ricerche nazionali nel settore, ma solo con la successiva
conferenza del '58 si divulgarono tutti i segreti.
L’entusiasmo generale si diffuse anche in Italia dove neanche i dissidi interni fra il
CNRN e il CISE riuscirono a frenare il desiderio di avviare nuovi studi sull’atomo. Subito dopo
Ginevra, la Edison decise di promuovere il progetto per la costruzione di una centrale nucleare
nel nord del paese. Era un’idea particolarmente ardita se si considera che nel 1955 solo l’Unione
Sovietica possedeva una centrale nucleare in funzione170; gli scopi della società italiana, in realtà,
erano strettamente politici e erano riconducibili all’intensificazione dei dibattiti interni sulla
nazionalizzazione del settore nucleare che, come già visto, godeva di vasti consensi fra la
maggioranza dei membri del CNRN. Infatti, in maniera del tutto paradossale rispetto ai propositi
fino a quel momento enunciati, per la realizzazione di questo impianto la stessa Edison avrebbe
dovuto acquistare il reattore nucleare negli Stati Uniti171. Tuttavia, secondo quanto riferito da
Giordani durante la riunione del CNRN del 15 novembre 1955, il direttore della divisione affari
internazionali dell’USAEC, John A. Hall, aveva affermato che “sembra[va] prematuro per
l’Italia incominciare a parlare di costruire importanti centrali di potenza prima di aver messo in
esercizio un reattore sperimentale: tappa questa obbligatoria sia per motivi tecnici sia per la
preparazione del personale”172.
Come prevedibile, il progetto della Edison incontrò forti opposizioni all’interno del
CNRN e spinse il direttivo del Comitato a approvare nella stessa seduta un ordine del giorno nel
quale si invitava il governo a prendere tempestive iniziative legislative al fine di assegnare allo
Stato, in via definitiva, un ruolo preminente nel settore nucleare, ipotizzando eventualmente una
170
Nel 1954 era infatti entrata in esercizio la centrale di Obninsk di soli cinque megawatt, mentre nel '56 si inaugurò il primo
impianto britannico a Calder Hall, dotato di ben tre reattori da quaranta megawatt ciascuno. L’anno successivo, inoltre, entrò in
funzione la prima centrale statunitense di Shippingport con un reattore da sessanta megawatt, mentre i primi impianti francesi, di
ugual potenza rispetto a quello americano, vennero attivati nel '60 (cfr. G. Paoloni, Gli esordi del nucleare, cit., p. 391).
171
A questo proposito, già nel 1954 Giorgio Valerio della Edison condusse una missione esplorativa negli Stati Uniti assieme a
Mario Silvestri; questa missione venne ripresa da entrambi l’anno successivo con il supporto del direttore della Divisione centrali
termiche della Edison, Franco Castelli, con l’intento preciso di preparare le specifiche tecniche per creare una centrale nucleare in
Italia che fosse gemella di quella statunitense, in via di costruzione, di Rowe, nel Massachusetts (cfr. M. Silvestri, Il costo della
menzogna, cit., p. 104).
172
Verbale del Comitato Nazionale Ricerche Nucleari, Roma, 15 novembre 1955, ASENEA.
44
riserva solo sull’energia elettrica prodotta utilizzando fonti atomiche173. Si decise di conferire al
CISE l’incarico di uno studio per installare un reattore sperimentale, come suggerito
dall’USEAC, da acquistare dagli Stati Uniti e, di conseguenza, si approvò un contratto fra il
CNRN e il CISE stesso per l’esecuzione del progetto; si stipulò una convenzione con l’American
Car & Foundry per la fornitura e si diede mandato al Centro Italiano di Studi ed Esperienze di
acquistare il terreno presso Ispra, nel varesotto. Il Comitato deliberò anche la nomina di una
Commissione con il compito di studiare l’ubicazione degli impianti nucleari sul territorio
nazionale; vennero chiamati a far parte di questa commissione, oltre ai soci del CISE e del
CNRN, anche rappresentati dell’Ente Nazionale Idrocarburi, che aveva nel frattempo costituito
l’AGIP Nucleare174 con l’intento dichiarato di costruire una centrale a combustibile atomico175, e
della SELNI, creata dalla Edison per la realizzazione del progetto del 1954176. Nell’ottica di
garantire l’indipendenza delle fonti energetiche nazionali, Mattei177 decise anche di creare
173
Ibidem. Influenzati molto probabilmente dalle conclusioni del direttivo del CNRN, i senatori Montagnani, Donini, Pesenti, Sereni,
Negri, Tibaldi, Busoni, Roda, Cerabona, Smith e Ottavio Pastore, presentarono al Senato, l’8 marzo 1956, il disegno di legge n. 1404
mediante il quale chiesero l’istituzione dell’Ente Nazionale per Energia Nucleare. L’ENEN, dotato di personalità giuridica, avrebbe
dovuto esercitare, per conto dello Stato, le attività di “importazione, esportazione dei combustibili nucleari”; ottenere “la proprietà e
l’esercizio degli impianti destinati alla loro produzione, la trasformazione ed utilizzazione a qualsiasi scopo”; “sviluppare le ricerche
sulla energia nucleare e le sue applicazioni pacifiche in tutte le loro forme assicurando nello stesso tempo la tutela dell’incolumità e
della salute pubblica” (Per la nazionalizzazione e lo sviluppo dell’energia nucleare, Senato della Repubblica, Disegno di legge n.
1404 comunicato alla Presidenza l’8 marzo 1956, ASE, coll. AR. II. 1, udc. 4).
174
Sull’interesse mostrato dal presidente dell’ENI nel campo nucleare si vedano anche G. Buccianti, Enrico Mattei, cit., pp. 51-54;
E. Ortona, Anni d’America. La diplomazia 1953-1961, cit., p. 299.
175
A questo scopo vennero avviate trattative tra la direzione studi economico-tecnici dell’ENI e l’americana Westinghouse Electric
International Company. Quest’ultima propose la creazione di una centrale elettronucleare internazionale da 11.500 kW con un
reattore a uranio arricchito come combustibile e acqua naturale in pressione come moderatore e come refrigerante, già in uso sul
sommergibile Nautilus della Marina Militare degli Stati Uniti [cfr. La centrale elettronucleare internazionale da 11.500 kW proposta
dalla Westinghouse Electric International Company, direzione studi economico-tecnici dell’ENI, servizio II - studi tecnici (ing. Vito
Schirone), Roma, novembre 1955, ASE, coll. U. III. 4, udc. 70]. Stesso intento aveva un altro rapporto, eseguito nel gennaio '56
sempre dall’ing. Schirone, in cui si analizzava tecnicamente la questione della produzione di energia elettrica dall’energia nucleare,
esponendo le principali difficoltà di questa lavorazione in considerazione dei costi economici necessari. La conclusione dell’indagine
evidenziava la necessità, ai fini della creazione di un’industria nucleare, di cospicui mezzi finanziari che risultavano necessari e
opportuni “pur di giungere alla realizzazione di impianti che assicurino una grande disponibilità di energia a basso costo”; entrambi,
notevoli investimenti e la costruzione di centrali nucleari, erano “condizioni indispensabili per lo sviluppo e il progresso industriale
ed economico di qualsiasi Paese”. Tuttavia si prevedeva che per la costruzione di impianti con un basso costo di produzione mediante
l’uso di combustibili nucleari, rispetto alla convenienza del prezzo delle altre fonti energetiche presenti, ci sarebbero voluti circa
venticinque anni [cfr. L’energia elettrica da energia nucleare, direzione studi economico-tecnici dell’ENI, servizio II - studi tecnici
(ing. Vito Schirone), Roma, 25 gennaio 1956, ibidem]. Questo studio permetteva di focalizzare l’attenzione anche sulla situazione
esistente e sugli investimenti che erano stati fatti nelle altre nazioni. Solo per citare alcuni esempi, gli Stati Uniti avevano già
costruito e messo in funzione ben ventinove reattori nucleari sperimentali, la Gran Bretagna sei, il Canada si avviava alla costruzione
del suo primo impianto nucleotermoelettrico, mentre la Francia poteva vantare una serie di progetti tali da consentire di essere l’unico
Stato dell’Europa continentale occidentale più progredito in campo nucleare e, dopo quelli citati, quello transalpino era il paese più
vicino all’utilizzazione industriale dell’energia atomica (ibidem).
176
Cfr. Verbale del Comitato Nazionale Ricerche Nucleari, Roma, 15 novembre 1955, ASENEA. Per approfondimenti si veda G.
Paoloni, Gli esordi del nucleare, cit., p. 392.
177
Secondo la testimonianza di Paolo Fornaciari, ex vicedirettore centrale e responsabile dell’attività nucleare dell’ENEL, la
decisione di Mattei di investire anche nel settore dell’energia nucleare, nonostante questa apparisse decisamente meno competitiva
del petrolio, sarebbe potuta derivare dalla conoscenza degli studi di Marion King Hubbert, un geologo americano della SHELL.
Quest’ultimo, infatti, durante la Conferenza annuale dell’American Petroleum Institute del marzo 1956, presentò un rapporto in cui si
prevedeva il declino della produzione petrolifera degli Stati Uniti per l’inizio degli anni Settanta e una crisi a livello mondiale
all’inizio degli anni 2000. Questo rapporto, pubblicato dalla SHELL nel giugno successivo con il titolo “Nuclear energy and fossil
fuels”, fu pesantemente criticato dall’industria petrolifera statunitense e Hubbert apostrofato come una “Cassandra e un pessimista e
visionario non attendibile”. La profezia del geologo della SHELL su una possibile crisi petrolifera scatenò nell’estate del 1956 un
ampio dibattito sulla stampa internazionale: “Non può esser casuale che Enrico Mattei, nel novembre di quello stesso anno,
richiedesse al presidente del Consiglio, Antonio Segni, l’autorizzazione per realizzare a Latina la prima centrale nucleare italiana che
divenne «critica» il 28 dicembre 1962. A quell’epoca, io lavoravo all’AGIP Nucleare, si riteneva che l´iniziativa di Enrico Mattei
45
all’interno dell’ENI una società di prospezioni e di ricerche minerarie, la SOMIREN, nel
tentativo di assicurare una fornitura di uranio attraverso i giacimenti esistenti sul territorio
nazionale e all’estero178.
Nel luglio del 1956, dopo il varo delle ultime decisioni179, Giordani si dimise da
presidente del CNRN e venne sostituito, con misura temporanea, dal professore Felice
Ippolito180. Sul piano internazionale, dopo la conferenza di Ginevra si registrò la visita in Gran
Bretagna, nella primavera dello stesso anno, di una delegazione sovietica guidata da Nikita
Kruscev, Nikolai Bulganin e dal fisico Igor Kurchatov: essa rappresentò il vero passo sulla via
della cooperazione mondiale negli studi per l’uso pacifico dell’energia atomica. Il governo
italiano, sulla scia delle aspettative crescenti presso l’opinione pubblica, decise di rispondere alle
difficoltà stigmatizzate da Giordani con le dimissioni mediante un decreto varato dal Consiglio
dei ministri del 24 agosto '56 che modificava in profondità l’assetto del CNRN. Dopo la nomina
del nuovo presidente Basilio Focaccia, professore di elettrotecnica all’Università di Roma e
senatore democristiano di lungo corso, si avviò un cambiamento organizzativo dell’intero
Comitato che portò alla creazione di una struttura articolata, coordinata da una Segreteria
generale e con una sede autonoma rispetto a quella del CNR. Figura chiave del nuovo corso
divenne Felice Ippolito, nominato segretario generale in ottobre e membro, assieme a Focaccia,
Amaldi e Angelini, della neo costituita Giunta esecutiva del Comitato.
Il rinnovato CNRN si trovò dunque a operare in uno scenario internazionale rimodellato
dagli effetti dello “spirito” di Ginevra, che non era però risultato sufficiente per superare le
diffidenze reciproche circa le possibili utilizzazioni del nucleare in chiave militare. Gli Stati
Uniti introdussero infatti una clausola in tutti gli accordi in fase di trattativa mediante la quale i
contraenti, tra cui l’Italia, si impegnavano a utilizzare le nuove conoscenze atomiche solo per usi
industriali e accettavano l’invio sistematico di ispettori americani per il controllo dei materiali e
fosse legata al desiderio di inserire l’ENI anche nel settore elettrico, in vista di un Ente Nazionale Energia di cui in quei giorni si
parlava, prima che si costituisse l’ENEL. Ma se fosse stato così, sarebbe stato sufficiente per Mattei costruire una centrale
termoelettrica a gas, fonte energetica allora emergente, di cui egli era stato illustre pioniere in Val Padana. La mia personale
convinzione invece è che Mattei conoscesse bene la profezia di Hubbert e fosse giustamente preoccupato di trovare delle concrete
alternative al possibile declino della produzione petrolifera mondiale, che sarà poi confermato dagli studi di Campbell, Laherrère,
Simmons e Leach, nei primi anni 2000. Enrico Mattei era uomo che sapeva guardare alto e lontano, con straordinaria e intelligente
lungimiranza” (TRA dall’ex vicedirettore centrale e responsabile dell’attività nucleare dell’ENEL, ing. Paolo Fornaciari).
178
Cfr. Atto costitutivo e statuto della SOMIREN, Società Minerali Radioattivi Energia Nucleare, gennaio 1956, ASE, coll. BB. III.
2, udc. 439.
179
Per uno studio sulle iniziative nazionali e le collaborazioni internazionali avviate dal CNRN nella prima metà degli anni
Cinquanta si veda F. Ippolito, Recenti aspetti della politica nucleare e presupposti per uno sviluppo dell’industria nucleare in Italia,
estratto da «Industria d’oggi», numero speciale «Gli atomi e l’industria», Milano, marzo 1956. Per un’analisi sulla giurisdizione
italiana in funzione di quelle estere nel settore nucleare si veda A. Baroni, La legislazione nucleare italiana in rapporto alle
legislazioni estere, ibidem.
180
Secondo l’opinione di Paoloni, le dimissioni di Giordani “avevano sullo sfondo la pesante situazione finanziaria del Comitato;
esse richiamavano l’attenzione dell’opinione pubblica e del mondo politico, già sensibilizzati dalla conferenza di Ginevra, sulla
questione dello sviluppo dell’energia nucleare. Giordani intendeva evidentemente forzare il Governo a decidere, superando una
situazione di incertezza che si protraeva da un anno” (Verbale del Comitato Nazionale Ricerche Nucleari, Roma, 15 novembre 1955,
ASENEA).
46
degli impianti forniti. Per trasformare questa procedura in un sistema di controllo internazionale
si pensò alla creazione di un’apposita agenzia all’interno delle Nazioni Unite. Nella conferenza
tenuta a Washington nel febbraio del '56 si giunse, non senza problemi, a un compromesso che
produsse, nell’ottobre dello stesso anno, la costituzione dell’Agenzia internazionale per l’energia
atomica181. L’organizzazione, fondata ufficialmente il 29 luglio del 1957, aveva lo scopo di
promuovere l’utilizzazione pacifica dell’energia nucleare e di impedirne l’utilizzo per scopi
militari mediante il sistema di controllo internazionale già sperimentato dagli Stati Uniti negli
accordi sottoscritti precedentemente. In questa atmosfera di collaborazione si registrarono anche
due importanti accordi ufficiali per l’Italia sugli usi pacifici dell’energia nucleare: il primo con il
governo statunitense del 3 luglio '57182, il secondo con la Gran Bretagna del 28 dicembre dello
stesso anno183. Il 1° settembre 1958 si inaugurò inoltre la seconda conferenza internazionale di
Ginevra, sotto la presidenza di Francis Perrin, Alto Commissario francese per l’energia atomica.
L’interesse manifestato per questo convegno non fu minore rispetto al precedente; vi
parteciparono circa cinquemila delegati ufficiali, nonostante la conferenza avesse un contenuto
quasi esclusivamente tecnico. L’Italia fu rappresentata da Edoardo Amaldi, Arnaldo Maria
Angelini, Guido Giorgi (membro del CNRN e direttore generale del ministero dell’Industria e
Commercio), Felice Ippolito e Roberto Ducci (consigliere d’Ambasciata e vicedirettore generale
degli Affari Economici del Ministero degli Affari Esteri) e da ben centoventitre consiglieri, cui si
aggiunsero numerosi osservatori, per un totale di circa quattrocento persone184. La
rappresentanza italiana decise di nominare un Consiglio provvisorio con il mandato di convocare
a Roma l’Assemblea costitutiva di un’associazione italiana senza scopo di lucro che assunse il
nome di Forum Italiano dell’Energia Nucleare. Nel corso della prima assemblea che si tenne il
23 novembre del 1958 si decise che la nuova organizzazione, temporaneamente con sede presso
il CNRN, si strutturasse come “il luogo ideale e materiale di unione, di discussione, di esame e di
studio dei vari problemi […] che si presenta[va]no nella utilizzazione della nuova forma di
energia”185.
181
Per il testo costitutivo dell’AIEA si veda Statut de l’Agence internazionale de l’énergie atomique, New York, 26 ottobre 1956,
HAEU, Fondo Jules Guéron, n. 112; per ulteriori approfondimenti sulle sue funzioni e sulla sua storia cfr. A. Albonetti, Energia
nucleare e crisi energetica europea, cit., pp. 92-96; Fischer D., History of the international Atomic Energy Agency: the first forty
years, Vienna, 1997.
182
Cfr. Accordo tra l’Italia e gli Stati Uniti d’America sugli usi pacifici dell’energia atomica, Washington, 3 luglio 1957, ACS,
Fondo Ministero Pubblica Istruzione, Direzione generale per l'istruzione universitaria, Ispettorato generale per la ricerca scientifica,
Divisione X, Busta 93.
183
Cfr. Accordo di cooperazione tra il governo della Repubblica italiana ed il governo del Regno Unito di Gran Bretagna e
d’Irlanda del Nord nel campo degli usi pacifici dell’energia nucleare, Roma, 28 dicembre 1957, HAEU, Fondo Edoardo Martino, n.
227.
184
Sulla seconda conferenza di Ginevra e la relativa partecipazione italiana si veda F. Ippolito, L’Italia e l’energia nucleare:
cronache di cinque anni, Venezia, 1960, pp. 66-77.
185
FIEN, Forum Italiano dell’Energia Nucleare, Finalità e attività, Roma, 1958, ASE, coll. I. V. 3, udc. 279. Presidente del Forum
venne nominato Carlo Matteini, amministratore delegato della Compagnia Generale Telemar Spa e professore di radiotecnica ed
elettronica all’Università di Roma, mentre vicepresidenti furono Arnaldo Maria Angelini e Gino Bozza, direttore tecnico del CISE e
47
Sul piano europeo, il 29 settembre del '54 venne firmata, come già visto, la convenzione
che istituì il CERN, il più grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle186. Si diede vita
inoltre all’EURATOM a cui parteciparono i sei paesi che già avevano aderito alla CECA con lo
scopo di mettere in comune le conoscenze scientifiche e tecniche e velocizzare lo sviluppo
dell’industria nucleare187. L’idea di dar vita a una Comunità europea per lo sfruttamento delle
applicazioni pacifiche dell’energia atomica era nata all’indomani della definitiva bocciatura della
CED188 e rappresentava in quella fase un importante strumento per il rilancio dell’integrazione
europea. La scelta partiva dalla necessità di combattere la carenza generalizzata di energia
cosiddetta “tradizionale” avutasi durante gli anni Cinquanta sfruttando l’atomo per conseguire
l’indipendenza energetica del continente. La decisione di unire gli sforzi a livello comunitario
era anche il risultato dei costi di investimento che superavano le possibilità dei singoli Stati. Il
trattato istitutivo mirava a contribuire alla formazione e allo sviluppo delle industrie nucleari
europee al fine di garantire la sicurezza degli approvvigionamenti. Allo stesso tempo, l’intesa
puntava a rassicurare la popolazione, nella certezza che le materie atomiche destinate a finalità
civili non sarebbero state utilizzate per scopi militari189.
Malgrado le premesse condivise, anche nel corso dei negoziati per l’EURATOM non
mancarono le difficoltà. Dopo una prima intesa raggiunta alla conferenza di Venezia del '56, il
direttore dell’Istituto di Fisica tecnica del Politecnico di Milano. Uno dei risultati che il FIEN raggiunse fu la costituzione a Parigi del
“Forum Atomique Européen” nel 1960 (cfr. Lettera del segretario generale del FIEN, Pietro Bullio, al vicepresidente dell’AGIP
Nucleare, Raffaele Girotti, Roma, 19 luglio 1960, ASE, coll. I. V. 4, udc. 280).
186
Per approfondimenti sulla nascita e sulle funzioni del CERN si vedano A. Albonetti, Energia nucleare e crisi energetica europea,
cit., pp. 96-98; L. Belloni, Sulla genesi del CERN, in «Storia contemporanea», cit., pp. 615-663. Per uno studio conciso sui risultati
scientifici raggiunti da questo istituto cfr. L. Maiani, Il ruolo della ricerca fondamentale, in Accademia Nazionale delle Scienze detta
dei XL, L’uso pacifico dell’energia nucleare da Ginevra 1955 ad oggi: il caso italiano, cit., pp. 41-49. Per un’analisi sull’evoluzione
degli studi sulla fisica delle particelle si veda M. Conversi, Evolution of particle physics, cit.
187
Per approfondimenti sulla nascita, sugli scopi e sui programmi dell’EURATOM si vedano, tra gli altri, A. Albonetti, Energia
nucleare e crisi energetica europea, cit., pp. 103-108; M. Dumoulin, M. Vaisse, P. Guillen, L’énergie nucléaire en Europe : des
origines a Euratom. Actes des journées d’études de Louvain-la-Neuve des 18 et 19 novembre 1991, Bern, 1994; O. Pirotte, Trente
ans d’expérience Euratom : la naissance d'une Europe nucléaire, Bruxelles, 1988.
188
Sulla CED, sull’azione diplomatica dell’Italia e sulla posizione del governo e delle Forze Armate italiane si vedano, tra gli altri,
A. Breccia, L’Italia e la difesa dell’Europa. Alle origini del piano Pleven, Roma, 1984; Id., L’Italia e le origini della Comunità
Europea di Difesa (CED), in G. Rossini (a cura di), De Gasperi e l’età del centrismo, Roma, 1984, pp. 243-257; D. Caviglia, A.
Gionfrida, Un’occasione da perdere. Le Forze Armate italiane e la Comunità Europea di Difesa (1950-54), Roma, 2009; D. Preda,
Storia di una speranza. La battaglia per la CED e la federazione europea nelle carte della delegazione italiana (1950-1952),
Milano, 1990; Id., Sulla soglia dell’unione. La vicenda della Comunità Politica Europea (1952-1954), Milano, 1993; Id., CPE e
integrazione europea: un’ipotesi interpretativa, in «Storia delle relazioni internazionali», XIII-XIV, 1998 - n. 2, 1999 - n. 1, pp. 117150; Id., De Gasperi, Spinelli e l’art. 38 della CED, in «Il Politico», LIV, 1989, n. 4, pp. 575-595; A. Varsori, Italy between Atlantic
Alliance and EDC, 1948-1955, in E. Di Nolfo (a cura di), Power in Europe?, vol. II, Great Britain, France, Germay and Italy and
the Origins of the EEC, 1952-1957, Berlino-New York, 1992, pp. 260-299; Id., L’europeismo nella politica estera italiana, in L.
Tosi (a cura di), L’Italia e le organizzazioni internazionali. Diplomazia multilaterale nel Novecento, Padova, 1999, pp. 392-415; Id.,
L’Italia fra Alleanza atlantica e la CED, in «Storia delle relazioni internazionali», IV, 1988, n. 1, pp. 125-165.
189
Per uno studio sulle vicende che portarono alla nascita dell’EURATOM e sulle difficoltà incontrate si vedano, tra gli altri, M. Elli,
A politically-tinted rationality: Britain vs. EURATOM, 1953-63, in «The journal of European Integration History», Vol 12, n. 1,
2006, pp. 105-124; L. Hubert, La politique nucléaire de la Communauté européenne (1956-1968) Une tentative de définition, à
travers les archives de la Commission européenne, in «The journal of European Integration History», vol. 6, n. 1, 2000, p. 129 e ss.;
F. Ippolito, L’EURATOM e la politica nucleare italiana, cit., pp. 20-45. Per un’analisi sui propositi dell’EURATOM si veda
Relazione sul Trattato EURATOM (Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari), gennaio 1957, Archivio del Dipartimento di Fisica
dell'Università di Roma “La Sapienza”, Fondo Edoardo Amaldi, Sezione Archivio Dipartimento di Fisica, Busta 175, European
Atomic Energy Society.
48
trattato istitutivo venne firmato nel marzo dell’anno seguente a Roma, contestualmente a quello
per il Mercato Comune190. Il progetto di una Comunità europea per lo sfruttamento delle
applicazioni pacifiche dell’energia nucleare si scontrò con i propositi militari francesi. La
Francia aveva già avviato un programma atomico nazionale e aspirava alla costruzione di un
impianto di separazione isotopica ritenuto necessario per poter disporre di una fonte sicura di
uranio arricchito del tipo U235, utilizzabile sia in ambito civile che militare. La realizzazione
dell’impianto era però molto onerosa come dimostrarono le pressioni esercitate da Parigi nel
corso dei negoziati191. Se analizzato da un punto di vista prettamente economico, il programma
francese risultava ingiustificato in quanto sarebbe stato più conveniente acquistare il
combustibile necessario direttamente dagli Stati Uniti. Dal punto di vista programmatico, invece,
oltre alle motivazioni politiche alla base delle volontà di Parigi, l’allestimento di un impianto di
separazione isotopica per produrre uranio arricchito avrebbe garantito un’autonomia globale in
virtù della disponibilità di carburante atomico che ne sarebbe derivata. Con un indirizzo simile si
creavano inoltre i presupposti per sviluppare anche un programma militare atomico. Tuttavia, le
potenziali conseguenze negative nel rapporto con gli Stati Uniti nel caso in cui Parigi avesse
beneficiato della scelta europea per rafforzare il proprio programma nucleare stimolarono la
resistenza degli altri partner. Si optò per la creazione di un Syndicat d’études con il solo compito
di redigere e di valutare il progetto per un eventuale allestimento di un impianto di separazione
isotopica192.
Il problema principale per i paesi europei riguardava la sicurezza e l’indipendenza
energetica in rapporto alle condizioni geografiche e politiche. Già a partire dal 1955 erano stati
infatti presentati numerosi studi sul tema dell’approvvigionamento, della dipendenza e della
190
La questione energetica in ambito europeo figurava anche nella terza parte del famoso “Rapporto Spaak” (dal nome del ministro
degli Esteri belga che aveva presieduto i lavori del Comitato intergovernativo istituito in seguito alle indicazioni della Conferenza di
Messina); questa sezione conteneva una serie di raccomandazioni sulle misure da prendere in quei settori considerati urgenti e, tra
questi, l’energia figurava al primo posto. Quando vennero firmati i trattati istitutivi della CEE e dell’EURATOM il 25 marzo 1957, i
sottoscriventi si impegnarono dunque a mettere a punto anche delle proposte in materia di politica energetica europea [per
approfondimenti si veda B. Curli, Le origini della politica energetica comunitaria, 1958-64, in M. Guderzo, M. L. Napolitano (a cura
di), Diplomazia delle Risorse, cit., p. 98]. Qualche mese più tardi si siglò un protocollo d’intesa segreto tra il Consiglio dei ministri
della CECA e l’Alta Autorità per cui quest’ultima venne incaricata di presentare al Consiglio delle proposte per avviare una politica
energetica comunitaria. La prima conseguenza pratica di questo protocollo fu la creazione di un “Comitato Misto Energia” che formò
il “Gruppo di Lavoro intersecutivi sull’Energia”. Il 22 aprile 1959 venne presentato un primo rapporto, seguito da un altro del 19
marzo 1960 contenente una serie di proposte per la realizzazione di un mercato comune dell’energia da sottoporre al Consiglio.
Queste diventeranno effettive dopo una risoluzione approvata dal Parlamento europeo del febbraio 1962 e la conseguente
deliberazione del Consiglio dei ministri dell’aprile successivo (ibidem, pp. 98-99). Per uno studio sulla posizione italiana in merito
alla nascita dell’EURATOM e alle sue politiche si vedano, tra gli altri, B. Curli, La tecnocrazia nucleare italiana e le origini
dell’EURATOM, in L. V. Majocchi (a cura di), Messina quarant’anni dopo: l’attualità del metodo in vista della conferenza
intergovernativa del 1996, Bari, 1996; Id., L’Italie et l’EURATOM : l’attitude des hauts fonctionnaires et des experts, in E. du Réau
(a cura di), Europe des élites, Europe des peuples. La construction de l'espace européen, Paris, 1998, pp. 277-289; Id., L’Italia e la
scelta nucleare europea, in «Storia delle Relazioni Internazionali», XIII, 2, 1998.
191
Cfr. L. Nuti, La sfida nucleare, cit., p. 120.
192
Per approfondimenti B. Curli, Il progetto nucleare italiano (1952-1964), cit., pp. 192-194; L. Nuti, La sfida nucleare, cit., pp.
120-131.
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scarsità di materie prime in Europa193 ma solo in seguito alla crisi di Suez194 le trattative
ricevettero una improvvisa accelerazione. Il rischio di un eventuale blocco delle forniture
energetiche provenienti dalle rotte navali del Medio Oriente imponeva agli europei di trovare al
più presto soluzioni alternative. A questo scopo rispondeva la nomina di un Comitato composto
da tre esperti di altissimo livello, il professore francese Louis Armand, il docente tedesco Franz
Etzel e l’italiano Francesco Giordani, i cosiddetti “Tre Saggi dell’EURATOM”, incaricati di
presentare un programma per l’installazione di centrali elettronucleari in Europa, quale punto
d’incontro fra l’esigenza di un approvvigionamento energetico sicuro e un costo sostenibile per i
paesi europei195. Si avviarono pertanto una serie di consultazioni sia all’interno dei Sei che con
gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Canada196 finché, nel maggio del 1957, il Comitato presentò
un rapporto, dal titolo “Un obiettivo per l’EURATOM”, che rappresentava un vero e proprio
manifesto programmatico del nuovo istituto atomico della Comunità. Il documento stabiliva che
la potenza elettronucleare da installare in Europa entro il '67 avrebbe dovuto raggiungere i
193
Tra gli studi presentati vi furono il “Rapporto Armand”, prodotto in sede OECE e pubblicato nel luglio 1955 e il “Rapporto
Hartley” del maggio 1956, anch’esso prodotto in sede OECE e immediatamente successivo a quello Spaak.
194
Sulla crisi di Suez e sulla politica americana in Medio Oriente si vedano, tra gli altri, G. Calchi Novati, Il canale della discordia.
Suez e la politica estera italiana, Urbino, 1998; D. De Luca, Fuochi sul Canale. La crisi di Suez, gli Stati Uniti e la ricerca di una
nuova politica in Medio Oriente, 1955-1958, Milano, 1999; Id., A. Donno, Eisenhower, Dulles and the U.S. Policy toward Israel and
the Middle East Crisis of 1956, in J. M. Nielson, Paths not Taken. Speculations on American Foreign Policy and Diplomatic History,
Interests, Ideals, and Power, New York, 2000, pp. 131-160; J. Georges-Picot, La véritable crise de Suez: fin d'une grande oeuvre du
XIXe siècle, Paris, 1975; M. H. Heikai, Cutting the lions tail: Suez through Egyptian eyes, London, 1986; P. Johnson, La Guerra di
Suez, Milano, 1957; C. C. Kingseed, Eisenhower and the Suez crisis of 1956, Baton Rouge, 1995; K. Kyle, Suez, London, 1991; G.
Lenczowski, The Middle East in World Affairs, Ithaca-London, 1980, pp. 716-723; W. S. Lucas, Divided we stand: Britain, the US
and the Suez crisis, London, 1991; D. Neff, Warriors at Suez: Eisenhower takes America into the Middle East, New York, 1981; G.
Peroncini, La guerra di Suez, Parma, 1986; A. Shlaim, The iron wall: Israel and the Arab world, New York-London, 2000, pp. 143185; D. Tal, The 1956 war: collusion and rivalry in the Middle East, London, 2001; H. Thomas, La crisi di Suez, Milano, 1969; S. I.
Troen, M. Shemesh, The Suez-Sinai crisis, 1956: retrospective and reappraisal, London, 1990.
195
Per approfondimenti si vedano, tra gli altri, B. Curli, L’Italie et l’EURATOM : l’attitude des hauts fonctionnaires et des experts,
in E. du Réau (a cura di), Europe des élites, Europe des peuples. La construction de l'espace européen, Paris, 1998, pp. 277-289; F.
Ippolito, Un progetto incompiuto. La ricerca comune europea: 1958-88, Bari, 1989, pp. 68-70.
196
Una delle prime riunioni avviate dai Tre Saggi si tenne a Parigi dal 21 al 23 gennaio '57. Il rapporto presentato da Armand così
riassumeva le scelte che la Comunità avrebbe dovuto compiere in campo nucleare: “Si prospetta[va]no due soluzioni: quella
dell’America che, avendo sufficienti risorse di energia classica, non s’immobilizza[va] sin da ora in un programma industriale e
moltiplica[va] gli studi e le ricerche per una gamma svariata di reattori, preparando gli strumenti dell’avvenire ed aprendo delle
concrete possibilità per la costruzione di reattori competitivi sul piano internazionale; quella della Gran Bretagna che, per l’esigenza
di integrare quanto più presto e possibile le sue risorse classiche, si [era] già impegnata in una via determinata di produzione
dell’energia atomica. Dato che la tecnica [era] in questo campo in piena evoluzione, [era] da domandarsi se i modelli di reattori già
realizzati per scopi industriali, come quelli inglesi, [rispondessero] veramente alle esigenze di una produzione economica. La scelta,
quindi, fra le due soluzioni si presenta[va] non facile: se si [seguiva] l’esempio inglese, si corre[va] il rischio di cominciare troppo
presto e di pagare troppo cara l’energia atomica; se si [preferiva] attendere gli ulteriori sviluppi della tecnica dei reattori, si corre[va]
il rischio di cominciare troppo tardi e trovare un’industria atomica già costituita sul piano internazionale, contro cui non [era]
possibile lottare. La scelta, conclude[va] Armand, non si [poteva] operare soltanto in base a considerazioni tecniche ma implica[va]
una vera e propria decisione politica” [Riunione dei Tre Saggi, Telespresso n. 01730 della Direzione Generale Affari Esteri, Ufficio
IV, del MAE alla Presidenza del Consiglio dei ministri, inviato al Ministero dei Lavori Pubblici, al Ministero dell’Industria e
commercio, al prof. Francesco Giordani, al Comitato Nazionale Ricerche Nucleari, alla Confederazione Generale Industria Italiana,
Roma, 2 febbraio 1957, ACS, Fondo CNR, Presidenza Giordani, Busta 9]. Dopo Parigi, un’altra tappa fondamentale per i Tre Saggi
fu l’incontro negli Stati Uniti con il presidente Eisenhower, il segretario di Stato, Foster Dulles, e il presidente della Commissione
dell’energia atomica, Strauss. Le riunioni portarono a una comunicazione congiunta dell’8 febbraio 1957 mediante la quale le
autorità americane si impegnavano a dare tutto il loro supporto alle iniziative europee nel campo dell’energia nucleare (cfr.
Communique conjoint de Département d’état, de la Commission pour l’Energie Atomique et du comité des Sages, 8 febbraio 1957,
Secrétariat du “Comité des Sages”, ibidem). Stesso risultato si ebbe con la visita dei Tre Saggi in Gran Bretagna (cfr. Communique
publie conjointement par “The United Kingdom Atomic Energy Authority” et le Comité des trois Sages de l’EURATOM, 1 marzo
1957, Secrétariat du “Comité des Sages”, ibidem).
50
15.000 MW, attraverso la costruzione di circa cento nuovi impianti nucleari di medie
dimensioni197.
Il processo di cooperazione si avvalse inoltre di un altro organismo nato in ambito OECE
sempre nel '57: l’Agenzia Europea per l’Energia Nucleare198 che aveva come scopo la
costituzione di aziende nucleari comuni aperte a tutti i membri e il coordinamento dei progetti
esistenti199. Sebbene la crisi di Suez fosse alla base dei principali progetti europei per la
cooperazione nel settore nucleare, in realtà l’episodio dimostrò come l’Europa poteva essere
considerata ancora impermeabile alle ripercussioni derivanti dai fragili equilibri mediorientali. Il
mercato internazionale petrolifero aveva infatti manifestato in quell’occasione un’eccezionale
flessibilità e un’efficienza tranquillizzante, al punto che le preoccupazioni sulla sicurezza
energetica comunitaria non sembrarono più condizionate da fattori geopolitici. La disponibilità
di energia in Europa rimase talmente abbondante che l’urgenza di una politica nucleare
comunitaria a breve termine nel settore delle applicazioni pacifiche, presente durante tutti gli
anni Cinquanta, si andò lentamente smorzando nel decennio successivo. Questa nuova
percezione, secondo l’interpretazione di Barbara Curli: “[era dovuta] anche alla convinzione –
che si dimostrerà largamente fondata – che l’energia atomica non sarebbe stata competitiva
ancora per lungo tempo, almeno fino al 1980, quando, secondo le previsioni, non avrebbe
comunque dovuto coprire oltre il 30% della produzione energetica comunitaria. Inoltre, e più
importante, come sottolineava un Memorandum della Commissione EURATOM del febbraio
1960, […] lo sviluppo dell’energia nucleare era sempre meno percepito come una questione
«europea» […], ma come un’evoluzione che sarebbe dipesa fondamentalmente dalle politiche
pubbliche «nazionali», e in particolare da scelte strategiche industriali, più che da priorità
energetiche”200.
L’idea di avviare una politica energetica comunitaria fondata sullo sviluppo degli studi
sul nucleare restava comunque una necessità irrinunciabile, come indicava l’accordo per gli usi
pacifici dell’energia atomica fra l’EURATOM e gli Stati Uniti del maggio-giugno 1958201. Gli
197
Cfr. F. Ippolito, Un progetto incompiuto. La ricerca comune europea: 1958-88, cit., p. 69.
Per approfondimenti sulla nascita e sugli scopi dell’AEEN, che a partire all’aprile '72 grazie all’ingresso del Giappone perse la
sua connotazione essenzialmente europea assumento la generica denominazione di Agenzia per l’Energia Nucleare (AEN), si veda A.
Albonetti, Energia nucleare e crisi energetica europea, cit., pp. 99-103.
199
La collaborazione in ambito OECE nel 1957 si concretizzò con la realizzazione di ben tre progetti: il reattore di Halden in
Norvegia, quello Dragon a Winfrich, in Gran Bretagna, e lo stabilimento Eurochemic di Mol, nel Belgio (per ulteriori
approfondimenti si veda B. Goldschmidt, Il nucleare: storia politica dell’energia nucleare, Napoli, 1986, pp. 281-282).
200
B. Curli, Le origini della politica energetica comunitaria, 1958-64, in M. Guderzo, M. L. Napolitano (a cura di), Diplomazia
delle Risorse, cit., pp. 104-105. Per approfondimenti sulla situazione generale del mercato petrolifero si vedano J. G. Clark, The
political economy of world energy: a twentieth-century perspective, cit., p. 187 e ss.; N. J. D. Lucas, Energy and the European
Communities, cit., p. 50 e ss.
201
Cfr. Accord de coopération entre la Communauté Européenne de l’Énergie Atomique (EURATOM) et le gouvernement des ÉtatsUnis d’Amérique concernant les utilisations pacifiques de l’énergie atomique, Bruxelles, 29 maggio 1958, Washington, 19 giugno
1958, in «Journal Officiel des Communautés Européennes», 19 marzo 1959, II, n. 17. Il 3 e 4 novembre del '59 si tenne a Londra
anche una tavola rotonda sui problemi energetici dell’Europa; Felice Ippolito vi partecipò in qualità di segretario generale del CNRN
198
51
studi per una cooperazione settoriale europea iniziarono però a concentrarsi su un’altra questione
che diverrà centrale da quel momento in poi: la necessità di garantire a tutti i paesi europei una
energia a costi accettabili202. Questa nuova prospettiva si tradusse nei primi anni Sessanta nella
ricerca di una vera e propria politica energetica comunitaria203. Il 20 febbraio 1962 il Parlamento
europeo votò una risoluzione che elencava i principi su cui si sarebbe dovuta incardinare l’azione
dei Sei: approvvigionamento delle fonti primarie a buon mercato e loro progressiva sostituzione,
stabilità a lungo termine del rifornimento, libera scelta del consumatore e unità del mercato
comune204. Sulla base dell’iniziativa del Parlamento europeo, il Consiglio dei ministri del 5
aprile diede mandato al “Comitato intersecutivi Energia” di formulare delle proposte concrete
che in giugno presero forma nel “Memorandum sulla politica energetica”, primo reale progetto
nel quadro della ricerca di una politica energetica comune205.
2.3. Le prime centrali nucleari italiane
In Italia l’avvio di queste collaborazioni internazionali diede nuovo l’impulso a tutte
quelle iniziative volte a colmare il ritardo accumulato negli anni precedenti. In quest’ambito
rientrava la presentazione da parte di Villabruna, La Malfa e Lombardi di una proposta di legge
sulla produzione e sull’utilizzazione dei combustibili nucleari. All’interno del progetto si
prospettava l’urgente necessità di ricorrere “ad altre fonti di energia per assicurare negli anni
futuri la soddisfazione dei fabbisogni energetici [italiani] e così la base del[lo] sviluppo
economico. [Era] in questo quadro che [doveva] considerarsi tra noi, come negli altri paesi
e presentò un’interessantissima relazione dal titolo “Il ruolo dell’energia nucleare nella coordinazione delle politiche energetiche
europee” (cfr. Il ruolo dell’energia nucleare nella coordinazione delle politiche energetiche europee, rapporto del prof. Felice
Ippolito, Londra, 3-4 novembre 1959, ASE, coll. I. V. 3, udc. 279).
202
Sui cambiamenti intervenuti nel mercato petrolifero internazionale alla fine degli anni Sessanta si vedano J. G. Clark, The
political economy of world energy: a twentieth-century perspective, cit., p. 124-129; E. B. Kapstein, The Insecure Alliance: Energy
Crises and Western Politics since 1944, cit., pp. 127-128. Per approfondimenti sull’evoluzione dell’energia nucleare nello stesso
periodo si veda D. Burn, The political economy of nuclear energy: an economic study of contrasting organisations in the UK and
USA, with evaluation of their effectiveness, London, 1967.
203
Molto interessante in proposito il giudizio espresso da Mattei al XII° Convegno Nazionale degli Ingegneri del 13 maggio '60. Il
presidente dell’ENI nella sua relazione analizzò tutti gli “schemi e [le] proposte per un «coordinamento» delle politiche energetiche
della Comunità sulla base di un «prezzo orientativo»” e sottolineò il fatto che queste proposizioni erano ancora “embrionali” e si
poteva pertanto esprimere un giudizio solo sulla loro interpretazione. “Se per prezzo di orientamento della energia si intende[va]
quello che misura[va] il costo marginale del suo approvvigionamento, in condizioni di libera contrattazione, noi non [potremmo],
credo, che dichiararci fautori di un tal prezzo, da cui purtroppo la realtà del mercato europeo dell’energia si discosta[va] ancora
notevolmente. Se invece sotto tale formula si [voleva] intendere il congelamento delle condizioni di concorrenza tra le fonti
energetiche attraverso un prezzo «regolato» a un livello superiore a quello che la libera concorrenza tra le varie fonti [avrebbe
instaurato], allora io credo che dovremmo dichiarare nei termini più netti il nostro dissenso. […] Nessuna politica che [avesse] per
risultato di orientare i consumi energetici in modo da rendere più care le fonti attualmente più convenienti o da impedire un ulteriore
abbassamento del prezzo, [poteva] essere accettata dal nostro Paese” (Le fonti di energia nel mercato comune, Enrico Mattei, Milano,
13 maggio 1960, ASE, coll. BB. II. 2, udc. 440).
204
Cfr. Gazzetta Ufficiale della Comunità Europea del 16 marzo 1962.
205
Cfr. B. Curli, Le origini della politica energetica comunitaria, 1958-64, in M. Guderzo, M. L. Napolitano (a cura di), Diplomazia
delle Risorse, cit., pp. 112-113.
52
europei […] il problema dell’utilizzazione dell’energia nucleare”206. Il documento indicava due
strade alternative per lo sviluppo di un’industria nucleare italiana:
“a) quella di impianti per la diretta utilizzazione di uranio 235 per la produzione di energia
elettrica; b) quella di impianti plutogeni che [utilizzassero] inizialmente uranio naturale per la
produzione di energia elettrica e [riutilizzassero] poi allo stesso fine il plutonio prodotto nei
reattori”.
La prima soluzione era indubbiamente più rapida ma dipendeva strettamente dalla
quantità di uranio 235 che gli Stati Uniti erano disposti a fornire e che, nel complesso, appariva
decisamente modesta. La seconda strada, dunque, era l’unica che poteva offrire una serie di
vantaggi:
“[Essa poteva] effettivamente assicurare una produzione di energia elettrica per via nucleare
[sopperendo alla carenza di uranio 235]; permette[va] un’effettiva formazione di ricercatori ed
esperti nazionali; [garantiva] lo stimolo […] a tutta la nostra industria, date le ripercussioni
indette di un programma di sviluppo dell’industria nucleare che [partiva] dall’uranio naturale e
che, come tale, [avrebbe mobilitato] tutta la nostra economia, dal campo minerario a quello della
metallurgia a quello meccanico ai numerosissimi settori affini (quali innanzi tutto quello
elettronico)”207.
A questo proposito, i proponenti del progetto di legge ammonivano che spettava solo allo
Stato italiano, così come accadeva in ogni altro paese, sia il compito di scegliere tra le due strade
suggerite per lo sviluppo di un’industria nucleare nazionale, che l’onere di partecipare
direttamente al controllo della successiva produzione di combustibili atomici:
“La seconda via non [poteva] essere percorsa che da un ente pubblico ed [era] d’altra parte e
preliminarmente solo allo Stato che [poteva] spettare la scelta tra le due vie indicate. [Veniva
dunque previsto] il monopolio statale solo in due campi: a) quello della produzione di
206
Proposta di legge d’iniziativa dei Deputati (Villabruna, La Malfa e Riccardo Lombardi) sulla produzione e utilizzazione dei
combustibili nucleari, 16 luglio 1957, ACS, Carte Ugo La Malfa, Serie 2, Attività politica, Busta 10. Il documento proseguiva
denunciando che “di fronte all’urgente necessità di disporre già a partire dal 1961 di energia elettrica per via nucleare […] sta[va]
invece la tragica arretratezza del nostro paese in questo settore, che pure si riporta[va] a scoperte e invenzioni che porta[vano] nomi
italiani, nomi di scienziati che l’assurda politica del ventennio fascista costrinse a lasciare il suolo d’Italia colpendo con boriosa
stupidità le stesse radici del nostro progresso economico. […] Il problema che l’utilizzazione dell’energia nucleare pone[va] al nostro
paese [era] quello di non perdere il treno della seconda rivoluzione industriale ormai in corso, così come arretratezza di strutture
economiche e giuridiche fece perdere al nostro paese nel sec. XIX il treno della prima rivoluzione industriale. L’arretratezza della
nostra situazione nel settore nucleare si esprime[va] innanzi tutto nel numero estremamente modesto di nostri ricercatori e tecnici in
questo campo, modestia che si riflette[va] poi in un generale arretramento comparativo di tutta la nostra cultura scientifica e tecnica,
con conseguenze i cui effetti [potevano] farsi sentire lungo numerosi decenni” (ibidem).
207
Ibidem.
53
combustibili nucleari speciali; b) quello della produzione di energia elettrica per via nucleare.
[…] La sfera così riservata al pubblico monopolio [era] quella che si riscontra[va] in tutte le
legislazioni, compresa, in sostanza, l’americana, perché non c’[era] finora legislazione che
all’inizio del processo di sviluppo dell’industria nucleare […], non [avesse] fatto capo alla mano
pubblica, né si [poteva] al riguardo ricorrere a una storia fatta di «se» ritenendo che ciò [era]
208
dovuto solo a esigenze militari”
.
Ciò che Villabruna, La Malfa e Lombardi chiedevano era in definitiva l’istituzione di un
“ente pubblico […] per la produzione di combustibili nucleari speciali e di energia elettrica in via
nucleare” a cui decisero di proporre il nome di “Istituto per l’Energia Nucleare”209.
In questo quadro si svolsero anche le discussioni, già accennate in precedenza, sulla
possibilità di creare un unico ente statale per la gestione di tutte le fonti energetiche e
sull’eventualità di trasferire la responsabilità del nucleare direttamente all’ENI, senza dover
creare un istituto con personalità giuridica ex novo210. Per questo l’AGIP Nucleare portò avanti
una serie di progetti, fra cui l’avvio di una cooperazione diretta nel campo dei reattori a gas con
l’EURATOM, che fino a quel momento non aveva mostrato interesse verso ipotesi di questo
genere211.
Sempre allo scopo di accelerare l’utilizzazione dell’energia nucleare, si rilanciò il
progetto, già intrapreso nel '55, di costruire un reattore nucleare a Ispra acquistando la fornitura
necessaria dall’American Car & Foundry. Il compito di provvedere alla prosecuzione del piano
si affidò al CISE, seppur con il finanziamento del CNRN e il supporto di alcuni suoi membri.
Anche in questa circostanza affiorarono contrasti tra le due organizzazioni italiane e, di
conseguenza, il CNRN decise nel settembre del 1957 di portare avanti il progetto escludendo il
CISE e provocando una rottura definitiva212. Il Comitato costituì dunque una nuova società per
azioni, la NUCLIT, che si occupò di completare la realizzazione del reattore sperimentale
integrando buona parte dei tecnici del CISE. Quest’ultimo ne uscì svuotato sia per quanto
concerneva il personale specializzato che sulla realizzazione dell’impianto di Ispra che si costruì
effettivamente nel '59 e rappresentò il primo reattore di ricerca italiano.
L’altro progetto per la realizzazione di una centrale nucleare era stato avanzato dalla
Edison nel 1954, con la costituzione, nel dicembre successivo, della società SELNI a cui
partecipavano, mediante una sottoscrizione paritaria, anche la SADE, la Romana, la Selt-
208
Ibidem.
Ibidem.
210
Cfr. Appunto interno all’ENI (non firmato), ASE, coll. BG. III. 6, udc. 2.
211
Cfr. Riunione AGIP Nucleare–EURATOM, tenutasi ad Ispra il 23 agosto 1960, ASE, coll. I. V. 4, udc. 280.
212
Per approfondimenti si veda G. Paoloni (a cura di), Energia, ambiente, innovazione: dal CNRN all’ENEA, cit., pp. 29-32.
209
54
Valdarno, la SGES e la IRI-Finelettrica (quest’ultima, a sua volta, con la presenza della SME,
della SIP, della Terni e della Trentina). Nell’aprile del '56 questi gruppi di proprietà pubblica di
separarono creando una nuova azienda: la Società elettronucleare nazionale. All’interno della
SELNI, dopo varie vicissitudini tecnico-politiche, la Edison riuscì a sottoscrivere un accordo con
la Westinghouse per la fornitura di un reattore a uranio arricchito, moderato con acqua ordinaria
e raffreddato a acqua pressurizzata; la potenza inizialmente prevista era di centotrentaquattro
megawatt, poi aumentata nel corso del tempo fino a raggiungere i duecentosettanta megawatt213.
I lavori per la costruzione della centrale a Trino Vercellese iniziarono nel 1961 e si conclusero
nel giro di tre anni214.
La SENN si pose invece come obiettivo la realizzazione di un impianto nucleare al
sud
215
. Con lo stesso intento, nel '56 l’ENI creò la Società italiana meridionale per l’energia
atomica, il cui capitale era diviso tra l’AGIP Nucleare (settantacinque percento) e l’IRI. L’Ente
Nazionale Idrocarburi decise di realizzare un reattore di tecnologia inglese a gas grafite
alimentato con combustibile a uranio naturale metallico, firmando con la Nuclear Plant Power
Company un accordo nel maggio del 1958. L’impianto della potenza di duecento megawatt si
realizzò a Foce Verde, presso Latina, in soli quattro anni. Questa centrale fu la prima a entrare in
funzione in Italia e si dotò del più grande reattore europeo dell’epoca216.
Un terzo progetto venne appoggiato e finanziato dalla Banca internazionale per la
ricostruzione e lo sviluppo che propose al governo italiano di studiare l’ipotesi di avviare la
costruzione di un impianto nucleare217. Nel luglio del '57 la BIRS, attraverso la Cassa del
Mezzogiorno, concesse, per la prima volta nella sua storia, un prestito di quaranta milioni di
dollari per lo sviluppo dell’energia nucleare a scopi pacifici. Al fine di valutare le offerte dei
fornitori per l’acquisto del reattore venne creato un Comitato direttivo composto da Corbin
213
Cfr. G. Paoloni, Gli esordi del nucleare, cit., p. 398.
Per un’analisi dei problemi che la SELNI dovette fronteggiare prima di ottenere la definitiva autorizzazione alla realizzazione del
progetto si veda L. De Paoli, Programmi di investimento e novità tecniche, cit., pp. 223-227. Particolarmente interessante fu, ad
esempio, il tentativo di ostacolare un finanziamento consistente da parte dell’Export-Import Bank ad opera del ministro
dell’Industria, Guido Cortese, dietro le forti pressioni di Felice Ippolito e del CNRN. La centrale di Trino Vercellese passò
successivamente sotto il controllo dell’ENEL in applicazione della legge sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica.
215
Ibidem, pp. 223-224.
216
Per approfondimenti si vedano ibidem, pp. 229-231; F. Ippolito, L’Italia e l’energia nucleare: cronache di cinque anni, cit., pp.
190-214. A proposito della centrale di Latina, nel 1961, sulla base di una collaborazione tra l’AGIP Nucleare e l’EURATOM,
quest’ultima vide con particolare preoccupazione la possibilità che la società del gruppo ENI si orientasse verso una fornitura
francese di elementi di combustibile. In particolare, “essendo Latina produttrice di plutonio, l’EURATOM [aveva] una certa
apprensione (diciamo politica), dati i programmi militari francesi in contrapposto agli scopi strettamente pacifici dell’EURATOM”. I
francesi avevano infatti rifiutato il controllo dell’organismo europeo sugli impianti nazionali di riprocessamento (Lettera
dell’osservatore presso la CEE dell’AGIP Nucleare, Piero De Peverelli, al Direttore Generale dell’AGIP Nucleare, Mario
Campanini, Bruxelles, 23 maggio 1961, ASE, coll. I. V. 4, udc. 280).
217
Sulle proposte che i rappresentanti della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo si avviavano a fare all’Italia per la
costruzione di una nuova centrale elettronucleare si veda Riunione della BIRS in Italia per il progetto di finanziamento di impianti
elettronucleari, Telespresso n. 03754 della Direzione Generale Affari Esteri, Ufficio IV, del MAE indirizzato alla Presidenza del
Consiglio dei ministri, al Ministero dell’Industria e Commercio, al Comitato Nazionale Ricerche Nucleari, alla DGAE, Ufficio I del
MAE, 8 marzo 1957, ACS, Fondo CNR, Presidenza Giordani, Busta 9.
214
55
Allardice, esperto nucleare della BIRS, e da Felice Ippolito. Il progetto, che prese il nome di
Energia Nucleare Sud Italia218, venne affidato alla SENN per la sua realizzazione e, nel
settembre '58, forse per controbilanciare la scelta inglese dell’ENI, si preferì acquistare un
reattore a uranio arricchito, moderato e raffreddato a acqua bollente, prodotto dalla General
Electric. La centrale, costruita a Punta Fiume, nel Garigliano, disponeva di una potenza di
centosessanta megawatt e entrò in funzione nel '64219.
I tre programmi per la realizzazione di altrettante centrali nucleari furono giudicati
diversamente dall’opinione pubblica italiana; le polemiche, in particolare, si intrecciarono con i
dibattiti sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica visto che gli impianti erano stati concepiti
per produrla. C’era, ad esempio, chi criticava la quantità degli investimenti elargiti a paragone
del costo effettivo del prodotto finale rispetto all’economicità dell’elettricità ottenuta da altre
fonti primarie; altri obiettavano sulla localizzazione degli impianti ritenuta troppo favorevole al
Mezzogiorno. Vi era, inoltre, chi chiedeva a gran voce una legislazione ad hoc che ancora
tardava a arrivare e che avrebbe dovuto stabilire, tra l’altro, dei controlli adeguati per l’intero
settore; e vi erano, infine, coloro che denunciavano lo scarso coordinamento fra i progetti in
corso. Molte critiche, tuttavia, erano strumentali rispetto ai contrapposti interessi politici in
gioco.
2.4. Dal CNRN al CNEN
Anche se all’interno del CNRN operavano una serie di commissioni con compiti diversi,
l’attività centrale dell’ente consisteva nella ricerca applicata. In questo contesto, il risultato
principale fu la realizzazione del centro di Ispra, ultimato nel 1959 e ceduto quasi subito
all’EURATOM perché divenisse uno dei centri comuni di ricerca previsti dagli accordi
costitutivi del '57. Durante il 1958 si era inoltre iniziata la realizzazione di un altro centro di
ricerche nucleari a Casaccia, nei pressi di Roma dove si concentrarono, fra le altre, tutte le
attività del settore chimico, elettronico e radiobiologico e dove si indirizzarono molti programmi
di ricerca avviati a Ispra e trasferiti dopo l’assegnazione all’EURATOM. Nel luglio del '60 si
istituì a Bologna un nuovo centro destinato a amministrare i grandi mezzi di calcolo del CNRN e
le attività connesse220. L’obiettivo principale perseguito dalla ricerca applicata riguardava la
218
Per approfondimenti si vedano B. Curli, Energia nucleare per il Mezzogiorno: l’Italia e la Banca Mondiale, 1955-1959, in «Studi
Storici», 37, 1996, n. 1; F. Ippolito, L’EURATOM e la politica nucleare italiana, cit., pp. 61-65; A. R. Rigano, La Banca d’Italia e il
progetto ENSI, cit. Per un’analisi dei verbali delle varie riunioni e delle proposte sulla collaborazione con la BIRS e l’elaborazione
del progetto ENSI si vedano i verbali e le relazioni presenti su questo argomento in ACS, Fondo CNR, Presidenza Giordani, Busta 9.
219
Cfr. A. R. Rigano, La Banca d’Italia e il progetto ENSI, cit., pp. 227-229.
220
Cfr. G. Paoloni, Gli esordi del nucleare, cit., p. 401
56
realizzazione di un progetto per la costruzione di impianti nucleari di fabbricazione interamente
italiana, al termine di un processo di acquisizione delle conoscenze idonee. In questo caso,
costruendo tutti i componenti di una centrale nucleare l’Italia avrebbe potuto ridurre i costi e
conseguire più rapidamente una competitività energetica adeguata per sopperire al crescente
fabbisogno nazionale. Si decise, pertanto, di costruire un “reattore dimostrativo” prodotto
interamente da ricercatori italiani; il piano prese il nome di Progetto reattore organico221 e vi
collaborarono l’AGIP Nucleare e la SORIN, nata dalla cooperazione tra la Montecatini e la
FIAT. Un altro piano per la realizzazione di reattori nazionali venne portato avanti dal CISE: il
progetto, nato agli inizi degli anni Sessanta, venne denominato CIRENE e rappresentò, dopo la
chiusura di quello PRO nel '64, il solo programma di ricerca italiano per la realizzazione di un
reattore nazionale.
Mentre altre iniziative nel campo della ricerca applicata proseguivano nel quadro della
collaborazione europea, in Italia il dibattito iniziò a spostarsi sull’annoso problema dell’assenza
di una legislazione nazionale complessiva per il settore nucleare; una questione che si andava
sempre più acuendo in parallelo con i progressi della nazionalizzazione elettrica. Il timore era
sempre lo stesso: la statalizzazione estesa al nucleare e lo smantellamento di tutte le iniziative
private che avevano rappresentato, almeno nei primi anni, il vero fulcro delle ricerche
sull’atomo. Tutti i tentativi volti a evitare che ciò accadesse fallirono e le risorse disponibili
divennero sempre più scarse al punto che nel 1959 il CNRN affrontò una nuova crisi finanziaria
alleggerita solo da ulteriori stanziamenti statali222. Aiuti economici saltuari senza una reale
programmazione nazionale apparivano però sempre più insufficienti dal momento che il
Comitato si era trasformato, con il passare degli anni, in un imponente centro di ricerca provvisto
di un importante patrimonio tecnico-scientifico. Per queste motivazioni il ministro dell’Industria
e Commercio, Emilio Colombo, nel gennaio '60 presentò al Senato il disegno di legge n. 940 con
il quale proponeva di dare personalità giuridica al CNRN e di fissare una concreta disciplina
legislativa per gli impianti nucleari. La proposta mirava all’istituzione di un ente di diritto
pubblico dotato di ampi poteri e di mezzi adeguati a stimolare le attività di ricerca.
Ciononostante, l’iniziativa lasciava in sospeso la controversia relativa al tipo di regime da
applicare agli impianti nucleari. Il Parlamento, dal canto suo, decise di approvare uno stralcio del
221
Per un’analisi su tutte le riunioni e le discussioni circa la realizzazione del PRO, la localizzazione scelta e le collaborazioni
avviate si vedano i vari verbali e le relazioni presenti su questo argomento in ASE, coll. I. V. 3, udc. 279.
222
Tra le normative che stanziarono nuovi aiuti finanziari al CNRN figuravano: la legge n. 19 del 5 febbraio 1957 di tre miliardi e
cinquecento milioni di lire; la legge n. 357 del 23 marzo 1958 di quindici miliardi e settecentoquaranta milioni; la legge n. 74 del 19
febbraio 1960 di cinque miliardi.
57
disegno di legge che, in risposta alle urgenti impellenze economiche, stanziava un impegno di
spesa quinquennale per le ricerche nel settore nucleare pari a ottanta miliardi di lire223.
L’onere dell’investimento pubblico lasciava intravedere il peso che il governo aveva in
mente di attribuire al settore. In questo quadro, con la legge n. 933 dell’11 agosto 1960, si istituì
il Comitato nazionale energia nucleare224, ente di diritto pubblico, in sostituzione del CNRN,
presieduto direttamente dal ministro dell’Industria, Commercio e Artigianato e retto da una
Commissione direttiva. Quale segretario generale si confermò Felice Ippolito225, mentre la
Commissione direttiva risultava composta dal sen. Basilio Focaccia (vicepresidente), Edoardo
Amaldi, Bruno Ferretti, Vincenzo Caglioti, Arnaldo Maria Angelini, Guido Giorgi (direttore
generale della produzione industriale), Vittorio Marchese (direttore generale dell’istruzione
superiore) e Carlo Salvetti226. Nonostante il cospicuo finanziamento già erogato, all’indomani
dell’entrata in funzione del nuovo Comitato le richieste di intervento statale a favore delle
centrali elettronucleari in costruzione continuarono incessanti. Il 13 maggio '61 il ministro per le
Partecipazioni statali, Giorgio Bo, indirizzò una lettera al ministro dell’Industria, Commercio e
Artigianato, Emilio Colombo, sottolineando “la necessità che lo Stato, al pari di altri Paesi
nuclearmente più progrediti, [intervenisse] con adeguati contributi a favore delle […] imprese
[italiane] operanti nello specifico settore elettronucleare […] tenuto conto che tutte le iniziative
nel settore nucleare [perseguivano] in sostanza un fine d’interesse pubblico, in quanto esse
[rispondevano], tra l’altro, alle esigenze di tenere il passo con gli altri Paesi, di formare e
mantenere addestrata una classe di tecnici specializzati, di favorire la conoscenza e lo sviluppo
presso l’industria nazionale delle tecniche relative alla costruzione degli impianti
elettronucleari”227.
223
Per approfondimenti sulle fasi che portarono alla nascita del CNEN e sui risultati del primo programma quinquennale si veda G.
Medici, Rapporto sull’energia nucleare in Italia, Roma, 1964, pp. 15-39. Per il testo degli articoli del disegno di legge n. 940, del 30
gennaio 1960 cfr. Disegno di legge sull’istituzione del CNEN, ACS, Fondo Ministero Partecipazioni Statali, DGAE, Serie
Energetiche, Busta 4.
224
I dibattiti parlamentari sulla costituzione di un soggetto di diritto pubblico che regolamentasse l’intero settore nucleare italiano
risalivano almeno al marzo del 1958 quando in Senato era in discussione il cosiddetto progetto di legge Gava, n. 2315 sull’istituzione
proprio del Comitato nazionale energia nucleare. Durante quei giorni Felice Ippolito inviò infatti una lettera a Ugo La Malfa in cui
chiese il sostegno di quest’ultimo: “Sarebbe [stato] […] altamente augurabile che un Senatore amico, affiancandosi al Senatore
Carmagnola del PSDI (che farà analoga proposta), [avesse insistito] per l’immediata approvazione del puro stralcio finanziario del
Disegno di Legge n. 2315” (Lettera di Felice Ippolito a La Malfa, 10 marzo 1958, ACS, Carte Ugo La Malfa, Serie 1, Atti e
corrispondenza, Busta 3). Per il testo della legge n. 933 dell’11 agosto 1960 che istituì il CNEN si veda Gazzetta Ufficiale della
Repubblica italiana del 6 settembre 1960, Parte Prima, ACS, Fondo CNR, Presidenza Polvani, Busta 20.
225
Per una testimonianza diretta si veda F. Ippolito, La politica del CNEN (1960-1963), Milano, 1965.
226
Cfr. Verbale della prima riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 10 dicembre 1960, p. 1, ASENEA. Durante
questa prima riunione si espresse anche il parere positivo per un accordo di collaborazione tecnica tra il CNEN e la Commissione
Jugoslava per l’Energia Nucleare, rilevando il reciproco interesse per la cooperazione nella realizzazione dei programmi nel campo
dell’utilizzo dell’energia nucleare a fini pacifici (cfr. ibidem, p. 7). Una collaborazione simile si avviò successivamente con la
Commissione Ellenica per l’Energia Atomica nei campi della ricerca fondamentale e applicata, nello studio sulle materie prime
nucleari, delle applicazioni dei radioisotopi, della protezione sanitaria e della produzione di energia nucleare (cfr. Verbale della
quinta riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 31 ottobre 1961, pp. 8-9, ibidem).
227
Richiesta di intervento statale per le centrali elettronucleari di prima generazione, lettera del Ministero delle Partecipazioni
Statali, Servizio per gli Affati Economici, Divisione VII (firmata dal ministro Giorgio Bo) al Ministero dell’Industria, Commercio e
Artigianato, Roma, 13 maggio 1961, ACS, Fondo Ministero Partecipazioni Statali, DGAE, Serie Energetiche, Busta 4. Le
58
Nel tentativo di risolvere la questione venne convocata una riunione il 7 febbraio 1962
presso la Direzione Affari Generali ed Energia del Ministero dell’Industria. Il punto di partenza
della discussione era il recente provvedimento dell’EURATOM relativo alla concessione di un
contributo, pari a sette milioni di dollari, a favore della SENN (dei quali tre destinati ai rischi di
avviamento e i restanti quattro per l’acquisto del combustibile occorrente al secondo nocciolo) e
di quattro milioni di dollari a favore della SIMEA per il solo acquisto del combustibile. Su
proposta di Albonetti, in rappresentanza del CNEN, si decise di inquadrare l’intera questione dei
finanziamenti necessari per lo sviluppo delle centrali elettronucleari in costruzione sia dal punto
di vista tecnico che economico228. Nella successiva riunione interministeriale del 21 marzo la
proposta di un contributo a favore delle centrali elettronucleari italiane venne resa ufficiale229.
Tutte le discussioni, unite alla recente istituzione del CNEN, costituirono la premessa
all’approvazione di una legislazione che regolamentava in toto le attività nel settore nucleare.
Con il varo della legge n. 1860 del 31 dicembre 1962, immediatamente successiva alla
nazionalizzazione dell’energia elettrica e alla nascita dell’ENEL, il CNEN, oltre a promuovere
ricerche, esercitò, da quel momento in poi, anche il controllo su tutte le attività nucleari
nazionali. L’ambiziosa programmazione presentata dal nuovo Comitato ad opera di Felice
Ippolito prevedeva lo sviluppo della ricerca applicata su ben quatto tipi diversi di reattori: il
primo a acqua bollente, il secondo moderato da sostanze organiche, il terzo raffreddato a metalli
liquidi e il quarto refrigerato da gas a altissima temperatura230.
3. La politica petrolifera di Mattei231
L’operato svolto dal commissario straordinario dell’AGIP, Enrico Mattei, incaricato
ufficialmente di porre la società in liquidazione, portò, come visto, a accertare l’esistenza di
importanti giacimenti di idrocarburi nella Valle Padana. Di fronte a questa scoperta, nonostante
le forti pressioni esterne di coloro che volevano accelerare l’iter burocratico che avrebbe
condotto alla fine dell’Azienda Generale Italiana Petroli e approfittare delle recenti scoperte
sovvenzioni pubbliche, nello specifico, dovevano comprendere sia contributi sulla potenza installata nelle centrali elettronucleari che
apporti sull’energia prodotta dalle centrali.
228
Cfr. Appunti sulla riunione del 7/2/1962 presso il Ministero Industria - Direzione Affari Generali ed Energia, (Mario Cometto
della SENN), Roma, ACS, Fondo Ministero Partecipazioni Statali, DGAE, Serie Energetiche, Busta 4.
229
Cfr. Proposta di un contributo a favore delle centrali elettronucleari di prima e seconda generazione - Riunione interministeriale
del 21 marzo 1962, Ministero delle Partecipazioni statali, Servizio Affari Economici, Divisione VII, Roma, 14 aprile 1962, ibidem.
230
A questi era da aggiungere il reattore a acqua pesante e uranio naturale del progetto CIRENE.
231
Sulla figura di Enrico Mattei esiste già una cospicua bibliografia che si è concentrata principalmente sull’analisi della sfida
lanciata dal presidente dell’ENI allo strapotere delle grandi compagnie petrolifere partendo dal presupposto che la sua morte sia stata
opera di un complotto internazionale. La maggior parte degli studi risultano pertanto condizionati da queste ipotesi e appaiono carenti
di quella oggettività scientifica che dovrebbe essere il punto di partenza di un’analisi storica. In questa sede ci si limiterà a fare un
excursus storico degli avvenimenti.
59
effettuate, prevalse la linea favorevole allo sfruttamento delle risorse petrolifere per il solo
fabbisogno nazionale. Il dibattito pubblico e parlamentare fu molto acceso: ci si interrogò
sull’opportunità di intervenire in questo settore attraverso un monopolio pubblico oppure
creandone uno privato. Il ministro delle Finanze, Ezio Vanoni, scelse la strada del controllo
statale cosicché le imprese a partecipazione statale, precedentemente create, restarono in vita e
assunsero il compito di controllare i giacimenti padani. Si decise quindi, con la legge n. 136 del
10 febbraio 1953232 presentata proprio dal ministro Vanoni, la creazione, sotto la guida dello
stesso Mattei, di un Ente Nazionali Idrocarburi a cui furono affidate le società già operanti nel
settore, con il compito di “promuovere ed attuare iniziative d’interesse nazionale nel campo degli
idrocarburi e dei vapori naturali, operando in regime di concorrenza con i privati in tutti i settori
dell’attività petrolifera”233.
Con la nascita dell’ENI l’Italia sviluppò una politica petrolifera autonoma, spesso in
antagonismo con le potenti società inglesi, francesi e americane234 operanti in tutto il mondo235.
Allo scopo di garantire al paese un approvvigionamento petrolifero stabile si decise la
costituzione, nel maggio '53, della società AGIP Mineraria a cui furono ceduti tutti i permessi e
le concessioni precedentemente possedute dall’AGIP e dalle altre aziende minerarie minori, con
l’incarico di intraprendere una vasta attività di ricerca. La nuova società godeva inoltre della
facoltà di esercitare diritti esclusivi per la ricerca e lo sfruttamento degli idrocarburi della
232
Per un’analisi sulla storia e le vicende che portarono alla creazione dell’ENI cfr. L. Maugeri, L'arma del petrolio, cit., pp. 67-78.
In proposito si veda anche la relazione presentata al Senato dal ministro delle Finanze, Ezio Vanoni, sul progetto di legge per
l’istituzione dell’Ente Nazionale Idrocarburi: “Le ragioni per le quali [era] stata proposta la legge [per l’istituzione dell’ENI erano:]
la necessità del riordino delle partecipazioni statali nel settore petrolifero […], [oltre all’urgenza] di risolvere il problema politico ed
economico più importante che si [era] presentato in questo dopoguerra. Infatti i grandi giacimenti di metano che [erano] stati ritrovati
[consentivano] di produrre del metano e quindi dell’energia a costi di produzione molto inferiori a quelli delle altre fonti e, ove tale
nuova risorsa non fosse stata opportunamente disciplinata, incalcolabili ripercussioni si sarebbero prodotte su tutta la nostra struttura
economica e politica. La scelta di affidare il reperimento e lo sfruttamento di queste nuove fonti di energia all’iniziativa privata
avrebbe rappresentato due gravi e pericolose alternative. Prima: la necessità di un importante impegno di capitale per creare
l’attrezzatura avrebbe limitato la possibilità di azione a poche imprese, che facilmente si sarebbero accordate per una politica dei
prezzi che avrebbe sfruttato al massimo le possibilità del mercato. Ne sarebbe derivato quindi non un regime di libera concorrenza
bensì di accordi monopolistici ed in conseguenza una situazione economicamente pericolosa. Seconda: se si fosse realizzato
veramente un regime di vivace concorrenza ed il prezzo del metano si fosse avvicinato al costo, si sarebbero avute non meno gravi
conseguenze, perché alcune regioni avrebbero avuto l’energia a costi notevolmente inferiori delle altre e gli squilibri, già notevoli
nella struttura economica e sociale del Paese, si sarebbero aggravati, mentre sarebbe rimasto compromesso lo sforzo per sollevare le
zone depresse del mezzogiorno e della montagna. Di fronte a questa alternativa, l’impostazione del Governo, che non poteva non
assumersi la propria responsabilità, [era] stata chiara e semplice. Valendosi della indiscutibile sussistenza di un pubblico interesse di
chiara evidenza dell’ammonimento dell’art. 43 della costituzione e della possibilità di facile trapasso dall’organizzazione esistente a
quella pubblica, il Governo [proponeva] la costituzione di un ente pubblico che realizzasse la politica del Governo, facendo affluire
sul mercato la nuova fonte di energia senza creare squilibri e turbamenti dannosi” (Riassunto del discorso del ministro Vanoni al
Senato sul progetto di legge per la costituzione dell’ENI, ASE, coll. AR. II. 1, udc. 4).
233
Appunto interno all’ENI, ASE, coll. AS. III. 6, udc. 8. La legge istitutiva trasferiva dunque al nuovo ente diritti e beni immobili
statali per un valore di quindici miliardi di lire (per approfondimenti si veda M. Magini, L'Italia e il petrolio tra storia e cronologia,
cit., p. 119). Per una disamina sugli stretti rapporti tra Mattei e Vanoni si vedano L. Bazzoli, R. Renzi, Il miracolo Mattei. Sfida e
utopia del petrolio italiano nel ritratto di un incorruttibile corruttore, cit., p. 91 e ss.; F. Briatico, Ascesa e declino del capitale
pubblico in Italia, cit., p. 19 e ss.
234
Proprio con gli Stati Uniti si svilupparono una serie di incomprensioni e rivendicazioni circa il ruolo del nuovo ente e i suoi
collegamenti con il mondo politico italiano (cfr. L. Maugeri, L'arma del petrolio, cit., pp. 70-91).
235
Per un excursus generale e completo sulle attività e sui progetti dell’ENI si rimanda a D. Pozzi, Dai gatti selvaggi al cane a sei
zampe, cit., pp. 269-458.
60
Pianura Padana, proseguendo e intensificando le operazioni nella zona. Tuttavia, l’attività di
prospezione dell’AGIP Mineraria non si esaurì nella Valle Padana e in quelle aree già
individuate in precedenza ma abbracciò presto tutta la penisola236.
All’indomani della nascita dell’ENI e dell’esclusiva assegnatali dallo Stato sulla Pianura
Padana, le società private e le compagnie internazionali con interessi economici in Italia
protestarono con veemenza, accompagnando la loro azione ai vari tentativi di modificare la legge
istitutiva al fine di eliminare l’esclusiva ottenuta dal nuovo ente statale sulla Valle Padana237. Di
fronte a queste incessanti pressioni, Mattei e le forze politiche che sostenevano l’istituzione e
l’attività dell’ENI opposero una tenace resistenza finché il Parlamento riuscì a approvare la legge
n. 6 dell’11 gennaio 1957 sulla ricerca e la coltivazione degli idrocarburi nell’Italia peninsulare.
Il testo conteneva una serie di disposizioni tecniche concepite allo scopo di controllare
attentamente gli operatori minerari e di prevenire ogni eventuale concentrazione monopolistica.
La legge imponeva inoltre uno sviluppo rapido delle attività minerarie e garantiva allo Stato un
corrispettivo sugli idrocarburi estratti e un contributo fiscale oneroso su tutte le attività inerenti la
ricerca e la produzione petrolifera238. All’ENI veniva anche garantita una posizione privilegiata
circa la possibilità di ottenere nuove concessioni e di espandere le proprie aree di ricerca senza
che venisse applicata la limitazione legislativa prevista per le società private. All’ente statale
venne infine affidata anche la gestione degli idrocarburi liquidi e gassosi spettanti allo Stato a
titolo di royalty239.
Fino alla fine degli anni Cinquanta l’ENI operò dunque in maniera coerente con la
propria funzione pubblica seguendo fedelmente i compiti impartiti dal governo:
“[…] potenziamento, a livello nazionale, dell’Ente di Stato, al fine di assicurare ad esso la
preminenza,
rispetto
nell’approvvigionamento
alle
del
compagnie
greggio,
multinazionali
nel
suo
e
trasporto,
ai
‹petrolieri
nella
indipendenti›,
raffinazione
e
nella
distribuzione”240.
Derivava da ciò la necessità fondamentale dell’autonomia dell’ente rispetto agli operatori
privati. L’ENI aveva anche il delicato compito di ricercare fonti di energia alternative per ridurre
236
Per un’analisi sull’attività di ricerca effettuata dall’AGIP Mineraria dalla nascita al '62 si vedano L. Bruni, M. Colitti, La politica
petrolifera italiana, cit., pp. 66-71; M. Magini, L'Italia e il petrolio tra storia e cronologia, cit., pp. 120-121. Si veda anche la
relazione del ministro Vanoni in Parlamento del dicembre 1954 in cui vennero elencate tutte le attività già avviate e i risultati
raggiunti dall’AGIP Mineraria a partire dai primi mesi di vita [Dichiarazioni del ministro del Bilancio (Onorevole Vanoni), Roma, 3
dicembre 1954, ASE, coll. AR. II. 1, udc. 4].
237
In questo ambito rientravano i due disegni di legge presentati nel '56 e nel '57 dai ministri dell’Industria Cortese e Gava.
238
Cfr. L. Bruni, M. Colitti, La politica petrolifera italiana, cit., pp. 82-87; F. Squarzina, Le ricerche di petrolio in Italia: cenni
storici dal 1860 e cronache dell’ultimo decennio, cit., p. 189.
239
Per ulteriori approfondimenti si veda M. Magini, L'Italia e il petrolio tra storia e cronologia, cit., pp. 126-128.
240
M. Vittorini, Petrolio & Potere, cit., p. 3.
61
l’assoluta dipendenza della politica energetica italiana dal petrolio e di sviluppare una politica
europea dell’energia che controbilanciasse le azioni di Stati Uniti e di Unione Sovietica. Il
petrolio che si consumava in Europa veniva infatti per la gran parte fornito da imprese non
europee che imponevano il loro prezzo241. Per questa ragione, nonostante le recenti scoperte e
l’avvio di un’ampia attività di prospezione sull’intera penisola, Mattei volle riprendere fin dal
1953 anche l’esplorazione all’estero242.
Tuttavia, a partire dagli inizi degli anni Sessanta l’azione dell’ENI cominciò a cambiare:
“Il controllo degli approvvigionamenti, della raffinazione e della distribuzione non fu
garantito all’ente di Stato con adeguate e più che giustificate iniziative politiche e legislative, ma
l’ente stesso fu costretto a operare come ‹azienda fra le aziende› e a conquistarsi la sua parte di
mercato – estero e nazionale – usando gli stessi metodi delle aziende private e accettando anche il
ruolo, certamente non coerente con il suo carattere pubblico, di socio, rappresentante di interessi e
paravento di quelle aziende private che avrebbe dovuto, per mansioni d’istituto, condizionare e
imbrigliare”243.
L’ENI entrò dunque ufficialmente in competizione con i petrolieri nazionali e,
soprattutto, con le cosiddette “sette sorelle” a livello internazionale, come dimostrò la crisi
iraniana del '53244. In quella occasione, il presidente dell’ENI cercò di acquistare a prezzi
vantaggiosi un milione di tonnellate di greggio dalla NIOC, la società di Stato creata da
Mossadeq, nonostante l’imposizione del blocco petrolifero verso l’Iran. La controffensiva delle
grandi compagnie petrolifere rese vano il tentativo lasciando uno strascico di sospetti e di accuse
nei confronti dell’Italia per aver cercato, tramite l’azione di un’azienda statale, di sfruttare la
241
Sulla necessità di sviluppare una politica europea del petrolio Mattei discusse a Roma agli inizi del '58 in una conferenza tenutasi
presso l’Associazione Italo-Svizzera di Cultura: “[Era] venuto il momento di sottoporre l’industria petrolifera mondiale a una
regolamentazione internazionale e non lasciarla più in mano ai cartelli petroliferi”. L’aumento della produzione di petrolio da parte
delle nazioni dell’Europa occidentale richiedeva, infatti, “nuove soluzioni” rispetto alle politiche sostenute dai grandi gruppi
petroliferi. In questo proposito, “i paesi produttori di petrolio del Medio Oriente [dovevano] essere presi in partecipazione dai titolari
di concessioni per lo sviluppo delle loro risorse petrolifere. Questo [era] il principio che [aveva] ispirato i recenti accordi italoegiziano e italo-iraniano. In ambedue [l’ENI operava] in associazione con una società petrolifera rispettivamente egiziana o iraniana
sulla base del 50:50. Su questa base saranno negoziati i futuri accordi petroliferi italiani […] una collaborazione europea sarebbe
stata [dunque] necessaria per coordinare le esigenze dei paesi consumatori e di quelli produttori” [W. Lucas (corrispondente speciale
di «The Christian Science Monitor»), L’Italia alla ricerca dell’autosufficienza nel campo del petrolio. Si fanno pressioni per rapporti
internazionali, «The Christian Science Monitor», Boston, 11 gennaio 1958, in ASE, coll. BG. III. 6, udc. 2].
242
Campagne di ricerche geologiche vennero intraprese infatti in diversi paesi; già nel '53 di avviarono lavori in questo senso in
Somalia ma le ricognizioni si rivelarono infruttuose.
243
M. Vittorini, Petrolio & Potere, cit., p. 3.
244
Sugli eventi che caratterizzarono la crisi iraniana si vedano, tra gli altri, E. Abrahamian, Iran: between two revolutions, Princeton,
1982; M. Elm, Oil, power and principle: Iran’s oil nationalization and its aftermath, Syracuse, 1992; W. R. Louis, J. A. Bill (a cura
di), Musaddiq, Iranian nationalism, and oil, Austin, 1988, p. 235 e ss.; L. Maugeri, L'arma del petrolio, cit., pp. 29-38; Id., L’era del
petrolio. Mitologia, Storia e futuro della più controversa risorsa del mondo, Milano, 2006, pp. 87-99; G. Meyr, La crisi petrolifera
anglo-iraniana del 1951-1954: Mossadegh tra Londra e Washington, Firenze, 1994.
62
situazione critica a proprio vantaggio245. Sebbene risoltosi in un nulla di fatto, l’episodio fece
emergere i limiti dello spazio di manovra concessi all’ENI a livello internazionale e rafforzò in
Mattei la convinzione di dover eliminare gli ostacoli principali per un’azione ad ampio raggio
dell’Ente Nazionale Idrocarburi.
A partire da quell’esperienza la politica dell’ingegnere si concentrò sull’estensione delle
attività dell’ENI all’estero nel tentativo di trovare approvvigionamenti in grado di garantire
l’indipendenza e l’autonomia energetica del paese, malgrado il rischio di porsi in netto contrasto
con il cartello internazionale delle big seven246. L’accordo del '55 di partecipazione dell’ENI
all’esplorazione petrolifera nell’Egitto nasseriano, mediante l’acquisto del venti percento della
IEOC, rappresentò il primo tassello di un progetto più ampio volto a destabilizzare l’ordine
creato dalle grandi compagnie petrolifere in Medio Oriente247. Tuttavia, secondo l’opinione di
Maugeri, “il presidente dell’ENI […] era ancora incerto sulla condotta da tenere verso gli Stati
Uniti, che nella regione sembravano destinati a assumere un ruolo sostitutivo delle tradizionali
presenze europee […] Mattei credette fin dal principio che una strategia politica ben congegnata
potesse consentire un’intesa tra l’ENI e la grande industria petrolifera statunitense”248.
La contesa con le “sette sorelle”, e in particolare la relazione con gli Stati Uniti,
caratterizzarono da quel momento in poi l’attività politico-imprenditoriale del presidente
dell’ENI. Nel descrivere le iniziative di quest’ultimo, Ortona osservava come “[Mattei] non
[potesse] prescindere da spinte esclusivistiche nei confronti della ricerca da parte di altri enti di
giacimenti petroliferi sul territorio italiano e di conseguenza da un atteggiamento di insofferenza
e di intolleranza verso le grandi compagnie, quasi esclusivamente americane, impegnate nella
ricerca e nella produzione di petroli”249.
245
Risulta importante sottolineare come Mattei, dopo la pressione esercitata delle grandi compagnie petrolifere, decise di bloccare
ogni trattativa diretta con Mossadeq, rimettendosi alle volontà del governo inglese (cfr. M. Elm, Oil, power and principle: Iran’s oil
nationalization and its aftermath, cit., p. 148). Per approfondimenti e per una testimonianza diretta degli eventi decisivi per il cambio
di strategia del presidente dell’ENI nei confronti delle grandi compagnie internazionali si veda G. Accorinti, Quando Mattei era
l’impresa energetica. Io c’ero, cit., pp. 148-151.
246
Sull’evoluzione della posizione di Mattei pesò fortemente la mancata partecipazione dell’ENI al consorzio internazionale creato
in Iran nel '54, dopo il ritorno dello Scià, per l’estrazione e la commercializzazione del greggio iraniano; il presidente dell’ente di
Stato si era mosso nel tentativo di ottenere una presenza italiana in questo organismo ma non vi riuscì determinando il cosiddetto
“sgarbo-iraniano” (per approfondimenti si vedano G. Accorinti, Quando Mattei era l’impresa energetica. Io c’ero, cit., pp. 353 e ss.;
C. R. Dechert, Ente Nazionale Idrocarburi: profile of a State corporation, cit., p. 61; P. H. Frankel, Petrolio e potere: Enrico Mattei,
cit., p. 95 e ss.; L. Maugeri, L'arma del petrolio, cit., pp. 84-90; I. Pietra, Mattei: la pecora nera, cit., p. 103; A. Tonini, Il sogno
proibito: Mattei, il petrolio arabo e le ‘sette sorelle’, cit., p. 47; D. Votaw, The six-legged dog: Mattei and ENI a study in power, cit.,
p. 18).
247
Per uno studio sugli accordi dell’ENI in Egitto e in Iraq si vedano D. Pozzi, Dai gatti selvaggi al cane a sei zampe, cit., pp. 338350; A. Tonini, Il sogno proibito: Mattei, il petrolio arabo e le ‘sette sorelle’, cit., pp. 57-128; Id., L’ENI alla ricerca di un partner
arabo: Egitto e Iraq, 1955-62, in M. Guderzo, M. L. Napolitano (a cura di), Diplomazia delle Risorse, cit., pp. 205-223. Per
un’analisi sul rapporto petrolio-nazionalismo arabo si veda, tra gli altri, L. Maugeri, L’era del petrolio. Mitologia, Storia e futuro
della più controversa risorsa del mondo, cit., pp. 115-124.
248
L. Maugeri, L'arma del petrolio, cit., p. 95.
249
E. Ortona, Anni d’America. La diplomazia 1953-1961, cit., p. 97.
63
Nonostante queste premesse250, Mattei decise nel gennaio del 1955 di compiere un
viaggio negli Stati Uniti per “saggiare l’atteggiamento americano nei suoi confronti”. Gli
incontri non offrirono però tutte le risposte che il presidente dell’ENI si attendeva. In maggio
egli si recò nuovamente negli USA per definire alcuni dettagli relativi alla costituzione in Italia
di un complesso petrolchimico mediante l’intervento di un’importante azienda americana di
progettazione industriale. In quella occasione Mattei ebbe modo di illustrare la sua impostazione:
da un lato, essa prevedeva la possibilità di partecipazioni straniere in campo petrolifero sul
territorio italiano, dall’altro, escludeva però la creazione di posizioni di privilegio. In particolare
occorreva “evitare che gli americani [esercitassero] pressioni indebite forzando la mano al
parlamento italiano in un senso favorevole alle compagnie americane”251.
Erano così precisati i limiti entro i quali una collaborazione con gli Stati Uniti sarebbe
stata accettabile per il presidente dell’ENI. D’altronde, partendo dall’accordo con l’Egitto,
Mattei aveva sostenuto l’idea di offrire ai paesi produttori condizioni migliori di quelle delle
compagnie statunitensi e britanniche mediante la partecipazione diretta e paritaria allo
sfruttamento del petrolio252. L’elezione di Gronchi alla Presidenza della Repubblica non fece che
aumentare le distanze tra Mattei e gli americani: la politica mediterranea del neo-presidente
coincideva infatti con quella del responsabile dell’ENI nel ritenere che i movimenti di
decolonizzazione del mondo arabo rappresentassero un’occasione unica per recuperare un ruolo
di prestigio nello scenario mediterraneo253.
250
Ortona sottolineava inoltre che la politica di Mattei nel campo della prospezione delle ricerche petrolifere era motivo di
“imbarazzo” per l’Italia nei confronti degli Stati Uniti (ibidem, p. 110).
251
Ibidem, p. 130.
252
La scelta di Mattei di offrire accordi più vantaggiosi partiva anche dall’analisi della situazione del mercato petrolifero
internazionale per cui al continuo aumento della produzione di greggio imposto dalle grande compagnie internazionali non era
seguito alcun beneficio per i governi dei paesi produttori (per uno studio generale si veda P. Bairoch, Economia e storia mondiale,
cit.). Per approfondimenti sulla questione dei prezzi fino agli inizi degli anni Sessanta si veda H. J. Frank, Crude oil prices in the
Middle East: a study in oligopolistic price behavior, New York, 1966.
253
Sulla politica estera italiana in Medio Oriente si vedano, tra gli altri, G. Baget Bozzo, G. Tassani, Aldo Moro. Il politico della
crisi, 1962/73, Firenze, 1983, pp. 394-427; B. Bagnato, La politica “araba” dell’Italia vista da Parigi (1945-1955), in «Storia delle
Relazioni Internazionali», V, 1989, 1, pp. 115-155; A. Brogi, L’Italia e l’egemonia americana nel Mediterraneo, Firenze, 1996; E.
Calandri, Il Mediterraneo nella politica estera italiana, in A. Giovagnoli, S. Pons (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli
anni Settanta, vol. I, Tra guerra fredda e distensione, Soveria Mannelli, 2003, pp. 351-381; G. Calchi Novati, Cooperazione allo
sviluppo: una scelta per la politica estera italiana, in IPALMO (a cura di), Cooperazione allo sviluppo: una sfida per la società
italiana, Milano, 1982, pp. 30-51; Id., Il canale della discordia. Suez e la politica estera italiana, cit.; Id., Mediterraneo e questione
araba nella politica estera dell’Italia, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, La trasformazione
dell’Italia. Sviluppo e squilibri, Tomo II, Torino, 1995, pp. 197-263; F. Carri, Petrolio e Medio Oriente: un’offensiva diplomatica
ambivalente, in «Politica Estera», n. 14, 1974, pp. 19-22; D. Caviglia, M. Cricco, La diplomazia italiana e gli equilibri mediterranei.
La politica mediorientale dell’Italia dalla guerra dei Sei Giorni al conflitto dello Yom Kippur (1967-1973), Soveria Mannelli, 2006;
D. Caviglia, La politica dell’Italia e il conflitto arabo-israeliano (1967-1973). L’atteggiamento italiano nella documentazione
diplomatica francese, in «Nuova Storia Contemporanea», IX, 2005, 1, pp. 17-50; M. De Leonardis (a cura di), Il Mediterraneo nella
politica estera italiana del secondo dopoguerra, Bologna, 2003; P. G. Donini, I paesi arabi, Roma, 1983; M. Pizzigallo (a cura di),
L’Italia e il Mediterraneo orientale. 1946-1950, Milano, 2004; Id. (a cura di), Amicizie mediterranee e interesse nazionale. 19461954, Milano, 2006; L. Riccardi, Il «problema Israele»: diplomazia italiana e PCI di fronte allo Stato ebraico (1948-1973), Milano,
2006; Id., La politica estera italiana, Israele e il Medio Oriente alla vigilia della crisi di Suez, in «Clio», n. 4, 2003, pp. 629-669; Id.,
Sempre più con gli arabi. La politica italiana verso il Medio Oriente dopo la guerra del Kippur (1973-1976), in «Nuova Storia
Contemporanea», n. 6, 2006, pp. 57-82; E. Rogati, L’Italia e il Medio Oriente, in «Relazioni Internazionali», XXXVII, n. 43, 1973,
p. 1096 e ss.; A. Saba, La politica estera italiana in Medio Oriente, in «Ricerche Storiche», XXV, n. 2, 1995, pp. 383-400; C. M.
64
La convergenza fra Gronchi e Mattei permise all’ENI di ottenere importanti risultati a
danno delle “sette sorelle”254. Dopo gli accordi con Il Cairo, gli interessi petroliferi italiani si
spostarono verso l’Iran: nel marzo del '57 venne sottoscritto l’accordo fra l’AGIP e la National
Iranian Oil Company che diede vita alla SIRIP255. L’intesa applicava la cosiddetta “formula
Mattei” che coinvolgeva i paesi produttori nella gestione delle risorse petrolifere nazionali256: il
governo iraniano avrebbe incamerato il settantacinque percento dei profitti complessivi della
società creata, mentre all’AGIP sarebbe andato il restante venticinque percento. Le proteste
anglo-americane257 furono veementi ma si placarono di fronte alle possibili reazioni dello scià
Reza Palhavi258. L’operazione si rivelò un notevole successo per l’attività di Mattei e per gli
interessi italiani e venne seguita, l’anno successivo, da una serie di accordi con la Libia259,
l’Etiopia e la Somalia, per la realizzazione ad opera dell’ENI di impianti di distribuzione di
carburante260. Il rapporto con gli Stati Uniti era ormai divenuto conflittuale, come riconosceva lo
stesso presidente dell’Eni:
“Se le grandi società [volevano] combattermi [facessero] pure. Esse non [potevano] dire che
io non le [avessi] avvertite”261.
Santoro (a cura di), L’Italia e il Mediterraneo: questioni di politica estera, Milano, 1988; A. Varsori (a cura di), La politica estera
italiana nel secondo dopoguerra (1943-1957), Milano, 1993, Parte VII: La “vocazione mediterranea”.
254
Per un approfondimento sull’attivismo italiano e sulla convergenza politica in Medio Oriente al fine di ottenere vantaggi
immediati nel settore petrolifero, specie da parte di Gronchi e del Ministero degli Esteri (prima con Giuseppe Pella e poi con
Amintore Fanfani), si vedano A. Brogi, L’Italia e l’egemonia americana nel Mediterraneo, cit., pp. 274 e ss.; L. Maugeri, L'arma del
petrolio, cit., pp. 117-134; A. Tonini, Il sogno proibito: Mattei, il petrolio arabo e le ‘sette sorelle’, cit., pp. 42-45.
255
Per uno studio sui dettagli dell’accordo tra l’AGIP e la National Iranian Oil Company cfr. Notes et Études Documentaires, Les
Rapports Économiques et Commerciaux entre l’Italie et le Pays du Moyen-Orient, Secrétariat Général du Gouvernement, 7 maggio
1962, MAEF, Archives Diplomatiques, Afrique Levant, Généralités, 852. Si vedano anche P. H. Frankel, Petrolio e potere: Enrico
Mattei, cit., p. 172 e ss.; S. Labbate, La diplomazia ENI-AGIP e la ricerca petrolifera in Siria in M. Pizzigallo (a cura di),
Cooperazione e Relazioni Internazionali. Studi e ricerche sulla politica estera italiana del secondo dopoguerra, Milano, 2008, pp.
105-108; L. Maugeri, L'arma del petrolio, cit., pp. 142-160; I. Pietra, Mattei: la pecora nera, cit., p. 112-114; N. Perrone, Mattei, il
nemico italiano: politica e morte del presidente dell’ENI attraverso i documenti segreti, 1945-1962, cit., pp. 78-80; D. Pozzi, Dai
gatti selvaggi al cane a sei zampe, cit., pp. 412-427; D. Yergin, The Prize. The Epic Quest for Oil, Money and Power, cit., pp. 503505.
256
Per ulteriori approfondimenti si veda P. H. Frankel, Petrolio e potere: Enrico Mattei, cit., p. 137.
257
Per un’analisi sulle considerazioni inglesi cfr. Letter n. 469 (Mr. Stevens to the Foreign Office), 12 aprile 1957, TNA, FO,
371/127203.
258
Per uno studio sul difficile rapporto tra il governo e l’Iraq Petroleum Company si rimanda a G. W. Stocking, Middle East Oil: a
study in political and economic controversy, Nashville, 1970, pp. 212-239.
259
Sulle attività delle compagnie petrolifere in Libia cfr. G. Buccianti, Libia: petrolio e indipendenza, Milano, 1999; M. Cricco, Il
petrolio dei Senussi. Stati Uniti e Gran Bretagna dall’indipendenza a Gheddafi (1949-1973), Firenze, 2002; Id., Gheddafi e la nuova
strategia del petrolio in Libia (1970-73), in Guderzo M., Napolitano M. L. (a cura di), Diplomazia delle Risorse, cit., pp. 231-246; A.
Sampson, Le sette sorelle: le grandi compagnie petrolifere e il mondo che hanno creato, cit., pp. 283-289; F. C. Waddams, The
Libyan oil industry, London, 1980.
260
Grazie anche a una condivisione di intenti pressoché totale tra Mattei e i dirigenti del gruppo ENI, le iniziative volte a
promuovere l’azione della compagnia nazionale petrolifera nel mondo furono molteplici. Nel giro di pochi anni la presenza dell’ENI,
soprattutto nel continente africano, si moltiplicò a dismisura specie mediante la realizzazione di impianti di distribuzione di
carburanti: “Un risultato così rilevante non si [sarebbe conseguito] se tutti i protagonisti non [avessero condiviso] l’iniziativa e non
[avessero lavorato] ventre a terra […] verso il medesimo obiettivo anche in situazioni ambientali molto difficili perché le difficoltà
che ci creavano le società petrolifere internazionali erano proprio rilevanti” (TRA dall’ex vicepresidente dell’AGIP Petroli, dott.
Giuseppe Accorinti, il quale nel 1962 venne incaricato direttamente da Mattei di coordinare le attività delle società del gruppo AGIP
Commerciale in Africa).
261
N. Perrone, Enrico Mattei, cit., p. 82.
65
Malgrado da più parti pervenissero sollecitazioni per un’azione di ritorsione, in quella
fase Eisenhower e Dulles non ritennero che l’operato di Mattei fosse tale da costituire una seria
sfida agli interessi degli Stati Uniti. Si riconosceva infatti che la politica italiana aveva il solo
scopo di cercare di ottenere un più ampio margine di autonomia e un certo prestigio
internazionale e, dunque, non era da considerarsi antiamericana262.
La situazione iniziò però a mutare quando Mattei raggiunse un accordo con l’Unione
Sovietica nel 1958: l’ENI ottenne petrolio a prezzo inferiore a quello imposto dalle grandi
compagnie in cambio dell’acquisto da parte russa di materiali chimici, tessili e meccanici
prodotti dalle aziende dello stesso gruppo italiano263. L’entità degli scambi previsti era
nettamente superiore rispetto a quella degli altri accordi: il prezioso collegamento tra petrolio
sovietico e altre merci prodotte dall’ENI rendeva l’intesa ancor più rilevante. Le numerose
proteste non impedirono a Mattei di continuare sulla strada intrapresa; gli scambi commerciali
con l’URSS aumentarono fino alla firma dell’accordo definitivo dell’ottobre 1960: l’Italia
ottenne dodici milioni di tonnellate di petrolio (divisi in quattro anni) e ingenti quantitativi di gas
in cambio di gomma sintetica prodotta dall’ANIC, macchinari e attrezzature petrolifere
fabbricati dal Nuovo Pignone (un’azienda rilevata dall’ENI nel '54) e tubi prodotti dalla Finsider,
una società di proprietà dell’IRI264.
Ovviamente tutti gli accordi negoziati da Mattei erano soggetti al limite di non potersi
spingere fino a correre il rischio di pregiudicare i rapporti con i paesi occidentali265 e, in
particolare, con la Gran Bretagna266 e gli Stati Uniti267. In Medio Oriente268, tuttavia, la nascita
262
Per un’analisi sulle valutazioni statunitensi relative all’azione petrolifera di Mattei in Medio Oriente che emergono dai documenti
ufficiali si vedano L. Maugeri, L'arma del petrolio, cit., pp. 154-160; E. Ortona, Anni d’America. La diplomazia 1953-1961, cit., pp.
253-256.
263
Mediante questo accordo si introdusse per la prima volta il cosiddetto metodo “barter” che verrà applicato anche nei successivi
contratti di fornitura e consisteva nel prevedere uno scambio di greggio con prodotti del gruppo ENI; cfr. P. H. Frankel, Petrolio e
potere: Enrico Mattei, cit., p. 141.
264
Per uno studio sull’accordo raggiunto da Mattei con l’Unione Sovietica e sulle sue conseguenze si vedano M. A. Adelman, The
world petroleum market, cit., pp. 407-410; B. Bagnato, Prove di Ostpolitik. Politica ed economia nella strategia italiana verso
l’Unione Sovietica: 1958-1963, Firenze, 2003, pp. 397-408; Id., Diplomazia petrolifera e diplomazia italiana: il caso del contratto
ENI-SNE dell’ottobre 1960, in M. Guderzo, M. L. Napolitano (a cura di), Diplomazia delle Risorse, cit., pp. 177-203; F. Briatico,
Ascesa e declino del capitale pubblico in Italia, cit., p. 43 e ss.; G. Buccianti, Enrico Mattei, cit., pp. 173-200; P. H. Frankel, Petrolio
e potere: Enrico Mattei, cit., p. 142 e ss.; J. E. Hartshorn, Oil Companies and Governments: an account of the International Oil
Industry in its Political Environment, London, 1967, pp. 252-253; N. H. Jacoby, Multinational oil: a study in industrial dynamics,
cit., p. 163 e ss.; A. J. Klinghoffer, The Soviet Union & international oil politics, New York, 1977, pp. 220-221; D. Pozzi, Dai gatti
selvaggi al cane a sei zampe, cit., pp. 440-454; A. E. Stent, From Embargo to Ostpolitik: the Political Economy of West GermanSoviet Relations, 1955-1980, Cambridge, 1981, p. 99; B. Wall, Growth in a Changing Environment: The History of Standard Oil
(New Jersey), 1950-1972, and the Exxon Company, 1972-1975, New York, 1988, pp. 332-333; D. Yergin, The Prize. The Epic Quest
for Oil, Money and Power, cit., pp. 519-520.
265
Per un commento di Giovanni Malagodi in proposito si veda P. Cacace, Venti anni di politica estera italiana, (1943-1963), Roma,
1986, pp. 500-501.
266
Sulle riflessioni inglesi e sugli sviluppi degli accordi contratti dall’ENI con l’URSS e altri paesi cfr. Circular No. 029, “The
Significance of Ente Nazionale Idrocarburi”, 30 marzo 1961, TNA, FO, 371/160305.
267
Per un approfondimento sulla posizione di Mattei nel delicato rapporto tra il cosiddetto “neo-atlantismo” di Gronchi e Fanfani e il
tradizionale orientamento della politica estera italiana con gli Stati Uniti e con le potenze europee si vedano L. Maugeri, L'arma del
petrolio, cit., pp. 117-123; N. Perrone, Obiettivo Mattei: petrolio, Stati Uniti e politica dell’ENI, cit., pp. 85-89; Politica estera
66
dell’OPEC269, indirettamente incoraggiata dalla politica di Mattei270, sembrò indicare una prima
significativa battuta d’arresto per le big seven271. Fra i progetti del presidente dell’ENI, quello
relativo alla costruzione di una rete di oleodotti che avrebbe dovuto attraversare mezza Europa e
garantire approvvigionamento petrolifero dall’URSS a prezzi concorrenziali, era oggetto di
particolare apprensione da parte delle società petrolifere anglo-americane272. Se realizzato, il
dell’ENI e neutralismo italiano, in «Rivista di Storia Contemporanea», XVI, 1987, n. 4, p. 622; D. Votaw, The six-legged dog:
Mattei and ENI a study in power, cit., pp. 25 e ss. Sulle preoccupazioni del ministro degli Esteri Pella per le iniziative di Mattei si
veda anche E. Ortona, Anni d’America. La diplomazia 1953-1961, cit., p. 253.
268
Nel marzo 1959 furono gli stessi paesi arabi del Medio Oriente, uniti a quelli dell’Africa del Nord, a esprimere il desiderio di
voler intensificare i rapporti economici con l’Italia. Venne così deciso di creare un Centro italo-arabo che, con il sostegno del
Ministero degli Affari Esteri, aveva il compito di intensificare le relazioni politiche e economiche tra gli Stati interessati; presidente
di questa nuova istituzione fu nominato il ministro per il Commercio con l’Estero, Rinaldo Del Bo, mentre Mattei prese parte al
Comitato Direttivo (cfr. Notice d’information : La politique arabe de l’Italie, non datato, MAEF, Archives Diplomatiques, Afrique
Levant, Généralités, 852).
269
Fondata alla Conferenza di Baghdad del settembre '60, essa nacque come conseguenza ai tagli decisi unilateralmente dalla
compagnie petrolifere internazionali nei mesi precedenti dei cosiddetti “posted price”, i prezzi di riferimento sulla base dei quali
venivano calcolate le tasse che le aziende petrolifere dovevano versare a favore degli Stati produttori (per un approfondimento sul
sistema del “prezzo assegnato” si veda ad esempio L. Mosley, Power Play: Oil in the Middle East, New York, 1973, pp. 289-291).
Inizialmente l’OPEC era composta da cinque paesi: Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita e Venezuela. Nell’arco di undici anni
entrarono nell’organizzazione altri sei paesi: Qatar (1961), Indonesia e Libia (1962), Emirati Arabi Uniti (1967), Algeria (1969) e
Nigeria (1971). In base alla Carta approvata a Caracas dai paesi fondatori, l’OPEC perseguiva tre obiettivi: incrementare gli introiti
dei paesi membri per favorirne lo sviluppo economico e sociale; stabilire un maggiore controllo sull’estrazione del greggio; unificare
le politiche produttive attraverso un sistema di quote. Nella sostanza si mirava a ridurre l’autonomia delle grandi multinazionali (sia
europee che americane) e a nazionalizzare la proprietà dei campi petroliferi; questi propositi però non si realizzarono nell’immediato
a causa di una produzione petrolifera superiore di gran lunga alla domanda. La composizione dell’OPEC implicava inoltre una
spiccata sensibilità nei confronti della disputa arabo-israeliana. Ad esempio, durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967 i paesi arabi
decisero di ricorrere all’embargo petrolifero per mettere in difficoltà gli Stati amici d’Israele chiudendo il canale di Suez. Le
ritorsioni, pur non raggiungendo in questa occasione i risultati sperati, rappresentarono il primo tentativo di utilizzare l’arma
petrolifera per condizionare il mondo occidentale [per approfondimenti si vedano, tra gli altri, M. A. Adelman, OPEC as a Cartel, in
J. M. Griffin, D. J. Teece (a cura di), OPEC behavior and world oil prices, London, 1982, pp. 37-63; A. Clô, Economia e politica del
petrolio, cit., pp. 72-74; J. Crémer, D. Salehi-Isfahani, Models of the oil market, London, 1991; M. El-Sayed, Organisation des pays
exportateur du pétrole, Paris, 1967; J. E. Hartshorn, The special characteristics of OPEC and importing Countries National Oil
Companies, in R. Mabro (a cura di), World Energy Issue and Policies, Oxford, 1980, pp. 157-165; A. D. Johany, The Myth of the
OPEC Cartel, New York, 1980; G. Luciani, L’OPEC nella economia internazionale, cit., pp. 35-40; F. Parra, Oil politics: a modern
history of petroleum, cit.; A. Roncaglia, L'economia del petrolio, cit., pp. 103-120; I. Seymour, OPEC: instrument of change, New
York, 1980; D. J. Teece, OPEC behavior: an Alternative view, in J. M. Griffin, D. J. Teece (a cura di), OPEC behavior and world oil
prices, cit., pp. 64-93; G. W. Stocking, Middle East Oil: a study in political and economic controversy, cit., pp. 357-380; P. Terzian,
OPEC: The Inside Story, London, 1985; G. Tomajuoli, Petrolio arabo e prospettive di crisi energetica, in «Relazioni Internazionali»,
XXXVI, n. 31, 1972, pp. 122-124; D. Yergin, The Prize. The Epic Quest for Oil, Money and Power, cit., pp. 479-498].
270
Secondo alcuni studiosi, infatti, fu l’applicazione della cosiddetta “formula Mattei” a incoraggiare la creazione di
un’organizzazione indipendente dalle grandi compagnie petrolifere anglo-americane. Conferme in questo senso non ve ne furono ma
all’indomani della nascita dell’OPEC, Francisco Parra, uno dei leader di quest’ultima e futuro segretario generale nel 1968, incaricò
l’ufficio studi dell’ENI di effettuare un’analisi con l’obiettivo di far conoscere alla nuova organizzazione la struttura dell’intero
mercato petrolifero internazionale: “Per l’ENI si trattò di un riconoscimento importante della sua differenza dalle altre compagnie”
(M. Colitti, ENI. Cronache dall’interno di un’azienda, cit., p. 59). Per un’analisi interessante fatta da uno dei protagonisti sui rapporti
intercorsi tra Mattei e l’OPEC all’indomani della sua nascita cfr. ibidem pp. 62-65. Per un approfondimento sulle fasi che portarono
alla creazione dell’OPEC si vedano L. Mosley, Power Play: Oil in the Middle East, cit.; B. Shwadran, The Middle East, Oil and the
Great Powers, cit.; I. Skeet, OPEC: twenty-five years of prices and politics, Cambridge, 1988; A. Tonini, Il sogno proibito: Mattei, il
petrolio arabo e le ‘sette sorelle’, cit., pp. 112-117.
271
Per un approfondimento sugli scarsi effetti che la nascita dell’OPEC avrebbe invece determinato sul mercato petrolifero
internazionale durante gli anni sessanta si veda I. Skeet, OPEC: twenty-five years of prices and politics, cit., p. 15 e ss.
272
In Italia, grazie al lavoro svolto dalla SNAM e dalle consociate SNAM Montaggi (costituita nel 1955), SNAM Progetti (nata nel
1956) e SAIPEM (originata nel 1957 dalla fusione della SAIP con la SNAM Montaggi) si era già realizzato, in tempi estremamente
rapidi, uno dei sistemi di trasporto del gas naturale tra i più estesi del mondo, che superava i 4.400 chilometri di lunghezza alla fine
del '62. Il progetto per la costruzione dell’oleodotto dell’Europa centrale aveva invece come unico obiettivo quello di creare nuovi
motivi di inquietudine per le compagnie petrolifere internazionali. Secondo l’idea di Mattei queste ultime avrebbero avuto, in caso di
realizzazione del progetto, solo due alternative: sarebbero state costrette a allearsi con il presidente dell’ENI oppure avrebbero dovuto
avviare piani di investimento per costruire una rete di oleodotti alternativa pur di evitare che il CEL si sostituisse alle attuali rotte di
trasporto di greggio, controllate dalle “sette sorelle”, attraverso il Mare del Nord (per approfondimenti si veda D. Yergin, The Prize.
The Epic Quest for Oil, Money and Power, cit., pp. 530-531). Per una testimonianza diretta sulle iniziative dell’ENI all’estero e sul
progetto CEL si veda P. Papi, Le reti commerciali all’estero e l’oleodotto del centro Europa, in F. Venanzi, M. Faggiani (a cura di),
ENI: un’autobiografia. La storia di una grande impresa raccontata dagli uomini di Enrico Mattei, Milano, 1994, pp. 179-182.
67
piano avrebbe messo in pericolo l’intero cartello delle grandi compagnie petrolifere creando una
forte dipendenza da Mosca di molti paesi europei273. A preoccupare maggiormente
l’amministrazione americana era piuttosto la supposta crescente influenza di Mattei sugli
orientamenti della politica estera italiana274. Ciò indusse Washington a aprire una trattativa con
lo stesso presidente dell’ENI al fine di favorire l’individuazione di un terreno comune con le
grandi compagnie petrolifere275. Una sorta d’intesa fra il sottosegretario di Stato, George Ball, e
Mattei venne raggiunta durante l’incontro del 22 maggio 1962 a Villa Taverna: l’ente italiano
avrebbe potuto partecipare ai consorzi petroliferi in Iran e Iraq276. Si sarebbe trattato dunque di
un compromesso decisamente vantaggioso per l’ENI; ciononostante Mattei decise di continuare
a condurre anche le altre trattative rimaste in sospeso, non escludendo a priori la stipulazione di
ulteriori accordi anche in contrasto con l’intesa verbale raggiunta con gli americani. In effetti,
pochi giorni dopo l’incontro con Ball, Mattei proseguì le trattative con Ben Bella per procedere
alla costruzione di un metanodotto che unisse Italia e Algeria277. I rapporti tra il presidente
dell’ENI e gli algerini erano sempre stati delicati in quanto lo stesso Mattei veniva accusato di
favorire e addirittura di armare il Fronte di Liberazione Nazionale278. La convenzione che si
stava per concludere appariva dunque di importanza storica per i notevoli vantaggi che
prometteva all’Italia e per il fatto che ne faceva parte anche la Francia gollista279. Mattei non
riuscì tuttavia a concludere né questo né gli altri progetti in corso a causa della morte avvenuta il
27 ottobre 1962 in seguito alla caduta a Bascapè, vicino Pavia, dell’aereo su cui viaggiava.
273
Il pericolo era reso più acuto dal clima della guerra fredda: per gli Stati Uniti risultava inaccettabile un siffatto riavvicinamento tra
l’Europa occidentale e il nemico sovietico. Per approfondimenti si veda G. Buccianti, Enrico Mattei, cit., pp. 259-266. Secondo le
indicazioni riportate da Fanfani nel suo diario, l’URSS accettò di costruire il metanodotto ipotizzato da Mattei solo nel '66 (cfr.
Diario n. 18 dell’On. Amintore Fanfani, 25 giugno 1966, Archivio Storico del Senato della Repubblica, Fondo Amintore Fanfani).
274
Cfr. L. Maugeri, L'arma del petrolio, cit., pp. 167-204 e 308-311. Per uno studio sulla politica estera italiana durante gli esecutivi
guidati da Fanfani si veda, tra gli altri, E. Martelli, L’altro atlantismo. Fanfani e la politica estera italiana 1958-1963, Milano, 2008.
275
Per un’analisi sulle fasi che portarono alle proposte americane di collaborazione rivolte a Mattei si veda G. Buccianti, Enrico
Mattei, cit., pp. 275-285.
276
Cfr. ibidem, pp. 285-289; G. Galli, La sfida perduta: biografia politica di Enrico Mattei, cit., p. 211; B. Li Vigni, Il caso Mattei:
un giallo italiano, cit., p. 120 e ss.; D. Pozzi, Dai gatti selvaggi al cane a sei zampe, cit., pp. 454-458.
277
Sugli interessi dell’ENI per il petrolio dell’Algeria si veda I. Pietra, Mattei: la pecora nera, cit., p. 110 e ss.
278
Per un’analisi circa i rapporti tra Mattei e l’FLN e in generale tra l’ENI e i paesi nordafricani si vedano, tra gli altri, B. Bagnato,
Vincoli europei, echi mediterranei. L’Italia e la crisi francese in Marocco e in Tunisia (1949-1956), Firenze, 1991; Id., Une
solidarité ambiguë. L'OTAN, la France et la guerre d’Algérie 1954-1958, «Revue d’histoire diplomatiques», n. 4, 2001; Id., The
Decline of the Imperial Role of the European Powers: France, Italy and the Future of Northern Africa, in A. Varsori, Europe 19451990s. The End of an Era?, London, 1995; Id., L'opinion publique italienne et la décolonisation du Maroc et de la Tunisie, 19491956, in «Relations internationales», n. 77, 1994; G. Buccianti, Enrico Mattei, cit., pp. 57-172; B. Li Vigni, Il caso Mattei: un giallo
italiano, cit., p. 46 e ss.; I. Pietra, Mattei: la pecora nera, cit., p. 206 e ss.
279
Un riavvicinamento nel settore petrolifero tra Francia e Italia era stato avviato anche mediante un convegno organizzato a
Grenoble dal 5 al 7 aprile '62 sul tema dell’economia dell’energia. Le relazioni italiane in proposito furono presentate da Giorgio
Ruffolo, Luigi Bruni e Luigi Faleschini (cfr. Colloquio franco-italiano sulla economia dell’energia, Grenoble, 5-6-7 aprile 1962,
Servizio Relazioni Pubbliche dell’ENI, Studi Economici e Stampa, Ufficio Studi Economici, Quaderno n. 5, maggio 1962, ASE, coll.
BB. II. 2, udc. 440).
68
CAPITOLO III
LA POLITICA ENERGETICA DELL’ITALIA NEGLI ANNI SESSANTA
1. Gli sviluppi dell’energia elettrica e del nucleare
1.1. ENEL: organizzazione, investimenti e risultati
Raggiungere un’intesa sulla legge n. 1643 del 6 dicembre 1962 non fu un compito facile.
Oltre ai problemi di natura politica bisognava risolvere anche il nodo sul ruolo e la funzione da
riservare agli enti locali e alle loro aziende in ottemperanza all’art. 5 della Costituzione280. Non
erano mancati infatti profondi contrasti fra chi propendeva per una nazionalizzazione estesa alle
società municipalizzate del settore elettrico e coloro che vi si opponevano. La stessa struttura
delle aziende elettriche municipali rendeva difficile una soluzione rapida: queste imprese
avevano da sempre costituto il settore più redditizio e sviluppato ma, al tempo stesso,
presentavano una diffusione territoriale non omogenea, con una concentrazione maggiore nel
nord e nel centro della penisola. Anche la loro configurazione risultava essere eterogenea, sia per
quanto concerneva la dimensione, che per l’area che servivano, per la tipologia di società creata
e per le caratteristiche giuridiche (alcune aziende erano dotate di personalità giuridica, come ad
esempio l’Ente siciliano di elettricità, altre erano state istituite mediante leggi regionali, come nel
caso dell’Ente sardo di elettricità). Come se non bastasse, i servizi elettrici relativi
all’illuminazione pubblica e ai compiti di utilità collettiva venivano spesso gestiti direttamente
dagli enti locali in economia o mediante l’affidamento a terzi281. Le divergenze politiche282
consigliarono alla fine la rinuncia alla nazionalizzazione di alcuni comparti: le imprese elettriche
degli enti locali e di altri istituti pubblici tassativamente individuati, già attive al tempo, dietro
apposita concessione da parte dell’ENEL, vietando ulteriori municipalizzazioni del servizio
elettrico283; gli autoproduttori e i piccoli produttori in quanto titolari di un diritto soggettivo, a
patto che si rispettassero alcuni vincoli di consumo interno di energia (con un impiego pari
almeno al settanta percento) e di quantità di produzione (al massimo quindici milioni di
280
“La Repubblica – secondo quanto previsto – […] riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo
Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e
del decentramento”.
281
Per approfondimenti si vedano P. Bolchini, Le ragioni del decentramento: enti locali, aziende municipalizzate ed ENEL, in G.
Zanetti (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia, vol. 5, cit., p. 177; Id., Le aziende elettriche municipali dal primo
dopoguerra alla nazionalizzazione, in V. Castronovo, Storia dell’industria elettrica in Italia, vol. 4, cit., p. 595.
282
Per un’analisi sui dibattiti parlamentari si veda P. Bolchini, Le ragioni del decentramento: enti locali, aziende municipalizzate ed
ENEL, cit., pp. 177-179.
283
Il riferimento era diretto agli enti istituiti dalle Regioni a statuto speciale: l’ESE e gli Enti autonomi del Volturno e del
Flumendosa (cfr. art. 4, legge n. 1643/1962).
69
chilowattora prodotti o distribuiti all’anno, escludendo quelle imprese produttrici che avessero
distribuito energia acquistata da terzi)284.
Per ciascuno di questi casi era comunque necessario fare dei distinguo; alcune eccezioni
si previdero direttamente nella legge 1643 del '62, altre si aggiunsero nel corso dei mesi
successivi al fine di completare il processo di nazionalizzazione del settore e per risolvere le
questioni rimaste in sospeso dopo la promulgazione della normativa. Per quanto concerneva le
imprese elettriche degli enti locali e di altri istituti pubblici era già prevista l’esclusione delle
società gestite da questi ultimi, nonché dei Consorzi tra Comuni e Province per la gestione di
concessioni idroelettriche o promiscue285. Nel caso di piccole imprese di produzione già esistenti
all’epoca della nazionalizzazione, e che secondo la legge del 1962 non potevano distribuire
energia acquistata da terzi, si previde la possibilità di acquisti saltuari, dovuti solo a motivazioni
occasionali286. Per i piccoli autoproduttori si stabilì anche la possibilità di creare imprese singole
nuove che avrebbero potuto avviare impianti di autoproduzione previa autorizzazione del
ministro dell’Industria e dopo il parere positivo dell’ENEL, purché l’energia prodotta servisse ai
soli fabbisogni interni determinati da nuovi impianti produttivi e solo se questa attività fosse
compatibile con i piani di sviluppo dell’Ente Nazionale Energia Elettrica287. Inoltre, a tutte le
imprese esonerate dalla nazionalizzazione era vietato di importare, esportare e scambiare energia
elettrica, riducendo così ai minimi termini il loro ruolo e le capacità di sviluppo
imprenditoriale288.
Da un punto di vista organizzativo e gestionale lo Stato godeva anche di una pluralità di
poteri di intervento sull’ENEL che però, secondo quanto stabilito all’art. 3 della legge 1643/62,
dovevano lasciare all’ente sufficienti spazi di autonomia. Se da una parte, dunque, spettava al
governo indicare le esigenze fondamentali che l’ENEL doveva soddisfare nell’interesse della
popolazione, dall’altra, queste necessità potevano essere trasformate in azioni imprenditoriali
solo e esclusivamente dall’ente statale289. Gli interventi governativi erano decisi dal cosiddetto
284
Per approfondimenti si vedano G. Caia, N. Aicardi, La struttura organizzativa dell’ENEL e il regime giuridico della sua attività,
in G. Zanetti (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia, vol. 5, cit., p. 226; C. Lavagna, Il trasferimento all’ENEL delle
imprese elettriche, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 1995, pp. 589-649.
285
Il subentro dell’ENEL nella gestione di queste società venne regolato mediante l’emanazione del DPR n. 727 del 22 maggio 1963.
286
Cfr. art. 5 della legge n. 452 del 27 giugno 1964.
287
Cfr. art. 13 del DPR n. 36 del 4 febbraio 1963 (per approfondimenti si veda G. Caia, N. Aicardi, La struttura organizzativa
dell’ENEL e il regime giuridico della sua attività, cit., p. 226).
288
Per approfondimenti sul rapporto ENEL-autonomie locali si veda G. Caia, Stato e autonomie locali nella gestione dell’energia,
Milano, 1984, pp. 317-320. Un resoconto dettagliato è presente anche in Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di
amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre 1964, Roma, 1965, pp. 10-18, ASENEL.
289
Come specificato nella relazione del Consiglio di amministrazione dell’ENEL del dicembre 1963: “La programmazione
[aziendale] dell’Ente […] [era] parte integrante della programmazione economica nazionale. Da questa attinge[va] le direttive sugli
obiettivi di sviluppo settoriale e territoriale per formulare il piano di nuovi impianti necessari a garantire la piena copertura degli
incrementi dei consumi relativi a tale sviluppo, nonché le direttive per fornire gli elementi necessari alla elaborazione e alla
realizzazione dei piani pluriennali per la elettrificazione del Paese, stabilire l’ordine di priorità territoriale per la realizzazione
integrale dei programmi di elettrificazione rurale, individuare i mezzi occorrenti per detti programmi, ed infine definire una politica
70
Comitato dei ministri per l’ENEL, un apposito organismo interministeriale presieduto dal
presidente del Consiglio dei ministri e composto dai ministri del Bilancio, del Tesoro,
dell’Industria, dei Lavori Pubblici, delle Partecipazioni Statali e dell’Agricoltura290 e, in alcuni
casi, direttamente dal ministro dell’Industria291. Il potere più rilevante che spettava all’esecutivo
consisteva nella nomina dei vertici dell’ente statale: il presidente, il vicepresidente e i
componenti del Consiglio di amministrazione erano nominati mediante Decreto del Presidente
della Repubblica, dietro proposta del ministro dell’Industria e sentito il parere del Consiglio dei
ministri292. Sotto il profilo economico, la legge istitutiva non assegnò all’ENEL un fondo di
dotazione in quanto, secondo il governo, i profitti che l’ente avrebbe prodotto nell’esercizio delle
attività elettriche sarebbero stati sufficienti per l’autofinanziamento. Le obbligazioni di
indennizzo emesse a favore delle imprese elettriche espropriate erano però a carico dell’ENEL e
dovevano essere estinte entro dieci anni. Questi oneri, uniti ai programmi di sviluppo della
capacità produttiva che l’ente di Stato si impegnò a attuare fin da subito, finirono per rendere
decisamente precaria la situazione finanziaria. Inoltre, l’ENEL dipendeva dal governo sia per
quanto concerneva la determinazione delle tariffe elettriche che per l’emissione di prestiti
bancari e, dunque, non disponeva liberamente di quegli strumenti atti a favorire un ritorno
economico strutturale. La questione delle tariffe elettriche rappresentava oltretutto nello
specifico un tema difficile da esaminare, specie nel periodo immediatamente successivo alla
nazionalizzazione: assoggettata, come visto, a autorizzazione da parte del Comitato
interministeriale prezzi, la possibilità di un aumento venne scartata a priori dal governo per le
possibili
ripercussioni
negative.
Una
delle
motivazioni
che
portarono
alla
stessa
nazionalizzazione era stata infatti la presenza di un vero e proprio cartello delle imprese
elettriche private che imponevano prezzi elevati al mercato. Una simile misura avrebbe rischiato
inoltre di accendere l’inflazione e di alimentare una forte opposizione da parte di quei settori
politici e imprenditoriali che avevano fin da subito manifestato il proprio dissenso nei confronti
della statalizzazione del settore elettrico.
Per quanto riguardava l’organizzazione vera e propria la legge istitutiva decretava che:
tariffaria corrispondente alle esigenze di uno sviluppo equilibrato” (Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di
amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre 1963, Roma, 1964, p. 24, ibidem).
290
Cfr. art. 1, comma 2°, legge 1643 del 1962.
291
Nel '67 alcune funzioni del Comitato dei ministri per l’ENEL si trasferirono tuttavia al CIPE, altre ancora al Ministero
dell’Industria (cfr. DPR n. 554 del 14 giugno 1967). Il Comitato dei ministri per l’ENEL venne definitivamente soppresso con la
legge n. 48 del 27 febbraio 1967 (cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei
revisori e bilancio al 31 dicembre 1967, Roma, 1968, p. 20, ASENEL).
292
Per approfondimenti si veda G. Caia, N. Aicardi, La struttura organizzativa dell’ENEL e il regime giuridico della sua attività,
cit., pp. 235-237.
71
“[L’ENEL doveva essere] funzionalmente articolata e territorialmente decentrata, con
particolare riguardo al settore della distribuzione, al fine di assicurare maggiore efficienza
293
dell’Ente nazionale nel rispetto della sua unitarietà”
.
Il legislatore sembrava essersi riferito al modello adottato in Gran Bretagna: con la
nazionalizzazione dell’industria elettrica del '47 e la relativa creazione della British Electricity
Authority, nel regno anglosassone si era assistito a una centralizzazione delle attività produttive e
di trasporto unita a un importante decentramento della distribuzione mediante enti
completamente autonomi. In Italia si assistette invece a un forte accentramento di quasi tutte le
attività dell’ENEL, mentre agli organi periferici si concesse solo un’autonomia operativa294. Al
vertice dell’ente di Stato figuravano il presidente e il Consiglio di amministrazione, composto
dal presidente e da otto consiglieri, uno dei quali investito della carica di vicepresidente. Alla
gestione della struttura burocratica provvedeva la direzione Generale che comprendeva nove
direzioni centrali preposte al funzionamento dei vari rami tecnici e amministrativi:
“L’organizzazione territoriale, [sostituendo le] molteplici amministrazioni autonome
preesistenti, [era] articolata in otto Compartimenti e ventinove Distretti o Esercizi distrettuali, a
loro volta suddivisi in Zone, collegati fra loro con la Direzione generale in modo da realizzare un
costante concorso di capacità e di esperienze per il migliore funzionamento dei servizi, in unitaria
azione di direttive”295.
Come sottolineato dal primo direttore generale, Arnaldo Maria Angelini296, fin dal
principio l’ENEL si impegnò a fondo nel campo della ricerca:
“[L’ente di Stato] fin dalla sua costituzione […] [aveva] dedicato particolare attenzione ai
problemi della ricerca scientifica e tecnologica nei settori direttamente connessi con i compiti
istituzionali […]. L’attività di ricerca dell’ENEL si [era] pertanto indirizzata ad elevare il
rendimento e l’affidabilità degli impianti elettrici di produzione, trasmissione e distribuzione, alla
293
Art. 3, comma 6 della legge n. 1643 del 1962.
Per approfondimenti si veda Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei
revisori e bilancio al 31 dicembre 1964, Roma, 1965, pp. 5-9, ASENEL.
295
Ministero dell’Industria e del Commercio, Direzione Generale delle Fonti di Energia e delle Industrie di base, Primo rapporto
della Commissione consultiva per l’energia, Roma, 1965, p. 19.
296
Presidente dell’ENEL venne nominato l’avvocato Vito Antonio Di Cagno che mantenne questa carica fino al 1972, quando gli
successe proprio Arnaldo Maria Angelini.
294
72
soluzione dei problemi legati all’interazione tra gli impianti e l’ambiente, ed in generale al
297
miglioramento della qualità e dell’economicità del servizio”
.
Si creò dunque una Direzione studi e ricerche composta in massima parte da personale
che era appartenuto alle società elettriche private e che aveva già avuto esperienze importanti
nella ricerca sia in Italia che all’estero. I compiti di questo gruppo comprendevano lo studio per
il progresso tecnico-scientifico del sistema elettrico italiano mediante un miglioramento dei
criteri, dei metodi e dei procedimenti utilizzati nei vari impianti; l’offerta di un adeguato
supporto di studi e ricerche sperimentali per la realizzazione dell’unificazione nazionale dei
criteri di progettazione, costruzione e esercizio del sistema elettrico generale; la definizione di
risposte adeguate per la risoluzione di problemi emergenti nelle varie attività operative dell’ente.
Per poter svolgere con efficacia queste mansioni si stabilì anche una collaborazione concreta con
i costruttori e con le università, soprattutto per quanto concerneva la ricerca applicata. Per
completare la suddivisione interna dei campi specialistici di studio e ricerca si decise di istituire
anche un reparto specialistico dedicato esclusivamente alle applicazioni degli elaboratori
elettronici e alla automazione degli impianti. Vi era infine un settore specifico dedicato alla
ricerca termica e nucleare298.
L’ENEL aveva ottenuto anche l’acquisizione del controllo di altre società di ricerca già
operanti. Fra queste figurava il Centro Elettrotecnico Sperimentale Italiano, fondato nel '56 dalle
società elettriche private e dai costruttori elettro-meccanici allo scopo di “concentrare
investimenti in laboratori di prova per qualificare l’industria nazionale” e di raggruppare “le
competenze di sistema necessarie per l’unificazione della rete elettrica italiana”. Dopo la
nazionalizzazione, il CESI operò come “supporto tecnico all’ENEL nel settore della trasmissione
e distribuzione” e in qualità di “fornitore di prova, certificazione, studio e consulenza sul
mercato internazionale”299. Vi erano, inoltre, il Centro Informazioni Studi ed Esperienze, che
divenne uno degli istituti di ricerca più importanti dell’ente di Stato, e l’Istituto Sperimentale
Modelli e Strutture, nato nel 1951 con capitale privato per svolgere attività di ingegneria e di
sperimentazione a supporto della verifica di sicurezza degli sbarramenti idraulici. L’idea di
acquisire queste società partiva dall’assunto di consentire all’ENEL di orientare la ricerca e di
ottimizzare l’uso delle strutture esistenti. Questi centri possedevano oltretutto strumentazioni
297
A. Galbani, L. Paris, A. Silvestri, La ricerca nel settore elettrico, in G. Zanetti (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia,
vol. 5, cit., p. 488.
298
Per uno studio sull’organizzazione effettiva della Direzione studi e ricerca dell’ENEL, sulla sua composizione interna e sui campi
di applicazione seguiti si veda ibidem, pp. 489-499.
299
http://www.cesi.it.
73
sofisticate che al tempo della nazionalizzazione l’ente statale non poteva permettersi300; d’altra
parte, i costi di gestione sarebbero stati elevati e alcune attrezzature apparivano già obsolete in
virtù del rapido progresso della tecnica. Nonostante questi aspetti negativi, il DPR n. 728 del 22
maggio '63 consentì all’ENEL di assumere nei centri di ricerca esterni la partecipazione
azionaria delle società elettriche trasferite e, mediante la delibera del Consiglio di
amministrazione del 15 ottobre successivo, la direzione dell’ente di Stato avviò le azioni
necessarie per assicurarsene il controllo301. Il ruolo svolto da queste società di ricerca risultò
fondamentale per l’attuazione dei programmi di sviluppo dell’ENEL302. Il Centro Informazione
Studi ed Esperienze, in particolare, fu impiegato per la progettazione del prototipo di una
centrale nucleare di piccole dimensioni e per una serie di lavori di interesse immediato collegati
all’attività stessa degli impianti nucleari.
L’ENEL si trovò subito a dover affrontare il problema strutturale303 dell’espansione e del
completamento del processo di elettrificazione nazionale mediante la costruzione di reti di
trasporto cosiddette dorsali (a 380 kV), che dovevano cioè trasportare l’energia elettrica lungo
tutta la penisola e collegarla con l’estero. La realizzazione del piano di sviluppo, ormai divenuto
improrogabile, necessitava di grossi investimenti di cui l’ENEL non disponeva. A questo scopo
nel 1965 l’ente di Stato decise di emettere sul mercato i suoi primi due prestiti obbligazionari:
uno di settantacinque miliardi di lire, destinato al solo mercato italiano, l’altro pari a cento
miliardi di lire per il mercato domestico, con ulteriori trentasette miliardi per gli Stati membri
della Comunità europea. Nello stesso periodo si creò il Centro Nazionale di Dispacciamento di
Roma al fine di gestire gli impianti di produzione e la rete di trasmissione e interconnessione con
l’estero: si trattava del cervello dell’intero sistema elettrico italiano. Nel '66 si registrò un forte
cambiamento nel settore: per la prima volta in Italia la produzione idroelettrica risultò al di sotto
del cinquanta percento dell’energia prodotta complessivamente304. Il risultato deludente era il
frutto di due componenti: il progressivo esaurimento delle risorse idroelettriche, come era stato
già preventivato durante gli anni precedenti dagli studi di settore effettuati, e il contemporaneo
300
Per approfondimenti sulla necessità per l’ENEL di investire pesantemente in nuove strutture produttive si veda B. Passamonti, Il
bilancio dell’azienda elettrica, Milano, 1990, p. 41.
301
Cfr. ENEL, 50 anni di industria elettrica italiana, Roma, 1997, p. 117. Per ulteriori approfondimenti si vedano anche Ente
Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre 1963,
Roma, 1964, p. 1 e ss., ASENEL; A. Galbani, L. Paris, A. Silvestri, La ricerca nel settore elettrico, in G. Zanetti (a cura di), Storia
dell’industria elettrica in Italia, vol. 5, cit., p. 501.
302
Per approfondimenti sulle collaborazioni avviate mediante la partecipazione del CESI, del Centro Informazioni Studi ed
Esperienze e dell’ISMES si veda ENEL, Relazione sul primo anno di attività e programmi dell’ENEL, Roma, 1964, pp. 186-187.
303
In realtà uno dei primi gravi problemi che l’ENEL dovette affrontare fu la gestione della gravissima sciagura del 9 ottobre 1963
quando una massa di circa trecento milioni di metri cubi di roccia si staccò dal Monte Toc e precipitò sul sottostante bacino
idroelettrico del Vajont. Un’ondata di oltre trecento milioni di metri cubi di acqua, alta più di duecento metri, scavalcò la diga
investendo i paesi e le borgate della valle del Piave, provocando più di duemila morti.
304
Per uno studio sulla situazione degli impianti idroelettrici all’indomani della nazionalizzazione e sullo sviluppo negli anni
successivi si veda Ente Nazionale Energia Elettrica, ENEL 1963-1977, Roma, 1978, pp. 27-30.
74
aumento costante della richiesta di energia elettrica305 con il conseguente ricorso alla produzione
mediante impianti termoelettrici. Solo durante gli anni compresi fra il 1968 e il 1972 l’ENEL
riuscì a registrare una forte crescita al punto da risultare tra le prime industrie italiane per
fatturato. La costruzione di una rete di trasmissione adeguata alle esigenze del territorio e della
popolazione si ultimò mediante l’inaugurazione della dorsale a 380 kV che collegava Firenze a
Roma. Vennero anche completate le interconnessioni, sempre con la stessa tensione, con le reti
francesi e svizzere. Il processo di elettrificazione nazionale si andava dunque pian piano
completando306.
1.2. Gli investimenti dell’ENEL nel settore nucleare
Dal punto di vista strategico era ben chiaro fin dagli anni Cinquanta che il settore più
promettente dove investire maggiori risorse finanziarie era rappresentato dalle centrali
elettronucleari. Tuttavia, al momento della nascita dell’ENEL si presentava nell’immediato la
scelta del tipo di impianti di generazione elettrica da utilizzare, analizzando quelli che erano già
funzionanti in Italia: vi erano infatti sia centrali termoelettriche che impianti idroelettrici. La
potenza di questi ultimi era tecnicamente condizionata dal regime idrologico e pertanto, salvo
eccezioni dovute all’installazione di grandi serbatoi stagionali, la disponibilità elettrica non
poteva essere costante e disponibile per tutto l’anno, cosa che invece accadeva nel caso delle
centrali termoelettriche. Sotto il profilo economico, l’installazione di un impianto idroelettrico
comportava inoltre un costo per chilowattora superiore a quello di un corrispondente impianto
termoelettrico. Ciò nonostante, quest’ultimo presentava dei costi di esercizio più alti,
necessitando di un continuo approvvigionamento di combustibile307. La situazione italiana, a dire
il vero, offriva scarsi margini di discrezionalità: le risorse idroelettriche andavano esaurendosi e,
pur mancando nel territorio italiano altre fonti primarie, si era obbligati a investire
nell’immediato su centrali termoelettriche con l’impiego di combustibile importato, non
305
Prendendo in considerazione i consumi interni di energia elettrica in Italia nel periodo dal '54 al '64, i consumi di illuminazione
pubblica erano aumentati del 9,64%, gli impieghi privati per forniture fino a trenta chilowatt erano saliti del 9,82%, e quelli per
potenza superiore di trenta chilowatt (inclusi quelli per la gestione e il funzionamento delle stazioni ferroviarie e dei treni) erano
incrementati dell’8,01% (Ministero dell’Industria e del Commercio, Direzione Generale delle Fonti di Energia e delle Industrie di
base, Primo rapporto della Commissione consultiva per l’energia, cit., p. 19)
306
Il grado di elettrificazione del paese salì dal valore percentuale del 1965 pari al 97,7% al 98,8% del 1971 ma lo squilibrio tra il
nord e il sud, in termini di consumo di energia elettrica per abitante, rimaneva ancora molto elevato.
307
Per uno studio sulle caratteristiche principali dell’approvvigionamento elettrico in Italia si veda A. M. Angelini, La evoluzione
dell’approvvigionamento di energia elettrica in Italia, estratto da «L’energia elettrica», fascicolo n. 12, vol. XLIV, 1967, trad. it. del
testo della Conferenza tenuta a Londra il 22 marzo 1967 dal presidente dell’ENEL presso la Institution of Electrical Engineer sul
tema “The Development of Electricity Supply in Italy”, in Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, ENEL, Società Italiana
per il Progresso delle Scienze, Raccolta di Scritti sull’Energia Elettrica del Prof. Arnaldo Maria Angelini, cit., pp. 271-295.
75
escludendo la possibilità di creare impianti che usassero anche carbone e gas naturale308. Già nel
'64 però l’energia nucleare aveva cominciato a avere un peso non trascurabile nell’ambito della
produzione globale di energia elettrica e si calcolava che il suo utilizzo sarebbe cresciuto
costantemente nel tempo:
“Un giorno non lontano essa [avrebbe potuto] rappresentare la fonte principale di produzione
dell’energia elettrica, giacché l’alta concentrazione energetica del combustibile nucleare [avrebbe
consentito] di evitare l’obbligatoria ubicazione delle grandi centrali in prossimità di porti, come
[era] oggi necessario per consentire il rifornimento economico degli imponenti quantitativi di
combustibile necessari”309.
I tre impianti nucleari in esercizio in Italia erano passati sotto la gestione diretta
dell’ENEL: la SIMEA era confluita nel '64 assieme alla relativa centrale elettronucleare di
Latina; l’anno successivo passarono all’Ente Nazionale Energia Elettrica anche la centrale della
SENN, costruita alle foci del Garigliano, e la centrale di Trino Vercellese della SELNI310. L’ente
di Stato poteva dunque contare su una potenza nucleare installata pari a 546.000 kW e su una
capacità di produzione complessiva annua di 3,8 miliardi di kWh, aggiornata al 1964311.
L’investimento globale per gli impianti era stimato intorno ai centocinquanta miliardi di lire,
escluse le spese per le forniture di combustibile che si aggiravano, inclusa la scorta già esistente,
sui venticinque miliardi, circa metà dei quali erano pagabili per il tramite dell’EURATOM in
308
Cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31
dicembre 1963, Roma, 1964, pp. 30-32, ASENEL.
309
Ministero dell’Industria e del Commercio, Direzione Generale delle Fonti di Energia e delle Industrie di base, Primo rapporto
della Commissione consultiva per l’energia, cit., pp. 29-30.
310
Per approfondimenti su questo argomento si veda P. Fornaciari, Il petrolio, l’atomo e il metano: l’Italia nucleare, 1946-1997, cit.,
pp. 59-77.
311
L’ENEL decise tuttavia di non investire fin da subito nuove risorse nel settore nucleare. Come indicato nella relazione del
Consiglio di amministrazione dell’ENEL dell’aprile 1964: “L’Ente non [riteneva], anche per ragioni di ordine finanziario, che [fosse]
per il momento il caso di impostare altri programmi di centrali nucleari. Esso, in collaborazione con il Comitato Nazionale per
l’Energia Nucleare, si [sarebbe dedicato] all’attento rilievo di tutte le caratteristiche di funzionamento e di esercizio dei tre impianti
di Latina, del Garigliano e di Trino Vercellese, tanto sotto l’aspetto tecnico, quanto sotto quello economico, e [avrebbe utilizzato] gli
impianti stessi – nei limiti del possibile – al fine di formare in campo nucleare gli ingegneri e i tecnici che in gran numero [sarebbero
occorsi] per la costruzione e l’esercizio degli impianti futuri. Tale esame [sarebbe stato] esteso – e [sarebbe stato] per quanto
possibile approfondito – agli impianti costruiti negli altri paesi e soprattutto alle varie «categorie» o «filiere» […] onde disporre della
più ampia ed attendibile documentazione e degli elementi di giudizio più sicuri per fondare le scelte che dovranno essere fatte al
momento opportuno per l’impostazione di nuove unità nucleari. Intanto, il concorso che l’Ente si proponeva di dare, in
collaborazione con il CNEN, per la intensificazione e lo sviluppo della ricerca tecnologica di base, non [avrebbe mancato] di
affrettare il momento in cui l’industria nazionale [avrebbe potuto] partecipare attivamente, e in notevole misura, alla costruzione
anche delle parti non tradizionali degli impianti nucleari. Regolari contratti [venivano] intrattenuti con la Electricité de France e col
Central Electricity Generating Board di Londra per il reciproco scambio di informazioni, sia sulla questione nucleare, che sulle altre
di carattere generale. Una stretta collaborazione [veniva] anche mantenuta con l’EURATOM e con gli Enti di vari paesi che si
occupa[va]no della utilizzazione della energia nucleare” (Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di
amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre 1963, Roma, 1964, pp. 35-36, ASENEL).
76
dieci anni. Le spese annue di esercizio e di manutenzione delle centrali erano infine calcolate
intorno ai quattro miliardi di lire312.
Con l’assorbimento delle tre centrali italiane si decise di creare all’interno dell’ENEL un
apposito Centro di Progettazione Nucleare che si occupasse sia della gestione delle attività
nucleari correnti che della programmazione a lungo termine dell’intero settore. Dopo l’effettiva
entrata in funzione nel '65 della centrale di Trino Vercellese, in pratica si esaurì la prima fase
dello sviluppo industriale dell’energia nucleare in Italia. L’ENEL, oltre a incorporare le strutture
di produzione, ereditò anche il personale qualificato che conosceva le diverse tecnologie studiate
fino a quel momento nelle varie sedi. Se, da un lato, le centrali nucleari in quella fase non
risultavano economicamente competitive, dall’altro, occorreva però considerare che gli
investimenti più onerosi erano già stati effettuati. L’Ente Nazionale Energia Elettrica decise
quindi per convenienza di far funzionare gli impianti al massimo delle loro possibilità,
avvantaggiandosi dei minori costi di gestione che ne derivavano rispetto a una centrale a olio
combustibile313. La scelta dell’ENEL risultò strategicamente condivisa anche a livello
internazionale; sebbene la competitività degli impianti nucleari tardasse a realizzarsi era infatti
opinione comune negli ambienti della ricerca scientifica che si trattasse solo di una questione di
tempo314. Inoltre, durante gli anni Sessanta gli investimenti settoriali puntarono a un aumento
delle potenze unitarie delle singole centrali che apparivano senza limiti tecnologici e,
contemporaneamente, l’industria nucleare americana, per vincere le remore del mercato nei
confronti della nuova energia, decise di offrire impianti nucleari a prezzi molto contenuti.
L’episodio del famoso black-out elettrico di New York, quando il 9 novembre del 1965 l’intera
312
Ministero dell’Industria e del Commercio, Direzione Generale delle Fonti di Energia e delle Industrie di base, Primo rapporto
della Commissione consultiva per l’energia, cit., p. 30.
313
Tuttavia, fin dal '64 si presentò la questione del ritrattamento o, in alternativa, dello stoccaggio del combustibile irradiato (quello
cioè già usato nel reattore e altamente radioattivo che necessitava di essere sostituito con combustibile nuovo) della centrale di
Latina. All’ENEL si prospettarono due ipotesi: vendere il combustibile irradiato all’UKAEA, oppure riprocessarlo in vista
dell’estrazione e della conservazione del plutonio in esso contenuto. L’ente di Stato decise per quest’ultima opzione in quanto “lo
sviluppo degli studi intrapresi [aveva] indotto a ritenere probabile a non lunga scadenza la possibilità tecnologica di impiegare il
plutonio per arricchire l’uranio naturale e di ottenere in tale maniera combustibile nucleare arricchito da utilizzare negli altri due
reattori a acqua [Garigliano e Trino Vercellese]: quando questo obiettivo fosse [stato] raggiunto, il problema
dell’approvvigionamento del combustibile nucleare sarebbe [stato], in parte tutt’altro che trascurabile, risolto con l’acquisto del solo
uranio naturale o con l’uso dell’uranio impoverito” (Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del
Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre 1964, Roma, 1965, p. 65, ASENEL). Proprio per questo erano stati interpellati la
stessa UKAEA, il CEA di Parigi e l’Eurochemic di Bruxelles, ma solo la società britannica aveva dimostrato interesse per le
condizioni poste dall’ENEL. Il 2 novembre 1964 venne dunque firmato un contratto con l’UKAEA che prevedeva la restituzione
all’ente italiano del plutonio recuperato mediante il riprocessamento del combustibile irradiato della centrale di Latina. Proprio in
conseguenza di ciò era inoltre allo studio la possibilità di utilizzare il plutonio stesso come combustibile nei reattori termici esistenti;
l’avvio di questa ipotesi avvenne grazie alla collaborazione diretta tra l’ENEL e il CNEN (cfr. ibidem, pp. 64-66). Successivamente,
l’ENEL stipulò con l’UKAEA un contratto per il ritrattamento del combustibile nucleare irradiato anche della centrale del
Garigliano, mentre per l’impianto di Trino Vercellese si firmò un accordo con la società belga Eurochemic (cfr. Ente Nazionale
Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre 1969, Roma, 1970,
p. 123, ibidem).
314
Del resto le collaborazioni internazionali nel settore nucleare furono fin dall’inizio molteplici. Oltre ai già citati rapporti con
l’EURATOM e l’UKAEA, l’ENEL nel 1964 aveva avviato collaborazioni anche con le aziende elettriche nazionalizzate inglese e
francese (CEGB e EDF) e con l’AECL canadese (cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione
del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre 1964, Roma, 1965, p. 68, ibidem).
77
città assieme a ben sette Stati della costa occidentale e a una parte del Canada rimasero al buio
per diverse ore, accelerò la corsa alle ordinazioni di nuove centrali elettriche in tutto il mondo e,
in particolare, di impianti nucleari.
Questa necessità di investire ancora sull’energia atomica per scopi pacifici si avvertì
anche in Italia315. La forte crescita dei consumi energetici aveva spinto la penisola a dipendere
sempre più dalle importazioni petrolifere, mentre gli impieghi elettrici non potevano più essere
soddisfatti dalle fonti idroelettriche316. Proprio in virtù di questa situazione, la Commissione
consultiva per l’energia317 presentò nel gennaio del '66 il Primo rapporto nel quale si indicava
che “per il periodo 1968-1975 [in Italia sarebbe stato necessario] procedere alla installazione di
nuove centrali, di potenza complessiva fra 8,5 e 17,5 milioni di kW”318.
Sulla base di queste raccomandazioni e in virtù degli ulteriori progressi realizzati nel
settore nucleare319, il direttore generale dell’ENEL, Arnaldo Maria Angelini, nella relazione
presentata al Convegno dal titolo “Giornate dell’Energia Nucleare 1966”, tenuto a Milano nel
dicembre dello stesso anno, affermò pubblicamente che l’ente avrebbe disposto l’ordinazione di
una nuova centrale nucleare da seicentocinquanta megawatt320. Fu così che nel '69 si avviò la
315
Nel corso del '65 si svolsero infatti numerose riunioni tecniche e diversi scambi di informazioni con società elettriche estere le
quali si avviavano a costruire grandi centrali elettronucleari. I contatti che l’ENEL tenne con enti stranieri come l’USAEC,
l’UKAEA, il CEA e l’AECL portarono alla conclusione della necessità di programmare la costruzione di un nuovo impianto
elettronucleare di ultima generazione che sarebbe dovuto entrare in servizio nel 1971-72 (cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica,
Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre 1965, Roma, 1966, pp. 95-101,
ibidem).
316
Nel campo della collaborazione internazionale, nel 1965 venne concluso un importante accordo tripartito tra l’EURATOM,
l’ENEL e il Commissariat à l’Energie Atomique per uno scambio reciproco di prestazioni di studio e di ricerca con riferimento a
alcuni particolari aspetti dei reattori gas-grafite (cfr. ibidem, p. 94).
317
Presieduta dal ministro dell’Industria e Commercio, Lami Starnuti, questa Commissione venne istituita nel marzo del 1964 e
prevedeva la collaborazione di numerosi esperti del settore.
318
Ministero dell’Industria e del Commercio, Direzione Generale delle Fonti di Energia e delle Industrie di base, Primo rapporto
della Commissione consultiva per l’energia, cit., p. 81.
319
Nel corso del '66 si registrarono infatti ulteriori progressi grazie soprattutto al sorgere di numerose e importanti nuove iniziative
sia nel campo delle applicazioni industriali che in quello della ricerca e dello sviluppo nei settori più avanzati. Ciò avvenne
principalmente negli Stati Uniti dove “l’elevata potenza unitaria degli impianti e il grande sviluppo conseguito nelle locali industrie
costruttrici [facevano] ormai ritenere indubbiamente competitiva l’energia che [sarebbe stata] prodotta dalle centrali elettronucleari in
corso di costruzione” (Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e
bilancio al 31 dicembre 1966, Roma, 1967, pp. 95-101, ASENEL). Significative a questo riguardo le conclusioni del rapporto
pubblicato nel giugno del '66 dalla TVA contenente le risultanze di una centrale con due unità di circa mille e cento megawatt
ciascuna: “Gli impianti nucleari offerti avrebbero permesso, non solo costi di produzione del kWh inferiori a quelli delle centrali
alimentate a carbone, ma, fatto più importante, avrebbero consentito, per la prima volta nella sia pur breve storia dell’energia
nucleare, un costo d’impianto di poco inferiore al corrispondente costo di una centrale tradizionale di pari potenza” (ibidem, p. 117).
Il 1966, inoltre, risultò un anno di rilievo anche per quanto riguardava le iniziative prese nei campi avanzati di sviluppo in materia di
energia nucleare. Nella fattispecie due progetti apparivano particolarmente significativi: la decisione presa in Gran Bretagna di
costruire un impianto prototipo di duecentocinquanta megawatt equipaggiato con un reattore veloce autofertilizzante, raffreddato con
sodio e, più importante per l’Italia, la scelta congiunta di ENEL e CNEN di trarre profitto dai risultati di ricerca e di sviluppo svolti
dal 1958 in poi dal CISE e di procedere alla costruzione di un reattore prototipo da trentatre megawatt del tipo CIRENE, presso la
centrale di Latina (ibidem, p. 119).
320
Cfr. A. M. Angelini, Prevedibile evoluzione nella integrazione economica degli impianti nucleari, termici tradizionali e
idroelettrici, estratto da «Energia nucleare», vol. 14, n. 2, febbraio 1967, Relazione presentata al Convegno “Giornate dell’Energia
Nucleare 1966”, tenuto a Milano dal 15 al 17 dicembre 1966 e organizzato dalla FAST con la collaborazione del CNEN e del FIEN,
in Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, ENEL, Società Italiana per il Progresso delle Scienze, Raccolta di Scritti
sull’Energia Elettrica del Prof. Arnaldo Maria Angelini, cit., p. 264.
78
procedura per la creazione della quarta e più grande centrale nucleare italiana321. Realizzata in
località Zerbio, nel comune di Caorso, a partire dal 1970 mediante la cooperazione della società
Ansaldo Meccanico-Nucleare322 e della statunitense General Electric Technical Services
Company323, la centrale entrò in funzione nel '78324.
1.3. Il caso Ippolito
Dopo la nascita dell’ENEL e la successiva gestione delle tre centrali nucleari esistenti,
divenne fondamentale instaurare una proficua collaborazione con il CNEN. Soprattutto perché
solo un’azione programmata comune avrebbe potuto determinare un progresso della politica
nucleare italiana avviata durante gli anni precedenti. Una convergenza di intenti avrebbe infatti
sicuramente
significato
uno
sviluppo
dell’intero
settore
che
poteva
avvantaggiarsi
dell’accentramento decisionale garantito dalla nascita dell’ENEL. Le difficoltà in questo senso si
erano già preannunciate durante l’acceso dibattito sulla nazionalizzazione del settore elettrico: la
scelta di nominare Arnaldo Maria Angelini alla direzione generale del nuovo ente era stata
prettamente politica e quest’ultimo aveva già espresso pubblicamente i propri dubbi circa la
momentanea competitività dell’energia nucleare325. La presa di posizione era il frutto di mere
valutazioni economiche che in quegli anni indicavano la convenienza a investire in centrali
termoelettriche piuttosto che in impianti nucleari. Era principalmente il prezzo a buon mercato
del petrolio e del gas naturale a suggerire a Angelini la prosecuzione di questo indirizzo che in
ogni caso non presupponeva l’abbandono della via nucleare fino a quel momento perseguita, ma
piuttosto mirava nell’immediato alla sola prosecuzione dei progetti già avviati. In virtù di questa
impostazione aziendale lo scontro fra Angelini e Felice Ippolito, segretario generale del CNEN e
anche membro del Consiglio di amministrazione dell’ENEL, divenne inevitabile326.
Già durante le discussioni per la definizione del secondo Piano quinquennale del CNEN,
relativo al periodo '63-'68, affiorarono le prime divergenze. Le finalità che la Commissione
321
Cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31
dicembre 1969, Roma, 1970, p. 106, ASENEL.
322
Per uno studio sulla storia della società Ansaldo, sulle collaborazioni nazionali e internazionali avviate nel settore nucleare e sui
difficili e vitali rapporti con l’ENEL di cui era uno dei fornitori più importanti si vedano B. Curli, Il nucleare, in ibidem, pp. 109-142;
R. Giannetti, Il meccanico e l’elettromeccanico, in V. Castronovo (a cura di), Storia dell’Ansaldo, vol. 8, Una grande industria
elettromeccanica, 1963-1980, Roma-Bari, 2002, pp. 79-107; A. Quagli, La struttura e la strategia dell’impresa, in ibidem, pp. 19-78.
323
Per approfondimenti di carattere tecnico circa la costruzione della quarta centrale nucleare italiana si veda Ente Nazionale Energia
Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre 1969, Roma, 1970, pp. 114119, ASENEL.
324
Nel '71 l’ENEL riuscì anche a ottenere un importante finanziamento parziale dell’impianto ad opera della banca americana
Eximbank, per un ammontare di poco inferiore agli ottanta milioni di dollari (cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del
Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre 1971, Roma, 1972, p. 122, ibidem).
325
Cfr. B. Curli, Il progetto nucleare italiano (1952-1964), cit., pp. 69-71.
326
Per approfondimenti si vedano ibidem, p. 70; F. Ippolito, F. Simen, La questione energetica: dieci anni perduti (1963-1973), cit.,
pp. 181-185.
79
direttiva del CNEN si poneva mediante il secondo Piano erano duplici: utilizzare i primi profitti
derivanti dai programmi nucleari attuati fino a quel momento e avviare una progressiva
emancipazione dell’industria atomica italiana. Particolarmente interessanti apparivano una serie
di progetti che collegavano quest’ultima ai programmi di ricerca dell’EURATOM con lo scopo
di ricavare i massimi benefici dalla collaborazione internazionale a vantaggio delle attività del
CNEN e delle singole imprese327. Altrettanto promettente sembrava inoltre il proposito del
Comitato di iniziare la fabbricazione di elementi di combustibili nucleari. Si ipotizzò pertanto la
costituzione di una società comune tra la FIAT e la Montecatini, che già partecipavano mediante
la SORIN per il cinquanta percento all’impresa Italatom, e l’AGIP Nucleare; il CNEN avrebbe
acquisito il venti percento dell’Italatom, rilevando una parte delle partecipazioni straniere328.
Secondo Ippolito, segretario del Comitato, l’ENEL avrebbe dovuto occuparsi della costruzione
delle nuove centrali nucleari giudicate necessarie, mentre spettava al CNEN sviluppare l’intero
settore sia mediante un’impostazione programmatica generale, sia attraverso un piano per
l’evoluzione della ricerca atomica italiana. Per Angelini, invece, la costruzione di nuove centrali
doveva “essere condizionata dal raggiungimento della competitività economica con le fonti di
energia convenzionali e dall’esperienza di esercizio compiuta grazie alle centrali attualmente in
costruzione”329.
Da queste dichiarazioni già traspariva quella che sarebbe stata la linea programmatica
dell’ENEL nel settore nucleare all’indomani della sua istituzione. L’impostazione strategica di
Ippolito era quella adottata dalla maggior parte dei paesi occidentali che svilupparono politiche
nucleari basate sulla continua evoluzione dell’intero settore in funzione del raggiungimento di
tecniche che in futuro sarebbero risultate più convenienti di quanto non lo fossero le centrali
termiche. Una linea programmatica che appariva in sintonia con le indicazioni fornite
dall’ambasciatore italiano a Londra, Pietro Quaroni, al ministro dell’Industria, Commercio e
Artigianato, Emilio Colombo. Il diplomatico suggeriva “di inviare una missione tecnico-politica
a Londra per [avviare] conversazioni colle autorità inglesi interessate nello sviluppo della
energia atomica. Tale missione [poteva] essere capeggiata dallo stesso Ippolito come esponente
del CNEN e dell’ENEL e [doveva essere] composta da due gruppi di tecnici incaricati di
prendere contatti rispettivamente colla Atomic Energy Authority e coll’Ente Elettricità
327
Tra questi progetti figuravano: la cooperazione tra il CNEN, la FIAT e l’Ansaldo sulla propulsione navale; un contratto di ricerca
tra il CNEN, l’EURATOM e la SNAM per lo sviluppo delle leghe ternarie a uranio; la collaborazione tra CNEN e EURATOM per le
ricerche nel campo della fusione presso il Laboratorio gas ionizzati del Comitato stesso; il finanziamento del reattore del CISE ad
opera dell’EURATOM [per approfondimenti si vedano Relazione del Segretario Generale sui programmi in corso e deliberazioni
relative, Verbale della ottava riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 2 maggio 1963, pp. 3-11, ASENEA; B. Curli,
Il progetto nucleare italiano (1952-1964), cit., pp. 72-73].
328
L’altro cinquanta percento dell’Italatom era posseduto infatti da aziende tedesche e americane che avevano già espresso il
desiderio di ritirarsi (ibidem, p. 73).
329
Verbale della settima riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 5 novembre 1962, p. 11, ASENEA.
80
britannico (CEGB)”330. Colombo sembrò concordare sull’opportunità del contatto anche perché
“interventi di questo genere in Italia [potevano] alleggerire notevolmente il peso finanziario della
programmazione nel campo dell’energia. Il governo inglese – oltretutto – [avrebbe potuto]
facilitare, per ragioni politiche, l’avviamento di fondi internazionali verso le aree di sviluppo
italiane”331. Il premier conservatore Macmillan, convinto sostenitore di una politica di apertura
fra Oriente e Occidente e impegnato in prima persona nel lungo processo del disimpegno
coloniale britannico, nel '61 chiese infatti ufficialmente l’ingresso dell'Inghilterra nella CEE. Il
rinnovato europeismo di Macmillan risultò gradito alla maggioranza dei partner europei con la
sola eccezione della Francia del generale de Gaulle, dovuta principalmente alla politica
filoamericana adottata dal primo ministro britannico nel tentativo di mantenere intatta la “special
relationship” con gli Stati Uniti e decisamente in contrasto con quella nazionalistica francese.
Ciononostante, anche grazie agli eventi della crisi di Cuba che per l’Europa occidentale
rappresentarono l’inizio di una serie di chiarimenti di fondo a causa della gestione rigorosamente
bipolare della circostanza che avrebbe potuto far precipitare il mondo intero in una guerra
nucleare, le relazioni politiche fra Roma e Londra erano decisamente buone e Macmillan voleva
sfruttare questa situazione per vincere l’opposizione francese alla richiesta britannica di adesione
alla CEE. Rimanendo nell’ambito dell’energia nucleare, la Gran Bretagna aveva investito ingenti
capitali nello sviluppo delle applicazioni pacifiche degli studi sull’atomo e l’Italia era stata la
prima e l’unica cliente estera con l’accordo per la costruzione della centrale nucleare di Latina.
Vi era inoltre una notevole convenienza da parte dei grandi gruppi industriali internazionali, e
soprattutto di quelli britannici, a investire nell’industria nucleare nelle varie parti del mondo
grazie alle prospettive di arricchimento offerte dalla tecnica moderna. Il governo italiano era da
tempo impegnato a risolvere il problema dello sviluppo delle aree depresse del Mezzogiorno e la
prospettiva di ottenere prestiti internazionali da investire in queste zone, mediante la
realizzazione di impianti termonucleari di ultima generazione, si sposava bene con i propositi di
Londra di avviare nuovi investimenti all’estero.
Tuttavia, nel gennaio '63, in seguito al tentativo inglese di ridiscutere il proprio contributo
alla PAC e a causa della sottoscrizione dell’accordo di Nassau fra il presidente statunitense
Kennedy e il premier inglese Macmillan sulla fornitura dei missili Polaris alla Gran Bretagna, il
generale de Gaulle pose ufficialmente il veto all’ingresso britannico nella Comunità; di
conseguenza i negoziati con tutti i paesi candidati (Danimarca, Regno Unito, Irlanda e Norvegia)
330
Appunti di Aldo Cassuto per il dott. Di Falco (Capo di Gabinetto del ministro La Malfa), Roma, 29 gennaio 1963, ACS, Carte
Ugo La Malfa, Serie 3, Cariche di Governo, Sottoserie 4, Ministro del Bilancio (IV° Governo Fanfani), Busta 27. Aldo Cassutto era
un giornalista italiano residente a Londra e “public-relationship man” delle industrie nucleari inglesi.
331
Ibidem.
81
si sospesero332. Questa circostanza, grazie anche alla recente inaugurazione della centrale
elettronucleare di Latina, non intaccava il momento propizio “per stringere vieppiù i legami di
collaborazione esistenti tra le autorità atomiche britanniche ed italiane”333. Fra Roma e Londra
era infatti in atto fin dal dicembre '57 un accordo di collaborazione nel settore degli usi pacifici
dell’energia nucleare grazie al quale si era sviluppata una discreta cooperazione scientifica, si era
avuto un fitto scambio di informazioni tra l’UKAEA e il CNEN, e si era altresì stabilita l’intesa
per la costruzione della centrale di Latina fra gruppi industriali inglesi e l’AGIP Nucleare. Si
poteva ora ipotizzare una collaborazione più intima fra CNEN e UKAEA, così come tra le
industrie costruttrici di reattori britanniche e l’ENEL. In questo modo: “Il programma elettrico
italiano [poteva] essere favorito da accordi particolari colle nazioni atomicamente più progredite.
Cominciare dall’Inghilterra [voleva] dire approfittare di un clima politico straordinariamente
favorevole, ed i mercati interessati negli investimenti auro-uraniferi (Londra e Sud-Africa) in
presenza della immensa valorizzazione del combustibile nucleare per la generazione di elettricità
[potevano] aiutarci”334.
La linea programmatica dell’ENEL inaugurata da Angelini si dimostrò però intangibile e
la collaborazione con il Regno Unito non proseguì sulla strada desiderata da Ippolito. Inoltre, le
risorse economiche di cui il CNEN poteva disporre erano irrisorie già solo per la prosecuzione
dei programmi di ricerca in corso e, quindi, qualsiasi progettazione che prevedesse nuovi piani di
sviluppo doveva fare i conti con la misera situazione economica del Comitato. Il clima politico
non oltretutto era fra i più favorevoli e risultò impossibile ottenere nuovi finanziamenti:
l’insuccesso della DC e del PSI alle elezioni politiche dell’aprile 1963 aprì la strada a una fase
confusa e transitoria che si concluse con la formazione del primo governo Moro, in dicembre, al
quale i socialisti parteciparono direttamente per la prima volta nella storia repubblicana335. Prese
dunque il via quella fase politica, definita “minimalista”, che avrebbe gradatamente svuotato il
centrosinistra della sua iniziale spinta riformatrice, in virtù anche del deteriorarsi della situazione
332
Per un approfondimento generale sulle vicende riguardanti la Comunità europea si veda, tra gli altri, A. Varsori (a cura di), Inside
the European Community. Actors and Policies in European Integration (1957-1972), Bruxelles, 2006.
333
Appunto per S. E. il Ministro La Malfa, Roma, 29 gennaio 1963, ACS, Carte Ugo La Malfa, Serie 3, Cariche di Governo,
Sottoserie 4, Ministro del Bilancio (IV° Governo Fanfani), Busta 27.
334
Lettera di Aldo Cassuto a Felice di Falco, Roma, 18 gennaio 1963, ibidem.
335
Per uno studio generale sulla situazione politica italiana durante gli anni che portarono alla formazione del primo governo Moro si
vedano, tra gli altri, S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, 1994, pp. 308-362; P. Craveri, La Repubblica
dal 1958 al 1991, in G. Galasso, Storia d’Italia, vol. XXIV, Torino, 1995, pp. 160-181; P. Ginsborg, Storia dell’Italia dal
dopoguerra ad oggi, vol. II, Dal miracolo economico agli anni '80, Torino, 1989, pp. 362-373; S. Lanaro, Storia dell’Italia
repubblicana: dalla fine della guerra agli anni Novanta, Padova, 1993, pp. 223-306; F. Malgeri, L’Italia dal centro-sinistra agli
«anni di piombo», in G. Aliberti, F. Malgeri, Due secoli al Duemila. Transizione Mutamento Sviluppo nell’Europa Contemporanea
(1815-1998), Milano, 1999, pp. 682-693; L. Musella, Formazione ed espansione dei partiti, in F. Barbagallo (a cura di), Storia
dell’Italia repubblicana, vol. II, La trasformazione dell’Italia. Sviluppo e squilibri, cit., pp. 181-187; G. Tamburrano, Storia e
cronaca del centro-sinistra, cit., pp. 264 e ss.; N. Tranfaglia, La modernità squilibrata. Dalla crisi del centrismo al «compromesso
storico», in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, La trasformazione dell’Italia. Sviluppo e squilibri, cit.,
pp. 50-75.
82
economica nazionale. In questo scenario, le speranze dei vertici del CNEN di ottenere ulteriori
aiuti economici si andarono gradualmente affievolendo. Al contrario, prese sempre più corpo la
critica sui metodi di gestione attuati fino a quel momento dal Comitato stesso: il segretario del
CNEN venne infatti accusato di avere sperperato le risorse pubbliche in progetti poco produttivi.
Critiche ufficiali furono fatte dal senatore democristiano Giovanni Spagnolli, presidente della
Commissione Finanze e Tesoro e della Sottocommissione Pareri per gli adempimenti in materia
di copertura degli oneri finanziari, durante una discussione di bilancio del luglio '63 sui fondi da
destinare alla ricerca scientifica336. Nel corso del dibattito sulla nazionalizzazione, assieme al
senatore Edgardo Lami Starnuti, presidente dell’Azienda elettrica municipale di Milano e della
FNAN, Spagnolli aveva polemizzato vivacemente sulla questione delle concessioni da garantire
alle aziende municipalizzate. Anche Spagnolli aveva infatti notevoli interessi in merito: era
presidente dell’Azienda elettrica municipale di Rovereto e, addirittura, della Confederazione
della municipalizzazione. Era dunque inevitabile che all’indomani della nascita dell’ENEL
entrambi continuassero in sede parlamentare a rappresentare i diritti delle autonomie locali: dalla
discussione in atto sui margini di discrezionalità che il nuovo ente elettrico avrebbe dovuto
attribuire in merito alle concessioni, dipendevano notevoli ritorni economici perché i nuovi
assetti avrebbero rappresentato una redistribuzione dei poteri in favore delle amministrazioni
locali. In questo quadro, la presenza di Felice Ippolito nel Consiglio di amministrazione
dell’ENEL risultava un forte ostacolo in quanto egli si era da sempre espresso in favore di uno
statalismo che poco avrebbe concesso agli interessi delle autonomie locali.
La figura del segretario del CNEN era dunque già al centro delle critiche e un editoriale
di Eugenio Scalfari su «L’Espresso» del 4 agosto non fece che acuire i dubbi sulla gestione
economica e politica del Comitato337. Sulla stessa linea si collocarono una serie di articoli ad
opera di Giuseppe Saragat pubblicati dall’agenzia di stampa del PSDI, «Agenzia democratica»: il
leader socialdemocratico sottolineò addirittura l’inopportunità che Ippolito fosse anche membro
del Consiglio di amministrazione dell’ENEL e paventò il rischio che i suoi metodi poco chiari
potessero rovinare la gestione del nuovo ente338. Saragat auspicava inoltre che la politica
nucleare venisse completamente assegnata all’ENEL e al suo direttore generale, Angelini, senza
la partecipazione del CNEN. L’attacco frontale a Ippolito andava analizzato in funzione del
particolare momento politico. I partiti che avevano appoggiato il segretario del Comitato
336
Cfr. B. Curli, Il progetto nucleare italiano (1952-1964), cit., p. 80.
Cfr. E. Scalfari, Chi si è accorto della nazionalizzazione? A sette mesi dalla nascita dell’ENEL, «L’Espresso», 4 agosto 1963. Al
cosiddetto “caso Ippolito” sono stati dedicati innumerevoli scritti: si vedano, ad esempio, AA. VV., L’energia nucleare e il caso
Ippolito, Roma, 1965; AA. VV., Il caso Ippolito. Quinta tavola rotonda organizzata dal Movimento Gaetano Salvemini, sabato 14
novembre 1964, Roma, 1964; O. Barrese, Un complotto nucleare. Il caso Ippolito, Roma, 1981; G. Battimelli (a cura di), L’Istituto
Nazionale di Fisica Nucleare, cit., p. 158-166.
338
Cfr. B. Curli, Il progetto nucleare italiano (1952-1964), cit., p. 82. Per uno studio sulle note pubblicate da «Agenzia democratica»
si veda G. Saragat, Metter ordine nella politica nucleare, Roma, 1963.
337
83
avevano infatti perso la centralità politica precedente e personalità come La Malfa e Lombardi
non avrebbero direttamente assunto responsabilità nel nuovo governo Moro in fase di
formazione. Inoltre, il PSDI mirava a aumentare in qualche modo la propria visibilità nel
tentativo di conquistarsi un maggiore spazio politico.
Successivamente, sul settimanale cattolico «Vita» venne pubblicata un’inchiesta privata
condotta da quattro senatori democristiani, facenti capo a Spagnolli339, che confermarono le
accuse precedentemente mosse a Ippolito sulla gestione economica del CNEN340. In virtù di
queste nuove insinuazioni il ministro dell’Industria, Giuseppe Togni, decise di sospendere
Ippolito dalla carica di segretario generale del CNEN e di nominare una Commissione
d’indagine amministrativa con il compito di fare chiarezza sui fatti341. Il 14 ottobre Ippolito fu
sospeso anche dal Consiglio di amministrazione dell’ENEL con un decreto del presidente della
Repubblica. Che il caso Ippolito fosse una questione politica lo si poteva desumere dal fatto che
venne sostituito nel CNEN dal ragioniere del Comitato, Ernesto Citterio, che in materia
economica poteva essere altrettanto coinvolto nell’intera controversia. D’altronde, le accuse di
cattiva gestione finanziaria erano in contraddizione con il fatto che il CNEN, con un bilancio di
circa venti milioni di lire all’anno, doveva sovvenzionare i propri progetti di ricerca e,
contemporaneamente, quelli dell’INFN, di quattordici istituti universitari, nonché i programmi di
cooperazione internazionale ai quali l’Italia partecipava con il CERN342, con l’EURATOM e con
l’Agenzia internazionale per l’energia atomica343.
L’impasse creatasi all’interno del CNEN determinò un forte immobilismo. Il mancato
finanziamento governativo rischiò di causare la chiusura definitiva del Comitato344. Solo agli
inizi di gennaio del 1964 il nuovo ministro dell’Industria, Giuseppe Medici, concesse un
finanziamento straordinario pari a sette miliardi di lire “dato l’assetto organizzativo già raggiunto
dall’Ente e l’esigenza di assicurargli un minimo di attività”345. Inoltre, agli inizi di marzo si
affidò la segreteria generale del CNEN all’ispettore generale del Ministero del Tesoro, Giovanni
Calderale, con il mandato di ridurre al massimo le spese dell’intero Comitato con la conseguenza
339
Cfr. «Vita», 5 settembre 1963.
Per approfondimenti si vedano O. Barrese, Un complotto nucleare. Il caso Ippolito, cit., pp. 105-108; B. Curli, Il progetto
nucleare italiano (1952-1964), cit., p. 82.
341
Per conoscere il testo del provvedimento del ministro dell’Industra Togni si veda Relazione della Commissione di indagine sulla
gestione amministrativa del Segretario Generale del Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare, DM del 31 agosto 1963, Gazzetta
Ufficiale della Repubblica Italiana, 4 settembre 1963, n. 2341.
342
Per uno studio sui programmi tecnici sviluppati dal CERN si veda, tra gli altri, J. Krige, History of CERN, vol. III, Amsterdam,
1996, pp. 3-38.
343
Erano queste le argomentazioni presentate in Senato dal socialista Carlo Arnaudi durante il dibattito politico che seguì; per
approfondimenti su queste discussioni si veda B. Curli, Il progetto nucleare italiano (1952-1964), cit., pp. 84-87.
344
A riprova del momento critico, nell’ottobre del '63 la Commissione direttiva del CNEN mise in serio dubbio anche la
partecipazione stessa dell’Italia alla Terza Conferenza di Ginevra che si tenne nel settembre dell’anno successivo (cfr. Verbale della
undicesima riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 26 ottobre 1963, p. 13, ASENEA).
345
G. Medici, Rapporto sull’energia nucleare in Italia, cit., p. 56.
340
84
di un rallentamento globale dei progetti in cantiere e della programmazione346. Dal punto di vista
della pianificazione tecnica, nel settembre del '63 si costituì una Commissione consultiva
temporanea CNEN-ENEL con il compito di revisionare i programmi dei reattori in previsione
del futuro sviluppo dell’energia nucleare in Italia347. La relazione conclusiva della Commissione
mista ENEL-CNEN ricalcava in gran parte le idee già espresse dal direttore generale dell’Ente
Nazionale Energia Elettrica348; in pratica ciò significava un drastico ridimensionamento delle
prospettive della ricerca nucleare italiana e dello sviluppo dello stesso CNEN che avrebbe
dovuto agire in mancanza di effettivi collegamenti con applicazioni industriali nazionali349.
Analogamente con quanto avvenuto con Felice Ippolito, Angelini entrò in forte polemica con
Amaldi, membro anch’egli della Commissione direttiva del CNEN e sostenitore da sempre di
una politica nucleare nazionale indipendente. Durante la seduta del 17 aprile 1964, dopo le
osservazioni di Amaldi circa il fatto che all’estero le scelte in materia di ricerca nucleare erano
prese dalle agenzie atomiche, Angelini reagì seccamente precisando che:
346
Per uno studio sugli interventi attuati da Calderale e sul periodo di forte crisi del CNEN si veda E. De Leone, C. Dau Novelli, Dal
CNEN all’ENEA. 1960-1982, in G. Paoloni (a cura di), Energia, ambiente, innovazione: dal CNRN all’ENEA, cit., pp. 96-102.
347
La Commissione era composta da Arnaldo Maria Angelini, Franco Castelli, direttore centrale delle costruzioni tecniche e nucleari
dell’ENEL, Teo Leardini, direttore centrale del servizio studi e ricerche dell’ENEL, Guido Baglio del Ministero dell’Industria, Mario
Silvestri del CISE, Carlo Salvetti e Vincenzo Caglioti, membri della Commissione direttiva del CNEN, Ezio Clementel, direttore del
centro di calcolo del CNEN, e Giovanni Naschi, direttore della segreteria tecnica del CNEN.
348
Cfr. E. De Leone, C. Dau Novelli, Dal CNEN all’ENEA. 1960-1982, in G. Paoloni (a cura di), Energia, ambiente, innovazione:
dal CNRN all’ENEA, cit., pp. 96-102.
349
Forti perplessità sulla nuova situazione delineatasi furono espresse anche all’interno delle aziende italiane che si erano fino a quel
momento occupate di portare avanti i vari progetti della politica nucleare italiana. Tra queste vi era l’ENI; un promemoria interno
redatto agli inizi di febbraio del '63 per conto del vicepresidente Cefis, sottolineava come l’interesse per il programma nucleare
italiano non fosse solo un’esclusiva dell’ENEL: “Tale programma interessa[va] infatti non solo l’Ente che utilizza[va] l’energia
nucleare ma anche quelli che [utilizzavano] tale energia per altri scopi (per es. produzione vapore, propulsione, ecc.), quelli
interessati alla fabbricazione dei reattori, e quelli interessati alla fabbricazione, maneggio e riprocesso del combustibile. Sarebbe
[stato] opportuno quindi che rappresentanti di questi enti partecipassero alla discussione e formulazione dei programmi. L’ENI –
d’altronde – [aveva] compiuto notevoli sforzi per formare tecnici ed organizzazione capaci di affrontare in Italia i problemi
realizzativi nei diversi campi dell’industria nucleare […] [e riteneva sarebbe stato] un danno per la Nazione se questa organizzazione
andasse dispersa”. Il promemoria continuava analizzando la situazione della progettazione e della costruzione dei reattori criticando
fortemente le scelte che Angelini si avvia a fare: “L’ENEL sembra[va] non [aver] intenzione di mettere in costruzione centrali
nucleari se non fra qualche anno e [aveva] mostrato l’intenzione di attrezzarsi per la loro progettazione. [Era] comunque probabile
che il reattore, inteso come generatore di vapore, [rimanesse] affidato ad altri enti che ne [avrebbero assunto] la fornitura o garanzia
globale. [Si riteneva] che l’Italia, dopo il non indifferente sforzo sostenuto, non [doveva] limitarsi all’acquisto di reattori di
progettazione straniera […] ma [poteva] contribuire allo sviluppo su linee proprie dei tipi di reattore che si [erano] affermati. […]
L’ENI [aveva] affrontato i problemi di progettazione, sviluppo, costruzione ed esercizio per reattori di ricerca e di potenza ed [era]
pronta ad affrontare quello dello sviluppo dei reattori da adottare per le prossime centrali”. Per quanto concerneva i suggerimenti
proposti da questo studio sull’azione da svolgere, si riteneva di dover chiedere: un “chiarimento dei compiti dell’ENEL nella
progettazione e costruzione delle future centrali nucleari”; la “definizione dei compiti del CNEN affinché questo [potesse] essere un
efficace organo di programmazione, propulsione e controllo e non un concorrente nel campo industriale”; l’”emanazione di direttive
governative atte a regolare programma e campo di azione dei diversi enti interessati allo sviluppo nucleare sulla base dei consigli di
un organo consultivo qualificato nel quale [fossero] rappresentati tutti gli interessati e utilizzata tutta l’esperienza raccolta”; la
“costituzione di una Azienda, che si [occupasse], d’accordo con l’ENEL e con le direttive di interesse nazionale a lungo raggio, delle
attuazioni industriali e commerciali relative al ciclo del combustibile in tutte le sue fasi” [Promemoria sulla situazione ENI nel
settore nucleare (M. Campanini) per Eugenio Cefis, San Donato Milanese, 3 febbraio 1964, ASE, coll. I. V. 3, udc. 279].
85
“L’ENEL [era] il solo responsabile dei risultati economici della gestione delle future centrali
nucleari [e, quindi, aveva il compito di definire] la programmazione e la progettazione delle
350
centrali stesse”
.
Nel frattempo la Commissione d’indagine amministrativa concluse i lavori il 26 ottobre
'63 e il 3 febbraio successivo, su ordine di cattura della procura generale di Roma, Felice Ippolito
fu arrestato. All’ex segretario generale del CNEN si contestarono ben otto capi d’imputazione
che andavano dal falso continuato in atti pubblici, al peculato continuato per appropriazione e
per distrazione, fino a contemplare l’interesse privato e l’abuso continuato in atti d’ufficio351. Al
termine di un processo durato quasi un anno, la sentenza di primo grado addebitò a Felice
Ippolito quasi tutti i reati, senza nessuna attenuante, e lo condannò a ben undici anni di
reclusione, oltre al pagamento di una multa pari a sette milioni di lire e alla interdizione perpetua
dai pubblici uffici. Invece, il CNEN nonostante tutto riuscì a ottenere un finanziamento pubblico
pari a centosessanta miliardi di lire per l’esecuzione del Secondo piano quinquennale, una cifra
addirittura di venti miliardi superiore alla richiesta avanzata dall’ex segretario generale e che era
stata all’origine delle accuse contro gli sprechi. L’attività del Comitato continuò dunque
seguendo le linee guida e i metodi che erano stati inaugurati da Ippolito. Quest’ultimo ottenne la
riduzione della pena a cinque anni e tre mesi di reclusione dopo il processo di appello, per poi
essere graziato dal neo presidente della Repubblica Saragat nel '66 e riammesso all’esercizio dei
pubblici uffici. In apparenza la situazione sembrava volgere alla normalità anche se, come
osservava Amaldi, per quanto concerneva il nucleare “i programmi [erano] rimasti, se non tutti,
quasi tutti, praticamente fermi […] e in particolare i grandi programmi […]. [Il CNEN rimaneva
in vita ma in una condizione che] sarebbe [stata] inconcepibile in qualsiasi altro Paese”352.
Nella realtà dei fatti la politica nucleare italiana nella sua impostazione originaria degli
inizi degli anni Cinquanta aveva subito un forte ridimensionamento. Non era solo la conseguenza
diretta del caso Ippolito, né del rallentamento, per così dire fisiologico, del programma nucleare
nazionale che tutto il mondo occidentale aveva conosciuto, anche se con tempi e modi differenti,
durante gli anni Sessanta in seguito al declino di quell’entusiasmo che aveva caratterizzato i
primi anni di sperimentazione. Nel caso dell’Italia il mutamento era stato piuttosto il prodotto del
350
Verbale della venticinquesima riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 17 aprile 1964, p. 7, ASENEA. In una
riunione successiva il prof. Vincenzo Caglioti, componente della Commissione direttiva del CNEN, riconobbe ufficialmente
all’ENEL “il compito di programmare, progettare, costruire ed esercire le centrali nucleari”, ma rivendicava per il Comitato tutte le
competenze riguardanti “l’attività di ricerca tecnologica intesa allo sviluppo dei reattori”; sulla base di questo compromesso anche il
prof. Angelini si trovò d’accordo e tutti i partecipanti convennero sull’assoluta necessità di cooperazione tra il CNEN e l’ENEL per
un adeguato e proficuo sviluppo di una politica nucleare italiana (cfr. Verbale della ventottesima riunione della Commissione
direttiva del CNEN, Roma, 15 maggio 1964, pp. 4-22, ibidem).
351
Per approfondimenti di veda B. Curli, Il progetto nucleare italiano (1952-1964), cit., pp. 91-113.
352
AA. VV., Il caso Ippolito. Quinta tavola rotonda organizzata dal Movimento Gaetano Salvemini, cit., pp. 119-122.
86
declinante interesse politico a investire in una fonte energetica che già allora si riteneva potesse
rappresentare il futuro. L’effettivo abbandono di politiche energetiche diversificate finì
praticamente per affidare quasi interamente al petrolio la produzione di energia elettrica353.
1.4. Il CNEN dopo Ippolito
Dopo l’uscita di scena di Ippolito, il ministro dell’Industria, Giuseppe Medici, decise di
ridisegnare l’organizzazione interna del Comitato. Le ragioni del cambiamento si presentarono
nelle conclusioni di un “Rapporto sull’energia nucleare in Italia” redatto nel '64:
“L’avvenire di un paese come il nostro, che sta[va] completando la trasformazione della sua
economia da agricola e precapitalistica in industriale, dipende[va], in larga misura, dal suo
patrimonio scientifico e tecnologico. […] Per attuare una politica di sviluppo economico
bisogna[va] destinare una parte non irrisoria del reddito alla ricerca; perciò i nostri investimenti in
essa [dovevano] aumentare. Soltanto così il nostro popolo [avrebbe potuto] continuare il suo
felice sviluppo. […] Era di sicuro interesse del nostro Paese attuare una lungimirante politica
nucleare, indispensabile per mantenere il posto che la storia gli ha assegnato nella civiltà
dell’Occidente”354.
Oltre a concedere un cospicuo finanziamento per il Secondo piano quinquennale del
Comitato, Medici decise di rinnovare la Commissione direttiva e di procedere alla nomina di un
nuovo segretario generale. Molti dei protagonisti della prima e più produttiva fase della politica
nucleare italiana uscirono dal CNEN; fra questi Edoardo Amaldi, Bruno Ferretti e Vincenzo
Caglioti. La nuova Commissione direttiva, insediatasi ufficialmente agli inizi del febbraio '65,
era composta da Carlo Salvetti, Arnaldo Maria Angelini, Giulio Battistini, Riccardo Levi, Adolfo
Quilico, Antonio Rostasti, Franco Marinane, in rappresentanza del Ministero dell’Industria e
Commercio e Vittorio Marchese per quello della Pubblica Istruzione. Si nominò vicepresidente
Carlo Salvetti, mentre Giovanni Calderale divenne il nuovo segretario generale. Medici
sottolineò la continuità dell’azione di propulsione scientifica promossa dal Comitato e la
necessità che tutti coloro i quali operavano direttamente o indirettamente nella ricerca nucleare in
Italia assicurassero la loro collaborazione all’ente. Dopo aver rinnovato gli organi direttivi,
Medici decise di riformare l’organizzazione interna e gli stessi programmi del Comitato. Nel
tentativo di far fronte alla situazione di incertezza sulla scelta e sull’esecuzione dei progetti, si
353
354
Per approfondimenti si veda B. Curli, Il progetto nucleare italiano (1952-1964), cit., pp. 106-113.
G. Medici, Rapporto sull’energia nucleare in Italia, cit., pp. 65-66.
87
abbandonò la vecchia struttura piramidale per una organizzazione a matrice: i settori e i
programmi dovevano costituire la linea di staff, mentre i laboratori e i centri di ricerca quella
cosiddetta di line355. Ma le difficoltà non diminuirono neanche con la nuova organizzazione
interna del CNEN attuata nel luglio del '64 in forza della quale il Comitato si articolò in quattro
settori scientifici ben definiti: Reattori, Ricerca nucleare applicata, Fisica nucleare e Radiazioni.
La novità assoluta rappresentata dalla nomina per ogni settore di un direttore e di un entourage
sovrintendente con un mandato annuale, aveva infatti determinato parecchie incertezze e una
forte discontinuità programmatica.
Tra i laboratori in cui le attività di ricerca ebbero maggiore impulso durante la seconda
metà degli anni Sessanta c’era quello geominerario, affidato a Mario Mittempergher, che
raccoglieva vari studi già avviati dal CNRN e dall’Istituto di Fisica dell’Università di Roma356 e
svolgeva un tipo di ricerca cosiddetta “finalizzata”: disegnare una mappa con l’inventario delle
risorse minerarie in Italia di interesse nucleare, principalmente uranio e torio. Un impegno
indispensabile per un paese che intendeva avviare delle ricerche nel settore atomico357. Le linee
programmatiche del secondo Piano quinquennale, deliberate dalla nuova Commissione direttiva
del CNEN nel 1965, erano però state elaborate sulla base di documenti tecnici preparati dal
ministro dell’Industria e Commercio che imponevano una verifica e una revisione dei principali
piani tecnologici in vigore. Si istituirono pertanto tre Commissioni di valutazione che, in pratica,
proposero e ottennero la sospensione della costruzione del reattore PRO e, confermando nella
sostanza le linee di attività del Comitato, imposero la sostituzione del ciclo dei reattori veloci da
uranio-torio a quello, ormai divenuto uno standard mondiale, dell’uranio-plutonio. Si decise
inoltre lo sviluppo di una filiera autonoma di reattori a nebbia in collaborazione con il CISE e
l’avvio del programma del reattore CIRENE, da costruirsi a Latina358. Ai gruppi di lavoro
parteciparono anche rappresentanti dell’ENEL, mentre si analizzarono ulteriormente le linee
programmatiche con il sostegno tecnico delle industrie maggiormente interessate359. Per un breve
355
Per approfondimenti si veda E. De Leone, C. Dau Novelli, Dal CNEN all’ENEA. 1960-1982, in G. Paoloni (a cura di), Energia,
ambiente, innovazione: dal CNRN all’ENEA, cit., pp. 96-99.
356
Cfr. M. Mittempergher, Laboratori centrali della Divisione geotermica, in «Notiziario CNEN», Roma, maggio 1962.
357
Per uno studio sulle ricerche della Divisione geotermica si vedano E. De Leone, C. Dau Novelli, Dal CNEN all’ENEA. 19601982, in G. Paoloni (a cura di), Energia, ambiente, innovazione: dal CNRN all’ENEA, cit., p. 99; Ente Nazionale Energia Elettrica,
ENEL 1963-1977, cit., p. 33. Tuttavia, nel '63 Felice Ippolito aveva già redatto uno studio sui metodi e sui risultati ottenuti nei primi
dieci anni di ricerche uranifere in Italia (cfr. F. Ippolito, Dieci anni di ricerca uranifera in Italia, Roma, 1963, estratto da «Notiziario
CNEN», 9, n. 7, luglio 1963). Tra il 1960 e il 1963, inoltre, la SOMIREN aveva effettuato diverse attività di ricerca nella zona di
Novazza, vicino Bergano, che avevano portato alla scoperta di un giacimento di minerali uraniferi molto interessante (cfr.
Programma tecnico-economico per l’esecuzione dei lavori di ricerca di minerali di uranio in Val Seriana da parte della SOMIREN
S.p.A., ottobre 1966, ASE, coll. BA. II. 1, udc. 181).
358
Cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31
dicembre 1966, Roma, 1967, p. 119, ASENEL.
359
Per approfondimenti sui singoli programmi di ricerca avviati si veda E. De Leone, C. Dau Novelli, Dal CNEN all’ENEA. 19601982, in G. Paoloni (a cura di), Energia, ambiente, innovazione: dal CNRN all’ENEA, cit., p. 102-116. Per un’analisi sulle scelte
strategiche del Comitato cfr. Linee programmatiche del CNEN per il prossimo quinquennio, in «Notiziario CNEN», Roma, settembre
1964.
88
periodo di tempo si tentò dunque di inaugurare una stretta collaborazione con l’ENEL e, agli
inizi del '65, un gruppo di lavoro misto operò per definire le aree di possibile collaborazione,
puntando principalmente sul ciclo dei combustibili. Un settore in cui meno potevano verificarsi
interferenze e pressioni sulle scelte dell’ENEL in materia di reattori da costruire. Tuttavia, l’ente
elettrico decise improvvisamente di sospendere le collaborazioni con il CNEN, preferendo
operare autonomamente nell’ambito italiano, sotto il coordinamento dell’EURATOM.
Ciononostante, il settore atomico tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta
iniziò a subire le conseguenze della carenza di fondi e dell’allontanamento di molti dei quadri
più qualificati. Secondo la testimonianza di Ippolito:
“Il CNEN fu ibernato per 10 anni dal 1963 al 1973 […]. Il personale tecnico scientifico che
era allora in grado di progettare e seguire la costruzione degli impianti [risultava] […]
disperso”360.
Se durante gli anni della gestione Ippolito e soprattutto in quelli immediatamente
successivi, la partecipazione di ricercatori del CNEN in qualità di docenti a corsi universitari fu
ampia, fra il '69 e il '70 le migliori condizioni economiche offerte dall’industria privata
determinarono l’abbandono quasi totale dell’interesse verso il mondo accademico. A partire
dalla seconda metà degli anni Sessanta migliorarono invece gli scambi e le collaborazioni con
paesi con i quali fino a quel momento i rapporti scientifici nel settore nucleare erano stati
pressoché inesistenti: Giappone, Polonia, Pakistan, Unione Sovietica, Brasile e altri361. Erano
però collaborazioni marginali non in grado di sopperire alla grave crisi di investimenti nel settore
nucleare che l’Italia stava attraversando in quegli anni; l’unica speranza restava legata all’ipotesi
di un collegamento diretto con i progetti e i finanziamenti europei, sebbene una politica
energetica comunitaria stentasse a decollare.
360
F. Ippolito, F. Simen, La questione energetica: dieci anni perduti (1963-1973), cit., pp. 194-195.
Nel luglio del '65, ad esempio, la Commissione direttiva del CNEN autorizzò la firma di un accordo con l’Atomic Energy Board
Sudafricano per la realizzazione di programmi nel campo dell’utilizzazione dell’energia nucleare a fini pacifici e la collaborazione
con il Comitato statale per l’utilizzo dell’energia atomica dell’URSS (Goskomitet) (cfr. Verbale della 63ª riunione della
Commissione direttiva del CNEN, Roma, 16 luglio 1965, pp. 26-27, ASENEA). Nel 1971 venne invece sottoscritta un’intesa per una
collaborazione tecnico-scientifica con l’Argentina sulla base dell’accordo bilaterale in essere tra il CNEN e la Commissione Nucleare
per l’energia atomica della Repubblica Argentina (cfr. Verbale della 234ª riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 4
giugno 1971, p. 23, ibidem), mentre si rinnovò quella con la Commissione per l’Energia atomica del Pakistan (cfr. Verbale della 221ª
riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 12 febbraio 1971, p. 28, ibidem). Sempre nel '71, un’intesa si stipulò anche
con la Commissione Nazionale per l’Energia Nucleare del Brasile (cfr. Verbale della 239ª riunione della Commissione direttiva del
CNEN, Roma, 16 luglio 1971, p. 26, ibidem). Infine, durante l’anno successivo gli accordi bilaterali di cooperazione nel campo degli
usi pacifici dell’energia nucleare interessarono l’Ungheria, il Cile e in parte anche lo Zaire (cfr. Verbale della 258ª riunione della
Commissione direttiva del CNEN, Roma, 27 giugno 1972, pp. 85-86, ibidem). Con il Commissariato per le Scienze Nucleari della
Repubblica dello Zaire l’accordo però si sottoscrisse definitivamente quasi un anno più tardi (cfr. Verbale della 8ª riunione del
Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 3 aprile 1973, p. 37, ibidem). Per ulteriori approfondimenti si veda E. De Leone, C.
Dau Novelli, Dal CNEN all’ENEA. 1960-1982, in G. Paoloni (a cura di), Energia, ambiente, innovazione: dal CNRN all’ENEA, cit.,
p. 101.
361
89
1.5. La CEE e i tentativi di avviare una politica energetica nucleare
Fin dal principio il progetto di cooperazione atomica europea, iniziato con la nascita
dell’EURATOM, aveva incontrato grosse difficoltà. La scoperta di nuovi giacimenti di uranio e
di petrolio, unita alla diminuzione dei prezzi del greggio ad opera delle grandi compagnie
petrolifere verso la fine degli anni Cinquanta, determinarono infatti la diffusa opinione che la
competitività del nucleare fosse destinata a subire un ulteriore arretramento. Le stesse iniziative
dell’EURATOM erano state concepite fino a quel momento allo scopo di garantire un
approvvigionamento uranifero adeguato in funzione della scarsità di questo combustibile. I
mutamenti dello scenario, provocarono in primo luogo l’abbandono dell’obiettivo proposto dal
Rapporto dei Tre Saggi sull’impianto di quindicimila megawatt che doveva realizzarsi nel
quinquennio 1963-1967 in virtù del programma per i reattori di potenza previsto con l’accordo
USA-EURATOM362. Altrettante difficoltà incontrò l’avvio del programma comune di ricerche
nucleari che, assieme all’Agenzia di approvvigionamento dell’EURATOM e all’accordo con gli
Stati Uniti per i reattori di potenza, doveva costituire il terzo e ultimo pilastro della Comunità
appena istituita363. In particolare, non si era riusciti a stabilire delle priorità e non si era pervenuti
alla definizione di una strategia che avrebbe dovuto sfruttare i risultati degli studi già in corso nei
paesi comunitari e pianificare nuove ricerche in modo da rendere il nucleare in grado di
soddisfare le esigenze energetiche europee364. In questo quadro, forte risultò la delusione italiana
per il mancato decollo del centro di Ispra, divenuto ufficialmente centro comune di ricerca
dell’EURATOM nel marzo del 1961365. Negli anni successivi si crearono infatti altri CCR366 e
362
L’intesa doveva entrare in vigore nel febbraio del '59 e prevedeva, tra l’altro, la collaborazione tecnica e finanziaria della ImportExport Bank sui costi degli impianti [cfr. B. Curli, Il progetto nucleare italiano (1952-1964), cit., p. 63].
363
La necessità di cooperare con gli Stati Uniti in tutti i settori tecnologici al fine di colmare il gap posseduto dai paesi europei, e tra
questi in primis dall’Italia, subì un’accelerazione durante la metà degli anni Sessanta: secondo uno studio redatto dal prof. Carlo
Calosi emergeva l’assoluta “necessità di uno sforzo da parte degli Stati europei nei «settori d’avanguardia» che, come quelli spaziale
e nucleare, [erano] già arrivati alla fase industriale negli Stati Uniti grazie al continuo intervento dello Stato” [Carlo Calosi,
Cooperazione tecnologica tra Europa e Stati Uniti, Roma, 24 ottobre 1966, ASMAE, Fondo Emilio Bettini (1941-1983), busta 15].
La questione venne analizzata anche dal Consiglio Tecnico Scientifico della Difesa su iniziativa del ministro degli Esteri Fanfani e,
tra i settori tecnologici su cui concentrare la cooperazione euro-statunitense, figurava anche quello delle sorgenti energetiche che
avrebbe dovuto comprendere: le ricerche nucleari, con particolare proiezione alla propulsione nucleare; i combustibili nucleari; la
conversione diretta dell’energia (cfr. Consiglio Tecnico Scientifico della Difesa, Ritardo Tecnologico europeo, Roma, 24 ottobre
1966, ibidem). Per approfondimenti sulla questione del gap tecnologico tra Europa e Stati Uniti cfr. L. Sebesta, A new political tool
for the sixties: the technological gap, in AA. VV., Oltre la guerra fredda: gli Stati Uniti e la rinascita dell'Europa postbellica,
dattiloscritti di alcune relazioni del convegno, Firenze-Bologna, 26-29 ottobre 1994.
364
Per un approfondimento si veda, tra gli altri, F. Ippolito, F. Simen, La questione energetica: dieci anni perduti (1963-1973), cit.,
pp. 143-170.
365
Per un’analisi generale sulla posizione italiana nei confronti del programma europeo per le ricerche nucleari si veda A. Varsori,
Italy’s Policy towards European Integration (1947-58), in C. Duggan, C. Wagstaff (a cura di), Italy in the Cold War. Politics,
Culture and Society, 1948-58, Oxford-Washington, 1995, pp. 47-66.
366
Durante gli anni immediatamente successivi si costruirono infatti i centri comuni di ricerca di Petten nei Paesi Bassi, Geel in
Belgio e Karlshure in Germania.
90
quello italiano visse un periodo di stenti e di contraddizioni in concomitanza con le vicissitudini
della Comunità367.
Altrettanto insoddisfacente per l’Italia si rivelò la prassi comunitaria di assegnare,
secondo la constatazione di Amaldi, “la maggior parte dei contratti di ricerca […] a Paesi quali la
Francia, che [potevano] presentare programmi di attività assai maggiori dei nostri”368.
D’altronde, il CNEN si avviava in quel periodo a affrontare il momento più difficile della sua
storia per via del caso Ippolito e, di certo, il suo peso in sede EURATOM era stato drasticamente
ridotto369. A questo proposito, in una lettera del dicembre '65 il vicepresidente in carica
dell’EURATOM, Antonio Carrelli, si era mostrato preoccupato per la situazione di alcuni
programmi di ricerca che l’organizzazione comunitaria svolgeva in collaborazione con le
istituzioni italiane:
“[Da un lato, le] numerose proposte provenienti da organismi di ricerca di altri Paesi membri
[…] [venivano] considerate dai nostri Servizi di interesse tecnico prioritario […], [dall’altro], da
parte italiana […], dopo l’euforia dei giorni seguenti la notizia dell’ottenimento dei fondi [del
secondo programma quinquennale dell’EURATOM], non si [era] cercato di definire mediante un
contatto proficuo e conclusivo la portata tecnica e le implicazioni finanziarie dei contratti
maggiori. Ciò che maggiormente […] preoccupa[va], oltre alla perdita certa di fondi ora a
disposizione, [era] la prova di scarso interesse da parte degli enti italiani alla collaborazione
nucleare comunitaria. […] Nel quadro della partecipazione EURATOM ai reattori di potenza di
tipo sperimentale, [esistevano] fondi provenienti dal 1° programma quinquennale […] a
disposizione dell’ENEL dal 1963. Nel settore dei reattori rapidi, infine, l’importo […] che
l’EURATOM [aveva] impegnato per l’associazione con il CNEN, [era] in gran parte tuttora
inutilizzato per mancanza di un programma tecnico”370.
La Comunità europea, oltretutto, sembrava aver deciso di puntare definitivamente su
politiche nucleari su scala regionale abbandonando il progetto iniziale di uno sviluppo unitario
367
Per un giudizio negativo sull’andamento dell’EURATOM nei primi anni di vita si veda F. Ippolito, Un progetto incompiuto. La
ricerca comune europea: 1958-1988, cit., p. 62 e ss. Per un’analisi generale sul rapporto tra l’Italia e l’EURATOM si veda, tra gli
altri, B. Curli, L’esperienza dell’EURATOM e l’Italia. Storiografia e prospettive di ricerca in P. Craveri, A. Varsori (a cura di),
L’Italia nella costruzione europea. Un bilancio storico (1957-2007), Milano, 2009, pp. 211-232.
368
Verbale della ottava riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 2 maggio 1963, p. 23, ASENEA. Per ulteriori
approfondimenti si veda B. Curli, Il progetto nucleare italiano (1952-1964), cit., p. 68.
369
Secondo l’analisi presentata alla Commissione direttiva del CNEN da Achille Albonetti, direttore della Divisione Affari
Internazionali e Studi Economici dello stesso Comitato, a condizionare le insoddisfazioni italiane pesò anche il rapporto sfavorevole
tra i contributi versati all’EURATOM per lo svolgimento delle attività contrattuali e l’effettiva partecipazione comunitariadell’Italia
ai programmi nucleari. Negli altri paesi membri le entrate a questo titolo pareggiavano infatti le spese e in certi casi erano anche
superiori. Per queste ragioni risultava necessario un forte impegno del Comitato per modificare questa impostazione (cfr. Verbale
della 110ª riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 9 settembre 1966, pp. 16-27, ASENEA).
370
Lettera inviata dal vicepresidente dell’EURATOM, Antonio Carrelli, al rappresentante permanente dell’Italia presso la
Comunità europea dell’Energia Atomica, ambasciatore Antonio Venturini, Bruxelles, 8 dicembre 1965, ACS, Carte Aldo Moro,
Serie 3, Presidenza del Consiglio dei ministri, Sottoserie Questioni diverse, Busta 14.
91
dell’energia atomica. È quanto accadde in maniera definitiva nel '67 quando gli esecutivi delle
Comunità europee si fusero e le attività dell’EURATOM si suddivisero tra la Direzione della
Ricerca e quella dell’Istruzione, ponendo quasi definitivamente termine al tentativo di avviare
una cooperazione europea nel settore nucleare371.
Tuttavia, già in quegli anni si stimava che “nel 1970 oltre il 60% del fabbisogno
energetico europeo [sarebbe stato] coperto dalle importazioni [e la riduzione di queste ultime
sarebbe dipesa solo e soltanto] dallo sviluppo dell’energia nucleare”, secondo il monito lanciato
da Jack Hartshorn, Assistant Editor del settimanale inglese «The Economist» in un articolo
pubblicato il 13 aprile '63 sull’agenzia europea di stampa «Political and Economic Planning»372.
A questa conclusione Hartshorn era giunto analizzando la situazione energetica dei Sei che
durante tutti gli anni Cinquanta e fino agli inizi del decennio successivo avevano assistito a una
fase di forte espansione economica caratterizzata da un rapido incremento dei consumi di energia
e, di conseguenza, dalla graduale riduzione delle fonti locali di approvvigionamento che fino a
quel momento avevano alimentato i consumi. Ciò, dunque, da un lato, aveva portato i paesi
europei a raggiungere un elevato grado di sviluppo industriale paragonabile a quello degli Stati
Uniti e dell’Unione Sovietica, ma, dall’altro lato, aveva posto l’Europa comunitaria nella
condizione di dipendere dalle importazioni per la gran parte del fabbisogno energetico. Una
carenza di risorse interne che poneva i Sei in una situazione completamente differente rispetto a
americani e sovietici. Gli USA potevano infatti definirsi autosufficienti, mentre l’economia
dell’URSS era caratterizzata ancora da bassi consumi pro-capite e le risorse esistenti nell’intero
blocco comunista erano in questo campo notevolissime. In virtù di queste considerazioni
Hartshorn sosteneva che:
“La possibilità che i Sei [potessero] ridurre questa loro dipendenza dall’estero esiste[va] ma
non [era] tanto prossima in quanto si affida[va] allo sviluppo di una nuova fonte, l’energia
nucleare che, come [era] noto, non [poteva] ancora considerarsi competitiva con l’energia
prodotta dalle fonti convenzionali”373.
Per quanto concerneva l’Italia, lo scenario appariva ancora più fosco:
371
Si veda in proposito D. Spierenburg, R. Poidevin, The history of the high authority of the European coal and steel community:
supranationality in operation, cit., p. 799.
372
J. E. Hartshorn, La politica energetica nella Comunità europea, in «Political and Economic Planning», VI, n. 87, Roma, 13 aprile
1963.
373
Ibidem.
92
“Il vicino esaurimento delle risorse idriche – il 60% di esse [era] già stato sfruttato – [e] il
ritmo vertiginoso a cui continua[va] a svilupparsi la produzione nazionale [lasciavano] prevedere
che già nel 1970 […] l’Italia [avrebbe dovuto] importare il 75% del proprio fabbisogno
energetico. Il contributo del petrolio e del metano, pertanto, alla risorgente economia [era]
destinato ad accentuarsi”374.
La necessità per la penisola di trovare alternative energetiche adeguate e di avviare una
seria programmazione appariva dunque più urgente che in qualsiasi altro paese della CEE.
Proprio nella realizzazione di una politica energetica coordinata o, addirittura, di un mercato
comune europeo che investisse ingenti risorse sull’evoluzione del nucleare risiedevano le
speranze di limitare la dipendenza del continente dalle importazioni. Nel '62 l’accordo raggiunto
sulla politica comune agricola aveva in qualche modo aperto uno spiraglio in questo senso, ma i
fatti dimostrarono che nel settore energetico, e soprattutto in quello nucleare, le divergenze di
carattere strategico erano destinate a prendere il sopravvento.
Nella prima settimana del settembre '64 si tenne a Ginevra la Terza Conferenza mondiale
sulle applicazioni pacifiche dell’atomo che confermò le ottimistiche previsioni degli ambienti
scientifici americani e europei sulla possibilità di passare nel giro di pochi anni allo sfruttamento
su scala industriale dell’energia nucleare. Ciò presupponeva che anche l’Italia si impegnasse con
una programmazione nazionale efficace, in risposta alle difficoltà sempre maggiori di
approvvigionamento energetico man mano che le fonti tradizionali si andavano esaurendo e il
fabbisogno interno aumentava. La scarsità di fondi disponibili spingeva però verso la necessità
ineluttabile di una collaborazione internazionale che, senza una rinuncia preventiva a uno
sviluppo nucleare autonomo, permettesse di colmare in parte il gap con l’estero. Una serie di
circostanze storico-economiche avevano infatti reso possibile nei paesi occidentali più
industrializzati, e soprattutto negli Stati Uniti, un’enorme disponibilità finanziaria da destinare
alla ricerca nucleare, contribuendo a creare un divario netto con le altre nazioni. Motivazioni
differenti spinsero l’Unione Sovietica a fare altrettanto, determinando una situazione per cui,
come stava avvenendo per gli altri casi occidentali, era lo Stato a intervenire direttamente
mediante la fornitura dei mezzi finanziari necessari. In Italia, invece, questa funzione era
demandata agli organismi propri di ricerca e all’industria privata, mentre sembrava mancare un
impegno massiccio del governo. Ciò determinava la mancanza di unità di intenti e una
dispersione delle poche risorse disponibili. Secondo l’opinione di Raniero Vanni d’Archirafi,
futuro commissario della Comunità europea, l’unica opportunità per l’Italia di recuperare terreno
374
Ibidem.
93
nei confronti degli altri paesi più avanzati nelle ricerche sull’atomo risiedeva proprio
nell’EURATOM e nella capacità di collegare la programmazione nucleare nazionale con quella
comunitaria375. Il 21 luglio dello stesso anno, la Commissione europea per l’energia aveva
elaborato un parere sull’VIIIª Relazione generale dell’EURATOM, in virtù di quanto previsto
dalla risoluzione del Parlamento europeo del 22 marzo '65. La Commissione, presieduta
dall’onorevole Edoardo Battaglia, aveva mostrato un certo ottimismo che derivava dal “valore
crescente che l’energia nucleare [avrebbe dovuto] assumere per diminuire la dipendenza della
Comunità dall’esterno. […] Da queste considerazioni la Commissione della C.E.E.A. trae[va] la
conclusione che la creazione di una industria nucleare comunitaria [doveva avere] come
presupposto che il fabbisogno [energetico comunitario venisse] coperto dai produttori europei;
soltanto così, infatti, sarebbe [stato] possibile rispondere alle esigenze della concorrenza
internazionale”376. Per raggiungere il difficile e quanto mai urgente sviluppo di una politica
nucleare comunitaria era necessaria l’“armonizzazione dei diversi programmi nazionali” anche
in funzione del rafforzamento di una solidarietà fra i Sei che avrebbe potuto assumere contorni
politici:
“[Le iniziative europee avviate in tale direzione] se ben coordinate con misure da prendere
nel quadro di una politica energetica comune e generale [avrebbero potuto cementare]
economicamente i paesi della Comunità e [riavvicinarli] anche politicamente”377.
La politica energetica poteva dunque rappresentare un punto di partenza per il
proseguimento dello stesso processo di integrazione europea ma solo a condizione che la
Comunità avviasse un programma energetico efficace: una prospettiva che in quel momento
appariva di difficile realizzazione.
1.6. Tra ambizioni nazionali e collaborazione internazionale
Tra i progetti sviluppati durante gli anni Sessanta figurava il Programma reattori a acqua
pesante denominato CIRENE che rappresentò, dopo la chiusura di quello PRO nel '64, l’unico
piano di ricerca italiano per la realizzazione di un reattore nazionale. Il piano era il risultato degli
studi sullo scambio termico con miscele bifasi effettuate dal CISE dopo il suo passaggio
375
Cfr. R. Vanni d’Archirafi, L’Italia e l’Europa di fronte all’economica nucleare, in «Mondo Economico», n. 13, 3 aprile 1965.
Parere sulle parti dell’VIIIª Relazione generale della Commissione della C.E.E.A. che rientrano nella competenza della
Commissione per l’energia, redattore on. Edoardo Battaglia, Parlamento europeo, 21 luglio 1965, HAEU, Fondo European
Commission, BAC 118/1986, 975.
377
Ibidem.
376
94
all’ENEL in seguito alla nazionalizzazione. Reattori simili erano stati già sviluppati in Canada
(reattore Gentilly-1) e in Svezia (reattore di Marviken)378. In Italia lo sviluppo avvenne grazie
all’assegnazione al CISE di un contratto di valutazione per lo studio delle applicazioni del
raffreddamento con miscele bifasi a diversi tipi di reattori, anche se il progetto proseguì solo
grazie a un accordo finanziario con l’EURATOM379. A partire dal '67 l’intero Programma venne
regolato da una Convenzione tra il CNEN e l’ENEL che prevedeva la progettazione, la
realizzazione e l’esercizio di un reattore prototipo da centodieci megawatt presso la centrale
elettronucleare di Latina380. Il progetto fu affidato a una organizzazione apposita, composta da
personale del CNEN, dell’ENEL, del CISE e della Progettazioni Meccaniche Nucleari, società
del gruppo IRI-Finmeccanica. La costruzione effettiva del reattore, iniziata nel 1970, fu invece
demandata alla Ansaldo Meccanico-Nucleare, anch’essa appartenente al gruppo IRIFinmeccanica, dietro indicazione del CIPE381.
Un secondo progetto nucleare era rappresentato dal Programma reattori veloci che si
prefiggeva il compito di acquisire conoscenze necessarie per rendere l’industria nazionale capace
di progettare e costruire centrali elettronucleari dotate di reattori veloci, così da permettere
all’Italia di sviluppare una delle tecnologie più avanzate del settore. Alla fine del '64, erano
infatti già in funzione, o si avviavano a esserlo nel giro di pochi mesi, i primi reattori veloci
sperimentali in Francia (Rapsodie), Gran Bretagna (DFR), Unione Sovietica (BR-5) e Stati Uniti
(EBR II e Enrico Fermi), mentre paesi quali la Germania e il Belgio avevano già avviato da
tempo studi in questa direzione. In Italia il progetto si sviluppò fino al '67 nell’ambito
dell’Associazione EURATOM-CNEN,
ma
gli
avvenimenti
seguiti
al
caso
Ippolito
determinarono un notevole ritardo rispetto agli altri Stati europei382. Durante il 1965 si era
tentato di colmare il gap mediante un accordo bilaterale tra il CNEN e il CEA, l’Ente nucleare
378
Per approfondimenti si veda E. De Leone, C. Dau Novelli, Dal CNEN all’ENEA. 1960-1982, in G. Paoloni (a cura di), Energia,
ambiente, innovazione: dal CNRN all’ENEA, cit., p. 103.
379
Nei primi mesi del '63 venne costituito un Comitato di Collegamento CNEN-EURATOM con il compito di “esaminare
periodicamente i problemi concernenti la collaborazione con EURATOM ed in modo particolare i contratti di ricerca ed associazione
proposti da parte italiana. In questa sede, i rappresentanti del CNEN, assistiti di volta in volta da rappresentanti delle diverse industrie
interessate, [si dovevano fare] portavoce degli interessi italiani al fine di ottenere una più attiva partecipazione di EURATOM allo
sforzo compiuto dall’industria nazionale nel settore nucleare” [Lettera del segretario generale del Comitato Nazionale per l’energia
Nucleare (Felice Ippolito) alla SNAM - Laboratori Riuniti Studi e Ricerche, San Donato Milanese, 30 luglio 1963, ASE, coll. I. V. 3,
udc. 279]. Per un approfondimento sulle questioni tecniche dell’impianto si veda Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del
Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre 1966, Roma, 1967, pp. 130-132, ASENEL.
380
Cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31
dicembre 1968, Roma, 1969, pp. 113-115, ibidem; Verbale della 121ª riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 25
febbraio 1967, pp. 24-42, ASENEA.
381
Molto importante per la realizzazione del CIRENE risultò anche la conclusione di un accordo quinquennale di collaborazione tra
ENEL e CNEN da una parte, e Atomic Energy of Canada Limited, dall’altra, per uno scambio ampio di informazioni sui programmi
di ricerca e di sviluppo e sulle attività relative alla realizzazione dell’impianto di Gentilly in Canada e dello stesso prototipo italiano
(cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre
1970 Roma, 1971, pp. 127-128, ASENEL; Verbale della 190ª riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 17 aprile
1970, pp. 17-24, ASENEA).
382
Cfr. E. De Leone, C. Dau Novelli, Dal CNEN all’ENEA. 1960-1982, in G. Paoloni (a cura di), Energia, ambiente, innovazione:
dal CNRN all’ENEA, cit., pp. 104-109.
95
francese, per un’azione congiunta nello sviluppo di reattori veloci al sodio383. Fallito questo
tentativo, non senza che si verificasse il rischio di una crisi incolmabile tra il CNEN,
l’EURATOM e la Francia384, si decise di sviluppare il Programma reattori veloci in maniera
automa, alla pari di quanto accadeva negli altri paesi avanzati (USA, URSS, Gran Bretagna,
Francia, Germania e Giappone). All’interno di questo programma, il progetto più ambizioso e
affascinante era costituito dal reattore cosiddetto PEC, previsto della potenza di centoquaranta
megawatt; l’obiettivo, se raggiunto, avrebbe fornito anche un valido know-how per la
progettazione e la costruzione di reattori veloci. Il CNEN e, in parte, dietro contratto, la SNAM
Progetti del gruppo ENI e la Ansaldo Meccanico-Nucleare condussero gli studi di fattibilità e di
progettazione del PEC, mentre un consorzio industriale costituito dalla stessa SNAM Progetti e
dalla Italimpianti (anch’essa del gruppo IRI-Finmeccanica) si incaricarono della realizzazione
del reattore. Il PEC rappresentò di fatto la prima vera esperienza industriale italiana nella
realizzazione di reattori veloci prototipi che, superata la fase critica dovuta alle vicende del caso
Ippolito, conobbe una fase di intense applicazioni. Nel '67 si stipularono diversi contratti di
studio e progettazione su parti specifiche del reattore ritenute critiche; fra le ditte e gli enti
contraenti figuravano: la English Electric, la Fairey Nuclear Ltd., la Honeywell, la Kaiser,
l’Università di Bologna e la Hispano Suiza. Il progetto del reattore PEC fu inoltre sottoposto
all’esame dei tecnici della UKAEA durante una riunione tenutasi nel gennaio del '67 a Risley e,
nel novembre dello stesso anno, ricevette un esito positivo dopo un attento esame effettuato da
383
Cfr. Impostazione del programma reattori veloci, Doc. CNEN (66) 9, Verbale della 82ª riunione della Commissione direttiva del
CNEN, Roma, 21 gennaio 1966, ASENEA.
384
Secondo l’analisi presentata alla Commissione direttiva del CNEN da Achille Albonetti, direttore della Divisione Affari
Internazionali e Studi Economici dello stesso Comitato, a completamento della precedente disamina del settembre '66 e alla luce di
una relazione presentata al Parlamento dal ministro degli Esteri, Amintore Fanfani, sulla situazione dei rapporti italiani con
l’EURATOM, nonché di un documento presentato da quest’ultimo ente sui progetti futuri: “i motivi di insoddisfazione italiana […]
[partivano]: - [dall’]eccessivo sviluppo dato da EURATOM alle attività contrattuali, a tutto scapito delle attività svolte nei Centri
Comuni; - [dal] grave squilibrio a danno dell’Italia nella ripartizione fra gli Stati membri dei contratti comunitari nell’ambito del
Secondo Programma Quinquennale EURATOM, squilibrio non compensato dall’andamento del Primo Programma Quinquennale né,
tanto meno, dall’ubicazione in Italia del principale Centro Comune di Ricerche EURATOM, il Centro di Ispra; - [dall’]inefficacia
dello strumento contrattuale sul piano della collaborazione comunitaria; - [dall’]insufficiente coordinamento degli investimenti da
parte EURATOM, con conseguente verificarsi di doppi impieghi, di cui il caso più noto [era] quello relativo ai due programmi
paralleli francese e tedesco nel settore dei reattori veloci; - [dalla] concentrazione delle attività del Centro di Ispra sul programma
ORGEL […] che oltre ad essere concorrenziale con parecchi programmi svolti su scala nazionale, [era] ritenuto scarsamente
interessante dagli ambienti nucleari italiani, comunitari e internazionali; - [dal] mancato rinnovo del contratto di associazione
EURATOM-CNEN nel settore dei reattori veloci. A distanza di circa 6 mesi dal precedente dibattito della Commissione Direttiva sui
problemi di EURATOM (settembre 1966), la crisi della Comunità si [era] notevolmente aggravata ed i rapporti tra quest’ultima e
l’Italia [erano] sensibilmente peggiorati. Non [era] stato, infatti, ancora possibile ottenere il rinnovo dell’associazione EURATOMCNEN nel settore sei reattori veloci, nonostante che: - la copertura finanziaria integrale di tale associazione [fosse stata] assicurata fin
dal 1965, nell’ambito dell’attuale Piano Quinquennale Comunitario; - nell’ottobre scorso la Commissione EURATOM [avesse]
approvato incondizionatamente sul piano tecnico, il programma presentato dal CNEN (reattore PEC); nella seduta del 27 ottobre
scorso, il Consiglio dei ministri EURATOM [avesse] dato espresso mandato al Comitato dei Rappresentanti Permanenti di procedere
urgentemente all’esame della proposta di EURATOM per rinnovare l’associazione con il CNEN. Tale situazione [era] dovuta
principalmente all’opposizione francese nei confronti del piano italiano che, invece, [aveva] accolto consensi pressi le altre
delegazioni. Nel frattempo, la Commissione [aveva] provveduto a consegnare al Commissariat à l’Energie Atomique il plutonio
acquistato negli USA per il funzionamento dell’esperimento critico Mazurka. Questa decisione della Commissione [rivestiva]
carattere di indubbia gravità, in quanto la suddetta operazione non [aveva] la necessaria copertura finanziaria, in assenza di un
impegno finanziario francese pari 2,8 milioni di dollari ovvero in assenza di un ulteriore revisione del programma quinquennale
EURATOM da decidersi all’unanimità” (Verbale della 122ª riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 5 marzo 1967,
pp. 7-9, ibidem).
96
una commissione di tecnici della Atomic Power Department Associated di Detroit, della Power
Reactor Development Company e della Detroit Edison. In dicembre si scelse quale sito per la
realizzazione del reattore la località di Brasimone, vicino Bologna385, e si stipularono contratti di
progettazione, studio e consulenza con la Stein Industrie, l’Atomic Power Department
Associated, The Nuclear Power Group Ltd., il Centro di studi nucleari Enrico Fermi del
Politecnico di Milano, la Hispano Suiza, la English Electric. Con quest’ultima si sottoscrisse
inoltre un contratto per i lavori sperimentali386, così come con la Sogreah387, l’EURATOM,
l’Università di Bologna e con l’Istituto sperimentale modelli e strutture388.
Allo studio figurava anche il Programma navale per la propulsione nucleare iniziato già
nel '57 dalla FIAT e dall’Ansaldo le quali, nel dicembre 1961, stipularono un contratto di
associazione direttamente con l’EURATOM mediante la partecipazione del CNEN. Si pervenne
così, nel dicembre del '66, alla firma di una convenzione tra il CNEN e la Marina Militare per la
costruzione di una nave di appoggio logistico da diciottomila tonnellate (la “Enrico Fermi”
azionata da un reattore nucleare) e per la realizzazione di una stazione di servizio a terra389.
Maggiore interesse a livello internazionale suscitò il Programma ROVI, diretto da Raffaele Di
Menza, che si basava sullo sviluppo di un reattore a liquido organico con caratteristiche tali da
fornire, in impianti di medie dimensioni, vapore industriale per la dissalazione delle acque
salmastre e marine. Grazie agli studi compiuti da un gruppo di esperti del CNEN e delle società
SNIA Viscosa-BPD, Montedison, SNAM Progetti e SORIN, nel '68 si costituì un Consorzio
industriale in cui si riunirono le competenze di tali aziende, oltre a quelle delle imprese Breda
Termoneccanica Locomotive (gruppo EFIM), della FIAT e dell’Italimpianti, con l’obiettivo di
esaminare le concrete possibilità di realizzazione di un reattore nazionale ROVI in un’area a
forte carenza di acque dolci. Questi studi erano già stati avviati da tempo in diversi paesi,
soprattutto negli Stati Uniti, ma erano stati sviluppati con impianti che combinavano la
produzione di acqua dolce e di energia elettrica e si erano rivelati spesso molto onerosi.
Viceversa, il programma italiano che si concentrava sullo sviluppo di impianti per la sola
produzione di acqua dolce, veniva seguito con molta attenzione da tutti gli esperti internazionali
soprattutto per i benefici che si potevano trarre in funzione dell’orografia della maggioranza dei
paesi in via di sviluppo, siti in regioni aride o semiaride. I primi incoraggianti risultati
385
Cfr. Verbale della 136ª riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 15 dicembre 1967, pp. 27-28, ibidem.
Cfr. Verbale della 149ª riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 13 settembre 1968, pp. 10-11, ibidem.
387
Cfr. Verbale della 151ª riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 22 novembre 1968, pp. 12-13, ibidem.
388
Per ulteriori approfondimenti si veda E. De Leone, C. Dau Novelli, Dal CNEN all’ENEA. 1960-1982, in G. Paoloni (a cura di),
Energia, ambiente, innovazione: dal CNRN all’ENEA, cit., pp. 105-109.
389
Cfr. Appunto interno al MAE, DGAE, CEE, Ufficio V, non firmato, Roma, 5 dicembre 1966, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 3,
Presidenza del Consiglio dei ministri. Sottoserie Questioni diverse, Busta 11.
386
97
condussero alla costituzione del suddetto Consorzio industriale con la partecipazione del CNEN
in qualità di ente promotore390.
Oltre ai progetti già menzionati, l’Italia partecipò in prima fila allo sviluppo di altri studi
grazie al lavoro svolto dai tecnici del CNEN e in forza dell’interesse mostrato dal mondo
industriale e dei finanziamenti dell’EURATOM. In questo ambito rientrava il Programma sul
ritrattamento chimico del combustibile irradiato che portò alla realizzazione dell’impianto
EUREX, realizzato a Saluggia, che costituì l’esperimento preliminare per il progetto EUREX-2
nato nel '69 grazie alla collaborazione tra il CNEN e l’AGIP Nucleare. Nel 1965 si giunse inoltre
a un accordo fra il vicepresidente del CNEN e il presidente dell’USAEC per il riprocessamento e
la fabbricazione del combustibile scaricato dal reattore americano di Elk River e per
l’ampliamento dell’intesa a tutti gli aspetti basati sul sistema uranio-torio391. Il progetto,
denominato Programma PCUT, subì però un notevole ridimensionamento tre anni dopo a seguito
della rinuncia dell’USAEC. Nel '66, invece, prese l’avvio il Programma sul riciclo del plutonio
nei reattori provati (ovvero di prima generazione) che, in stretta collaborazione con l’ENEL,
mirava a acquisire le conoscenze necessarie allo sviluppo di combustibile nucleare ceramico a
base di plutonio, finalizzato all’uso di questo metallo prodotto nei grossi impianti elettronucleari
già in funzione in Italia. Per questo motivo il CNEN costruì presso il centro di Casaccia un
impianto pilota nel '68, realizzato dalla SORIN392.
Certamente più importante si rivelò il Programma arricchimento uranio ideato con
l’obiettivo di sviluppare le capacità progettuali e realizzative dell’industria nazionale in questo
campo, al fine di permettere all’Italia la partecipazione alla realizzazione di un eventuale
impianto di arricchimento nell’ambito di iniziative comunitarie o internazionali che iniziavano a
profilarsi durante la seconda metà degli anni Sessanta393. Tutti i paesi tecnologicamente più
avanzati erano infatti già impegnati nello sviluppo di questi progetti: Stati Uniti, Francia, Unione
Sovietica, Gran Bretagna, Olanda, Repubblica Federale Tedesca, Belgio, Svizzera, Svezia,
Giappone e Cina. Con l’obiettivo di promuovere concrete collaborazioni in questo ambito, nel
dicembre del '67 si promosse la costituzione del CIAU cui partecipavano, oltre al CNEN e
all’ENEL, rappresentanti del Ministero dell’Industria e Commercio, della Confindustria, del
FIEN, dell’ENI, dell’IRI, della SNIA Viscosa, della FIAT e della Montedison394.
390
Cfr. E. De Leone, C. Dau Novelli, Dal CNEN all’ENEA. 1960-1982, in G. Paoloni (a cura di), Energia, ambiente, innovazione:
dal CNRN all’ENEA, cit., pp. 110-111.
391
Cfr. Verbale della 76ª riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 12 novembre 1965, pp. 3-9, ASENEA.
392
Cfr. E. De Leone, C. Dau Novelli, Dal CNEN all’ENEA. 1960-1982, in G. Paoloni (a cura di), Energia, ambiente, innovazione:
dal CNRN all’ENEA, cit., pp. 111-115.
393
Cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31
dicembre 1967, Roma, 1968, p. 103, ASENEL.
394
Cfr. E. De Leone, C. Dau Novelli, Dal CNEN all’ENEA. 1960-1982, in G. Paoloni (a cura di), Energia, ambiente, innovazione:
dal CNRN all’ENEA, cit., pp. 115-116.
98
Un discorso a parte merita inoltre il progetto per la costruzione in Italia del cosiddetto
protosincrotrone da trecento Giga electron Volt ideato dal CERN. Un protosincrotrone o
sincrotrone per protoni era un tipo di acceleratore di particelle elementari per lo studio della
fisica subnucleare costruito per la prima volta nel '52 presso il Brookhaven National Laboratory
dello Stato di New York, conosciuto con il nome di Cosmotron, che poteva accelerare i fasci di
particelle all’energia di tre GeV. I promettenti risultati ottenuti da questo primo esperimento
spinsero gli scienziati del più grande laboratorio al mondo per la ricerca di fisica delle alte
energie a progettarne la realizzazione anche in Europa. Secondo un rapporto redatto
dall’ambasciatore presso il Centro Europeo delle Nazioni Unite, Justo Giusti del Giardino, la
realizzazione di un impianto simile avrebbe permesso agli Stati europei di mantenere in vita la
difficile competizione con gli USA in ambito scientifico e, soprattutto, avrebbe evitato quel
fenomeno che oggi viene identificato con il nome convenzionale di “fuga di cervelli”:
“La «grande macchina» progettata dal CERN [avrebbe consentito] all’Europa di mantenere
di fronte agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica la posizione competitiva ora raggiunta per quanto
concerne[va] gli studi della fisica delle particelle elementari nel campo della fisica nucleare delle
alte energie. Ove non fosse possibile raggiungere un accordo europeo per la costruzione della
«grande macchina», [sarebbe stato] da prevedere sia un netto distanziamento scientifico
dell’Europa a favore americano e sovietico, sia una massiccia fuga da essa dei migliori scienziati
europei delle nuove generazioni, sia infine un grave danno nel settore dello sviluppo
tecnologico”395.
Per questo progetto ben nove paesi avevano offerto “siti” con le caratteristiche necessarie
per la realizzazione: Spagna, Francia, Belgio, Regno Unito, Norvegia, Svezia, Austria,
Repubblica Federale Tedesca e, come detto, Italia. Le due località della penisola identificate
erano Doberdò del Lago, in provincia di Gorizia, e Nardò, nel leccese; l’eventuale scelta di uno
dei due siti per la realizzazione del progetto avrebbe certamente giovato al prestigio italiano.
Tuttavia, l’intera opera necessitava di “una valutazione definitiva dei costi e dell’accertamento
della disponibilità degli Stati membri a realizzare il progetto […]. [Secondo il governo italiano,]
questi elementi [costituivano] premessa indispensabile [per evitare che l’Italia non si venisse a
trovare nella spiacevole situazione di non poter attuare il programma europeo]”396.
395
Progetto sul Protosincrotrone da 300 Gev, Telespresso n. 45/24882, inviato dal MAE, DGAE, CEE, Ufficio V alla Presidenza del
Consiglio dei ministri, Roma, 3 dicembre 1965, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 3, Presidenza del Consiglio dei ministri. Sottoserie
Questioni diverse, Busta 15.
396
Lettera inviata dall’ambasciatore italiano presso il Centro Europeo delle Nazioni Unite, Justo Giusti del Giardino, al Presidente
del Consiglio del CERN, M. G. W. Funke, Ginevra, gennaio 1967, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 3, Presidenza del Consiglio dei
ministri. Sottoserie Questioni diverse, Busta 54.
99
Escludendo il sito leccese data la sua perifericità, anche se ufficialmente questa
destinazione non si abbandonò mai, per avviare il progetto a Doberdò risultavano necessari
ulteriori “stanziamenti di 120 miliardi per 5 anni e di altri 12 miliardi all’anno per la maggiore
spesa di esercizio”397 in quanto la sede friulana era stata già concessa al Ministero della Difesa
che aveva provveduto alla costruzione di una base militare. La zona di Gorizia presentava infatti
l’annoso problema della vicinanza con la Jugoslavia di Tito e della questione triestina398,
spingendo il governo italiano a fortificare la zona di frontiera proprio a Doberdò. Tuttavia,
secondo il parere espresso dal presidente dell’INFN, Giorgio Salvini, sarebbe risultato
importantissimo per l’Italia associarsi al progetto europeo, anche nel caso in cui fosse stato
realizzato all’estero. Le spese eccessive della sede friulana avrebbero perfino inciso troppo
negativamente sui vantaggi economici derivanti dalla costruzione dell’impianto in territorio
italiano:
“La partecipazione italiana ad una impresa europea di tanto rilievo come la realizzazione
dell’acceleratore da 300 GeV [era] di straordinaria importanza, e […] l’Italia [doveva]
associarvisi anche nell’ipotesi che essa dovesse essere realizzata fuori dal nostro Paese. La
realizzazione della macchina in territorio italiano [avrebbe comportato] […] oltre che un grande
vantaggio tecnico, civile e scientifico, anche dei vantaggi economici assai rilevanti, ove si [fosse
considerato] che non meno del 50% del bilancio di funzionamento del Laboratorio europeo
sarebbe [stato] speso in territorio italiano. […] I vantaggi economici che [sarebbero derivati] –
tuttavia – […] sarebbero [stati] in gran parte annullati se alle spese relative alla partecipazione
alla costruzione della macchina […], ed alle spese a carico dell’Italia per le infrastrutture […],
dovessero aggiungersi le notevolissime, inattese spese (specifiche per il sito di Doberdò) per la
particolare riorganizzazione della zona per speciali esigenze non considerate nelle infrastrutture;
spese che […] risulterebbero [essere] pari a 240 miliardi di lire in 15 anni”399.
Come spesso avveniva una decisione così importante si rimandò a lungo per consentire
opportune valutazioni politiche400; ciò dimostrava che la scelta di costruire il protosincrotrone sul
397
Lettera inviata dal Presidente del Consiglio dei ministri, Aldo Moro, al ministro degli Affari Esteri, Amintore Fanfani, Roma, 26
maggio 1967, ibidem.
398
La questione triestina si risolse solo nel '75 con il Trattato di Osimo e con la cessione da parte italiana della zona B dell’ex
Territorio Libero di Trieste, ovvero dell’Istria nord-occidentale. Per approfondimenti si veda, tra gli altri, M. Bucarelli, La questione
jugoslava nella politica estera dell’Italia repubblicana (1945-1999), Roma, 2008.
399
Lettera inviata dal presidente dell’INFN, Giorgio Salvini, al Presidente del Consiglio dei ministri, Aldo Moro, Frascati, 8 luglio
1967, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 3, Presidenza del Consiglio dei ministri. Sottoserie Questioni diverse, Busta 11.
400
Nel dicembre del '67, infatti, in una lettera indirizzata a Fanfani il presidente del Consiglio, Aldo Moro, spiegava che “almeno
fino al giugno dell’anno [successivo], in ragione delle elezioni politiche e regionali previste, non [si era] in grado di rinunciare a
nessuno dei due siti previsti, né di assumere oneri così gravosi e in parte imprecisati, né ancor meno di ritirar[si] da un progetto
europeo, che tanto interessa[va] i nostri scienziati. In tali condizioni […] [conveniva] continuare a pretendere che, prima di
addivenire in sede internazionale ad una scelta del sito, siano studiate a fondo le implicazioni finanziarie, la ripartizione delle spese,
le procedure per la scelta stessa e infine si [avessero] gli impegni fermi dei diversi Stati a partecipare all’impresa, qualunque [fosse]
100
territorio italiano aveva un forte valenza politica, specie in funzione della località che si sarebbe
ufficialmente prescelta. In proposito, il ministro della Difesa, Roberto Tremelloni, fece pervenire
alla Presidenza del Consiglio il parere tecnico-militare del Consiglio Supremo di Difesa che si
opponeva con fermezza all’ipotesi di cambio di destinazione d’uso:
“La cessione dell’area di Doberdò – con la sua conseguente smilitarizzazione – non
rende[va] possibile una efficace difesa della nostra frontiera nord-orientale con le forze
disponibili e programmate. Difatti [si sarebbe venuto] a creare […] [un] vuoto difensivo […]
nella zona del Carso […]. [Tuttavia si decise]: di non porre riserve alla candidature dell’area di
Doberdò; che, se tale area [venisse] prescelta dal CERN, [sarebbero state] prese le necessarie
decisioni per garantire l’efficace difesa della frontiera nord-orientale […]. In conclusione, si
sottolinea[va] la necessità che l’eventuale cessione dell’area di Doberdò [fosse] subordinata al
finanziamento occorrente per l’adeguamento dello strumento militare”401.
L’uso della zona di Gorizia per la realizzazione del protosincrotrone avrebbe dunque
potuto arrecare problemi difensivi in virtù dei cattivi rapporti italo-jugoslavi, mentre il sito di
Nardò, per il quale Moro ci teneva particolarmente perché vicino alla sua terra nativa,
soddisfaceva le esigenze strutturali richieste: aveva un territorio sfruttabile, sicuro e molto più
vasto di quello di Doberdò per gli eventuali progressi futuri e si trovava, soprattutto, in un’area
depressa dell’Italia, rispondendo appieno alle esigenze di sviluppo del paese. I continui rinvii del
governo italiano non giocarono a favore della penisola e la scelta sul sito ricadde in un tunnel al
confine franco-svizzero, dove il cosiddetto Super Proton entrò in funzione nel '76.
Come se non bastasse, talvolta alla lentezza delle decisioni del governo si sommava
l’ostilità dei partner comunitari come nel caso del progetto di rinnovo dell’accordo italobritannico di cooperazione raggiunto nel '57 nel campo degli usi pacifici dell’energia nucleare. In
questa occasione, la Comunità europea espresse parere negativo alla richiesta italiana: secondo
quanto sostenuto dalla Commissione, nella proroga di intese simili si era “sempre ritenuto che
l’articolo 106 del Trattato, il quale fa obbligo agli Stati membri di avviare con gli Stati terzi
trattative volte a ottenere per quanto possibile la cessione alla Comunità dei diritti ed obblighi
l’esito della scelta del sito. Una simile scelta [era] perfettamente aderente alla prassi nel campo multilaterale ed [era] pienamente
giustificata dalla logica che regge[va] una tale operazione. Se non si fosse sicuri del numero e della qualità dei contribuenti, si
[sarebbe dovuto] temere che l’esito della scelta influisse negativamente sugli impegni definitivi e quindi sugli oneri che ognuno
[avrebbe dovuto] sostenere. D’altra parte […] una tesi simile [era] stata sostenuta dalla Germania: […] dovremmo formalmente
associarci a tale presa di posizione, precisando che l’Italia si [asteneva] dal prendere impegni e dal fare la richiesta «dichiarazione di
intenzioni» fintantoché il progetto non [venga] esaminato nel suo complesso e soprattutto nei suoi aspetti finanziari” (Lettera inviata
dal Presidente del Consiglio dei ministri, Aldo Moro, al ministro degli Affari Esteri, Amintore Fanfani, Roma, 9 dicembre 1967,
ACS, Carte Aldo Moro, Serie 3, Presidenza del Consiglio dei ministri. Sottoserie Questioni diverse, Busta 54).
401
Lettera inviata dal ministro della Difesa, Roberto Tremelloni, al Presidente del Consiglio dei ministri, Aldo Moro, Roma, 3
novembre 1967, ibidem.
101
derivanti da tali accordi, si opponesse al rinnovo puro e semplice degli accordi bilaterali conclusi
anteriormente all’entrata in vigore del Trattato”402. Di fatto non era stato prorogato nessuno degli
accordi di questa natura:
“La transizione dal quadro bilaterale al quadro comunitario [era] stata del resto riconosciuta
normale da Stati terzi che [erano] parte di accordi bilaterali con Stati membri. […] per quanto
riguarda[va] la Gran Bretagna, […] sia nell’accordo italo-britannico del 28 dicembre 1957
(articolo II), sia nell’accordo di cooperazione EURATOM-Gran Bretagna (articolo XV), il
governo del Regno Unito si [era] esplicitamente dichiarato disposto ad intavolare delle trattative
volte ad ottenere la cessione alla Comunità dei diritti ed obblighi derivanti dagli accordi bilaterali
da esso conclusi. Mossa dalla preoccupazione di non creare discriminazioni tra gli Stati membri,
la Commissione non è in grado di rilasciare il suo benestare per la proroga dell’accordo italo403
britannico”
.
Nel quadro dell’utilizzazione pacifica dell’energia nucleare si registrarono infine una
serie di discussioni sul Trattato di Non Proliferazione nucleare; firmato il 1° luglio 1968,
l’accordo si poneva come obiettivo primario il mantenimento del controllo sulle applicazioni
pratiche degli studi sull’atomo, principalmente ad opera di Stati Uniti e di Unione Sovietica404. Il
trattato si basava su tre principi: disarmo, non proliferazione e uso pacifico del nucleare,
proibendo agli Stati firmatari non in possesso di armi atomiche di procurarsi questi armamenti e,
al contempo, ai paesi che disponevano di questi ultimi di fornire alle altre nazioni le tecnologie
belliche necessarie alla costruzione delle suddette armi405. Il trasferimento di queste tecniche
nucleari per scopi pacifici, che era invero uno degli obiettivi incoraggiati proprio dal TNP,
doveva avvenire sotto il controllo dell’AIEA, ma le limitazioni previste generarono una serie di
discussioni e polemiche con i paesi non nucleari. Era il caso, ad esempio, dell’Italia preoccupata
che i controlli generassero restrizioni troppo vincolanti perfino nell’utilizzazione pacifica del
nucleare406. In funzione di ciò, le nazioni che ancora non possedevano armi atomiche
402
“Accord de coopération sur l’énergie nucléaire entre l’Italie et le Royaume-Uni”, Communication de M. Martino, Commission
des Communautés Européennes, Secrétariat Général, Bruxelles, 6 giugno 1968, HAEU, Fondo Edoardo Martino, n. 227.
403
Ibidem.
404
Il trattato fu sottoscritto da USA, URSS e Gran Bretagna e entrò in vigore il 5 marzo 1970; per approfondimenti si veda L. Nuti,
La sfida nucleare, cit., pp. 287-345.
405
In pratica il trattato divise il mondo in due parti: gli Stati possessori di armi nucleari e quelli non. Tra i primi, cioè tra quelli che
avevano fatto esplodere un ordigno atomico prima del 1° gennaio '67, figuravano Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna,
Francia e Cina.
406
Per un approfondimento sui chiarimenti che l’Italia avrebbe dovuto chiedere prima di aderire al Trattato di Non Proliferazione
nucleare si veda Lettera dell’ing. Giulio Cesoni a Emilio Bettini, Torino, 27 ottobre 1967, ASMAE, Fondo Emilio Bettini (19411983), busta 13. Per una testimonianza diretta si vedano Rapporto di Achille Albonetti dal titolo “Accesso degli Stati militarmente
non nucleari - che hanno rinunciato alla produzione, all’acquisto e all’utilizzazione delle armi nucleari - alle tecnologie per
l’utilizzo dell’energia nucleare, giugno 1968” in ibidem; E. Bettini (a cura di), Il Trattato contro la proliferazione nucleare, Bologna,
1968. Sulle iniziative italiane per la non proliferazione nucleare si vedano, tra gli altri, R. Gaja, L’Italia nel mondo bipolare: per una
102
convocarono una conferenza a Ginevra dal 29 agosto al 29 settembre '68 per discutere sulle
conseguenze che si sarebbero potute avere dopo la firma del TNP407. Fra gli argomenti iscritti
all’ordine del giorno, oltre a quelli specificatamente militari, figuravano: la questione delle
esplorazioni pacifiche a beneficio dei paesi non nucleari, l’assistenza a questi ultimi firmatari del
TNP nell’attuazione dei loro programmi di attività pacifiche e l’accesso alle tecnologie sull’uso
non bellico degli studi sull’atomo408. L’Italia vi partecipò con il ministro degli Esteri, Giuseppe
Medici, il quale nel suo discorso sottolineò la necessità che il trattato fungesse anche da
strumento di garanzia per il libero accesso alle forniture dei materiali nucleari e per
l’acquisizione delle necessarie conoscenze tecnologiche per i paesi privi di armamenti atomici:
“In sostanza occorre[va] raggiungere i seguenti obiettivi: a) sviluppo delle ricerche nucleari,
della produzione e degli impieghi dell’energia nucleare per scopi pacifici, senza discriminazione,
o penalizzazioni economiche; b) piena partecipazione allo scambio di informazioni tecniche e
scientifiche in materia di impieghi pacifici; c) libero accesso, per i paesi non nucleari, alle
forniture dei combustibili nucleari e degli equipaggiamenti per impianti nucleari a scopi pacifici;
d) accordi che [avrebbero dovuto garantire] ai paesi non nucleari, firmatari del Trattato, la
disponibilità dei benefici derivanti da qualsiasi applicazione pacifica delle esplosioni nucleari; e)
conferimento ad un idoneo organismo internazionale, con adeguata rappresentanza degli stati
militarmente non nucleari delle funzioni relative alle esplosioni pacifiche”409.
I concomitanti eventi cecoslovacchi non favorirono però il dialogo: l’Unione Sovietica, a
poche settimane dalla firma del Trattato di non proliferazione nucleare, aveva infatti palesemente
violato la parte del preambolo dello stesso documento che faceva richiamo alle disposizioni della
Carta delle Nazioni Unite sull’impegno degli Stati a astenersi nei loro rapporti internazionali
dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di
ogni Stato410. Secondo il parere del capo della delegazione italiana alla conferenza dei paesi non
nucleari, però, “i temi politici, anche se taluni [erano] stati oggetto di riferimenti – tra cui quello
importantissimo degli avvenimenti cecoslovacchi, ai quali si [erano] riferiti, sia pure con misura
storia della politica estera italiana (1943-1991), Bologna, 1995, pp. 173-179; A. Villani, L’Italia e l’ONU negli anni della
coesistenza competitiva, cit., pp. 326-342.
407
Cfr. Appunto non firmato dal titolo “Conferenza dei Paesi non nucleari”, New York, 6 maggio 1968, ASMAE, Fondo Emilio
Bettini (1941-1983), busta 14.
408
Cfr. Sintesi delle dieci memorie per la Conferenza dei non nucleari predisposte da esperti indipendenti, allegato di un appunto
interno al MAE, DGAP, Ufficio XIV, non firmato, Roma, 19 agosto 1968, ibidem. Alla conferenza parteciparono le delegazioni di
ben novantacinque governi (inclusi quelli dei quattro paesi nucleari Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia e Gran Bretagna che non
godevano però del diritto di voto) e di tre agenzie specializzate delle Nazioni Unite: AIEA, Organizzazione Internazionale del Lavoro
e Organizzazione Meteorologica Mondiale (per approfondimenti si veda Relazione sullo svolgimento della Conferenza dei Paesi non
nucleari, redatta dal presidente della delegazione italiana, Alberto Folchi, Roma, 30 settembre 1968, ibidem).
409
Discorso del senatore Giuseppe Medici ministro degli Affari Esteri della Repubblica Italiana alla conferenza dei paesi
militarmente non nucleari, Ginevra, 5 settembre 1968, ibidem.
410
Cfr. art. 2, comma 4 della Carta delle Nazioni Unite.
103
e senso di responsabilità, moltissimi oratori, e tra i più autorevoli, che [avevano] preso la parola
in plenaria – [avevano] avuto un’importanza marginale, e […] irrilevante”411. Ad ogni modo, le
deliberazioni approvate durante la conferenza dei paesi non nucleari furono oggetto di
discussione della XXIIIª riunione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite; in questa sede il
segretario generale, tra l’altro, fu incaricato di portare avanti una serie di iniziative volte a
perseguire gli scopi del summit di Ginevra e, in modo particolare, la parte relativa agli usi
pacifici dell’energia atomica412. L’Italia decise di aderire ufficialmente al TNP solo nel maggio
del '75.
1.7. La nuova crisi del CNEN
Anche se il numero dei progetti e degli studi avviati era notevole e le collaborazioni fra
CNEN, industria italiana, EURATOM e altre società internazionali apparivano altrettanto
consistenti, mancava un forte centro di coordinamento nazionale che godesse di un consenso
unanime, sia al suo interno, sia da parte delle forze governative e che, soprattutto, riuscisse a
ottenere i finanziamenti necessari per proseguire i programmi in corso. Fra il '65 e il '67 si
susseguirono infatti una serie di scontri tra Ferrante Pierantoni, capo progetto dell’Associazione
EURATOM-CNEN per i reattori veloci, e i capi direttivi dei quattro settori incaricati del
coordinamento delle attività del Comitato. Forse alla base di queste divergenze, che assunsero a
volte anche toni aspri, vi era la precaria situazione economica in cui versava il CNEN. L’allora
presidente, nonché ministro dell’Industria, Commercio e Artigianato, Giulio Andreotti, decise
quindi di adottare nuovamente una organizzazione piramidale. Tuttavia, nel dicembre '68
Andreotti lasciò la carica ministeriale e il Parlamento fu chiamato a discutere un’ulteriore legge
di riforma del Comitato. Il CNEN, nel frattempo, fu praticamente abbandonato a se stesso e lo
sviluppo di una nuova programmazione strategica rimase praticamente assente fino agli inizi
degli anni Settanta.
Nel tentativo di rivitalizzare i progetti di ricerca in corso e di avviare una rinnovata
strategia programmatica, il segretario generale del Comitato, Giovanni Calderale, nel '70 mise in
funzione un Gruppo di lavoro per l’area tecnologica, composto dai direttori dei settori, dei Centri
e dei Programmi, che, alla luce della ridotta disponibilità finanziaria, avrebbe dovuto avanzare
proposte alla Commissione direttiva. Il GLAT constatò la necessità di operare ulteriori
411
Relazione sullo svolgimento della Conferenza dei Paesi non nucleari, redatta dal presidente della delegazioni italiana, Alberto
Folchi, Roma, 30 settembre 1968, ASMAE, Fondo Emilio Bettini (1941-1983), busta 14. Molto interessanti, ad esempio, i commenti
relativi alle deliberazioni approvate durante questo summit e i giudizi sui risultati ottenuti dall’Italia.
412
Per approfondimenti si veda Conclusione dei lavori della XXIII Assemblea Generale dell’Onu sulla questione della Conferenza
dei Paesi non nucleari, Telespresso n. 064/0018/C, MAE, DGAP, Ufficio XIV, Roma, 9 gennaio 1969, ibidem.
104
pesantissimi tagli su alcuni dei grandi Programmi tecnologici in atto, con notevoli ripercussioni
sull’intero sviluppo dell’industria nucleare nazionale. Legge n. 1240 del 15 dicembre '71 cercò in
qualche modo di risollevare le attività del Comitato operando una netta ristrutturazione
dell’organizzazione interna: si soppresse la figura del segretario generale che si sostituì con un
direttore generale con compiti e funzioni ben definiti. Il presidente del Comitato, secondo quanto
previsto dalla nuova normativa, non sarebbe più stato il ministro dell’Industria e Commercio; si
assegnò dunque l’incarico a Ezio Clementel, uno dei primi direttori delle ricerche del CNRN che
aveva ricoperto per vent’anni il ruolo di direttore del centro di Bologna del CNEN.
Vicepresidente rimase Carlo Salvetti, mentre si nominò direttore generale Gianfranco Franco. La
nuova struttura del Comitato prevedeva un modello piramidale che eliminava i settori precedenti
e costituiva dei dipartimenti con la responsabilità gerarchica dei laboratori. Si istituirono un
Consiglio di amministrazione e una giunta esecutiva in luogo della commissione direttiva413.
Inoltre, l’articolo 2 ampliava e precisava le mansioni del Comitato:
“[Il CNEN aveva il compito, tra gli altri]: - di effettuare, anche su commessa, e promuovere
studi, ricerche ed esperienze curandone l’opportuno coordinamento, nel campo delle discipline
nucleari, dei relativi impianti e della protezione dalle radiazioni ionizzanti; - di provvedere, in
collaborazione con le industrie nazionali specializzate nel settore, alla progettazione, costruzione
e sviluppo di prototipi di reattori di impianti e di componenti nucleari prototipi, sperimentali e
pilota, ivi compresi quelli relativi al combustibile nucleare, al suo riprocessamento ed alla
utilizzazione di materiali di interesse nucleare e delle relative tecnologia. In mancanza della
prevista collaborazione, il CNEN [avrebbe potuto] provvedere direttamente alle realizzazione di
cui sopra, previo parere del CIPE”414.
Nel perseguimento dei suoi compiti il CNEN poteva dunque affidare a terzi qualificati
l’esecuzione di studi e esperienze, associarsi contrattualmente con industrie e assumere
partecipazioni di minoranza in società per azioni, consorzi industriali e società a statuto
internazionale che avessero come fine l’uso pacifico dell’energia nucleare. Infine, gli articoli 25,
26 e 27 della legge stabilivano il distacco definitivo dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare dal
CNEN, riconoscendo l’INFN come ente autonomo, posto sotto la sorveglianza del Ministero
della Pubblica Istruzione e sottoposto alle direttive del CIPE.
413
Cfr. “Norme relative alla ristrutturazione del Comitato nazionale per l’energia nucleare (CNEN)”, legge n. 1240 del 15 dicembre
1971.
414
Ibidem, art. 2.
105
Tuttavia, nonostante l’ulteriore riorganizzazione interna, il Comitato si avviava a
ricoprire inevitabilmente un ruolo sempre più marginale nel quadro della politica nucleare
italiana.
2. La politica petrolifera italiana durante gli anni Sessanta
2.1. L’ENI dopo Mattei
Dopo la morte di Mattei, Marcello Boldrini divenne presidente dell’ENI anche se di fatto
fu Eugenio Cefis, in qualità di vicepresidente, a predisporre i piani dell’ente statale415.
Quest’ultimo aveva affiancato l’ingegnere marchigiano fin dal 1948 nella ristrutturazione
dell’AGIP e nella creazione e nello sviluppo dell’ENI stesso416. Gli ottimi rapporti fra i due
improvvisamente subirono una battuta d’arresto quando nel gennaio '62 Cefis decise di lasciare
l’ENI. Questa scelta suscitò notevoli perplessità perché molti la associarono alle contingenze e
agli sviluppi successivi: in quel momento Mattei stava negoziando con Ben Bella la costruzione
di un metanodotto fra Italia e Algeria, nonostante le offerte americane di collaborazione. Le
dimissioni di Cefis sembravano dunque in qualche modo collegate alla volontà del presidente
dell’ENI di concludere l’accordo con gli algerini417. Con l’incidente di Bascapè, il progetto finì
nel dimenticatoio e, anzi, Cefis, ritornato in società e insediatosi ai vertici, fu tra gli artefici dello
smantellamento di gran parte dei progetti matteiani e del cambiamento dell’intera politica
dell’ENI418. Il nuovo vicepresidente preferì accordarsi con la ESSO per la fornitura di gas libico
da trasportare dalla Libia a Panigaglia, vanificando così il lavoro di Mattei relativamente
all’accordo con algerini e francesi e innescando non poche proteste da parte di questi ultimi e di
molti paesi produttori mediorientali419. Al di là di tutto, restava il fatto che da quel momento in
poi ci si confrontò con un Ente Nazionale Idrocarburi completamente diverso dal passato; anche
se all’interno della nuova direzione non tutti erano favorevoli al cambiamento: fra questi
415
Cfr. G. Galli, La sfida perduta: biografia politica di Enrico Mattei, cit., p. 217.
Cefis e Mattei si erano conosciuti durante il periodo della Resistenza nella formazione partigiana Valtoce (Valle d’Ossola).
Durante quegli anni, secondo quanto riportato da Buccianti, nacque anche uno stretto rapporto tra Cefis e l’Office of Strategic
Services, l’intelligence americana che nel '47 divenne nota con il nome CIA (cfr. G. Buccianti, Enrico Mattei, cit., p. 267). Per un
approfondimento sugli eventi riguardanti Mattei negli anni della Resistenza si veda C. M. Lomartire, Mattei: storia dell’italiano che
sfidò i signori del petrolio, cit., p. 42 e ss.
417
Per un’analisi sulla figura di Eugenio Cefis e le perplessità generate con le sue dimissioni dall’ENI cfr. G. Buccianti, Enrico
Mattei, cit., pp. 266-273; B. Li Vigni, Il caso Mattei: un giallo italiano, cit., p. 24 e ss.
418
Cfr. G. Galli, La sfida perduta: biografia politica di Enrico Mattei, cit., pp. 216-218; G. Sapelli, F. Carnevali, Uno sviluppo tra
politica e strategia. ENI (1953-1985), cit., pp. 50-53.
419
Per approfondimenti si veda D. Pozzi, Dai gatti selvaggi al cane a sei zampe, cit., pp. 459-498.
416
106
l’ingegnere Raffaele Girotti, uno dei contendenti per la stessa presidenza, fautore convinto della
continuazione della politica matteiana420.
Fra le cause ritenute favorevoli alla nascita e alla caratterizzazione della politica di Enrico
Mattei vengono spesso annoverate l’instabilità del quadro istituzionale, il correntismo interno e il
frazionamento esterno dei partiti, la povertà di risorse petrolifere nazionali e di materie prime in
generale, nonché l’assenza di ingenti capitali da investire. In questo quadro, la morte di una
personalità forte come quella di De Gasperi accentuò i problemi italiani e creò quel vuoto di
potere in cui Mattei riuscì a inserirsi421. Approfittando di questa situazione, egli promosse
un’azione politica autonoma caratterizzata, tra l’altro, da finanziamenti a gruppi politici e da
consultazioni dirette, mediante la stipula di accordi, con capi di Stato e di governo esteri, spesso
senza che lo stesso esecutivo italiano ne fosse al corrente. Mentre il quadro politico interno
continuò a mostrare una certa instabilità, negli ultimi anni di vita di Mattei cominciarono a
affiorare nuove personalità in grado di contrastare efficacemente le sue scelte. Dopo l’incidente
di Bascapè sarebbe stato quindi difficile per la nuova dirigenza della società petrolifera nazionale
procedere sulla stessa strada e con gli stessi metodi; risultò complicato, in particolare, proseguire
la via antagonista nei confronti degli interessi petroliferi delle cosiddette “sette sorelle”.
Diversi furono gli studi ufficiali effettuati sul ruolo dell’ENI nel quadro delle relazioni
estere e dei rapporti con le altre società petrolifere internazionali negli ultimi anni di vita
dell’ingegnere marchigiano e nei mesi immediatamente successivi. In particolare, in una analisi
redatta dal Foreign Office nel luglio del '63, era messa in rilievo la difficile situazione economica
dell’ENI:
“We know that [ENI is] heavily in debt and that the Italian Governement[s] are not so keen
as they have been in the past to provide [to ENI] further credit”422.
Il maggiore timore risiedeva nella possibilità che la nuova dirigenza ricercasse
concessioni o accordi sul territorio dell’Iraq; in questo caso “their feud with the international oil
companies would enter an altogether more serious phase”423. In via prioritaria, ogni compagnia
petrolifera doveva assicurarsi dei mercati adeguati in cui operare e la sola via per raggiungere
una posizione solida passava attraverso la costruzione in proprio o in società di una raffineria.
420
Cfr. Letter from the Foreign Office (Mr. Miles) to Minister of Power (Mr. Wright), London, 31 luglio 1963, TNA, FO,
371/172544.
421
Per un’analisi dettaglia sulla situazione politica italiana negli anni di De Gasperi e sull’ascesa di Mattei si veda, tra gli altri, L.
Maugeri, L'arma del petrolio, cit., pp. 299-312.
422
Letter from the E.R.D., Foreign Office (Mr. A. T. Lamb) to Central Department (Mr. K. B. A. Scott), London, 15 luglio 1963,
TNA., FO, 371/172544.
423
Ibidem.
107
Tuttavia, anche in questo modo una compagnia petrolifera avrebbe dovuto affrontare la
competizione spietata del mercato a meno che non fosse stata in grado di ottenere un qualche
tipo di protezione da parte del governo locale, come si era spesso verificato del caso dell’ENI
che:
“[…] has been assiduous in seeking protection of this kind and in seeking agreements which
give its refineries a monopoly. This has led to direct conflict with the international oil
companies”424.
Sulla falsariga di quanto realizzato in passato l’ente petrolifero italiano, ora in
collaborazione con la ESSO, aveva negoziato intese dello stesso genere in India, Nigeria, Malta,
Kenya, Somalia e Sudan e stava avviando trattative simili con i governi di Pakistan, Ceylon e
Mauritius. La situazione dopo la morte di Mattei era però apparsa in via di mutamento anche agli
occhi di osservatori esterni:
“ENI’s propaganda may have lost some of its bitterness […], [although it was believed that]
ENI’s trading tactics [were] certainly no less aggressive than before”425.
La precedente ostilità fra Italia e Gran Bretagna nel settore petrolifero non era comunque
stata sufficiente a interrompere le collaborazioni tra i due paesi in altri settori commerciali;
l’impegno del governo di Sua Maestà sarebbe ora stato quello di persuadere l’Italia sui vantaggi
di una cooperazione anche nel campo petrolifero.
Uno studio effettuato dalla CIA nell’aprile del '64 presentava invece un taglio più
politico; nell’analizzare la nuova leadership dell’ENI si riconosceva che essa aveva dimostrato la
stessa dinamicità di Mattei e si riscontrava un certo appoggio della coalizione di centrosinistra al
nuovo corso:
“Premier Moro and his ministers are preoccupied with more pressing problems, and ENI
continues to enjoy a certain immunity from criticism because it has been so consistently
successful. Still expanding, at home and abroad, ENI has continued its efforts to increase trade
with the URSS and to improve relations with Us and other foreign oil companies, and its has been
even more energetic in pushing its African ventures than in Mattei’s day”426.
424
Ibidem.
Ibidem.
426
Special Report, Recent Activities of Italy’s State Petroleum Corporation, Central Intelligence Agency (CIA), Office of Current
Intelligence, Rome, April 17, 1964, LBJL, NSF, Country File, Italy, Box 196.
425
108
Dal canto suo il governo italiano era impegnato a fronteggiare difficoltà economiche cui
aveva cercato di porre in parte rimedio attraverso una legge che mirava a un maggior controllo
da parte dell’esecutivo sulle attività delle aziende statali. Sempre secondo l’analisi della CIA, la
nuova dirigenza dell’ENI si stava battendo contro alcuni tentativi di abrogare il monopolio
sull’esplorazione del petrolio nazionale e si poneva in sostanziale continuità con la “Mattei’s
policy of aggressively seeking new sources of cheap oil in any part of the world”427. Nel '63,
infatti, Boldrini aveva firmato un nuovo accordo della durata di sette anni con Mosca per
l’acquisto di quatto milioni e duecento mila tonnellate all’anno di greggio, riducendo così in
maniera considerevole la dipendenza dell’ENI dalle maggiori compagnie petrolifere occidentali.
Il nuovo presidente dell’ente petrolifero italiano aveva tuttavia più volte espresso il desiderio di
fare progressi in “developing business arrangements with US oil companies”428. In definitiva,
dallo Special Report della CIA sembrava emergere una cauta previsione circa l’evoluzione dei
rapporti dell’ENI con il governo anche in ragione del riconoscimento conclusivo di un ruolo di
rilievo nella ricostruzione economica del dopoguerra:
“Future Italian governments will probably continue to underwrite ENI’s efforts. It is also
likely, however, that in due course efforts may be made to curtail ENI’s activities. Since ENI is
one of the most important organizations in all Italian industry, it and other government agencies
would inevitably be affected by any determined effort to reshape the country’s economy along
more rational lines. Such an effort is, however, not yet in sight, and so far ENI has apparently not
even become a subject of active party controversy. The magnitude of the other problems calling
for drastic reform […] is so great that the present government may well be content to leave
relatively undisturbed an organization which has been a major factor in achieving Italy’s postwar
economy miracle, in helping to rehabilitate Southern Italy, and in boosting Italian prestige
abroad”429.
Anche secondo le informazioni raccolte dall’Ambasciata di Francia in Italia, il
mutamento al vertice non impediva di rintracciare una certa continuità negli indirizzi generali:
“Pour faire pièce aux grandes compagnies pétrolières, l’ENI, sour [sic!] la direction de
Mattei, dont la politique, après sa mort, se poursuit de façon plus assagie, s'efforce de séduire les
427
Ibidem.
Ibidem.
429
Ibidem.
428
109
pays d'Afrique et du Moyen-Orient par des contrats particulièrement favorables et la constitution
430
de sociétés mixtes”
.
Per la diplomazia d’oltralpe la maggiore prudenza mostrata dalla nuova dirigenza nulla
toglieva quindi alla continuità di una politica mirante sempre a “s’assurer […] des zones
autonomes d’approvisionnement, à y distribuer sa production et à en assurer le raffinage”431. Pur
evitando ogni aperto antagonismo con le compagnie petrolifere anglo-americane, si poteva in
effetti ragionevolmente ritenere che la nuova dirigenza continuasse le attività di ricerca e di
collaborazione con quei governi e quelle istituzioni laddove esistevano ancora spazi di manovra
autonomi da poter sfruttare a vantaggio degli interessi italiani. Rispetto al periodo precedente
non si registrarono dunque significativi mutamenti nelle strategie dell’ENI, quanto piuttosto una
serie di piccole trasformazioni432. La più importante di queste riguardò proprio la prospettiva
energetica: da ricercatore e produttore di petrolio, l’ente divenne gradualmente compratore di
greggio altrui, rallentando contemporaneamente lo sviluppo della capacità di raffinazione. I
giacimenti nazionali di metano si stavano esaurendo, mentre la domanda interna cresceva e
quindi apparve necessario avviare un forte programma di importazione. Rientravano in questo
quadro gli accordi con la Standard Oil e la Gulf Oil, così come quelli già citati con l’URSS e la
ESSO. L’ENI entrò pertanto ufficialmente a far parte del sistema internazionale petrolifero tanto
osteggiato da Mattei; si trattava, in fondo, dell’unica strada possibile per garantire un
approvvigionamento adeguato al paese e, d’altra parte, lo stesso ex presidente dell’ENI aveva a
suo tempo inaugurato questa nuova linea programmatica mediante le trattative avviate con gli
USA.
Nell’ambito di questo percorso si procedette alla fusione nel '62 dell’AGIP Mineraria
direttamente nell’AGIP, attraverso la costituzione, all’interno di quest’ultima, di una direzione
autonoma. Nel giro di poco tempo si liquidarono tutte le società minerarie che operavano in
Italia a eccezione della SOMICEM433. Nel frattempo, le nuove perforazioni effettuate dalla
direzione mineraria dell’AGIP sulla penisola portarono alla scoperta di numerosi giacimenti ma
430
Télégramme de l'Ambassade de France en Italie au Ministère des Affaires Étrangères, Rome, 21 gennaio 1965, MAEF, Archives
Diplomatiques, Afrique Levant, EU 65-70, Italie.
431
Ibidem.
432
All’interno dell’azienda il post-Mattei “è stato molto duro e difficile perché la morte di quello che noi giovani chiamavamo «il
principale» ha segnato anche un salto culturale rispetto al modo di fare impresa al quale eravamo abituati quando lui era il presidente
dell’ENI. E questo perché mentre l’ing. Mattei aveva creato un rapporto di grande familiarità con tutti i suoi lavoratori (non usava
mai la parola dipendenti) e particolarmente caldo con i suoi dirigenti (l’età massima che aveva fissa per nominarli erano trentacinque
anni), i presidenti che si succedettero lavoravano con ristretti gruppi di dirigenti […] ma molti di noi hanno continuato a lavorare
secondo gli schemi culturali e comportamentali di Mattei, conservando la filosofia di fondo ma naturalmente adeguando la gestione
dei business alle mutevoli realtà del mercato” (TRA dal dott. Giuseppe Accorinti).
433
Sulle attività della SOMICEM si veda D. Pozzi, Dai gatti selvaggi al cane a sei zampe, cit., pp. 314-323.
110
tutti di gas naturale434. Inoltre, fra il '63 e il '71 l’AGIP acquistò diversi permessi di ricerca in
numerosi Stati, costituendo nuove società, fra cui l’AGIP United Kingdom e la Norsk AGIP che,
in un consorzio con la Phillips Petroleum, ottennero autorizzazioni di ricerca per lo sfruttamento
del petrolio del Mare del Nord435. Nonostante tutto, le principali zone di produzione di greggio
rimasero in ogni caso quelle già avviate da Mattei. Nel campo della distribuzione, nel '63 si
iniziarono anche una serie di costruzioni di tronchi di condutture in virtù del progetto CEL,
l’oleodotto dell’Europa orientale che l’ex presidente dell’ENI aveva fortemente voluto. Le
direttive principali della politica petrolifera dell’Ente Nazionale Idrocarburi rimasero dunque
invariate, anche se emergeva con sempre maggiore chiarezza la necessità di impostare una
politica energetica globale.
2.2. L’ENI e il nucleare
Il 14 novembre '67 si promulgò la legge n. 1153 che integrava e modificava la precedente
norma istitutiva dell’Ente Nazionale Idrocarburi (n. 136 del 10 febbraio 1953). Secondo il nuovo
articolo 1:
“L’ENI [aveva], altresì, il compito di promuovere ed attuare iniziative di interesse nazionale
nei settori della chimica e della ricerca, produzione, rigenerazione e vendita dei combustibili
nucleari, nonché nel settore minerario attinente a questa attività. L'intervento in altri settori,
previa autorizzazione formale del Ministro per le partecipazioni statali, [era] consentito solo in
quanto essi [fossero] collegati con quelli fondamentali degli idrocarburi, dei vapori naturali, della
chimica e dei combustibili nucleari da un vincolo di strumentalità, accessorietà o
complementarietà. L'ente, oltre a gestire le partecipazioni già acquisite, [poteva] assumere, previa
autorizzazione formale del Ministro per le partecipazioni statali, nuove partecipazioni […] anche
nei settori della chimica e dei combustibili nucleari”436.
Grazie a questa integrazione legislativa, l’ENI accentuò la propria presenza nei settori
della ricerca dell’uranio, dei combustibili per centrali nucleari e del ritrattamento dell’uranio
irradiato. In particolare, per quanto riguardava l’uranio la situazione dell’approvvigionamento in
Italia era stata giudicata particolarmente critica da uno studio effettuato dal CNEN nel luglio
dello stesso anno. Fino a quel momento, il mercato di questo combustibile era stato caratterizzato
434
Cfr. M. Magini, L'Italia e il petrolio tra storia e cronologia, cit., p. 183.
Ibidem, p. 185.
436
Legge n. 1153 del 14 novembre 1967, art. 1.
435
111
da un eccesso dell’offerta sulla domanda ma ci si stava gradualmente avviando verso una
pericolosa inversione di tendenza. A differenza di quanto accaduto in altri paesi, l’Italia non
aveva ancora fatto nulla sul fronte della ricerca e dell’approvvigionamento dell’uranio. In base
all’analisi del CNEN, infatti, le prospezioni fino a quel momento eseguite sul territorio nazionale
erano state limitate alla superficie e quindi urgeva avviare nuovi studi che approfondissero la
reale situazione delle riserve interne. Solo in questo modo si sarebbe potuto affrontare, senza
ulteriori ritardi, il problema dell’approvvigionamento dell’uranio che risultava necessario per
portare avanti una politica nucleare nazionale. Ad ogni modo, la partecipazione dell’Italia a
iniziative internazionali del settore era ancora possibile, ma più il tempo trascorreva, meno
possibilità si profilavano per aderire ai progetti più promettenti:
“Il genere di iniziative intraprese dagli altri Paesi, la distribuzione geografica delle riserve, la
coalizione di grandi complessi finanziari interessati nello sfruttamento dei giacimenti, gli interessi
commerciali dei costruttori di centrali o dei fornitori di elementi di combustibile, particolari
aspetti politici, [potevano] rendere il mercato difficile per coloro che non [erano] inseriti nel ciclo
produttivo. […] I Paesi che [prevedevano] uno sviluppo dei programmi nucleari, [avevano] già
affrontato questi problemi ed [avevano] posto in essere le prime azioni tendenti a procurarsi
l’uranio occorrente per far fronte ai fabbisogni a medio ed a lungo termine. Le diverse linee di
azione adottate [erano]: 1) una ripresa e una intensificazione delle prospezioni sul territorio
nazionale per individuare giacimenti sfruttabili economicamente; 2) la stipulazione di accordi
internazionali tendenti ad assicurarsi lo sfruttamento dei giacimenti uraniferi individuati in altri
Paesi dalle squadre di prospezione – nazionali o plurinazionali – operanti in base agli stessi
accordi; 3) [erano] anche stati stipulati contratti di fornitura a lungo termine, per esempio
dall’Inghilterra con il Canada, da gruppi privati tedeschi con produttori sud-africani, etc. In Italia
le riserve accertate e possibili non [erano] allo stato attuale delle conoscenze, tali da garantire la
copertura dei fabbisogni nazionali. Tuttavia [era] da considerare il fatto che le prospezioni fino ad
oggi effettuate, tranne che in qualche caso, [erano] state limitate alla superficie ed [era] quindi
probabile che uno studio in profondità delle anomalie individuate [potesse] modificare in modo
sostanziale l’ammontare delle nostre riserve. L’Italia [aveva] ancora la possibilità di partecipare a
promettenti iniziative internazionali; [era] certo che con il passare del tempo [diveniva] via via
più difficile partecipare alle iniziative più interessanti. […] Si ritene[va] [dunque] necessario
affrontare senza ulteriori ritardi il problema dell’approvvigionamento di uranio in Italia e definire
di conseguenza una linea politica nazionale. Occorre[va] pertanto esaminare tutti i mezzi possibili
atti ad assicurare l’approvvigionamento di uranio naturale alle migliori condizioni sia per quanto
112
riguardava il costo, sia per quanto riguardava la sicurezza di approvvigionamento basandosi su
437
fonti interne od esterne”
.
Nel quadro di una efficace politica energetica il problema dell’approvvigionamento di
uranio non poteva quindi essere ignorato. Con questa politica ci si proponeva, da un lato, di
disporre di energia a basso costo e, dall’altro lato, di garantirsi la certezza del rifornimento di
combustibile. L’energia nucleare consentiva di raggiungere il primo obiettivo in quanto le
innovazioni raggiunte e gli investimenti effettuati permettevano a questa tipologia energetica di
essere già disponibile durante il 1967 a costi inferiori rispetto a quelli delle altre fonti. Più
urgente appariva invece l’avvio di una politica che mirasse a assicurare l’adeguato
approvvigionamento di uranio, sia naturale che arricchito438. Per quanto riguardava il primo
combustibile, i potenziali venditori erano soltanto il Canada, gli Stati Uniti e il Sud Africa con
l’intero mercato di fatto controllato da poche società minerarie riconducibili a questi Stati;
l’uranio arricchito derivava invece quasi esclusivamente dagli impianti statunitensi, gli unici in
grado di assicurare una copertura dei fabbisogni mondiali439. Era quindi evidente che la crescita
dell’importanza dell’approvvigionamento di combustibile nucleare per l’Italia risultava collegata
alla potenza nucleare installata, ma anche alla scarsità delle risorse energetiche interne per cui
l’energia atomica rappresentava l’unica fonte, anche se di importazione, in grado di soddisfare i
requisiti della sicurezza di rifornimento energetico e di contenimento dei costi.
A partire dalla fine del '67 i tentativi avviati in questa direzione da parte dell’ENI si
moltiplicarono. L’anno successivo la SOMIREN riuscì a ottenere permessi di ricerca in Kenia e
437
Il problema dell’approvvigionamento di uranio in Italia, Doc. CNEN (67)250, Verbale della 136ª riunione della Commissione
direttiva del CNEN, Roma, luglio 1967, ASENEA.
438
In questo contesto, dopo la promulgazione della legge n. 1153 del 14 novembre '67, il presidente del CNEN, Giulio Andreotti,
durante la riunione della Commissione direttiva del 15 dicembre sottolineò ufficialmente “la necessità di stringere contatti al più
presto con [l’ENI] al fine di procedere con unità di obiettivi”. A questa affermazione fecero seguito le parole del vicepresidente del
CNEN, Carlo Salvetti, per cui il Comitato era “pronto a mettere a disposizione delle industrie, in particolare dell’ENI, tutti i dati a
disposizione [per eventuali sviluppi di soluzioni integrate derivanti da accordi per la ricerca e lo sfruttamento di giacimenti uraniferi
all’estero] nonché ad offrire una collaborazione operativa da parte dei suoi gruppi di geologi che [avevano] compiuto prospezioni in
Italia al fine di evitare duplicazioni o ripetizioni di lavoro” (Verbale della 136ª riunione della Commissione direttiva del CNEN,
Roma, 15 dicembre 1967, p. 14, ASENEA). Nessuna dichiarazione sulla necessità di collaborazione tra CNEN, ENI e ENEL nel
settore dell’approvvigionamento di uranio fu fatta da Angelini che, come noto, era sia membro della Commissione direttiva del
CNEN che direttore generale dell’ENEL. L’impressione era che a quest’ultimo la legge n. 1153 del 14 novembre '67 non piacesse
affatto e che tra l’ENEL e l’ENI continuasse a esistere una sorta di antagonismo nel settore nucleare.
439
Il 24 maggio '67 la Commissione dell’EURATOM effettuà uno studio sui problemi relativi all’approvvigionamento di uranio
arricchito all’interno della Comunità giungendo alla conclusione che “in base ai programmi di sviluppo elaborati nei Paesi del Mondo
Occidentale, gli impianti di arricchimento attualmente esistenti non sarebbero più [stati] sufficienti verso il 1980 a coprire il previsto
fabbisogno globale di uranio arricchito di tali Paesi, per cui […] [veniva] ritenuto necessario procedere con sollecitudine allo studio
delle soluzioni possibili e dei provvedimenti da adottare”. In particolare, la Commissione reputava non ci fossero valide alternative
alla realizzazione di un grande impianto nella Comunità [Commenti alla relazione EURATOM: “Problemi relativi alla disponibilità
di un impianto di arricchimento dell’uranio nella Comunità Europea (Doc. EUR/C/1800/2/67 del 24 maggio 1967), Lettera del
vicepresidente dell’ENI, Raffaele Girotti, al Sottosegretario di Stato del Ministero dell’Industria, Commercio e Artigianato, Franco
Maria Malfatti, Roma, 14 settembre 1967, ASE, coll. I. V. 4, udc. 280]. Uno studio analogo sull’approvvigionamento del
combustibile nucleare, anche se molto più dettagliato e ricco di valutazioni tecniche, venne redatto dal CNR in novembre (cfr.
Approvvigionamento a medio e lungo termine delle materie prime essenziali per la fabbricazione dei combustibili nucleari, Roma,
novembre 1967, ACS, Fondo CNR, Presidenza Caglioti, Busta 1).
113
in Somalia e stipulò un accordo con la società canadese Denison Mines per ricerche congiunte in
concessioni da questa già acquisite nel Wyoming e nel Montana440. Nel '69 gli accordi si estesero
al Canada e alla Guyana441, mentre in Kenia la SOMIREN riuscì a ottenere un secondo permesso
di ricerca. Nel '70 l’AGIP Nucleare acquisì una partecipazione dell’8,125% nella società
francese SOMAIR, titolare di un’importante concessione nel Niger; altre joint venture si
realizzarono in Australia, mentre in Italia si continuava a esplorare la zona della Val Seriana442.
Decisamente più rilevante fu l’accordo triennale stipulato nel '68 mediante la società
Combustibili Nucleari, costituita su basi paritetiche dalla SOMIREN e dalla britannica
UKAEA443, per la fornitura all’ENEL della metà del combustibile occorrente per la centrale
elettronucleare di Latina444. Oltretutto, la SNAM Progetti, in collaborazione con la BPD,
completò l’impianto pilota EUREX per il ritrattamento di combustibili irradiati, dietro commessa
del CNEN445. Di fatto, dunque, dalla fine del '67 l’ENI si occupò di gestire, assieme all’ENEL
ma spesso anche in maniera del tutto autonoma, una parte delle più importanti trattative di
cooperazione internazionale nel settore dell’energia nucleare446. Ciò trovò conferma anche nella
lettera del 21 febbraio '68 che l’amministratore generale del Commissariat à l’Energie Atomique
e dell’Electricité, Robert Hirsch, indirizzò direttamente al presidente dell’ENI, Eugenio Cefis,
sulla possibilità di intavolare trattative per lo sviluppo dei reattori veloci in Italia e in Francia447.
Inoltre, per quanto concerneva le ricerche di minerali di uranio sul territorio della penisola,
durante una riunione tenutasi il 17 novembre 1968 tra l’ENI e il CNEN si decise una più stretta
440
Cfr. Incontro a Toronto del 19 giugno 1968 presso gli uffici della Denison, resoconto preparato dall’ing. A. Turchi dell’ENI,
ASE, coll. I. V. 4, udc. 285.
441
Cfr. Nuova iniziativa di ricerca di minerali uraniferi nel Quebec (Canada) e nella Guyana (ex Guayana Britannica), Lettera del
vicepresidente dell’ENI, Raffale Girotti, al presidente della SNAM Progetti S.p.a., Mario Campanini Mescoli, San Donato Milanese,
2 dicembre 1968, ASE, coll. I. V. 6, udc. 301.
442
Per approfondimenti si veda M. Magini, L'Italia e il petrolio tra storia e cronologia, cit., pp. 196-197. Contratti per la fornitura di
combustibile nucleare vennero sottoscritti direttamente anche dall’ENEL; nel '68, ad esempio, si stipularono accordi con la SIEN e
l’UKAEA (cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al
31 dicembre 1968, Roma, 1969, p. 117, ASENEL).
443
Cfr. Costituzione della Combustibili Nucleari S.p.A., promemoria per l’ing, Girotti (M. Campanini), San Donato Milanese, 11
ottobre 1967, ASE, coll. I. V. 6, udc. 301. L’accordo fu la conseguenza diretta dell’intesa siglata tra la SNAM Progetti e la TNPG
che prevedeva “un’azione congiunta di propaganda per i reattori AGR, tipo perfezionato di reattore raffreddato a gas, e la
collaborazione nella progettazione e nella costruzione di impianti nucleari di potenza utilizzanti reattori AGR od altri tipo di reattori,
in Italia ed in altri paesi. Un accordo analogo [era] stato stipulato, a Bruxelles nell’aprile del corrente anno, tra la TNPG e la
Belgonucleaire” [Bozza del comunicato stampa sull’accordo TNPG-SNAM Progetti proposta dalla TNPG in data 7 novembre 1967,
SNAM Progetti (non firmata), ibidem].
444
Per approfondimenti si veda anche Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei
revisori e bilancio al 31 dicembre 1968, Roma, 1969, pp. 117-118, ASENEL. L’ENEL strinse in realtà molteplici contratti per
l’approvvigionamento e il ritrattamento del combustibile nucleare: oltre che con la Combustibili Nucleari si firmarono accordi, solo
per citarne alcuni, con la Società Italiana Fabbricazioni Nucleari, con la francese SICN e con la britannica UKAEA (ibidem).
445
Cfr. Bozza del comunicato stampa sull’accordo TNPG-SNAM Progetti proposta dalla TNPG in data 7 novembre 1967, SNAM
Progetti (non firmata), ASE, coll. I. V. 6, udc. 301.
446
Per un’analisi sulle trattative che l’ENI stava portando avanti per cercare di ottenere un rifornimento adeguato di combustibile
nucleare si vedano: Iniziativa approvvigionamento Uranio, Servizio Sviluppo Industriale e Commerciale all’Estero dell’ENI,
relazione redatta da Enrico Gandolfi, Roma, 25 marzo 1968, ASE, coll. I. V. 4, udc. 285; Esame situazione iniziative all’estero per
approvvigionamento Uranio, Servizio Sviluppo Industriale e Commerciale all’Estero dell’ENI, relazione redatta da Enrico Gandolfi,
Roma, 9 aprile 1968, ibidem.
447
Cfr. Lettera inviata dall’amministratore generale del Commissariat à l’Energie Atomique e dell’Electricité, R. Hirsch, al
presidente dell’ENI, Eugenio Cefis, Parigi, 21 febbraio 1968, ASE, coll. I. I. 5, udc. 50.
114
cooperazione tra i tecnici di entrambi le istituzioni. In particolare, per le ricognizioni si
individuarono due linee di ricerca, “una prima essenzialmente mineraria e prevalentemente
polarizzata sull’area di Novazza; una seconda di studi e prospezioni superficiali nelle Alpi e in
Sardegna”448.
Nuovi giacimenti uraniferi si scoprirono però all’estero nel corso degli anni successivi,
anche se la loro consistenza poteva essere valutata solo in un secondo momento449. Il 18
dicembre '72, infine, l’AGIP Nucleare e l’Ansaldo Meccanico-Nucleare diedero vita, in misura
paritetica, a una nuova società, la NIRA, per lo studio e la sperimentazione dei reattori avanzati e
veloci450. Essa sviluppò importanti collaborazioni sia nazionali, nel campo della progettazione
dei reattori nucleari italiani (principalmente il CIRENE e il PEC), che internazionali451.
2.3. Una politica energetica comune
Il 21 aprile '64 il Consiglio dei ministri della CECA approvò un “Protocollo di accordo”
in materia energetica nel quale i governi degli Stati membri, “persuasi dalla necessità di
realizzare nel quadro del mercato comune generale un mercato comune dell’energia […]
afferma[vano] la loro volontà di proseguire nei loro sforzi per elaborare e porre in atto una
politica comune dell’energia”452. La stessa necessità, seppure nell’ambito di una accentuazione
degli interessi nazionali, venne espressa in maggio dal ministro degli Affari Esteri, Giuseppe
Saragat, in un telegramma inviato alla Presidenza del Consiglio dei ministri:
448
Programma generale per una ripresa delle ricerche di minerali di uranio in Italia, SOMIREN S.p.A., San Donato Milanese,
gennaio 1969, ASE, coll. BA. II. 1, udc. 181.
449
Si segnalarono, ad esempio, nuovi ritrovamenti in India, in Nuova Zelanda, in Australia, in Algeria e in Brasile (per
approfondimenti si veda Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazione del Direttore generale al Consiglio di amministrazione
sull’attività dell’ente nel 1972, Roma, 1973, pp. 483-485, ASENEL).
450
All’indomani della costituzione della NIRA, il Consiglio di amministrazione del CNEN, per bocca del suo presidente, Ezio
Clementel, espresse tutte le perplessità per la nascita di una nuova realtà societaria con partecipazione pubblica nel settore nucleare
senza che il Comitato fosse stato informato e avesse potuto esprimere il proprio parere in merito, specie dopo l’approvazione della
legge n. 1240 del 15 dicembre '71 (cfr. Verbale della 5ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 19 dicembre
1972, pp. 8-9, ASENEA). L’AGIP Nucleare e l’Ansaldo Meccanico Nucleare decisero tuttavia di possedere a testa solo il
trentacinque percento delle partecipazioni azionarie della NIRA, lasciando il rimanente trenta percento a disposizione di altre società
interessate. Si profilò dunque per il Comitato la possibilità di entrare a fare parte direttamente della nuova società. Le cose
sembrarono andare proprio in questa direzione dopo che il ministro dell’Industria, Mauro Ferri, intervenne presso il Ministero delle
Partecipazioni Statali sottolineando la necessità che le società promotrici della NIRA prendessero contatto con il CNEN al fine di
esaminare le modalità della sua partecipazione (cfr. Verbale della 6ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 30
gennaio 1973, pp. 3-6, ibidem). Ciononostante, il CNEN non entrò a far parte della NIRA e si dovette confrontare con questa
nell’esercizio della propria attività, affidandole una serie di progetti (cfr. Verbale della 9ª riunione del Consiglio di amministrazione
del CNEN, Roma, 19 aprile 1973, pp. 3-8, ibidem). Il Comitato, come detto, si avviava a svolgere un ruolo di secondo piano nel
panorama della politica nucleare italiana, trasformandosi gradualmente in semplice dispensatore di fondi per i programmi.
451
Molto importante fra queste si rivelò la cooperazione con la Francia e la Germania per la realizzazione del reattore Superphénix.
452
Protocollo di accordo sui problemi energetici concluso fra i governi degli Stati membri delle Comunità Europee, in occasione
della 94° sessione del Consiglio speciale dei Ministri della CECA, Lussemburgo, 21 aprile 1964, Gazzetta ufficiale dell'Unione
europea, n. 69, 30 aprile 1964, pp. 1099-1100.
115
“Recenti decisioni di carattere multilaterale, trattative in corso per oleodotti di notevole
importanza strategica ed economica per il nostro paese, contatti sempre più frequenti con
compagnie internazionali o con Governi africani ed europei per assicurare all’Italia fonti di
approvvigionamento di petrolio o di gas, prospetta[va]no a questo Ministero l’esigenza che
[venisse] impostata con urgenza un politica globale delle fonti energetiche, con particolare
riferimento al petrolio, ispirata sia ai nostri giusti interessi nazionali ed europei, sia ai principi
direttivi della nostra collaborazione internazionale”453.
A preoccupare Saragat erano una serie di circostanze che in qualche modo coinvolgevano
l’Italia e che potevano essere fonte di inquietudine: le trattative in corso fra l’ENI e l’ente
petrolifero di Stato dell’Austria (OMV) per la costruzione di un oleodotto da Trieste a Vienna,
ad esempio, erano state accompagnate dalle minacce austriache di far sboccare la conduttura in
territorio jugoslavo; una situazione simile a quella verificatasi durante la contrattazione che si
stava svolgendo tra l’ENI e la TAL, un consorzio di compagnie internazionali, per la costruzione
dell’oleodotto Trieste-Baviera. Bisognava inoltre vigilare sull’evoluzione di alcune dinamiche
che urtavano in modo particolare la sensibilità italiana: occorreva registrare, ad esempio,
l’aumento vertiginoso della produzione petrolifera della Libia che si avviava a divenire uno dei
maggiori produttori mondiali di greggio. Un mutamento che implicitamente suggeriva un
ulteriore sforzo per ottenere nuove concessioni da Tripoli; vi erano, inoltre, i delicati contatti in
corso con le autorità olandesi e tedesche per una partecipazione dell’ENI alle ricerche in Olanda
e nel Mare del Nord454. Anche il ritmo crescente della produzione del Medio Oriente, ormai in
procinto di caratterizzarsi come “il cuore energetico del mondo occidentale”, secondo Saragat
richiedeva alcune attente riflessioni:
“Questa circostanza, mentre pone[va] a tutti i paesi democratici delicati problemi d’ordine
strategico e militare che non [potevano] essere sottovalutati, tende[va] d’altra parte a favorire
economicamente ed anche politicamente l’Italia la quale [veniva] a trovarsi oggi, come molti
secoli fa, sulla rotta di un vitale traffico tra l’Europa e l’Asia. Il problema merita[va] di essere
attentamente studiato anche perché [poteva] verificarsi una discrepanza di interessi tra l’Italia e le
grandi Compagnie internazionali, come [poteva] dimostrare lo scarso interesse di queste ultime
all’approfondimento del Canale di Suez (peraltro perseguito dal Governo egiziano con energia)
ed il fatto che non si [potevano] costruire pipelines verso il Mediterraneo. […] [Tutti questi
risvolti sembravano dunque] rendere quanto mai urgente l’elaborazione di una politica globale
453
Impostazione di una politica globale delle fonti energetiche con particolare riferimento al petrolio, Telespresso n. 40/9390/C
inviato dal Ministro degli Affari Esteri, Giuseppe Saragat, alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Roma, 12 maggio 1964, ACS,
Carte Aldo Moro, Serie 3, Presidenza del Consiglio dei ministri. Sottoserie Questioni diverse, Busta 50.
454
Ibidem.
116
delle fonti di energia, con particolare riferimento agli idrocarburi. L’energia atomica, infatti, non
sembra[va] dover minacciare, almeno per qualche decennio, il crescente predominio degli
idrocarburi nel campo delle fonti di energia. […] L’elaborazione di una tale politica
(indispensabile anche ai fini della programmazione della nostra economia) […] [doveva]
soprattutto individuare e tutelare, in una ampia prospettiva futura, i vitali interessi del Paese sia
sotto il profilo strategico-militare (cioè politico) sia sotto il profilo economico-finanziario, sia nel
quadro della nostra politica atlantica, europea e mediterranea”455.
D’altronde, il notevole sviluppo dei consumi petroliferi non accompagnato da un
proporzionale aumento delle produzioni nazionali di fonti primarie di energia, aveva determinato
un crescente ricorso alle importazioni dall’estero per assicurare la copertura dei fabbisogni.
Come sottolineato dall’ingegnere Raffaele Girotti, vicepresidente dell’ENI, in una relazione sulla
situazione del settore degli idrocarburi presentata alla Commissione Consultiva per l’Energia nel
luglio '66, in sede europea non si era ancora riusciti a impostare una politica energetica comune e
ciò aveva determinato uno scenario di accordi diretti fra i governi e le singole imprese che
rendeva più difficile, ma anche maggiormente necessaria, la cooperazione comunitaria. In attesa
che ciò si concretizzasse, l’Italia non doveva esitare a sviluppare una propria politica energetica:
“Per un complesso di cause […] la Comunità non [era] riuscita, in otto anni di discussioni
sull’argomento, a formulare una effettiva politica comune dell’energia. Ma intanto Governi ed
imprese [avevano] continuato a procedere per la loro strada, creando situazioni che se da un lato
[rendevano] più urgente l’adozione di una politica comune, dall’altro lato la [rendevano] più
difficile. Per quest’ultima ragione [era] da ritenersi che l’Italia non [dovesse] esitare a precisare e
applicare una propria politica energetica e degli idrocarburi in base alla valutazione delle
situazioni obiettive interne ed esterne e degli interessi nazionali. Per la prima ragione, sembra[va]
conveniente che l’Italia [sostenesse] in sede comunitaria una linea di politica energetica che, pur
contemperando le differenti esigenze nazionali, [desse] un valido contributo alla soluzione dei
problemi comuni ai Sei paesi e [facilitasse] il conseguimento degli obiettivi nazionali italiani
456
attraverso la collaborazione di tutti i paesi membri”
.
Se da una parte, dunque, Girotti puntava sul raggiungimento di accordi internazionali che
potessero migliorare la situazione energetica italiana, al pari di quanto stavano facendo le altre
compagnie petrolifere europee e in attesa che decollasse una politica comunitaria del settore,
455
Ibidem.
Situazione del settore degli idrocarburi, Relazione presentata dall’Ing. Raffaele Girotti alla Commissione Consultiva per
l’Energia, 21 luglio 1966, ASE, coll. I. II. 6, udc. 105.
456
117
dall’altra parte, Saragat era preoccupato dai possibili risvolti negativi dell’operato dell’ENI. In
un certo qual modo Girotti si rifaceva alla politica antagonista di Mattei in nome degli interessi
energetici nazionali, non curandosi di alcune situazioni difficili che contraddistinguevano le
relazioni estere dell’Italia e che, di contro, stavano a cuore a Saragat. Al fine di evitare contrasti
internazionali non facili da gestire, la Farnesina spingeva per l’elaborazione di una politica
globale dell’energia che togliesse la penisola da ogni eventuale impasse. I tempi sembravano
però in questo senso non maturi e le iniziative dell’ENI apparivano quanto meno opportune
finché il quadro petrolifero internazionale non avesse assunto connotazioni differenti.
Un passo in avanti considerevole in vista dell’attuazione di una politica energetica
comunitaria si realizzò nel febbraio del '66 mediante la trasmissione, da parte della Commissione
al Consiglio dei ministri, della “Prima nota sulla politica della CEE in materia di petrolio e di gas
naturale”. Nel documento si sottolineava che, in applicazione del Trattato di Roma, tutti gli
obiettivi energetici puramente nazionali sarebbero dovuti essere rimpiazzati, prima del 1970, da
quelli decisi in sede comunitaria457. Si trattava di una presa di posizione coraggiosa che fino a
quel momento era sempre stata ostacolata sia da difficoltà amministrative e giuridiche, sia,
soprattutto, dalle divergenze fra i paesi membri. In particolare, la Germania, il Belgio e in parte
la Francia erano riluttanti a accettare, in materia di politica energetica, i principi liberali sostenuti
dai governi dell’Italia e dell’Olanda458. Questa situazione derivava dagli interessi carboniferi
detenuti da Parigi, Bonn e Bruxelles che pertanto si opponevano all’elaborazione di norme che
potessero in qualche modo limitare la produzione interna e la sovranità nazionale di ogni fonte
energetica. Lo scenario era però destinato a essere in larga parte modificato dallo scoppio della
guerra dei Sei Giorni.
3. La guerra dei Sei Giorni e la politica energetica
In seguito all’assetto configuratosi dopo la crisi di Suez del '56 e in risposta alla strategia
dell’attacco preventivo avviata fra la fine del '66 e la primavera del '67 dallo Stato di Israele
mediante diversi raid in Cisgiordania e in Siria, il 22 maggio Nasser decise di bloccare il traffico
navale israeliano negli stretti di Tiran che separavano il golfo di Aqaba dal Mar Rosso e che
rappresentavano l’unica via di accesso al porto israeliano di Eilat. Si trattava del preludio
457
Per uno studio sui rifornimenti petroliferi europei si rimanda a G. Pappalardo, R. Pezzoli, Il petrolio e l’Europa: strategie di
approvvigionamento, Bologna, 1971
458
Per approfondimenti si veda Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei
revisori e bilancio al 31 dicembre 1967, Roma, 1968, pp. 36-37, ASENEL.
118
all’escalation che sfociò nel cosiddetto terzo conflitto arabo-israeliano459. L’impressionante
successo militare, mediante il quale Israele arrivò a controllare le alture del Golan, la striscia di
Gaza, la Cisgiordania e tutta la penisola del Sinai, unificando anche la Gerusalemme ebraica e
quella araba, provocò una trasformazione radicale di tutta l’area che investì sia gli equilibri
regionali che i rapporti internazionali nel loro complesso. La questione palestinese acquistò una
sua definitiva centralità nel dibattito internazionale, mentre gli arabi si sentirono sempre più
isolati e lontani dal mondo occidentale al punto da ricorrere, mediante l’OPEC, all’embargo
petrolifero per mettere in difficoltà gli Stati amici di Israele attraverso la chiusura del canale di
Suez. Il primo tentativo nella storia di utilizzare l’arma petrolifera per condizionare le scelte
dell’Occidente non comportò però gravi conseguenze data la breve durata e il fatto che gli Stati
Uniti, principali destinatari di questa azione, disponevano di abbondanti riserve nazionali.
Ciononostante, l’iniziativa diede avvio a una serie di riflessioni circa l’opportunità di un cambio
di strategia in merito alle politiche energetiche adottate fino a quel momento.
L’agenzia giornalistica «Europa Unita», ad esempio, il 9 giugno '67 diramò un dispaccio
nel quale si rimarcava la necessità, dopo gli eventi bellici mediorientali, “di progredire
sollecitamente sul cammino dell’energia nucleare, la sola che [poteva] assicurare all’Europa una
indipendenza energetica”. Erano le parole pronunciate dall’onorevole Mario Pedini, presidente
della Commissione Ricerca, Energia e Problemi Atomici del Parlamento europeo al termine di
una riunione tenutasi a Bruxelles. L’esponente democristiamo sottolineò anche che “la crisi
459
Per uno studio sulla guerra dei Sei Giorni si vedano, tra gli altri, I. Abu-Lughod, Arab-Israeli confrontation of June 1967. An
Arab perspective, Evaston, 1970; E. Hammel, Six Days in June: How Israel Won in 1967 Arab-Israeli War, New York, 1992; D.
Kimche, D. Bawly, The Sandstorm. The Arab-Israeli war of june 1967: prelude and aftermath, New York, 1968; W. Laqueur, The
road to war 1967: the origins of the Arab-Israel conflict, London, 1969; E. O’Ballance, The third Arab-Israeli war, London. 1972;
M. B. Oren, Six days of war: June 1967 and the making of the modern Middle East, Oxford, 2002; R. Ovendale, The Origins of the
Arab-Israeli Wars, London, 1987; R. B. Parker, The Six-Day War, Jacksonville, 1997; W. B. Quandt, Peace Process: American
Diplomacy and the Arab-Israeli Conflict since 1967, Berkeley, 2001; A. Rabinovich, H. Shaked, From June to October: the Middle
East between 1967 and 1973, New Brunswich, 1978; A. Shlaim, The iron wall: Israel and the Arab world, cit., pp. 241-264. Sulle
iniziative diplomatiche italiane durante la guerra dei Sei Giorni e nel periodo successivo cfr. D. Caviglia, Dallo scoppio del conflitto
al fallimento delle prime iniziative diplomatiche (1967-1970) in D. Caviglia, M. Cricco, La diplomazia italiana e gli equilibri
mediterranei, cit., pp. 13-75; Id., La politica dell’Italia e il conflitto arabo-israeliano (1967-1973). L’atteggiamento italiano nella
documentazione diplomatica francese, in «Nuova Storia Contemporanea», cit., pp. 17-50; L. Riccardi, Il «problema Israele»:
diplomazia italiana e PCI di fronte allo Stato ebraico (1948-1973), cit., pp. 203-308; Id., Sempre più con gli arabi. La politica
italiana verso il Medio Oriente dopo la guerra del Kippur (1973-1976), cit., pp. 57-82; Id., La politica estera italiana, Israele e il
Medio Oriente alla vigilia della crisi di Suez, in «Clio», n. 4, 2003, pp. 629-669. Per approfondimenti sul ruolo dell’Italia durante e
dopo la crisi si vedano P. Borruso, L’Italia e la crisi della colonizzazione, in A. Giovagnoli, S. Pons (a cura di), L’Italia repubblicana
nella crisi degli anni Settanta, cit., pp. 397-399; E. Calandri, Il Mediterraneo nella politica estera italiana, cit., in A. Giovagnoli, S.
Pons (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, cit., pp. 351-381; G. Calchi Novati, Mediterraneo e questione
araba nella politica estera italiana, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, La trasformazione dell’Italia.
Sviluppo e squilibri, cit., pp. 229-237; L. V. Ferraris (a cura di), Manuale della politica estera italiana, 1947-1993, Roma-Bari, 1996,
pp. 168-171; V. Ianari, L’Italia e il Medio Oriente: dal “neoatlantismo” al peace-keeping, in A. Giovagnoli, S. Pons (a cura di),
L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, cit., pp. 383-395; C. Meneguzzi Rostagni, La politica estera italiana e la
distensione: una proposta di lettura, in F. Romeo, A. Varsori (a cura di), Nazione, Interdipendenza, integrazione. Le relazioni
internazionali dell’Italia (1917-1989), Roma, 2005, vol. I, pp. 355-371; Ministero degli Affari Esteri (Servizio Storico e
Documentazione), Italia e Medio Oriente (1967-1974), Roma, 1974, pp. 81-130; L. Nuti, Le relazioni tra Italia e Stati Uniti agli inizi
della distensione, in A. Giovagnoli, S. Pons (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, cit., pp. 47-51; L. Tosi,
L’Italia e la cooperazione internazionale nel Mediterraneo: aspirazioni, interessi nazionali e realtà internazionale, in M. De
Leonardis (a cura di), Il Mediterraneo nella politica estera italiana del secondo dopoguerra, cit., pp. 184-187; A. Varsori, L’Italia
nelle relazioni internazionali dal 1943 al 1992, Bari, 1998, pp. 164-165.
119
conferma[va] soprattutto che i Paesi europei, se non [volevano] essere esposti al ricatto dei
dittatori o abdicare alle superpotenze le responsabilità del loro futuro, [dovevano] trovare
quell’unità politica che sola [poteva] consentire al nostro continente di «pesare» sui destini della
pace”460.
In relazione al problema dei rifornimenti energetici della Comunità, i rappresentanti dei
tre esecutivi europei nel corso della stessa riunione sostennero invece che: “tenendo conto delle
realizzazioni raggiunte soprattutto nel campo della diversificazione degli approvvigionamenti,
non vi [erano] motivi di apprensione per il prossimo avvenire; la commissione parlamentare [era
nonostante tutto] convinta della necessità che i Governi dei sei Paesi membri si [adoperassero]
per la messa in opera di una vera politica energetica comune, sulla base delle indicazioni fatte
dall’interesecutivo e, più volte, riaffermate dal Parlamento europeo”461. Di parere diverso era
però il senatore italiano Pietro Micara per il quale era giunto il momento per la Comunità
europea di affrontare in altro modo l’intera questione:
“Si impone[va] una nuova visione della problematica del Medio Oriente in chiave
economica. […] [Era] giunto il momento in cui [dovevamo] trovare una soluzione politica che
[potesse] garantire, a lungo termine, la sicurezza del Medio Oriente che, per gli europei,
rappresenta[va] anche l’approvvigionamento energetico di tutto il continente. Perciò [bisognava]
forse cominciare a pensare ad un’associazione tra i Paesi arabi produttori di petrolio e la
Comunità”462.
L’idea di Micara consisteva nel cercare di inserire i paesi arabi direttamente nel circuito
economico della CEE, anche per cancellare definitivamente un’immagine che in Medio Oriente
appariva eccessivamente schiacciata sulle iniziative di Washington.
Come si poteva osservare, di fronte al tentativo dei paesi dell’OPEC di influenzare le
scelte del mondo occidentale emergevano diverse tipologie di risposte. Da un lato vi era chi, in
maniera lungimirante, spingeva per puntare su fonti energetiche alternative; dall’altro, invece, vi
erano coloro che non ritenevano di dover prendere troppo sul serio il tentativo arabo. I primi
richiamavano l’attenzione principalmente sull’urgenza di un ulteriore sviluppo dell’energia
nucleare, i secondi sembravano più propensi a promuovere vere e proprie politiche energetiche
sovranazionali che avrebbero ineluttabilmente creato forti legami, soprattutto economici, fra i
partecipanti. Qualunque strategia si fosse scelta, sarebbe stato importante per i paesi
460
La crisi di Suez al Parlamento Europeo, Agenzia giornalistica «Europa Unita», 9 giugno 1967.
Ibidem.
462
Il Medio Oriente al Parlamento Europeo, «Il Sole 24 ore», 15 giugno 1967.
461
120
maggiormente colpiti dalle decisioni dell’OPEC optare per una linea d’azione comune, come
suggerivano gli Stati Uniti. All’interno della CEE si assistette invece alla messa in campo di
strategie diverse che non tenevano conto dei possibili rischi legati agli approvvigionamenti
petroliferi del Medio Oriente.
Il 18 dicembre '68 la Commissione della CEE approvò un documento dal titolo “Primo
orientamento per una politica energetica comunitaria” con lo scopo dichiarato di proporre
un’azione politica tendente alla creazione di un effettivo mercato comune dell’energia atto a
realizzare, sia nel medio che nel lungo periodo, l’approvvigionamento dei paesi comunitari con
garanzie di sicurezza, stabilità e bassi prezzi, tutelando al contempo la libertà della concorrenza.
Gli orientamenti ai quali i Sei dovevano attenersi ai fini dell’attuazione di una politica comune
dell’energia erano quattro:
“1) pianificare il loro sviluppo sulla base di previsioni a medio ed a lungo termine; 2)
realizzare un effettivo mercato comune dell’energia, assicurando la libera circolazione delle varie
fonti e la libertà di stabilimento, fissando regole di concorrenza e armonizzando la fiscalità
indiretta; 3) definire una politica dell’approvvigionamento che si [potesse inserire] nel contesto
della politica generale della Comunità, ma che [tenesse] conto della particolarità del settore; 4)
463
definire una politica della ricerca e del finanziamento degli investimenti”
.
Tuttavia, nel '69 la Gran Bretagna, la Repubblica Federale Tedesca e l’Olanda si
accordarono separatamente per la costruzione di un impianto per la produzione di uranio
arricchito mediante il procedimento dell’ultracentrifugazione che, per alcuni osservatori, poteva
rappresentare il “futuro dell’industria nucleare europea”. In effetti ciò costituiva una grande
opportunità per assicurare all’intera Europa forniture di uranio arricchito autonome, necessarie
per il funzionamento delle centrali termonucleari, senza bisogno di ricorrere alle importazioni
dagli Stati Uniti. In un articolo apparso in marzo su «Il Giorno», Giorgio Pirani stigmatizzò
come l’Italia, assieme agli altri paesi del MEC, avesse insistito vanamente per essere inclusa fin
dall’inizio nel progetto464. Nella riunione tripartita dell’11 marzo, nel corso della quale fu
ufficializzata la costruzione dell’impianto, si specificò difatti che l’esclusione della Francia,
dell’Italia e del Belgio era dovuta solo a motivi strettamente commerciali465. In particolare, la
463
Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre
1968, Roma, 1969, p. 39, ASENEL.
464
Cfr. G. Pirani, Estromessa l’Italia dall’accordo per l’uranio, «Il Giorno», 7 marzo 1967.
465
L’Italia partecipò tuttavia all’iniziativa presa nel '69 dall’Union internationale des producteurs et distributeurs d’énergie électrique
che, facendo propria una proposta avanzata l’anno precedente da Angelini, direttore generale dell’ENEL, prevedeva la costruzione e
l’esercizio di una centrale prototipo di grande potenza (tra i seicento e i mille megawatt), equipaggiata con un reattore
autofertilizzante raffreddato a sodio. Il progetto, rinviato all’anno successivo, doveva compiersi in stretta collaborazione con
l’EURATOM e si proponeva “di accelerare lo sviluppo dei reattori autofertilizzanti e di utilizzare nel modo più proficuo le
121
posizione dell’Italia era giudicata troppo prudente e pregiudizialmente critica, mentre l’accordo
di cooperazione con Washington sugli usi pacifici dell’energia nucleare siglato nel '61 ne
avrebbe impedito la partecipazione466. Nonostante tutto, come sottolineava Achille Albonetti,
direttore della Divisione Affari Internazionali e Studi Economici del CNEN, “se l’iniziativa non
[fosse stata] portata al più presto nell’ambito della Comunità europea, essa [avrebbe potuto
significare], molto probabilmente, il colpo di grazia per l’EURATOM”467.
La Comunità Europea dell’Energia Atomica stava infatti attraversando un periodo di forte
crisi sia dal punto di vista delle iniziative (dopo il mancato accordo su un nuovo programma
pluriennale), che sotto il profilo economico (in seguito alla decisione della Francia di non
partecipare al finanziamento dei programmi complementari)468; un’intesa tripartita, conclusa
senza la sua partecipazione avrebbe quasi sicuramente determinato la fine dello spirito di
collaborazione europea e dei principi che erano alla base dell’iniziativa comunitaria. D’altronde,
il piano a tre469 aveva messo in allarme anche gli Stati Uniti che decisero di offrire alla Comunità
europea una nuova cooperazione scientifica nel settore atomico e condizioni più favorevoli per
l’acquisto di uranio arricchito470.
Fallita, almeno per il momento, la possibilità di avviare una proficua collaborazione
sovranazionale in risposta all’incertezza sull’approvvigionamento petrolifero proveniente
dall’area mediorientale, diversi Stati avviarono una serie di iniziative volte a rimodulare le
politiche energetiche, con particolare riferimento all’energia nucleare. In linea generale non
competenze e i mezzi disponibili nella Comunità, evitando duplicazioni di programmi e di iniziative che, nel caso specifico,
[avrebbero comportato] oneri economici assai difficilmente sostenibili dai singoli paesi” (Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni
del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre 1969, Roma, 1970, pp. 112-113, ASENEL).
466
Cfr. Réunion tripartite pour la séparation des isotopes de l’uranium par ultracentrifugation gazeuse, Lettera della Delegazione
della Commissione delle Comunità Europee al Presidente della Commissione delle Comunità Europee, Rapport n. 753, 19 marzo
1969, HAEU, Fondo Edoardo Martino, n. 219. Le discussioni in questo senso si rinviarono a un momento successivo e, come si avrà
modo di constatare, verso la fine del '72 il progetto dell’ultracentrifugazione venne esteso parzialmente anche agli altri partner
europei (cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazione del Direttore generale al Consiglio di amministrazione sull’attività
dell’ente nel 1972, Roma, 1973, pp. 485-487, ASENEL). Risultano interessanti, in proposito, le parole pronunciate sull’argomento da
Carlo Salvetti, vicepresidente del CNEN, dietro esplicita istanza del componente del nuovo Consiglio di amministrazione, sen.
Francantonio Biaggi: “L’Italia, su richiesta del Ministero degli Esteri [aveva] avuto attraverso il Ministero dell’Industria, il CNEN e
le industrie interessate, degli incontri con i rappresentanti del tripartito – Germania, Olanda e Inghilterra – incontri che avevano lo
scopo di esplorare la possibilità da parte italiana di partecipare all’iniziativa, di valutarne le condizioni di partecipazione e le
conseguenti implicazioni finanziarie. Non [era] stato raggiunto alcun accordo per una serie di ragioni, in primo luogo perché fin dalla
fase di avviamento di questa attività non si era raggiunta tra i tre partecipanti all’iniziativa una intesa a carattere operativo; nel
frattempo comunque [era] stata riconosciuta l’opportunità che l’industria italiana [avesse acquisito] un certo grado di qualificazione
per un suo eventuale successivo inserimento nell’impresa” (Verbale della 3ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN,
Roma, 30 ottobre 1972, p. 8, ASENEA).
467
A. Albonetti, Iniziativa tripartita senza l’Italia, «L’Europa», 19 marzo 1967.
468
Per approfondimenti sulla “crisi” dell’EURATOM si vedano Id., Energia nucleare e crisi energetica europea, cit., pp. 108-114;
F. Ippolito, Un progetto incompiuto. La ricerca comune europea: 1958-88, cit.
469
In ottemperanza all’accordo sottoscritto da Gran Bretagna, Repubblica Federale Tedesca e Paesi Bassi si procedette alla
costituzione della CENTEC e dell’URENCO. L’impianto sperimentale olandese di Amelo e quello inglese di Capenhurst entrarono
in funzione nel '72, mentre quello tedesco, sempre situato a Amelo, era previsto entrasse in funzione nei primi mesi del '73 (cfr. Ente
Nazionale Energia Elettrica, Relazione del Direttore generale al Consiglio di amministrazione sull’attività dell’ente nel 1972, Roma,
1973, pp. 487-488, ASENEL).
470
Cfr. Relazione del Comitato dei Rappresentanti Permanenti al Consiglio, Bruxelles, 3 ottobre 1969, HAEU, Fondo Edoardo
Martino, n. 224.
122
appariva però molto chiaro se questi sviluppi fossero una diretta conseguenza degli eventi del '67
o piuttosto una risposta alla crisi dell’EURATOM471. Difficile credere che i governi occidentali
fossero infatti all’epoca pienamente consapevoli dei rischi derivanti da un eventuale boicottaggio
petrolifero da parte dei paesi dell’OPEC. In Italia, ad esempio, fra la fine del '69 e gli inizi del '70
la Commissione Direttiva del CNEN approvò un finanziamento per il Programma Arricchimento
Uranio presentato dal Gruppo Italiano Arricchimento Uranio472. Il piano era stato prospettato
quasi certamente al solo scopo di migliorare le conoscenze tecniche nazionali dopo l’esclusione
dal programma tripartito. A questo fine era previsto lo sviluppo delle due tecniche di separazione
isotopica allora conosciute per arrivare alla creazione di uranio arricchito: la diffusione gassosa e
l’ultracentrifugazione473. Nello scenario determinatosi occorreva anche valutare attentamente
l’offerta francese di cooperazione, avanzata proprio in quei giorni all’Italia e agli altri paesi
europei per la costruzione in comune di un impianto dedicato alla produzione di uranio
arricchito474. La Francia propendeva per un sistema a diffusione gassosa e, come sottolineato da
Achille Albonetti in una lettera all’ambasciatore Guido Soro, direttore generale per gli affari
economici del MAE, per un impianto di questo tipo “non basta[va] un eventuale accordo italofrancese. Occorre[va] un accordo più vasto. [Speravamo] che le proposte di Pompidou e di
Schuman, accoppiate a quelle della Commissione Europea, [potessero] avere successo e
[servissero] anche di rilancio all’EURATOM”475.
Contemporaneamente a questo progetto si ufficializzò l’iniziativa dell’UNIPÈDE che,
facendo propria una proposta avanzata in precedenza dal direttore generale dell’ENEL476, si
proponeva la costruzione e la gestione di una centrale prototipo di grande potenza, equipaggiata
471
L’ENEL, ad esempio, inserì nella programmazione del settore nucleare la costruzione di un ulteriore nuovo impianto che sarebbe
risultato il quinto in Italia (cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori
e bilancio al 31 dicembre 1967, Roma, 1968, p. 101, ASENEL). Contemporaneamente, l’ente elettrico italiano intensificò i contatti e
la cooperazione con diversi organismi stranieri; tra questi figuravano: la CIGRE, l’UNIPÈDE, l’EDF, la CEGB e la VDEW (cfr.
ibidem, p. 149). Nel '68 le collaborazioni internazionali dell’ENEL aumentarono e inclusero, oltre agli enti già citati, la European
Nuclear Energy Agency, l’AIEA, l’USAEC e l’AECL (cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di
amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre 1968, Roma, 1969, p. 121, ibidem).
472
Istituito proprio nel '67, al GIAU partecipavano il CNEN, l’ENEL, il CISE, la Confindustria, l’ENI (mediante l’AGIP Nucleare, il
Nuovo Pignone e il Pignone Sud), l’IRI (con l’ASGEN e la MERISINTER), la SNIA Viscosa BPD, la FIAT, la Montedison e la
Breda.
473
Cfr. Lettera del presidente dell’ENI, Eugenio Cefis, al presidente del Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare, Carlo Salvetti,
San Donato Milanese, 7 gennaio 1970, ASE, coll. I. I. 5, udc. 50.
474
Per approfondimenti si veda Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazione del Direttore generale al Consiglio di amministrazione
sull’attività dell’ente nel 1972, Roma, 1973, pp. 485-487, ASENEL. L’iniziativa venne presa precisamente dal CEA e si pervenne nel
'72 alla costituzione di una “Association d’études” denominata EURODIF.
475
Lettera del Direttore della Divisione Affari Internazionali e Studi Economici del CNEN, Achille Albonetti, al direttore generale
per gli affari economici del MAE, Guido Soro, Roma, 8 luglio 1970, ASE, coll. BA. II. 1, udc. 181.
476
La proposta di un programma europeo per la realizzazione di impianti nucleari equipaggiati con reattori autofertilizzanti a
neutroni veloci, con raffreddamento a sodio di potenza dell’ordine del milione di megawatt, fu presentata per la prima volta da
Angelini il 19 settembre '68 nell’ambito del Comitato scientifico e tecnico dell’EURATOM. Successivamente, il 27 e 28 febbraio '69,
il direttore generale dell’ENEL espose il suo progetto alla Commissione per la ricerca e l’energia del Parlamento europeo. Solo il 9
giugno dello stesso anno tuttavia l’UNIPÈDE fece propria la proposta approvando un ordine del giorno nel quale si auspicava una
unione degli sforzi nell’ambito della Comunità (cfr. Date salienti riguardanti l’iniziativa europea per la realizzazione di reattori
autofertilizzanti per la produzione di energia elettrica, appunto interno all’ENEL, ENEL-EDF-RWE, Promemoria 1973, ASENEL).
123
con un reattore autofertilizzante raffreddato a sodio. Durante il '70 si contattarono i tre maggiori
produttori di energia elettrica della Comunità, Electricité de France, ENEL e RheinischWestfälisches Elektrizitätswerk e, accertata l’esistenza dei presupposti per un accordo, venne
redatta una dichiarazione di intenti:
“Preso atto dei programmi in corso di attuazione in Francia, in Germania e in Italia per la
realizzazione dei reattori prototipi Phénix, SNR (Schnell Natrium Reaktor) e PEC (Prova
Elementi
Combustibili),
nonché
delle
considerevoli
capacità
potenziali
dei
reattori
autofertilizzanti, si prevede[va] la costruzione, a distanza di quattro-cinque anni una dall’altra, di
due centrali nucleari da 1.000 MWe, equipaggiate con un reattore autofertilizzante a neutroni
veloci e a sodio; la prima avrebbe [avuto] un reattore progettato secondo la linea Phénix e la sua
costruzione [doveva] avere inizio nel 1974-75, vale a dire circa un anno dopo l’entrata in
funzione del prototipo francese Phénix da 250 MWe; la seconda [avrebbe avuto] un reattore
progettato secondo la linea SNR e la sua costruzione [doveva] avere inizio nel 1978-79, vale a
dire circa un anno dopo l’entrata in funzione del prototipo tedesco SNR da 300 MWe. La prima
centrale [dovuto essere] ubicata in Francia, la seconda in Germania. I due impianti [dovevavo
essere] realizzati da due società, alle quali [avrebbero partecipato] i tre produttori di energia
elettrica, la prima di diritto francese, la seconda di diritto tedesco. Ciascuno dei tre partecipanti
[avrebbe detenuto] complessivamente un terzo della somma dei capitali delle due società,
permettendo tuttavia alla EDF e alla RWE di avere la maggioranza, rispettivamente, nella società
francese e in quella tedesca. In ogni caso, le decisioni di rilievo [dovevano] essere prese
solamente con l’accordo unanime dei partecipanti”477.
L’opportunità per l’Italia era davvero importante478 e, nel giugno del '71, il CIPE approvò
in linea di massima la partecipazione dell’ENEL all’iniziativa UNIPÈDE, permettendo alla
477
Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre
1970, Roma, 1971, pp. 129-130, ibidem.
478
Per completezza di informazione, all’indomani della stesura della dichiarazione di intenti da parte delle tre società interessate,
qualche personalità italiana di spicco, specie del settore nucleare, aveva avviato una campagna denigratoria sulla stampa e in alcune
sedi istituzionali per contrastare l’iniziativa ENEL-EDF-RWE. Sulla base di ciò Angelini, durante la riunione della Commissione
direttiva del CNEN dell’8 aprile '71, si scagliò contro lo stesso Comitato responsabile, a suo avviso, dell’azione di disturbo in corso
d’opera. Era la prima volta che l’ENEL e il CNEN entrarono pubblicamente in contrasto mentre, specie in materia di relazioni
internazionali, già in altre occasioni erano state prese iniziative e decisioni senza che la Commissione direttiva del CNEN si fosse
espressa in merito. In risposta alle accuse del direttore generale dell’ENEL, l’istituto decisionale del CNEN criticò duramente
l’eventuale comportamento tenuto da alcuni funzionari del Comitato. Al contempo veniva tuttavia ribadita la necessità che la
Commissione direttiva fosse chiamata a discutere di tutti i problemi nucleari di maggior rilievo, anche per quelli in materia di
rapporti internazionali, in modo che potesse emergere un orientamento ufficiale del CNEN. Da ciò poteva trasparire che il
malcontento di alcune personalità del CNEN era dovuto essenzialmente dall’esclusione dalle trattative in corso tra l’ENEL, la EDF e
la RWE (cfr. Verbale della 226ª riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 8 aprile 1971, pp. 21-23, ASENEA). Nella
riunione successiva si presentò inoltre una proposta alternativa allo stesso progetto UNIPÈDE che, ovviamente, venne duramente
rigettata da Angelini. Tra le critiche presentate all’iniziativa ENEL-EDF-RWE si espose quella relativa alla non ubicazione in Italia
dei due reattori proposti. Il direttore generale dell’ENEL, nonché membro della stessa Commissione direttiva del CNEN e presidente
proprio del Comitato di coordinamento per i reattori veloci, istituito dal Consiglio dei ministri della Comunità, rispose che “da un
esame preliminare […] [i siti italiani potenzialmente proponibili per il progetto erano localizzabili] in riva al mare dalla Toscana in
giù, ciò che avrebbe comportato un grosso onere per il trasporto di energia a danno dell’Italia perché l’energia, come [previsto] nella
124
penisola di far parte di uno dei progetti nucleari della Comunità più promettenti. In conseguenza
di ciò, il 16 luglio le tre le società firmarono la suddetta dichiarazione di intenti, dando corso alla
tanto auspicata concentrazione degli sforzi in ambito europeo e agevolando gli accordi di
collaborazione fra le imprese dei tre paesi479. Si crearono così le premesse per assicurare
all’industria italiana una partecipazione attiva e significativa in un settore tecnologicamente
molto avanzato, caratterizzato da prospettive commerciali di estremo interesse. Successivamente
si stabilì che ciascuno dei tre produttori avrebbe concorso sia agli oneri che ai benefici derivanti
dall’esercizio delle due centrali in progetto, in proporzione alla partecipazione diretta alle
rispettive società previste e avrebbe avuto il diritto a utilizzare nelle stesse proporzioni l’energia
prodotta. L’iniziativa si estese anche ai produttori di energia elettrica degli altri paesi della
Comunità, con lo scopo di favorire la costituzione di gruppi multinazionali di costruttori cui
poter affidare la realizzazione degli impianti, offrendo così una valida occasione per la
promozione di industrie in grado di acquisire nel settore nucleare un respiro europeo480. La
validità del progetto ENEL-EDF-RWE si discusse nell’ambito del Comitato di coordinamento
per i reattori veloci, istituito dal Consiglio dei ministri della Comunità europea, al quale, a partire
dal '72, parteciparono anche rappresentanti del Regno Unito che apportarono un considerevole
know-how481.
In quello stesso anno l’ENEL stipulò un accordo con l’Edison Electric Institute,
un’associazione che raggruppava le società elettriche degli Stati Uniti, avente per oggetto lo
scambio di informazioni sulle performance del combustibile nucleare nelle tre centrali italiane e
in sette impianti statunitensi. Un altro contratto rilevante per l’ENEL si realizzò con le società
elettriche jugoslave Elektroprivreda-Zagabria, Savske Elektrarne-Lubiana e Elektrarna-Sostanj
per la collaborazione e l’assistenza tecnica finalizzati alla realizzazione dell’impianto
elettronucleare jugoslavo di Krsko. Oltre a queste intese, l’ENEL consolidò i rapporti con gli enti
dichiarazione di intenzioni, [doveva] essere recapitata allo stesso costo alla prima sottostazione utile ai confini nazionali dei
partecipanti all’impresa. Nel caso di ubicazione in Italia tali oneri avrebbero riguardato i due terzi dell’energia prodotta”. Le risposte
di Angelini non vennero accolte positivamente da tutti i componenti della Commissione direttiva; si convenne tuttavia di non
esprimere giudizi affrettati sul progetto UNIPÈDE (cfr. Verbale della 227ª riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma,
16 aprile 1971, pp. 6-22, ibidem). Altre critiche si esternarono nella riunione del 23 aprile durante la quale Angelini pretese che la
Commissione direttiva del CNEN esprimesse un parere chiaro e definitivo sull’iniziativa, minacciando di dimettersi dalla carica di
presidente del Comitato di coordinamento per i reattori veloci qualora fosse stato messo in condizioni di non poter rispettare gli
impegni assunti nei confronti del Consiglio dei ministri della Comunità. Trattandosi ancora della fase della dichiarazione d’intenti, i
membri dell’istituto decisionale del CNEN convennero nel dare parere favorevole all’iniziativa UNIPÈDE che, giuridicamente, non
era al momento vincolante per l’Italia (cfr. Verbale della 228ª riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 23 aprile
1971, pp. 5-25, ibidem).
479
Cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31
dicembre 1971, Roma, 1972, pp. 125-130, ASENEL.
480
Cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31
dicembre 1972, Roma, 1973, pp. 142-144, ibidem.
481
Cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31
dicembre 1971, Roma, 1972, p. 127, ibidem; Date salienti riguardanti l’iniziativa europea per la realizzazione di reattori
autofertilizzanti per la produzione di energia elettrica, appunto interno all’ENEL, ENEL-EDF-RWE, Promemoria 1973, ibidem.
125
esteri con cui già cooperava482. Per quanto concerneva la programmazione nucleare interna,
invece, l’ente elettrico italiano nel '72 proseguì gli studi per la costruzione della quinta centrale
nucleare in ottemperanza a quanto stabilito dal Consiglio di amministrazione nel '67 e,
probabilmente, in conseguenza alle minacce di carenza energetica verificatisi in seguito alla
guerra dei Sei Giorni. Il tutto, però, inclusa la questione dell’ubicazione territoriale
dell’impianto, venne rimandato all’anno seguente483.
Nel frattempo, anche la politica energetica comunitaria sembrava avviata verso il decollo.
Si aggiornò infatti il documento del dicembre '68 intitolato “Primo orientamento per una politica
energetica comunitaria”, completandolo con la redazione da parte della Commissione europea
del provvedimento denominato “Progressi necessari della politica energetica comunitaria”.
Presentato al Consiglio il 13 ottobre '72, pochi giorni prima del vertice di Parigi dei capi di Stato
e di governo, il nuovo documento si avvaleva dell’esperienza maturata nel '68 e, tenendo conto
del fatto che la soluzione del problema energetico comunitario era inscindibile da quella
mondiale, comprendeva ben quarantasei proposte a carattere generale e settoriale. Fra queste
ultime, ad esempio, erano presenti diverse raccomandazioni in funzione di una maggiore
cooperazione in ogni ambito energetico, per un coordinamento delle varie iniziative già in atto o
in corso d’opera e sulla necessità di migliorare le relazioni con i paesi esterni alla Comunità, sia
nei confronti degli Stati esportatori di fonti di energia che verso quelli importatori. Nel
documento conclusivo del vertice di Parigi si dichiarò ufficialmente la necessità di elaborare, nel
più breve tempo possibile, una politica energetica comunitaria atta a garantire un
approvvigionamento sicuro e durevole e in condizioni economiche soddisfacenti484.
Il conflitto dei Sei Giorni aveva tuttavia profondamente modificato i termini del problema
relativo agli approvvigionamenti petroliferi, come mostrava una significativa nota interna
dell’ENI:
“La chiusura del Canale di Suez [aveva] provocato nel giugno 1967 un ingente aumento del
livello dei noli cisternieri nel mercato internazionale, causato dall’improvvisa e notevole
domanda di tonnellaggio occorrente per riallocare le importazioni di petrolio greggio dal Golfo
Persico via Capo di Buona Speranza, anziché via Suez. Le misure prese dall’industria petrolifera
per far fronte alla situazione (ricorso a fonti di rifornimento più vicine, impiego di superpetroliere
per le importazioni dal Golfo Persico via Capo di Buona Speranza) [avevano] successivamente
portato ad una graduale flessione dei noli, che nel primo periodo della crisi (II° semestre 1967)
482
Cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31
dicembre 1972, Roma, 1973, pp. 148-149, ibidem.
483
Cfr. ibidem, pp. 137-140.
484
Cfr. Statement from the Paris Summit (19 to 21 October 1972), punto 9, Energy Policy (consultabile sul sito internet
http://www.ena.lu).
126
avevano raggiunto livelli eccezionali (fino a 350-400% al di sopra delle rate basi per viaggi
singoli). In seguito i noli si [erano] allineati, alla fine del 1969 e nei primi mesi del 1970, su
quotazioni molto più basse, ma un poco superiori a quelle precedenti la crisi di Suez”
485
.
Prima del conflitto le importazioni petrolifere italiane provenivano per quasi due terzi dal
Golfo Persico via Suez; successivamente, si era “proceduto ad uno spostamento ricorrendo ad
importazioni da provenienze più vicine, quali la Libia ed i terminali del Mediterraneo Orientale
ove [sboccavano] gli oleodotti provenienti dall’Irak e dall’Arabia Saudita. Queste provenienze
[avevano] ridotto la incidenza delle importazioni dal Golfo Persico, contribuendo a ridurre
l’onere derivante dal maggior percorso (65 giorni andata-ritorno via Capo di Buona Speranza,
rispetto ai 30 giorni via Suez) e diminuendo al tempo stesso la domanda di tonnellaggio
cisterniero”486.
Si poteva quindi affermare che la chiusura del Canale di Suez aveva influenzato
profondamente l’industria petrolifera, specie dal punto di vista economico: la variazione del
prezzo del greggio andava infatti valutata anche in funzione dei profondi mutamenti e dei
notevoli investimenti avviati nel settore dei trasporti cisternieri, nella struttura stessa degli
impianti portuali e nella concentrazione delle aree di raffinazione in vicinanza dei porti meglio
attrezzati per accogliere grandi petroliere. Da non sottovalutare, inoltre, il fatto che lo
spostamento dei traffici del greggio dal Mediterraneo all’Atlantico aveva comportato una
diminuzione dell’importanza dei centri di raffinazione per l’esportazione petrolifera ubicati in
Italia a vantaggio di quelli dell’Europa nord-occidentale. Nel maggio del 1970 si verificò anche
la rottura sul territorio siriano del TAPLINE, l’oleodotto della società ARAMCO per il trasporto
di greggio dall’Arabia Saudita al Mediterraneo, mentre la Libia decise di limitare il volume della
produzione di talune società. Tutto ciò appesantì ulteriormente la situazione degli
approvvigionamenti italiani, e occidentali in genere, dando il via a una serie di azioni unilaterali
che aumentarono il volume della richiesta internazionale di greggio487.
In questo scenario, iniziava a apparire ben chiara la necessità di delineare delle
contromisure adeguate al fine di scongiurare che una crisi successiva producesse ulteriori
contraccolpi. L’importanza del greggio come materia prima era tale da condizionare fortemente i
rapporti tra paesi produttori e nazioni consumatrici. La forza dei membri dell’OPEC era
accresciuta dal fatto che i paesi produttori non appartenenti all’organizzazione destinavano una
485
Stima dell’incidenza della chiusura del Canale di Suez sul costo dei rifornimenti di petrolio greggio in Italia, nota interna all’ENI
non firmata, Roma, 6 agosto 1970, ASE, coll. I. III. 1, udc. 127.
486
Ibidem.
487
Secondo Nouschi i consumi globali di greggio nel 1970 erano cresciuti quasi del quattrocento percento rispetto a quelli del 1949
(per approfondimenti cfr. A. Nouschi, Pétrole et relations internationales de 1945 a nos jours, cit., p. 35).
127
consistente porzione del greggio estratto al fabbisogno interno, permettendo all’OPEC di gestire
sul mercato internazionale una quota molto ampia di petrolio. Sempre più consapevole di questa
opportunità, durante un vertice a Caracas nel dicembre del '70, l’OPEC decise di portare al
cinquantacinque percento la tassa minima di interesse che le compagnie petrolifere dovevano
pagare ai paesi produttori, minacciando, in caso di inadempimento, interruzioni di
approvvigionamento488. L’iniziativa ancora una volta agì da stimolo per l’avvio di nuove
riflessioni sull’andamento del mercato petrolifero internazionale, come testimoniava un
approfondito studio interno preparato dall’Ente Nazionale Idrocarburi nel quale erano illustrate
le opzioni strategiche a disposizione:
“L’ENI [doveva] anzitutto decidere se intende[va] mantenere (e ampliare) il credito politico
di cui gode[va] e cercare di trarne profitto, o se [voleva] allinearsi alle posizioni delle grandi
compagnie. Una linea di differenziazione dalla compagnie maggiori sembra[va] coerente più con
una politica volta a sviluppare la ricerca di greggio che con una politica di buona amministrazione
delle riserve di cui già si dispone[va]; ma [era] probabile che senza un atteggiamento accetto ai
paesi produttori, anche la buona amministrazione [avrebbe finito] per risultare impossibile”489.
Già in questo resoconto traspariva la necessità di operare in armonia con i paesi
produttori, perseguendo un indirizzo alternativo a quello portato avanti dalle grandi compagnie
petrolifere. Ancora una volta veniva dunque ribadita, in Italia come altrove, l’esigenza di operare
scelte autonome al fine di ottenere, in caso di grave crisi, migliori condizioni di mercato. In altre
parole, già nel '70 si andava profilando la situazione provocata dalle decisioni prese dall’OPEC
durante la guerra del Kippur. D’altra parte, per nazioni come l’Italia, quasi completamente
dipendenti dalle importazioni petrolifere mediorientali e in cui i piani energetici alternativi
necessitavano di una lunga preparazione prima di divenire effettivi, nell’immediato l’unica
strada possibile da percorrere si riduceva al compromesso. Le organizzazioni comunitarie e
internazionali avevano oltretutto già palesato enormi difficoltà nel dar vita a politiche
energetiche sovranazionali. La scelta dell’ENI di non aderire all’iniziativa avanzata dalle grandi
compagnie del petrolio per un negoziato globale con i paesi produttori si ufficializzò con un
comunicato del 20 gennaio '71490 che suscitò molte proteste da parte dei grandi gruppi petroliferi,
488
Questa decisione rappresentò di fatto l’adeguamento dell’OPEC alle decisioni già adottate in ottobre dalla Libia e in novembre
dall’Iran e dal Kuwait
489
I problemi dell’ENI nel mercato internazionale, appunto interno non firmato, Roma, novembre 1970, ASE, coll. BB. I. 5, udc.
422.
490
Cfr. Comunicato ufficiale del Servizio Relazioni Pubbliche dell’ENI, Roma, 20 gennaio 1970, ASE, coll. BB. II. 4, udc. 441.
128
i quali paragonarono questa decisione alle iniziative antagoniste di Mattei491. I negoziati tra i
paesi dell’OPEC e le compagnie internazionali iniziarono a Teheran il 12 gennaio e si conclusero
il 14 del mese successivo con un accordo492 che in pratica sancì l’aumento progressivo del
prezzo del petrolio fino al 1975 e un maggior potere decisionale da parte dei governi dei paesi
produttori nell’intero settore493.
Sulla base della strategia avviata dall’ENI, agli inizi del '71 il Servizio Pianificazione
Energia ed Idrocarburi preparò uno studio dettagliato da cui emerse un’impostazione che
sembrava relegare a un ruolo strumentale l’opzione di un’azione collettiva:
“La possibilità per i paesi consumatori di approvvigionarsi di petrolio direttamente dai paesi
produttori senza l’intermediazione delle compagnie [andava] verificata alla luce di due aspetti
fondamentali: a) disponibilità di greggio da parte dei paesi produttori e sbocchi commerciali di
adeguata consistenza controllati dai paesi consumatori interessati; b) possibilità di instaurare
rapporti diretti di reciproco vantaggio fra paesi produttori e paesi consumatori”494.
I quantitativi di greggio disponibili da parte dei singoli Stati produttori tranne rare
eccezioni risultavano infatti modesti, mentre erano tutt’altro che trascurabili globalmente; ciò
491
Cfr. Situazione degli approvvigionamenti di petrolio, Telespresso n. 077/1690/C, inviato dal MAE, DGAE, Ufficio VII, alla
Presidenza del Consiglio dei ministri, al Ministero del Bilancio, al Ministero del Tesoro, al Ministero Industria e Commercio, al
Ministero Partecipazioni Statali, all’Ente Nazionale Idrocarburi, Roma, 25 gennaio 1971, ibidem.
492
Si trattava del cosiddetto Teheran Act Agreement a cui seguirono altri accordi simili: il 2 aprile si sottoscrisse infatti il Tripoli
Agreement e successivamente l’East Mediterranean Agreement con cui si stabilivano nuove regole contrattuali per i paesi produttori
del Nord Africa e per quelli che esportavano nel Mediterraneo [per ulteriori approfondimenti si vedano, tra gli altri, A. Clô, Crisi
energetica: consumi, risparmi e penetrazione elettrica, in G. Zanetti (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia, vol. 5, cit.,
pp. 70-71; Id., Economia e politica del petrolio, cit., pp. 158-162; G. Lenczowski, The Middle East in World Affairs, cit., pp. 214215; W. J. Levy, Oil Strategy and Politics, 1941-1981, cit., pp. 180-195; L. Maugeri, L’era del petrolio. Mitologia, Storia e futuro
della più controversa risorsa del mondo, cit., pp. 127-128; J. Stork, Il petrolio arabo, cit., pp. 166-171; D. Yergin, The Prize. The
Epic Quest for Oil, Money and Power, cit., pp. 582-583].
493
Il governo americano, dopo una serie di studi economico-politici avviati sulla questione, sostenne fortemente la necessità di
raggiungere un accordo con i paesi dell’OPEC anche in presenza di rinunce considerevoli. Infatti, in un memorandum del 25 gennaio
'71 indirizzato a Henry Kissinger da parte del presidente dell’Interagency Oil Task Force, Philip H. Trezise, si analizzò la situazione
internazionale del settore petrolifero, mediante l’esposizione delle dimensioni del problema, le alternative possibili per la
distribuzione, nonché le azioni proponibili da parte americana. Secondo questa analisi, un taglio delle importazioni di greggio dalle
aree del Medio Oriente e del Nord Africa poteva esser compensato nel breve periodo direttamente dagli Stati Uniti con poche
difficoltà, prendendo misure per incrementare la produzione nazionale e attingendo nel frattempo dalle scorte nazionali. In caso di un
blocco prolungato delle importazioni, la speranza per le economie europee occidentali di sopravvivere senza l’approvvigionamento di
petrolio dal Medio Oriente e dal Nord Africa era però giudicata davvero minima. A causa della crescita enorme del consumo globale
di energia, gli Stati Uniti non potevano immaginare, anche dopo aver preso tutte le misure necessarie per mobilitare le proprie
risorse, di fornire ai propri alleati petrolio sufficiente per ovviare ai tagli di greggio mediorientale e nordafricano. Si riconosceva
tuttavia che le differenze tra le parti in causa, i paesi produttori, i consumatori e le compagnie petrolifere, vertevano essenzialmente
sul prezzo e, quindi, il grande interesse di tutti gli attori a mantenere inalterati i livelli di scambio avrebbe portato sicuramente a un
accordo. Sulla base di queste ipotesi si profilarono una serie di considerazioni che partivano dal presupposto per cui i paesi produttori
non possedevano un altro mercato petrolifero; alla stessa stregua, i paesi consumatori avevano necessità di importare greggio e non
possedevano altra fonte immediata e adeguata per soddisfare le proprie richieste. Veniva infine riconosciuto che il ruolo delle
compagnie petrolifere, quali negoziatrici dirette tra le parti in causa, era essenziale e difficilmente sostituibile con altre forme di
negoziazione (Cfr. Memorandum for Mr. Henry A. Kissinger from Philip H. Trezise, Chaiman of Interagency Oil Task Force, The
White House, Washington, 25 gennaio 1971, NARA, NPMP, NSSM, doc. n. 114).
494
Alcune considerazioni sulla possibilità di instaurare rapporti diretti tra paesi produttori e paesi consumatori per
l’approvvigionamento di petrolio, Studio redatto dal Servizio Pianificazione Energia ed Idrocarburi dell’ENI, 19 aprile 1971, ASE,
coll. BB. II. 4, udc. 441.
129
significava in pratica che un accordo con un singolo produttore poteva non risultare
soddisfacente. Bisognava inoltre verificare, come sottolineava lo studio dell’ENI, la reale
convenienza degli Stati produttori nell’intavolare accordi diretti con i consumatori:
“Si tratta[va] allora di vedere se i paesi consumatori, a differenza delle compagnie
petrolifere, [erano] in grado di offrire ai paesi produttori qualcosa al tempo stesso particolarmente
apprezzato da questi ultimi e di poco costo per i primi. Solo in questo modo [sarebbe stato]
possibile realizzare i due obiettivi del basto costo del petrolio per i consumatori e di sostanziali
vantaggi per i produttori. Vantaggi non solo in termini di entrate fiscali sulla produzione
petrolifera, perché [era] evidente che se i paesi produttori mirassero soltanto a massimizzare le
entrate fiscali (nel breve e medio termine) non avrebbero [avuto] interesse alcuno ad instaurare
rapporti diretti con i paesi consumatori poiché questi – [era] da presumere – sarebbero [stati] più
495
attenti delle compagnie petrolifere a non pagare un alto prezzo per il petrolio”
.
Affinché un rapporto diretto fra le due parti in causa potesse essere di reciproca utilità
risultava quindi necessario considerare aspetti più ampi di quelli relativi a una semplice
transazione commerciale. Si poteva ad esempio ipotizzare accordi quadro fra alcuni paesi
consumatori e un gruppo di nazioni produttrici; queste ultime, in cambio di assistenza tecnica e
collaborazione economico-politica per il loro sviluppo industriale avrebbero dovuto garantire
approvvigionamenti petroliferi stabili a prezzi relativamente moderati:
“Una via d’uscita [poteva] consistere in un’offerta da parte dei paesi consumatori (meglio
come gruppo – per esempio la CEE – che singolarmente) ad un gruppo di paesi produttori per un
accordo quadro nell’ambito del quale i paesi produttori si [impegnavano] a fornire quantitativi di
greggio a condizioni stabilite ed i paesi consumatori, oltre al pagamento di un prezzo
(relativamente basso), si [impegnavano] a fornire assistenza tecnica per lo sviluppo industriale dei
paesi produttori e forme varie di collaborazione nelle quali [sarebbero potute] rientrare
agevolazioni tariffarie e, più in generale, forme di associazione economico-politica (per esempio,
associazione alla CEE). Più specificatamente, si [potevano] prevedere accordi di lungo termine
tra consorzi di imprese dei paesi consumatori ed imprese o governi dei paesi produttori. Questi
accordi, che [potevano] essere negoziati a livello governativo, [avrebbero dovuto] prevedere da
un lato forniture di petrolio greggio e dall’altro forniture di beni di investimento per sviluppare
iniziative industriali nei paesi produttori di petrolio, in un quadro di stabilità della ragione di
scambio”496.
495
496
Ibidem.
Ibidem.
130
In altri termini, iniziava a profilarsi la necessità di collegare la questione degli
approvvigionamenti con iniziative finanziarie dirette volte a risollevare le economie dei paesi
produttori, creando così un tessuto di interessi reciproci sul quale fondare stabilmente le
relazioni. D’altro canto, secondo quanto riportato nella relazione presentata dal vicepresidente
dell’ENI alla Commissione Consultiva per l’Energia il 23 aprile '71, l’importanza strategica e la
centralità dell’area mediorientale nell’ambito del possesso e della gestione delle risorse
petrolifere, nonostante le recenti scoperte di nuovi giacimenti, sarebbe rimasta invariata ancora
per molto tempo:
“I ritrovamenti in Alaska, quelli in atto nel sud-est asiatico, nel Mare del Nord nonché
possibili ulteriori scoperte [potevano] incidere in qualche misura sulla distribuzione delle riserve.
Ma l’attuale situazione di preminenza del Medio Oriente non [appariva] – nel breve e medio
termine – modificabile in misura sostanziale. Dal quadro prospettato emerge[va] che il problema
dell’energia [era] oggi, e ancora per molti anni, essenzialmente un problema petrolifero”497.
Girotti sottolineava tuttavia anche la necessità di perseguire con la massima urgenza lo
sviluppo di tutte le forme di energie alternative possibili: gas naturale proveniente da altre aree e
nucleare. Quest’ultimo avrebbe sicuramente rappresentato in futuro un’alternativa valida al
petrolio ma era necessario che l’Italia e la Comunità europea investissero molto in questa
direzione. Anche l’ENI avrebbe potuto fare la sua parte:
“[non bisognava] trascurare tutte quelle azioni che [potevano] contribuire a rafforzare la
posizione dei paesi consumatori attraverso uno sviluppo di fonti energetiche alternative: ricorso
al gas naturale, soprattutto se proveniente da zone diverse da quelle di origine del petrolio, e
sviluppo dell’energia nucleare […]. I più recenti sviluppi tecnico-economici che [interessavano]
l’energia nucleare [consentivano] di affermare che questa fonte [avrebbe rappresentato], nel
lungo periodo, una sostanziale alternativa all’uso dell’energia convenzionale. Ne [conseguiva]
che la crescita di un’industria nucleare italiana, possibilmente coordinata con quella europea,
autosufficiente sia per la progettazione e costruzione di impianti sia per la produzione di
combustibili, rappresenta[va] un valido strumento di diversificazione, e di limite alla lievitazione
dei prezzi delle fonti alternative. […] L’ENI, anche sulla base della sua esperienza, [possedeva]
497
Problemi dell’approvvigionamento degli idrocarburi e dei combustibili nucleari, Relazione presentata dall’Ing. Raffaele Girotti,
vicepresidente dell’ENI, alla riunione del 23 aprile 1971 della Commissione Consultiva per l’Energia, Roma, ASE, coll. I. II. 3, udc.
54.
131
la capacità di realizzare una più decisa azione nel campo dei minerali uraniferi. Occorre[va],
però, che l’impegno dell’ENI [potesse] collocarsi in un quadro sufficientemente definito di
sviluppo del settore nucleare in Italia”498.
I rapidi sviluppi relativi al settore degli approvvigionamenti petroliferi necessitavano
dunque di nuove strategie come confermavano i recenti provvedimenti adottati da alcuni fra i
maggiori produttori. Dopo l’accordo di Teheran del 14 febbraio '71, infatti, il 24 dello stesso
mese l’Algeria decise di nazionalizzare il cinquantuno percento delle concessioni petrolifere
possedute dalla Francia; il 2 aprile la Libia concluse un accordo con le società petrolifere per un
nuovo aumento del prezzo del petrolio499; il 31 luglio in Venezuela si approvò invece la
“Hydrocarbons Reversion Law” che prevedeva, a partire dal '74, un graduale trasferimento nelle
mani dello Stato di tutte le aree in concessione non utilizzate e, dal 1983, di tutti i loro beni
rimanenti; il 22 settembre ebbe inizio una Conferenza straordinaria dell’OPEC durante la quale
si formulò l’auspicio di condurre ulteriori “trattative con le compagnie petrolifere allo scopo di
ottenere, da un lato, una «partecipazione» nelle attività da loro svolte nei territori dei paesi
membri, dall’altro, un ulteriore aumento dei «prezzi di riferimento» per compensare la
svalutazione di fatto subita dal dollaro […] nello scorso mese di agosto”500.
Il deprezzamento della moneta statunitense determinò infatti l’inizio di una fase di
enorme incertezza e di inflazione generalizzata. I paesi cosiddetti in via di sviluppo che
dipendevano fortemente dalle importazioni dei beni di prima necessità subirono le maggiori
conseguenze e iniziarono a prendere coscienza della loro condizione. In altri termini, alcuni paesi
cominciarono a considerare l’ipotesi di utilizzare le poche risorse interne per migliorare la
difficile situazione economica aggravatasi con la svalutazione del dollaro501. Stava per nascere
quel movimento, affermatosi con forza dopo lo shock petrolifero, che raggruppava tutti i paesi
che rivendicavano una maggiore autosufficienza e una piena partecipazione al commercio
mondiale, al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale, nonché una protezione
delle loro risorse attraverso una regolamentazione delle multinazionali e un riassetto degli
scambi mondiali502.
498
Ibidem.
Dopo cinque settimane di negoziazione la Libia ottenne, assieme all’Arabia Saudita, all’Algeria e all’Iraq, un aumento immediato
del prezzo del petrolio destinato al Mediterraneo da 2,55 a 3,45 dollari al barile, un ulteriore incremento annuale pari al 2,5% oltre il
valore dell’inflazione riconosciuta e un aumento della tassa generale fino al sessanta percento.
500
Relazione sull’attività delle Comunità Economiche Europee per l’anno 1971 presentata dal Ministro degli Affari Esteri (Moro),
Camera dei Deputati, V Legislatura, 27 dicembre 1971, HAEU, Fondo Edoardo Martino, nn. 27-28.
501
L’importanza della crisi del sistema monetario internazionale per giustificare le decisioni dell’OPEC è alla base delle teorie di
Penrose e di Luciani (cfr. G. Luciani, L’OPEC nella economia internazionale, cit.; E. T. Penrose, The Large International Firm in
Developing Countries. The International Petroleum Industry, cit.).
502
Per un approfondimento sulla questione dell’utilizzo dell’arma petrolifera come opportunità di crescita per i paesi produttori e nel
tentativo di migliorare la condizione dei PVS proponendo un nuovo ordine economico internazionale si veda G. Garavini, Dopo gli
imperi. L’integrazione europea nello scontro Nord-Sud, Firenze, 2009.
499
132
Sulla scia di questo processo di autocoscienza, il 5 dicembre '72 la Libia decise di
nazionalizzare le concessioni petrolifere britanniche; il 20 gennaio una riunione fra Emirati
Arabi Uniti, Iran, Iraq, Kuwait, Qatar e Arabia Saudita e le compagnie petrolifere si concluse con
l’accordo per un aumento aggiuntivo del prezzo del greggio fino a un tetto pari all’8,49% per
compensare la perdita in valore delle concessioni di petrolio attribuibile al deprezzamento del
dollaro503. Tutto ciò confermava “l’esigenza di accelerare l’elaborazione di una politica
comunitaria per l’energia che [consentisse] all’Europa di poter fare affidamento su una propria
struttura energetica adeguata alla sua dimensione di grande consumatore e importatore di
prodotti petroliferi e che le [garantisse] dei rifornimenti sicuri ed a basso prezzo”504.
Fino a quel momento le divergenti strategie nazionali non avevano però permesso
l’approvazione di un piano energetico comunitario. Anche a livello mondiale la cooperazione tra
i paesi consumatori non aveva ottenuto i successi desiderati. Già a partire da settembre 1970 gli
statunitensi avevano esortato tutti gli Stati consumatori dell’OCSE505 a un’azione comune,
mentre gli alleati europei erano stati sollecitati a elevare i livelli delle scorte petrolifere
strategiche nazionali al fine di potenziare la propria capacità contrattuale nelle trattative con i
paesi produttori. Inoltre, gli Stati Uniti, secondo quanto riportato dal segretario di Stato, William
P. Rogers, in un memorandum indirizzato al presidente Nixon, erano in procinto di attuare un
piano strategico mirante a fronteggiare un’eventuale situazione di crisi nel settore petrolifero506.
Il progetto prevedeva tre azioni preventive, tra cui, sicuramente più interessante dal punto di
vista della cooperazione internazionale, la richiesta a Canada, Giappone, Gran Bretagna e paesi
503
Per uno studio sulle decisioni dell’OPEC si veda D. Yergin, The Prize. The Epic Quest for Oil, Money and Power, cit., pp. 633652.
504
Relazione sull’attività delle Comunità Economiche Europee per l’anno 1971 presentata dal Ministro degli Affari Esteri (Moro),
Camera dei Deputati, V Legislatura, 27 dicembre 1971, HAEU, Fondo Edoardo Martino, nn. 27-28.
505
Nata nel 1960 in sostituzione della precedente OECE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico aveva tra i
suoi compiti l’attuazione della massima espansione economica possibile, sia per i suoi membri che per i paesi sottosviluppati,
attraverso l’incremento del commercio mondiale su base multilaterale e non discriminatoria. Entrata ufficialmente in funzione il 30
settembre 1961, accolse successivamente anche gli Stati Uniti e il Canada.
506
La situazione energetica degli Stati Uniti era andata profondamente modificandosi negli ultimi anni e nel '72 la produzione
nazionale di fonti primarie si presentava insufficiente di fronte ai fabbisogni interni. Questa condizione era del tutto inattesa in un
paese che possedeva ancora abbondanti risorse potenziali sul proprio territorio. Una delle cause andava cercata nel forte aumento del
consumo energetico nazionale che, secondo le previsioni, avrebbe continuato a aumentare, rendendo la questione ancora più grave in
prospettiva. Un’altra motivazione risiedeva nell’imprevisto ritardo dello sviluppo dell’energia nucleare il quale aveva provocato, da
parte delle imprese elettriche, una maggiore richiesta di carbone che non era stata possibile fronteggiare interamente. Sull’onda dello
sviluppo dell’energia nucleare, infatti, gli investimenti sul carbone, così come era accaduto in quasi tutti i paesi che stavano
sviluppando una politica energetica nucleare, erano stati rallentati. Per produrre energia elettrica in funzione della richiesta interna si
era dunque ricorsi all’olio combustibile e al gas naturale, senza effettuare un incremento nel ritmo di individuazione delle risorse di
idrocarburi. Queste motivazioni, assieme alle situazioni critiche che si stavano succedendo nei paesi produttori del Medio Oriente,
spingevano il governo a avviare un piano di emergenza energetica fin da subito (per uno studio sulla politica estera statunitense in
relazione alle questioni energetiche si vedano, tra gli altri, S. Bromley, American Hegemony and World Oil: The Industry, the State
System and the World Economy, Cambridge, 1991; E. W. Chester, United States Oil Policy and Diplomacy: A Twentieth-Century
Overview, Westport, 1983; W. Engdahl, A century of war: Anglo-American oil politics and the new world order, London, 2004; R.
Gilpin, U S. Power and the Multinational Corporations, New York, 1975; S. Karlsson, Oil and the world Order: American Foreign
Oil Policy, Leamington Spa, 1986; N. Kokxhoorn, Oil and politics: the domestic roots of US expansion in the Middle East,
Frankfurt, 1977; D. S. Painter, Oil and the American century: the political economy of U.S. foreign oil policy, 1941-1954, Baltimore,
1986; S. P. Tillman, The United States in the Middle East: interests and obstacles, Bloomington, 1982; R. H. K. Vietor, Energy
policy in America since 1945: a study of business-government relations, Cambridge, 1984).
133
della CEE, di esaminare di concerto la possibilità di aumentare la collaborazione nello sviluppo
di forme di energia sia tradizionali che non convenzionali507.
Nel giugno del '72 la situazione iniziò a deteriorarsi dopo la decisione del governo
iracheno di nazionalizzare la concessione petrolifera britannica della IPC, quella tedesca della
Royal Ducht-SHELL, quella francese della Compagnie Française des Pétroles e la società di
New Jersey Mobil and Standard Oil. In sostegno alle decisioni di Baghdad, l’OPEC si adoperò
inoltre per impedire che le società nazionalizzate incrementassero la loro produzione altrove. Era
dunque chiaro a tutti come le questioni petrolifere fossero ormai divenute di importanza
fondamentale anche per la politica estera occidentale e perciò bisognava tenerne conto
nell’impostazione strategica generale al fine di impedire, secondo le indicazioni dei membri del
National Security Council Staff, Robert D. Hormats, Richard T. Kennedy e John D. Walsh, che
divenissero ancora più determinanti in futuro508. Il nuovo assetto creato dai paesi produttori, forte
di un effettivo potere sulle decisioni del prezzo del greggio e delle crescenti richieste di
partecipazione alle lucrose concessioni estere, rischiava di eliminare presto il ruolo delle società
private occidentali nella produzione petrolifera mediorientale. Lo sviluppo politicamente più
significativo, sempre secondo i membri del NSC, consisteva nella capacità araba di sostenere
finanziariamente un embargo totale e prolungato sulle spedizione di petrolio. Questa nuova
condizione introduceva una diversa variabile anche nell’ambito della questione arabo-israeliana
con l’ipotetica minaccia di pressioni arabe sugli Stati Uniti e sui principali alleati, a cui si poteva
aggiungere la prospettiva di un aumento della penetrazione e dell’influenza sovietica509. In
ottobre, i paesi dell’OPEC approvarono infine un nuovo programma che prevedeva un diritto di
prelievo governativo, dal 1° gennaio '73, pari al venticinque percento di tutti gli interessi
petroliferi occidentali in Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, prevedendone un
ulteriore aumento fino al cinquantuno percento a partire dal 1° gennaio '83; l’Iraq non partecipò
all’accordo che venne firmato definitivamente il 21 dicembre. Secondo le direttive impartite da
Kissinger, l’unica valida risposta poteva essere la creazione di un legame più stretto e efficace
con i partner europei510. In un memorandum del 18 dicembre '72 l’assistente in seconda del
507
La prima azione preventiva statunitense era indirizzata a raggiungere un accordo diretto e esclusivo con il Canada dopo la
scoperta di ingenti quantità petrolifere nella zona artica; secondo l’analisi del segretario di Stato Rogers, il ritrovamento di nuovo
greggio in quell’area avrebbe potuto convincere il governo canadese a considerare che il mercato naturale di questi idrocarburi
coincideva con il territorio degli Stati Uniti. La seconda strategia mirava invece a preparare una proposta per il governo di Caracas al
fine di ottenere una convenzione mediante la quale tutto il petrolio venezuelano potesse entrare liberamente nel territorio statunitense
in cambio di un accordo che garantisse gli investimenti USA necessari per sviluppare le notevolissime riserve di greggio scoperte
(cfr. Petroleum Developments and the Impeding Energy Crisis, Memorandum for the President from William P. Rogers, Secretary of
State, Washington, 10 marzo 1972, NARA, NPMP, NSSM, doc. n. 174).
508
Cfr. Foreign Policy Ramifications of U S. Oil Policy, Memorandum for Kissinger from Robert D. Hormats, Richard T. Kennedy e
John D. Walsh, Members of the National Security Council Staff, Washington, 11 luglio 1972, NARA, NPMP, NSSM, doc. n. 174.
509
Ibidem.
510
Il '73, infatti, doveva essere “The Year of Europe”, un anno dedicato alla ricerca di una cooperazione più stretta con gli alleati
europei sulle questioni economiche e di sicurezza; la sua inaugurazione avvenne ufficialmente con un discorso dell’Assistente
134
segretario di Stato per gli Affari Europei, Walter J. Stoessel, per la prima volta ammise la
possibilità che la questione petrolifera potesse rappresentare un elemento di divisione fra Stati
Uniti e Comunità europea, impegnata a sviluppare una politica energetica comune. Da parte loro,
gli USA intendevano sollecitare una completa cooperazione con gli europei per dar vita a una
strategia capace di contrastare un’eventuale emergenza e di promuovere uno sviluppo coordinato
di fonti di energia alternativa511. Nello stesso periodo si presentò una proposta di collaborazione
tra i paesi consumatori da parte del consulente petrolifero del Dipartimento di Stato americano,
Walter J. Levy512, ma i tempi non sembravano maturi per una soluzione di questo genere. Già nel
'72 si profilarono dunque riflessioni e orientamenti che sarebbero riemersi in un clima di
concitata preoccupazione nei mesi successivi, quando la situazione energetica mondiale sarebbe
stata sconvolta dagli eventi dell’ottobre del 1973.
Di fronte a una situazione così delicata, l’Italia, che dipendeva quasi totalmente dai
rifornimenti energetici mediorientali, provò a attuare una politica estera che, da una parte, mirava
a evitare iniziative mediterranee che potessero risultare non gradite a Washington e, dall’altra
parte, tentava di prendere gradatamente le distanze dalla politica filo-israeliana degli Stati Uniti.
Così facendo la Farnesina mirava a svolgere “un ruolo di interlocutore privilegiato” all’interno
dello scacchiere mediorientale513. Tuttavia, con la nomina di Aldo Moro a capo del Ministero
degli Esteri l’Italia andò sempre più avvicinandosi al mondo arabo in un contesto nel quale le
necessità energetiche nazionali suggerivano sempre più un rapporto non conflittuale con i paesi
presidenziale per i National Security Affairs il 23 aprile '73: “This year has been called the year of Europe, but not because Europe
was less important in 1972 or in 1969. The alliance between the United States and Europe has been the cornerstone of all postwar
foreign policy. […] Nineteen seventy-three is the year of Europe because the era that was shaped by decisions of a generation ago is
ending. The success of those policies has produced new realities that require new approaches: the revival of western Europe is an
established fact, as is the historic success of its movement toward economic unification; the East-West strategic military balance has
shifted from American preponderance to near-equality, bringing with it the necessity for a new understanding of the requirements of
our common security; other areas of the world have grown in importance. Japan has emerged as a major power center. In many
fields, "Atlantic" solutions to be viable must include Japan; we are in a period of relaxation of tensions. But as the rigid divisions of
the past two decades diminish, new assertions of national identity and national rivalry emerge; problems have arisen, unforeseen a
generation ago, which require new types of cooperative action. Insuring the supply of energy for industrialized nations is an example.
These factors have produced a dramatic transformation of the psychological climate in the West – a change which is the most
profound current challenge to Western statesmanship. […] We must strike a new balance between self-interest and the common
interest. We must identify interests and positive values beyond security in order to engage once again the commitment of peoples and
parliaments. We need a shared view of the world we seek to build” (H. A. Kissinger, The Year of Europe, in «The Department of
State Bulletin», 14 maggio 1973, vol. LXVIII, pp. 593-598). Per un approfondimento si vedano, tra gli altri, C. Hynes, The Year that
Never Was: Heath, the Nixon Administration and the Year of Europe, Dublin, 2009; S. Karlsson, Oil and the world Order: American
Foreign Oil Policy, cit., pp. 222-223.
511
Cfr. US Relations with Europe, Memorandum for Kissinger from Walter J. Stoessel, Jr. Assistant Secretary for European Affairs,
The White House, Washington, 18 dicembre 1972, NARA, NPMP, NSSM, doc. n. 164.
512
Cfr. Reports W. Levy’s (Consultant to the US State Department) proposal for an alliance of oil consumers, Letter from Rothschild
(Director General and First Permanent Under-Secretary, Central Policy Review Staff, Cabinet Office) to R. Marshall (Secretary of
Department of Trade and Industry), Londra, 12 dicembre 1972, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe:
America, Europe and the Energy Crisis, 1972-1974, Documents on British Policy Overseas, Serie III, vol. IV, Oxon, 2006, doc. 4.
513
Cfr. M. Cricco, Dalla genesi del secondo piano Rogers alle premesse della guerra dello Yom Kippur (1970-1973), in D. Caviglia,
M. Cricco, La diplomazia italiana e gli equilibri mediterranei, cit., p. 95.
135
produttori514. Una tendenza destinata, man mano che la guerra del Kippur si avvicinava, a
misurarsi con tutte le conseguenze prodotte dallo scoppio delle ostilità.
514
Per approfondimenti sulle iniziative diplomatiche italiane tra il 1970 e il 1973 si veda ibidem, pp. 77-140.
136
CAPITOLO IV
LA CRISI ENERGETICA DEGLI ANNI SETTANTA
1. L’Italia alla vigilia dello “shock”
Le difficoltà che stava attraversando il sistema degli approvvigionamenti petroliferi non
potevano non influenzare l’intero settore energetico internazionale, ma le conseguenze
risultavano particolarmente pesanti per un paese praticamente privo di risorse nazionali come
l’Italia515. La cattiva gestione del settore nucleare da parte dell’ENEL dopo la nazionalizzazione
del '62 rese sempre più dipendente la penisola dalle importazioni di greggio e, in particolare, da
quello mediorientale. L’ENI, a sua volta, dopo la morte di Mattei non riuscì più a esprimere una
politica antagonista tale da assicurare all’Italia vantaggi petroliferi esclusivi; anzi, l’ente si
trasformò praticamente in compratore di greggio altrui, rallentando notevolmente lo sviluppo
della capacità di raffinazione. Ciò poneva l’ENI in una condizione di particolare sensibilità agli
eventi che riguardavano il sistema degli approvvigionamenti petroliferi internazionali. D’altro
canto, la dirigenza dell’ente petrolifero di Stato aveva impiegato molte risorse nel tentativo di
ottenere importanti rifornimenti di combustibile nucleare, intuendo con anticipo la necessità di
continuare a investire in un settore che rappresentava il futuro.
Nella stessa direzione andava la presentazione alla Presidenza della Camera di un disegno
di legge da parte del ministro del Tesoro, Malagodi, di concerto con il ministro dell’Industria,
Ferri, e con il ministro del Bilancio, Taviani, dal titolo “Conferimento di un fondo di dotazione
all’Ente Nazionale per l’Energia Elettrica”. Lo scopo principale del provvedimento, illustrato il
13 settembre '72, consisteva nello stanziamento di nuove risorse finanziarie destinate al rilancio
dell’ENEL. Durante il dibattito parlamentare si approvò un importante emendamento, presentato
dagli onorevoli Maschiella, Raffaelli, Giovanni Berlinguer e Giuseppe D’Alema per conto del
PCI, che assegnava al governo il compito di presentare entro il mese di giugno un progetto di
riforma generale della tariffa elettrica finalizzata:
“a) a permettere all’Ente di realizzare programmi a lungo termine di sviluppo del settore
energetico, con particolare riguardo per il settore nucleare; b) a promuovere lo sviluppo della
515
Per un approfondimento sulla situazione petrolifera internazionale agli inizi degli anni Settanta si vedano, tra gli altri, L. Maugeri,
L’era del petrolio. Mitologia, Storia e futuro della più controversa risorsa del mondo, cit., pp. 125-141; D. Yergin, The Prize. The
Epic Quest for Oil, Money and Power, cit., pp. 563-606.
137
piccola e media industria, dell’artigianato e dell’agricoltura; c) ad incentivare lo sviluppo del
516
Mezzogiorno e delle zone depresse del paese”
.
Anche le forze politiche italiane, dunque, agli inizi del '73 sembravano consapevoli della
necessità di ripartire con gli investimenti in ambito nucleare. La situazione di stallo determinatasi
negli anni Sessanta imponeva però all’Italia di migliorare, nel breve e nel medio periodo, la
cooperazione europea e internazionale nel settore. Furono probabilmente queste riflessioni a
spingere verso la partecipazione al progetto EURODIF; sigla che indicava, come visto in
precedenza, un’associazione di studi costituita il 25 febbraio '72 da Francia, Germania Federale,
Italia, Belgio, Gran Bretagna e Paesi Bassi allo scopo di effettuare studi economico-tecnici
preliminari in vista della realizzazione di un impianto di arricchimento dell’uranio con il metodo
della diffusione gassosa517. L’iniziativa di marca francese rientrava in una strategia settoriale che
mirava a far assumere all’industria d’oltralpe la leadership europea nel settore nucleare518. Si
trattava di un programma certamente ambizioso519 ma che, come dimostrava un promemoria
preparato dall’amministratore delegato dell’AGIP Nucleare, Giorgio Fogagnolo, riscuoteva
l’entusiastico consenso degli ambienti italiani interessati; e ciò accadeva sia per via delle
forniture di uranio arricchito che il progetto avrebbe garantito alla penisola, sia per il notevole
ritorno economico a vantaggio dell’industria nazionale, sopratutto nel caso in cui la centrale
fosse stata realizzata in Italia:
“La realizzazione di questo impianto rappresenta[va] una tappa fondamentale per lo sviluppo
dell’industria nucleare in Europa e per la sicurezza degli approvvigionamenti di uranio arricchito.
I vantaggi per l’Italia, ad aderire all’iniziativa [erano] evidenti, non solo al fine di assicurare al
paese le forniture dell’uranio arricchito, ma anche per procurare all’industria manifatturiera un
516
ENEL, 50 anni di industria elettrica italiana, cit., p. 189.
Per approfondimenti si veda Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazione del Direttore generale al Consiglio di amministrazione
sull’attività dell’ente nel 1972, Roma, 1973, pp. 485-487, ASENEL. Le organizzazioni che presero parte agli studi preliminari
furono: il Syndicat Belge pour la séparation isotopique, il CEA, lo Studiengesellschaft für Uranisotopentrennverfahren, il CNEN,
l’AGIP Nucleare, l’Ultra Centrifuge Nederland e la British Nuclear Fuel Ltd. Successivamente si aggiunsero la AB Atomenergi
(Svezia) e l’Empresa nacional del uranio S. A. ENUSA (Spagna). Il CNEN ricevette l’autorizzazione a partecipare al cosiddetto
Programma Arricchimento Uranio con la nota n. 740451 del 16 febbraio '72 del Ministero dell’Industria (cfr. Verbale della 254ª
riunione della Commissione direttiva del CNEN, Roma, 18 febbraio 1972, p. 12, ASENEA). Per una testimonianza diretta dei fatti si
veda P. Fornaciari, Il petrolio, l’atomo e il metano: l’Italia nucleare, 1946-1997, cit., pp. 93-96.
518
Contemporaneamente agli studi preliminari per il progetto EURODIF, la Francia, sempre attraverso l’operato del CEA, aveva
stipulato accordi con l’Australia, interessata al problema quale paese produttore di uranio, e il Giappone, coinvolto con il suo vasto
programma nucleare, per lo studio delle possibilità di realizzazione nella zona del Pacifico o in Australia di un impianto di
arricchimento secondo il processo di diffusione gassosa (cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazione del Direttore generale al
Consiglio di amministrazione sull’attività dell’ente nel 1972, Roma, 1973, pp. 486-487, ASENEL).
519
Già nel '73 la società EURODIF divenne una società per azioni e si adoperò per mettere in atto la costruzione dell’impianto.
L’entrata in esercizio di quest’ultimo era prevista per il '78, mentre il funzionamento a regime per il 1980. Vi parteciparono
effettivamente il Consorzio SYBESI al 10%, il CEA al 47,5%, l’AGIP Nucleare e il CNEN al 22,5%, l’ENUSA al 10% e la AB
Atomenergy al 10% (cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e
bilancio al 31 dicembre 1973, Roma, 1974, pp. 46-47, ibidem).
517
138
flusso non indifferente di commesse con un alto contenuto tecnologico; ulteriori vantaggi
[sarebbero potuti] derivare da una localizzazione dell’impianto in Italia […]. Le localizzazione
che l’EURODIF [riteneva] possibili in Italia [erano] quelle di Piombino, Montalto di Castro e
Nardò. Anche la Francia (con 2 possibili siti), la Svezia (1 sito) e la Spagna (1 sito) [erano]
candidate ad ospitare l’impianto”520.
Sulla base di questa opinione, Girotti inviò una lettera a Gilberto Bernabei, capo di
Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei ministri, informandolo sulla situazione
dell’EURODIF, sulle modalità della partecipazione italiana e sottolineando che:
“L’Italia [avrebbe potuto] migliorare la propria candidatura circa l’insediamento
dell’impianto sul proprio territorio, assicurando all’iniziativa gli incentivi previsti dalla vigente
normativa per il Mezzogiorno e per le aree depresse del Centro”521.
Risposte immediate in questo senso mancarono da parte delle istituzioni politiche
sebbene i tempi fossero decisamente ristretti; la scelta del sito sarebbe infatti dovuta avvenire
entro il primo semestre del '73 e la decisione finale per la costruzione dell’impianto era prevista
entro la fine dell’anno.
Nel frattempo, fra l’aprile e il giugno del '73 i paesi OPEC decisero di aumentare
ulteriormente il prezzo del petrolio, dapprima del 5,7% (in aprile) e successivamente dell’11,9%
(in giugno), ufficialmente per compensare la svalutazione del dollaro. Proprio nel tentativo di
trovare una risposta immediata ai continui apprezzamenti del petrolio Philip Odeen, presidente
della Committee on the international aspects of energy for OECD meetings, inviò un
memorandum a Kissinger nel quale sollecitava una più stringente collaborazione con gli alleati al
fine di coordinare le azioni tra i paesi consumatori e di fronteggiare il cartello dell’OPEC522. Per
quanto concerneva l’influenza statunitense sulle questioni energetiche internazionali Odeen
suggeriva di adottare un’analisi ad ampio spettro. In primis bisognava valutare il considerevole
peso economico e politico che gli Stati Uniti avevano nelle due nazioni più ricche di petrolio,
Arabia Saudita e Iran, le quali avrebbero dovuto incrementare notevolmente la produzione per
520
Lettera di Giorgio Fogagnolo, amministratore delegato dell’AGIP Nucleare, a Raffaele Girotti, presidente dell’ENI, Milano, 23
marzo 1973, ASE, coll. I. V. 4, udc. 286.
521
Lettera di Raffaele Girotti, presidente dell’ENI, a Gilberto Bernabei, Capo di Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei
ministri, Roma, 8 aprile 1973, ibidem. Circa l’eventuale localizzazione dell’impianto in Italia Girotti aveva anche ricevuto una lettera
da parte del sottosegretario di Stato del Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, Attilio Jozzelli, nel tentativo di
“appoggiare l’orientamento” dell’ENI in favore della zona di Montalto di Castro, nel viterbese (cfr. Lettera di Attilio Jozzelli,
sottosegretario di Stato del Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, a Raffaele Girotti, presidente dell’ENI,
Milano, 23 marzo 1973, ibidem).
522
Cfr. Memorandum for Kissinger from Philip Odeen, Chairman of the ad hoc committee on the international aspects of energy for
OECD meetings, “Energy and Atlantic Alliance”, Washington, 6 giugno 1973, NARA, NPMP, NSSM., doc. N. 174.
139
soddisfare la domanda petrolifera prevista per il 1980; traguardo assai difficile da realizzare
senza i relativi aiuti finanziari americani. Un altro elemento esaminato riguardava il ruolo degli
USA come nazione importatrice: erano l’unico paese, fra quelli con un elevato consumo
nazionale di greggio, con risorse interne tali da poter essere considerate sufficienti a ridurre, in
futuro, la richiesta di petrolio estero523. Tuttavia, riesaminando la questione della cooperazione
internazionale Odeen sottolineava come si fossero già palesati approcci differenti tra gli alleati:
francesi, italiani e tedeschi stavano infatti percorrendo strade separate alla ricerca di nuovi fonti
petrolifere; gli inglesi puntavano sulle scoperte di giacimenti nel Mar del Nord per diminuire la
dipendenza dalle importazioni mediorientali; i giapponesi nutrivano infine grande interesse per la
collaborazione internazionale in forza di una maggiore vulnerabilità dovuta alla totale
indisponibilità di alternative all’approvvigionamento dall’estero. Il pericolo più elevato era
comunque rappresentato dalla possibilità che i paesi OPEC scegliessero l’opzione politica dello
scontro con un nuovo cartello formato dalle nazioni consumatrici e decidessero per la rottura
degli accordi in vigore fino a giungere all’interruzione della produzione petrolifera. In caso di
crisi, Odeen ipotizzava che all’interno di ciascun paese importatore si sarebbero create forti
pressioni al fine di raggiungere un accordo separato e più conveniente con i produttori524. In
merito alla possibilità di sottoscrivere intese con i governi delle nazioni esportatrici di petrolio
occorreva però fare i conti anche con le aspirazioni della Commissione europea a negoziare per
conto dei Sei:
“Nel campo delle relazioni della Comunità con i Paesi terzi produttori di petrolio, la
Commissione [riteneva] che rappresentando la Comunità una delle più grandi aree consumatrici
di petrolio, essa [fosse] la più qualificata ad intraprendere contatti diretti con tali Paesi per la
instaurazione di ampi rapporti di cooperazione, nel cui quadro gli approvvigionamenti petroliferi
[avrebbero potuto] trovare una garanzia di continuità e di sicurezza”525.
Con motivazioni e proposte diverse, dunque, gli Stati Uniti, da una parte, e la Comunità
europea, dall’altra, ritenevano di poter svolgere un ruolo determinante in vista della
normalizzazione del mercato petrolifero internazionale. In ogni caso di lì a poco gli eventi
523
In questo modo lo sviluppo delle alternative statunitensi, anche se più costose, avrebbero potuto rendere il mercato petrolifero
meno rigido e, sempre secondo le considerazioni di Odeen e della sua commissione, i paesi OPEC, in assenza della domanda
petrolifera americana, che secondo dei calcoli approssimativi si aggirava al trenta-quaranta percento del totale, avrebbero
difficilmente potuto mantenere i prezzi ai livelli del momento (cfr. ibidem).
524
Ibidem.
525
Relazione sull’attività delle Comunità Economiche Europee per l’anno 1972 presentata dal ministro per gli Affari Esteri, Medici,
Camera dei Deputati, VI Legislatura, 15 gennaio 1973, HAEU, Fondo Edoardo Martino, nn. 27-28.
140
mediorientali avrebbero spazzato via posizioni, progetti e aspirazioni che si erano cristallizzati
nel decennio precedente: dopo la guerra del Kippur nulla sarebbe tornato come prima.
2. Il sogno di una politica energetica comunitaria
In concomitanza con le crescenti tensioni che agitavano il settore petrolifero
internazionale all’interno della Comunità europea si intensificarono i dibattiti e le proposte di
soluzione526. Il 19 aprile '73 la Commissione inviò una communication al Consiglio, intitolata
“Orientations et actions prioritaires pour la politique énergétique communautaire”, nella quale
si affermava in primo luogo la necessità di avviare una proficua cooperazione internazionale nel
campo
energetico.
D’altronde,
in
previsione
dell’aumento
delle
difficoltà
relative
all’approvvigionamento di energia ogni azione di un singolo paese o di un gruppo di essi sarebbe
risultata vana; la Comunita europea, dal canto suo, doveva garantire la stabilità dei rifornimenti
energetici mediante un rapporto diretto e amichevole con i produttori:
“La dimension mondiale qu’[acquérait] progressivement l’approvisionnement énergétique
[avait] pour corollaire la quasi impossibilité, pour un pays ou même un groupe de pays, de
résoudre isolément les problèmes dans ce domaine. La préoccupation d’atténuer les risques de
surenchère et de confrontation [impliquait] que s’[instaurât] entre les grandes régions
importatrices d’énergie une coopération fondée sur certains principes, portant sur des domaines à
préciser et établie dans un cadre à définir. Cette coopération [devait] se développer en premier
lieu et compte tenu de l’importance de leur consommation, entre la Communauté, les Etats-Unis
et le Japon. Il [fallait] cependant se préoccuper d’y associer les pays en voie de développement
qui sont importateurs d’énergie. […] L’objectif prioritaire d’une politique énergétique de la
Communauté [était] de chercher à accroître la stabilité de ses approvisionnements. Cet objectif
[était] particulièrement évident en matière d’hydrocarbures où sa dépendance à l’égard de
l’extérieur est la plus grande. La meilleure garantie de stabilité [aurait résulté] en définitive d’un
climat de confiance à entretenir entre la Communauté et ses fournisseurs”527.
526
Per uno studio sugli anni precedenti si vedano, tra gli altri, J. A. Hassan, A. Duncan, Integrating Energy: the Problems of
Developing an Energy Policy in the European Communities, 1945-1980, cit.; F. Petrini, L’arma del petrolio: lo “shock” petrolifero e
il confronto Nord-Sud. Parte Prima. L’Europa alla ricerca di un’alternativa: la Comunità tra dipendenza energetica ed egemonia
statunitense, in D. Caviglia, A. Varsori (a cura di), Dollari, Petrolio e aiuti allo sviluppo. Il confronto Nord-Sud negli anni '60-70,
Milano, 2008, pp. 90-94.
527
Orientations et actions prioritaires pour la politique énergétique communautaire, Communication de la Commission au Conseil,
Commission des Communautés Européennes, Bruxelles, 19 aprile 1973, HAEU, Fondo Emile Noël, n. 81.
141
Questa necessità di avviare “un climat de confiance” con i fornitori di energia divenne un
caposaldo fondamentale delle linee guida per una politica energetica della Comunità:
“Pur être durable, cette confiance [devait] s’insérer dans une coopération axée sur la
satisfaction des intérêts mutuels des partenaires. Or, il n’[avait] pas douteux qu’il [existait] une
complémentarité profonde d’intérêts entre la Communauté, grand importateur de pétrole et de
gaz, et certains pays exportateurs parmi les principaux qui peuvent trouver en Europe. Outre un
débouché pour leurs produits bruts ou manufacturés, également une contribution au
développement de leur économie et particulièrement à la mise en valeur de leurs ressources
naturelles et à leur industrialisation”528.
Iniziava dunque a essere ipotizzata anche l’eventualità di collegare l’importazione di
prodotti petroliferi a iniziative finanziarie all’interno dei paesi esportatori in modo da unire
indissolubilmente gli interessi e le economie di entrambe le parti. La realizzazione di una politica
energetica così delineata poteva però funzionare solo a condizione di una reale unità d’intenti e
di un’effettiva volontà politica di demandare la decisioni relative a un settore così importante dal
punto di vista strategico alle istituzioni comunitarie. Bisognava inoltre appurare l’eventuale
sintonia nei propositi, richiamata nella stessa communication, fra Comunità europea, Stati Uniti e
Giappone. Ad ogni modo, su tutto prevaleva l’appello della Commissione in favore di massicci
investimenti nel campo dell’energia nucleare:
“L’accélération du recours à l’énergie nucléaire [présentait] un intérêt primordial tant du
point de vue de la sécurité de l’approvisionnement que sur le plan des coûts de
l’environnement”529.
Le sollecitazioni contenute nella comunicazione non vennero però raccolte dal Consiglio
che non ritenne necessario modificare nell’immediato la politica nucleare della Comunità.
Tuttavia, il 22 maggio '73, durante una riunione del Consiglio dei ministri CEE dedicata
esclusivamente ai problemi dell’energia, vennero approvati: una direttiva riguardante i
provvedimenti destinati a attenuare le conseguenze delle difficoltà per gli approvvigionamenti di
petrolio greggio; un regolamento per l’appoggio ai progetti comunitari nel settore degli
idrocarburi; un nuovo sistema di aiuti comunitari per i carboni da coke e il coke destinati
528
529
Ibidem.
Ibidem.
142
all’industria siderurgica della Comunità530. Pochi mesi bastarono a dimostrare la fondatezza delle
analisi elaborate dalla Commissione. Già il 19 luglio, infatti, il Consiglio presentò una direttiva
“concernente le misure destinate ad attenuare le conseguenze delle difficoltà di
approvvigionamento di petrolio greggio e prodotti petroliferi”. Si trattava di un tentativo di
delineare una strategia comune di risposta a una possibile crisi energetica che, in pratica, dava
mandato a ciascuno Stato membro di prendere tutte le misure necessarie per dotare le relative
autorità competenti dei poteri atti a attenuare le difficoltà energetiche, specie quelle petrolifere,
che si fossero presentate:
“Considerando che occorre[va] prevedere anticipatamente le procedure e gli strumenti
appropriati che [potevano] garantire una rapida attuazione delle misure destinate ad attenuare gli
effetti delle difficoltà di approvvigionamento di petrolio greggio e prodotti petroliferi […]
considerando che tutti gli Stati membri [dovevano] a tal fine disporre dei poteri necessari per
prendere all’occorrenza le opportune misure […] [si decretava che] in caso di difficoltà di
approvvigionamento di petrolio greggio e prodotti petroliferi, che [avesse] per effetto di ridurre
sensibilmente le forniture dei suddetti prodotti e che [potesse] causare gravi perturbazioni, gli
Stati membri [avrebbero preso] tutte le disposizioni necessarie per dotare le autorità competenti
dei poteri idonei a: - effettuare i prelievi sulle scorte di sicurezza […]; - ridurre in modo specifico
o globale il consumo in funzione del deficit degli approvvigionamenti previsti, anche assegnando
prodotti petroliferi con precedenza a talune categorie di consumatori; - regolamentare i prezzi per
evitare rialzi anormali”531.
In realtà, sul fronte della cooperazione in campo energetico i risultati raggiunti in sede
comunitaria erano stati fino a quel momento assai deludenti. Le maggiori difficoltà derivavano
dalla posizione di Parigi e in particolare dalle diffidenze che il Quai d’Orsay nutriva nei
confronti degli Stati Uniti e della loro politica petrolifera. Ciononostante, a pochi giorni
dall’inizio della guerra del Kippur una nota preparata per Michel Jobert dal Centre d’Analyse et
de Prévision, creato appositamente dallo stesso ministro degli Esteri nel luglio precedente, dopo
aver sottolineato la forte pressione esercitata su Parigi da parte dei partner europei e, soprattutto,
dalla Gran Bretagna “pour la recherche d’éléments d’une politique énergétique commune […],
[soutenait] que la position française et celle de ses partenaires [étaient] susceptibles d'être plus
530
Per approfondimenti si veda Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazione del Direttore generale al Consiglio di amministrazione
sull’attività dell’ente nel 1973, Roma, 1974, pp. 266-267, ASENEL.
531
Direttiva del Consiglio concernente le misure destinate ad attenuare le conseguenze delle difficoltà di approvvigionamento di
petrolio greggio e prodotti petroliferi, Consiglio delle Comunità europee, Bruxelles, 19 luglio 1973, art. 1, ACEU, Intermediate
Archives, 12136. Questa direttiva venne adottata ufficialmente dal Consiglio nella 252ª sessione del 24 luglio (cfr. Lettera del
Presidente del Consiglio delle Comunità Europee, Ivar Norgaard, al Ministro degli Affari Esteri, Aldo Moro, Bruxelles, 27 luglio
1973, ibidem, 12137).
143
proches que lors d’un débat précédent qui s'était terminé par un échec”532. Man mano che ci si
avvicinava alle gravi decisioni che i paesi dell’OPEC avrebbero preso dopo lo scoppio della
guerra si riteneva dunque possibile anche da parte francese avviare una certa cooperazione nel
settore energetico.
3. L’Italia e la crisi petrolifera dello Yom Kippur
Il 6 ottobre 1973, giorno dello Yom Kippur (espiazione, la festa più solenne del
calendario ebraico), Sadat, successore di Nasser, ritenne fosse giunto il momento di vendicare la
sconfitta subita nel '67. Cogliendo gli israeliani di sorpresa per via della sacra ricorrenza il leader
egiziano lanciò le truppe sulle sponde orientali del canale di Suez, mentre i siriani attaccarono
sulle alture del Golan. Inizialmente Siria e Egitto ottennero grandi vittorie facendo crollare il
mito dell’invincibilità dell’esercito di Israele ma, nel giro di pochi giorni, quest’ultimo riuscì a
ribaltare le sorti del conflitto, grazie anche agli aiuti provenienti dagli Stati Uniti e al ponte aereo
appositamente
creato533.
Come
già
avvenuto
durante
la
guerra
dei
Sei
Giorni,
contemporaneamente all’evolversi del conflitto i paesi dell’OPEC tentarono di utilizzare l’arma
petrolifera per influenzare a proprio vantaggio i rapporti degli Stati occidentali con Israele534.
532
Note pour le Ministre du le Centre d’Analyse et de Prévision, Parigi, 29 settembre 1973, CHAN, Archives présidentielles, Fondo
Georges Pompidou, 5 AG 2, c. 173.
533
Sugli eventi della guerra del Kippur e sulle sue conseguenze cfr. A. Adan, The Yom Kippur War, New York, 1986; A. J. Barker,
La guerra del Yom Kippur: enfrentamiento arabe-israeli 1973, Madrid, 1975; M. R. Buheiry, U.S. threats of intervention against
Arab oil, 1973-1979, Beirut, 1980; A. Clô, Economia e politica del petrolio, cit., pp. 162-170 ; G. Golan, Yom Kippur and after: the
Soviet Union and the Middle East crisis, Cambridge, 1977; G. Grossi, La guerra del petrolio, Roma, 1974; G. Lenczowski, The
Middle East in World Affairs, cit., pp. 723-727; R. J. Lieber, Oil and the Middle East War: Europe in the Energy Crisis, Cambridge,
1976; Id., The Oil Decade: Conflict and Cooperation in the West, New York, 1983; G. Luciani, L’OPEC nella economia
internazionale, cit., pp. 55-66; R. Maghroori, The Yom Kippur War: a case study in crisis decision-making in American foreign
policy, Washington, 1981; L. Maugeri, L’era del petrolio. Mitologia, Storia e futuro della più controversa risorsa del mondo, cit., pp.
125-141; F. Mazzei, La guerra dello Yom Kippur, Firenze, 1979; K. R. Merrill, The oil crisis of 1973-1974: a brief history with
documents, Boston, 2007; L. Mosley, La guerre du pétrole, Paris, 1974 ; P. R. Odell, Oil and World Power: background to the Oil
Crisis, London, 1974; A. Rabinovich, The Yom Kippur war: the epic encounter that transformed the Middle East, New York, 2004;
H. M. Sachar, From the aftermath of the Yom Kippur war, New York, 1987; A. Shlaim, The iron wall: Israel and the Arab world,
cit., pp. 318-324; K. W. Stein, Heroic diplomacy: Sadat, Kissinger, Carter, Begin, and the quest for Arab-Israeli peace, New York,
1999, pp. 74-96; R. Vernon (a cura di), The Oil Crisis, New York, 1976; D. Yergin, The Prize. The Epic Quest for Oil, Money and
Power, cit., pp. 588-612. Per un studio basato sul punto di vista dei paesi OPEC si vedano, tra gli altri, M. Abdel-Fadil, Papers on the
Economics of Oil: a producer’s view, Oxford, 1979; F. J. Al-Chalabi, OPEC and the international oil industry: a changing structure,
Oxford, 1980; A. Alnasrawi, Arab nationalism, oil and the political economy of dependency; New york, 1991; M. S. Al-Otaiba, Opec
and the Petroleum Industry, London, 1975; A. Al-Sowayegh, Arab petro-politics, London, 1984; A. A. Attiga, Interdependence on
the Oil Bridge: Risks and Opportunities, Kuwait, 1988; F. Parra, Oil politics: a modern history of petroleum, cit.
534
Secondo recenti interpretazioni le motivazioni alla base dell’utilizzo dell’arma petrolifera da parte dei paesi dell’OPEC non
sarebbero attribuibili solo a questioni politiche e quindi alla causa araba. La composizione stessa dell’organizzazione dei paesi
esportatori di greggio include del resto paesi con enormi differenze politiche tra loro e situati in continenti distinti; pertanto gli
interessi dell’OPEC sono svariati e non possono limitarsi a quelli mediorientali (per uno studio generale che introduce nella questione
lo scontro fra Occidente e PVS si veda G. Garavini, Dopo gli imperi. L’integrazione europea nello scontro Nord-Sud, cit.). Altri
autori collegano invece i tagli della produzione degli anni Settanta al trasferimento dei diritti di proprietà dalle compagnie
internazionali ai governi locali (cfr. A. D. Johany, The Myth of the OPEC Cartel, cit.); altri ancora alle necessità monetarie e di
conseguenza alle capacità di assorbimento da parte delle economie domestiche [cfr. J. Crémer, D. Salehi-Isfahani, Models of the oil
market, cit.; D. J. Teece, OPEC behavior: an Alternative view, in J. M. Griffin, D. J. Teece (a cura di), OPEC behavior and world oil
prices, cit., pp. 64-93]. Ad ogni modo, fino ai primi anni Settanta i paesi OPEC non avevano giocato un ruolo di primo piano nella
144
Oltre alle decisioni precedentemente prese535, il 16 ottobre i governi di Iran, Iraq, Emirati Arabi
Uniti, Kuwait, Arabia Saudita e Qatar decisero di aumentare unilateralmente il prezzo del
greggio del diciassette percento e annunciarono tagli alla produzione. Il giorno seguente i
ministri del petrolio dell’OPEC concordarono un taglio delle esportazioni petrolifere e
raccomandarono un embargo contro i paesi nemici536. Il passo successivo537 fu il blocco delle
esportazioni di greggio nei confronti degli Stati Uniti (19 ottobre) e dell’Olanda (23 ottobre) e la
diminuzione della produzione di greggio con forniture differenziate a seconda della posizione
assunta dai vari paesi durante il conflitto538. Come se non bastasse, in concomitanza con queste
decisioni il vice ministro degli Affari Esteri dell’Arabia Saudita, Massoud, convocò gli
ambasciatori dei Nove539 e minacciò di rallentare ulteriormente la produzione petrolifera se la
Comunità europea non avesse esercitato pressioni sugli Stati Uniti per indurli a modificare la
loro posizione540.
Di fronte al progressivo irrigidimento del blocco dell’OPEC in molti paesi consumatori
crebbe la tentazione di replicare con una politica di ferma contrapposizione. Dal canto suo
l’Italia reagì cercando di recuperare quel tradizionale indirizzo di paese “ponte” che ne aveva
spesso caratterizzato l’approccio verso gli Stati della sponda meridionale del Mediterraneo541. In
produzione petrolifera internazionale o nella determinazione del prezzo del greggio; questa situazione si modificò solo tra il 1970 e il
1973 quando la domanda globale di petrolio aumentò vertiginosamente e i rifornimenti maggiori provenivano proprio dall’area
mediorientale. Ciò aumentò il potere dei governi OPEC a danno delle multinazionali petrolifere, creando uno scenario ideale nel
quale i produttori poterono aumentare le pretese economiche sulle esportazioni di greggio. A dividere l’ampia letteratura esistente in
merito è anche il livello di consapevolezza di questa posizione dominante dei produttori mediorientali e il tipo di cartello messo
effettivamente in atto nel '73 (per ulteriori approfondimenti si rimanda a A. Clô, Economia e politica del petrolio, cit., pp. 76-85).
535
Tra queste rientrava ad esempio la nazionalizzazione in Libia del cinquantuno percento delle concessioni delle seguenti società
petrolifere: ESSO, Libya/SIRTE, MOBILE, SHELL, Gelensberg, TEXACO, SoCAL, Libyan-American (ARCO), GRACE.
536
Venne bloccato, ad esempio, il flusso di petrolio attraverso i due importanti oleodotti di Banias e di Tartus che attraversavano la
Siria e si ridusse del cinquanta percento il flusso di quello che sboccava a Sidone, nel Libano, proveniente dai giacimenti dell’Arabia
Saudita (per approfondimenti si vedano, tra gli altri, L. Maugeri, L’era del petrolio. Mitologia, Storia e futuro della più controversa
risorsa del mondo, cit., pp. 134-135; I. Skeet, OPEC: twenty-five years of prices and politics, cit., p. 100).
537
Per un excursus sulle misure prese dall’OPEC si rimanda a G. Lenczowski, The Oil producing Countries, in ibidem, pp. 59-72; E.
T. Penrose, The Development of Crisis, in R. Vernon (a cura di), The Oil Crisis, cit., pp. 39-57.
538
Stati Uniti e Olanda si erano esposti più degli altri paesi a sostegno di Israele, sia prima che durante il conflitto. L’embargo venne
esteso al Portogallo, all’Arabia Saudita e alla Rhodesia in un secondo momento per soddisfare le richieste in questo senso dei paesi
africani dell’OPEC (per approfondimenti si vedano, tra gli altri, M. Magini, L'Italia e il petrolio tra storia e cronologia, cit., pp. 209212; D. Yergin, The Prize. The Epic Quest for Oil, Money and Power, cit., pp. 606-632).
539
A partire dal 1° gennaio '73 Danimarca, Irlanda e Regno Unito entrarono infatti a far parte ufficialmente della Comunità europea.
540
Cfr. Communication téléphonique de l'ambassade de la Grande-Bretagne en Arabie Saoudite pour le Ministère des Affaires
Étrangères, Direction des Affaires économiques et financiers, Affaires généraux, Parigi, 16 ottobre 1973, MAEF, Archives
Diplomatiques, Affaires économiques et financières, Affaires générales, 1967-1975, 419.
541
Per uno studio sulla politica estera italiana durante la guerra del Kippur e nel periodo successivo si vedano, tra gli altri, E.
Calandri, Il Mediterraneo nella politica estera italiana, cit., in A. Giovagnoli, S. Pons (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi
degli anni Settanta, cit., pp. 351-381; G. Calchi Novati, Mediterraneo e questione araba nella politica estera italiana, in F.
Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, La trasformazione dell’Italia. Sviluppo e squilibri, cit., pp. 229-237; D.
Caviglia, La politica dell’Italia e il conflitto arabo-israeliano (1967-1973). L’atteggiamento italiano nella documentazione
diplomatica francese, in «Nuova Storia Contemporanea», cit., pp. 17-50; G. Formigoni, L’Italia nel sistema internazionale degli anni
Settanta: spunti per riconsiderare la crisi, in A. Giovagnoli, S. Pons (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta,
cit., pp. 271-298; R. Gaja, L’Italia nel mondo bipolare: per una storia della politica estera italiana (1943-1991), cit., pp. 191-200; V.
Ianari, L’Italia e il Medio Oriente: dal “neoatlantismo” al peace-keeping, in A. Giovagnoli, S. Pons (a cura di), L’Italia
repubblicana nella crisi degli anni Settanta, cit., pp. 383-395; C. Meneguzzi Rostagni, La politica estera italiana e la distensione:
una proposta di lettura, in F. Romeo, A. Varsori (a cura di), Nazione, Interdipendenza, integrazione. Le relazioni internazionali
dell’Italia (1917-1989), cit., pp. 355-371; Ministero degli Affari Esteri (Servizio Storico e Documentazione), Italia e Medio Oriente
145
questa cornice, il deterioramento del clima con i produttori di greggio anziché divenire il primo
passo verso una rottura sembrò fornire lo spunto per impostare i rapporti su un nuovo tipo di
collaborazione542. Erano questi i criteri di fondo che avevano ispirato l’appunto della Direzione
Generale Affari Economici del MAE, dal quale traspariva lo sforzo per individuare un terreno
comune su cui realizzare una cooperazione vantaggiosa per entrambe le parti:
“La crisi medio orientale in corso ha reso più attuale ed urgente a livello mondiale, europeo
ed italiano un problema – quello degli approvvigionamenti energetici e petroliferi in particolare –
sul quale ormai da tempo i Governi vanno riflettendo. […] il punto centrale del problema in
questione [risiede] […] nella necessità […] di superare, in presenza dei profondi mutamenti nella
situazione politica ed economica di taluni gruppi di Paesi, gli schemi tradizionali caratterizzati, da
un lato, dagli sforzi dei Paesi produttori ad incrementare unicamente il ricavato delle vendite e,
dall’altro,
da
una
politica
dell’approvvigionamento
dei
Paesi
consumatori,
ispirata
essenzialmente, attraverso il ruolo di primo piano attribuito alle compagnie tradizionali, a criteri
mercantilistici e settoriali. Ora, un adeguamento ai mutamenti intervenuti non può avvenire se
non si crea un tipo di rapporto nel quale il petrolio costituisse soltanto un elemento di una vasta
cooperazione economica tra i Paesi produttori e i Paesi consumatori e che si inquadrasse, altresì,
in un processo di diversificazione sia delle fonti energetiche […] che dei luoghi di
approvvigionamento. […] un fattore di primo piano nel determinare la sicurezza degli
approvvigionamenti risiede nella stabilizzazione politica dell’area mediterranea e quindi,
nell’avviamento a soluzione della crisi medio orientale, così come già si agisce da parte del
Governo italiano. Entrando nel merito, […] almeno al momento attuale […] sembra difficile
impostare un discorso produttivo di effetti pratici nell’ambito della Comunità Europea. […] Così,
al di là delle eventuali misure di carattere contingente, […] sembra opportuno elaborare una
nostra strategia che possa altresì servire da stimolo alla ricerca di un’azione su scala europea.
Anzitutto, dovremmo cercare di stabilire nelle relazioni con i Paesi nostri principali fornitori (o
almeno, in una prima fase, con alcuni di essi) un collegamento organico tra ciò che potrà essere
(1967-1974), cit., 167-181; E. Ortona, Anni d’America. La cooperazione 1967-1975, Bologna, 1989; L. Riccardi, Il «problema
Israele»: diplomazia italiana e PCI di fronte allo Stato ebraico (1948-1973), cit., pp. 441-467; Id., Sempre più con gli arabi. La
politica italiana verso il Medio Oriente dopo la guerra del Kippur (1973-1976), cit., pp. 57-82; G. Romeo, La politica estera italiana
nell’era Andreotti (1972-1992), Soveria Mannelli, 2000, pp. 13-46; A. Varsori, L’Italia nelle relazioni internazionali dal 1943 al
1992, cit., pp. 182-183.
542
All’indomani dell’inizio delle ostilità, come era prevedibile, tra le forze politiche italiane, anche tra quelle che componevano la
maggioranza governativa (DC, PSI, PSDI e PRI) non esisteva una sintonia di vedute su come l’Italia avrebbe dovuto reagire:
“Mentre i democristiani […] [avevano] assunto una posizione di sostanziale equidistanza [tra le parti in guerra], i socialdemocratici e
i repubblicani [avevano] solidarizzato, con gli israeliani, rimproverando alle sinistre […] di essere specializzati nelle marce pacifiste
a senso unico, solo quando a farne le spese maggiori [erano] certi Paesi. I socialisti, invece, [avevano] solidarizzato, sia pure con
qualche incertezza, con gli arabi, allineandosi con i comunisti. […] Rendendosi comunque conto che non sarebbe [stato] possibile
ottenere dal governo italiano una presa di posizione decisamente filo-araba, non fosse altro per le diverse valutazioni politiche
esistenti fra i partiti della coalizione, i comunisti [avevano] chiesto con un discorso di Berlinguer una posizione rigorosamente
neutrale” (F. Damato, Maggioranza divisa sul Medio Oriente, «Il Giornale d’Italia», 8-9 ottobre 1973). Queste posizioni iniziarono
ovviamente a assumere aspetti più moderati dopo le decisioni dell’OPEC: i membri del governo e, nella fattispecie, il ministro degli
Esteri, si misero a lavoro nel tentativo di cercare una posizione moderata e intermedia che non pregiudicasse ulteriormente i rapporti
con i paesi arabi e, al contempo, non fosse in netta contrapposizione con le volontà statunitensi e con quelle israeliane.
146
reciprocamente fornito: da parte loro, gli approvvigionamenti di energia a noi indispensabile; da
parte nostra, le attrezzature ed il know-how necessari al loro sviluppo. […] Nella misura in cui
uno sviluppo più integrato del settore energetico potesse creare in questi Paesi un centro di
irradiazione di attività industriali sempre più differenziate e quindi di propulsione dell’intero
sistema economico, anche altri nostri settori esportativi potrebbero beneficiare delle crescenti
543
prospettive offerte alla cooperazione”
.
Data però l’impossibilità di immaginare in tempi brevi una politica comune della CEE, la
Direzione Generale Affari Economici del MAE propendeva per un’azione unilaterale prendendo
spunto dal suggerimento presentato nell’aprile precedente dalla Commissione europea di
collegare le importazioni petrolifere a iniziative finanziarie544. Tuttavia, i tempi non erano ancora
maturi per definire una strategia indipendente e definitiva. Si era infatti ancora in una fase di
studio che doveva per lo più servire a valutare la gravità della situazione545. Non si sapeva, ad
esempio, quando i paesi dell’OPEC avrebbero revocato l’embargo petrolifero, se alla fine del
conflitto il prezzo del greggio avrebbe subito una diminuzione o se gli apprezzamenti sarebbero
continuati; ancora non si conoscevano le concrete ripercussioni in campo economico e pertanto
nessuna programmazione appariva immaginabile. Ciononostante, la situazione apparve subito
drammatica, aggravata dalla scelta di non investire adeguatamente nel settore nucleare e da una
condizione economico-sociale del paese molto difficile. Anche la forte e caotica instabilità
politico-istituzionale, caratterizzata dalla durata effimera degli esecutivi e dalla conseguente
insoddisfazione generale, non giovò alla causa546. Alle tensioni sociali, sfociate nella
543
Appunto interno del MAE, DGAE, Segreteria Generale, Roma, 18 ottobre 1973, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 6, MAE, Sottoserie
Visite e questioni diverse, Busta 31.
544
Posizioni ufficiali in questo senso però non ve ne furono e in un discorso del 18 ottobre alla Camera dei Deputati sulla crisi in
Medio Oriente il ministro degli Affari Esteri, Aldo Moro, si limitò a dichiarare la posizione neutrale dell’Italia, auspicando al
contempo una pace immediata e definitiva tra arabi e israeliani e ribadendo “[…] la ferma e costante posizione del Governo italiano
secondo cui il diritto all’esistenza dello Stato di Israele [era] fuori discussione” (Intervento del ministro degli Esteri On. Aldo Moro
alla Camera dei Deputati sulla crisi in Medio Oriente, Roma, 18 ottobre 1973, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 1, Scritti e discorsi
1953-1978, Sottoserie annuali, Busta 28). Questo pronunciamento ufficiale in favore degli israeliani, unito alle notizie per cui l’Italia
aveva rifornito di carburante sei navi da flotta statunitensi e concesso la partenza dal proprio territorio di settanta tra aerei da
combattimento Skyhawk e Phantom in favore di Israele, rischiò di far estendere la sanzione dell’embargo petrolifero anche alla
penisola e solo abili azioni diplomatiche riuscirono a scongiurare questa drammatica scelta (per approfondimenti cfr. Telegrams from
the American embassy to Rome to the Secretary of State, Roma, 24 ottobre 1973 e 8 novembre 1973, NARA, NPMP, Country Files,
Europe). L’indirizzo politico italiano per una soluzione negoziale, reso pubblico da Moro con il suddetto discordo alla Camera,
ottenne dunque un largo consenso da parte delle forze politiche nazionali ma, ovviamente, si limitava a esprimere in maniera molto
generica una serie di principi ampiamente condivisibili [per ulteriori approfondimenti si vedano, tra gli altri, Ribadita la posizione
dell’Italia per una soluzione negoziata (articolo redazionale), «La Voce Repubblicana», 20 ottobre 1973; Il discorso dell’on Mammì
(articolo non firmato), ibidem].
545
Per un commento tecnico sulla situazione italiana cfr. F. Ippolito, La crisi energetica in Italia, in «Nord e Sud», XXI, Nuova
Serie, Luglio 1974, n. 175 (236), pp. 93-113.
546
Per approfondimenti sulla difficile situazione economico-politico-sociale dell’Italia si vedano, tra gli altri, S. Colarizi, Storia dei
partiti nell’Italia repubblicana, cit., pp. 363-471; P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1991, in G. Galasso, Storia d’Italia, vol.
XXIV, cit., pp. 520-538; P. Ginsborg, Storia dell’Italia dal dopoguerra ad oggi, vol. II, Dal miracolo economico agli anni '80, cit.,
pp. 473-478; S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana: dalla fine della guerra agli anni Novanta, cit., pp. 307-347; F. Malgeri,
L’Italia dal centro-sinistra agli «anni di piombo», cit., in G. Aliberti, F. Malgeri, Due secoli al Duemila. Transizione Mutamento
Sviluppo nell’Europa Contemporanea (1815-1998), cit., pp. 697-699; N. Tranfaglia, La modernità squilibrata. Dalla crisi del
147
contestazione studentesca dell’autunno caldo del '68 e nei confronti delle quali lo Stato si rivelò
incapace di rispondere in maniera adeguata547, si aggiunsero le prime manifestazioni del
terrorismo politico. Il 12 dicembre '69 una bomba esplose a Milano presso la sede della Banca
nazionale dell’agricoltura in piazza Fontana provocando diciassette morti e oltre cento feriti.
Avevano avuto inizio i cosiddetti “anni di piombo”, un periodo caratterizzato da una serie di atti
terroristici che, secondo talune interpretazioni, miravano a creare le condizioni per influenzare o
sovvertire gli assetti istituzionali e politici del paese548. L’impotenza dello Stato di fronte a
queste situazioni rifletteva anche le divisioni interne delle forze di governo: mentre la DC e il
PSDI erano interpreti di un’opinione pubblica moderata spaventata dagli eventi e tendente a
spostare l’asse politico della maggioranza verso destra, il PSI mirava al graduale coinvolgimento
del PCI nell’esecutivo. Ad ogni modo, né il governo Andreotti ('72-'73) composto da
democristiani, socialdemocratici e liberali, né i successivi guidati da Rumor ('73-'74) con una
maggioranza di centrosinistra si dimostrarono capaci di compiere scelte politiche di ampio
respiro affrontando efficacemente una situazione economica che appariva nuovamente difficile.
Si ripresentarono infatti fenomeni come il ristagno produttivo e la crescita della spesa pubblica
che durante il periodo del boom economico erano scomparsi. In questo contesto, lo scoppio del
nuovo conflitto arabo-israeliano e le sanzioni dei paesi dell’OPEC peggiorarono la situazione:
l’aumento del prezzo del petrolio provocò il calo della produzione industriale e l’avvio di un
forte processo inflazionistico. Il governo, nonostante le incertezze e i dubbi, si trovò nella
assoluta necessità di trovare delle risposte immediate.
Nella convulsa fase iniziale della crisi le proposte sulle scelte da compiere si
accavallarono in un dibattito ricco anche di vivaci contrasti. La tesi che privilegiava un approccio
unilaterale espressa dalla DGAE del MAE era fermamente respinta da Guido Carli, secondo il
quale la crisi petrolifera poteva addirittura fungere da acceleratore del processo comunitario di
unione economica:
“Un’azione nazionale non basta tuttavia da sé a risolvere il problema energetico. Solo
un’Europa concorde può sperare di acquisire una influenza significativa sul sistema
internazionale degli approvvigionamenti da cui essa dipende. La politica energetica comune, che
centrismo al «compromesso storico», in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, La trasformazione
dell’Italia. Sviluppo e squilibri, cit., pp. 75-92.
547
Per approfondimenti sui riflessi del Sessantotto in politica si veda A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al
2003, Bolgna, 2004, pp. 223-245.
548
Si parlò anche di “strategia della tensione”, la teoria secondo cui il movente principale degli attentati era quello di destabilizzare
la situazione politica italiana: gli atti terroristici miravano a creare allarme e terrore nell’opinione pubblica in modo da far accettare
forti reazioni estreme come l’instaurazione di uno stato di polizia.
148
finora ha rappresentato un elusivo miraggio, è oggi l’occasione più concreta e pressante per la
549
realizzazione dell’unione economica”
.
In effetti in quella prima fase fra i partner europei regnava un certo ottimismo sulla
possibilità di trovare soluzioni comuni. Così, ad esempio, in risposta alla preoccupazione di uno
sviluppo di politiche reciprocamente competitive fra i Nove, espressa in una lettera dal primo
ministro inglese, Edward Heath, il presidente della Repubblica francese, Georges Pompidou,
propose uno scambio di opinioni in sede OCSE550. Il 27 ottobre la riunione del Comitato del
petrolio dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico divenne l’occasione
per manifestare pubblicamente le crescenti preoccupazioni. Solo i rappresentanti francesi
cercarono di sdrammatizzare la situazione ipotizzando un veloce ritorno alla normalità al termine
del conflitto arabo-israeliano. La Francia, assieme alla Gran Bretagna, alla Spagna, alla Grecia e
alla Tunisia non era stata fino a quel momento colpita direttamente dalle sanzioni dell’OPEC e
poteva contare su approvvigionamenti petroliferi regolari. Decisamente più preoccupante si
presentava invece la situazione nel breve e medio periodo per gli Stati Uniti e l’Olanda, mentre
alquanto drammatiche erano le prospettive per l’Italia. Queste differenze si riflessero al momento
di prendere una decisione: la proposta di convocare l’organismo di consultazione industriale
(IIAB), formato dalle maggiori compagnie petrolifere (ENI compresa), al fine di mettere in moto
il meccanismo previsto per la ripartizione di greggio in caso di crisi si scontrò soprattutto con
l’opposizione della delegazione francese. La posizione di Parigi nasceva dalla convinzione che
una decisione del genere potesse essere interpretata come un riconoscimento dello stato di crisi
provocando reazioni negative nell’opinione pubblica e nei governi dei paesi produttori. Venne
pertanto approvata una proposta di compromesso avanzata dal rappresentante della Commissione
CEE, Spaak, in base alla quale il presidente del Comitato del petrolio dell’OCSE era incaricato
di prendere contatti con l’IIAB affinché predisponesse una propria organizzazione interna in
549
Appunti di Guido Carli, governatore della Banca d’Italia, per il ministro del Tesoro Ugo La Malfa, Roma, non datato ma
dell’ottobre 1973, ACS, Carte Ugo La Malfa, Serie 3, Cariche di Governo, Sottoserie 5, Ministro del Tesoro (IV° Governo Rumor),
Busta 31.
550
Cfr. Lettre de l'ambassadeur de la Grande-Bretagne en France, Edward Tomkins, au premier ministre britannique, Edward
Heath, Parigi, 25 ottobre 1973, MAEF, Archives Diplomatiques, Affaires économiques et financières, Affaires générales, 1967-1975,
419. Contemporaneamente, però, la Francia aveva avviato una serie di trattative separate nel tentativo di ottenere una posizione
privilegiata, oltre che accordi diretti con i produttori. In questa direzione andava ad esempio un incontro avutosi tra il rappresentante
diplomatico francese in Kuwait, Carton, e il braccio destro del ministro degli Affari Esteri dello stesso Stato, Issa Al Hamad, durante
il quale quest’ultimo aveva precisato che “la France [aurait été] traitée comme la plus précieuse amie du monde arabe”
(Télégramme de l'Ambassade de France en Kuwait au Ministère des Affaires Étrangères, Kuwait, 4 novembre 1973, CHAN,
Archives présidentielles, Fondo Georges Pompidou, 5 AG 2, c. 1037).
149
modo da essere pronto a assolvere compiti di informazione e a preparare un eventuale intervento
qualora il Comitato OCSE lo avesse commissionato551.
Tutti i paesi colpiti dalle sanzioni petrolifere stavano al contempo studiando una serie di
misure per limitare i consumi interni di energia. Il 5 novembre, però, i paesi dell’OPEC
annunciarono la decisione di tagliare del venticinque percento, rispetto ai livelli del settembre
precedente, la produzione di greggio e minacciarono di effettuare una ulteriore riduzione del
cinque percento552. I nuovi provvedimenti si rivelarono determinanti perché i Nove, riunitisi a
Bruxelles il giorno successivo, adottassero una dichiarazione congiunta che segnava una svolta
apertamente filo-araba553. In particolare, i paesi CEE concordarono sul fatto che le due parti in
causa nel conflitto dovessero, conformemente alle risoluzioni 339 e 340 del Consiglio di
Sicurezza, tornare immediatamente alle posizioni che occupavano il 22 ottobre, giorno in cui il
massimo organismo internazionale aveva ordinato il cessate il fuoco rifiutato da Israele perché
giudicato troppo tardivo rispetto all’andamento delle ostilità554. I Nove si auguravano altresì che
iniziassero subito negoziati fra le parti al fine di giungere nel più breve tempo possibile al
conseguimento di una pace giusta e duratura in applicazione della risoluzione 242 dell’ONU555.
L’accordo di pace si sarebbe dovuto fondare sui seguenti punti:
“The inadmissibility of the acquisition of territory by force; the need for Israel to end the
territorial occupation which it has maintained since the conflict of 1967; respect for the
sovereignty, territorial integrity and independence of every state in the area and their right to live
551
Cfr. Telespresso n. 077/41777, MAE, DGAE, Ufficio VII, indirizzato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, al Ministero del
Bilancio, al Ministero del Tesoro, al Ministero dell’Industria e del Commercio, al Ministero delle Partecipazioni Statali, all’Ente
Nazionale Idrocarburi, Roma, 3 novembre 1973, ASE, coll. BB. III. 1, udc. 442.
552
Cfr. L. V. Ferraris (a cura di), Manuale della politica estera italiana, 1947-1993, cit., p. 270.
553
Il raggiungimento dell’intesa non si rivelò una questione facile. L’Olanda, su cui gravava l’embargo, insisteva affinché la CEE
dichiarasse pubblicamente di appoggiare il suo operato, ma la Francia si era già dichiarata decisamente contraria a qualsiasi presa di
posizione che potesse irritare maggiormente i governi dei paesi produttori di petrolio. Allo stesso modo anche la Repubblica Federale
Tedesca voleva evitare ciò e, in particolare, aveva ricevuto intimidazioni dal presidente libico Gheddafi, nonostante durante la guerra
il cancelliere Brandt avesse negato agli Stati Uniti l’utilizzo del territorio tedesco per creare un ponte aereo con Israele. L’Italia,
invece, aveva tenuto fino a quel momento una posizione equidistante e non intendeva esporsi con dichiarazioni politiche a favore
dell’Olanda che potessero essere interpretate dai governi arabi in maniera completamente negativa. Anche la Gran Bretagna era su
posizioni simili e per l’Aja non rimase altro che accettare una risoluzione generica della Comunità nella speranza che quest’ultima
avviasse una nuova politica energetica a sostegno delle difficoltà olandesi e che gli arabi ritirassero la pesantissima sanzione
dell’embargo (per approfondimenti si veda D. Ghillani, Difficile un accordo dei “Nove” sul petrolio, «Avanti», 6 novembre 1973).
554
In realtà i Nove avevano già preparato, sotto l’impulso di Italia e Francia, una dichiarazione congiunta che risultava meno filoaraba rispetto a quella effettivamente approvata il 6 novembre. Nel testo del primo proclama si sottolineava, da un lato, la centralità
delle risoluzioni 242 e 338 delle Nazioni Unite e, dall’altro, la disponibilità dei membri della CEE a inviare proprie truppe per
presidiare le aree smilitarizzate previste nel '67. Le decisioni dell’OPEC annunciate il 5 novembre ebbero però un effetto risolutivo
nell’ottenere che il Comitato Politico dei Nove riesaminasse l’intera dichiarazione votando un nuovo testo più marcatamente filoarabo. In particolare, fu la Gran Bretagna a premere perché le tesi arabe fossero pienamente soddisfatte fino al limite massimo di non
mettere in discussione le esigenze e l’esistenza stessa di Israele; alla stessa conclusione, tuttavia, erano giunte anche l’Olanda e la
Danimarca (cfr. Lettera del direttore generale degli Affari Politici del MAE, Roberto Ducci, per il segretario generale del MAE,
Roberto Gaja, Roma, 8 novembre 1973, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 6, MAE, Sottoserie Visite e questioni diverse, Busta 57). Si
vedano anche Ministero degli Affari Esteri (Servizio Storico e Documentazione), Italia e Medio Oriente (1967-1974), cit., pp. 177178; L. Riccardi, Il «problema Israele»: diplomazia italiana e PCI di fronte allo Stato ebraico (1948-1973), cit., pp. 453-454.
555
Per uno studio sulle relazioni euro-mediterranee si veda, tra gli altri, F. Bicchi, European Foreign Policy Making toward the
Mediterranean, New York, 2007.
150
in peace within secure and recognized boundaries; recognition that in the establishment of a just
556
and lasting peace account must be taken of the legitimate rights of the Palestinians”
.
La decisione di rilasciare una simile dichiarazione derivava ovviamente dal desiderio di
evitare ulteriori rappresaglie da parte dell’OPEC e dalla speranza che le sanzioni in atto
venissero revocate557. Si trattava di una scelta di campo abbastanza netta che poneva l’Europa in
una posizione difficile sia nei confronti di Israele che, soprattutto, degli Stati Uniti558.
Per quanto concerneva l’Italia, inoltre, la decisione di aderire alla dichiarazione congiunta
risultava quasi un obbligo in considerazione delle gravi conseguenze economiche causate
dall’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio e dalla diminuzione della sua disponibilità559.
556
Per consultare il testo completo della dichiarazione si vedano, tra gli altri, Ministero degli Affari Esteri (Servizio Storico e
Documentazione), Italia e Medio Oriente (1967-1974), cit., pp. 179-180; Telegram n. 508 from Brussels to the Foreign and
Commonwealth Office, Bruxelles, 6 novembre 1973, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America, Europe
and the Energy Crisis, 1972-1974, cit., doc. 375.
557
In questo senso, la politica dei Nove ebbe in effetti un certo successo: essi vennero esentati dal successivo taglio del cinque
percento che i paesi OPEC adottarono in dicembre. Le reazioni delle nazioni arabe alla dichiarazione congiunta furono quasi tutte
positive; secondo quanto riportato dal portavoce ufficiale egiziano, ad esempio, “con questa decisione la Comunità Europea [apriva]
un’importante fase nel campo del coordinamento della sua politica estera nei confronti della crisi medio-orientale e [poteva], in tal
modo, svolgere un ruolo nella ricerca di una soluzione”. Il presidente del Consiglio libanese, Takieddin Solh dichiarò pubblicamente
che “il mondo arabo [aveva] accolto con molta soddisfazione i risultati della riunione dei Nove […] [che] dimostra[va] le divergenze
esistenti tra Europa e Stati Uniti e rileva[va] il fossato che si sta[va] creando tra gli Stati europei e gli Stati Uniti, per quanto
concerne[va] l’appoggio americano a Israele”. L’agenzia di informazione palestinese «Wafa» affermò che la dichiarazione costituiva
senza dubbio un passo in avanti nell’approccio europeo verso il problema palestinese, mentre per il giornale di Beirut «An Nahar»
l’Europa era migliore degli USA e si meritava prezzi ridotti per il petrolio. Di parere diverso il giornale marocchino «El Moudjahid»
secondo cui era giunto il momento per l’Europa di agire e di abbandonare dichiarazioni “platoniche”. I giornali israeliani parlarono
apertamente di una resa europea al ricatto petrolifero arabo a spese di Israele [Il Medio Oriente di fronte al documento del “Nove”.
Israele: “resa europea al ricatto petrolifero” (articolo non firmato), «Avanti», 8 novembre 1973]. Tuttavia, anche tra i Nove non
erano mancate pesanti critiche per il cedimento alle tesi arabe; secondo il ministro degli Esteri olandese, Van Der Stoel, la risoluzione
del 6 novembre rappresentava addirittura una “nuova Monaco”. Ampie critiche pervennero altresì dalla stampa internazionale: il
«Times», ad esempio, non riteneva che la decisione della CEE potesse minimamente accontentare gli arabi e, anzi, essa poteva
incoraggiare certi Stati a aumentare le pretese; il conservatore «Daily Express» esprimeva altrettanti dubbi e criticava fortemente la
decisione di abbandonare letteralmente Israele per assecondare gli arabi [per approfondimenti si veda Cedimento agli arabi. I Nove
sotto accusa (articolo non firmato), «Il Giornale d’Italia», 7-8 novembre 1973].
558
Per uno studio sui rapporti tra gli Stati Uniti e la Comunità europea durante la crisi petrolifera si vedano, tra gli altri, E. B.
Kapstein, The Insecure Alliance: Energy Crises and Western Politics since 1944, cit.; W. L. Kohl, The United States, Western
Europe and the Energy Problem, in «Journal of International Affairs», n. 1, 1976, pp. 81-96; F. Venn, International Cooperation
versus National Self-Interests: the United States and Europe during the 1973-1974 Oil Crisis, in K. Burk, M. Stokes, The United
States and the European Alliance since 1945, Oxford, 1999, pp. 71-98. Per un’analisi sulla politica estera statunitense in Medio
Oriente durante gli anni di Nixon e di Kissinger si vedano, tra gli altri, W. Bundy, A tangled web: the making of foreign policy in the
Nixon Presidency, New York, 1999; B. Colciago, Diplomazia kissingeriana in Medio Oriente: Yom Kippur e la svolta egiziana,
Milano, 1990; W. C. Eveland, Ropes of Sand: America’s Failure in the Middle East, New York, 1980; T. G. Fraser, The USA and the
Middle East since World War 2, London, 1989; J. M. Hanhimaki, The flawed architect: Henry Kissinger and American foreign
policy, Oxford, 2004; A. M. Jone (a cura di), U.S. foreign policy in a changing world; the Nixon administration, 1969-1973, New
York, 1973; D. B. Kunz, Butter and guns: America’s cold war economic diplomacy, New York, 1997; D. Lesch (a cura di), The
Middle East and the United States. A Historical and Political Reassessment, Boulder, 1996; R. M. Nixon, The Memoirs of Richard
Nixon, London, 1978; W. B. Quandt, Peace Process: American Diplomacy and the Arab-Israeli Conflict since 1967, cit.; S. L.
Spiegel, The Other Arab-Israeli Conflict. Making America’s Middle East Policy, from Truman to Reagan, Chicago, 1985, pp. 165314; R. C. Thornton, The Nixon-Kissinger years: reshaping America's foreign policy, St. Paul, 2001; G. Valdevit, Gli Stati Uniti e il
Mediterraneo. Da Truman a Reagan, Milano, 1992, p. 149 e ss. Per uno studio generale sulla Comunità europea e le conseguenze
degli eventi degli anni Settanta si veda, tra gli altri, A. Varsori (a cura di), Alle origini del presente: l'Europa occidentale nella crisi
degli anni Settanta, Milano, 2007.
559
L’Italia al negoziato europeo venne rappresentata direttamente da Ducci il quale però non era convinto che il proclama europeo
potesse portare a un alleggerimento delle sanzioni petrolifere attuate dall’OPEC ma, anzi, vi era la possibilità concreta che i governi
arabi interpretassero la dichiarazione congiunta come un forte segno di debolezza (cfr. Lettera del direttore generale degli Affari
Politici del MAE, Roberto Ducci, per il segretario generale del MAE, Roberto Gaja, Roma, 8 novembre 1973, ACS, Carte Aldo
Moro, Serie 6, MAE, Sottoserie Visite e questioni diverse, Busta 57). Per ulteriori approfondimenti si vedano L. V. Ferraris (a cura
151
Sul fronte interno, la scelta del governo divise le forze politiche secondo linee di frattura che
riflettevano le tradizionali posizioni rispetto al conflitto arabo-israeliano:
“C’[era] chi [aveva] guardato al contenuto della risoluzione e [aveva] giudicato sulla base di
esso con entusiasmo, come [avevano] fatto i comunisti, o con aperta e veemente indignazione,
come nel caso dei repubblicani, dei liberali e dei socialdemocratici. E c’[era] chi invece [aveva]
sorvolato sulla sostanza, per rifugiarsi nell’episodio unitario ed esaltare l’autonomia dell’Europa
[come avevano fatto i democristiani]”560.
In particolare il gruppo repubblicano alla Camera e al Senato presentò l’8 novembre
un’interpellanza parlamentare al ministro degli Esteri proprio sul documento europeo per
conoscere:
“- i motivi che [avevano] indotto il governo italiano ad accettare in sede CEE una risoluzione
che al di là dei suoi termini formali si presenta[va] come politicamente qualificata dalle misure di
ritorsione adottate da Stati arabi produttori di petrolio verso uno Stato europeo solidale con
Israele e dalle relative minacce fatte dagli stessi Stati ad altri membri della CEE, e che rischia[va]
di alterare l’orientamento finora tenuto sulla questione medio-orientale da alcuni paesi della
Comunità tra i quali l’Italia; - quale linea di condotta il governo italiano intende[va] seguire nel
caso si [fossero profilate], da parte degli stessi Stati arabi, analoghe pressioni, su questioni diverse
da quella medio-orientale, che [minacciassero], insieme, la sovranità nazionale italiana e il
prestigio dell’Europa; - quali iniziative il governo italiano intende[va] prendere per contribuire a
rilanciare una omogenea politica europea, pronta a favorire una giusta pace nel Mediterraneo, e se
non [ritenesse] che tale politica [dovesse] essere condotta in modo da assicurarne la credibilità e
di), Manuale della politica estera italiana, 1947-1993, cit., pp. 271-272; L. Riccardi, Il «problema Israele»: diplomazia italiana e
PCI di fronte allo Stato ebraico (1948-1973), cit., pp. 454-455.
560
L. Bianchi, Divisi i partiti italiani sulla decisione del MEC, «Corriere della Sera», 8 novembre 1973. Per un approfondimento
sulla posizione socialista si veda, ad esempio, D. Ghillani, I Nove chiedono per il M.O. una pace “giusta e durevole”, «Avanti», 7
novembre 1973; per il parere dei democristiani cfr. F. Pace, Politica comune dei paesi europei sul Medio Oriente, «Il Popolo», 7
novembre 1973; sui repubblicani si veda Contraddittoria e ambigua risoluzione della CEE per sottrarre l’Europa al ricatto
petrolifero (articolo redazionale), «La Voce Repubblicana», 7 novembre 1973. In particolare, per i repubblicani la posizione assunta
dalla Comunità introduceva un ulteriore elemento di confusione nella crisi e era la conseguenza della mancanza di una politica
estemporanea della CEE nel Mediterraneo; la dichiarazione rifletteva troppo il punto di vista francese, rafforzando la posizione
politica degli arabi e accentuando i motivi di attrito e di divergenza nei confronti della politica americana: “La risoluzione […]
esprime[va], in forma diplomaticamente interlocutoria ed ambigua, la condizione di minorità politica rispetto ai grandi eventi
mondiali che caratterizza[va] oggi l’Europa. Silenziosi o incapaci a parlare nei momenti più gravi e delicati della crisi mediorientale,
i paesi della CEE si [erano] risolti a parlare dopo il ricatto del petrolio. Come una qualunque provincia politica alle prese con cose più
grandi, la CEE [aveva] finito per svolgere un ruolo secondario e non positivo dinnanzi al pericolo di andare in bicicletta il sabato e la
domenica anziché in automobile” [Un’altra forma di sovranità limitata (articolo redazionale), «La Voce Repubblicana», 7 novembre
1973]. Per quanto concerneva i liberali, infine, si veda, tra gli altri, Cedimento agli arabi: i Nove sotto accusa (articolo non firmato),
«Il Giornale d’Italia», 7-8 novembre 1973.
152
l’autorità su tutti gli Stati coinvolti nella questione medio-orientale, e da evitare indebolimenti
561
nella politica si sicurezza e di solidarietà alla quale l’Italia partecipa[va]”
.
D’altra parte, lo stesso ministro degli Affari Esteri, secondo quanto riportato in un
telegramma dell’Ambasciata statunitense a Roma, aveva espresso il proprio disappunto sui
termini della risoluzione congiunta dei Nove:
“Foreign minister Moro had not […] pleased with specificity of declaration which [he]
believed had gone too far”562.
Molto probabilmente, però, la fonte d’informazione su cui si basavano le affermazioni
contenute nel telegramma (un responsabile del MAE protetto dal segreto) mirava a far apparire
la scelta italiana non così netta e in contrasto con gli interessi degli Stati Uniti563; anzi, secondo
l’opinione dell’ambasciatore John Anthony Volpe, tutte le scelte politiche dei Nove che
riguardavano il Medio Oriente erano comprensibilmente viziate dal timore di ripercussioni in
ambito petrolifero:
“It [was] clearer that ever that position of Italians and other Europeans towards Middle East
[was] conditioned primarily by their apprehension over threat to oil supply, and that they would
be welcome a U.S. lead on this aspects. We [were] not aware that U.S. [had] offered Europeans
any assurances. Such assurances, if we [could] provide them, could be determining factor in
stiffening the European’s spine in face of Arab oil blackmail which up until now [had] been
overriding element in European attitudes towards Middle East”564.
561
Le interpellanze dei repubblicani sul documento della CEE per il M. O. (articolo non firmato), «La Voce Repubblicana», 9
novembre 1973. L’interpellanza venne sottoscritta da: Reale, Biasini, Battaglia, Ascari Raccagni, Bandiera, Bogi, D’Aniello, Del
Pennino, Gunnella, Giorgio La Malfa, Mammì, Visentini.
562
Telegram from the American embassy to Rome (J. A. Volpe) to the Secretary of State, Roma, 8 novembre 1973, NARA, NPMP,
Country Files, Europe.
563
In effetti la posizione di Moro fu, come sempre, di estrema cautela e di equidistanza: da una parte, egli dava il consenso alla
dichiarazione dei Nove del 6 novembre al fine di conservare buone relazioni con i paesi arabi, evitando ulteriori ripercussioni per
l’Italia sul fronte energetico; dall’altra, il politico democristiano faceva intendere a Washington e a Tel Aviv che si trattava di una
strategia temporanea rispondente solo alle contingenze del momento. L’atteggiamento di Moro nei confronti di Israele aveva tuttavia
gradatamente assunto un certo distacco a vantaggio di una politica che sembrava avere connotazioni più vicine alla causa araba;
questo passaggio, che non assunse mai posizioni estreme, presumibilmente partiva dalle modalità con cui si era conclusa la guerra dei
Sei Giorni e dalla non applicazione da parte israeliana della Risoluzione 242 delle Nazioni Unite [per approfondimenti si veda L.
Riccardi, Il «problema Israele»: diplomazia italiana e PCI di fronte allo Stato ebraico (1948-1973), cit., pp. 338-357]. Tuttavia,
nella relazione presentata il 23 gennaio '74 alla Commissione Esteri del Senato Moro dichiarò ufficialmente che l’Italia si era fatta
addirittura promotrice della dichiarazione congiunta dei Nove, sottolineando gli effetti positivi che questa ebbe nei confronti dei paesi
del mondo arabo (cfr. A. Moro, Scritti e discorsi, a cura di G. Rossini, vol. VI, 1974-1978, Roma, 1990, p. 3124).
564
Telegram from the American embassy to Rome (J. A. Volpe) to the Secretary of State, Roma, 8 novembre 1973, NARA, NPMP,
Country Files, Europe.
153
Da parte britannica si pensò anche di utilizzare la dichiarazione congiunta “as the basis
for a concerted community effort to get the production cuts restored and the embargo on the
Netherlands lifted”565. Ma i dubbi sollevati dalla diplomazia transalpina dimostrarono ben presto
la difficoltà di trovare un’intesa sulla strategia da mettere in campo:
“The Quai [d’Orsay] agree[d] […] that we must seek to dissuade the Arabs from continuing
to make progressive over-all cuts in production and try to bring home to them the dangers of
discriminating between members of the Community. At official level, therefore, they [saw] some
merit in the idea of a collective démarche, but argue[d] that we must be careful to go about this in
the right way. If the European solidarity card [was] played the wrong way, there [was] an obvious
danger that we shall all suffer, and this will not help the Dutch”566.
La solidarietà fra i Nove emersa con la risoluzione del 6 novembre stava infatti
gradualmente per lasciare il passo a nuove divergenze. La situazione certamente più difficile
riguardava i Paesi Bassi, i più colpiti dal boicottaggio decretato dai produttori arabi. Il governo
olandese aveva ricevuto dai partner europei assicurazioni in merito all’adozione di misure per
una politica energetica comunitaria che avrebbero dovuto alleviarne fin da subito le difficoltà. I
provvedimenti tardarono però a arrivare e il 17 novembre il primo ministro olandese, Den Uyl,
accusò i partner europei di non rispettare le clausole sulla libera circolazione delle merci
all’interno del Mercato Comune per quanto concerneva il petrolio e minacciò di sospendere le
esportazioni di gas naturale567. L’avvertimento olandese sembrava giustificato dalla circostanza
secondo cui alcuni membri della CEE, fra i quali l’Italia, avevano preferito vietare tutte le
esportazioni dei prodotti petroliferi comprese quelle destinate all’Aja, considerata dai produttori
mediorientali troppo vicina a Israele, piuttosto che esporsi al rischio di un eventuale embargo da
parte dei paesi dell’OPEC568. Il caso dell’Olanda simboleggiava meglio di ogni altro la quasi
565
Telegram n. 207 from Sir Alec Douglas-Home, Secretary of State for Foreign and Commonwealth Affairs, to The Hague, Londra,
10 novembre 1973, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America, Europe and the Energy Crisis, 1972-1974,
cit., doc. 385.
566
Telegram n. 1543 from Sir Edward Tomkins, British Ambassador in France, to the Foreign and Commonwealth Office, Parigi, 11
novembre 1973, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America, Europe and the Energy Crisis, 1972-1974,
cit., doc. 386.
567
Cfr. F. Ivaldo, Gli Olandesi bloccheranno l’esportazione di metano, «Il Messaggero», 18 novembre 1973.
568
D’altra parte, dopo le prime reazioni quasi del tutto positive all’emanazione della dichiarazione congiunta, i paesi arabi
dichiararono di volere continuare a mantenere l’embargo sui rifornimenti di greggio fino a quando Israele non avesse evacuato i
territori arabi occupati e Gerusalemme e finché non fosse stato concesso ai palestinesi il diritto all’autodeterminazione. In più, come
se non bastasse, alcuni governi dell’OPEC, tra cui la Libia, chiedevano agli europei la vendita di armi strategiche moderne,
acutizzando i forti timori già espressi in precedenza dagli Stati Uniti proprio su questa questione [cfr. I paesi arabi decisi a
mantenere l’embargo sul petrolio. Nuovi ricatti alla CEE per la consegna di armi moderne (articolo redazionale), «La Voce
Repubblicana», 14 novembre 1973].
154
impossibilità di delineare un approccio condiviso569. Al di là del fragile accordo raggiunto con la
dichiarazione del 6 novembre, a emergere erano le spinte centrifughe che, come messo in luce
dal commissario europeo, Henri François Simonet, compromettevano gli esiti delle discussioni in
corso sulla politica energetica comunitaria570.
Come se non bastasse, anche il rapporto con gli Stati Uniti che fin da subito avevano
espresso il loro disappunto sulle scelte dei Nove divenne motivo di disaccordo, in particolare
all’indomani della dichiarazione congiunta571. Pur riconoscendo che le difficoltà petrolifere
erano alla base delle decisioni dei paesi CEE, Washington non poteva accettare una netta
divaricazione fra le due sponde dell’Atlantico. Durante una riunione tra i massimi esponenti del
Dipartimento di Stato, tenuta il 28 novembre '73, si riconobbe ufficialmente che “under French
leadership and with the acquiesence [sic!] of the British, the Europeans are seeking their identity
in opposition to the U.S.”572. Secondo quanto riportato dall’ambasciatore britannico a
569
In tutte le nazioni europee la crisi stimolò studi e analisi volti a proporre misure di contenimento dei consumi energetici. In Italia
si creaò un’apposita Commissione tecnica presso il Ministero dell’Industria che il 10 novembre presentò al governo un ampio
ventaglio di suggerimenti. Le proposte avanzate, che dovevano comunque essere valutate in via definitiva dall’esecutivo,
contemplavano: “[La] chiusura dei distributori di benzina il sabato e la domenica; [il] divieto di circolazione delle autovetture private
la domenica; [il] divieto di trasportate sulle automobili taniche con il carburante; [il] divieto della navigazione da diporto; forti
aumenti dei pedaggi autostradali; [la] riduzione dei voli della Alitalia. […] Per quanto riguarda[va] più esplicitamente l’energia
elettrica, tra le proposte figurava l’interruzione dei «consumi» a partire dalle 23, il divieto di accensione delle insegne luminose,
l’anticipazione alle 22.30 dell’orario di chiusura dei cinematografi e del termine delle trasmissioni televisive. L’illuminazione
stradale [doveva essere] assicurata «dimezzando» i lampioni in funzione, cioè spegnendo, una sì e una no, le fonti luminose nelle vie
e nelle piazze” [Le proposte per l’austerity al Governo (articolo non firmato), «Il Sole 24 ore», 20 novembre 1973]. Il governo
Rumor, sulla base dei suggerimenti proposti dalla suddetta Commissione, adottò misure severe per far fronte alla diminuzione degli
approvvigionamenti di greggio. Questi provvedimenti comprendevano l’aumento, a partire dal 23 novembre, della benzina (super
duecento lire al litro, normale centonovanta lire) e del gasolio per uso industriale (cinquanta lire al chilogrammo) deciso dal Comitato
Italiano Petroli, e una serie di misure, a partire dal 1 dicembre, al fine di restringere l’uso dei prodotti petroliferi per il riscaldamento,
per l’energia elettrica e per i veicoli: si fissò un nuovo orario di lavoro per le amministrazioni pubbliche, si limitò la temperatura del
riscaldamento negli edifici pubblici, si razionalizzò l’utilizzo della benzina per i veicoli statali. Per diminuire in particolare la
consumazione elettrica l’esecutivo stabilì: la chiusura anticipata di un’ora degli stabilimenti commerciali (alle ore 19); il termine
massimo dei programmi televisivi per le ore 23; l’anticipazione allo stesso orario della chiusura dei cinematografi; la riduzione delle
illuminazioni pubblicitarie pubbliche e private. Per ridurre invece l’uso della benzina si sancì: la proibizione per gli autoveicoli, le
barche da diporto e gli aerei da turismo di circolare la domenica e i giorni festivi (eccezion fatta per i trasporti pubblici, per i servizi
d’urgenza e per i corpi diplomatici); la chiusura delle pompe di benzina a partire dalle ore 12 di ogni sabato e di ogni giorno
prefestivo fino alla mezzanotte del lunedì; la nuova limitazione di velocità degli autoveicoli pari a 100 km/h sulle strade statali e a
120 km/h sulle autostrade. Si previdero inoltre sanzioni fino a un milione di lire e provvedimenti che comprendevano il ritiro della
patente e il sequestro del mezzo per i trasgressori. Secondo l’opinione del ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato,
Luigi Ciriaco De Mita, queste misure avrebbero portato a una diminuzione dei consumi interni dei prodotti petroliferi del venti
percento [cfr. Télégramme de l'Ambassade de France à Rome (Lucet) au Ministère des Affaires Étrangères, Roma, 23 novembre
1973, MAEF, Archives Diplomatiques, Affaires économiques et financières, Affaires générales, 1967-1975, 419]. Le decisioni del
Consiglio dei ministri furono valutate in maniera differente da parte della stampa italiana. Per il «Corriere della Sera», ad esempio, il
piano governativo era serio e coerente, mentre per «Il Messaggero» e per «L’Unità» era troppo eccessivo e l’esecutivo avrebbe
ceduto al ricatto delle grandi compagnie internazionali. In alcuni ambienti politici si riteneva infatti che il ritardo dimostrato
nell’applicazione di un piano nazionale di emergenza fosse la prova che le scelte di Rumor fossero dettate solo dalle pressioni delle
grandi aziende petrolifere per ottenere maggiori introiti economici, utilizzando la crisi petrolifera internazionale a proprio vantaggio
(cfr. Télégramme de l'Ambassade de France en Italie au Ministère des Affaires Étrangères, Rome, 23 novembre 1973, CHAN,
Archives présidentielles, Fondo Georges Pompidou, 5 AG 2, c. 1037). I provvedimenti interni adottati dai singoli governi erano
dunque spesso motivo di contrasto tra le varie fazioni politiche nazionali, così come accadde in Italia, ma furono anche causa di
dissapori tra gli stessi paesi comunitari.
570
Cfr. Télégramme de l'Ambassade de France à Bruxelles au Ministère des Affaires Étrangères, Bruxelles, 20 novembre 1973,
MAEF, Archives Diplomatiques, Affaires économiques et financières, Affaires générales, 1967-1975, 492.
571
Cfr. Telegram n. 1122 from Sir Philip Adams, British Ambassador in Cairo, to the Foreign and Commonwealth Office, Il Cairo, 8
novembre 1973, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America, Europe and the Energy Crisis, 1972-1974,
cit., doc. 382.
572
Memorandum of Conversation about Us-European Relations, Washington, 28 novembre 1973, NARA, NPMP, Presidential HAK
MemCons.
155
Washington, Lord Rowley Cromer, la diplomazia americana aveva inoltre ufficialmente
ammesso il fatto che “The Year of Europe [was] failed to live up its advance billing”573.
In realtà, i rapporti intereuropei si stavano avviando verso una fase di deterioramento. Già
nel corso della riunione del 3 dicembre del Consiglio dei ministri degli Esteri dei Nove i primi
segnali di tensione erano stati recepiti dalla stampa internazionale:
“La parola «energia» [aveva] ormai un significato sia politico sia economico. Tutti si
[rendevano] conto che l’Europa [era] un ostaggio nelle mani dei produttori dell’oro nero. Il fatto
più importante della riunione ministeriale odierna […] [era] il veto che taluni paesi [avevano]
posto sia all’esecutivo CEE che allo stesso Consiglio di mettere il problema energetico all’ordine
del giorno della discussione tra i ministri. La Francia soprattutto [voleva] che le manovre in corso
all’interno della Comunità [rimanessero] assolutamente segrete”574.
Per l’Italia alla riunione parteciparono il ministro degli Affari Esteri, Aldo Moro, e il
sottosegretario Mario Pedini. Entrambi ricavarono l’impressione che sulle questioni petrolifere
sarebbe stato difficile accordarsi: i francesi e gli inglesi spingevano per dare un seguito più
concreto alla dichiarazione del 6 novembre puntando su una evoluzione filo-araba della
Comunità nel tentativo di ottenere condizioni favorevoli sul mercato mediorientale; gli olandesi,
invece, insistevano nella richiesta di una maggiore solidarietà da parte dei partner europei con la
speranza che una dichiarazione pubblica facesse recedere gli arabi. Le altre questioni rimasero
praticamente congelate: nella riunione dello stesso giorno tra i ministri delle Finanze relativa
all’unione economica e monetaria, il cui passaggio alla seconda tappa era previsto per il gennaio
successivo, non si registrarono progressi significativi. Tutti i temi più importanti vennero quindi
rinviati al vertice dei capi di Stato e di governo previsto per il 14 e il 15 dicembre a
Copenaghen575.
573
Telegram n. 3752 from Lord Rowley Cromer, British Ambassador in Washington, to the Foreign and Commonwealth Office,
Cairo, 2 dicembre 1973, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America, Europe and the Energy Crisis, 19721974, cit., doc. 432. Sulle conseguenze del rapporto tra la CEE e gli Stati Uniti all’indomani della dichiarazione congiunta e sul
proseguo del progetto di Kissinger (“The Year of Europe”) si veda anche S. Pietrantonio, La guerra d’ottobre vista dall’Europa: tra
desideri di autonomia, crisi energetica e imperativi atlantici, in A. Bitumi, G. D’Ottavio, G. Laschi (a cura di), La Comunità europea
e le relazioni esterne, 1957-1992, Bologna, 2008, pp. 103-104.
574
M. Malvestiti, Netti contrasti tra i Nove sulla politica dell’energia, «La Nazione», 4 dicembre 1973.
575
In questo clima si svolse la visita ufficiale in Italia del ministro degli Affari Esteri dell’Arabia Saudita, Saqqaf. Nei confronti di
questo paese, il maggiore produttore petrolifero mediorientale, i governi della CEE (e, tra questi, in misura maggiore quello italiano)
ponevano le speranze di ottenere una soluzione pacifica al conflitto arabo-israeliano e, nella fattispecie del momento, auspicavano
che la tradizionale politica filo-occidentale saudita potesse influire positivamente sulle sanzioni applicate dall’OPEC. Tuttavia,
Saqqaf, a colloquio con il presidente della Repubblica, Giovanni Leone, giustificò a pieni titoli la strategia adottata dagli Stati arabi
che si proponeva di spronare i paesi europei a incalzare Washington e, conseguentemente, di costringere Israele a ritirarsi dai territori
occupati [cfr. Appunto sul colloquio del ministro degli Esteri saudita, Saqqaf, al Quirinale, (Pedini), Roma, 4 dicembre 1973, ACS,
Carte Aldo Moro, Serie 6, MAE, Sottoserie Visite e questioni diverse, Busta 42].
156
4. La politica energetica italiana dopo lo scoppio della guerra del Kippur
Dopo lo scoppio della guerra del Kippur e le rappresaglie decise dai paesi dell’OPEC la
situazione energetica nazionale risultava drammatica. Le decisioni del governo del 22 novembre
che imponevano drastiche riduzioni dei consumi energetici non apparivano adeguate, dal
momento che i paesi arabi non sembravano intenzionati nell’immediato a modificare
atteggiamento e la Comunità europea tardava a prendere una posizione univoca. Anche se
ufficialmente non venne mai confermato, il governo italiano sembrò appoggiare in sede europea
l’orientamento politico portato avanti dall’asse Parigi-Londra, cioè dei due paesi che avevano
assunto un atteggiamento molto favorevole alla causa araba, cercando di intavolare rapporti
diplomatici segreti con i paesi dell’OPEC per ottenere condizioni migliori nell’acquisto del
greggio576.
Sul fronte interno, frattanto, si prospettava l’ipotesi di una diminuzione delle attività delle
centrali termoelettriche e, addirittura, si pensò a uno spegnimento temporaneo per mancanza di
combustibile577. La situazione era il risultato della politica elettrica condotta dall’ENEL che,
almeno durante i primi anni di attività, aveva puntato quasi esclusivamente sull’utilizzo di
impianti di produzione basati sulla risorsa energetica fino a quel momento più economica, il
petrolio, penalizzando in questo modo il settore nucleare578. Le tre centrali atomiche in funzione
concorrevano solo per una percentuale irrisoria alla produzione energetica nazionale mentre il
quarto impianto in costruzione non era ancora pronto579. Nel dicembre del '72 il Consiglio di
amministrazione dell’ENEL decise l’ordinazione di due nuove centrali da un milione di kW
ciascuna, che avrebbero rappresentato il quinto e il sesto impianto nucleare italiano. Autorizzate
576
Per approfondimenti si veda M. Malvestiti, Netti contrasti tra i Nove sulla politica dell’energia, «La Nazione», 4 dicembre 1973.
Cfr. Il presidente dell’ENEL paventa un razionamento dell’energia (articolo non firmato), «Avanti», 8 novembre 1973.
578
Tuttavia, già all’indomani del conflitto il presidente dell’ENEL sembrò voler accelerare il cambio di strategia nel settore nucleare
modificando le priorità produttive fino a quel momento portate avanti dall’ente statale. Angelini, durante una relazione presentata a
un congresso europeo sull’utilizzo della fonte atomica per scopi industriali, aveva infatti sottolineato come la produzione di energia
elettrica di origine nucleare avrebbe gradualmente sostituito gli altri metodi utilizzati fino a raggiungere quote dell’ottanta-novanta
percento del totale complessivo nel 2000: “Le ragioni per cui si [prevedevano] sviluppi così importanti del settore [erano] da
ricercare innanzitutto […] nella competitività economica dell’energia nucleare; poi nella buona disponibilità e sicurezza di
approvvigionamento dell’uranio naturale, nella favorevole distribuzione geografica dei giacimenti di uranio, nella facilità di trasporto
e di immagazzinamento del combustibile nucleare e nella compatibilità degli impianti nucleari con l’ambiente, senza dubbio migliore
di quella degli impianti termoelettrici tradizionali” [L’intervento dell’ing. Angelini al congresso Foratom: Dalle centrali nucleari
l’elettricità del 2000 (articolo non firmato), «Avanti», 18 ottobre 1973].
579
Il quarto impianto, quello di Caorso, doveva entrare in servizio entro il '74 e era destinato a produrre dai sei ai sette miliardi di
kWh all’anno. Gli studi per la costruzione della quinta centrale nucleare, in ottemperanza a quanto stabilito dal Consiglio di
amministrazione dell’ENEL nel '67, vennero invece portati avanti e si decise, nell’aprile del '72, la ripresa della costruzione di grossi
impianti. Per questo motivo si invitarono i costruttori a presentare delle offerte per unità della potenza dell’ordine di un milione di
kW ciascuna, con l’opzione per una seconda unità (cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione
del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre 1973, Roma, 1974, p. 9, ASENEL).
577
157
dal CIPE, gli impianti erano destinati a sorgere nel medio Adriatico e nel medio Tirreno580. Il
tempo necessario per costruire e portare a regime una centrale termonucleare era tuttavia stimato
intorno ai dieci anni e le difficoltà energetiche del momento richiedevano risposte rapide. Se da
un lato risultava doveroso l’avvio di un serio programma di investimenti nel settore atomico per
iniziare la costruzione di un numero di impianti in grado di garantire nell’arco di un decennio
una fonte energetica alternativa al petrolio, dall’altro lato bisognava fare il possibile per
contrastare la crisi con efficacia. In questo drammatico scenario si affacciarono perfino ipotesi di
un ritorno all’uso del carbone fossile:
“Il progresso tecnologico [avrebbe potuto ora] attenuare alcuni inconvenienti derivanti […]
[dall’]impiego [di carbone fossile] nelle centrali termoelettriche, mentre la sua trasformazione in
combustibili liquidi o gassosi [avrebbe potuto] trovare una convenienza economica di fronte al
petrolio che venendo a mancare non ha più prezzo”581.
La gravità della situazione indusse inoltre il Parlamento a avviare a cura della
Commissione Industria della Camera un’indagine conoscitiva sulla situazione delle fonti di
energia. Secondo quanto testimoniato da Giorgio Ruffolo, segretario generale per la
Programmazione economica al Ministero del Bilancio, una forte responsabilità della scarsità di
petrolio era da attribuirsi anche all’azione delle grandi compagnie internazionali:
“L’attuale restrizione petrolifera, ed il suo eventuale aggravarsi, non [dipendevano] solo
dalle decisioni dei paesi arabi ma anche, e forse soprattutto dalla strategia delle grandi compagnie
petrolifere. In quanto alle fonti di energia alternativa a quella derivata dal petrolio, l’Italia si
trova[va] in una situazione «indegna» in rapporto alle prospettive dell’energia nucleare. […]
[erano] le grandi compagnie petrolifere che, forti della immaganizzazione [sic!] di grandi
quantitativi di greggio e della sua raffinazione, a decidere «se e in che misura» [doveva] essere
580
Cfr. ibidem, p. 10. Durante la riunione del Consiglio di amministrazione dell’ENEL del 7 dicembre '73, dopo aver esaminato le
offerte pervenute in ottemperanza alla gara indetta nel dicembre dell’anno prima, e in vista del potenziamento della produzione
nucleare e del suo sviluppo mediante reattori di grande potenza, si decise dunque di ordinare alla Società Elettronucleare una unità
nucleare da 952.000 kW equipaggiata con un reattore a acqua in pressione e alla società Ansaldo Meccanico-Nucleare uno da
982.300 kW a acqua bollente. Inoltre, per ciascuna delle due unità l’ENEL si era riservato il diritto di opzione di ordinare un secondo
reattore identico. Era pervenuta all’ente italiano anche un’offerta da parte dell’AECL in collaborazione con la società Italimpianti per
la costruzione di una centrale della potenza di 975.000 kW equipaggiata con un reattore moderato e refrigerato con acqua pesante.
Questa offerta, ritenuta valida al pari delle altre due, venne scartata solo sull’analisi del costo maggiore dell’energia prodotta. Il
Consiglio di amministrazione dell’ENEL sottolineò anche come gli investimenti previsti risultavano praticamente doppi, così come
era accaduto per la centrale di Caorso, rispetto alla costruzione di impianti termoelettrici tradizionali di pari potenza. Per questo
motivo si richiedeva al governo di intervenire per aiutare l’ente nell’attuazione dell’ambito, quanto mai necessario, sviluppo della
produzione interna di energia nucleare, così come richiesto dall’esecutivo stesso all’indomani delle restrizioni petrolifere imposte dai
paesi dell’OPEC (per approfondimenti si veda Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazione del Direttore generale al Consiglio di
amministrazione sull’attività dell’ente nel 1973, Roma, 1974, pp. 427-431, ibidem).
581
G. Martinoli, Appare inevitabile un ritorno al carbone, «Paese Sera», 5 dicembre 1973; per ulteriori approfondimenti si veda P.
Genco, Il carbone: le possibilita di sviluppo di una alternativa energetica al petrolio, Milano, 1976
158
immesso il petrolio sul mercato. Questo [avveniva] «anche indipendentemente» dalle decisioni
582
dei paesi arabi”
.
Le insinuazioni di Ruffolo erano decisamente allarmanti e, sebbene tutte da verificare,
estremamente indicative dello sbandamento totale del mondo politico e imprenditoriale.
L’autorevolezza della carica ricoperta da Ruffolo rafforzava in ogni caso la credibilità della tesi
contribuendo a gettare un’ombra sulle responsabilità delle grandi compagnie583. Ad ogni modo,
il 9 dicembre i ministri del petrolio dei paesi dell’OPEC annunciarono pubblicamente un
ulteriore taglio del cinque percento della produzione di greggio a partire da gennaio nei riguardi
di quei paesi considerati non-amici. Anche se l’Italia non figurava fra questi, grazie
essenzialmente alla sottoscrizione della dichiarazione congiunta dei Nove, la nuova sanzione
dimostrava che la crisi non era prossima al termine.
Dal punto di vista dello sviluppo di una nuova politica nucleare nazionale erano attese
decisioni importanti sebbene tutti fossero consci dell’impossibilità di ottenere risultati rapidi.
Secondo quanto stabilito nella programmazione approvata dal Consiglio di amministrazione
dell’ENEL nel dicembre '73, entro l’aprile dell’anno successivo si sarebbe provveduto
all’ordinazione di due ulteriori centrali nucleari e si sarebbe proceduto allo stesso modo negli
anni a seguire previo accertamento delle disponibilità finanziarie584. Ai fini di una contrazione
dei tempi, per l’Italia risultava dunque più conveniente appoggiare i progetti sviluppati a livello
europeo. Quello dell’EURODIF sulla diffusione gassosa, ad esempio, venne riproposto con forza
dalla Francia585 dopo lo scoppio della guerra del Kippur e ricevette il sostegno dell’Italia.
Accanto a questo progetto la Commissione europea aveva disposto lo sviluppo della tecnica
dell’ultracentrifugazione proposta, come visto in precedenza, dalla Repubblica Federale Tedesca,
dall’Olanda e dalla Gran Bretagna586. La decisione di Bruxelles di autorizzare lo studio e la
582
G. Selvaggi, Ruffolo: la crisi energetica “manovrata” dalle compagnie petrolifere, «Il Messaggero», 7 dicembre 1973.
In merito alla questione delle responsabilità delle grandi compagnie internazionali si veda l’interessante contributo di Maugeri sui
sospetti e sulle indagini avviate negli Stati Uniti (cfr. L. Maugeri, Petrolio. Storie di falsi miti, sceicchi e mercati che tengono in
scacco il mondo, cit., pp. 47-52). Sugli interventi del governo americano nel settore dei prezzi petroliferi all’indomani dello scoppio
della crisi si rimanda a J. P. Kalt, The economics and politics of oil price regulation: federal policy in the postembargo era,
Cambridge, 1981.
584
Cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31
dicembre 1973, Roma, 1974, p. 10, ASENEL; Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazione del Direttore generale al Consiglio di
amministrazione sull’attività dell’ente nel 1973, Roma, 1974, pp. 427-458, ibidem.
585
Il 27 novembre si riunì a Parigi l’Assemblea della società EURODIF deliberando che, arrivata ormai a buon punto la fase di
studio, si poteva procedere nella realizzazione di un impianto europeo per l’arricchimento dell’uranio mediante il procedimento della
diffusione gassosa. Questa disposizione seguiva la scelta effettuata il 23 novembre precedente da parte del governo francese di
iniziare dal 1° gennaio '74 la costruzione in Europa dell’impianto. Parigi auspicava inoltre che gli altri Stati partecipanti (Italia,
Belgio, Spagna e Svezia) prendessero decisioni parallele nel più breve tempo possibile (cfr. Telespresso n. 077/23663, MAE, DGAE,
Ufficio VII, indirizzato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, al Ministero del Bilancio, al Ministero del Tesoro, al Ministero
dell’Industria e del Commercio, al Ministero delle Partecipazioni Statali, al Comitato Nazionale Energia Nucleare, all’Ente Nazionale
Idrocarburi, Roma, 27 novembre 1973, ASE, coll. BB. III. 2, udc. 437).
586
Anche se inizialmente a questo progetto si escluse la partecipazione sia della Francia che dell’Italia e del Belgio, verso la fine nel
'72, come visto, era stata resa nota la disponibilità delle società anglo-olandese-tedesca URENCO e CENTEC (create all’interno del
583
159
realizzazione di entrambi i piani derivava dal desiderio di non precludere alla Comunità
l’opportunità di effettuare una scelta successiva sulla base dei risultati conseguiti. L’Italia aveva
avuto possibilità di partecipare fin dalla fase di studio solo al progetto EURODIF sul quale
avevano finito per concentrarsi le speranze soprattutto in forza di uno sviluppo che appariva
promettente587. Anche il Comitato dell’associazione dei produttori europei di energia elettrica,
cui era altresì associata l’ENEL588, aveva ritenuto validi entrambi i piani di sviluppo589, ma ciò
non bastò a escludere un energico richiamo alla necessità di ricorrere a fonti extra europee di
arricchimento590. Le forniture di uranio arricchito destinate a alimentare le centrali
elettronucleari italiane, ad esempio, dipendevano ancora dal monopolio di fatto detenuto dagli
USA591. Secondo quanto riportato in un appunto interno per Moro redatto in vista della riunione
di Copenaghen, questa posizione predominante non poteva più essere accettata in virtù della
necessità ineluttabile di una diversificazione delle fonti di approvvigionamento:
“Questa situazione di completa dipendenza dagli Stati Uniti, sebbene imposta finora da
obiettive circostanze di fatto, non [era] peraltro consona con la nostra politica in materia di
energia che, come [era] noto, tende[va] ad una sempre maggiore diversificazione delle fonti di
approvvigionamento. Questa esigenza di diversificazione risulta[va] rafforzata, per un verso, dalle
progetto rispettivamente per la progettazione e costruzione delle centrifughe e degli impianti di arricchimento e per la gestione e
l’esercizio degli stessi) alla formazione di un’associazione di studi aperta a tutte le organizzazioni che desiderassero parteciparvi, al
fine di esaminare le possibilità economiche, tecniche e organizzative in merito al progetto di arricchimento dell’uranio secondo il
procedimento dell’ultracentrifugazione (cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazione del Direttore generale al Consiglio di
amministrazione sull’attività dell’ente nel 1972, Roma, 1973, pp. 485-487, ASENEL; Verbale della 3ª riunione del Consiglio di
amministrazione del CNEN, Roma, 30 ottobre 1972, pp. 8-9, ASENEA). Il 1° giugno del '73 si procedette dunque alla creazione della
“Association for Centrifuge Enrichment” formata da società e enti dei seguenti paesi: Svezia, Canada, Australia, Italia, Francia,
Belgio, Giappone, Spagna, Olanda, Gran Bretagna. La partecipazione agli studi per lo sviluppo della tecnica dell’ultracentrifugazione
vide pertanto anche la partecipazione italiana e, in particolare, dell’AGIP Nucleare e del CNEN (cfr. Verbale della 11ª riunione del
Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 25 giugno 1973, pp. 43-44, ASENEA; Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni
del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre 1973, Roma, 1974, pp. 46-48, ASENEL).
587
Il procedimento della diffusione gassosa avrebbe infatti consentito di produrre notevoli quantità di uranio arricchito con un certo
anticipo rispetto ai tempi previsti dalla ultracentrifugazione, anche se i costi ipotizzati per l’investimento complessivo risultavano
essere superiori (per approfondimenti si veda Verbale della 10ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 10
maggio 1973, pp. 4-7, ASENEA).
588
L’ENEL faceva parte anche di un altro consorzio internazionale, il NERSA, nato invero sotto il progetto UNIPÈDE, con una
quota pari al trentatre percento concessa dalla società elettrica francese EDF che ne deteneva la maggioranza con il cinquantuno
percento, mentre il restante sedici percento apparteneva alla SBK (azienda in prevalenza tedesca ma con quote minoritarie del Belgio
e dell’Olanda). Il NERSA condusse gli studi per la realizzazione della centrale elettronucleare francese sul fiume Rodano presso
Creys-Malville denominata Superphénix, la cui costruzione venne approvata nel '72 e realizzata dal 1974 al 1981 (anche se la
produzione di energia iniziò effettivamente nel 1985).
589
Nel dicembre del '73 era anche giunta l’avveniristica richiesta degli enti produttori di energia elettrica di cercare di stabilire un
legame con gli Stati Uniti al fine di costruire un impianto con una tecnologia mista che potesse ricoprire il fabbisogno non solo
dell’Europa ma anche degli USA e del Giappone. A ciò andava aggiunto il tentativo di coordinare le due tecnologie (diffusione e
centrifugazione) al fine di prevedere lo studio del sistema di centrifugazione in modo da evitare quel surplus di uranio arricchito,
previsto per il 1982-83, per il quale Germania, Inghilterra e Olanda avevano espresso delle preoccupazioni, e cercare quindi di
passare gradualmente dal sistema per diffusione a quello per centrifugazione (cfr. Verbale della 16ª riunione del Consiglio di
amministrazione del CNEN, Roma, 5 dicembre 1973, pp. 5-6, ASENEA).
590
Per approfondimenti si veda Telespresso n. 077/23663, MAE, DGAE, Ufficio VII, indirizzato alla Presidenza del Consiglio dei
ministri, al Ministero del Bilancio, al Ministero del Tesoro, al Ministero dell’Industria e del Commercio, al Ministero delle
Partecipazioni Statali, al Comitato Nazionale Energia Nucleare, all’Ente Nazionale Idrocarburi, Roma, 27 novembre 1973, ASE, coll.
BB. III. 2, udc. 437.
591
Questi rifornimenti avvenivano prevalentemente in virtù dell’accordo tra l’EURATOM e gli Stati Uniti concluso nel '58 e
rinnovato nel '72.
160
nuove e gravose condizioni di fornitura definite di recente dall’USAEC (ordinativi da effettuarsi 8
anni prima della consegna; durata decennale dei contratti di fornitura; aumento dei prezzi del
servizio di arricchimento da 32 a 36-38,5 dollari per unità di lavoro di separazione, con successivi
aumenti automatici dell’1 per cento ogni 6 mesi a partire dal 1° gennaio 1974, ecc.); per altro
verso dalla circostanza per cui, secondo ogni previsione, a partire dal 1980 la maggior parte della
592
produzione americana di uranio arricchito [sarebbe stata] assorbita dal mercato interno”
.
In ragione di questa circostanza l’AGIP Nucleare stava per concludere un contratto per
l’approvvigionamento di uranio arricchito con la società sovietica Techsnabexport, nel quadro di
un più ampio accordo tra l’Italia e l’Unione Sovietica sulle forniture nucleari593. Questa
operazione, pur offrendo il fianco alle critiche sia della Comunità europea che di Washington,
avrebbe permesso di spezzare il monopolio americano assicurando all’Italia una nuova fonte di
approvvigionamento a condizioni più vantaggiose594. Era ovvio, comunque, che un accordo con
l’URSS poteva permettere di ottenere solo benefici immediati e temporanei, in attesa che
l’Europa si dotasse di un’autonoma capacità di arricchimento in grado di superare qualsiasi
monopolio o duopolio esterno e di garantire al continente una reale indipendenza energetica nel
settore nucleare595.
I produttori di energia elettrica avevano inoltre pensato nel corso del '73 di creare un pool
fra le imprese del settore per studiare i problemi relativi all’arricchimento dell’uranio596. In
Europa, invece, i produttori di energia elettrica del Belgio, della Francia, della Repubblica
Federale Tedesca, dell’Italia, della Spagna e della Svizzera, nell’intento di trovare una soluzione
comune ai problemi relativi all’approvvigionamento di uranio arricchito, costituirono un
comitato di studio con il compito di definire, a partire dal '78, i fabbisogni di questo combustibile
per le imprese e gli enti interessati. Il comitato doveva prendere contatti anche con l’URENCO e
l’EURODIF al fine di conoscere le capacità di produzione e le condizioni di fornitura di
combustibile nucleare che avrebbero potuto garantire all’indomani dell’entrata in funzione degli
impianti. Qualche mese dopo la crisi, il comitato aveva dato vita alla OPEN che rappresentava
essenzialmente un’associazione di interessi economici della quale erano soci a pieno titolo
592
Appunto interno del MAE, Roma, 13 dicembre 1973, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 6, MAE, Sottoserie Visite e questioni diverse,
Busta 36.
593
Secondo la testimonianza diretta di Accorinti, fu il governo stesso a chiedere all’ENI di adoperarsi per ottenere una
diversificazione degli approvvigionamenti uraniferi, specie nei confronti del Canada (TRA dall’ex vicepresidente dell’AGIP Petroli,
dott. Giuseppe Accorinti).
594
In realtà già nel mese di ottobre l’EURATOM aveva approvato il progetto della società tedesca RWE per l’acquisto di uranio
arricchito proprio dall’URSS a un prezzo che si riteneva inferiore del cinque percento rispetto a quello praticato dall’USAEC. Altre
trattative simili erano in corso sempre con l’Unione Sovietica da parte di Belgio e Svezia (cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica,
Relazione del Direttore generale al Consiglio di amministrazione sull’attività dell’ente nel 1973, Roma, 1974, pp. 262-263,
ASENEL).
595
L’accodo con la Techsnabexport venne stipulato nel '74 (cfr. M. Magini, L'Italia e il petrolio tra storia e cronologia, cit., p. 236).
596
Il nome previsto era SWUCO, mentre Washington la sede prescelta.
161
diciassette produttori elettrici di Belgio, Francia, Spagna e Svizzera, mentre quelli di Austria,
Italia e Paesi Bassi godevano solo della qualifica di associati597.
Sul fronte della effettiva collaborazione italiana ai progetti europei, era giunto il momento
di definire la posizione ufficiale in merito alla partecipazione e alla realizzazione dell’impianto
per l’arricchimento dell’uranio mediante il procedimento della diffusione gassosa. Il progetto
EURODIF era infatti ormai giunto alla fase esecutiva e il governo italiano, incalzato da Parigi,
venne pressantemente chiamato a prendere una decisione definitiva. Gli obiettivi che Palazzo
Chigi si era posto durante le discussioni sul progetto erano duplici: ottenere che la centrale
sorgesse in territorio italiano (ovvero a Montalto di Castro598) e assicurare all’ENEL una
posizione privilegiata come futuro acquirente dell’energia prodotta dall’impianto. Per quanto
concerneva il primo aspetto, i vantaggi che l’Italia avrebbe ottenuto sul piano industriale,
tecnologico, energetico e occupazionale si sarebbero moltiplicati qualora la località viterbese
fosse stata scelta dagli Stati partecipanti all’EURODIF. L’interesse prevalente della Francia
spingeva però in direzione di una localizzazione dell’impianto a Tricastin, nei pressi di
Pierrelatte, rendendo di fatto le speranze italiane davvero irrisorie599. Circa il secondo punto
sembravano invece permanere margini per una trattativa.
Anche il progetto portato avanti dall’UNIPÈDE fece dei progressi durante il '73, tanto più
che per quanto concerneva la partecipazione dell’ENEL, la rimozione per via legislativa degli
ostacoli posti dalla stessa norma istitutiva dell’ente600 circa la partecipazione a iniziative europee
per la costruzione di impianti nucleari dimostrativi, di potenza elevata, equipaggiati con reattori a
neutroni veloci raffreddati con sodio ne agevolò il coinvolgimento601. Il 28 dicembre si
procedette quindi alla firma della convenzione per la regolazione dei rapporti fra le tre società
partecipanti: EDF, ENEL e RWE602. Secondo il parere espresso in un appunto interno all’ente
597
Per approfondimenti si veda Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei
revisori e bilancio al 31 dicembre 1973, Roma, 1974, pp. 48-49, ASENEL.
598
A seguito di un esame congiunto tra CNEN, ENEL e AGIP Nucleare, Montalto di Castro era stato riconosciuto il luogo più adatto
a ospitare la costruzione (cfr. Verbale della 10ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 10 maggio 1973, p. 5,
ASENEA).
599
“Un’azione diplomatica svolta a Bruxelles, Madrid e Stoccolma per fare convergere le preferenze belghe, spagnole e svedesi su
Moltalto non [aveva] avuto esito apprezzabile, benché il sito italiano [fosse] obiettivamente quello in grado di offrire tecnicamente le
migliori condizioni” (Appunto interno del MAE, Roma, 13 dicembre 1973, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 6, MAE, Sottoserie Visite e
questioni diverse, Busta 36). Tuttavia, la scelta si prese nel febbraio '74 e ricadde all’unanimità sul sito di Tricastin, nella valle del
Rodano. Il voto favorevole da parte italiana era stato dato dopo laboriose trattative con i francesi che si conclusero con un accordo
secondo il quale, in contropartita al ritiro dell’Italia della candidatura del proprio sito, la Francia si impegnava a ordinare all’industria
italiana delle forniture di componenti per l’impianto di diffusione e, fra queste, anche quelle tecnologicamente più avanzate, nonché
attrezzature per le centrali d’oltralpe per un valore corrispondente alla costruzione di un impianto (cfr. Verbale della 20 riunione del
Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 13 febbraio 1974, p. 3, ASENEA; Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazione del
Direttore generale al Consiglio di amministrazione sull’attività dell’ente nel 1973, Roma, 1974, pp. 258-259, ASENEL).
600
Cfr. legge n. 856 del 18 dicembre 1973.
601
Cfr. Una impresa europea per lo sviluppo dei reattori nucleari del prossimo futuro, appunto interno all’ENEL, gennaio 1974,
ENEL-EDF-RWE, Promemoria 1973, ASENEL.
602
Cfr. ibidem; Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al
31 dicembre 1973, Roma, 1974, pp. 123-124, ibidem.
162
elettrico italiano, il progetto rappresentava una preziosa opportunità per lo sviluppo della politica
nucleare europea:
“Da oltre cinque anni l’ENEL auspicava la realizzazione di una impresa del genere e
perseguiva concretamente l’intento di parteciparvi attivamente e in maniera significativa in
considerazione, da un lato, della enorme portata dei problemi che [avrebbero trovato] soluzione
con il successo dei reattori autofertilizzanti e, dall’altro, della impossibilità di affrontare sul piano
nazionale problemi che [comportavano] così grande impegno di uomini e di mezzi e infine della
necessità di una efficace collaborazione delle industrie costruttrici dei paesi della Comunità in un
settore di importanza fondamentale e di sicuro grande sviluppo”603.
Il documento sottolineava inoltre i motivi per cui si attribuiva tanta importanza ai reattori
autofertilizzanti a neutroni veloci: in particolare, essi producevano più combustibile nucleare, o
meglio più plutonio, di quello che consumavano per produrre energia e, pertanto, erano in grado
di utilizzare in maniera pressoché totale il contenuto energetico dell’uranio naturale.
L’affermazione su scala industriale dei reattori autofertilizzanti poteva dunque condurre alla fine
della dipendenza esterna per l’approvvigionamento del combustibile nucleare. Il nuovo sistema
appariva inoltre in grado di offrire una soluzione al problema dell’arricchimento dell’uranio in
quanto il combustibile necessario era costituito da uranio naturale e plutonio, prodotto sia dagli
stessi reattori che, sebbene in quantità più limitate, dalle centrali nucleari già in servizio. Date
queste premesse, era quasi scontato ipotizzare una serie di vantaggi che potevano derivare dal
successo di questa filiera di reattori ai paesi che difettavano di fonti primarie di energia e, in
particolare, all’Italia che ne era praticamente priva. Si trattava però di un progetto tutto da
sperimentare che, secondo le previsioni, poteva essere sviluppato e utilizzato efficacemente solo
verso la fine degli anni Ottanta604.
Contemporaneamente all’appoggio alle strategie nucleari europee605, l’Italia si impegnò
alla ricerca di accordi anche nel settore petrolifero606. Il presidente dell’ENI, Raffaele Girotti,
603
Una impresa europea per lo sviluppo dei reattori nucleari del prossimo futuro, appunto interno all’ENEL, gennaio 1974, ENELEDF-RWE, Promemoria 1973, ibidem.
604
Ibidem.
605
Le collaborazioni italiane nel settore nuclearenon riguardarono, come visto, solo i paesi comunitari: si siglarono diversi accordi
per l’uso pacifico di questa energia con altri paesi. Ad esempio, con la Polonia (cfr. Verbale della 12ª riunione del Consiglio di
amministrazione del CNEN, Roma, 23 ottobre 1973, p. 88, ASENEA) e con la Romania (cfr. Verbale della 14ª riunione del
Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 24 luglio 1973, p. 15, ibidem).
606
Anche le attività di ricerca mineraria sia in Italia, nell’off-shore adriatico, che all’estero si intensificarono grazie al lavoro svolto
dall’AGIP; in particolare giovò l’entrata in vigore della legge n. 443 del 28 luglio '73 che consentì, sulla base di specifiche
autorizzazioni ministeriali, l’esercizio di attività minerarie nella piattaforma continentale italiana oltre i duecento metri di profondità
[per approfondimenti sulle prospezioni minerarie svolte dalle società del gruppo ENI sia in Italia che all’estero si vedano M. Magini,
L'Italia e il petrolio tra storia e cronologia, cit., pp. 214-219; G. Sapelli, F. Carnevali, Uno sviluppo tra politica e strategia. ENI
(1953-1985), cit., pp. 70-71].
163
riuscì a raggiungere sia un’intesa con Tunisi relativa all’installazione e allo sfruttamento del
gasdotto che avrebbe dovuto collegare l’Algeria all’Italia attraversando il territorio tunisino607,
sia un accordo con l’Iraq per la costruzione di un oleodotto per potenziare la rete già esistente
che convogliava greggio nel Mediterraneo608. Nel frattempo, però, sul piano interno emersero
notevoli difficoltà in merito alla delineazione di un programma nazionale per la riorganizzazione
del settore petrolifero609. Le compagnie private temevano, non a torto, che all’ENI venisse
assegnato un ruolo di eccessivo rilievo e minacciarono di uscire dalla Commissione speciale
(appositamente creata presso il Ministero del Bilancio e della Programmazione economica), della
quale facevano parte i rappresentanti dei dicasteri interessati, le sezioni italiane delle compagnie
multinazionali, i petrolieri privati (o direttamente o tramite l’associazione Unione Petrolifera) e
ovviamente l’ENI, con il compito di predisporre un’azione unitaria nel quadro di un più vasto
piano energetico610. Certamente questa presa di posizione derivava dalle recenti accuse rivolte da
una parte della stampa nei confronti dei maggiori gruppi petroliferi privati operanti in Italia611.
La Commissione, ad ogni modo, doveva ancora svolgere diverse indagini prima della
conclusione dei lavori e ciò determinò un ulteriore ritardo nella definizione di una strategia
governativa finalizzata a alleggerire la dipendenza dell’approvvigionamento petrolifero della
penisola dalle importazioni. Dall’analisi della situazione del mercato si poteva però evincere il
ruolo decisamente marginale che l’ENI si trovava a ricoprire: l’ente di Stato importava solo circa
il venti percento del greggio totale acquistato dall’estero e nelle raffinerie di sua proprietà ne
trasformava approssimativamente solo il dieci percento. Amplificare il ruolo dell’ENI
significava dunque limitare la presenza delle compagnie petrolifere private, mentre queste non
607
Cfr. L’accordo per il gasdotto dall’Algeria all’Italia (articolo non firmato), «Il Messaggero», 11 dicembre 1973. L’intesa
rientrava nella cosiddetta “opzione metanifera”, la strategia dell’ENI che prevedeva la diffusione del gas naturale in tutta la penisola
grazie soprattutto alla sottoscrizione di contratti di importazione dall’Olanda, dall’Unione Sovietica e, appunto, dall’Algeria [cfr. G.
Sapelli, F. Carnevali, Uno sviluppo tra politica e strategia. ENI (1953-1985), cit., p. 70]. L’accordo con Tunisi prevedeva il
convoglio in Italia di circa undici miliardi di metri cubi all’anno di gas naturale per venticinque anni a partire dal '78, un quantitativo
che era pari al settanta percento dei consumi interni del tempo. L’imponente gasdotto sarebbe stato tra i più lunghi del mondo con i
duemila e cinquecento chilometri previsti, di cui centosettantaquattro sottomarini, e avrebbe dovuto collegare i giacimenti del Sahara
algerino con La Spezia [per ulteriori approfondimenti si veda Un grande gasdotto dall’Algeria all’Italia (articolo non firmato), «Il
Popolo», 20 ottobre 1973].
608
La realizzazione doveva avvenire congiuntamente per opera dell’ENI e dell’ente petrolifero iracheno (INOC) e prevedeva un
oleodotto di 633 km per collegare i campi petroliferi di Rumalia Nord con la già esistente rete di pipeline che convogliavano greggio
ai terminali del Mediterraneo orientale attraverso la Siria e il Libano [per approfondimenti si veda Accordo ENI-Irak per un oleodotto
(articolo non firmato), «Il Popolo», 21 ottobre 1973].
609
Per un approfondimento sulla situazione della politica energetica italiana dopo lo shock e sui primi interventi messi in campo dal
governo si veda anche A. Clô, Crisi energetica: consumi, risparmi e penetrazione elettrica, in G. Zanetti (a cura di), Storia
dell’industria elettrica in Italia, vol. 5, cit., pp. 112-125.
610
In realtà un primo Piano del petrolio venne elaborato già nel settembre '73 nel quadro di un programma nazionale dell’energia. Le
principali linee di questo Piano erano le seguenti: cercare garanzie per un approvvigionamento petrolifero in base a un programma
pluriennale prestabilito di rifornimenti a prezzi determinati; controllare i prezzi di lavorazione delle raffinerie mediante la definizione
delle quote destinate al mercato interno e all’esportazione, favorendo prioritariamente il fabbisogno nazionale; ottimizzare gli
impianti di raffinazione, di trasporto e di distribuzione in modo da eliminare sprechi; rafforzare il ruolo dell’ENI con l’aiuto dello
sviluppo della ricerca e mediante la conclusione di contratti di lungo periodo con i paesi produttori nel quadro di accordi commerciali
e industriali più ampi (cfr. M. Magini, L'Italia e il petrolio tra storia e cronologia, cit., pp. 213-214). Le decisioni dei paesi OPEC
all’indomani della guerra del Kippur fecero tuttavia slittare le decisioni per l’emanazione definitiva del suddetto Piano del petrolio.
611
Cfr. In crisi il piano petrolifero per i contrasti nella Commissione (articolo non firmato), «Il Tempo», 19 dicembre 1973.
164
volevano minimamente ridurre la posizione economica detenuta sul territorio nazionale. D’altro
canto, in una situazione energetica così drammatica per l’Italia risultava pressoché necessario per
il governo iniziare a operare verso un aumento delle quote di importazioni petrolifere a
vantaggio dell’azienda di proprietà pubblica. Ciò significava attuare una politica energetica
diversa da quella seguita fino a quel momento nei confronti dei paesi produttori, mediante
un’assunzione diretta di responsabilità da parte dello Stato con mezzi finanziari notevoli. Lungo
questo percorso non poteva mancare una programmazione dettagliata che prevedesse una
trasformazione progressiva dell’intero mercato. Secondo le parole del direttore generale
dell’ENI, Giorgio Mazzanti, l’ente petrolifero di Stato non poteva infatti mettere in pratica certe
decisioni che erano di competenza esclusiva dell’esecutivo:
“Sarebbe [stata] una sciocchezza pretendere che l’ENI [possedesse] una bacchetta magica e
[potesse] di colpo sostituirsi agli altri. Non [era] questo l’obiettivo. Questo consiste[va] in una
crescita graduale, condividendo pacificatamene con gli altri, e intanto affrancando il paese da
eventuali pedaggi che [potevano] diventare sempre più pesanti”612.
In vista della realizzazione di un valido progetto per la riorganizzazione del settore
petrolifero bisognava inoltre analizzare nel dettaglio anche i settori della raffinazione e della
distribuzione. Secondo quanto riportato in un documento consegnato alla Commissione speciale
del Ministero del Bilancio e della Programmazione economica:
“L’industria italiana si trova[va] in una situazione in cui l’aumento di alcuni costi, come per
esempio quelli industriali e fiscali del greggio, [era] difficilmente comprimibile, mentre
[esistevano] altri costi di gestione per i quali [era] possibile ottenere una riduzione attraverso un
serio sforzo di razionalizzazione. […] [Bisognava] spingere le imprese petrolifere a ricercare nel
loro interno le possibilità esistenti per una riduzione dei costi, in primo luogo nel settore della
distribuzione stradale: in Italia si [avevano] 40.000 impianti con una vendita media annua di 250
tonnellate di prodotti e una produttività estremamente bassa, che si traduce[va] in alti costi di
distribuzione. Lo spazio per una incisiva azione di razionalizzazione esiste[va] anche nel settore
della raffinazione, sia dal punto di vista economico che da quello ecologico e territoriale”613.
Oltretutto, i tempi lunghi della Commissione consentivano di approfondire con la dovuta
attenzione tutte le questioni relative al mercato petrolifero. I paesi produttori, nel frattempo,
612
613
G. Bianchi, E l’Italia? Spera nel suo “piano”, «Il Gazzettino», 28 dicembre 1973.
Ibidem.
165
avevano deciso, da un lato, di ridurre le restrizioni previste sui rifornimenti con un taglio sulla
produzione inferiore del cinque percento rispetto a quanto precedentemente stabilito e, dall’altro
lato, di aumentare il prezzo del greggio portandolo fino a 11,65 dollari al barile a partire dal 1°
gennaio '74. Se le sanzioni sul boicottaggio erano dirette solo nei confronti di quei paesi
considerati nemici dai governi arabi, le decisioni sui prezzi e sul rallentamento delle estrazioni
petrolifere avevano un effetto erga omnes. Come ovvio, in virtù dei nuovi aumenti annunciati si
prospettava un ulteriore peggioramento della situazione italiana che richiedeva misure sempre
più urgenti. In questo contesto venne annunciato il 28 dicembre un accordo fra l’ENI e la
SHELL per la cessione delle attività petrolifere possedute da quest’ultima in Italia all’AGIP
Petroli, la quale veniva così a rafforzare notevolmente la propria posizione sul mercato nazionale
nel momento in cui era in preparazione il piano per la riorganizzazione del settore petrolifero (o
semplicemente piano petrolifero) che avrebbe dovuto assegnare maggiori responsabilità all’ente
di Stato. Le trattative tra le due parti erano iniziate già agli inizi di dicembre614 e probabilmente
le nuove decisioni prese dai paesi dell’OPEC, assieme all’estrema urgenza da parte del governo
italiano di trovare delle soluzioni rapide alle difficoltà del mercato petrolifero interno, dettarono
un’accelerazione dei tempi dell’intesa615. Secondo quanto riportato nel comunicato ufficiale
diramato dalle due società:
“Un accordo [era] stato raggiunto tra l’AGIP del Gruppo ENI e il Gruppo SHELL per la
cessione all’azienda di Stato delle attività petrolifere della SHELL Italiana, costituite dalle
raffinerie di Rho, Taranto e La Spezia, dalla rete stradale di distribuzione (4 mila 500 punti di
vendita), depositi, ecc., nonché dalle partecipazioni nella COVENGAS ed in altre società minori.
L’accordo prevede[va] consistenti forniture pluriennali di greggio all’AGIP. Non [rientravano]
nella cessione il settore dei prodotti chimici, le partecipazioni della SHELL nella MONTESHELL
e nella SUB SEA OIL Services, le attività di esplorazione e produzione di idrocarburi nella
piattaforma continentale italiana, ed il centro studi agricoli di Borgo a Mozzano. La SHELL
[sarebbe rimasta] anche presente in Italia nei settori dei bunkeraggi e dell’aviazione
internazionale”616.
614
Cfr. Letter from the Assistant Private Secretary to Secretary of State (Mr. Grattan) to Private Secretary to the Prime Minister
(Lord Bridges), Londra, 3 dicembre 1973, TNA, FCO, 33/2205.
615
Risulta però necessario precisare che la decisione della SHELL di vendere alcune attività possedute in Italia rientrava nel quadro
della volontà delle principali aziende estere del settore di ridurre la loro partecipazione nella penisola dopo lo scoppio dello shock
petrolifero: “Alcuni importanti fornitori […] [italiani] (tra cui SHELL, BP e TOTAL) abbandonarono il mercato italiano e le majors
americani rimaste (ESSO e MOBIL) ridussero la loro partecipazione […] essenzialmente a quelle centrali logisticamente meglio
ubicate rispetto alle loro raffinerie” (TRA dall’ex vicepresidente dell’AGIP Petroli, dott. Giuseppe Accorinti).
616
Ufficiale: passano all’AGIP le attività SHELL Italiana (articolo non firmato), «Il Sole 24 Ore», 29 dicembre 1973.
166
Con questa operazione l’ENI centrava tre obiettivi: accresceva in modo consistente la
propria capacità di raffinazione grazie ai tre impianti acquistati; raggiungeva il trenta percento
della rete stradale di distribuzione con undicimila e cinquecento punti vendita dislocati in tutto il
territorio nazionale (contro i settemila precedentemente posseduti); si assicurava consistenti
forniture pluriennali di greggio da parte della SHELL. L’accordo rappresentava dunque il primo
importante passo verso la realizzazione di una nuova politica energetica in attesa che venisse
varato il piano petrolifero nazionale617.
Sul fronte delle iniziative che il governo avrebbe dovuto intraprendere per ottenere nuovi
e più sicuri approvvigionamenti petroliferi, molto interessante risulta un appunto del MAE per il
ministro Moro. Nel documento si sottolineava la necessità di predisporre una nuova politica
globale che venisse incontro alle esigenze future e superasse, in presenza dei profondi mutamenti
della situazione politica e economica di alcuni Stati, gli schemi tradizionali seguiti fino a quel
momento. In base a questa impostazione, occorreva lasciarsi alle spalle gli sforzi dei paesi
produttori volti a incrementare il ricavato delle vendite e anche la politica di approvvigionamento
delle nazioni consumatrici, ispirata essenzialmente a criteri mercantilistici o settoriali dato il
ruolo di primo piano attribuito alle compagnie trasnazionali. Bisognava invece stabilire relazioni
dirette con le nazioni esportatrici di greggio, creando un proficuo rapporto di scambio che
avrebbe potuto prevedere la fornitura di petrolio in cambio di attrezzature e conoscenze tecniche
in grado di garantire lo sviluppo economico dei produttori:
“Ora, un adeguamento ai mutamenti intervenuti non [poteva] avvenire se non si [creava] un
tipo di rapporto nel quale il petrolio [costituisse] soltanto un elemento di una vasta cooperazione
economica tra i Paesi produttori e i Paesi consumatori. A tal fine, [avremmo dovuto] cercare di
stabilire, nelle relazioni con i Paesi nostri principali fornitori (o almeno, in una prima fase, con
alcuni di essi) un collegamento organico tra ciò che [poteva] essere reciprocamente fornito: da
parte loro, gli approvvigionamenti di energia a noi indispensabili; da parte nostra, le attrezzature
ed il know-how necessari alla loro crescita economica. In altre parole, [occorreva] offrire da parte
nostra a tali Paesi gli strumenti necessari a compiere il più naturale primo passo sulla via dello
sviluppo. Tali strumenti si [concretizzavano] in primo luogo nelle conoscenze tecnologiche,
nell’addestramento di quadri tecnici e direttivi, nell’inserimento nelle successive fasi gestionali
delle attività trasformatrici, distributive ed industriali derivate (petrolchimica, produzione di alto
consumo di energia, trasporti)”618.
617
Il piano petrolifero nazionale venne presentato, così come previsto, alla fine di gennaio '74 ma approvato solo il 29 marzo
successivo [cfr. Approvato il piano petrolifero (articolo non firmato), «Avanti», 30 marzo 1974].
618
Appunto interno del MAE, Roma, 31 dicembre 1973, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 6, MAE, Sottoserie Visite e questioni diverse,
Busta 30.
167
In vista della realizzazione di questo nuovo indirizzo bisognava fin da subito attuare una
serie di misure:
“[…] incoraggiare la costituzione e l’azione di consorzi tra aziende italiane pubbliche e
private, che [avrebbero potuto] comprendere le massime nostre imprese industriali, […] nella
certezza, altresì, che tali consorzi [avrebbero finito] col mettere in moto un meccanismo che
[avrebbe coinvolto] anche le piccole e medie imprese; promuovere la costituzione di società miste
per la progettazione, realizzazione e gestione di impianti ed altre opere cui [avrebbero dovuto]
partecipare le aziende italiane e quelle dei Paesi detentori di petrolio e che [avrebbero potuto]
operare in vari campi, non soltanto nei suddetti Paesi ma anche nel nostro stesso mercato o su
quelli di Paesi terzi; articolare, per quanto possibile, la nostra politica di assicurazione dei crediti
all’esportazione in modo da non disperdere più indiscriminatamente le nostre limitate risorse su
tutte le aree geografiche, ma di concentrarle sulle sole regioni per noi politicamente ed
economicamente rilevanti; […] orientate corrispondentemente anche la nostra attività di
assistenza, puntando in un primo tempo soprattutto sull’addestramento di personale locale addetto
619
all’industria petrolifera ed a quelle connesse e derivate”
.
Ciò che si suggeriva era in sostanza una sorta di politica del doppio binario in cui,
parallelamente alla ricerca di accordi bilaterali, si doveva procedere all’elaborazione di una
politica energetica comunitaria volta a assicurare la continuità dei rifornimenti a prezzi
accettabili. In questo senso, la dichiarazione dei Nove del 6 novembre avrebbe dovuto costituire
la necessaria premessa per un rilancio su nuove basi dei rapporti di cooperazione economica e
politica fra la Comunità e i paesi arabi in un clima di reciproca fiducia.
Sull’irrinunciabilità dell’avvio di un dialogo con i paesi produttori insisteva anche la
relazione presentata dal presidente dell’ENI nel gennaio '74 alla Commissione Industria della
Camera. Secondo Girotti i principali problemi relativi all’approvvigionamento petrolifero erano
di natura eminentemente politica, così come l’evoluzione della situazione continuava a
confermare, e ciò determinava l’impossibilità di venirne a capo mediante decisioni o iniziative
esclusivamente imprenditoriali. Perfino negli Stati Uniti, dove l’intervento del potere statale in
campo economico si manifestava in misura ridotta, la regolamentazione del settore energetico
rispondeva a logiche prevalentemente politiche:
619
Ibidem.
168
“Il concetto di liberalismo economico non si [era] mai applicato nel settore dell’energia, nel
senso che il mercato energetico, interno ed internazionale, non si [era] mai sviluppato in regime di
libera concorrenza, ma [era] sempre stato regolato, sul piano interno, da interventi più o meno
estesi del potere pubblico, e condizionato sul piano internazionale, da fattori di ordine politico.
Nel più liberista dei paesi occidentali, negli Stati Uniti, il problema energetico [era] come il
problema politico prioritario rispetto a tutti gli altri, dal quale [erano] condizionati in parte anche i
problemi della sicurezza – politica e militare – e della perpetuazione del benessere economico e
della struttura economica e sociale del paese nelle sue forme attuali. Ecco perché, negli Stati
Uniti, mentre sul piano interno il mercato energetico [veniva] regolato da provvedimenti
governativi e l’industria energetica incentivata e sostenuta in vari modi con strumenti e fondi
pubblici, sul piano internazionale le imprese americane [avevano] sempre usufruito di un
sostegno politico-diplomatico più o meno illimitato da parte del governo federale e di
incentivazioni o agevolazioni di carattere fiscale. Tutto questo, per conseguire un obiettivo
ritenuto irrinunciabile: quello cioè, dell’approvvigionamento di fonti di energia in una situazione
di sicurezza, ed a condizioni economiche ragionevoli e compatibili con gli interessi del paese.
[…] Sul piano interno dei maggiori paesi industrializzati, laddove cioè i consumi di energia
[avevano] raggiunto livelli molto elevati, la rilevanza politica dell’approvvigionamento
energetico si [era] infatti accresciuta nel corso degli ultimi anni. La dimensione acquisita dagli
effetti che le attività di produzione, trasporto, trasformazione e distribuzione [producevano]
sull’ambiente [aveva] reso tutti consapevoli del fatto che a quegli effetti [era] necessario porre in
qualche modo rimedio, senza però, compromettere l’obiettivo di un equilibrato sviluppo
economico e sociale, per il conseguimento del quale – nelle attuali condizioni dello sviluppo
scientifico e tecnologico – non si [poteva] fare a meno dell’energia. [Era], però, soprattutto sul
piano internazionale che l’evoluzione degli ultimi anni [aveva] messo in luce quanta importanza
[avesse] assunto l’aspetto politico nei rapporti che [intercorrevano], nel caso specifico
dell’industria energetica, tra paesi detentori delle risorse petrolifere ed i paesi importatori”620.
In sostanza, la relazione di Girotti chiamava in causa il governo sollecitandolo a un
intervento diretto che doveva necessariamente passare attraverso l’avvio di un rapporto diretto e
costruttivo con i paesi produttori. Questa esigenza espressa dal presidente dell’Eni era fortemente
avvertita da gran parte del mondo imprenditoriale. Si riconosceva, infatti, che nella situazione
del momento l’aspetto politico era divenuto dominante e condizionava sempre più i rapporti fra
paesi esportatori e paesi importatori. Secondo alcune previsioni questa tendenza si sarebbe
affermata con maggiore forza con il passare del tempo e avrebbe caratterizzato anche i mercati
delle altre fonti energetiche. Ciò si sarebbe verificato essenzialmente perché queste risorse erano
620
Bozza Relazione Ing. Girotti alla Commissione Industria della Camera (vista e approvata dal presidente dell’ENI), Roma,
gennaio 1974, ASE, coll. AS. I. 2, udc. 17.
169
destinate a esaurirsi e avevano un’importanza strategica notevole; i paesi detentori cercavano
pertanto di ricavarne il maggiore profitto possibile prima del loro esaurimento e erano tentati di
utilizzarle anche per finalità politiche621. In questo scenario, il governo veniva pertanto chiamato
a avviare tutte quelle forme di interventismo che in altri settori e in altri momenti storici non si
sarebbero mai richieste e, anzi, sarebbero stare criticate duramente. D’altra parte, l’ipotesi di
stipulare accordi bilaterali con i produttori introduceva la possibilità di inserire nelle trattative
investimenti privati in altri settori e, quindi, ciò avrebbe permesso per le imprese italiane, in un
momento di grossa difficoltà economica, l’apertura di nuovi mercati che fino a quel momento
non erano accessibili e risultavano poco convenienti622.
5. L’Italia, la cooperazione europea e i rapporti con gli Stati Uniti
Se a livello nazionale la questione energetica aveva sollevato un vivace dibattito che
coinvolgeva ampi settori della società, sul piano internazionale essa generò un doppio confronto
che, oltre a mettere apparentemente in discussione i rapporti di forza fra il nord e il sud del
mondo, minava la solidarietà atlantica. Dopo la dichiarazione del 6 novembre la Comunità
europea sembrava avere inaugurato una svolta filo-araba fortemente incoraggiata dalla Francia
che continuava però a temere cedimenti nei confronti di Washington. Come osservava il
rappresentante permanente francese alle Nazioni Unite, Louis de Guiringaud, il fronte dei Nove
non offriva alcuna garanzia di tenuta di fronte a nuovi eventuali sviluppi della situazione
mediorientale:
“L’action concertée des de la Communauté [rencontrait] toutefois des limites, dues en
particulier au fait que nos partenaires [n’étaient] pas vraiment prépares à la conception d’une
Europe dégagée des hégémonies extérieures. […] La présence politique de l’Europe n’[était] pas
ce qu’elle devrait être et je serais tenté de dire, reprenant une remarque de votre excellence
[Michel Jobert] en tous point confirmée par ce que j’entende dire ici, que l’Europe [existait] plus
621
Sul rapporto tra la scarsità del petrolio e il suo prezzo si vedano le diverse ipotesi analizzate in A. Roncaglia, L'economia del
petrolio, cit., pp. 30-60. Sulla teoria marginalista delle risorse naturali esauribili si vedano, ad esempio, H. Hotelling, The Economics
of Exhaustible Resources, in «Journal of Political Economy», vol. XXXIX, 1931, pp. 137-175 e W. D. Nordhaus, The efficient use of
energy resources, New Haven, 1979; sul modello ricardiano della rendita differenziale cfr. S. Parrinello, M. Resta, La misura del
progresso tecnico e l’utilizzo ottimale delle risorse, Roma, 1967; sulla concorrenzialità del settore petrolifero si veda invece M. A.
Adelman, The world petroleum market, cit.; per un’interpretazione diametralmente opposta a quest’ultima cfr. P. H. Frankel,
Essentials of petroleum: a key to oil economics, New York, 1969 e E. T. Penrose, The Large International Firm in Developing
Countries. The International Petroleum Industry, cit.; per un’analisi marxista si veda J. M. Chevalier, La nuova strategia del
petrolio, Milano, 1975; per uno studio basato sul punto di vista dei paesi OPEC infine cfr. M. Abdel-Fadil, Papers on the Economics
of Oil: a producer’s view, cit. e F. J.Al-Chalabi, OPEC and the international oil industry: a changing structure, cit.
622
Per ulteriori approfondimenti si veda La crisi petrolifera e il ruolo dell’Eni (articolo redazionale), «La Voce Repubblicana», 7
dicembre 1973.
170
dans la conscience des 124 autre états qu’en elle-même. Je constaterai également que, si l’épreuve
provoquée par la crise du Proche-Orient a fourni, après le 6 novembre, l’occasion d’adopter des
point de vue communs, d’autres épreuves pourraient avoir des conséquences différentes et rendre
623
manifeste la fragilité de la concertation européenne”
.
Ma tanto bastava per allarmare l’amministrazione statunitense preoccupata di assistere a
una deriva filo-araba degli alleati europei. Prima dell’inizio della conferenza dei ministri degli
Esteri di Bruxelles del 10 dicembre, Kissinger invitò Moro e i suoi collaboratori presso la suite
dove alloggiava al fine di discutere esclusivamente dei rapporti fra CEE e Stati Uniti. Il
segretario di Stato, dopo aver ringraziato il governo italiano per il ruolo svolto affinché il dialogo
fra le due parti continuasse nonostante i dissidi, espresse disappunto nel constatare che talvolta
l’opposizione agli Stati Uniti costituiva l’unico collante tra i Nove:
“Of course, the European would sometimes be taking positions opposed to the United States,
but it was difficult for us to accept this opposition in order to justify European unity”624.
In ogni caso il problema principale consisteva nella totale esclusione di Washington dal
processo decisionale comunitario, al punto che Kissinger non si risparmiò un polemico accenno
alla maggiore propensione di Mosca alla consultazione reciproca:
“We do not necessarily [wanted] to be present during European consultations, but we would
want an opportunity to express our views. Even the Soviet Union [told] us what it is considering,
The Europeans [were] the only countries who [did] not do that”625.
La risposta di Moro fu molto formale e improntata alla ricerca di un compromesso; si
sottolineava infatti come per alcuni partner europei (il riferimento implicito era ovviamente alla
Francia) la presenza americana in discussioni nel campo dell’energia potesse essere considerata
una sorta di limitazione dell’autonomia stessa della Comunità, mentre in Italia si reputava il
dialogo con gli Stati Uniti come uno strumento utile alla causa:
“Perhaps within the Nine there were some who considered that an institutionalized forum for
consultations could impair European autonomy. For the Italians’ part […] consultations could be
623
Télégramme du représentant permanent de la France aux Nations Unies (Louis de Guiringaud) au Ministère des Affaires
Étrangères, New York, 7 dicembre 1973, CHAN, Archives présidentielles, Fondo Georges Pompidou, 5 AG 2, c. 1035.
624
Memorandum of Conversation between Secretary of State (Kissinger) and Italian Foreign Minister (Aldo Moro), Secretary’s
Suite, Bruxelles Hilton Hotel, 10 dicembre 1973, NARA, NPMP, Presidential HAK MemCons.
625
Ibidem.
171
a useful and important element in our relationship. […] future misunderstandings could be
626
avoided by some form of increased consultations on a pragmatic basis”
.
Se da un lato il leader democristiano accettava l’idea di incrementare le occasioni di
consultazione, dall’altro ne respingeva però l’istituzionalizzazione allineandosi a quei governi
che l’avrebbero interpretata come un indebolimento dell’autonomia dei Nove. D’altronde, Moro
ebbe gioco facile nel ribattere che durante gli ultimi due anni i partner europei erano stati a loro
volta esclusi dai principali negoziati internazionali, come ad esempio nel caso dei SALT627. La
frecciata dell’esponente doroteo era estremamente indicativa degli strascichi provocati da quel
processo di distensione che aveva sollevato spesso la diffidenza dei governi europei, timorosi di
una gestione rigidamente bilaterale degli equilibri bipolari. A questo clima non era sfuggito
neppure Moro il quale aveva sempre mostrato una circospetta cautela nei riguardi dei risultati
prodotti dal dialogo fra la Casa Bianca e il Cremlino628. Ciononostante, a conclusione del
colloquio Moro ricordò come i rapporti fra Italia e Stati Uniti fossero rimasti eccellenti anche in
occasione della crisi petrolifera quasi a rimarcare quel ruolo di cerniera che Roma avrebbe
potuto svolgere per rasserenare l’atmosfera delle relazioni transatlantiche. Su questo piano il
responsabile della Farnesina incassò l’appoggio di Kissinger intenzionato a ricucire i rapporti
con gli alleati attraverso il lancio di una proposta di collaborazione che coinvolgeva le nazioni
europee, il Nord America e il Giappone allo scopo di stabilire “an energy action group of senior
and prestigious individuals with a mandate to develop within 3 months an initial action
programme for collaboration in all areas of the energy problem”629.
L’action group avrebbe dovuto assicurare gli approvvigionamenti di energia a costi
contenuti definendo i principi generali della cooperazione e avviando iniziative in specifiche
aree:
626
Ibidem.
Il trattato per la limitazione degli armamenti strategici venne siglato tra Unione Sovietica e Stati Uniti il 26 maggio '72 dopo un
lungo negoziato durato circa tre anni. Nel giugno '79 si siglò invece l’accordo per il SALT II, anche in questo caso dopo una
lunghissima trattativa. Negli anni Novanta si raggiunsero infine gli accordi START I e II tesi a limitare o a diminuire gli arsenali
delle armi cosiddette di distruzione di massa, come le armi nucleari, partendo dal presupposto che il numero elevato del
possedimento di questi armamenti poneva un serio pericolo per la distruzione completa del pianeta (per approfondimenti si vedano,
tra gli altri, R. L. Garthoff, Detente and confrontation: American-Soviet relations from Nixon to Reagan, Washington, 1985; L. Nuti,
La sfida nucleare, cit., pp. 287-345).
628
Del resto questa impostazione politica di Moro nei confronti del processo di distensione era stata una costante del suo pensiero
che aveva già avuto modo di rendere pubblica in un discorso tenuto in occasione della visita del primo ministro inglese in Italia nel
167 (cfr. Discorso tenuto a Roma in occasione della visita del primo ministro di Gran Bretagna Wilson, Roma, gennaio 1967, ACS,
Carte Aldo Moro, Serie 1, Scritti e discorsi 1953-1978, Sottoserie annuali, Busta 16).
629
Telegram n. 1534 from Sir Alec Douglas-Home, Secretary of State for Foreign and Commonwealth Affairs, to United Kingdom
Representative in Brussels, Londra, 13 dicembre 1973, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America,
Europe and the Energy Crisis, 1972-1974, cit., doc. 457.
627
172
“(a) to conserve energy through more rational utilisation of existing supplies; (b) to
encourage the discovery and development of new sources of energy; (c) to give producers an
incentive to increase supply; (d) to coordinate an international programme of research to develop
new technologies that use energy more efficiently and provide alternatives to petroleum”
630
.
Secondo il segretario di Stato for Foreign and Commonwealth Affairs, Sir Alec DouglasHome, la proposta di Kissinger rappresentava un’opportunità per i Nove chiamati a dare una
risposta efficace alla crisi energetica e a scongiurare il rischio di un allentamento dei legami con
gli Stati Uniti:
“If in Copenhagen Europe was to insist on having a common energy policy of its own before
opening discussion with the Americans, the Japanese and the producers, I fear the Americans
might conclude that the Community could not function as an effective partner in the crisis. The
consequences for our relations with the United States would be grave”631.
Contemporaneamente a questi sviluppi, durante il meeting di Strasburgo del 12 dicembre
la Commissione europea approvò in via definitiva una lettera del presidente, François-Xavier
Ortoli, che esortava i governi a definire una posizione univoca sui problemi petroliferi in vista
del vertice di Copenaghen. La crisi, sebbene ancora agli inizi, stava infatti creando notevoli
difficoltà economiche e la stessa solidarietà fra i partner europei, alla base dei trattati comunitari,
poteva essere messa a repentaglio; il raggiungimento di una politica energetica condivisa
diveniva dunque il passaggio fondamentale per completare il processo di unificazione europea,
passando per l’unione economica e monetaria:
“The circumstances under which it was decided to hold a summit conference on 14/15
December [made] this very much time for analysis and decision in the field of energy policy. For
this reason I should like in behalf of the Commission to submit the following points for your
consideration. Even now the oil supply crisis [was] affecting economic activity and employment
in every one of the Community member States, though in unequal measure. […] The de facto
solidarity created by the European treaties could be at risk, for there might be the temptation to
seek ways outside of and without reference to the Community for dealing with the problems
bedevilling economic affairs in our several countries. It [had] always been the Commission’s
630
Ibidem.
Meeting minute between Sir Alec Douglas-Home, Secretary of State for Foreign and Commonwealth Affairs, and Edward Heath,
Prime Minister, Londra, 13 dicembre 1973, TNA, FCO, ibidem, doc. 461. Allo stesso modo Sir. Alec Douglas-Home esortava Heath
a avviare una stretta collaborazione con Willy Brandt al fine di ottenere la sua approvazione alla proposta di Kissinger qualora
qualche governo si fosse opposto; il riferimento era ovviamente diretto alla possibilità che la Francia esprimesse il proprio rifiuto
(ibidem).
631
173
conviction that the establishment of economic and monetary union, that essential stage on the way
to European union, must necessarily involve the establishment of a community energy policy.
[…] In the short term the object [was] primarily to keep activity and employment in the
Community as high as possible, which [would] necessitate arrangements for the equitable
apportionment among the member States of the burdens caused by shortage. To this end the
commission [was] proposing the pooling of the instruments of oil supply intelligence and
management in a steering committee on energy supply. By the operation of the committee the
Community would be able henceforth to speak with one voice on oil. […] The operation
proposed [were] as follows: (1) The Community, acting as a community, would take the decision
to offer those producer countries which desired it comprehensive cooperation facilitating their
rapid economic development. To this end the member States would agree to work up their
relations with those countries in a shared conception of the aim to be achieved, and to devote the
necessary means thereto at community level. (2) As to the consumer countries which have the
same problems to cope with and need to see that they do not try to cope by mutually inconsistent
means, the Community, having given practical effect to the solidarity among its own members,
would engage in active cooperation with them both in normal times and in emergency. (3) This
would call for a Community supply policy based on organisation of the Community market with
respect to prices, investment, rules of competition and the common commercial policy, and on
concertation with oil industry. (4) In the longer term, keeping the Community adequately supplied
with energy, would necessitate a joint energy efficiency drive and increased emphasis on energy
prospecting and development. (5) In addition, to enable nuclear energy to make its hoped-for
contribution to security of supply, the Community would need to take the decision without delay
to equip itself to produce substantial quantities of enriched uranium, by the concerted
development of the two processes currently being worked on within its borders”632.
Nella proposta Ortoli erano anche elencate le misure che la Comunità europea avrebbe
dovuto applicare in virtù di una valida politica energetica comunitaria. Ciononostante, non
necessariamente un’azione così delineata da parte dei Nove doveva essere considerata in
contrasto con l’iniziativa di Kissinger. La riunione di Copenaghen divenne pertanto il banco di
prova per valutare gli orientamenti prevalenti nella Comunità europea. Tuttavia, nella
dichiarazione congiunta stilata al termine del summit danese si faceva direttamente riferimento al
testo del 6 novembre. In primo luogo, il documento ribadiva la volontà dei Nove di realizzare
una politica estera comune promuovendo un’identità continentale attraverso l’accelerazione dei
lavori per il progetto di Unione europea. Quanto alle relazioni con gli Stati Uniti si affermava
l’intenzione di mantenere un dialogo positivo e di sviluppare una cooperazione amichevole.
632
Telegram n. 6266 from Brussels to the Foreign and Commonwealth Office, Bruxelles, 12 dicembre 1973, TNA, FCO, in K.
Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America, Europe and the Energy Crisis, 1972-1974, cit., doc. 452.
174
Riconoscendo inoltre i rischi derivanti dalla crisi energetica in atto, i Nove convenivano sulla
necessità di adottare misure immediate per fare fronte ai bisogni energetici dell’intera Comunità.
In proposito il Consiglio avrebbe adottato un programma comunitario relativo alle risorse
energetiche sostitutive nel quadro di una diversificazione dei rifornimenti e di un’accelerazione
del reperimento di nuove fonti di energia. Si confermava infine l’importanza dell’apertura di
negoziati con i produttori sulla base del reciproco interesse a sviluppare l’apparato economico e
industriale locale in cambio di approvvigionamenti stabili di energia a prezzi consoni per la
Comunità633.
L’auspicio del mantenimento di cordiali rapporti con Washington e l’indicazione delle
linee guida su cui impostare le relazioni con i produttori634 non si rivelarono tuttavia sufficienti a
cancellare l’impressione che il vertice “did not reach a genuine consensus on the way in which
the interests of Europe are best defended in the energy field”635. D’altra parte, fra gli stessi Nove
figuravano paesi come la Gran Bretagna che non nascondevano una certa soddisfazione per il
parziale fallimento del vertice:
“Perhaps this [was] just as well, since the kind of measures for which some of our partners
were pressing would have been contrary to our interests. It would not be easy to present this
document as an effective community response to the gravity of the crisis”636.
633
Cfr. Relation sur la Réunion de Copenhague de 14 et 15 décembre 1973 des chefs d'État ou de gouvernement et des ministres des
Étrangers des État membres de la Communauté Européenne, Copenaghen, 15 dicembre 1973, MAEF, Archives Diplomatiques,
Affaires économiques et financières, Affaires générales, 1967-1975, 265. I capi di Stato e di governo si trovarono infatti d’accordo
sulla necessità di adottare immediatamente misure efficaci per la crisi energetica. In particolare, venne deciso che: “-il Consiglio
[avrebbe dovuto] adottare immediatamente disposizioni per autorizzare la Commissione a stabilire prima del 15 gennaio 1974 bilanci
energetici esaurienti; - la Commissione [avrebbe dovuto] procedere ad un esame di tutte le ripercussioni attuali o prevedibili che la
situazione energetica dell’approvvigionamento di energia [avrebbe potuto] avere sulla produzione, l’impiego, i prezzi e le bilance dei
pagamenti; - prima del 31 gennaio 1974 la Commissione [avrebbe dovuto] presentare proposte sulle quali il Consiglio [doveva
essere] chiamato a statuire al più tardi il 28 febbraio 1974; - il Consiglio [avrebbe adottato] disposizioni che [avrebbero assicurato]
che tutti gli Stati membri [prendessero], su basi concertate, misure appropriate per restringere il consumo di energia; - per assicurare
la fornitura di energia alla Comunità, il Consiglio [avrebbe adottato] un programma comunitario globale relativo alle fonti di energia
sostituibili, promuovendo una diversificazione negli approvvigionamenti; - [sarebbe stato] nominato un Comitato dell’energia
composto di alti funzionari, responsabile dell’applicazione delle misure di politica energetica” (Ente Nazionale Energia Elettrica,
Relazione del Direttore generale al Consiglio di amministrazione sull’attività dell’ente nel 1973, Roma, 1974, pp. 268-269,
ASENEL).
634
Al vertice danese partecipò anche una delegazione di quattro ministri degli Esteri dei paesi arabi, così come deciso durante la
conferenza araba di Algeri del 27-28 novembre; i rappresentanti politici dell’Algeria, del Sudan, della Tunisia e degli Emirati Arabi
Uniti rivolsero un appello alla Comunità affinché si impegnasse, nell’immediato, a esercitare pressioni nei confronti di Tel Aviv e di
Washington per ottenere il ritiro israeliano immediato e, in futuro, si adoperasse per migliorare le proprie relazioni con il mondo
arabo, avviando una collaborazione anche nei settori economico, tecnico e culturale [cfr. L. V. Ferraris (a cura di), Manuale della
politica estera italiana, 1947-1993, cit., p. 272; L. Riccardi, Il «problema Israele»: diplomazia italiana e PCI di fronte allo Stato
ebraico (1948-1973), cit., p. 457]. Le reazioni in Italia sul vertice di Copenaghen furono alquanto positive anche se si riconobbe che
di fatto non si era pervenuti alla soluzione di alcun problema reale [per approfondimenti si vedano, tra gli altri, I problemi energetici
esaminati a Bruxelles (articolo non firmato), «Il Giornale d’Italia», 17 dicembre 1973; G. Rossi, Sostanziale intesa dei “Nove” alla
Conferenza di Copenaghen, «Il Popolo», 16 dicembre 1973; M. Gilmozzi, La vera prova, ibidem].
635
Telegram n. 1550 from Sir Alec Douglas-Home, Secretary of State for Foreign and Commonwealth Affairs, to United Kingdom
Representative in Brussels, Londra, 17 dicembre 1973, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America,
Europe and the Energy Crisis, 1972-1974, cit., doc. 466.
636
Ibidem.
175
Senza dubbio i diffusi timori di provocare l’irritazione degli Stati Uniti ostacolarono la
definizione di una linea comunitaria alternativa637, ma anche il tentativo di persuadere i francesi
affinché la proposta di Kissinger per un Energy Action Group venisse ufficialmente accettata dai
Nove non ottenne risultati concreti638. Ciononostante, secondo quanto riportato dall’ambasciatore
britannico a Parigi, Sir Edward Tomkins, i francesi non avevano ancora del tutto abbandonato
l’idea di accogliere la proposta statunitense di cui però contestavano alcuni aspetti:
“On the development of new energy resources, they believe[d] that a high level world wide
group of energy users could make a valuable contribution, but they [saw] some difficulty in
associating the producers in work which [was] designed to bring nearer the day when the
consumers are no longer dependent upon them. On the other hand they believe[d] that a highlevel group would provide a useful forum for a general discussions with the producers on issues
whether it would be appropriate to try to regulate detailed arrangements with the producers at this
level. This they believe[d] would be more appropriate to more limited groupings such as the
Community”639.
La decisione di Parigi venne pertanto rimandata al nuovo anno mentre si rimaneva in
attesa di una reazione ufficiale da parte degli Stati Uniti. Il 9 gennaio '74 Nixon prese l’iniziativa
invitando i ministri degli Esteri dei paesi occidentali a prendere parte a un incontro fra le
principali nazioni consumatrici:
“Le nazioni del modo si trova[vano] di fronte ad una scelta fondamentale che [poteva]
profondamente influenzare la struttura delle relazioni politiche ed economiche per il resto di
637
Ciononostante, nel rispetto delle scadenze fissate alla conferenza di Copenaghen, la Commissione europea agli inizi di gennaio
aveva sottoposto al Consiglio sei proposte di politica energetica che investivano due ordini di problemi: la necessità del concerto fra i
paesi membri sia per quanto riguardava i provvedimenti da adottare per fronteggiare la crisi che per le restrizioni al consumo di
energia. Inoltre, in un secondo momento la Commissione aveva presentato altre due proposte riguardanti rispettivamente la
costituzione di riserve di combustibili presso le centrali elettriche e l’adozione di un programma per favorire l’utilizzo dell’energia
nucleare (per approfondimenti si veda Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazione del Direttore generale al Consiglio di
amministrazione sull’attività dell’ente nel 1973, Roma, 1974, p. 270, ASENEL). La Commissione europea insisteva dunque sulla
necessità di una concertazione a livello comunitario allo scopo di aumentare la potenza nucleare e quindi la disponibilità di energia in
Europa. Si pensò anche all’apertura effettiva dei mercati dei componenti delle centrali nucleari oltre che all’elaborazione di misure
relative alla concessione di crediti all’esportazione a favore dell’industria nucleare dei Nove e alla copertura del rischio derivante dal
funzionamento delle centrali nucleari. Sulla questione dell’approvvigionamento di combustibile nucleare si riteneva inoltre
necessario adottare misure per rendere sufficiente e regolare il rifornimento di uranio. Nello stesso settore, infine, la Commissione
europea, dopo aver terminato le relative indagini, aveva proposto al Consiglio di concedere lo status di “impresa comune” ai sensi del
trattato dell’EURATOM alla società Hochtemperatur-Kernkraftwerk (HRG) che aveva per oggetto la costruzione e l’esercizio di una
centrale nucleare da trecento megawatt nel Land tedesco Nordhein-Westfalen. Si trattava della prima centrale europea con reattore a
alta temperatura raffreddato a gas (HTGCR) che rivestiva una notevole importanza per lo sviluppo dell’industria nucleare della
Comunità (cfr. ibidem, pp. 276-277).
638
Sui rapporti franco-americani si veda, tra gli altri, G. H. Soutou, Le président Pompidou et les relations entre les Etats-Unis et
l’Europe, in «Journal of European Integration History»,vol. 6, n. 2, 2000, pp. 111-145.
639
Telegram n. 1768 from Sir Edward Tomkins, British Ambassador in France, to the Foreign and Commonwealth Office, Parigi, 21
dicembre 1973, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America, Europe and the Energy Crisis, 1972-1974,
cit., doc. 483.
176
questo secolo. Oggi la situazione dell’energia minaccia[va] di scatenare forze politiche ed
economiche che [avrebbero potuto] causare grave ed irreparabile danno alla prosperità ed alla
stabilità del mondo. Due strade [erano] aperte dinnanzi a noi. [Potremmo] andare ognuno per la
propria strada, con la prospettiva di una divisione progressiva, di una erosione di vitali rapporti di
interdipendenza, e di crescente conflittualità politica ed economica; oppure [potremmo] lavorare
di concerto sviluppando illuminate forme di unità e cooperazione, per il beneficio di tutta
l’umanità: sia per i paesi produttori che per quelli consumatori. [Era] con queste considerazioni
[…] che chiesi al segretario di Stato Kissinger di proporre […] l’istituzione di un Gruppo di
Azione Energetica, e di sollecitare un programma di azione concertato tra consumatori e
produttori per far fronte ai fabbisogni mondiali di energia in una maniera che potesse soddisfare i
legittimi interessi sia dei consumatori che dei produttori”640.
Secondo i propositi del presidente americano, il vertice641 doveva servire a fare il punto
della situazione in funzione dell’istituzionalizzazione di un gruppo di lavoro formato dai paesi
consumatori allo scopo di formulare un programma di azione comune. Il fine del nuovo
organismo sarebbe stato duplice: da una parte, migliorare la cooperazione internazionale per
fronteggiare l’esplosiva crescita della domanda globale di energia e per accelerare lo sviluppo
coordinato di nuove fonti energetiche; dall’altra, sviluppare una posizione concertata dei paesi
consumatori per avviare una nuova era nei rapporti con i produttori di petrolio. Proprio in virtù di
questo secondo obiettivo Nixon aveva inviato una lettera analoga anche ai capi di governo dei
paesi OPEC illustrando gli intenti della conferenza dei consumatori642. Le reazioni del mondo
occidentale alla proposta americana non tardarono a giungere. Nello stesso giorno dell’invito e
ancor prima di conoscerne il contenuto, la Commissione europea inviò una comunicazione al
Consiglio nella quale esortava i governi dei Nove a avviare una fattiva collaborazione con gli
Stati Uniti nel settore energetico643. In linea generale le risposte ufficiali alla proposta di Nixon
furono positive. Il ministro degli Esteri belga, Renaat Van Elslande, ad esempio, scrisse al
segretario generale della Commissione delle Comunità europee, Emile Noël, definendo di
importanza capitale sia la partecipazione dei Nove alla conferenza che la collaborazione con gli
USA644. Risposte simili, anche se ancora non ufficiali, pervennero fin da subito da tutti i paesi
640
Lettera del Presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, al Presidente del Consiglio, Mariano Rumor, Washington, 9 gennaio
1974, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 6, MAE, Sottoserie Visite e questioni diverse, Busta 36.
641
L’incontro proposto dal presidente americano era previsto si tenesse a Washington a partire dall’11 febbraio.
642
Per il testo della lettera inviata da Nixon ai capi di governo dei paesi OPEC si veda Texte d’une lettre du Président Nixon aux chef
d’état et de gouvernement des pays membres de l’Organisation des Pays Exportateurs du Pétrole, Washington, 9 gennaio 1974,
CHAN, Archives présidentielles, Fondo Georges Pompidou, 5 AG 2, c. 115.
643
Cfr. Coopération avec les Etats-Unis dans le domaine de l’énergie, Communication de la Commission au Conseil, Commission
des Communautés Européennes, Bruxelles, 9 gennaio 1974, HAEU, Fondo Emile Noël, n. 455.
644
Cfr. Lettre de M. Van Elslande, Ministre belge des Affaires Etrangères, a Emile Noël, secrétaire général de la Commission des
Communautés européennes, Bruxelles, 10 gennaio 1974, ibidem.
177
interessati con la sola eccezione della Francia che decise di prendere tempo. Secondo quanto
riferito all’ambasciatore britannico a Parigi, in seguito a un colloquio con Michel Fresche,
Consigliere tecnico del Segretariato generale del presidente francese, il titolare dell’Eliseo
riteneva assolutamente necessaria una concertazione fra i Nove sulla proposta americana; a suo
avviso l’Energy Action Group avrebbe creato un pericoloso fronte degli Stati consumatori ricchi
in netta contrapposizione all’OPEC, mentre sarebbe stata più opportuna una semplice riunione
ministeriale a cui partecipassero anche i paesi in via di sviluppo:
“The French government would be shocked if any replies were made before proper
concertation in the Community. […] The meeting would look like a front of rich consumers
preparing a confrontation. Technical ministers would be more appropriate than ministers of
Foreign Affaires who would make it look «political» and who in any case would not be
competent to discuss the principal issues – prices and alternative sources. The main developing
consumer countries […] should also be represented”645.
Le perplessità francesi, confermate da Jean-Pierre Brunet, direttore degli Affari
Economici e Finanziari del Quai d’Orsay, vertevano principalmente su due questioni. Dal punto
di vista procedurale, Parigi ammoniva i partner sui rischi di una risposta in ordine sparso che
avrebbe denotato la mancanza di una politica comune. Sotto il profilo politico, i dubbi
riguardavano invece il pericolo di accentuare i contrasti con il fronte dei produttori in uno
scenario di crescenti tensioni che avrebbero danneggiato le relazioni della Francia con i paesi
arabi646. A complicare la situazione giunsero le dichiarazioni rilasciate dal segretario di Stato
americano durante una conferenza stampa tenuta a Washington alla presenza di William Simon,
capo del Federal Energy Office: a una domanda dei giornalisti presenti Kissinger confermò
quanto dichiarato pubblicamente da James Schlesinger, segretario alla Difesa, circa la possibilità
di ricorrere all’uso della forza nei confronti dei paesi arabi qualora la pressione esercitata contro
gli Stati Uniti fosse divenuta eccessiva647. L’affermazione ebbe un’eco molto forte su tutti gli
organi di informazione francesi influendo negativamente sulle scelte del Quai d’Orsay. In un
incontro con l’ambasciatore britannico il ministro degli Esteri francese, Michel Jobert, ribadì
645
Telegram n. 39 from Sir Edward Tomkins, British Ambassador in France, to the Foreign and Commonwealth Office, Parigi, 10
gennaio 1974, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America, Europe and the Energy Crisis, 1972-1974, cit.,
doc. 499.
646
Cfr. Telegram n. 40 from Sir Edward Tomkins, British Ambassador in France, to the Foreign and Commonwealth Office, Parigi,
11 gennaio 1974, ibidem, doc. 501.
647
Cfr. Télégramme de l'Ambassade de France à Washington au Ministère des Affaires Étrangères, Washington, 11 gennaio 1974,
MAEF, Archives Diplomatiques, Affaires économiques et financières, Affaires générales, 1967-1975, 264. In Italia la notizia venne
riportata dal quotidiano del partito socialista: Minacce americane ai paesi produttori (articolo non firmato), «Avanti», 8 gennaio
1974.
178
infatti tutte le perplessità e le obiezioni già espresse in altre sedi rifiutandosi di dare fin da subito
una risposta definitiva all’invito statunitense in quanto, almeno per il momento, essa sarebbe
stata certamente negativa. Anche se le parole di Jobert lasciavano trasparire un qualche margine
di trattativa il rappresentante diplomatico inglese ricavò l’impressione che difficilmente la
Francia avrebbe cambiato parere648.
Il Quai d’Orsay, dal canto suo, in occasione della riunione del gennaio '74 del Comitato
Politico della CEE, formato dai Direttori Generali degli Affari Politici dei nove Ministeri degli
Esteri, aveva presentato la sua proposta alternativa. Si trattava di dare inizio al cosiddetto dialogo
euro-arabo649 secondo quanto già sollecitato dai ministri degli Esteri algerino, sudanese e
tunisino e dal ministro di Stato degli Emirati Arabi Uniti durante il vertice di Copenaghen e in
esecuzione a quanto concordato alla precedente conferenza araba di Algeri. In base all’opinione
del rappresentante francese i tempi erano maturi per sviluppare un dialogo, centrato
essenzialmente sulla cooperazione economica, che prevedesse tappe graduali a partire da un
sondaggio della presidenza della Commissione presso i paesi interessati, dall’istituzione di
commissioni miste euro-arabe a livello di funzionari per elaborare progetti di cooperazione nei
vari settori e arrivando fino alla realizzazione di una conferenza dei ministri degli Esteri di tutte
le parti in causa650. Prima ancora che la proposta francese fosse oggetto dei necessari
approfondimenti in sede comunitaria, il direttore generale degli Affari Politici del Ministero
degli Esteri decise di illustrare fin da subito a Moro i cardini a cui avrebbe dovuto ispirarsi la
condotta italiana. Ducci avvertì innanzitutto il leader democristiano sulle forti ripercussioni che il
dialogo euro-arabo poteva generare nel quadro della distensione. Ciò doveva indurre a una certa
circospezione dato che la situazione internazionale, già messa duramente alla prova dagli eventi
bellici e dalle decisione dell’OPEC, rischiava un ulteriore deterioramento:
648
Cfr. Telegram n. 44 from Sir Edward Tomkins, British Ambassador in France, to the Foreign and Commonwealth Office, Parigi,
12 gennaio 1974, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America, Europe and the Energy Crisis, 1972-1974,
cit., doc. 505.
649
Per uno studio sugli inizi del dialogo euro-arabo si vedano, tra gli altri, D. Allen, The Euro-Arab Dialogue, in «Journal of
Common Market Studies», n. 4, 1977, pp. 323-342; S. A. Al-Mani’, S. Al-Shaikhly, The Euro-Arab dialogue: a study in associative
diplomacy, London, 1983; B. B. Ghali, Il dialogo euroarabo: difficoltà e soluzioni, in A. Zevi (a cura di), Europa Mediterraneo:
quale cooperazione, Bologna, 1975, pp. 33-38; S. A. S. Hallaba, Euro-Arab dialogue, Brattleboro, 1984; H. A. Jawad, Euro-Arab
relations: a study in collective diplomacy, Ithaca, 1992.
650
Per un approfondimento sulla tesi della naturale propensione dell’Europa occidentale a dialogare con i paesi della sponda
meridionale del Mediterraneo si rimanda a G. Garavini, Il confronto Nord-Sud allo specchio: l’impatto del Terzo mondo sull’Europa
occidentale (1968-1975), in A. Varsori (a cura di), Alle origini del presente: l'Europa occidentale nella crisi degli anni Settanta, cit.,
pp. 67-95.
179
“Prima di tutto vi [era] il problema dell’opportunità di questo dialogo […] [che] già [dal]
primo approccio [aveva dimostrato] l’esigenza di [essere] affronta[to] con tutte le debite cautele
651
e, in particolare, avendo presente le esigenze poste dagli equilibri Est-Ovest”
.
In secondo luogo il direttore generale del MAE mise in rilievo la possibilità di un legame
diretto fra l’iniziativa francese e gli interessi mediterranei dell’Italia in vista dello sviluppo di
una strategia che sovrapponesse i due piani:
“D’altra parte sembra[va] altrettanto evidente che lo sviluppo di un tale dialogo, purché
correttamente impostato, rientra[va] nella logica mediterranea cui si [era] sempre ispirata la nostra
politica europea e che adesso non conveni[va] sottrarvisi”652.
Per Ducci, inoltre, era da considerarsi estremamente positiva l’idea di allargare il dialogo
a tutti gli Stati della Lega araba per evitare sensazioni di isolamento da parte degli esclusi e rischi
di nuove ritorsioni; anche perché in questo modo sarebbe ricaduta sui destinatari la responsabilità
della scelta:
“[Appariva] anche valida la premessa che l’iniziativa europea [dovesse] rivolgersi a tutti i
paesi arabi (cioè i membri della Lega araba), poiché non sarebbe [stato] il caso per i Nove
compiere discriminazioni. Naturalmente non si [poteva] escludere che alcuni paesi arabi
[decidessero] di non raccogliere l’offerta europea”653.
Gli orientamenti di Ducci prevedevano inoltre una cooperazione non limitata alle
questioni economiche ma anche in grado di abbracciare aspetti politici delicati, quale quello
della sicurezza. Il tema era particolarmente avvertito dai paesi mediterranei più a ovest del nordAfrica ma anche dall’Italia intimorita dalla presenza della flotta sovietica nel Mediterraneo. Per
questo motivo la questione della sicurezza, così come altri temi, andava affrontata coinvolgendo
nel dialogo tutti i governi interessati sia direttamente che indirettamente. Il riferimento implicito
riguardava le due superpotenze che non potevano essere escluse da decisioni così importanti. Più
spinoso appariva il caso di Israele data la composizione dei paesi destinatari dell’iniziativa
francese; era ovviamente impossibile coinvolgere lo Stato ebraico nelle discussioni con gli arabi
651
Appunto del direttore generale degli Affari Politici del MAE, Roberto Ducci, per il ministro Moro, Roma, 13 gennaio 1974, ACS,
Carte Aldo Moro, Serie 6, MAE, Sottoserie Visite e questioni diverse, Busta 31.
652
Ibidem.
653
Ibidem.
180
e, secondo Ducci, anche la proposta olandese di un doppio dialogo, uno euro-arabo e l’altro
euro-israeliano, avrebbe compromesso la riuscita del primo:
“Sembra[va] anche inevitabile che la trattativa con gli arabi [potesse investire], almeno in
partenza, un fronte ampio, che [comprendesse] tutto l’arco degli interessi economici che l’Europa
[aveva] in comune con i paesi arabi. […] C’[era] anche da domandarsi se il dialogo con gli arabi
[dovesse] riferirsi esclusivamente alla sia pur vasta tematica della cooperazione economica, o se
[convenisse] allargarlo a problemi più propriamente politici, come quelli inerenti alla connessione
fra sicurezza in Europa e sicurezza nel Mediterraneo, cui particolarmente i paesi magrebini
[erano] sempre stati sensibili. […] In ogni caso, anche con riguardo alla cooperazione economica,
[sembrava essere] opportuno muovere dal principio che, mentre il dialogo dei Nove con i paesi
arabi [era] giustificato ed anzi opportuno data l’esistenza di una evidente complementarietà e di
interessi comuni, non per questo gli arabi [potevano] essere considerati interlocutori esclusivi
dell’Europa sui temi trattati. Basti pensare a quello dell’energia, che evidentemente i Nove
[dovevano] sentirsi pienamente liberi di trattare anche con altri. Inoltre [era] evidente che il
negoziato con gli arabi sulla cooperazione economica non [dovesse] precludere eventuali
analoghe iniziative nei confronti di altri paesi o gruppi di paesi nei confronti dei quali i Nove
[avevano] interessi importanti da coltivare e anche suscettibilità di cui [dovevano] tenere conto.
[…] Tuttavia non [appariva] realistico spingere lo scrupolo di riequilibrare una iniziativa nei
confronti degli arabi fino al punto di volerla aperta anche ad Israele, ovvero di contrapporvene
una di carattere analogo nei confronti dello Stato ebraico. Una impostazione del genere, cui
[sembravano] pensare gli olandesi, [avrebbe pregiudicato] ogni possibilità di successo del
negoziato euro-arabo e non si [sarebbe giustificata], sia in ragione del diverso stadio di sviluppo
che distingue[va] l’economia israeliana da quella del mondo arabo, sia perché [era] in atto da
tempo un rapporto diretto fra la Comunità ed Israele, che non [sarebbe stato] danneggiato, ma
anzi favorito nel suo sviluppo dai progressi che i Nove [avrebbero potuto] registrare nella
cooperazione economica con gli arabi”654.
I suggerimenti di Ducci sembravano nel complesso in linea con gli spazi di manovra
ancora a disposizione dell’Italia all’indomani dello scoppio della crisi energetica, come
dimostrarono gli sforzi della Farnesina di applicare la strategia delineata dal direttore generale
del MAE.
Il 18 gennaio il Gruppo Medio Oriente si riunì a Bonn per discutere la proposta francese.
Sia pure con qualche riserva avanzata da parte olandese e danese, si registrò un generale
654
Ibidem. Per un approfondimento sul rapporto paesi magrebini-sicurezza nel Mediterraneo cfr. I. W. Zartmann, Maghrebi politics
and Mediterranean implications, in Luciani G. (a cura di), The Mediterranean region: economic interdependence and the future of
society, cit., pp. 149-178.
181
consenso sul fatto che l’iniziativa dovesse avere un carattere e un obiettivo politico, sebbene
finalizzata alla cooperazione economica. Senza minimizzare le difficoltà e i rischi che il dialogo
presentava, dalla discussione emerse l’urgenza di migliorare il clima dei rapporti con il mondo
arabo e di restituire ai Nove, se non un’influenza determinante, almeno un minimo margine di
agibilità in un’area strategica655. Così posto il dialogo euro-arabo non sembrava incompatibile
con l’iniziativa statunitense, anche se esisteva una certa interdipendenza tra i due progetti al
punto che la delegazione olandese formulò una riserva generica al piano comunitario nel
tentativo di esercitare una pressione sul Quai d’Orsay per convincerlo a accogliere l’iniziativa di
Nixon. Si convenne inoltre di informare Washington circa i propositi dei Nove provocando però
la prevedibile reazione negativa della Francia.
D’altra parte, la Comunità non poteva appoggiare il progetto senza mettere al corrente gli
Stati Uniti specie dopo che Brandt aveva ufficialmente accettato l’invito di Nixon in qualità di
presidente di turno del Consiglio656. Alla conferenza sull’energia la CEE sarebbe stata
rappresentata dai presidenti in carica del Consiglio e della Commissione ma ogni Stato membro,
secondo quanto stabilito durante la riunione del 15 gennaio, restava libero di rispondere in modo
autonomo all’invito statunitense657. Nello stesso Consiglio dei ministri si era inoltre deciso di
informare i governi dei paesi OPEC circa il fatto che, così come rimarcato nella lettera di
propositi del presidente statunitense, l’accoglimento da parte della Comunità della proposta di
Washington rappresentava “il primo passo per lo sviluppo di nuove relazioni tra produttori e
consumatori per addivenire a vantaggi per tutti”658.
L’Italia, secondo quanto riportato in un appunto del Ministero degli Esteri per Moro, “si
appresta[va] a rispondere favorevolmente all’invito del Presidente Nixon in quanto considera[va]
l’incontro di Washington come una iniziativa suscettibile di favorire un costruttivo dialogo tra
tutti i Paesi interessati ad una sollecita ed equa soluzione del problema petrolifero”659. Il governo
italiano considerava questa riunione come il primo passo verso un dialogo sulle questioni
energetiche da avviare in un quadro internazionale più ampio nell’interesse comune di produttori
e consumatori. Per questo motivo si riteneva di dover dare l’adesione alla proposta di Nixon
rimarcando però le seguenti esigenze:
655
Cfr. Appunto interno del MAE, DGAP, Ufficio IX, Roma, 19 gennaio 1974, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 6, MAE, Sottoserie
Visite e questioni diverse, Busta 31.
656
Cfr. Lettera di risposta del Cancelliere Brandt a nome della Comunità al Presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, Bruxelles,
16 gennaio 1974, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 6, MAE, Sottoserie Visite e questioni diverse, Busta 36.
657
Durante il Consiglio dei ministri del 15 gennaio venne anche richiesto agli Stati Uniti di rivolgere l’invito anche agli altri paesi
membri della Comunità che non avevano ricevuto la lettera di Nixon; si trattava di Belgio, Danimarca, Lussemburgo e Irlanda.
658
Telegram n. 120 from Sir Alec Douglas-Home, Secretary of State for Foreign and Commonwealth Affairs, to United Kingdom
Representative in Washington, Londra, 17 gennaio 1974, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America,
Europe and the Energy Crisis, 1972-1974, cit., doc. 509.
659
Appunto interno del MAE, Roma, 18 gennaio 1974, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 6, MAE, Sottoserie Visite e questioni diverse,
Busta 36.
182
“- la riunione [avrebbe avuto] tanto maggiori possibilità di promuovere un’effettiva
cooperazione internazionale nel settore dell’energia quanta più cura [sarebbe stata] posta
nell’evitare di creare l’impressione che con questa iniziativa si [volesse] dar vita ad un blocco di
Paesi consumatori intenzionato a fronteggiare, su posizione antagoniste, i Paesi produttori: - la
riunione [avrebbe dovuto] costituire un primo passo per avviare, nel foro internazionale che si
[fosse ritenuto] più adatto ed a scadenza il più possibile ravvicinata, un dialogo tra consumatori e
produttori al quale [avrebbero dovuto] partecipare anche i Paesi in via di sviluppo, data la gravità
delle ripercussioni che l’attuale crisi energetica [stava minacciando] di avere sulle loro economie;
- la riunione di Washington non [avrebbe dovuto] interferire con l’iniziativa assunta a
Copenaghen, in occasione del recente Vertice europeo, di un diretto dialogo tra l’Europa ed i
Paesi produttori, specie quelli situati nell’area mediterranea e del vicino Oriente alla quale
l’Europa si [sentiva] legata da tradizionali vincoli storici, culturali, politici ed economici e dalla
quale essa, più di ogni altra zona geografica, dipende[va] in materia di rifornimenti petroliferi”660.
L’Italia aveva particolarmente a cuore la questione degli aiuti ai paesi in via di sviluppo,
fortemente colpiti dalle ripercussioni della crisi e materialmente impossibilitati a dare una
risposta adeguata senza assistenza esterna661. Risultava quindi opportuno, come da più parti
suggerito, inserire anche i PVS nel dialogo fra consumatori e produttori che si sarebbe dovuto
sviluppare all’indomani della riunione di Washington. All’interno del governo era stato proprio
Moro a spingere affinché la CEE svolgesse un ruolo di primo piano nel collegare la cooperazione
con le nazioni arabe alla questione degli aiuti ai paesi in via di sviluppo, anticipando quella che
diventerà una costante nelle relazioni nord-sud662.
660
Ibidem.
D’altronde i PVS avevano dimostrato una forte coesione interna grazie alla costituzione, in ambito ONU, nel cosiddetto “Gruppo
dei 77” al punto che la loro istanza per una redistribuzione della ricchezza era divenuta una delle maggiori cause di tensione nelle
relazioni internazionali. Il Movimento dei non allineati, infatti, presieduto dal '73 dall’Algeria, durante la conferenza di Algeri
(settembre dello stesso anno) si era ufficialmente posto come obiettivo finale la lotta al “neocolonialismo economico”, facendosi al
contempo promotore della convocazione di una sessione speciale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, prevista per l’aprile
successivo, avente per oggetto proprio la questione delle materie prime [sull’argomento si vedano, tra gli altri, J. Bhagwati, The New
International Economic Order: the North-South Debate, Cambridge, 1977; G. Garavini, La Comunità europea e il Nuovo ordine
economico internazionale (1974-1977), in «Ventunesimo Secolo», n. 9, 2006, pp. 115-150; K. P. Sauvant, The Group of 77:
evolution, structure, organization, New York, 1981].
662
Per un approfondimento sulla politica dell’Italia verso i PVS si vedano, tra gli altri, R. Aliboni, Primo rapporto sull’assistenza ai
paesi in via di sviluppo, in «Politica Internazionale», II, 1973, vol. 3, p. 27 e ss.; Id., Il Terzo mondo nel commercio estero dell’Italia,
in «Politica Internazionale», IV, 1975, vol. 3, p. 5 e ss.; Id., Paesi in via di sviluppo e ruolo dell’Italia, in «Politica Internazionale»,
XXXXII, 1978, vol. 5, p. 94 e ss.; E. Calandri, Italy’s Foreign Assistance Policy, 1959-69, in «Contemporary European History», n.
4, 2003, pp. 509-526; Id., L’Italia e l’assistenza allo sviluppo dal neoatlantismo alla Conferenza di Cancun del 1981, in F. Romeo,
A. Varsori (a cura di), Nazione, interdipendenza, integrazione. Le relazioni internazionali dell’Italia (1917-1989), cit., pp. 253-270;
M. Colitti, I rapporti fra l’Italia e i paesi africani, in «Affari Esteri», VI, 1974, vol. 23, p. 93 e ss.; L. V. Ferraris, La politica italiana
di cooperazione allo sviluppo, in L. Tosi (a cura di), L’Italia e le organizzazioni internazionali. Diplomazia multilaterale nel
novecento, cit., pp. 327-340; P. Golino, Il pensiero di Moro sull’Europa e il Mediterraneo, in «Relazioni Internazionali», XXXVI,
1972, vol. 25, p. 608 e ss.; A. Moro (scritti e discorsi), L’azione internazionale dell’Italia, in «Relazioni Internazionali», XXXVIII,
1974, vol. 32-33, pp. 822-828 e vol. 29, pp. 825-829; Ministero degli Affari Esteri (a cura del Servizio per la cooperazione tecnica
con i Paesi in via di sviluppo), Quaderni della cooperazione con i paesi in via di sviluppo (repertorio dei programmi 1972-1975),
Roma, 1976; A. Saba, La politica estera italiana in Medio Oriente, in «Ricerche Storiche», XXV, 1995, vol. 2, pp. 383-400. Inoltre,
661
183
Appena cinque giorni dopo la redazione dell’appunto del MAE per Moro, il presidente
del Consiglio Rumor inviò una lettera a Nixon confermando formalmente l’adesione italiana
all’iniziativa statunitense. L’Italia sarebbe stata rappresentata da Moro ma nella missiva il capo
dell’esecutivo ci tenne a precisare la necessità di inserire nelle discussioni anche il tema dello
sviluppo di nuove fonti energetiche. Secondo Rumor occorreva che i paesi interessati si
adoperassero per cooperare al fine di soddisfare la crescente richiesta mondiale di energia. In
questo modo sarebbe stato possibile avviare un tipo di collaborazione con i paesi arabi che
includesse uno scambio tra petrolio e energia, compresa quella prodotta da fonti alternative non
ancora in opera:
“I temi che la Conferenza [avrebbe dovuto] dibattere [andavano] al di là del petrolio. [Rumor
concordava infatti con Nixon] sulla opportunità che si [affrontasse], attraverso uno sforzo
collettivo e coordinato, il problema dello sviluppo delle nuovi fonti per soddisfare la costante
crescita della domanda globale di energia. [Era] un compito questo che [poteva] essere assolto
costruttivamente soltanto attraverso un impegno multilaterale che pote[va] mobilitare la capacità
ed il contributo di tutti i paesi interessati. [Il presidente del Consiglio riteneva] che su questa base
[fosse] realistico offrire oggi ai paesi produttori la possibilità di uno storico scambio: energia
attuale contro energia futura, in una più vasta ed organica prospettiva di collaborazione, che
abbracci[asse] tutti i vari fattori del processo di sviluppo economico”663.
Nel quadro della collaborazione europea, dopo aver risposto positivamente all’invito
statunitense, gli sforzi si indirizzarono invece alla ricerca di una posizione unica da presentare
la stessa Comunità europea aveva da sempre posto attenzione alle difficoltà dei paesi in via di sviluppo: allegata al proprio Trattato
istitutivo, la CEE infatti aveva siglato la Convenzione di applicazione relativa all’Associazione dei Paesi e territori d’oltremare della
Comunità. L’intento era quello di definire con urgenza una posizione comune di fronte a questo particolare e importante aspetto della
politica dei Sei verso i PVS e quindi di promuovere lo sviluppo economico e sociale di questi ultimi, nonché di instaurare strette
relazioni economiche tra essi e la Comunità nel suo insieme (cfr. art. 131 del Trattato istitutivo della CEE). Nel corso del '61, tra
l’altro, la questione si ripropose in concomitanza della scadenza della suddetta Convenzione allegata al Trattato istitutivo della CEE e
si redasse un Rapporto dal titolo “La politica della C.E.E. verso i Paesi in via di sviluppo”. Esso venne preparato e approvato da un
Comitato di esperti presieduto da Emilio Colombo, ministro dell’Industria, Commercio e Artigianato del III° governo Fanfani (per il
testo del suddetto Rapporto si veda l’allegato alla Lettera del dott. Achille Albonetti, direttore per gli Affari Internazionali e Studi
Economici e direttore centrale delle Relazioni Estere del CNEN, all’on. Dott. Giovanni Francesco Malagodi, segretario generale del
Partito Liberale Italiana, Roma, 11 agosto 1961, Archivio Fondazione Luigi Einaudi, Carte Malagodi, Serie III, Partito Liberale
Italiano, Sottoserie 11, Nominativi I, Busta 139, fasc. 796, “Comitato Nazionale Energia Nucleare”, 1961-1968). Per uno studio sugli
aiuti ai PVS si vedano, tra gli altri, H. I. Schmidt, H. Pharo, Europe and the First Development Decade. The Foreign Economic
Assistance Policy of European Donor Countries, 1958-1972, in «Contemporary European History», n. 4, 2003; L. Tosi, L. Tosone (a
cura di), Gli aiuti allo sviluppo nelle relazioni internazionali del secondo dopoguerra. Esperienze a confronto, Padova, 2006; R. E.
Wood, From Marshall Plan to Debt Crisis: Foreign Aid and Development Choices in the World Economy, Berkeley, 1986. Si veda
anche L. Grazi, Le relazioni euro-africane prima di Yaoundé. Contributo e posizione del Gruppo socialista al Parlamento europeo
(1958-1963), in A. Bitumi, G. D’Ottavio, G. Laschi (a cura di), La Comunità europea e le relazioni esterne, 1957-1992, cit., pp. 149171.
663
Lettera del Presidente del Consiglio, Mariano Rumor, al Presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, Roma, 23 gennaio 1974,
ACS, Carte Aldo Moro, Serie 6, MAE, Sottoserie Visite e questioni diverse, Busta 36.
184
alla conferenza di Washington664. Nel frattempo la Francia rimandava una decisione ufficiale,
probabilmente in attesa che iniziassero i preparativi del vertice per conoscere meglio i propositi
statunitensi. Il 21 gennaio Jobert informò il presidente di turno del Consiglio delle Comunità
europee, Walter Scheel, di aver invitato il segretario generale delle Nazioni Unite a convocare
d’urgenza una conferenza mondiale sull’energia con il compito di:
“- faire le point des incidences de la situation actuelle en matière d’approvisionnement
énergétique sur le développement des États et d’étudier les mesures propres à remédier aux
difficultés qu’elle peut susciter; - arrêter les principes généraux de la coopération entre
producteurs et consommateurs d’énergie permettre d’assurer la satisfaction des besoins mondiaux
dans des conditions raisonnables et équitables pour tous les pays”665.
La richiesta sottoposta a Kurt Waldheim aveva tutte le sembianze di un netto rifiuto dei
progetti di Washington; inoltre, anticipando le possibili critiche, Jobert specificò che l’eventuale
vertice mondiale sotto gli auspici delle Nazioni Unite non era da considerarsi un’alternativa al
dialogo euro-arabo. In occasione della riunione del 24 gennaio del Gruppo di esperti della
cooperazione politica, i rappresentanti d’oltralpe presentarono in merito una nuova proposta che
prevedeva la possibilità di ampliare la collaborazione con i paesi arabi ai settori non rientranti in
quello specificatamente economico come previsto inizialmente. L’idea, definita “approche
globale”, non fu però gradita dalla delegazione britannica che mirava a un’azione esclusivamente
di tipo politico mediante la preparazione di una conferenza dei ministri degli Affari Esteri.
Entrambi i progetti vennero rigettati dalla maggioranza delle delegazioni che si espressero, da un
lato, in favore di una soluzione rapida difficilmente raggiungibile con la proposta di Parigi e,
dall’altro, in senso nettamente contrario all’iniziativa di Londra666.
Al di là delle divergenze, lo stallo registrato a Bonn era soprattutto il frutto
dell’approssimarsi della conferenza di Washington che rappresentava di fatto il primo vero
banco di prova della cooperazione internazionale dopo la crisi petrolifera. Anche in questo caso i
dissensi già manifestatisi fra i Nove finirono per riemergere in occasione della riunione del
Comitato dei rappresentanti permanenti del 30 gennaio. Dalla discussione scaturirono tre diversi
orientamenti di fondo: il primo era rappresentato da coloro che erano tendenzialmente favorevoli
664
Cfr. Projet de proposition de la Commission sur une position communautaire à prendre lors de la conférence de Washington le
11 février 1974, Projet de communication de la Commission au Conseil, Commission des Communautés Européennes, Bruxelles, 18
gennaio 1978, HAEU, Fondo Emile Noël, n. 454.
665
Lettre de M. Michel Jobert, Ministre des Affaires Etrangères de la France, a Walter Scheel, Président du Conseil des
Communautés Européennes, Parigi, 21 gennaio 1974, HAEU, Fondo European Commission, BAC 25/1980, 1023.
666
Cfr. Note du Secrétaire Général adjoint de la Commission des Communautés Européennes, Klaus Meyer, pour le Président,
François-Xavier Ortoli, Bruxelles, 28 gennaio 1974, HAEU, Fondo Klaus Meyer, n. 39.
185
al vertice sull’energia (ne facevano parte la Gran Bretagna, la Germania, l’Olanda e l’Italia); nel
secondo prevaleva l’intenzione di partecipare alla conferenza ma a condizione che vi fosse un
approccio unitario della Comunità (la pensavano in questo modo il Belgio, la Danimarca e
l’Irlanda); l’ultimo, infine, era sostenuto solo dalla Francia desiderosa di limitare nel tempo e
negli scopi la riunione di Washington667.
Da parte statunitense, vennero intanto comunicati alcuni dettagli importanti sulla
conferenza: innanzitutto i nominativi dei rappresentanti designati (il segretario di Stato Henry
Kissinger, il segretario del Tesoro George P. Shultz, il capo del Federal Energy Office William
Simon, il direttore dell’Atomic Energy Commisson Dixie Lee Ray e il sottosegretario di Stato
William H. Donaldson); la data del vertice preparatorio fissata a Washington per l’8 febbraio;
l’ordine del giorno ufficiale che prevedeva la suddivisione della conferenza in base a due
tematiche principali: la situazione energetica e le iniziative comuni. Per queste ultime erano
contemplate due aree principali di azione per i paesi consumatori: la prima includeva l’aumento
dell’approvvigionamento, la riduzione della domanda di energia, la sua conservazione, lo
sviluppo di fonti alternative, la diversificazione della distribuzione e la cooperazione nella
ricerca e nello sviluppo; la seconda concerneva invece la realizzazione di politiche economiche e
monetarie concertate. Ovviamente si sarebbero potuti affrontare anche altri temi, come ad
esempio la questione degli aiuti ai paesi in via di sviluppo colpiti dalla crisi petrolifera, ma essi
dovevano essere considerati di contorno rispetto alla scaletta stabilita. Inoltre, nelle aspettative di
Washington la conferenza avrebbe dovuto costituire il punto di partenza per la creazione
dell’Energy Action Group, fortemente voluto da Kissinger ma verso il quale erano già state
espresse diverse riserve668.
Così presentato il vertice sull’energia suscitò molte perplessità. A Bonn, ad esempio, si
ritenne che la complessità delle questioni in gioco richiedesse una preparazione più esaustiva669.
Un certo pessimismo venne espresso anche dal ministro degli Esteri britannico, Douglas-
667
Cfr. Telegram n. 571 from Sir Michael Palliser, British Permanent Representative to EC, to the Foreign and Commonwealth
Office, Bruxelles, 31 gennaio 1974, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America, Europe and the Energy
Crisis, 1972-1974, cit., doc. 524. Sul fronte interno alla Comunità, il Consiglio dei ministri aveva invece adottato il 30 gennaio il
regolamento n. 293/74 concernente le informazioni per la redazione di bilanci energetici esaurienti sulla base del quale gli Stati
membri dovevano comunicare trimestralmente alla Commissione i seguenti dati: la produzione di petrolio greggio, le importazioni e
le esportazioni di prodotti raffinati con i paesi terzi e i paesi comunitari, la situazione delle scorte; la produzione, le esportazioni e gli
scambi relativi al gas naturale; la produzione di energia elettrica, gli scambi di quest’ultima tra gli Stati membri e quelli terzi, le
scorte di combustibili fossili e liquidi presso le centrali termiche. Ciò rappresentava un passo in avanti per avere un quadro generale
sulla situazione energetica comunitaria del momento e per poter programmare una reale politica dei Nove nel settore (cfr.
Regolamento CEE del Consiglio dei ministri n. 293/74 del 30 gennaio 1974).
668
Cfr. Letter from Stephen Egerton, Head of Energy Department of the Foreign and Commonwealth Office to G. Campbell,
Secretary of State for Scotland, Londra, 1 febbraio 1974, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America,
Europe and the Energy Crisis, 1972-1974, cit., doc. 527.
669
Cfr. Telegram n. 184 from Reginald Hibbert, British Minister in Bonn, to the Foreign and Commonwealth Office, Bonn, 1
febbraio 1974, ibidem, doc. 528.
186
Home670, anche se, come prevedibile, le critiche più accese giunsero da Parigi. Secondo il Quai
d’Orsay la conferenza di Washington non era il luogo appropriato per trattare questioni
economiche e monetarie di competenza di altre istituzioni internazionali come l’OCSE e il
Fondo monetario internazionale, senza considerare il fatto che la partecipazione dei soli paesi
consumatori più industrializzati impediva la definizione di una strategia che coinvolgesse nazioni
assenti. Ma come emergeva con chiarezza nella proposta avanzata ufficialmente in sede
comunitaria, la preoccupazione principale di Parigi risiedeva nel mantenere la libertà di manovra
dei Nove nei confronti degli Stati Uniti:
“[…] en ce qui concerne les relations avec les pays producteurs la Communauté [devait]
affirmer le principe de l’autonomie de son actions et de la liberté de négociation de chacune des
grandes entités consommatrices, afin de tenir compte du changement intervenu dans les relations
entre pays consommateurs et pays producteurs et des intérêt mutuel de toutes les parties. La
Communauté [devait] préserver sa liberté de conclure des accords d’approvisionnement et de
coopération avec les pays producteurs”671.
Di fronte a un ventaglio così ampio di reazioni divenne quasi inevitabile accontentarsi di
un vago compromesso che provava a definire in senso unitario gli obiettivi dei Nove. Il punto di
partenza era rappresentato dalla ricerca di forme di dialogo per dare vita a una fattiva
collaborazione internazionale fra produttori e consumatori. Bisognava inoltre evitare che si
presentassero occasioni di scontro tra le parti in causa e occorreva porre un’attenzione particolare
ai paesi in via di sviluppo:
“Viser à explorer les meilleures formes de dialogue permettant d’associer au niveau
international toutes les catégories de consommateurs ainsi que de pays producteurs ; éviter tout
confrontation entre certains pays consommateurs d’une part, et le pays producteurs, d’autre part ;
accorder une attention particulier aux pays en voie de développement”672.
I rappresentanti europei avrebbero anche esposto, al pari dei colleghi statunitensi,
un’analisi sulla situazione energetica del momento, sulle ripercussioni sugli equilibri economici
670
Cfr. Telegram n. 269 from Sir Alec Douglas-Home, Secretary of State for Foreign and Commonwealth Affairs, to British Embassy
in Washington, Londra, 3 febbraio 1974, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America, Europe and the
Energy Crisis, 1972-1974, cit., doc. 531.
671
Position communautaire à prendre lors de la Conférence sur l’énergie de Washington, Proposition française, Note du Secrétariat
Général du Conseil à l’attention de M. le Président du Conseil, Commission des Communautés Européennes, Bruxelles, 4 febbraio
1974, HAEU, Fondo Emile Noël, n. 456.
672
Telegram n. 691 from Sir Michael Palliser, British Permanent Representative to EC, to the Foreign and Commonwealth Office,
Bruxelles, 5 febbraio 1974, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America, Europe and the Energy Crisis,
1972-1974, cit., doc. 535.
187
mondiali e, in forza delle perplessità espresse da alcuni membri, avrebbero ufficialmente
dichiarato i limiti della conferenza stessa. Innanzitutto la riunione di Washington, a causa della
composizione prevista e per via della sua brevità, non poteva portare a soluzioni concrete; essa,
inoltre, non poteva essere trasformata in un organismo permanente tale da sostituirsi alle
istituzioni internazionali già esistenti e da trattare compiti riservati esclusivamente a esse. La
Comunità europea avrebbe infine dovuto mantenere piena autonomia decisionale sia nel settore
della programmazione energetica che per quanto concerneva la questione dei rapporti con i paesi
produttori:
“[…] que la Conférence de Washington ne [pouvait] pas résoudre les questions concrètes
relevant du domaine de la coopération internationale dans le domaine de l’énergie, d’une part
parce qu’elle [aurait été] brève et, d’autre part, parce que les interlocuteurs nécessaires pour
aborder certains sujets [auraient été] absents ; que la Conférence de Washington ne [pouvait],
surtout dans sa composition actuelle, être transformée en organisme permanent et ne [devait] pas
conduire à institutionnaliser un nouveau cadre de coopération internationale réservé aux pays les
plus industrialisés et se substituant pour partie à des organisations internationales possédant déjà
une grande expérience, comme l’O.C.D.E. et le F.M.I. ; que la Communauté, conformément aux
dispositions arrêtées à Copenhague, [devait] conserver son entière liberté pour décider de la
forme que [devait] revêtir une politique communautaire en matière d’énergie et ses rapports avec
les pays producteurs. La Communauté [était] désireuse d’établir des procédures souples de
consultation avec les participants à la conférence et avec les autres pays consommateurs”673.
Nel complesso due preoccupazioni apparivano prevalenti in ambito comunitario: in primo
luogo quella di evitare il deterioramento delle relazioni economiche internazionali e,
secondariamente, quella di non indebolire il ruolo degli organismi multilaterali:
“Permettre l’examen des méthodes les plus appropriées et du calendrier pour faire participer
les pays en voie de développement consommateurs d’énergie et le pays producteurs dont le
dialogue devrait d’ailleurs s’établir avant le 1er avril 1974. Il y aura lieu an outre d’examiner
l’opportunité de réunir une conférence mondiale et d’étudier des modalités susceptibles de
permettre d’aboutir dans une telle conférence à des résultats rapides ; donner aux travaux en cours
dans le différentes organisations internationales de nouvelles impulsions correspondant à la
situation actuelle et en même temps examiner comment associer à ces travaux des groupes de
pays qui n’y participent pas pour le moment : cela vaut notamment pour les travaux de l’OCDE et
du FMI ; de renforcer les bases d’une coopération entre pays industrialisés dans les domaines qui
673
Ibidem.
188
concernent le plus ces pays par exemple, la recherche et la technologie sans exclure une
participation d’autres pays intéressés. Il conviendra d’avoir recours, à cet effet et selon des
critères d’efficacité, aux action au sein d’organismes tels que l’OCDE ; examiner les possibilités
de constituer à court terme sur certaines questions concrètes des groupes de travail d’une
composition appropriée ; affirmer la volonté : (I) d’éviter que des mesures prises à titre individuel
menacent gravement les relations économiques internationales ; (II) de tenir compte aussi bien
des problèmes spécifiques des pays en voie de développement que ceux des pays producteurs en
renforçant la coopération internationale”674.
L’accordo raggiunto ricalcava sostanzialmente le perplessità manifestate dalla Francia e
dimostrava la volontà dei Nove di mantenere una posizione unitaria nella speranza che le
divergenze di opinione fra Parigi e Washington potessero essere appianate durante la conferenza.
Non si trattava dunque di un atto di accondiscendenza nei confronti della Francia: le obiezioni
mosse da Parigi apparivano agli occhi degli altri rappresentanti europei plausibili se dissociate da
quello che sembrava essere il vero obiettivo francese, cioè la sistematica opposizione a ogni
tentativo di dialogo promosso dagli Stati Uniti.
L’intesa cancellò le ultime riserve di Parigi che il 6 febbraio annunciò la partecipazione
di Jobert al vertice di Washington, non senza ribadire ancora una volta l’ostilità a qualsiasi
ipotesi di creazione di un fronte dei consumatori:
“La participation de notre pays à cette réunion répond[ait], outre à un souci de courtoisie, au
désir de permettre à l’Europe d’affirmer une position commune. Si la France [était] disposée à
participer à un échange de vues sur les différents aspects des problèmes de l’énergie, elle
[n’aurait] donner son adhésion à la mise sur pied d’une organisation des pays industrialisés
consommateurs de pétrole, indépendamment des autre pays consommateurs, notamment des pays
en voie de développement, ainsi que des pays producteurs”675.
La risposta statunitense alla presa di posizione dei Nove non si fece attendere. La
disponibilità a prendere in considerazione le richieste europee di dialogo con i PVS e con i paesi
produttori non bastava a celare una certa irritazione. In particolare, come annotò Kissinger nelle
sue memorie, le voci secondo cui alcuni paesi europei stavano cercando di ottenere dagli arabi
un trattamento preferenziale sconfessando la politica statunitense erano motivo di un crescente
674
Ibidem.
Texte de la communication du gouvernement sur la participation de la France à la Conférence de Washington, lue à l’issue du
Conseil de Ministres par M. Jean-Philippe Legat, Parigi, 5 febbraio 1974, CHAN, Archives présidentielles, Fondo Georges
Pompidou, 5 AG 2, c. 115.
675
189
malcontento676 cui si accompagnava la minaccia verso gli arabi di considerare un ricatto la
mancata cancellazione dell’embargo petrolifero677.
6. La politica filo-araba del governo italiano
Per quanto riguardava l’Italia, in quel frangente la critica situazione energetica spingeva il
governo a valutare tutte le ipotesi compresa quella di avviare dei contatti diretti con i paesi
produttori, pur senza rinunciare alla strada della cooperazione europea e internazionale. In questo
caso l’Italia avrebbe dovuto però in primo luogo vincere la diffidenza dei paesi arabi che
l’avevano relegata fra le nazioni cosiddette “neutrali”. Secondo quanto riportato in un appunto
redatto in occasione della visita in Italia del ministro per il petrolio saudita e del ministro
algerino per l’Energia, ciò appariva un’ingiustizia che non prendeva assolutamente in
considerazione la simpatia sempre mostrata da Roma nei riguardi delle esigenze arabe:
“Una simile classificazione non corrisponde[va] alla realtà e si ispira[va] a valutazioni che
non [tenevano] conto dell’amicizia da noi sempre dimostrata per il mondo arabo né dell’evidente
comprensione delle sue istanze che [avevano] rappresentato una costante della nostra politica
estera”678.
In quest’ottica la visita dei due rappresentanti di paesi produttori costituiva un’occasione
unica per avviare un chiarimento su i rapporti italo-arabi. Secondo il ministro consigliere presso
l’Ambasciata italiana al Cairo, Bruno Aglietti, l’evento offriva al governo italiano sia
“l’opportunità di prospettare ai due emissari arabi forme di cooperazione economica, soprattutto
sottolineando la nostra piena disponibilità ad impegnarsi in tale via; [che] l’opportunità di
mostrare un atteggiamento favorevole alle istanze arabe in relazione al delicato problema della
restituzione dei territori arabi”679.
Nel corso della visita i due ministri incontrarono in un clima di cordialità sia Leone che
Rumor e Moro. In base a quanto riferito all’ambasciatore britannico da Attolico, direttore
generale per i paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente del MAE, il desiderio del governo
676
Cfr. H. A. Kissinger, Anni di crisi, Milano, 1982, p. 692.
Cfr. Telegram n. 478 from Richard A. Sykes, Minister of British Embassy in Washington, to the Foreign and Commonwealth
Office, Washington, 6 febbraio 1974, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America, Europe and the Energy
Crisis, 1972-1974, cit., doc. 537.
678
Appunto interno del MAE, DGAE, Ufficio VII, Roma, 8 gennaio 1974, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 6, MAE, Sottoserie Visite e
questioni diverse, Busta 30.
679
Appunto interno del MAE, DGAP, Ufficio IX, Roma, 9 gennaio 1974, ibidem.
677
190
italiano di migliorare le relazioni con i paesi della sponda meridionale del Mediterraneo non
bastò a appianare le divergenze. In particolare, l’insistenza di Yamani e Abdesselam sulla
richiesta di sostenere l’interpretazione della risoluzione 242 più favorevole agli arabi finì per
mettere all’angolo la diplomazia italiana, impegnata a salvaguardare una certa equidistanza fra le
parti pur nel quadro di un’evoluzione sempre più condizionata dai bisogni energetici. Secondo il
parere dei ministri arabi, l’aver aderito alla dichiarazione congiunta del 6 novembre non era
giudicata sufficiente perché all’interno dei Nove si palesavano enormi differenze e ogni Stato
aveva finito per interpretare in modo diverso e a proprio vantaggio questa convergenza
comunitaria; Roma doveva prendere dunque una posizione chiara, dichiarando inaccettabile la
presenza di Israele su tutti i territori occupati nel '67, al pari di quanto avevano fatto Parigi,
Londra e, più recentemente, Bruxelles:
“Abdesalam […] said that the Arab countries were friendly towards Italy and there was
reciprocal cooperation, but there remained the problem of the consequences of Israeli aggression.
Italy did not adopt an attitude in keeping with the demand of justice. There were frequent
references on the Italian side to the statement by the Foreign Ministers of the Nine on 6
November, but it was clear that difficulties had been encountered among the Nine in the working
out of a unified position on the basis of the statement. The Arabs were therefore obliged to take
account of the attitude of individual countries. In this connection it was enough to think of the
differences between the attitude of the French and the British and, lately, the Belgians, on the one
hand, and of the Netherlands on the other, to illustrate his point. The statement by the Nine could
not be taken as binding because anyone of the Nine could interpret it as they wished. The
Netherlands, for example, could say to Israel that the statement did not exclude the possibility of
Israel retaining some occupied territory, It was therefore necessary that Italy should make a clear
and categorical statement that she understood resolution 242 as meaning not just Israeli
withdrawal from occupied territory but withdrawal from all the territories occupied during 1967
war. Yamani said that so far only the French, British, and, again, lately, the Belgians, had done
this. If Italy were to do so it would have a «positive influence» on the Arabs. Abdesalam said also
that Italy’s position on the problem of Palestine did not seem clear either and that was why her oil
supplies were being reduced. The problem was not just one of refugees, but a political problem
and Italy should make clear publicly that she recognised this”680.
A queste sollecitazioni Moro tentò di replicare sottolineando lo stupore generato nel
paese dalle decisioni punitive prese nei confronti dell’Italia e elencando tutte le iniziative che il
680
Telegram from Sir Patrick Hancock, British Ambassador in Italy, to the Foreign and Commonwealth Office, Roma, 14 gennaio
1974, TNA, FCO, 33/2503.
191
governo aveva avviato in favore degli arabi. Il leader democristiano ricordò che l’esecutivo
aveva non solo sfruttato le buone relazioni con Israele per sostenere gli interessi arabi, ma si era
anche attivato per primo in sede comunitaria in occasione dell’elaborazione della dichiarazione
congiunta del 6 novembre che aveva suscitato l’irritazione sia di Tel Aviv che di Washington.
L’Italia – proseguì Moro – aveva deciso di non rilasciare ulteriori commenti sugli avvenimenti
mediorientali perché riteneva fondamentale che la Comunità europea procedesse unita
nell’affrontare la situazione. Sul problema dei territori occupati da Israele nel '67 il responsabile
della Farnesina affermò di essere stato sempre d’accordo sul fatto che il ritiro dovesse
comprendere tutte le zone. Sulla scorta di queste precisazioni – incalzò Moro – non sembravano
esserci obiettive giustificazioni per l’atteggiamento assunto dai paesi arabi nei confronti
dell’Italia. Yamani e Abdesselam apparvero soddisfatti del colloquio, senza però rinunciare a
chiedere con forza che il governo italiano condannasse ufficialmente Israele. Tuttavia secondo
Attolico sarebbe stato difficile, se non impossibile, sottoscrivere una simile dichiarazione che,
oltretutto, sarebbe dovuta passare al vaglio del Parlamento proprio nel momento in cui
all’interno della Democrazia Cristiana stava prendendo sempre più corpo una corrente che
giudicava inopportune eventuali concessioni agli arabi in quella fase681.
Moro sembrava però fortemente convinto della possibilità di avviare un dialogo
produttivo con i paesi arabi e stava maturando l’ipotesi di recarsi direttamente in missione
nell’area mediterranea per accelerare questo processo. Con queste premesse il politico pugliese
affrontò il 23 gennaio il delicato passaggio dell’udienza in Commissione Esteri del Senato.
Ricordando i numerosi contatti avuti con gli esponenti politici dei paesi mediorientali a Roma, a
New York e a Copenaghen, nonché le missioni che il governo aveva svolto in Siria, Iraq e
Arabia Saudita, Moro spiegò che la costante preoccupazione dell’esecutivo era stata quella di
conoscere l’evoluzione della posizione araba nel tentativo di influire positivamente su di essa682.
Sulle scelte effettuate nei mesi precedenti in merito alla risoluzione del conflitto del Kippur, il
leader democristiano precisò inoltre che l’Italia aveva volontariamente preferito agire nel
contesto della Comunità europea perché riconosceva a quest’ultima una capacità negoziale
681
Ibidem.
Sulle parole di Moro riferite alla Commissione Esteri del Senato pesò anche il difficilissimo momento storico-sociale che l’Italia
stava vivendo: si era infatti nel pieno degli “anni di piombo” caratterizzati da una serie di atti terroristici a cui, all’indomani dello
scoppio del conflitto mediorientale, si affiancarono attentati di matrice filo-araba. Qualche settimana prima del discorso di Moro si
era assistito infatti al dirottamento aereo da parte di alcuni terroristi palestinesi, conclusosi il 17 dicembre '73 con la morte di ben
trentatre passeggeri presso l’aeroporto di Fiumicino. Per un approfondimento sulla situazione politico-sociale dell’Italia del momento
si vedano, tra gli altri, S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit., pp. 363-471; P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al
1991, in G. Galasso, Storia d’Italia, cit., pp. 520-538; P. Ginsborg, Storia dell’Italia dal dopoguerra ad oggi, vol. II, Dal miracolo
economico agli anni '80, cit., pp. 473-478; S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana: dalla fine della guerra agli anni Novanta, cit.,
pp. 307-347; F. Malgeri, L’Italia dal centro-sinistra agli «anni di piombo», cit., in G. Aliberti, F. Malgeri, Due secoli al Duemila.
Transizione Mutamento Sviluppo nell’Europa Contemporanea (1815-1998), cit., pp. 697-699; N. Tranfaglia, La modernità
squilibrata. Dalla crisi del centrismo al «compromesso storico», in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, vol. II,
La trasformazione dell’Italia. Sviluppo e squilibri, cit., pp. 75-92.
682
192
maggiore rispetto a quella posseduta dai singoli paesi membri, essendo in grado di rappresentare,
seppur con qualche piccola differenza, le volontà reali di tutti i partecipanti:
“in relazione all’esigenza di ristabilire e garantire una giusta pace nella tormentata regione
del Vicino Oriente [l’Italia aveva scelto la strada della concertazione europea nella convinzione
che] un apporto non formale alla soluzione della contesa arabo-israeliana [potesse] essere dato da
un’Europa che [parlasse], per quanto possibile, con una sola voce e non dai singoli paesi europei.
Per questo motivo ci facemmo promotori per primi delle dichiarazioni congiunte dei Nove
governi della CEE […]. [Era] sulla base di esse che si [era] atteggiato il comportamento dei paesi
della Comunità, anche se con talune sfumature. Questa valorizzazione della Europa [aveva]
trovato subito eco nel mondo arabo, i cui rappresentanti erano il 15 dicembre a Copenaghen, in
occasione del vertice europeo, per proporre di intavolare un discorso globale appunto con
l’Europa. Il governo [era] favorevole a che la Comunità europea da un lato, i paesi del mondo
arabo dall’altro confrontino, in larga apertura di spirito e con lo sguardo rivolto alle generazioni
che verranno, i dati del problema delle loro relazioni in tutti i campi, da quello industriale,
agricolo, tecnologico, scientifico e culturale sino a quello politico”683.
Per quanto concerneva la questione del conflitto arabo-israeliano in senso stretto, Moro
ebbe modo di ribadire pubblicamente quanto esposto di persona ai ministri Yamani e
Abdesselam durante la loro visita a Roma; in particolare, il leader democristiano precisò la
posizione assunta dall’Italia che, senza mettere in discussione l’esistenza stessa e l’integrità dello
Stato d’Israele, riconosceva legittime le aspirazioni arabe di avere una propria patria. Ai
palestinesi doveva essere garantita la possibilità di decidere del proprio futuro e si riteneva
pertanto necessario porre fine all’occupazione israeliana di tutti i territori conquistati con la forza
nel corso della guerra del '67, interpretando in maniera estensiva la risoluzione 242 delle Nazioni
Unite:
“Il governo italiano [aveva] dato la sua adesione alle risoluzioni dell’ONU, ed in particolare
a quelle del Consiglio di Sicurezza 242 del 1967 e 338 del 1973, sottolineando più volte che la
242 avrebbe dovuto essere applicata interamente, in tutte le sue parti, senza, quindi, alcuna
riserva. Per quanto riguardava il popolo palestinese dissi in Parlamento a più riprese […] che il
fattore palestinese [era] diventato per il corso degli eventi un problema politico da cui non [era]
possibile fare astrazione in una stabile sistemazione della zona. […] i palestinesi non cercano
683
Discorso del ministro Moro alla Commissione Esteri del Senato, Roma, 23 gennaio 1974, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 6, MAE,
Sottoserie Visite e questioni diverse, Busta 31. Il testo completo dell’intervento di Moro è riportato anche in Ministero degli Affari
Esteri (Servizio Storico e Documentazione), Italia e Medio Oriente (1967-1974), cit., pp. 193-207; A. Moro, Scritti e discorsi, a cura
di G. Rossini, vol. VI, 1974-1978, Roma, 1990, pp. 3123-3132.
193
dell’assistenza ma una patria. Si tratta[va] quindi di tutelare i diritti nazionali del popolo
palestinese, al quale non [doveva] essere sottratta la possibilità di decidere del proprio destino.
[…] Israele e gli Stati arabi [dovevano] coesistere, convivere in confini sicuri e riconosciuti,
vedere garantita la loro sicurezza come Stati indipendenti. […] A tale principio si [era] rifatta
l’Italia con la dichiarazione comune del 6 novembre, ribadendo la necessità che si [ponesse]
termine alla occupazione israeliana dei territori conquistati con la guerra. Non [avevamo] avuto
dubbi sul carattere globale e non parziale, come qualcuno [aveva] ritenuto, di questa indicazione.
[…] Dalla illiceità dell’acquisizione territoriale con la forza, illiceità che [eravamo] stati chiamati
più volte a confermare, deriva[va] la necessità dell’abbandono di tutti i territori occupati. […]
L’assumere questa posizione non significa[va] in nessun modo togliere forza al sentimento che,
anche nei paesi europei ed in Italia, pone[va] nel nostro patrimonio di civiltà la conservazione
dello Stato d’Israele nella sua integrità”684.
Sui rapporti con i paesi arabi il ministro ribadì la continuità dell’azione del governo anche
nel tentativo di allontanare il sospetto di una eccessiva disponibilità dettata dall’emergenza
energetica; Yamani e Abdesselam avevano infatti accennato a questa ipotesi durante la loro
missione italiana, criticanto quei governi, come quello di Roma, che si erano avvicinati alla
causa araba solo in seguito alle ripercussioni nel settore petrolifero:
“[…] le relazioni tra l’Italia ed il mondo arabo, come quelle tra l’Europa ed il mondo arabo,
[corrispondevano] ad una tradizione, [obbedivano] ad una ragione profonda, [erano] essenziali
per l’avvenire del nostro continente. Noi lo [avevamo] detto senza attendere la crisi del petrolio
ed [avevamo] svolto una politica conseguente. Ci si [stupiva] talvolta che l’Italia [manteneva] e
[consolidava] vecchi legami di amicizia e di cooperazione e ne [stringeva] di nuovi. In realtà noi
[eravamo] sempre nella nostra linea e ci [sforzavamo], in ispirito di mutua fiducia, di assicurare i
rifornimenti di energia necessari alla nostra industria ed alla nostra vita civile. Il momento che
[stavamo] attraversando mette[va] in evidenza i nostri comportamenti, ma c’[era] semplicemente
continuità nella nostra azione”685.
Moro ricordò successivamente gli intensi e costruttivi rapporti intrattenuti nel recente
passato con tutti i paesi arabi, sia sul piano bilaterale che su quello comunitario, preannunciando
un suo imminente giro di visite che comprendeva l’Iran, l’Arabia Saudita e il Kuwait. Egli
precisò anche che l’obiettivo finale di eventuali nuovi accordi diretti con i produttori non doveva
limitarsi solo alla questione della garanzia degli approvvigionamenti energetici; si riteneva
684
Discorso del ministro Moro alla Commissione Esteri del Senato, Roma, 23 gennaio 1974, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 6, MAE,
Sottoserie Visite e questioni diverse, Busta 31.
685
Ibidem.
194
piuttosto necessaria un’integrazione globale fra le parti che riconoscesse al contempo dei
vantaggi anche per i paesi più poveri:
“Perché mai, in un momento di emergenza, non [avremmo dovuto] fare quel che abbiamo
sempre fatto, almeno fin quando non vi [fosse stato] un più vasto quadro europeo, nel quale, una
volta che [venisse] concretato, non [avremmo avuto] certo alcuna difficoltà e remora ad inserirci?
[…] [Bisognava rivendicare], più che il diritto, il dovere di disegnare il quadro politico
appropriato, perché vitali interessi nazionali [fossero] salvaguardati. […] Non si tratta[va] solo di
garantire le forniture di petrolio, ma di mettere in comune le nostre diverse risorse per una
integrazione veramente efficace, la quale, per di più, assicurando il massimo vantaggio ai paesi
interessati direttamente, [facesse] pure posto a quelli in via di sviluppo, i quali [dovevano]
partecipare alla comune prosperità”686.
Tuttavia, nonostante l’importanza dell’avvio di un dialogo bilaterale con i produttori, la
cooperazione dell’Italia nel quadro della CEE sarebbe rimasta costante; le questioni energetiche
non potevano infatti essere risolte da singole iniziative ma necessitava una sorta di concertazione
fra i paesi industrializzati che, senza creare un fronte contrapposto ai produttori, trovasse
soluzioni valide alla risoluzione di problemi generalizzati occupandosi, ad esempio, di
coordinare la ricerca globale di fonti alternative al petrolio:
“La crisi del petrolio, già latente, ma esplosa in tutta la sua gravità in relazione con gli
avvenimenti in Medio Oriente, pone[va] a tutti problemi estremamente difficili, di quantità, di
regolarità di flusso, di prezzo. Non si [poteva] pensare di risolverli da soli. L’assicurare nella
maggior misura possibile, anche mediante intese bilaterali con i paesi produttori, i rifornimenti di
cui disponevamo, [era] solo una parte della nostra doverosa iniziativa. Ove [mancasse] un’intesa
in un quadro più largo, gli effetti sconvolgenti della penuria e dell’alto costo dell’energia
[sarebbero ricaduti] prima o poi su tutti ed in particolare sui più deboli. […] In questa esigenza
[…] si pone[va] la necessità di un raccordo tra i paesi industrializzati. Non di tratta[va] di
costruire un fronte antagonistico a quello dei produttori e, meno che mai, di tutelare i propri
interessi, a scapito dei terzi indifesi. Si tratta[va] di convogliare le energie e le risorse di cui
[disponevamo] verso un punto di convergenza, mediante il quale trovare, senza alcuna soluzione
di continuità, il giusto rapporto con tutte le altri componenti della vita economica internazionale.
Si pensi, in particolare, alla ricerca coordinata di fonti alternative di energia, indispensabili alla
686
Ibidem.
195
nostra sopravvivenza ed egualmente necessarie per i paesi produttori, le cui risorse non [erano]
687
certo illimitate”
.
Queste motivazioni spingevano dunque l’Italia a aderire alla conferenza di Washington e
a parteciparvi assieme ai portavoce della Comunità europea. Moro riconobbe l’insostituibilità del
ruolo degli Stati Uniti per il raggiungimento della pace in Medio Oriente e la necessità della
collaborazione transatlantica in ogni settore. Infine, in merito alle questioni prettamente
energetiche, egli riferì ufficialmente la decisione del governo di aderire alla società EURODIF
che promuoveva la tecnica dell’arricchimento dell’uranio con il metodo della diffusione gassosa.
La scelta era presentata come il frutto delle direttive impartite dalla CEE che ponevano l’accento
sull’esigenza per le industrie comunitarie di dotarsi di una capacità di arricchimento tale da
consentire loro di coprire almeno una parte sostanziale e crescente dei fabbisogni europei.
L’Italia, oltretutto, nel campo della politica nucleare comunitaria aveva deciso di mantenere i
contatti anche con i promotori del procedimento basato sull’ultracentrifugazione:
“Non esiste[va] antitesi tra i due sistemi […]. La stessa Commissione della CEE, nel
riconoscere che essi [potevano] coesistere, ne [aveva] raccomandato la concertazione osservando
che «la diffusione gassosa [era] in grado di coprire sin dall’inizio del prossimo triennio un certo
numero di fabbisogni, mentre l’ultracentrifugazione [avrebbe apportato] un contributo elastico a
questa copertura». L’Italia [riteneva] che [fosse] nell’interesse europeo favorire lo sviluppo di
entrambi i procedimenti ed [aveva] ripetutamente manifestato la propria disponibilità a
partecipare pienamente anche al programma di ultracentrifugazione avviato dai tre paesi del
cosiddetto gruppo di Almelo [Repubblica Federale Tedesca, Olanda e Gran Bretagna]”688.
L’intero discorso rispecchiava la volontà del governo di avviare colloqui diretti con i
paesi produttori nel tentativo di ottenere rapidi vantaggi energetici. Le argomentazioni di Moro
andavano perciò valutate in funzione di questo obiettivo e, del resto, rispondevano pressoché in toto
alle richieste fatte dai ministri saudita e algerino durante la loro visita in Italia689. In questo quadro
rientrava anche la preannunciata lunga missione che il leader democristiano avrebbe compiuto in
Medio Oriente dal 25 gennaio al 3 febbraio '74690. Il viaggio mirava essenzialmente a intessere
687
Ibidem.
Ibidem.
689
Il discorso di Moro suscitò infatti diversi apprezzamenti da parte dei governi arabi e, in particolar modo, del segretario generale
del ministro degli Esteri libanese, Fattal [per approfondimenti si veda L. Riccardi, Sempre più con gli arabi. La politica italiana
verso il Medio Oriente dopo la guerra del Kippur (1973-1976), cit., pp. 61-62].
690
Il ministro degli Esteri visitò l’Egitto (28 gennaio), gli Emirati Arabi Uniti (29 gennaio), il Kuwait (29 e 30 gennaio), l’Iran (30 e
31 gennaio) e l’Arabia Saudita (1 e 3 febbraio) [cfr. L. V. Ferraris (a cura di), Manuale della politica estera italiana, 1947-1993, cit.,
p. 273]. Per un approfondimento sulla visita di Moro in Egitto si veda Cominciata la visita di Moro in M. O. (articolo non firmato),
688
196
contatti con i paesi produttori di petrolio per sondare il terreno alla luce delle dichiarazioni appena
rilasciate. Il 28 febbraio Moro riferì alla Commissione Esteri della Camera i risultati della missione
cercando ancora una volta di sfuggire alle critiche nei confronti del carattere esclusivamente
bilaterale delle iniziative italiane; il ministro sottolineò infatti come l’Italia aveva da sempre
coltivato un indirizzo politico basato sui contatti diretti con i paesi produttori e la crisi petrolifera
imponeva al momento di non abbandonare questa strategia. Del resto, le questioni energetiche si
erano rivelate così difficili da dirimere che qualsiasi istituto internazionale avrebbe fatto fatica a
gestirle; tuttavia, qualora si fosse profilata l’ipotesi di gestire globalmente, o almeno in sede
europea, l’intero quadro dell’approvvigionamento di energia e della sua distribuzione in base a
criteri di equità, il governo italiano, se richiesto ufficialmente, si dichiarava pronto a rinunciare a
qualsiasi rapporto bilaterale posto in essere. Sui risultati effettivamente raggiunti dal viaggio in
Medio Oriente, il ministro riferì del negoziato in corso per incrementare l’importazione italiana di
greggio saudita, dell’accordo libico per la fornitura di ulteriori quantitativi di petrolio e di altre
interessanti iniziative economiche in Iran, in Kuwait, negli Emirati Arabi Uniti e ancora in Arabia
Saudita e Libia che vedevano la penisola offrire tecnologia e capacità imprenditoriale per accrescere
lo sviluppo economico di questi paesi:
“Onorevoli Deputati, tra i fatti di rilievo della politica estera italiana […] [bisognava
annoverare] alcuni viaggi all’estero ed alcune visite a Roma, svoltisi in quest’ultimo periodo. Essi
[erano] il segno di una iniziativa che, del resto, non [era] mai venuta meno, anche se i momenti di
silenzio, un silenzio che prepara l’azione, [avevano] potuto indurre taluno a parlare d’inerzia. Ma
noi non [eravamo] mai stati inerti e ci [eravamo] dedicati a tessere la trama di rapporti difficili e
delicati, ma assai utili per il nostro Paese. Un problema fondamentale [era] dinanzi a noi, quello
del rifornimento di prodotti petroliferi, apparsi pericolosamente carenti, mentre essi [erano]
essenziali per il nostro sviluppo economico e la nostra vita civile. Si [era] detto che l’Italia, come
altri Paesi, si [era] avventurata sul terreno dei rapporti bilaterali, i quali [rischiavano] di
determinare un clima di gara e di concorrere all’aumento dei prezzi. In realtà, ponendo in essere
contatti diretti con Paesi produttori, […] noi [avevamo continuato] una politica sempre praticata e
che la stretta della crisi energetica, quanto meno, ci consiglia[va] di non abbandonare. […]
Mentre [era] immaginabile e desiderabile che, mediante una vasta intesa tra i Paesi interessati,
[venisse] definito un quadro giuridico ed economico nel quale inserire le singole contrattazioni,
[appariva] fuori di una ragionevole possibilità che un organismo collettivo si [assumesse] tutto
«Il Giornale d’Italia», 28-29 gennaio 1974; per un rapporto diretto sull’intera missione si vedano Moro nelle capitali del petrolio
(articolo non firmato), «La Voce Repubblicana», 30 gennaio 1974; Riassunti da Moro i risultati del viaggio nelle capitali islamiche
(articolo redazionale), ibidem, 5 febbraio 1974. L’intensa attività diplomatica in Medio Oriente si completò con il viaggio di Moro in
Marocco dal 3 al 6 maggio '74 [cfr. Ministero degli Affari Esteri (Servizio Storico e Documentazione), Italia e Medio Oriente (19671974), cit., p. 208].
197
intero il compito dell’approvvigionamento e della distribuzione. Ma se si profilasse, almeno a
livello europeo, una gestione comunitaria per quanto riguarda[va] la acquisizione, secondo criteri
di equità, dell’energia, noi non esiteremmo un istante a rinunciare, nella misura in cui ci [venisse]
richiesto, ai nostri rapporti bilaterali, per inserirci in quelli multilaterali ai quali si fosse
finalmente riusciti a dar vita. […] [Nel frattempo] […] [era] in corso a Ryad il negoziato tra gli
enti petroliferi di Stato, dell’Arabia Saudita e dell’Italia, per accrescere le già ingenti forniture di
greggio che [pervenivano] da quel Paese amico. Le prospettive [erano] buone. L’incontro con gli
alti dirigenti saudiani, da S. M. Re Feisal al Ministro degli Esteri Saqqaf, [era] stato estremamente
amichevole ed anche chiarificatore in ordine a voci e giudizi, di origine talvolta incerta, che anche
in questo momento difficile [avevano] mirato a mettere in difficoltà l’Italia, la quale gode[va]
invece nella penisola arabica di notevole prestigio ed [era] guardata con grande fiducia. [A ciò
andava aggiunto che], […] in occasione della gradita visita in Italia del Primo Ministro libico
Jallud, al nostro Paese [era] stato assicurato un quantitativo di petrolio dell’ordine di 30 milioni di
tonnellate con rilevante accrescimento delle forniture già provenienti dalla Libia. In altri Paesi
non [avevamo] posto, per l’immediato, problemi di rifornimento ulteriore di greggio, ma di altre
relazioni economiche interessanti per l’Italia, la quale, già presente in quei mercati e talvolta con
grande rilievo e con priorità temporale in confronto di altri Paesi, [era] chiamata con viva
cordialità a mettere a disposizione in misura crescente la sua tecnologia e la sua capacità
imprenditoriale e di lavoro per la politica di sviluppo che, mediante gli introiti del petrolio,
[veniva] perseguita con vigore in quell’area. Cio vale[va] per l’Iran come per l’Arabia Saudita
come per il Kuwait e la Libia mente in particolare il Kuwait ed Abu Dhabi [costituivano] centri
finanziari ai quali dedicare la massima attenzione”691.
Secondo la versione dell’esponente democristiano, l’Italia aveva dunque la possibilità di
ottenere concreti vantaggi sia dal punto di vista petrolifero che economico692. Toccava al paese
saper sfruttare, mediante iniziative governative e private, tutte le opportunità: prima fra tutte,
acquisire petrolio in contropartita di interventi, di consulenze tecniche e di investimenti da
realizzare nello Stato venditore o in altri in via si sviluppo, per poi utilizzare i petroldollari693
691
Discorso del ministro Moro alla Commissione Esteri della Camera, Roma, 28 febbraio 1974, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 1,
Scritti e discorsi 1953-1978, Sottoserie annuali, Busta 29. Il testo completo di questo intervento viene riportato anche in A. Moro,
Scritti e discorsi, a cura di G. Rossini, vol. VI, 1974-1978, Roma, 1990, pp. 3133-3142. Un resoconto sommario si trova invece in
Ministero degli Affari Esteri (Servizio Storico e Documentazione), Italia e Medio Oriente (1967-1974), cit., pp. 227-237. Per
ulteriori approfondimenti si veda anche A. Sterpellone, Il viaggio di Moro in Medio Oriente, in «Relazioni internazionali», XXXVIII,
n. 7, 1974, p. 175 e ss.
692
In base all’accordo economico sottoscritto con Tripoli la Libia avrebbe infatti aumentato il flusso petrolifero diretto alla penisola
in cambio dell’incremento e del miglioramento della presenza tecnica, scientifica, finanziaria e soprattutto industriale italiana nel
paese africano [cfr. Più petrolio dalla Libia per l’Italia (articolo non firmato), «Avanti», 24 febbraio 1974].
693
Per uno studio sulla questione dei petroldollari si vedano, ad esempio, H. Beblawi, The Rentier State in the Arab World, in H.
Beblawi, G. Luciani (a cura di), The rentier state, New York, 1987, pp. 49-62; R. Gilpin, Politica ed economia delle relazioni
internazionali, Bologna, 1990, pp. 420-424; S. Labbate, Il ruolo dei petroldollari nelle relazioni Nord-Sud, in D. Caviglia, A. Varsori
(a cura di), Dollari, Petrolio e aiuti allo sviluppo. Il confronto Nord-Sud negli anni '60-70, cit., pp. 143-169; G. Luciani, L’OPEC
198
attraverso la realizzazione di progetti industriali. Nella stipulazione di accordi bilaterali un ruolo
determinante doveva essere assunto proprio dall’ENI in funzione dell’incremento e del
mantenimento di un adeguato approvvigionamento energetico nazionale. La necessità che gli
accordi di fornitura venissero mantenuti nel tempo pose inoltre l’esigenza di un coordinamento
generale. A questo scopo venne costituito, su impulso di Girotti, un Comitato di Coordinamento,
creato all’interno del Ministero delle Partecipazioni Statali con il compito di impostare un’azione
coordinata694.
Ciononostante, fin da subito lo sviluppo di questa linea sostanzialmente filo-araba venne
messo a rischio dell’emergere del cosiddetto “scandalo petrolifero”, un’inchiesta giudiziaria di
grandi proporzioni che aveva portato alla scoperta del pagamento di tangenti in favore di
esponenti dei partiti di governo (DC, PSI, PSDI e PRI). Uno dei filoni dell’indagine coinvolgeva
anche rappresentanti dell’ENEL: secondo l’accusa formulata dai pretori genovesi vi era stato il
versamento di un miliardo di lire a beneficio dei gruppi politici (di cui 875 milioni attraverso
l’Unione Petrolifera e 125 versati direttamente dall’AGIP) al fine di ottenere che l’ente elettrico
di Stato non investisse ulteriormente in centrali nucleari e continuasse invece a costruire impianti
a petrolio695. Fra i vari politici di spicco coinvolti figuravano anche il ministro alla Difesa, Mario
Tanassi, e lo stesso Moro; l’inchiesta era solo all’inizio ma certamente pesò sulle scelte
governative696.
7. La conferenza di Washington e la cooperazione internazionale
Nel frattempo, l’11 febbraio prese il via il vertice promosso da Nixon per discutere dei
problemi energetici internazionali. Alla conferenza parteciparono i ministri degli Esteri, delle
Finanze e quelli aventi competenze nei settori dell’economia, della scienza e della tecnologia di
Italia, Belgio, Danimarca, Repubblica Federate Tedesca, Francia, Lussemburgo, Olanda,
Norvegia, Gran Bretagna, Irlanda, Giappone, Canada e Stati Uniti697. Anche il segretario
nella economia internazionale, cit., pp. 67-91; T. Stauffer, Income Measurement in Arab States, in H. Beblawi, G. Luciani (a cura
di), The rentier state, cit., pp. 22-48.
694
Cfr. Lettera di Raffaele Girotti, presidente dell’ENI all’on. Matteo Matteotti, ministro per il Commercio Estero, Milano, 28
febbraio 1974, ASE, coll. BB. III. 1, udc. 442.
695
Cfr. F. Menghini, Tanassi: 180 milioni. Per Moro si parla di 30 milioni, «Il Messaggero», 1 marzo 1974.
696
Tutti gli accusati dopo un lungo processo vennero tuttavia assolti con formula piena.
697
Per quanto concerneva l’Italia, Moro era assistito dal ministro del Tesoro, Ugo La Malfa, dal sottosegretario agli Affari Esteri,
Mario Pedini, e da una delegazione composta dall’ambasciatore Cesidio Guazzaroni, dal consigliere diplomatico del presidente del
Consiglio, Rinaldo Petrignani, dai seguenti rappresentanti del dicastero degli Esteri: gli ambasciatori Ducci e Luigi Cottafavi, il
ministro Bruno Bottai, Sereno Freato, i consiglieri d’Ambasciata Antonio Mancini e Arrigo Lopez Celly, il 1° segretario di
Legazione Diego Moretti, il segretario di Legazione Francesco Trupiano; per il Ministero del Bilancio, Luigi Spaventa; per il Tesoro,
il direttore generale Gastone Miconi e il dirigente generale Silvano Palumbo; per il dicastero dell’Industria il dirigente generale,
nonché direttore generale delle fonti di energia, Ugo Ristagno; per il Ministero delle Partecipazioni Statali il direttore generale
199
generale dell’OCSE, Emile Van Leppen, prese parte all’incontro con una relazione che partiva
dalla necessità indifferibile di incrementare gli aiuti ai paesi in via di sviluppo698. Il discorso di
Moro si focalizzò invece sull’imprescindibilità di un approccio che mettesse al centro la modalità
della cooperazione:
“L’Italia [era] convinta del fatto che le difficoltà del momento [potevano] essere superate
soltanto attraverso una sincera e coerente cooperazione internazionale che [portasse]
all’instaurazione di nuove relazioni fra Paesi industriali consumatori di energia, Paesi produttori e
Paesi in via di sviluppo, e che [permettesse] di trovare soluzioni adeguate ai gravi e complessi
problemi, non solo di ordine economico, ma anche, se non soprattutto, di carattere finanziario e
monetario, che [caratterizzavano] la presente congiuntura mondiale”699.
Accanto poi al tema principale della conferenza, il leader democristiano illustrò il punto
di vista dell’Italia basato sulla:
“[…] necessità di utilizzare in modo più razionale le fonti energetiche disponibili, di
sviluppare le tecnologie, di ricercare la messa in valore delle fonti energetiche esistenti, di
incoraggiare la scoperta e lo sfruttamento di fonti alternative di energia. Incoraggiare la scoperta e
lo sfruttamento di nuove fonti di energia [rappresentava] per noi un obiettivo prioritario: e non
solo per noi, che [vedevamo] compromesse le nostre possibilità di sviluppo da un prevedibile
esaurimento delle fonti tradizionali, ma per tutti i popoli del mondo, compresi quelli che, in
questo particolare momento, [cercavano] di trarre il massimo vantaggio dal possesso di fonti
energetiche che certamente, in passato, [erano] state sottovalutate e che [erano] in via di rapido
esaurimento”700.
dell’organizzazione amministrativa del personale, Mario Schiavoni; il prof. Puppi del Ministero della Pubblica Istruzione; il dirigente
generale del dicastero del Commercio Estero, Armando Fracassi: Rinaldo Ossola della Banca d’Italia; Achille Albonetti e Piero
Caldirola del CNEN; Marcello Colitti e Sflingiotti dell’ENI; Pier Giovanni Gamucci e Federico Dalla Volta di Finmeccanica;
Arnaldo Maria Angelini e Franco Castelli dell’ENEL; il maresciallo Oreste Leopardi, il cancelliere Sergio Mitarotonda, il prof.
Stefano Giovandone e il prof. Mario Giacovazzo (cfr. Appunto interno del MAE, Roma, non datatato, ACS, Carte Aldo Moro, Serie
6, MAE, Sottoserie Visite e questioni diverse, Busta 36).
698
Cfr. Statement by Mr. Emile Van Lennep, Secretary-General of the OECD at the Washington Energy Conference, Washington,11
febbraio 1974, HAEU, Fondo OECD, 32.
699
Intervento dell’on. ministro (Aldo Moro) alla conferenza di Washington, Appunto interno del MAE, Washington, 11 febbraio
1974, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 6, MAE, Sottoserie Visite e questioni diverse, Busta 36.
700
Ibidem. Per un commento personale e diretto sull’intervento di Moro alla conferenza di Washington e sulle reazioni dei presenti si
veda M. Colitti, ENI. Cronache dall’interno di un’azienda, cit., pp. 157-158. In particolare Colitti sottolineò come il proverbiale stile
criptico del leader democristiano avesse messo il traduttore in grave difficoltà al punto che quest’ultimo non era stato più in grado di
tradurre, “finché sbottò dicendo che non capiva più nulla e si sarebbe stato zitto. «It does not make any sense anyway», aggiunse, tra
le risate di tutta la sala. Moro continuò per una ventina di minuti a scodellare frasi a esclusivo beneficio della delegazione italiana,
mentre tutti gli altri si alzavano o chiacchieravano tra loro. Così finiva, nel ridicolo, la pretesa italiana di avere una propria politica
petrolifera o un proprio atteggiamento verso il Terzo Mondo; le frasi intraducibili di Moro seppellivano ciò che avevamo cercato di
costruire in tanti anni di lavoro, senza che l’Italia avesse ottenuto nulla in cambio, anzi, entrando nell’agenzia – [la futura
International Energy Agency] – come l’ultima ruota del carro, il paese sempre rimproverato e chiamato a rispondere della sua debole,
se non inesistente, politica energetica” (ibidem, p. 157).
200
Il richiamo alle esigenze dei paesi produttori di petrolio permise a Moro di sottolineare,
da un lato, la necessità di avviare una collaborazione anche con le nazioni arabe evitando di
creare un fronte dei consumatori contrapposto e, dall’altro lato, l’inevitabilità di un inserimento
nel dialogo anche dei paesi in via di sviluppo.
Fin dall’inizio delle discussioni apparve tuttavia ben chiara l’impossibilità di raggiungere
un accordo che non fosse solo formale e generico. Forse proprio in previsione di ciò e spinti
dalle pressioni francesi volte a creare un “patto mediterraneo”, i direttori politici dei Ministeri
degli Esteri dei Nove si erano riuniti a Bonn, in concomitanza con il vertice di Washington, con
l’obiettivo di esaminare nel dettaglio la realizzazione di un rapporto duraturo fra la Comunità
europea e i paesi arabi esportatori di petrolio basato sull’offerta di assistenza tecnica, economica
e finanziaria in cambio della sicurezza degli approvvigionamenti a prezzi stabili e ragionevoli701.
D’altra parte, occorre ricordare che l’organizzazione della conferenza di Washington aveva
scatenato molteplici reazioni negative da parte dei produttori. In particolare, il segretario
generale dell’OPEC, l’algerino Abderrahmane Khene, aveva dichiarato che il vertice energetico
“voluto dagli americani artefici con altri Paesi industrializzati della crisi internazionale dovuta al
superconsumo e allo spreco di petrolio, [aveva] le caratteristiche di una riunione […] convocata
contro i Paesi produttori di petrolio, di una vera e propria minaccia sintomatica per quelli che
[erano] i traguardi noti degli Stati Uniti volti a mantenere il dominio sul mondo”702. Ad ogni
modo, la decisione dei Nove di avviare un dialogo diretto con i produttori si rimandò alla
successiva riunione dei ministri degli Esteri della CEE, prevista a Bonn per il 14 e 15 febbraio.
L’accordo di cooperazione con i paesi arabi sulla base della proposta francese, definita
“approche globale”, era stato comunque già deciso703 e a Bonn era previsto che i Nove stilassero
semplicemente una dichiarazione congiunta simile a quella del 6 novembre 1973704. Inoltre, la
riunione doveva essere anche il luogo in cui sarebbero stati discussi gli eventuali risultati
raggiunti a Washington.
Tuttavia, la conferenza sull’energia fu l’occasione in cui si palesarono ufficialmente le
divergenze tra la politica francese e quella statunitense, facendo definitivamente fallire le
701
Cfr. L. Ascoli, L’Europa prepara una “controconferenza” con i Paesi arabi, «Fiorino», 12 febbraio 1974.
B. Tedeschi, Severo monito dell’OPEC ai paesi industrializzati, «Il Messaggero», 12 febbraio 1974.
703
Durante la riunione del Comitato Politico della CEE del 6 e 7 febbraio venne redatto infatti un rapporto nel quale furono
sintetizzate le tre fasi che il dialogo euro-arabo avrebbe dovuto compiere: nella prima doveva esserci uno scambio di punti di vista tra
la presidenza della Commissione europea e i paesi della Lega araba sulle diverse possibilità di cooperazione; successivamente si
sarebbero dovute creare delle commissioni miste euro-arabe a livello di funzionari per approfondire le possibilità di cooperazione nei
vari settori; infine, si sarebbe dovuta convocare una conferenza euro-araba tra i ministri degli Esteri interessati che, presumibilmente,
si sarebbe tenuta nel '75 (cfr. Appunto del direttore generale degli Affari Politici del MAE, Roberto Ducci, per il ministro Moro,
Roma, 1 marzo 1974, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 6, MAE, Sottoserie Visite e questioni diverse, Busta 40).
704
Cfr. Note du Secrétaire Général adjoint de la Commission des Communautés Européennes, Klaus Meyer, pour le Président,
François-Xavier Ortoli et pour le Membre de la Commission, M. Claude Cheysson, Bruxelles, 12 febbraio 1974, HAEU, Fondo
Klaus Meyer, n. 39.
702
201
speranze della Comunità europea di parlare a una sola voce, nonostante l’accordo raggiunto dai
Nove il 5 febbraio sulla posizione comune da adottare a Washington. I problemi energetici non si
trattarono neanche a causa della disputa procedurale sul seguito che il summit avrebbe dovuto
avere. Fin dal primo giorno, infatti, il ministro degli Affari Esteri francese aveva minacciato i
partner europei di ritirarsi dal vertice qualora si fossero raggiunti accordi al di fuori di quanto
stabilito a Bruxelles o senza il consenso francese. D’altro canto, l’ostinazione di Jobert stava
spingendo gli altri delegati europei a valutare l’ipotesi di un’intesa senza la Francia705. Per questa
ragione, dopo i diversi tentativi fatti ai margini della conferenza, i ministri degli Esteri dei Nove
decisero all’unanimità di posporre a data da destinarsi il vertice di Bonn del 14 e 15 febbraio,
lasciando così chiaramente intendere che la divergenza con la Francia era tale da non poter
essere appianata nell’immediato706.
La posizione di Parigi era sempre stata quella di rifiutare qualsiasi forma di
istituzionalizzazione della cooperazione Europa-Stati Uniti nel settore energetico, al contrario di
quanto espressamente voluto da Kissinger e Nixon. Di fronte a questo convincimento, a nulla
valsero le diverse formule di compromesso presentate durante la conferenza nel vano tentativo di
convincere la Francia dal momento che tutte presupponevano la creazione di un comitato di
coordinamento sovranazionale707. Dal canto suo, Nixon restava fermo nella pretesa di una
collaborazione totale anche nel settore energetico, come avevano dimostrato l’aspra condanna
degli accordi bilaterali conclusi da Parigi e da Londra con i paesi produttori di petrolio e l’invito
a tutte le nazioni occidentali a non percorrere strade separate in materia di rifornimenti
petroliferi708. Secondo il presidente degli Stati Uniti, questioni quali la sicurezza, l’economia e
l’energia erano inevitabilmente collegate fra loro e non si poteva pretendere di collaborare solo
in alcuni specifici settori; se non si fosse giunti a un accordo sull’energia gli americani
minacciavano di avviare un nuovo periodo di isolazionismo. Un atteggiamento del genere venne
interpretato dai francesi come un tentativo di imporre la leadership di Washington a tutto
l’Occidente709. L’opposizione di Parigi partiva dunque da ragioni strettamente politiche: il rifiuto
di accettare propositi egemonici, il timore di reazioni negative dei paesi arabi e i dubbi
705
Cfr. Telegram n. 540 from Richard A. Sykes, Minister of British Embassy in Washington, to the Foreign and Commonwealth
Office, Bruxelles, Washington, 12 febbraio 1974, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America, Europe and
the Energy Crisis, 1972-1974, cit., doc. 548.
706
Cfr. Telegram n. 562 from Richard A. Sykes, Minister of British Embassy in Washington, to the Foreign and Commonwealth
Office, Washington, 12 febbraio 1974, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America, Europe and the Energy
Crisis, 1972-1974, cit., doc. 549.
707
Cfr. Télégramme du Ministère des Affaires Étrangères, Michel Jobert, au Président de la République, Georges Pompidou,
Washington, 12 novembre 1974, CHAN, Archives présidentielles, Fondo Georges Pompidou, 5 AG 2, c. 1037.
708
Per un approfondimento sugli accordi conclusi dagli Stati europei con i paesi arabi esportatori di petrolio cfr. F. Petrini, L’arma
del petrolio: lo “shock” petrolifero e il confronto Nord-Sud, cit., in D. Caviglia, A. Varsori (a cura di), Dollari, Petrolio e aiuti allo
sviluppo. Il confronto Nord-Sud negli anni '60-70, cit., pp. 98-99.
709
Cfr. Télégramme de l'Ambassade de France à Washington au Ministère des Affaires Étrangères, Washington, 15 febbraio 1974,
MAEF, Archives Diplomatiques, Affaires économiques et financières, Affaires générales, 1967-1975, 405.
202
sull’efficacia tecnica delle misure proposte. Questa scelta portò la Francia a declinare l’invito a
far parte del gruppo di coordinamento sull’energia – il cosiddetto Gruppo dei Dodici nato
proprio dalla conferenza di Washington – provocando così una grave battuta d’arresto nel
percorso di formazione di una politica comunitaria710.
Nel complesso, la conferenza di Washington711 finì per formalizzare le divergenze
franco-statunitensi e la spaccatura all’interno della CEE712. Anche in Italia si accolsero i risultati
del vertice con profonda delusione: le maggiori testate giornalistiche rimarcarono il grave colpo
dato alla Comunità e l’arrendevolezza degli europei di fronte alla volontà americana713. Le
pressioni degli Stati Uniti, e più precisamente di Kissinger, portarono alla luce la debolezza e le
divisioni in campo europeo, oltre che la persistente capacità americana di orientare le decisioni
della Comunità714. Ciononostante, il cosiddetto dialogo euro-arabo non fu mai messo in
discussione all’interno dei Nove dove anche i britannici resistettero alle pressioni di Washington
rifiutandosi di sconfessare la linea comunitaria. A questo proposito, il ministro degli Esteri
Douglas-Home incaricò l’ambasciatore britannico a Washington di spiegare le motivazioni per
cui i rapporti dei Nove con gli arabi non dovevano essere considerati con sospetto dagli Stati
Uniti; il dialogo con i paesi dell’area mediorientale non si poneva in contrasto con la politica
estera americana:
“it [was] not a question of the Nine making an unsolicited approach to the Arabs. The Arabs
asked the Community for a dialogue and the Community [could] hardly turn them down;
particularly since they [had] been told to expect a reply. We [did] not believe that the European
dialogue with the Arabs [could] damage American policies. We would oppose, within the
political cooperation machinery of the Nine any development in policy towards the Arabs which
might cut across America peace efforts or international discussion on oil supplies and prices. The
relationship between Europe and the Arabs […] [had] nothing to do with peacemaking and only a
remote connection with oil. Indeed one of the most important things about the dialogue [was] that
710
Cfr. Télégramme de l'Ambassade de France au Luxembourg (M. Luc) au Ministère des Affaires Étrangères, Lussemburgo, 21
febbraio 1974, MAEF, Archives Diplomatiques, Affaires économiques et financières, Affaires générales, 1967-1975, 405.
711
Per il testo finale approvato a Washington si vedano, tra gli altri, Ministero degli Affari Esteri (Servizio Storico e
Documentazione), Italia e Medio Oriente (1967-1974), cit., pp. 213-220; Telegram n. 575 from Richard A. Sykes, Minister of British
Embassy in Washington, to the Foreign and Commonwealth Office, Washington, 13 febbraio 1974, TNA, FCO, in K. Hamilton, P.
Salmon, The Year of Europe: America, Europe and the Energy Crisis, 1972-1974, cit., doc. 551.
712
Per ulteriori approfondimenti si veda F. Petrini, L’arma del petrolio: lo “shock” petrolifero e il confronto Nord-Sud, cit., in D.
Caviglia, A. Varsori (a cura di), Dollari, Petrolio e aiuti allo sviluppo. Il confronto Nord-Sud negli anni '60-70, cit., pp. 102-106.
713
Si vedano, ad esempio, F. Ivaldo, Ancora un passo indietro della Comunità Europea, «Il Messaggero», 14 febbraio 1974; F.
Riccardi, Da Washington un colpo all’unità della Comunità, «Il Giorno», 14 febbraio 1974; G. Signorini, L’Europa si piega a Nixon,
«Paese Sera», 14 febbraio 1974; U. Stille, La Francia è rimasta isolata alla fine della conferenza sull’energia, «Corriere della Sera»,
14 febbraio 1974.
714
Le reazioni dell’OPEC ai risultati della conferenza di Washington furono chiaramente negative: i paesi della Comunità, eccezion
fatta per la Francia, venivano accusati di aver ceduto completamente all’egemonia americana [per approfondimenti si vedano, tra gli
altri, Gli arabi contrari alle tesi di Washington (articolo non firmato), «IL Giornale d’Italia», 14-15 febbraio 1974; Prime reazioni
negative dei produttori all’accordo sulla politica energetica (articolo redazionale), «La Voce Repubblicana», 15 febbraio 1974].
203
it [would] divert the Arabs from their expressed wish for a further European statement on peace
and notably boundaries. We [wanted] to avoid further declaration and we [knew] the Americans
[wanted] us to as well. There [were] many hoops to go through before we [got] to the stage of a
conference between the European and the Arabs. There [were] therefore no question of a
juxtaposition between such a conference and the Washington energy conference or the follow-up
meeting. The Arabs [were] already aware of the broad outline of what [was] being proposed. If
we [did] not proceed with it they [would] deduce that we [had] been ridden off it under pressure
from Israelis or the Americans or both. This [would] do no good to the interests of the West in
general witch [was] surely best secured by keeping in close touch with the Arabs. […] We and
other members of the Nine [were] keeping Americans informed bilaterally: and [were] taking
account of American views all the time. The Nine agreed that the Americans [should] be
informed officially”715.
D’altra parte sarebbe stato impossibile per gli europei annullare all’istante gli accordi
bilaterali faticosamente raggiunti con alcuni paesi arabi. E per la stessa motivazione, sottolineata
anche da Douglas-Home, sarebbe stato controproducente bloccare il dialogo euro-arabo prima
del suo inizio effettivo716. Ciò che necessitava era però il recupero della Francia, vera promotrice
dell’azione della Comunità verso i produttori. Sotto questo profilo, la documentazione francese
sembra confermare l’orientamento di Parigi volto a sostenere la cooperazione fra i Nove anche
all’indomani della rottura di Washington. Secondo quanto riportato da uno studio interno alla
Presidenza della Repubblica circa le ipotesi di sviluppo del mercato petrolifero nei dieci anni a
seguire, i principali paesi produttori avrebbero giocato un ruolo sempre più importante nei
traffici petroliferi mondiali e bisognava agire rapidamente per evitare il peggio. Fra le misure da
prendere erano indicate la riduzione dei consumi, una nuova politica di esplorazione che
comprendesse anche i mari e l’unificazione dei prezzi petroliferi all’interno della CEE come
condizione essenziale per il funzionamento del mercato comune e per lo sviluppo di una politica
energetica concordata. Nel documento veniva anche previsto che l’Arabia Saudita sarebbe
diventata il vero fulcro dei traffici petroliferi mondiali e che pertanto avrebbe attratto molti
investimenti provenienti degli Stati Uniti. In virtù di queste valutazioni e del fatto che gli
715
Telegram n. 436 from Sir Alec Douglas-Home, Secretary of State for Foreign and Commonwealth Affairs, to United Kingdom
Representative in Washington, Londra, 20 febbraio 1974, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America,
Europe and the Energy Crisis, 1972-1974, cit., doc. 558.
716
Molto interessanti, in proposito, le parole di Moro (in parte già citate) riferite alla Commissione Esteri della Camera il 28
febbraio: “[…] se si profilasse, almeno a livello europeo, una gestione comunitaria per quanto riguarda[va] l’acquisizione, secondo
criteri di equità, dell’energia, noi non [avremmo esitato] un istante a rinunciare, nella misura in cui ci [venisse] richiesto, ai nostri
rapporti bilaterali, per inserirci in quelli multilaterali ai quali si fosse finalmente riusciti a dar vita. [Era] da tempo infatti che noi
[chiedevamo] alla Comunità di porre in essere una propria politica energetica, che il corso degli ultimi avvenimenti [andava]
dimostrando, ogni giorno di più, indispensabile” [Resoconto Sommario delle Comunicazioni del Ministro degli Affari Esteri On. Aldo
Moro alla Commissione Esteri della Camera, Roma, 28 febbraio, 1974, Ministero degli Affari Esteri (Servizio Storico e
Documentazione), Italia e Medio Oriente (1967-1974), cit., pp. 227-228].
204
americani avrebbero detenuto ancora a lungo ingenti riserve petrolifere non risultava in quella
fase conveniente per la Francia sviluppare un’azione in opposizione agli interessi USA717.
Ciò faceva presupporre che l’Europa avrebbe potuto contare anche sulla Francia sulla
strada di un appianamento delle divergenze anche in merito alla cooperazione con gli Stati Uniti.
La riunione del 21 febbraio del Comitato dei rappresentanti permanenti presso la CEE, che
doveva discutere sui risultati della conferenza sull’energia e analizzare i passi successivi da
compiere in questa direzione, costituì il primo vero banco di prova. Nella fattispecie, la
Comunità era stata chiamata a rispondere all’invito statunitense a riunirsi entro la fine del mese
per tenere la prima riunione del gruppo di coordinamento sull’energia, in ottemperanza al punto
16 del comunicato finale della conferenza di Washington718. La delegazione francese colse
tuttavia l’occasione per ribadire la propria opposizione al progetto di Kissinger precisando che
non avrebbe partecipato a alcuna riunione inerente l’argomento. Inoltre, la Francia si opponeva
alla partecipazione stessa della Commissione europea al gruppo di coordinamento sull’energia
poiché sulla creazione di questo comitato non c’era stata unanimità in sede comunitaria719. Il
ragionamento di Parigi partiva dal presupposto che la politica economica rientrava nelle
competenze della Commissione di Bruxelles e i Nove, per di più, avevano anche sottoscritto a
Copenaghen un documento con il quale si impegnavano a definire e a perseguire una politica
comune dell’energia fondata in larga parte sul dialogo con i paesi arabi produttori di petrolio. Se
quindi alcuni Stati europei volevano, a titolo individuale, inquadrare la loro politica energetica
all’interno del progetto statunitense sarebbe stato necessario che la Commissione rinunciasse alla
propria competenza in materia, mettendo così gravemente a rischio l’unità dei Nove e bloccando
717
Cfr. Notes de synthèse sur les problèmes pétrolifères : hypothèse de développements dans les prochains 10 ans, Parigi, 21
febbraio 1974, CHAN, Archives présidentielles, Fondo Georges Pompidou, 5 AG 2, c. 67.
718
“[Foreign Ministers of Belgium, Canada, Denmark, France, the Federal Republic of Germany, Ireland, Italy, Japan, Luxembourg,
the Netherlands, Norway, the United Kingdom, the United States] […] agreed to establish a coordinating group headed by senior
officials to direct and to coordinate the development of the actions referred to above. The coordinating group shall decide how best to
organize its work. It should: (a) Monitor and give focus to the tasks that might be addressed in existing organizations; (b) Establish
such ad hoc working groups as may be necessary to undertake tasks for which there are presently no suitable bodies; (c) Direct
preparations of a conference of consumer and producer countries which will be held at the earliest possible opportunity and which, if
necessary, will be preceded by a further meeting of consumer countries. […] France does not accept this paragraph” [Telegram n.
575 from Richard A. Sykes, Minister of British Embassy in Washington, to the Foreign and Commonwealth Office, Washington, 13
febbraio 1974, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America, Europe and the Energy Crisis, 1972-1974, cit.,
doc. 551; Ministero degli Affari Esteri (Servizio Storico e Documentazione), Italia e Medio Oriente (1967-1974), cit., p. 216].
719
“La France ne s’est pas associés à l’adoption du § 16 du Communiqué final de Washington. Par conséquent, elle ne participera à
la réunion des 25 et 26 février et il en découle que la Communauté, en tant que telle, ne sera pas non plus représentée à cette réunion.
Dans l’esprit de cette délégation, la même chose vaudrait pour la Commission, laquelle n’a pas sa place à cette réunion ni en qualité
de participant ni en qualité d’observateur. Cette délégation a saisi l'occasion pour rappeler les termes de l'art. 229 du Traité CEE, en
affirmant qu'en cas de participation de la Commission aux réunions du Groupe de coordination, son rôle serait en contradiction avec
cet article” (Note du Secrétaire Général adjoint de la Commission des Communautés Européennes, Klaus Meyer, pour les membres
de la Commission, Bruxelles, 22 febbraio 1974, HAEU, Fondo European Commission, BAC 25/1980, 1024). L’articolo 229 del
Trattato istitutivo della CEE stabiliva infatti che la Commissione aveva il compito di assicurare “ogni utile collegamento con gli
organi delle Nazioni Unite, degli istituti specializzati delle Nazioni Unite e dell’Accordo generale sulle tariffe doganali e il
commercio”. Secondo l’interpretazione di Parigi, la Commissione avrebbe dunque dovuto affrontare i temi energetici direttamente in
sede ONU, in ottemperanza alla richiesta fatta nel gennaio precedente da Jobert a Kurt Waldheim di convocare d’urgenza una
conferenza mondiale sull’energia.
205
ogni ulteriore progresso. Si era insomma giunti a una situazione di stallo completo che avrebbe
probabilmente richiesto parecchi mesi per ricucire lo strappo con la Francia720.
Tuttavia la riunione dei ministri degli Esteri della CEE del 4 marzo offrì l’occasione per
superare l’impasse mediante l’approvazione di un aide-mémoire che, nonostante i dissidi interni
dopo la conferenza di Washington, optava per il proseguimento del dialogo euro-arabo721. Alla
Repubblica Federale Tedesca, in qualità di presidente di turno della Comunità, sarebbe spettato il
compito di proporre ai paesi arabi, attraverso i rappresentanti istituzionali, la cooperazione in
diverse aree, incluse l’industria, l’agricoltura, l’energia e le materie prime, le scienze e la
tecnologia, la finanza e l’istruzione. In particolare, il ministro degli Esteri tedesco era incaricato
di realizzare dei gruppi di lavoro congiunti con i paesi arabi con l’obiettivo di porre le premesse
per un vertice a livello di ministri degli Esteri722. Di fronte alla decisione dei Nove di persistere
nel dialogo con gli arabi, la reazione americana non si fece attendere723. Ciò che veniva
contestato da Kissinger non era la cooperazione in sé ma il processo mediante il quale gli europei
avevano deciso di intraprendere il dialogo. In particolare suscitava irritazione il riferimento
nell’aide-mémoire a un incontro dei ministri degli Esteri con gli arabi che appariva come
un’intenzionale gesto dei Nove diretto a sviluppare la propria identità in antagonismo con gli
720
Al contempo Parigi aveva continuato la propria politica bilaterale con i paesi arabi e in particolare con l’Iran al quale venne
proposto anche un accordo in campo nucleare: “La France en mettant à la disposition de l’Iran son potentiel technologique dans le
domaine de l'énergie nucléaire: fourniture de centrales atomiques, approvisionnement en uranium enrichi, mise en place des
dispositions de sûreté nucléaire, formation de techniciens et développement en commun de techniques et d'installations nucléaires en
Iran et en France” (Perspectives d’une collaboration entre l’Iran et la France dans le domaine de l’énergie, Lettre du Délégué
Général à l’Energie au Première Ministre, Parigi, 23 febbraio 1974, CHAN, Archives présidentielles, Fondo Georges Pompidou, 5
AG 2, c. 173). I tentativi francesi non si nascosero alla comunità internazionale e le proteste statunitensi non tardarono a arrivare.
Kissinger scrisse nelle sue memorie che: “La Francia si trovava in prima fila tra quei nostri alleati che stavano sfruttando l’embargo
per concludere accordi bilaterali con i paesi produttori – quasi sempre dando armi contro il petrolio. Ed era stata la Francia a agire
come punta di lancia nel cosiddetto dialogo europeo-arabo, l’alternativa europea alla nostra diplomazia nel Medio Oriente, e il cui
scopo - mai dichiarato apertamente - poteva consistere soltanto dalla dissociazione dagli Stati Uniti” (H. A. Kissinger, Anni di crisi,
cit., p. 711). In realtà, però, anche gli Stati Uniti avviarono e cercarono di dar vita a una serie di accordi bilaterali con gli stessi intenti
di Parigi, ma in maniera segreta e continuando a insistere pubblicamente sull’urgenza di un’azione comune.
721
Si trattava di un compromesso che prevedeva l’avvio solo della prima fase del dialogo euro-arabo così come previsto durante la
riunione del Comitato Politico del 6-7 febbraio, rinviando alle successive riunioni le discussioni su come procedere. Anche su questo
accordo però il consenso non fu unanime e, in particolare, Londra, appoggiata da Bonn, pose una riserva sulla necessità di collegare
l’iniziativa a misure che prevedessero la consultazione dei Nove con gli Stati Uniti.
722
Cfr. Meeting minute between Michael S. Weir, Counsellor and Head of Chancery of United Kingdom Mission in New York, and
Alan Campbell, Assistant Under-Secretary of State for Foreign and Commonwealth Affairs, Londra, 6 marzo 1974, TNA, FCO, in K.
Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America, Europe and the Energy Crisis, 1972-1974, cit., doc. 564. I governi dei paesi
arabi giudicarono positivamente sia il dialogo euro-arabo in sé che l’iniziativa di una conferenza per la cooperazione [cfr. Si arabo
alla proposta CEE (articolo non firmato), «Avanti», 7 marzo 1974].
723
Secondo quanto dichiarato da Washington, lo sviluppo del dialogo euro-arabo avrebbe potuto portare i paesi europei a cedere di
fronte all’insistente richiesta araba di forniture di armi. In realtà, però, le perplessità d’oltreoceano nascevano dalla volontà del
dipartimento di Stato di controllare direttamente l’andamento di questo processo e presumibilmente esse ebbero un certo peso nel far
affiorare ripensamenti in alcuni governi della CEE. Per quanto concerneva l’Italia, la posizione di Moro fu invece quella di voler
proseguire con il dialogo così come era stato concepito precedentemente in sede comunitaria, avvicinando la penisola alle strategie di
Parigi. Tra il ministro degli Esteri italiano e quello francese si ebbero infatti una serie di incontri che dimostrarono come il Medio
Oriente fosse ormai divenuto un punto focale nella politica estera di entrambe le nazioni. Per l’Italia questa convergenza suscitò
tuttavia notevoli dubbi sia in funzione della posizione antagonista che la Francia stava sviluppando all’interno dei Nove sia per la
netta contrapposizione di Parigi con la politica di Washington; pertanto il governo italiano non era disposto a spingersi fino a
sviluppare un dialogo euro-arabo al di fuori di un’azione che partisse esclusivamente dalla Comunità europea [per approfondimenti si
veda L. Riccardi, Sempre più con gli arabi. La politica italiana verso il Medio Oriente dopo la guerra del Kippur (1973-1976), cit.,
pp. 65-69]. La Comunità europea, secondo quanto sostenuto dallo stesso Moro, doveva svolgere un ruolo essenziale nell’evoluzione
di una politica filo-araba [cfr. L. V. Ferraris (a cura di), Manuale della politica estera italiana, 1947-1993, cit., p. 269].
206
Stati Uniti724. La situazione appariva piuttosto delicata in quanto se la Comunità avesse deciso, a
causa della pressione del segretario di Stato, di modificare le scelte del 4 marzo precedente la
Francia avrebbe sicuramente bloccato l’intero processo di cooperazione europea aprendo così le
porte al rischio di uno sfaldamento complessivo. Allo stesso modo vi era da attendersi una
reazione negativa del fronte arabo al punto da compromettere, con tutta probabilità, le relazioni
future. D’altronde, la Comunità non poteva trovarsi nella condizione di dover scegliere tra
Washington e Parigi e pertanto non restava che sperare che francesi e americani moderassero le
loro posizioni di partenza fino al raggiungimento di un compromesso725.
Nel frattempo, la crisi petrolifera internazionale sembrava volgere verso una fase
conclusiva. Durante la conferenza straordinaria di Vienna del 18-19 marzo sette paesi arabi
dell’Organization of Arab Petroleum Exporting Countries726 annunciarono ufficialmente la
sospensione dell’embargo nei confronti degli Stati Uniti, mentre la Libia, la Siria e l’Iraq
affermarono di voler continuare l’applicazione della sanzione. L’embargo rimase in vigore anche
nei confronti dell’Olanda, della Danimarca, della Rhodesia, del Portogallo e del Sud Africa727.
Nella stessa riunione si decise anche di includere l’Italia e la Germania Federale fra i paesi
cosiddetti “amici”, ciò che avrebbe comportato un ritorno della quantità di greggio importata da
Roma e Bonn ai livelli del settembre '73728. Ora che la crisi energetica aveva di fatto superato la
fase più acuta sembrava giunto il momento di concentrarsi sugli aiuti ai paesi poveri messi a dura
prova dalla situazione. In una comunicazione del 21 marzo '74 indirizzata al presidente del
Consiglio delle Comunità europee, Walter Scheel, il presidente della Commissione, FrançoisXavier Ortoli, propose la creazione di un Fondo mondiale di tre miliardi di dollari da distribuire
agli Stati più colpiti, nel quale tutti i paesi ricchi, e non solo i donatori tradizionali, erano
chiamati a contribuire. La Comunità avrebbe dovuto presentare il progetto in occasione della
sessione speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 9 aprile '74 dedicata ai
problemi delle materie prime e dello sviluppo729. Da parte statunitense si istituì invece una
724
Cfr. Telegram n. 817 from Sir Peter Ramsbotham, British Ambassador in Washington, to the Foreign and Commonwealth Office,
Washington, 7 marzo 1974, TNA, FCO, in K. Hamilton, P. Salmon, The Year of Europe: America, Europe and the Energy Crisis,
1972-1974, cit., doc. 565.
725
Nella riunione del Comitato Politico del 12 e 13 marzo si prese ufficialmente atto dell’impossibilità di dare attuazione alle scelte
della riunione del 4 marzo precedente in quanto la Gran Bretagna non aveva ancora sciolto la riserva e non esisteva una reale
comunità di intenti su come il dialogo euro-arabo avrebbe dovuto proseguire [cfr. L. Riccardi, Sempre più con gli arabi. La politica
italiana verso il Medio Oriente dopo la guerra del Kippur (1973-1976), cit., pp. 67-68].
726
L’OAPEC venne fondata nel '68 dal Kuwait, dalla Libia e dall’Arabia Saudita, già membri dell’OPEC, con lo scopo di separare la
produzione di petrolio dalle vicende politiche. Successivamente entrarono a far parte dell’organizzazione anche l’Algeria, l’Iraq, la
Siria e l’Egitto, il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, la Nigeria e il Qatar.
727
Cfr. Nota rapida sull’industria petrolifera, appunto interno non firmato, Roma, 22 marzo 1974, ASE, coll. BB. III. 1, udc. 422.
728
Ibidem.
729
Cfr. Lettera di Ortoli, presidente della Commissione delle Comunità europee, a Walter Scheel, presidente del Consiglio delle
Comunità europee, Bruxelles, 21 marzo 1974, ACEU, Intermediate Archives, 12027. La sessione speciale dell’Assemblea dell’ONU
era stata promossa dal Movimento dei non allineati il quale, al termine di accesi dibattiti, riuscì a ottenere l’approvazione di una
risoluzione che sanciva l’obiettivo di creare un Nuovo ordine economico internazionale [per ulteriori approfondimenti si vedano, tra
207
commissione ad hoc a cui presero parte rappresentanti del dipartimento di Stato, del Tesoro,
dell’Agency for International Development, del Council on International Economic Policy, del
Council of Economic Advisers e del National Security Council. Il rapporto finale stabilì che gli
Stati Uniti dovevano intervenire anche e soprattutto per mantenere e rafforzare la leadership
acquisita a partire dalla fine della prima guerra mondiale. In questo contesto, i paesi in via di
sviluppo erano considerati di primaria importanza sia perché gli USA ne erano i principali
creditori, e quindi risultavano direttamente interessati a garantirne le capacità di pagamento dei
debiti già contratti, sia perché le difficoltà economiche erano da sempre ritenute le principali
cause dell’instabilità politica interna730.
La questione degli aiuti ai paesi più in difficoltà sarebbe stata affrontata durante la sesta
sessione straordinaria dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di aprile, mentre il problema
della cooperazione europea e internazionale all’indomani della conferenza di Washington era
destinato a prolungarsi per diverso tempo e a condizionare le situazioni future.
gli altri, J. Bhagwati, The New International Economic Order: the North-South Debate, cit.; G. Garavini, La Comunità europea e il
Nuovo ordine economico internazionale (1974-1977), cit.; K. P. Sauvant, The Group of 77: evolution, structure, organization, cit.].
730
Cfr. Paper prepared by Ad Hoc Group of IER, Group including representatives of State, Treasury, AID, CIEP, Council of
Economic Advisers, NSC, Washington, 29 marzo 1974, GFL, Federal Reserve Board, Subject Files, Council of Economic Advisers.
Per approfondimenti si veda S. Labbate, Il ruolo dei petroldollari nelle relazioni Nord-Sud, in D. Caviglia, A. Varsori (a cura di),
Dollari, Petrolio e aiuti allo sviluppo. Il confronto Nord-Sud negli anni '60-70, cit., pp. 154-158.
208
CAPITOLO V
LA RISPOSTA ITALIANA ALLA CRISI PETROLIFERA
1. Gli sviluppi dell’energia nucleare
Lo shock petrolifero e la conseguente difficoltà di approvvigionamento energetico
avevano dimostrato ancora una volta la necessità improrogabile di trovare valide alternative ai
rifornimenti mediorientali731. In questo ambito, la soluzione più efficace era senza dubbio
rappresentata dalla prosecuzione degli investimenti nel settore nucleare: seppure non
nell’immediato, lo sviluppo dell’energia atomica per scopi pacifici avrebbe permesso all’Italia di
raggiungere il traguardo dell’indipendenza energetica dall’estero, eliminando sia i rischi di
possibili carenze di approvvigionamento che i costi eccessivi determinatisi dopo la guerra del
Kippur732.
Si trattava in pratica di riprendere il cammino interrotto nel '63 quando la penisola si
trovava al terzo posto mondiale fra i paesi produttori di energia elettronucleare e l’ENEL, da
poco costituita, decise, spinta dal direttore generale Angelini, di accantonare temporaneamente il
programma intermedio di costruzione di nuovi impianti nucleari proposto dal CNEN nel '62 per
aumentare la capacità produttiva di circa 1.500 MWe nel '70. Come già visto, solo nel novembre
'69 l’ente statale decise l’avvio della costruzione della quarta centrale nucleare a Caorso, con un
reattore a acqua bollente di ottocento MWe della General Electric. Il programma dell’ENEL
prevedeva l’ordinazione di un nuovo impianto da ottocento-mille MWe all’anno per il
quadriennio 1970-1974 ma i finanziamenti vennero negati bloccando ogni iniziativa fino al '72.
In quell’anno si rilanciò il piano nucleare e l’ENEL decise la costruzione del quinto e del sesto
impianto, ciascuno di uguale potenza rispetto a quello del Caorso; essi sarebbero stati realizzati
nel Lazio mediante la compartecipazione dell’Ansaldo Meccanico-Nucleare e della General
Electric733. Questi nuovi progetti erano ancora in cantiere quando scoppiò la crisi petrolifera e
non furono pertanto in grado di alleviare la riduzione degli approvvigionamenti e l’aumento
vertiginoso dei costi energetici. Alla fine del '73 l’Italia, dal terzo posto detenuto negli anni
731
Per uno studio sulla situazione del mercato petrolifero internazionale dopo i primi difficili mesi dello shock si veda, tra gli altri,
D. Yergin, The Prize. The Epic Quest for Oil, Money and Power, cit., pp. 633-673.
732
La scelta di riprendere gli investimenti nel nucleare non era però condivisa da tutto il mondo politico italiano [per
approfondimenti cfr. A. Clô, Crisi energetica: consumi, risparmi e penetrazione elettrica, in G. Zanetti (a cura di), Storia
dell’industria elettrica in Italia, vol. 5, cit., pp. 122-124]. Sulle motivazioni della necessità assoluta di investire nel settore degli usi
pacifici dell’energia atomica si veda invece S. Vaccà, Politica energetica e sviluppo nucleare: ragioni e limiti, in AA. VV. Una
strategia per lo sviluppo energetico italiano, Milano, 1977, pp. 21-35.)
733
La costruzione della centrale elettronucleare nel Molise venne assegnata alla SENN su licenza Westinghouse, ma l’autorizzazione
subì un blocco per via dell’immediata opposizione della Regione (per approfondimenti si vedano Ente Nazionale Energia Elettrica,
Relazione del Direttore generale al Consiglio di amministrazione sull’attività dell’ente nel 1973, Roma, 1974, pp. 427-431,
ASENEL; P. Fornaciari, Il petrolio, l’atomo e il metano: l’Italia nucleare, 1946-1997, cit., pp. 84-85).
209
Sessanta, scese al quattordicesimo nella produzione elettronucleare mondiale con una potenza
installata o in costruzione pari a 1.412 MWe734. Una svolta in questa direzione si ebbe già con
l’insediamento ufficiale dei nuovi vertici dell’ENEL nel marzo del '73 e con i progetti delineati
dal ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, Mauro Ferri, per potenziare le
centrali nucleari del paese735. Fu però la crisi petrolifera a accelerare in modo decisivo i piani per
l’utilizzo dell’energia atomica determinando, a partire dal 1974, una serie di rilevanti iniziative
nel settore. Nella programmazione approvata nel dicembre '73 dal Consiglio di amministrazione
dell’ente elettrico, si decise l’ordinazione di altre due centrali nucleari e si stabilì di
commissionare altrettanti impianti per ogni anno successivo736. La consapevolezza di dover
modificare radicalmente la politica nucleare portata avanti fino a quel momento divenne dunque
realtà anche all’interno dell’ENEL, così come testimonia la relazione annuale del Consiglio di
amministrazione del dicembre '74:
“[La crisi petrolifera rese] improcrastinabile il ricorso a fonti alternative o, per meglio dire,
integrative, al fine di assicurare in ogni caso all’economia nazionale il soddisfacimento dei
fabbisogni energetici. Escluso che i consumi di prodotti petroliferi [potessero] continuare a
crescere al ritmo assunto in questi ultimi dieci anni, sia per ragioni di disponibilità, sia perché non
era assolutamente prevedibile un così forte aumento del loro prezzo nel giro di soli tre mesi […] il
737
ricorso all’energia nucleare rappresenta[va] la sola alternativa industriale valida”
.
Al pari di quanto accadde in tutti i paesi industrializzati che svilupparono all’indomani
della crisi petrolifera un sostanziale incremento dei programmi di centrali nucleari, anche in
Italia la decisione andò incontro a notevoli ostacoli acuiti dall’aggravarsi della situazione
economica e finanziaria che coinvolgeva tutto l’Occidente. L’unico paese che faceva eccezione
per le scelte messe in campo dopo lo shock petrolifero furono gli Stati Uniti: Washington,
capitale della nazione di gran lunga più impegnata nello sviluppo dell’energia atomica per scopi
pacifici, optò infatti per un momentaneo rallentamento dei programmi nucleari. Con ogni
probabilità la mossa si rese necessaria sia per la fase di stasi registrata nel ritmo di sviluppo della
734
Prima dell’Italia nella classifica della produzione elettronucleare figuravano rispettivamente Stati Uniti, Giappone, Regno Unito,
Repubblica Federale Tedesca, Unione Sovietica, Francia, Svezia, Spagna, Canada, Cecoslovacchia, Svizzera, Repubblica
Democratica Tedesca e Belgio (ibidem, p. 85).
735
Si nominò presidente dell’ENEL proprio Arnaldo Maria Angelini che dovette quindi dimettersi dalla carica di consigliere del
Consiglio di amministrazione del CNEN (per approfondimenti si veda Verbale dell’8ª riunione del Consiglio di amministrazione del
CNEN, Roma, 3 aprile 1973, p. 4, ASENEA).
736
Cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31
dicembre 1973, Roma, 1974, p. 10, ASENEL; Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazione del Direttore generale al Consiglio di
amministrazione sull’attività dell’ente nel 1973, Roma, 1974, pp. 427-458, ibidem.
737
Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre
1974, Roma, 1975, p. 7, ibidem.
210
domanda di energia, che per le gravi difficoltà finanziarie incontrate da molte società elettriche.
Il programma nucleare americano rimase tuttavia il più rilevante in quanto a dimensioni e le
nuove decisioni non ne intaccarono l’ampiezza e l’impatto globale. D’altronde, la crisi
petrolifera era troppo recente perché tutte le sue conseguenze sull’economia e sullo sviluppo
energetico del mondo occidentale potessero considerarsi concluse, cosicché risultava pressoché
impossibile avventurarsi in previsioni sul futuro.
In questa situazione di completa incertezza, si erano tuttavia delineati alcuni assiomi
condivisi da tutti gli operatori internazionali del settore energetico e dai governi: la fonte
nucleare, innanzitutto, rappresentava l’unica realistica alternativa ai combustibili fossili
utilizzabile al più presto e su scala industriale; inoltre, la domanda complessiva di energia dopo
un periodo di assestamento era destinata a crescere nuovamente a ritmi sostenuti a causa proprio
dell’esistenza della fonte nucleare, la cui unica applicazione industriale di rilievo appariva
nell’immediato confinata alla produzione di energia elettrica. Queste certezze portarono
praticamente tutti i paesi industrializzati del mondo occidentale a puntare pressoché
esclusivamente sul nucleare. Un indirizzo che si concretizzò anche in Italia dove le difficoltà
energetiche erano le più critiche dell’area occidentale. Pertanto, nel '74 il nuovo presidente
dell’ENEL, Arnaldo Maria Angelini, che all’indomani della nascita dell’ente elettrico era stato in
qualità di direttore generale il principale artefice dell’accantonamento del piano di costruzione di
nuovi impianti elettronucleari, si fece promotore della nuova politica nucleare nazionale,
sottolineando pubblicamente la necessità di promuovere consistenti investimenti nel settore:
“Gli eventi eccezionali, che [avevano] caratterizzato il settore energetico a partire
dall’autunno 1973, [rendevano] alquanto difficile effettuare in tema di energia previsioni a medio
e a lungo termine che [avessero] l’attendibilità desiderabile; agli usuali elementi di incertezza se
ne [aggiungevano] infatti oggi molti altri, alcuni dei quali rilevanti, come ad esempio l’andamento
nel tempo del prezzo di alcune fonti energetiche primarie e le conseguenze che prezzo e
disponibilità di tali fonti [avrebbero potuto] avere sullo sviluppo economico dei singoli Paesi.
Queste difficoltà [permanevano] quando dalle previsioni dei fabbisogni energetici complessivi si
[passava] a quelle relative alla domanda di energia elettrica. Esse [apparivano] però di entità
minore e ciò essenzialmente in quanto per il soddisfacimento della domanda di energia elettrica si
[poteva] contare su una fonte, quella nucleare, che [era] competitiva e caratterizzata da una buona
sicurezza di approvvigionamento; inoltre la tendenza, in atto da decenni, a convertire una parte
crescente del fabbisogno energetico complessivo in energia elettrica [avrebbe continuato] con
ogni probabilità a manifestarsi ed anche questo elemento [avrebbe dovuto] contribuire a ridurre il
grado di incertezza delle previsioni. Su quello che [sarebbe stato] poi il ruolo della fonte nucleare
per la produzione di energia elettrica, le previsioni, a rigor di logica, [avrebbero dovuto] avere un
211
grado di attendibilità ancora maggiore, in quanto [appariva] oggi scontato che nella maggior parte
dei Paesi industrializzati le nuove centrali da mettere in cantiere [sarebbero state] nella quasi
totalità nucleari. Ciò [valeva] in particolare per quei Paesi, come l’Italia, che non [disponevano]
di combustibili fossili se non in quantitativi molto limitati e per i quali l’energia nucleare, oltre ad
essere economicamente conveniente, rappresenta[va] l’unica alternativa valida sul piano
industriale per ridurre il deficit valutario dovuto alle importazioni di petrolio e la dipendenza dai
Paesi produttori e per migliorare la sicurezza di approvvigionamento delle importazioni
energetiche”738.
Se, dunque, dopo la seconda guerra mondiale il petrolio appariva l’unica fonte energetica
conveniente grazie all’abbondanza, all’economicità, alla facilità di trasporto, oltre che per la sua
duttilità, gli eventi verificatisi con lo shock del '73 avevano finito per rendere l’uso pacifico
dell’energia atomica la strada più efficace per rispondere alle esigenze internazionali degli anni
Settanta e Ottanta. L’energia elettrica di origine nucleare risultava adesso notevolmente più
conveniente dal punto di vista economico rispetto a quella prodotta con combustibili fossili.
Questa tendenza sembrava inoltre destinata a durare anche nel medio e nel lungo periodo. D’altra
parte, il nucleare appariva preferibile ai combustibili fossili di importazione anche in funzione
della sicurezza degli approvvigionamenti: dalle recenti ricerche l’uranio risultava infatti alquanto
diffuso nel mondo e i principali giacimenti scoperti si trovavano in paesi politicamente stabili.
Era dunque ragionevole immaginare che l’intensificarsi delle ricerche avrebbe determinato un
notevole incremento delle riserve di uranio naturale accertate. Un altro vantaggio era
rappresentato dal minore costo di produzione energetica: per ogni kWh prodotto in una centrale
atomica si otteneva un risparmio di quasi nove volte superiore rispetto a un impianto
termolettrico. In un momento di grave crisi economica internazionale anche questa differenza si
rivelò determinante nelle valutazioni dei paesi maggiormente colpiti dallo shock petrolifero e dai
suoi risvolti finanziari. Vi erano però delle difficoltà oggettive da considerare in merito
all’installazione di nuove centrali nucleari: in diversi paesi, e principalmente negli Stati Uniti, si
riscontrarono difatti dei problemi sulla collocazione dei siti in seguito a campagne di stampa e a
prese di posizione contrarie alla costruzione di ulteriori impianti. Il fenomeno era sul punto di
trasferirsi anche in Italia favorito dai tempi sempre più lunghi registrati per ottenere le necessarie
autorizzazioni burocratiche e amministrative739. Le difficoltà maggiori provenivano però dai
738
A. M. Angelini, Verso la prevalenza dell’energia elettrica da fonte nucleare, relazione presentata alle XIII Giornate dell’Energia
Nucleare tenuto a Milano dal 12 al 14 dicembre 1974 sul tema “La fonte nucleare nel futuro energetico”, in Accademia Nazionale
delle Scienze detta dei XL, ENEL, Società Italiana per il Progresso delle Scienze, Raccolta di Scritti sull’Energia Elettrica del Prof.
Arnaldo Maria Angelini, cit., pp. 453-454.
739
Durante l’estate del '73, infatti, il governo italiano, preoccupato degli effetti esiziali che un’insufficiente disponibilità di energia
elettrica avrebbe comportato sull’intera economia nazionale, aveva emanato un decreto legge, successivamente modificato e
212
risvolti finanziari che assumevano un’importanza fondamentale soprattutto per l’Italia. Le
centrali nucleari richiedevano in effetti investimenti decisamente superiori rispetto a quelli
previsti per la realizzazione di impianti di tipo termoelettrico. Se a questo si aggiungeva il
numero elevato di centrali che l’Italia avrebbe dovuto costruire affinché i fabbisogni di energia
elettrica fossero integralmente soddisfatti dal nucleare, le dimensioni dello sforzo economico
risultavano praticamente irraggiungibili per il governo italiano740.
Nel corso del '74 l’ente elettrico statale procedette con i lavori per la costruzione della
quarta centrale ubicata sulla sponda destra del Po, presso Caorso, superando alcune difficoltà
tecniche e burocratiche sopraggiunte in corso d’opera, e, come già anticipato, ordinò la
costruzione di due nuove unità nucleari di circa un milione di kW ciascuna, esercitando nel mese
di luglio il diritto di opzione previsto con la commissione della quinta e della sesta centrale. Così
l’ENEL portò a compimento il programma annuale preannunciato nella relazione per l’esercizio
1971. Due di questi nuovi impianti, precisamente il quinto e il settimo, della potenza di 952.000
kW ciascuno e equipaggiati con reattori a acqua naturale in pressione, era previsto che
sorgessero nello stesso sito, sulla costa adriatica del Molise. L’ottava unità doveva invece essere
gemella con la sesta con una potenza di 982.000 kW e equipaggiata con un reattore a acqua
bollente; entrambe dovevano essere localizzare sulla costa tirrenica dell’Alto Lazio741. Come in
parte già avvenuto nel caso degli Stati Uniti, il completamento del programma nucleare subì un
ritardo a causa della tardiva disponibilità dei siti identificati: in particolare risultò molto
complessa e lenta la procedura per ottenere i necessari permessi per avviare le costruzioni. Per il
sito del Molise, ad esempio, la conclusione della procedura di autorizzazione tardò a giungere in
quanto gli organi regionali inquadravano l’impianto in un contesto più generale di promozione
delle attività industriali della zona742. I ritardi ancora una volta dimostrarono la centralità di una
scelta a favore della partecipazione diretta ai progetti di cooperazione nucleare europea avviati
nel corso dei mesi precedenti.
assorbito dalla legge n. 880 del 18 dicembre 1973, che disciplinava l’iter di autorizzazione per la localizzazione degli impianti
destinati alla produzione e al trasporto di energia elettrica. Questa legge chiamava le Regioni a partecipare alla scelta dei siti,
intendendo facilitare la costruzione degli impianti da tempo programmati e, in particolare, delle nove centrali elencate nella legge
che, nell’intenzione del legislatore, dovevano essere avviate in tempo molto breve. La legge si riferiva a impianti termoelettrici ma
divenne applicabile anche per quelli nucleari, ritardando, anziché accelerare, la procedura per ottenere l’autorizzazione alla
realizzazione di nuove centrali nucleari.
740
Secondo le stime del presidente dell’ENEL il finanziamento necessario solo per il quinquennio '75-'79 sarebbe dovuto essere
dell’ordine di 4.500-6.000 miliardi di lire (per approfondimenti sulla necessità di investire sulla fonte nucleare e sulla sua
convenienza si veda A. M. Angelini, Verso la prevalenza dell’energia elettrica da fonte nucleare, relazione presentata alle XIII
Giornate dell’Energia Nucleare tenuto a Milano dal 12 al 14 dicembre 1974 sul tema “La fonte nucleare nel futuro energetico”, in
Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, ENEL, Società Italiana per il Progresso delle Scienze, Raccolta di Scritti
sull’Energia Elettrica del Prof. Arnaldo Maria Angelini, cit., pp. 453-463).
741
Per approfondimenti si veda Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei
revisori e bilancio al 31 dicembre 1974, Roma, 1975, pp. 118-121, ASENEL.
742
“La realizzazione della centrale [in Molise sembrava] quindi condizionata alla approvazione da parte delle Autorità del governo
di infrastrutture connesse con lo sviluppo industriale della regione ed ai relativi stanziamenti” (ibidem, p. 120).
213
Tuttavia, nell’ambito dei contributi nucleari nazionali, nel '74 venne portato avanti il
progetto CIRENE (relativo alla realizzazione a Latina di un prototipo di 40.000 kW mediante
un’iniziativa congiunta del CNEN e dell’ENEL e in stretta collaborazione con il CISE, vero
promotore dell’iniziativa), con la partecipazione attiva delle industrie del paese. Il CIRENE, nato
agli inizi degli anni Sessanta, apparteneva alla categoria dei convertitori di tipo avanzato e si
sviluppò inizialmente nei laboratori del CISE e con programmi di ricerca finanziati in un primo
momento dall’EURATOM e, successivamente, dal CNEN743. Alla fine del '73 il Comitato
Nazionale per l’Energia Nucleare e l’ENEL erano giunti alla conclusione che il modo migliore
per l’industria costruttrice italiana per realizzare il prototipo consisteva nell’affidare alla NIRA la
costruzione dell’intera isola nucleare, tenendo in particolare conto che essa era stata a suo tempo
costituita proprio per lo studio e la sperimentazione dei reattori avanzati e veloci. Si trasferì
pertanto presso questa società tutta la documentazione tecnica necessaria per proseguire con la
realizzazione del prototipo e nel corso del '74 iniziarono i relativi lavori presso il cantiere di
743
Molto importante fu anche la continuazione dell’accordo quinquennale di collaborazione, già citato in precedenza, tra ENEL e
CNEN, da una parte, e AECL, dall’altra, per uno scambio ampio di informazioni sui programmi di ricerca e di sviluppo e sulle
attività relative alla realizzazione dell’impianto di Gentilly in Canada e dello stesso prototipo CIRENE. Nel corso del '74 si
sottoscrissero inoltre altri accordi bilaterali di cooperazione nel campo degli usi pacifici dell’energia nucleare; in aprile, ad esempio,
si sostanziò quello tra il CNEN e la Bulgaria (cfr. Verbale della 23ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 3
aprile 1974, p. 18, ASENEA) e si paventò l’ipotesi di rendere più vasta la collaborazione iniziata nel '65 con il Comitato statale per
l’utilizzo dell’energia atomica dell’URSS (GOSKOMITET), in modo che non interessasse solo le attività di fisica nucleare ma anche
quelle tecnologiche relative ai combustibili, ai materiali e ai reattori e che rispondesse alle dichiarazioni espresse recentemente dal
vicepresidente del Comitato sovietico, Morokov, desideroso che la cooperazione investisse anche le attività di ricerca (per
approfondimenti si veda Verbale della 24ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 24 aprile 1974, pp. 47-48,
ibidem). In ottobre si stipulò invece un accordo bilaterale di cooperazione nel campo degli usi pacifici dell’energia nucleare con
l’Ungheria (cfr. Verbale della 33ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 9 ottobre 1974, p. 26, ibidem) e in
dicembre si registrò un’intesa con Israele per una collaborazione sui problemi relativi alla sicurezza, al controllo e all’organizzazione
delle centrali nucleari (cfr. Verbale della 38ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 19 dicembre 1974, p. 4,
ibidem). Nel corso del '75 si sostanziarono altre cooperazioni internazionali: in gennaio, ad esempio, si rinnovò per la terza volta
l’accordo quinquennale bilaterale tra il CNEN e la Commissione per l’Energia Atomica Pakistana (PAEC) con validità settembre
1976-1981 (cfr. Verbale della 39ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 29 gennaio 1975, p. 46, ibidem); alla
stessa stregua venne rinnovato quello con l’Argentina del '71 (cfr. Verbale della 46ª riunione del Consiglio di amministrazione del
CNEN, Roma, 5 giugno 1975, p. 36, ibidem). Il 29 maggio si firmò anche a Washington un accordo di collaborazione quinquennale
tra il CNEN e la NRC, l’organo pubblico statunitense di controllo e di sorveglianza delle applicazioni nucleari, sorto nell’ottobre '74
all’indomani della soppressione della precedente USAEC e dalla quale era nato anche il nuovo ente di ricerca sull’energia (ERDA) a
cui erano state affidate tutte le altre attività inerenti il nucleare (ibidem, p. 4). Inoltre, sempre in maggio, si sostanziò il consorzio
NUCLITAL-CNEN-Ansaldo Meccanico-Nucleare per lo sviluppo delle conoscenze e per la progettazione di noccioli di rettori BWR,
ovvero a acqua bollente, come quelli della centrale del Garigliano, del Caorso e per le due unità previste a Montalto di Castro
(ibidem, pp. 4-5). In luglio, invece, venne rinnovato l’accordo con la Spagna e se ne stipulò uno nuovo con l’Iraq (cfr. Verbale della
48ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 24 luglio 1975, p. 25, ibidem). Nel corso del '76, oltretutto, si
definirono i termini dell’applicazione dell’intesa con l’Iraq e si raggiunse una convenzione con il Comitato Statale per l’Energia
Nucleare della Romania (cfr. Verbale della 55ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 17 marzo 1976, pp. 4-5,
ibidem). Per quanto riguardava nella fattispecie l’ENEL, nel febbraio '76 si raggiunse l’accordo tra la NEA e l’Ente elettrico di Stato
Venezuelano (CADAFE) per l’assistenza tecnica su tutte le attività concernenti l’attuazione di un programma di sviluppo dell’energia
nucleare nello stato sudamericano; un altro accordo interessò la Commissione pakistana per l’energia atomica (PAEK) che prevedeva
l’assistenza tecnica dell’ENEL nelle fasi di programmazione, preparazione e esercizio di centrali nucleari; venne inoltre manifestato
l’interesse da parte dell’Organizzazione Iraniana per l’Energia Nucleare (AEOI) affinché l’ente elettrico italiano effettuasse una
collaborazione con la Motor Columbus A. G. di Baden per lo studio e per l’individuazione di siti nucleari nell’area nord-occidentale
dell’Iran; altri contatti si ebbero con rappresentanti delle aziende elettriche jugoslave incaricate della realizzazione della centrale
nucleare di Krsko per la fornitura di assistenza tecnica in merito a alcuni specifici problemi e con rappresentanti della Elektroprivreda
Dalmacije per l’eventuale assistenza tecnica nella realizzazione a Zadar di un impianto nucleare; si avviarono infine trattative di
consulenza con autorità maltesi, algerine e boliviane (per approfondimenti si veda Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazione del
Direttore generale al Consiglio di amministrazione sull’attività dell’ente nel 1976, Roma, 1977, ASENEL).
214
Latina744. Il progetto, sebbene avesse accumulato un forte ritardo rispetto ai programmi originali,
risultava ancora pienamente valido, come dimostravano le iniziative analoghe in corso in Canada
e in Giappone e la decisione presa dalla Gran Bretagna di impostare il nuovo programma
nucleare britannico su un tipo di reattore (SGHWR) che, al pari del prototipo italiano, era
moderato a acqua pesante e raffreddato con acqua naturale in condizioni di cambiamento di fase.
In linea teorica, la scelta italiana poteva quindi permettere la realizzazione di una proficua
collaborazione con la Gran Bretagna collocando l’attività dei convertitori avanzati a acqua
pesante su un piano di collaborazione internazionale745.
Agli inizi del '75 i progetti nucleari italiani e la relativa programmazione erano dunque
caratterizzati da una certa concretezza e riflettevano il periodo di assoluta emergenza energetica
acutizzato dalla crisi petrolifera. Nel passaggio dalla fase di pianificazione a quella di
realizzazione si verificarono però una serie di incidenti di percorso che incisero notevolmente sui
tempi di attuazione. La legge n. 880 del 18 dicembre 1973 che, ad esempio, si proponeva di
facilitare la costruzione di nuove centrali termoelettriche mediante la partecipazione diretta dei
governi regionali, rese di fatto più complicato l’iter di autorizzazione anche per la costruzione
degli impianti nucleari successivamente varati. Delle nove previste dalla stesse legge e già
autorizzate dal CIPE, fu possibile avviare o proseguire i lavori solo di tre centrali: Porto Tolle in
località Valle Lustraura, Brindisi e, parzialmente, Rossano Calabro; per le altre, invece,
nonostante il massimo impegno dell’ENEL non si era ancora riusciti a ottenere le prescritte
autorizzazioni e la licenza edilizia per l’avvio dei lavori746. I motivi che spingevano le
amministrazioni locali a non concedere i permessi erano essenzialmente dettati da
preoccupazioni, spesso esasperate, di natura ecologica. Di fronte a queste posizioni l’ente
elettrico non aveva alcun potere di intervenire per una rapida soluzione e analoghi problemi
744
La decisione di affidare alla NIRA la realizzazione dell’impianto CIRENE, togliendolo di fatto alla società Ansaldo MeccanicoNucleare, generò molte perplessità. Durante la riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN del 3 aprile '74, il consigliere
Giovanni Landriscina chiese infatti chiarimenti in merito al direttore generale del Comitato, Gianfranco Franco, sottolineando come
al momento della stipula del contratto con l’Ansaldo si erano riconosciuti a quest’ultima tutti i requisiti e le capacità tecniche,
economiche e finanziarie del caso. Franco rispose precisando che “nel Foratom di Firenze dell’ottobre scorso [era] stata riconfermata,
per quanto concerne[va] le centrali provate, dalla maggioranza degli esperti partecipanti, la validità della formula cosiddetta del
«Turn-key»: [era] stata cioè riconfermata l’utilità che i produttori di energia elettrica, nel caso specifico l’ENEL, anziché passare
singole commesse per le varie parti dell’impianto a società diverse, si [affidassero] ad un’unica organizzazione, la quale, pur
avvalendosi di sub-fornitori, [offrisse] una garanzia globale sull’impianto” (Verbale della 23ª riunione del Consiglio di
amministrazione del CNEN, Roma, 3 aprile 1974, p. 13, ASENEA). Le affermazioni del direttore generale convinsero il consigliere
Landriscina anche se l’assegnazione del progetto alla NIRA avrebbe sicuramente significato un ritardo nel suo completamento (per
approfondimenti di veda ibidem, pp. 12-17).
745
Cfr. Verbale della 29ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 17 luglio 1974, p. 4, ibidem; Ente Nazionale
Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31 dicembre 1974, Roma, 1975,
p. 125, ASENEL. Durante una visita effettuata in Canada da parte di una delegazione del CNEN e dell’ENEL, capeggiata dai
rispettivi presidenti, Clementel e Angelini, e effettuata in base all’accordo in essere tra i due enti italiani e l’AECL (avente per
oggetto lo scambio di informazioni sulle tecniche dei reattori a acqua pesante), i canadesi espressero parere positivo circa la
collaborazione anche della Gran Bretagna (cfr. Verbale della 33ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 9
ottobre 1974, pp. 4-5, ASENEA).
746
Per una testimonianza diretta sulla questione delle autorizzazioni locali si veda P. Fornaciari, Il petrolio, l’atomo e il metano:
l’Italia nucleare, 1946-1997, cit., pp. 86-88.
215
erano sorti con il programma operativo delle centrali nucleari: delle quattro nuove unità previste
da un milione di chilowattora ciascuna, il CIPE aveva autorizzato, nel luglio '74, la costruzione
solo delle due ubicate nel Lazio nella zona di Montalto di Castro, per le quali erano però ancora
in corso gli ulteriori adempimenti amministrativi. Per le altre due unità, invece, il CIPE non
aveva ancora preso alcuna decisione a seguito della persistente opposizione in seno alla
Commissione interregionale della Regione Molise, nel cui territorio era prevista l’ubicazione
della nuova centrale. Da ciò derivava che nella realizzazione di molti impianti, sia termoelettrici
che nucleari, mancava uno dei presupporti essenziali della programmazione e si imponeva
l’intervento urgente e tempestivo del governo747.
Allo stesso tempo, il nuovo ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato,
Carlo Donat-Cattin, a partire dal gennaio 1975 avviò una serie di incontri esplorativi al fine di
avviare una nuova politica energetica nazionale in funzione delle reali esigenze del paese. In
base a quanto riportato nella riunione del 29 gennaio del consiglio di amministrazione del
CNEN, dai colloqui con Donat-Cattin era emersa l’ipotesi di iniziare la costruzione di ben venti
nuovi impianti nucleari entro dieci anni748. Si trattava ancora di discussioni preliminari che
sarebbero però state la base per l’enunciazione del cosiddetto Piano Energetico Nazionale,
presentato dallo stesso ministro nel luglio successivo.
2. I progetti di cooperazione nucleare europea
La collaborazione fra i paesi europei nel settore nucleare era iniziata prima della crisi
petrolifera ma da questo evento aveva subito una forte accelerazione. Essa era il risultato di
accordi bilaterali e, in particolare, dell’iniziativa degli enti energetici nazionali, piuttosto che il
frutto di una reale politica nucleare comunitaria ancora in fase di decollo. Per quanto concerneva
l’ENEL, ad esempio, venne portata avanti con vigore l’iniziativa con la Electricité de France e la
Rheinisch-Westfälisches Elektrizitätswerk per la costruzione di impianti nucleari di
dimostrazione equipaggiati con reattori autofertilizzanti. Il 28 dicembre '73 era stata firmata la
convenzione fra le società interessate mediante la quale vennero regolarizzati i rapporti tra i soci.
La stipula faceva seguito all’approvazione dell’iniziativa da parte del CIPE e alla modifica della
legge sulla nazionalizzazione che il Parlamento italiano approvò proprio nel dicembre dello
747
Per approfondimenti si veda La costruzione delle nuove centrali termoelettriche dell’ENEL e la legge 18 dicembre 1973, n. 880,
documento preparato per la presidenza del Consiglio dei ministri (non firmato), Roma, 8 gennaio 1975, ACS, Carte Ugo La Malfa,
Serie 3, Cariche di Governo, Sottoserie 6, Vicepresidente del Consiglio (IV° Governo Moro), Busta 39.
748
Cfr. Verbale della 39ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 29 gennaio 1975, pp. 4-8, ASENEA.
216
stesso anno al fine di rendere legittima la partecipazione dell’ENEL all’importante iniziativa749.
Nel corso del '74 all’interno del cosiddetto progetto UNIPÈDE si costituirono due società
incaricate di realizzare i due impianti previsti750. In entrambi i consorzi i rappresentanti negli
organi direttivi erano proporzionali alle quote di partecipazione: l’ENEL, nella fattispecie, prese
parte all’iniziativa per un terzo e venne rappresentata rispettivamente da un membro nel
direttorio (composto da tre partecipanti) e da quattro rappresentanti nel consiglio di sorveglianza
(formato da dodici). La NERSA, i cui uffici si stabilirono a Lione, aveva il compito di realizzare
a Creys-Malville, lungo il corso del Rodano, un impianto dimostrativo da 1.200 MW,
equipaggiato con un reattore autofertilizzante, derivato dal prototipo francese Phénix751. La
collaborazione fra i tre soci per l’impostazione e la progettazione impiantistica della centrale
ebbe inizio fin dai primi mesi dell’anno e, parallelamente, diede il via alla sottoscrizione di
accordi tecnici tra industrie e enti di ricerca dei paesi interessati. Per quanto concerneva l’Italia,
le cooperazioni più importanti riguardarono la NIRA e alcune industrie costruttrici francesi e,
soprattutto, il Commissariat à l’Energie Atomique, creatore dello stesso prototipo Phénix752. Con
quest’ultima società si stipularono inoltre accordi per una collaborazione nel campo della ricerca
e dello sviluppo e per lo scambio di informazioni con il CNEN753. La rilevanza dell’adesione
italiana al progetto ENEL-EDF-RWE, secondo il parere riportato in un promemoria dell’ENI
relativo agli accordi fra la NIRA e l’AGIP Nucleare, consisteva nel fatto che esso poteva
rappresentare il preludio per garantire all’Italia e, soprattutto alle sue industrie, promettenti
prospettive economiche; per la prima volta si era infatti agito armonicamente per garantire la
presenza simultanea di tutti gli enti settoriali interessati:
“L’importanza della partecipazione italiana all’iniziativa [andava] soprattutto vista sotto
questa luce: come premessa per assicurare alla nostra industria una presenza attiva e significativa
in un settore energetico tecnologicamente avanzato e caratterizzato da prospettive commerciali di
749
Cfr. legge n. 856 del 18 dicembre 1973.
La prima era la NERSA, costituita nel mese di luglio, mentre la seconda era la ESK, fondata nel mese di ottobre.
751
Cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31
dicembre 1974, Roma, 1975, pp. 121-123, ASENEL.
752
L’accordo tra la NIRA e il CEA sui reattori veloci refrigerati al sodio prevedeva una collaborazione a lungo termine pari a
quindici anni a partire dall’entrata in esercizio della centrale di Malville.
753
In particolare venne costituito un comitato di coordinamento tra il CNEN e il CEA, anch’esso della durata di quindici anni, la cui
struttura organizzativa si ispirava a quella dei comitati di gestione dei contratti EURATOM. Il direttorio era aperto alla
collaborazione di altre nazioni e era già in atto una proposta di partecipazione della Repubblica Federale Tedesca per l’esperienza
critica del Superphénix. I vantaggi per il CNEN potevano rivelarsi dunque molto favorevoli in quanto il Comitato avrebbe potuto
disporre di tutte le conoscenze tecnologicamente più avanzate possedute dal CEA nel settore dei reattori veloci (per approfondimenti
si vedano Verbale della 24ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 24 aprile 1974, pp. 52-59, ASENEA;
Verbale della 25ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 30 aprile 1974, pp. 3-15, ibidem). La firma
dell’accordo di collaborazione CNEN-CEA si ebbe il 7 giugno (cfr. Verbale della 27ª riunione del Consiglio di amministrazione del
CNEN, Roma, 19 giugno 1974, pp. 4-5, ibidem). Un obiettivo importante della collaborazione italo-francese in questo campo era
rappresentato anche dalla realizzazione del reattore veloce PEC, sul quale la Francia poneva grande interesse, nel quadro dei
progressi dello sviluppo del reattore autofertilizzante al sodio e del relativo combustibile.
750
217
estremo interesse. [Era] particolarmente significativo osservare che mai, come in questa
occasione, l’Italia [aveva] svolto un’azione coordinata per assicurare la contemporanea presenza,
nell’ambito delle relative competenze, di tutti gli Enti ed organismi interessati al settore; e ciò in
un quadro di accordi che [aprivano] prospettive ben più ampie di quelle rappresentate dalla
realizzazione della prima grande centrale elettronucleare mondiale autofertilizzante”754.
Infatti, oltre alle sopracitate collaborazioni fra l’ENEL, l’EDF e la RWE nel progetto
UNIPÈDE, tra il CNEN e il CEA sui reattori veloci autofertilizzanti e refrigeranti al sodio, fra la
NIRA e il CEA sui neutroni veloci al sodio, si aggiunsero: un accordo operativo tra la NIRA, il
Groupement Neutron Rapides755 e la società Technicatome, controllata sempre dalla francese
CEA, per l’offerta congiunta e relativa fornitura alla NERSA della caldaia nucleare della centrale
di Malville756 e una convenzione di licenza e di cooperazione tecnica fra l’AGIP Nucleare e il
CEA per la realizzazione in Italia di una fabbrica di elementi di combustibile nucleare a ossidi
misti uranio-plutonio, in parte destinati alla prima carica della centrale di Malville757. Altre
importanti partecipazioni per le aziende italiane si verificarono infine con l’aggiudicazione di
diverse gare per la costruzione concreta dell’impianto e con la fornitura di ben un terzo delle
apparecchiature necessarie. La decisione finale per la sua realizzazione era stata rinviata alla
seconda metà del '75, mentre la data prevista per il suo completamento era il 1980-1981. Più a
rilento procedettero invece le attività svolte dalla ESK per la quale si ipotizzava di avviare la
costruzione di un secondo impianto di dimostrazione, equipaggiato con un reattore
autofertilizzante veloce, un anno dopo l’entrata in funzione del prototipo tedesco-belga-olandese
SNR-300 di Kalkar, prevista per il 1980758.
754
Promemoria sui reattori veloci e sugli accordi NIRA-AGIP Nucleare (non firmato), 31 maggio 1974, ASE, coll. AS. I. 2, udc. 17.
Il GNR venne costituito dalle società Alsthome-CGE e Fives-Cail-Babcock.
756
In base a questo accordo, all’industria italiana si assicurarono forniture equivalenti a un terzo, pari cioè alla partecipazione
dell’ENEL nella società NERSA. Era anche prevista la costituzione di un Comitato di direzione di tre membri e di una équipe
comune per la progettazione e la sorveglianza tecnica su tutto il lavoro (per approfondimenti Promemoria sui reattori veloci e sugli
accordi NIRA-AGIP Nucleare (non firmato), 31 maggio 1974, ASE, coll. AS. I. 2, udc. 17).
757
Secondo quanto riportato nel promemoria dell’ENI “la fornitura del combustibile […] rappresenta[va] la commessa più
importante e qualificata affidata all’industria italiana nel quadro della realizzazione di Malville” (ibidem). L’accordo AGIP NucleareCEA venne firmato il 7 giugno a Parigi e permise all’Italia di acquisire la licenza e l’assistenza specialistica per realizzare una
capacità produttiva propria in un settore a avanzato contenuto tecnologico. Ciò rappresentava quindi un’occasione unica per
l’industria italiana in quanto le consentiva di essere presente nel campo dei combustibili al plutonio che, secondo le previsioni,
avrebbe rappresentato uno degli ambiti energetici di maggiore interesse degli anni successivi. Anche in questo caso l’accordo aveva
durata quindicinale e nella fabbrica per la produzione di combustibile nucleare a ossidi misti uranio-plutonio che l’Italia avrebbe
costituito, denominata Società di Fabbricazione, il CEA avrebbe avuto una partecipazione iniziale del cinque percento, riservandosi
la possibilità di acquisire un ulteriore trenta percento negli anni '80-'83 [per approfondimenti si veda Comunicato stampa su firma
accordi NIRA e AGIP Nucleare-CEA per i reattori veloci (redatto dal dr. Formisano), 7 giugno 1974, ASE, coll. AS. I. 2, udc. 17].
758
Cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazioni del Consiglio di amministrazione del Collegio dei revisori e bilancio al 31
dicembre 1974, Roma, 1975, pp. 121-123, ASENEL.
755
218
Anche le iniziative europee nel campo dell’arricchimento dell’uranio conobbero
un’accelerazione dopo lo shock petrolifero759. L’EURODIF aveva registrato la defezione della
Svezia e la relativa ripartizione della sua quota (dieci percento) fra gli altri quattro paesi
(Francia, Italia, Belgio e Spagna760), così come comunicato ufficialmente il 3 aprile dal
presidente Ezio Clementel durante la riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN: la
“decisione presa dal governo svedese di non autorizzare la partecipazione della società
Atomenergi alla realizzazione dell’impianto EURODIF deriva[va] dal fatto che la Svezia a
seguito dei contratti conclusi con gli USA e l’URSS si [era] garantita il rifornimento di uranio fin
verso il 1980 e dalla mancanza di un programma nucleare definito”761. Le parole del presidente
del CNEN non convinsero però il consigliere Gino Martinoli secondo il quale le motivazioni di
Stoccolma risiedevano nei tempi lunghi prospettati per il completamento del progetto.
L’impianto EURODIF, infatti, nonostante i contratti di fornitura partissero nel '79, avrebbe
potuto realisticamente iniziare la produzione non prima del 1985 dato che non erano ancora state
concluse tutte le procedure tra gli Stati partecipanti e per via dei tempi di costruzione delle tre
centrali che, secondo il progetto, avrebbero dovuto fornire l’energia all’impianto di
arricchimento. In risposta alle perplessità espresse da Martinoli, il presidente Clementel,
nominato recentemente presidente del Consiglio di Sorveglianza della società EURODIF,
precisò che proprio in relazione ai tempi di realizzazione delle suddette centrali era stato previsto
che per la prima fase l’energia necessaria sarebbe stata fornita dalla rete normale con
l’intervento, seppur di modesta entità, dell’impianto di Pierrelatte come riserva762. Nel mese di
agosto si annunciò l’inizio dei lavori a Tricastin per la preparazione del terreno dove sarebbero
dovuti sorgere sia l’impianto di arricchimento che una centrale nucleare con quattro reattori763
della potenza di novecento MWe ciascuno764. Una bozza dell’ENI del novembre '74 illustrava
759
A dimostrazione dell’importanza riposta nei progetti relativi l’arricchimento dell’uranio, specie mediante il processo di diffusione
gassosa, nel '74 si sottoscrissero due importanti accordi internazionali: il primo fra la Francia e il Canada per la costruzione di un
impianto siffatto nella zona di James Bay, nel Quebec, dove era già allo studio un progetto analogo per conto della British
Newfoundland Corporation; il secondo fra l’Australia e il Giappone per la realizzazione di una centrale nei pressi di Adelaide con
prevalente capitale giapponese (cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazione del Direttore generale al Consiglio di
amministrazione sull’attività dell’ente nel 1974, Roma, 1975, p. 215, ibidem).
760
La quota dell’Italia arrivò quindi al venticinque percento egualmente suddivisa tra il CNEN e l’AGIP Nucleare.
761
Verbale della 23ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 3 aprile 1974, pp. 3-4, ASENEA.
762
Cfr. ibidem, p. 4.
763
Per maggiori dettagli tecnici sulla centrale di Creys-Malville si veda P. Fornaciari, Il petrolio, l’atomo e il metano: l’Italia
nucleare, 1946-1997, cit., pp. 96-98.
764
Per completezza di informazione relativa al progetto EURODIF bisogna aggiungere che nel giugno '74 si venne a creare una sorta
di disputa tra i tre principali attori del settore nucleare italiano. Durante la riunione del 19 giugno del consiglio di amministrazione
del CNEN, infatti, il presidente Clementel annunciò l’intenzione di esercitare in favore dell’ENEL, su espressa richiesta di
quest’ultimo, il diritto di opzione per la quota di separazione di uranio arricchito riconosciuta al Comitato in funzione del contratto di
associatura all’EURODIF. Alla quota di spettanza del CNEN era però interessata anche l’AGIP Nucleare ma, durante il suddetto
incontro, il consiglio di amministrazione approvò la proposta di Clementel (cfr. Verbale della 27ª riunione del Consiglio di
amministrazione del CNEN, Roma, 19 giugno 1974, pp. 18-20, ASENEA). Il disappunto dell’ENI venne stigmatizzato in una lettera
inviata dal suo presidente, Raffaele Girotti, al ministro per le Partecipazioni Statali, Antonino Pietro Gullotti, e, per conoscenza, al
ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, Luigi Ciriaco De Mita: “Non ho nulla da eccepire, sul piano formale
interno, a questa deliberazione del CNEN […]. Ritengo però che se ci scostiamo da un piano settoriale ad uno più generale, nel quale
219
enfaticamente le ricadute positive del progetto per il paese sottolineando che la strategia
intrapresa, unita a un recente accordo dell’ente petrolifero di Stato con l’URSS, garantiva una
temporanea ma importante autonomia di uranio arricchito che, a sua volta, permetteva il
potenziamento del settore nucleare in risposta alle notevoli difficoltà energetiche del momento:
“La partecipazione italiana a tale impresa assume[va] una eccezionale importanza per il
nostro Paese sotto il profilo energetico; ciò in quanto essa [avrebbe consentito], ad integrazione
degli approvvigionamenti che verranno effettuati dall’Unione Sovietica attraverso il contratto di
acquisto posto in essere dall’ENI per il periodo 1975-83, di raggiungere, almeno per alcuni anni,
l’autosufficienza nel settore dell’arricchimento dell’uranio; condizione, quest’ultima, necessaria
per attuare il rapido sviluppo dell’energia nucleare reso indispensabile anche dalle difficoltà del
mercato petrolifero”765.
Nello stesso documento si sottolineava inoltre come la partecipazione all’EURODIF non
escludesse la possibilità di essere inclusi nelle altre iniziative europee inerenti l’impiego del
processo dell’ultracentrifugazione per ottenere uranio arricchito. Il riferimento era ovviamente al
progetto URENCO-CENTEC per il quale in novembre si stabilì una nuova struttura
organizzativa: lo stabilimento di Capenhurst passò sotto il controllo della sezione britannica
dell’URENCO e sotto la diretta gestione della British Nuclear Fuels Ltd.; l’impianto di Almelo
fu invece trasferito sotto il comando della suddivisione olandese dell’URENCO, mentre la
l’attività degli Enti di Stato deve trovare, nel superiore interesse del Paese, una razionale definizione di responsabilità e
conseguentemente di deleghe, questa vicenda, vista nei suoi aspetti sostanziali, meriti alcune considerazioni […]. Come ben
ricorderai, perché tu stesso svolgesti un ruolo essenziale a livello governativo nella decisione dell’Italia di partecipare all’EURODIF,
fu allora deciso che fosse opportuna la partecipazione all’impresa sia dell’AGIP Nucleare che del CNEN; in quanto la partecipazione
dell’AGIP Nucleare avrebbe assicurato la presenza dell’Ente di Stato responsabile per l’approvvigionamento delle fonti di energia, e
quella del CNEN la collaborazione sul piano scientifico e tecnologico necessaria per una impresa così impegnativa. E poiché
l’ingresso in EURODIF può avvenire solo per partecipazione azionaria, e poiché sembrava opportuno non creare inutili problemi di
disaggio quantitativo, fu deciso che CNEN e AGIP Nucleare partecipassero con quota pari. Nella regolamentazione di EURODIF,
però, ad ogni quota azionaria corrisponde un diritto di prelievo proporzionale e così il CNEN si è trovato a disporre del detto diritto
di prelievo di uranio arricchito. Naturalmente, il presunto fabbisogno nazionale di uranio arricchito per il futuro, va in generale molto
oltre quanto può essere assicurato dai diritti di prelievo italiani in EURODIF, ed è per questo che l’AGIP Nucleare […] si era
preoccupata di assicurare per i fabbisogni italiani, altre fonti di lavoro separativo. In particolare, ha anche chiesto al CNEN di
disporre del suo diritto di prelievo, per presentare all’ENEL il complesso delle possibilità offerte sul mercato mondiale, ai fini di un
razionale bilancio tra fabbisogni e disponibilità, tra disponibilità e stoccaggio, tra stoccaggio e fornitura. A me sembra che questa
procedura, che si traduce in una programmata politica di approvvigionamenti a lungo termine, quale è necessario in un settore non
certo caratterizzato da abbondanza di offerta, rappresenti una filosofia migliore di quella del caso per caso, che sembra piuttosto
ispirare l’azione in questione. E passando […] a considerazioni di respiro ancora più ampio, questa dell’approvvigionamento della
fonte di energia nucleare mi sembrava una occasione che, per la sua novità e per la conseguente possibilità di una impostazione libera
da retaggi storici, si presentava come modello per definire sfere di competenza, responsabilità di impegno e, di conseguenza, deleghe
operative differenziate per i vari Enti di Stato interessati al problema dell’energia nei suoi vari aspetti: produzione,
approvvigionamento della fonte, ricerca tecnologica” (Lettera del presidente dell’ENI, Raffaele Girotti, al ministro per le
Partecipazioni Statali, Antonino Pietro Gullotti, e, per conoscenza, al ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato,
Luigi Ciriaco De Mita, Roma, 4 luglio 1974, ASE, coll. I. V. 4, udc. 286). La questione delle competenze nel settore nucleare risaliva
agli inizi degli anni Sessanta con la nascita dell’ENEL e i malumori tra quest’ultimo, il CNEN e l’ENI rimasero tali anche durante gli
anni Settanta.
765
Bozza interna all’ENI (non firmata), 30 novembre 1974, ASE, coll. I. V. 4, udc. 286.
220
direzione venne affidata alla Ultra Centrifuge Nederland e alla società tedesca URANIT766.
Secondo le previsioni dell’ENI, se il processo dell’ultracentrifugazione fosse riuscito a ottenere
un grado di sviluppo industriale analogo a quello che attualmente caratterizzava gli impianti di
arricchimento a diffusione, avrebbe potuto rappresentare una soluzione idonea a soddisfare i
crescenti fabbisogni previsti per l’Italia a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta767.
I giudizi estremamente positivi espressi dall’ENI sulla partecipazione italiana al progetto
EURODIF subirono però un mutamento radicale in concomitanza con la partecipazione diretta
dell’Iran all’iniziativa. Nei primi giorni del '75 si annunciò la costituzione di una compagnia
franco-iraniana, la SOFIDIF768, alla quale la CEA aveva ceduto il venticinque percento del
capitale posseduto nella società EURODIF. L’accordo con la Francia prevedeva interessanti
collaborazioni nel quadro dell’ambiziosissimo programma di modernizzazione industriale che lo
scià, Mohammad Reza Pahlavi, aveva avviato grazie agli introiti derivati dai petroldollari:
durante la visita a Parigi nel giugno del '74 il sovrano dell’Iran e il presidente francese Valéry
Giscard d’Estaing concordarono una vasta cooperazione scientifica, tecnica e industriale per
l’impiego pacifico dell’energia nucleare769. Non risulta possibile sapere in che misura questa
situazione incise sull’evoluzione degli orientamenti dell’ENI verso il progetto EURODIF;
sembrerebbe più ragionevole ritenere che sul giudizio negativo dell’ente petrolifero pesarono
maggiormente l’abbandono della Svezia e la scelta del sito francese di Tricastin. In seguito al
primo evento, infatti, sia l’AGIP Nucleare che il CNEN dovettero aumentare la propria
partecipazione sino al venticinque percento, con un maggiore onere finanziario che si
moltiplicava in occasione dei vari aumenti di capitale che la società EURODIF si trovò a dover
compiere in funzione delle necessità economiche. Se questa circostanza si collegava con il
ritardo nell’avvio del progetto, emergevano con più chiarezza i motivi dei malumori all’interno
dell’ENI. D’altra parte, la stessa suddivisione della quota posseduta dalla Svezia in parti uguali
fra gli altri quattro paesi partecipanti aveva finito per determinare una quota superiore al
cinquanta percento in possesso del Commissariat à l’énergie atomique e anche se questa
porzione di capitale agli inizi di gennaio venne rimodellata con la nascita della nuova società
franco-iraniana SOFIDIF, di fatto il controllo del progetto rimaneva nelle mani della CEA. La
scelta definitiva del sito rappresentò un’altra delusione per gli italiani che desideravano trarre
tutti i benefici dell’eventuale collocazione dell’impianto sul territorio italiano. A questo
766
Per approfondimenti si veda Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazione del Direttore generale al Consiglio di amministrazione
sull’attività dell’ente nel 1972, Roma, 1973, pp. 213-217, ASENEL.
767
Cfr. Bozza interna all’ENI (non firmata), 30 novembre 1974, ASE, coll. I. V. 4, udc. 286.
768
Partecipata per il sessanta percento dal CEA e per il quaranta dall’Agenzia iraniana per l’energia atomica.
769
Nel dettaglio l’accordo prevedeva, tra l’altro, la vendita di cinque centrali atomiche francesi, la costruzione di un centro nucleare
con tre reattori di ricerca, lo sfruttamento comune di giacimenti di uranio in Iran e in paesi terzi e la formazione degli scienziati
atomici iraniani.
221
proposito, in un appunto dell’ENI si rimproverava al Commissariat à l’énergie atomique di
confondere i due piani principali dell’iniziativa, quello “economico-finanziario” e quello
“politico-strategico”: “[Avevamo] la chiara impressione che al CEA si [commetteva] […]
l’errore di attribuire una così grave prevalenza del secondo aspetto, da dimenticare che il primo
[doveva] pur sempre restare valido nell’ambito dei vincoli politico-strategici”770. L’impostazione
finanziaria del progetto era giudicata molto ardita data la bassissima percentuale del capitale di
rischio, mentre si contestavano errori grossi nella politica commerciale. Inoltre, per quanto
concerneva la gestione industriale, l’appunto evidenziava la difficoltà dell’ENI a potersi
esprimere date le scarse informazioni a disposizione, ma rilevava comunque la vana opposizione
all’ampliamento della capacità dell’impianto che avrebbe comportato un aumento dei rischi
finanziari. Quanto all’ingresso dell’Iran, l’evento creava “un’altra preoccupazione, trattandosi di
socio potentissimo che nessuno potrà scontentare. E purtroppo non [si poteva] escludere che
[entrassero] altri soci in futuro, aumentando l’incertezza dell’insieme”771. Nelle conclusioni
dell’analisi si rendeva noto che, in caso di ritiro dall’EURODIF, l’ENI avrebbe potuto comunque
assicurare all’ENEL il servizio di arricchimento dell’uranio necessario fino al 1989, avvalendosi
degli accordi con l’URSS772.
Come sottolineato in un appunto per Girotti, lo scopo principale della partecipazione
dell’Italia all’EURODIF consisteva nell’ottenere il rifornimento del combustibile nucleare
generato una volta che il progetto fosse partito, mentre lo scopo secondario, in pratica ancora non
perseguito, era quello di permettere all’AGIP Nucleare di acquisire il know-how tecnologico
francese. I rischi e gli oneri venivano accettati dall’ente petrolifero a condizione che l’ENEL
rimborsasse i secondi e si facesse carico dei primi773. Man mano che gli investimenti finanziari si
facevano più ingenti e si prospettava un ritardo nell’attuazione dell’iniziativa sorgevano dubbi
legati soprattutto alla mancanza di un accordo ufficiale con l’ente elettrico. Girotti decise dunque
di inviare una lettera al ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, Carlo DonatCattin, al ministro del Bilancio e della Programmazione Economica, Giulio Andreotti, e al
ministro del Tesoro, Emilio Colombo, per sottolineare le difficoltà che, sul piano finanziario,
comportava la partecipazione dell’ente petrolifero nazionale al programma EURODIF. In
particolare, si richiedeva un intervento immediato del governo sia per precisare l’impegno
dell’ENEL a prelevare l’uranio arricchito spettante all’ente petrolifero, che per aiutare
economicamente quest’ultimo a sostenere gli oneri della partecipazione stessa all’EURODIF; in
770
Appunto servito per incontro con Min. Donat-Cattin sulla situazione dell’EURODIF (non firmato), 21 gennaio 1975, ASE, coll. I.
V. 4, udc. 286.
771
Ibidem.
772
Ibidem.
773
Cfr. Appunto per l’ing. Girotti sull’EURODIF (redatto dall’ing. Gino Pagano), 25 febbraio 1975, ibidem.
222
caso contrario, l’adesione italiana al progetto si sarebbe ridotta a una semplice presenza
simbolica senza il perseguimento degli obiettivi iniziali:
“Se, come l’ENI [riteneva], si giudica[va] utile proseguire nell’iniziativa, [appariva]
indispensabile che il Governo [adottasse] provvedimenti volti a: - definire i criteri in base al quale
l’ENEL si [impegni] a ritirare la quota parte dei servizi di arricchimento spettanti all’ENI, tenuto
conto degli effettivi costi sostenuti dall’AGIP Nucleare; - garantire all’ENI i mezzi finanziari per
far fronte alle scadenze immediate ed agli ulteriori impegni che la partecipazione comporta[va];
assicurare le disponibilità valutarie necessarie per mantenere la nostra quota di partecipazione,
nonché i crediti all’esportazione a tassi agevolati per consentire alle nostre industrie di acquisire
le commesse per la realizzazione dell’impianto EURODIF. I provvedimenti sopra sollecitati
[apparivano] indispensabili per una adeguata e proficua nostra presenza nell’iniziativa in oggetto
ed in particolare per esercitare l’opzione resasi disponibile per il ritiro della Svezia, nonché per
sottoscrivere l’aumento del capitale di EURODIF che [avrebbe consentito] di mantenere la nostra
partecipazione ad un ragionevole livello. […] qualora il Governo non fosse in grado di adottare,
in modo tempestivo, provvedimenti coerenti con le iniziative fin qui prospettate, la nostra
partecipazione nella Società EURODIF verrebbe fatalmente a ridursi ad una quota del tutto
simbolica, cioè pari al capitale fin qui sottoscritto, e quindi insufficiente a consentire il
conseguimento delle finalità che avevano giustificato l’adesione dell’Italia all’iniziativa
EURODIF”774.
Pur in assenza di risposte immediate, nel frattempo prese quota la possibilità di creare un
nuovo impianto di diffusione gassosa sul territorio italiano. La decisione era con ogni probabilità
frutto delle richieste di Girotti che impegnarono l’ENEL a farsi effettivamente carico dei rischi e
degli oneri derivanti dalla partecipazione dell’ENI al progetto EURODIF775. D’altra parte, un
ridimensionamento dell’Italia nell’iniziativa europea oppure addirittura il ritiro sarebbero apparsi
una sconfitta; a cui si sarebbe aggiunta la fine dei vantaggi derivanti da una delle più promettenti
iniziative di cooperazione comunitaria avviate nel settore nucleare: un paese povero di risorse
energetiche nazionali e dipendente in toto dalle importazioni dall’estero, così come
drammaticamente evidenziato dallo shock petrolifero, non poteva permettersi simili rinunce. Lo
stesso governo Moro sembrava infine aver posto il problema in termini prioritari preannunciando
la necessità di inaugurare una nuova e proficua politica nucleare.
774
Lettera del presidente dell’ENI, Raffaele Girotti, al ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, Carlo DonatCattin, al ministro del Bilancio e della Programmazione Economica, Giulio Andreotti, e al ministro del Tesoro, Emilio Colombo,
Roma, 12 febbraio 1975, ibidem.
775
In assenza di accordi precisi l’ENEL avrebbe infatti potuto non acquistare l’uranio arricchito posseduto dall’ENI in virtù della
partecipazione al progetto EURODIF.
223
Al contempo, il 6 maggio '75 l’associazione EURODIF aveva costituito una nuova
Società Anonima di diritto francese, denominata COREDIF, assumendone direttamente il
cinquantuno percento del capitale e assegnando un altro ventinove percento al CEA e il restante
venti percento all’Organizzazione per l’Energia Atomica Iraniana776. Di conseguenza l’AGIP
Nucleare e il CNEN, soci della società EURODIF, erano presenti indirettamente nel nuovo
consorzio in ragione del 12,5% circa777. L’importanza dell’operazione risiedeva nel fatto che la
COREDIF stava studiando la possibilità di realizzare un altro impianto per l’arricchimento
dell’uranio con il metodo della diffusione gassosa che avrebbe dovuto avere dimensioni e
caratteristiche praticamente identiche a quello in costruzione a Tricastin. Le decisioni preliminari
concernenti la costruzione, la localizzazione e il planning del nuovo progetto non sarebbero state
prese prima del giugno '76, mentre entro l’anno successivo si sarebbe dovuto procedere all’inizio
dei lavori il cui completamento era previsto entro la metà del 1983778. I singoli partner, ad ogni
modo, erano già stati invitati a porre la candidatura per eventuali siti nazionali dove realizzare
l’impianto e, come avvenuto in occasione dell’avvio del primo sistema di diffusione quando
l’Italia offrì Montalto di Castro, si aprì anche per il nuovo progetto la prospettiva di una nuova
candidatura. Come messo in luce da Girotti in una lettera per Angelini, l’eventuale realizzazione
di un sito sul territorio nazionale avrebbe determinato una serie di effetti positivi sul piano dello
sviluppo industriale:
776
Per approfondimenti si veda Lettera del presidente dell’ENI, Raffaele Girotti, al presidente dell’ENEL, Arnaldo Maria Angelini,
Roma, 22 luglio 1975, ASE, coll. I. II. 5, udc. 86.
777
Cfr. Verbale della 43ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 30 aprile 1975, pp. 35-41, ASENEA. La
partecipazione del CNEN alla nuova società fu tuttavia oggetto di un dibattito molto serrato e interessante all’interno del consiglio di
amministrazione; si valutò attentamente, infatti, l’opportunità e la convenienza stessa del Comitato di far parte del nuovo progetto. Il
CNEN era innanzitutto un ente pubblico non economico avente una serie di limitazioni e di procedure che rendevano molto difficile
il mantenimento di certi impegni, a differenza di quanto avveniva invece negli altri partner aderenti al progetto. Vi era inoltre la
questione della forte presenza del CEA sia in EURODIF che, di conseguenza, anche in COREDIF, limitando la possibilità dell’Italia
di godere di una posizione migliore e, soprattutto, di ottenere conoscenze maggiori del metodo della diffusione gassosa. A convincere
il consiglio di amministrazione del CNEN sull’importanza anche di questa seconda iniziativa intervenne Achille Albonetti, direttore
per gli Affari Internazionali e Studi Economici e direttore centrale delle Relazioni Estere dello stesso Comitato. Secondo il parere di
quest’ultimo, il problema della conoscenza nello specifico campo di attività era uno dei più delicati: “[…] non esiste[va] accesso nel
mondo alle conoscenze nel settore dell’uranio arricchito in quanto [era] il settore più segreto di tutta l’energia nucleare. La presenza
italiana in EURODIF – ammoniva Albonetti – da un punto di vista legale [era] completa e per quanto concerne[va] la fornitura dei tre
componenti dell’impianto (barriere, compressori e valvole) l’Italia [aveva] avuto un accesso privilegiato nel senso che i francesi
[avevano] sollecitato l’industria italiana, in particolare la Nuovo Pignone e la MERISINTER, ed [era] stata agevolata nei confronti
delle industrie belga e spagnola che non [avrebbero concorso] alla fornitura di tali componenti che [costituivano] circa il 44%
dell’impianto. Per quanto riguarda[va] l’accesso alla tecnologia del sistema […] la presenza dei rappresentanti italiana nella USSI,
che [era] l’organismo che prepara[va] le specifiche, e in EURODIF [era] molto importante e qualificata. […] piuttosto che difficoltà
poste da parte francese all’ingresso dei rappresentanti italiani negli organismi esistenti, vi [era] stato un certo ritardo e una certa
difficoltà da parte italiana ad avanzare proprie candidature. […] l’accesso alla tecnologia in EURODIF, anche se in certi casi [era]
solo potenziale, [era] per quanto concerne[va] l’Italia, il più aperto possibile” (ibidem). Le parole di Albonetti sciolsero le ultime
riserve per la partecipazione del CNEN mediante una quota pari a circa il 6,375% nella costituenda società COREDIF per la
costruzione di un secondo impianto di produzione di uranio arricchito d’intesa con gli altri partner internazionali; da questa
partecipazione l’Italia avrebbe tratto un notevole vantaggio economico rappresentato dal diritto di prelievo delle quantità di uranio
arricchito di propria spettanza che avrebbero consentito di ridurre ulteriormente la dipendenza della penisola dagli altri fornitori,
soprattutto dagli Stati Uniti.
778
Cfr. Lettera del presidente dell’ENI, Raffaele Girotti, al presidente dell’ENEL, Arnaldo Maria Angelini, Roma, 22 luglio 1975,
ASE, coll. I. II. 5, udc. 86.
224
“L’interesse dell’Italia per una localizzazione interna del nuovo impianto – secondo
l’opinione di Girotti – [era] dovuta in primo luogo al fatto che esso comporta[va] un fortissimo
investimento di capitale (si stima[va]no due mila miliardi più 1600 miliardi per la realizzazione di
quattro centrali nucleari da 1000 MW ciascuna necessarie per la alimentazione) ed una non
trascurabile occupazione. Infatti, oltre agli effetti indiretti che sul livello occupazionale
[avrebbero potuto] avere le rilevanti commesse che [sarebbero state] affidate all’industria (edile,
chimica, meccanica, manifatturiera in genere), di entità non trascurabile [sarebbero potuti]
risultare gli effetti diretti, in quanto l’impianto richiede[va] durante il periodo di montaggio (5
anni) un impiego di personale fino a 5000 unità lavorative. Una volta a regime, l’impianto
[avrebbe occupato] circa 1000 unità lavorative, ad elevata qualificazione professionale, una parte
delle quali potrà essere formata da personale italiano. Ciò, oltre al personale per la gestione degli
impianti elettrici di alimentazione (400-500 addetti). Sotto il profilo territoriale, poi, l’esistenza di
un impianto di arricchimento isotopico dell’uranio a diffusione gassosa, cui verrebbe affiancato
un grande complesso elettronucleare, [avrebbe rappresentato] potenzialmente un polo industriale
in grado di qualificare lo sviluppo di un’ampia zona nella quale l’impianto stesso verrebbe
localizzato”779.
Ovviamente altri vantaggi avrebbero riguardato la sicurezza dell’approvvigionamento
energetico per ciò che si riferiva al servizio di arricchimento dell’uranio, al punto da consentire
all’Italia di avvicinarsi all’agognato traguardo dell’autosufficienza energetica. In virtù di questo
obiettivo si sperava che il governo, mediante l’emanazione di provvedimenti simili a quelli varati
in Francia per la realizzazione dell’impianto di Tricastin, intervenisse per irrobustire la
concorrenzialità della candidatura italiana780.
3. L’Italia e la politica energetica comunitaria
La crisi petrolifera incise soprattutto nell’ambito della Comunità europea stimolando il
confronto per la definizione di una nuova e concreta politica energetica comune. I numerosi
779
Ibidem.
Il presidente dell’ENI riteneva opportuno, ad esempio, che il governo italiano concedesse un contributo a fondo perduto pari a
circa 27,5 miliardi di lire, un finanziamento agevolato, una fiscalità indiretta pari a zero e una diretta drasticamente ridotta, oltre agli
eventuali lavori per migliorare le infrastrutture (ibidem). Nell’ambito della cooperazione nucleare europea si eseguirono inoltre alcuni
studi di fattibilità su progetti per la realizzazione di prototipi di reattori. Tra questi vi era quello per la costruzione di un reattore a
fusione nucleare denominato JET alla cui progettazione il CNEN ebbe modo di partecipare a partire dal luglio '74 (per
approfondimenti si veda Verbale della 30ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 24 luglio 1974, pp. 24-25,
ASENEA). La costruzione del reattore iniziò effettivamente nel '78 a Culham, presso Oxford, e terminata cinque anni più tardi; esso
divenne il più grande reattore a fusione nucleare, costituendo un importante successo della ricerca europea. Il Consiglio di
amministrazione del CNEN aveva invitato il governo italiano a presentare con forza, presso il Consiglio dei ministri europeo, la
candidatura del centro di Ispra per la localizzazione della macchina JET, ma purtroppo la scelta finale sfavorì ancora una volta l’Italia
(cfr. Verbale della 53ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 4 dicembre 1975, pp. 23-28, ibidem).
780
225
dibattiti si incentrarono principalmente sull’analisi delle implicazioni derivanti dallo shock: le
ripercussioni nel medio e nel lungo periodo dell’approvvigionamento di energia; le relazioni
della Comunità con i paesi produttori; la cooperazione con gli Stati Uniti; il bilancio energetico
comunitario; i riflessi sulla produzione, sull’occupazione, sui prezzi, sulla bilancia dei pagamenti
e sul livello delle risorse monetarie. Nell’ambito specifico della ricerca di una politica energetica
comunitaria, la Commissione presentò al Consiglio nel giugno '74 una communication dal titolo
esemplificativo “Une nouvelle stratégie de la politique énergétique pour la Communauté”.
Approvato in luglio, il documento conteneva una relazione sulle misure da prendere per
l’utilizzo razionale dell’energia e tre proposte generiche di regolamento781; a questo fece seguito
un’altra comunicazione presentata dalla Commissione il 5 agosto782. Sulla base di questi
documenti, il Consiglio pervenne alla risoluzione del 17 dicembre concernente un programma
d’azione comunitario per l’utilizzo efficiente dell’energia che faceva proprio l’obiettivo di una
riduzione del tasso di sviluppo medio a lungo termine del consumo di energia, in modo da
raggiungere nel 1985 un livello inferiore del quindici percento rispetto a quello inizialmente
previsto dalla Commissione. In secondo luogo, il Consiglio si riservò il diritto di fissare, a
seconda delle circostanze e su proposta della Commissione, obiettivi di risparmio energetico a
breve termine. Inoltre, si prendeva atto dell’intenzione di riunire un “gruppo di orientamento e di
coordinamento per l’utilizzazione razionale dell’energia”, composto da esperti nazionali dei
Nove, che avrebbe dovuto procedere a scambi di informazione e a consultazioni sull’esperienza
acquisita in materia e sulle linee fondamentali delle misure proposte in questo settore783. In
pratica, la risoluzione del 17 dicembre '74 riprendeva alcune delle proposte generiche di
regolamento della Commissione e si poneva l’obiettivo di accrescere l’indipendenza della
Comunità nei confronti dell’energia importata, e del petrolio in particolare, attraverso una
riduzione volontaria e concertata dei consumi, un impiego efficiente dell’energia, lo sviluppo
della produzione di fonti energetiche comunitarie e il sostegno a una politica di ricerca e
sviluppo per l’energia. Si sperava, così facendo, di ridurre almeno al cinquanta percento il grado
di dipendenza energetica della Comunità, contro il sessantatre percento dell’anno precedente.
Uno dei metodi previsti era quello di modificare la stessa struttura del consumo di energia,
avvalendosi sempre più dell’elettricità, così che questa potesse arrivare a coprire nel 1985 il
781
Per approfondimenti si veda Conseil des Communautés Européennes, Résolution portant avis du Parlement européen sur la
communication et les propositions de la Commission des Communautés européennes au Conseil relatives à une nouvelle stratégie de
la politique énergétique pour la Communauté, adoptée lors de la séance du 11 juillet 1974, Bruxelles, 15 luglio 1974, HAEU, Fondo
European Commission, BAC 25/1980, 1024.
782
Cfr. Proposition de la Commission des Communautés européennes au Conseil : “Énergie pour l'Europe : recherche et
développement”, Bruxelles, 5 agosto 1974, ibidem.
783
Cfr. Risoluzione del Consiglio delle Comunità Europee del 17 dicembre 1974 concernente un programma d’azione comunitario
per l’utilizzazione razionale dell’energia (consultabile sul sito internet http://eur-lex.europa.eu).
226
trentacinque percento del fabbisogno784. Bisognava, in definitiva, sviluppare la ricerca e la
produzione comunitaria di gas naturale, disporre nel 1985 di un parco di centrali nucleari per una
potenza di almeno centosessanta GWe, riordinare e sviluppare gli impianti di energia idraulica e
geotermica, limitare il più possibile il consumo petrolifero. Il razionale impiego dell’energia,
così come il reperimento di fonti energetiche comunitarie e il loro sviluppo, nonché l’esame delle
possibilità di impiego di nuove fonti energetiche richiedevano un ampio sforzo di ricerca che la
Commissione aveva delineato nel documento “Énergie pour l'Europe : recherche et
développement”785.
Nel contesto creatosi all’indomani della crisi petrolifera, la strategia adottata in sede
europea per lo sviluppo di una politica energetica prevedeva principalmente lo sfruttamento
accelerato dell’energia nucleare e il maggior ricorso al gas naturale, anche d’importazione. Allo
stesso tempo, anche per il settore petrolifero si prevedeva però “una politica di
784
Per uno studio sugli sviluppi previsti per l’elettricità e sulle iniziative comunitarie in genere nel settore energetico durante il 1974
si veda anche Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazione del Direttore generale al Consiglio di amministrazione sull’attività
dell’ente nel 1972, Roma, 1973, pp. 217-234, ASENEL.
785
Cfr. Proposition de la Commission des Communautés européennes au Conseil : “Énergie pour l'Europe : recherche et
développement”, Bruxelles, 5 agosto 1974, HAEU, Fondo European Commission, BAC 25/1980, 1024. Per quanto concerneva
l’utilizzo dell’energia geotermica, ad esempio, il suo sviluppo in Italia era fermo ai progetti della fine degli anni Quaranta presentati,
come già visto, dalla Società Larderello grazie allo sfruttamento dalle eccezionali condizioni geologiche presenti nella zona di
Volterra e trasmessi per competenza all’ENEL con la nazionalizzazione del settore elettrico. Tuttavia, dopo lo shock petrolifero
l’interesse in questo settore ritornò in auge: al fine di avviare una reale diversificazione delle fonti di energia il gruppo ENI si
interessò infatti alla possibilità di attivare un programma specifico per la ricerca di vapori e di acque termali nella penisola. Una nota
preparata dal direttore generale dell’ente petrolifero, Giorgio Mazzanti, per il presidente Girotti spiegava le motivazioni di un
possibile intervento dell’azienda statale nel settore dell’energia geotermica: “- [avrebbe allargato] il campo di presenza dell’ENI nel
settore delle fonti di energia contribuendo […] a trasformare l’ENI da operatore nel campo degli idrocarburi ad operatore nel più
vasto campo energetico; - l’energia geotermica [era] in Italia una delle poche fonti energetiche indigene disponibili; - l’AGIP-AMI
dispone[va] della maggior parte del know-how necessario ad entrare nel settore: - le potenzialità di sviluppo della fonte geotermica
[erano] praticamente illimitate, nel caso che, oltre alle tecniche attuali che si [limitavano] a sfruttare campi di vapor naturali, si
[potesse] passare alla utilizzazione di tecniche che recuperino il calore delle rocce sotterranee attraverso flussi di acqua indotti
artificialmente; - l’utilizzazione dell’energia geotermica [poteva] abbracciare campi più vasti di quello per la produzione di energia
elettrica, potendosi applicare al riscaldamento di quartieri urbani e ad utilizzazione diretta in processi industriali e agricoli, sia allo
scopo di aumentarne il grado di sfruttamento, sia nel caso che le fonti scoperte [fossero] a temperature troppo basse per consentire la
produzione di energia elettrica” (Richiesta di autorizzazione per una nuova iniziativa di esplorazione “Ricerca di vapori e acque
termali in Italia”, Promemoria interno redatto dal direttore generale dell’ENI, Giorgio Mazzanti, per il presidente Girotti, Roma, 1
luglio 1974, ASE, coll. I. II. 5, udc. 86). Tuttavia, come lo stesso Mazzanti sottolineava, l’ENEL aveva già in corso un “Programma
speciale per lo sfruttamento delle forze endogene nell’intero territorio nazionale” e se l’ENI voleva operare in questo settore doveva
trovare un improbabile accordo con l’ente elettrico. Dopo quasi un anno, la questione venne riproposta dal ministro dell’Industria, del
Commercio e dell’Artigianato, Carlo Donat-Cattin, durante una riunione tenutasi l’11 aprile '75, con l’invito ai due enti statali a
raggiungere un’intesa per la ricerca e lo sfruttamento dell’energia geotermica. Sulla base di questa esortazione, il presidente dell’ENI
inviò una lettera a Angelini al fine di definire le migliori forme di collaborazione e di coordinamento possibili (cfr. Lettera del
presidente dell’ENI, Raffaele Girotti, al presidente dell’ENEL, Arnaldo Maria Angelini, Roma, 30 aprile 1975, ibidem). Il presidente
dell’ENEL scrisse direttamente al ministro Donat-Cattin rivendicando la competenza dell’ente elettrico a operare nel suddetto settore
ma mostrandosi disponibile a avviare una collaborazione con l’ENI per lo sfruttamento di tutte quelle risorse geotermiche non
utilizzabili per la produzione di energia elettrica. Angelini, di fatto, aprì la strada allo sviluppo di una possibile cooperazione tra i due
enti statali che poteva rivelarsi nel medio e nel lungo periodo vincente e avrebbe potuto garantire alla penisola una maggiore
diversificazione delle fonti di energia sfruttabili (cfr. Lettera del presidente dell’ENEL, Arnaldo Maria Angelini, al ministro per
l’Industria, il Commercio e l’artigianato, Carlo Donat-Cattin, Roma, 7 luglio 1975, ibidem). Per completezza di informazione
bisogna però aggiungere che alla fine del '74 e, quindi, ben oltre lo scoppio dello shock petrolifero, il presidente dell’ENEL si
espresse in modo molto negativo sullo sviluppo di fonti di energia alternative a quella nucleare. Intervenendo sulla programmazione
dell’ente elettrico di Stato nel campo geotermico, Angelini dichiarò infatti ufficialmente che “l’ENEL intende[va] ricorrere
esclusivamente alla fonte nucleare, fatte salve alcune eccezioni di carattere particolare e di entità molto modesta” (A. M. Angelini,
Verso la prevalenza dell’energia elettrica da fonte nucleare, relazione presentata alle XIII Giornate dell’Energia Nucleare tenuto a
Milano dal 12 al 14 dicembre 1974 sul tema “La fonte nucleare nel futuro energetico”, in Accademia Nazionale delle Scienze detta
dei XL, ENEL, Società Italiana per il Progresso delle Scienze, Raccolta di Scritti sull’Energia Elettrica del Prof. Arnaldo Maria
Angelini, cit., p. 460). Forse furono queste dichiarazioni a spingere l’ENI a interessarsi direttamente anche allo sviluppo dell’energia
geotermica.
227
approvvigionamento comunitario nel quadro di un mercato ordinato, in cui le compagnie
petrolifere [avrebbero dovuto] seguire certe regole di comportamento ed essere sottoposte,
almeno in particolari momenti di tensione del mercato, ad una certa disciplina riguardante
soprattutto i prezzi al fine di eliminare ogni possibilità di movimenti di carattere speculativo”786.
Quest’ultima parte del piano europeo, che doveva essere inserita nella sopracitata
communication, incontrò delle difficoltà tanto che, sotto la pressione della Gran Bretagna, della
Repubblica Federale Tedesca e dell’Olanda, la Commissione rinunciò a inserirla. Questi tre
paesi, infatti, secondo Rumor, restavano “orientati verso una concezione «liberista» del mercato
energetico e in particolare del petrolio, [e pertanto erano] decisamente contrari alla realizzazione
di un «mercato ordinato», basato su regole atte a rendere trasparente il mercato dell’energia,
troppo rigide e impegnative”787. Sulla base di un compromesso, durante la riunione del Consiglio
della Comunità si giunse all’approvazione della risoluzione del 17 dicembre '74 che prevedeva,
oltre alle misure già menzionate, aiuti comunitari a sostegno di ventidue progetti riguardanti
iniziative nel campo degli idrocarburi, caratterizzate da un alto fattore di rischio e da un elevato
contenuto tecnologico. Fra questi, ben otto erano italiani con il ventisette percento delle risorse
totali messe a disposizione dalla Comunità; il principale progetto era certamente quello previsto
dalla SNAM per lo studio sulla posa di condotte sottomarine per il trasporto di gas naturale nello
Stretto di Messina e nel Canale di Sicilia788. L’imponenza dell’azione comunitaria nei confronti
della penisola, sebbene frutto del decisivo ruolo svolto dai rappresentanti presso le istituzioni
comunitarie, dimostrava l’enorme disagio che l’Italia stava attraversando nel settore energetico.
In una Note d’information diffusa da Henri François Simonet (vicepresidente della
Commissione Ortoli con competenze nel settore Energia) con l’obiettivo di sintetizzare i lavori
precedenti, si rilevava l’interconnessione fra la politica energetica comunitaria e quella delle altre
nazioni del mondo, Stati Uniti in primis789. Questa constatazione avrebbe dovuto spingere la
Comunità a ricercare collaborazioni sempre più proficue sia con i paesi produttori che con gli
Stati consumatori di energia per mettere in atto programmi economici condivisi nel breve e nel
lungo periodo e per sviluppare politiche energetiche il più possibile in sintonia fra loro. Nella
nota, la Commissione stabilì anche che la politica dei prezzi al consumo dovesse basarsi sulla
concorrenza e sulla trasparenza dei costi e dei prezzi. Ciò avrebbe potuto contribuire a rendere
coerenti all’interno della Comunità i livelli dei prezzi energetici, fondati sulla reale evoluzione
786
Relazione sull’attività delle Comunità europee per l’anno 1974, presentata dal ministro per gli Affari Esteri, Mariano Rumor,
Camera dei Deputati, VI Legislatura, 8 gennaio 1975, HAEU, Fondo Edoardo Martino, nn. 27-28, p. 125.
787
Ibidem.
788
Ibidem, p. 126.
789
Cfr. Commission des Communautés européennes, Note de d’information diffusée sur instruction de M. Simonet : “La Politique
énergétique communautaires. Réalisation-Perspective”, Bruxelles, 13 febbraio 1975, HAEU, Fondo European Commission, BAC
25/1980, 1025.
228
delle condizioni di approvvigionamento790. Su questa stessa linea, a conclusione delle analisi del
gruppo di lavoro incaricato dal Comitato per l’Energia di esaminare la possibilità di istituire un
regime comunitario dei prezzi dei prodotti petroliferi, la Commissione europea sottopose al
Consiglio, nel luglio '75, una procedura volta a garantire una migliore trasparenza dei mercati del
greggio e dei prodotti derivati. La finalità del procedimento d’informazione era duplice:
“- conoscere e raffrontare i livelli dei prezzi praticati nei vari paesi della Comunità; analizzare le tendenze evolutive dei prezzi dei prodotti petroliferi e dei costi di
791
approvvigionamento di petrolio greggio”
.
La Commissione, in base alle informazioni raccolte, avrebbe quindi comunicato, con
cadenza trimestrale, ai paesi membri:
“- dati di sintesi sui prezzi del petrolio greggio e dei prodotti petroliferi; - il raffronto dei
livelli dei prezzi dei prodotti petroliferi praticati nella Comunità; l’evoluzione, per ogni singolo
Stato membro e per la Comunità, della valorizzazione media all’uscita dalla raffineria per
tonnellata di petrolio greggio trattato; - il raffronto fra l’evoluzione delle condizioni di
approvvigionamento di petrolio greggio e di prodotti petroliferi e gli introiti della vendita sui
mercati dei prodotti petroliferi”792.
Questa impostazione avrebbe permesso, da un lato, un’analisi dettagliata del mercato
energetico comunitario e, dall’altro lato, la possibilità di intervenire direttamente in caso di
difficoltà. Il “gruppo Energia” si riunì il 12 novembre '75 e, dopo uno scambio di opinioni fra i
rappresentati degli Stati membri793, il Consiglio pervenne a una nuova stesura del documento in
cui la competenza sulla forma e i mezzi per raccogliere le informazioni relative al mercato
petrolifero si lasciò alle autorità nazionali dei singoli paesi794. La revisione poteva essere
considerata un ulteriore passo in avanti nel lungo percorso verso l’adozione di una efficace
politica energetica comunitaria ma, nonostante ciò, si era ancora molto lontani dal raggiungere lo
scopo finale. Era stato impossibile, ad esempio, convenire sull’attuazione di misure concrete per
790
Ibidem.
Cfr. Progetto di Regolamento (CEE) del Consiglio concernente una procedura comunitaria d’informazione e di consultazione sui
prezzi del petrolio greggio e dei prodotti petroliferi nella Comunità (presentata dalla Commissione al Consiglio), Bruxelles, 25
luglio 1975, ACEU, Intermediate Archives, 12199.
792
Ibidem.
793
Cfr. Dichiarazione rilasciata dal rappresentante della Commissione nella riunione del gruppo “Energia”, Bruxelles, 12
novembre 1975, ibidem, 12236.
794
Cfr. Progetto di Regolamento (CEE) del Consiglio concernente una procedura comunitaria d’informazione e di consultazione sui
prezzi del petrolio greggio e dei prodotti petroliferi nella Comunità (testo elaborato dal segretario generale, Bruxelles, 18 novembre
1975, ibidem.
791
229
centrare l’obiettivo, fissato dai ministri dell’Energia già nel dicembre '74, di ridurre al quarantacinquanta percento la dipendenza globale dei paesi comunitari dalle importazioni di idrocarburi.
Inoltre, nel '76 la Comunità non raggiunse l’obiettivo prefissato della formulazione e della
concreta attuazione di una politica energetica unitaria; le decisioni più importanti che
influenzarono il mercato energetico europeo e la sua futura evoluzione si presero infatti in altre
sedi internazionali o nell’ambito delle politiche nazionali degli Stati membri795.
4. L’ENI e la politica petrolifera
Lo shock petrolifero determinò, oltretutto, una notevole intensificazione dello sforzo
produttivo dell’ENI attraverso la ricerca di nuovi idrocarburi sia sul territorio nazionale che
all’estero. Giacimenti di gas naturale si scoprirono già nel corso del '73, parte in terra e parte in
mare, nella zona adriatica ma il ritrovamento più interessante si rivelò senza dubbio quello del
sito di Malossa, presso Casirate d’Adda, le cui riserve estraibili erano state valutate in cinquanta
milioni di metri cubi di gas naturale e in quaranta milioni di tonnellate di greggio796. Si trattava
del più grande giacimento mai scoperto in Italia che accendeva nuovamente grandi speranze
sull’esistenza di ricchi depositi di idrocarburi in tutta la Val Padana. Tuttavia, le ricerche
successive, avviate mediante l’uso di tecniche di prospezione all’avanguardia e con strumenti di
perforazione di ultima generazione, non diedero i risultati sperati spingendo così l’ENI a
incrementare la ricerca all’estero delle fonti di approvvigionamento. A partire dagli inizi degli
anni Settanta, l’ente petrolifero avviò una strategia di ricerca mineraria fuori dal territorio
italiano che puntava alla riduzione delle aree dei permessi di ricerca sulla terra ferma e si
concentrava su quelle ubicate in zone marine e nelle piattaforme continentali. Le principali
scoperte si verificarono nel Mar del Nord, nel golfo del Niger, nel Congo, in Iraq, nel fuoricosta
del Canada, in Indonesia, in Tailandia, in Tunisia e in Tanzania; nel '75, ben il 66,2% dei
permessi di ricerca detenuti dall’AGIP era riconducibile a pozzi off-shore, per una produzione,
nel quadriennio '72-'76, di quasi sessanta milioni di tonnellate di greggio all’estero e che
superava addirittura l’intera produzione del decennio precedente797. Purtroppo, però, i maggiori
giacimenti scoperti erano troppo distanti dal territorio italiano per essere sfruttati direttamente e
795
Per approfondimenti si veda Ente Nazionale Energia Elettrica, Relazione del Direttore generale al Consiglio di amministrazione
sull’attività dell’ente nel 1976, Roma, 1977, ASENEL.
796
Per approfondimenti si vedano M. Magini, L'Italia e il petrolio tra storia e cronologia, cit., pp. 214-215; G. Sapelli, F. Carnevali,
Uno sviluppo tra politica e strategia. ENI (1953-1985), cit., p. 73.
797
Cfr. M. Magini, L'Italia e il petrolio tra storia e cronologia, cit., pp. 217-218; G. Sapelli, F. Carnevali, Uno sviluppo tra politica e
strategia. ENI (1953-1985), cit., p. 74.
230
ciò rese necessario uno scambio con le compagnie che se ne approvvigionavano dal
Mediterraneo.
Nel campo della raffinazione l’ente petrolifero, in conseguenza della già citata
acquisizione delle attività detenute dalla SHELL Italia, aumentò la propria capacità interna,
diminuendo quella estera e modificando una tendenza assunta fin dalla morte di Mattei. Sul
fronte delle opere per il trasporto del combustibile fossile, oltre all’accordo per il gasdotto con
l’Algeria, nell’aprile del '74 venne completato il metanodotto dall’Olanda che immetteva nella
rete italiana il gas proveniente dai giacimenti di Drenthe, mentre in maggio fu la volta del
gasdotto dall’URSS798.
All’indomani della crisi, l’ENI effettuò dunque tutti quegli investimenti necessari per il
recupero di un ruolo di primo piano con il duplice obiettivo di ottenere quante più importazioni
petrolifere possibili e di aumentare la propria capacità di raffinazione interna. In pratica l’ente
petrolifero sembrò volere riguadagnare quella posizione detenuta negli anni Cinquanta che,
successivamente, aveva perduto a vantaggio delle big seven. Era ovvio, però, che l’ENI degli
anni Settanta, pur dichiarando gli stessi obiettivi energetici di Mattei, non avrebbe mai potuto
svolgere un ruolo antagonista nei confronti delle grandi compagnie petrolifere internazionali.
L’imperativo del '74 era infatti quello di evitare il ripetersi degli eventi accaduti nei mesi
precedenti e, in funzione di ciò, il governo aveva delineato un piano per la riorganizzazione del
settore petrolifero mediante il quale si proponeva di garantire la continuità e l’economicità degli
approvvigionamenti anche attraverso un potenziamento del ruolo svolto dall’ENI. Annunciato
nell’ottobre precedente, il piano subì un notevole ritardo dovuto sia alle pressioni esercitate dalle
compagnie private che cercarono di evitare l’assegnazione di un ruolo di eccessivo rilievo per
l’ente statale, sia alla crisi di governo799. Presentato in gennaio come previsto, esso si approvò
definitivamente solo il 29 marzo successivo, subito dopo la formazione del V° governo Rumor,
avvenuta il 14 marzo. Dopo solo otto mesi di vita, infatti, il precedente esecutivo, presieduto
dallo stesso Rumor, cadde a seguito delle dimissione del ministro del Tesoro, il repubblicano
Ugo La Malfa, per contrasti con il socialista Antonio Giolitti, ministro del Bilancio e della
Programmazione Economica, sulle condizioni poste all’Italia dal Fondo Monetario
Internazionale per la concessione di un prestito. L’episodio determinò l’uscita del PRI dalla
798
Per approfondimenti si veda M. Magini, L'Italia e il petrolio tra storia e cronologia, cit., pp. 218-219.
In un certo qual modo sul ritardo nell’approvazione del piano petrolifero influì anche lo scoppio, in febbraio, del secondo
scandalo dei petroli che coinvolse i segretari amministrativi di tutti e quattro i partiti politici al governo (DC, PSI, PSDI e PRI) e di
ben trentacinque dirigenti ENEL per presunti fondi neri pagati dai petrolieri allo scopo di influenzare la politica energetica nazionale.
799
231
maggioranza del nuovo esecutivo composta da democristiani, socialisti e socialdemocratici,
mentre i repubblicani optarono per un appoggio esterno800.
Dopo l’approvazione del piano petrolifero, spettava al ministro del Bilancio e della
Programmazione Economica predisporre gli strumenti operativi per la sua attuazione, mentre per
il periodo successivo era previsto che l’intero programma si sottoponesse all’esame delle
competenti commissioni dei due rami del Parlamento801. Il 26 aprile il piano venne approvato dal
Comitato interministeriale per la programmazione economica che affidò il mandato al ministro
dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, Ciriaco De Mita, di formulare, d’intesa con le
amministrazioni interessate e dietro consultazione con le Regioni, un disegno di legge per
modificare sia la disciplina delle attività petrolifere di approvvigionamento e raffinazione, che i
compiti del CIP relativi all’indagine sui costi e sulle fissazioni dei prezzi petroliferi802. Una serie
di disposizioni particolari erano previste per imporre agli operatori del settore gli adempimenti
necessari per il soddisfacimento del mercato interno e per la regolamentazione delle concessioni
di raffinazione. Per ovviare a eventuali carenze nell’approvvigionamento il ministro per le
Partecipazioni Statali aveva il compito di regolamentare, mediante l’elaborazione di un disegno
di legge, i rapporti fra lo Stato e le società petrolifere relativamente agli acquisti di greggio da
parte dell’ENI, mentre spettava al Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato
predisporre un programma di rifornimento per l’ultimo semestre del '74. Allo stesso Ministero
spettava inoltre il compito di elaborare il piano di ristrutturazione del settore della raffinazione e
un programma per la rete di oleodotti e del sistema di stoccaggio, previa consultazione con le
Regioni. Il ministro per la Marina doveva infine approntare il rafforzamento della flotta
cisterniera. Nel suo insieme, il piano petrolifero prevedeva una serie di disposizioni che
andavano dalla determinazione dei prezzi, alla valutazione dei costi, alla definizione delle
modalità e dei tempi per l’attuazione delle direttive comunitarie in materia di scorte e includeva,
infine, gli apporti tecnici dell’ENI803. All’ente petrolifero toccava il compito di reperire sul
mercato internazionale e alle migliori condizioni i quantitativi necessari in caso di carenze di
approvvigionamento, caricando lo Stato degli eventuali oneri delle operazioni. In vista di questo
800
Nel V° governo Rumor, pertanto, Antonio Giolitti vide riconfermata la sua carica di ministro del Bilancio e della
Programmazione Economica, mentre al Tesoro La Malfa venne sostituito con Emilio Colombo. Per un approfondimento sulla
situazione politico-sociale dell’Italia del momento si vedano, tra gli altri, S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit.,
pp. 413-471; P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1991, in G. Galasso, Storia d’Italia, cit., pp. 520-538; P. Ginsborg, Storia
dell’Italia dal dopoguerra ad oggi, vol. II, Dal miracolo economico agli anni '80, cit., pp. 473-478; S. Lanaro, Storia dell’Italia
repubblicana: dalla fine della guerra agli anni Novanta, cit., pp. 307-347; F. Malgeri, L’Italia dal centro-sinistra agli «anni di
piombo», cit., in G. Aliberti, F. Malgeri, Due secoli al Duemila. Transizione Mutamento Sviluppo nell’Europa Contemporanea
(1815-1998), cit., pp. 699-701; N. Tranfaglia, La modernità squilibrata. Dalla crisi del centrismo al «compromesso storico», in F.
Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, La trasformazione dell’Italia. Sviluppo e squilibri, cit., pp. 75-92.
801
Cfr. Approvato il piano petrolifero (articolo non firmato), «Avanti», 30 marzo 1974.
802
Cfr. Delibera del CIPE n. 056 del 26 aprile 1974 (il testo integrale della delibera è consultabile sul sito internet
http://www.cipecomitato.it).
803
Cfr. Direttive per attuare il piano petrolifero (articolo non firmato), «Il Popolo», 27 aprile 1974.
232
obiettivo l’ENI avrebbe dovuto intensificare le attività di ricerca mineraria in Italia e all’estero, a
condizione di poter disporre di un adeguato ammontare di capitale di rischio. Le scorte d’obbligo
di greggio o di prodotti del petrolio dovevano essere portate, secondo quando deliberato in sede
CEE, a novanta giorni rispetto ai consumi dell’anno precedente804; in aggiunta, il piano
petrolifero italiano prevedeva la possibile costituzione di una ulteriore scorta strategica pari a
trenta giorni. Nel settore della raffinazione gli interventi previsti erano diretti a realizzare un
sistema che assicurasse la priorità al soddisfacimento dei fabbisogni interni e a promuovere la
razionalizzazione degli impianti al fine di eliminare sprechi derivanti da una capacità eccessiva,
da dimensioni insufficienti e da una squilibrata distribuzione sul territorio.
Il piano petrolifero nazionale introdusse, per la prima volta in Italia, una programmazione
energetica nel senso compiuto del termine, quale strumento per affrontare il problema
dell’approvvigionamento delle fonti. Molto interessante in proposito risulta il commento del
presidente dell’ENI espresso durante il primo convegno internazionale sull’ambiente e sulla crisi
energetica svoltosi a Torino nel maggio '74; secondo l’opinione di Girotti, in Italia la situazione
appariva più difficile che altrove e non poteva essere risolta senza fare i conti con la necessità di
importare fonti energetiche dall’estero e, di conseguenza, senza considerare le implicazioni del
caso. A differenza di quanto possibile negli USA con l’emanazione del progetto Indipendenza805,
l’Italia doveva infatti confrontarsi con la sua scarsa disponibilità di risorse interne e ciò
imponeva una programmazione settoriale capace di valutare tutti i fattori esterni condizionanti.
In questa direzione Girotti considerava essenziale la coerenza di obiettivi fra la politica estera
italiana, quella commerciale e quella di cooperazione con i PVS:
“La programmazione energetica per il nostro Paese [era] resa, per certi aspetti, più complessa
dal fatto che in Italia [era] inconcepibile, ad esempio, un progetto «Indipendenza» analogo a
quello approntato negli Stati Uniti. Qualunque [fosse], quindi, l’obiettivo della programmazione –
riduzione dei consumi ed aumento dell’offerta, o aumento di entrambe le componenti del mercato
– [era] necessario prendere atto che una politica di programmazione energetica [doveva] essere
elaborata tenendo presente lo scarso apporto delle fonti energetiche interne alla copertura del
804
Cfr. Direttiva del Consiglio delle Comunità europee n. 425 del 19 dicembre 1972. Per un’analisi sulle discussioni inerenti questa
direttiva e le sue applicazioni nel breve periodo si veda Relazione della Commissione al Consiglio sull’applicazione della direttiva
72/425 che stabilisce l’obbligo per gli Stati membri di portare a 90 giorni di consumo, al più tardi il 1° gennaio 1975, il livello
minimo delle scorte di petrolio greggio e/o di prodotti petroliferi, Bruxelles, 28 novembre 1974, ACEU, Intermediate Archives,
12119. Per uno studio sullo stato di attuazione della direttiva si veda anche Commission des Communautés Européennes, Rapport
sur l’état d’application de la directive du Conseil 68/414/CEE modifie par la directive du Conseil72/425/CEE faisant obligation aux
états membres de la C.E.E. de maintenir un niveau minimum de stocks de pétrole brut et/ou de produits pétroliers, Bruxelles, 28
novembre 1975, HAEC, BAC 28/1980, 690.
805
Il progetto “Indipendenza” venne varato da Nixon a pochi giorni dalla scoppio dello shock petrolifero e mirava a far raggiungere
entro sette anni agli Stati Uniti la capacità di far fronte a ogni esigenza energetica senza dipendere da fonti straniere. Si trattava di un
piano avveniristico che venne abbandonato immediatamente con il dirompere dello scandalo Watergate e con le dimissioni del
presidente.
233
fabbisogno globale. Quali che [fossero], cioè, le fonti energetiche chiamate a svolgere un ruolo
più o meno importante nella copertura del fabbisogno energetico italiano esse [sarebbero state]
disponibili soltanto mediante l’importazione, poiché le risorse nazionali (essenzialmente energia
idroelettrica e gas naturale) non [avrebbero potuto] rappresentare che quote molto modeste del
bilancio energetico. Questa constatazione [aveva] implicazioni evidenti. Una politica di
programmazione energetica non [poteva] limitarsi a delineare la evoluzione dei settori finali di
utilizzazione e di definire con quali fonti [era] più economico e razionale soddisfarli in una
situazione o di relativa abbondanza o di relativa scarsità. Essa [doveva] anche essere resa coerente
con tutti gli altri fattori che [intervenivano] a determinare l’equilibrio o lo squilibrio globale del
sistema economico sul piano esterno […]. In altri termini, la programmazione energetica italiana
– così come quella di altri paesi che si [trovavano] in condizioni analoghe – [doveva]
necessariamente tenere conto di tutti i fenomeni esogeni che [potevano] influenzarla. Di
conseguenza, essa [doveva] essere inserita in un contesto più ampio in cui la politica estera, la
politica commerciale e la politica italiana di cooperazione con i paesi in via di sviluppo [fossero]
coerenti e [rappresentassero] un supporto alla programmazione energetica stessa. […] Sul piano
dell’approvvigionamento energetico […] la realtà [era], come già detto, che il nostro Paese
dipende[va] e [sarebbe dipeso] dall’esterno in misura elevata, tale da costituire per esso un grosso
condizionamento. I nostri interlocutori [erano] – e lo sarebbero [stati] sempre più nel futuro – i
paesi produttori di petrolio e di altre materie prime”806.
Le affermazioni del presidente dell’ENI puntavano dunque sull’importanza per l’Italia,
vista la situazione di cronica dipendenza energetica, di mantenere buone relazioni diplomatiche
con i paesi produttori e esportatori di qualunque fonte di energia. Nel breve e medio periodo il
petrolio avrebbe rappresentato ancora la principale componente energetica e ciò poneva il
problema significativo dell’economicità dell’approvvigionamento che non poteva essere
trascurato dalla programmazione energetica italiana. In proposito Girotti dava merito al piano
petrolifero appena approvato di tenere conto di questo aspetto, riconoscendo che questo progetto
“rappresenta[va] anche il primo tentativo effettuato nel nostro Paese di programmare lo sviluppo
di un settore fondamentale alla copertura del fabbisogno energetico”807. Il piano prevedeva infatti
che l’ENI svolgesse un ruolo di primo piano nell’approvvigionamento petrolifero e che
ampliasse l’impegno nell’acquisizione di fonti autonome. L’espansione delle attività di ricerca a
livello internazionale non era tuttavia sufficiente alla copertura del fabbisogno energetico
nazionale e si rendeva necessario, secondo il presidente dell’ENI, “avviare un’azione diretta ad
806
La programmazione energetica nazionale in Italia nel quadro della situazione mondiale delle fonti di approvvigionamento,
relazione di Raffale Girotti, presidente dell’ENI, durante il primo convegno internazionale sull’ambiente e sulla crisi dell’energia,
Torino, 8-12 maggio 1974, ASE, coll. AS. I. 2, udc. 17.
807
Ibidem.
234
acquisire quantità consistenti di petrolio dai paesi produttori. Questi ultimi, in relazione ai
cambiamenti che si [erano] già verificati e che ancora si [sarebbero verificati] nell’assetto
dell’industria petrolifera internazionale, [avrebbero] disposto di quantità sempre più elevate di
petrolio, che [avrebbero teso] a collocare in modo diretto sul mercato o a cedere sulle basi di
accordi di scambio di petrolio contro beni di investimento, assistenza tecnica, cooperazione
industriale ed economica in genere”808. A questo fine l’ENI doveva essere pertanto sostenuta dal
governo non solo in termini finanziari ma anche con l’affiancamento di una politica estera che
includesse una adeguata cooperazione internazionale.
Seguendo fedelmente questa linea d’azione, l’ente petrolifero di Stato intraprese diverse
iniziative con i paesi produttori che prevedevano forniture di beni e servizi anche da parte
dell’industria privata. La caratteristica principale delle attività dell’ENI, peraltro già attuata con
successo in passato, consisteva nel legare l’approvvigionamento di energia a lungo termine verso
il mercato italiano mediante la conclusione di accordi di collaborazione che contemplavano,
soprattutto, l’esecuzione di infrastrutture per la messa in produzione, lo sviluppo e il trasporto
delle materie energetiche così da renderle più economiche. Le iniziative principali riguardarono
la realizzazione del tratto algerino del gasdotto verso l’Italia; l’esecuzione, sempre in Algeria,
della raffineria di Skikda e delle stazioni di compressione gas; il completamento della raffineria
Warri nel Lagos (Nigeria); la costruzione dell’oleodotto Kirkuk-Iskenderun (Turchia) e del
relativo terminale; l’esecuzione di impianti chimici in Unione Sovietica e la fornitura di stazioni
di compressione809. L’azione dell’ENI presupponeva ovviamente notevoli risorse economiche da
investire. In tutti i progetti avviati nei paesi produttori, infatti, il ritorno finanziario era previsto
solo in una fase avanzata dei progetti o con una rateizzazione a lunga scadenza, al punto che si
ipotizzò di offrire ai produttori una partecipazione paritaria in nuove società finanziarie
appositamente create in loco allo scopo di sovvenzionare i progetti di collaborazione. Allo Stato
estero si chiedeva di concedere dei finanziamenti alla nuova società, offrendo al contempo
l’opportunità di diventarne socio e inserendo così nella proposta di cooperazione un elemento
appetibile per i paesi esteri che avevano risorse finanziarie disponibili810. Anche se l’oggetto di
questi accordi non era direttamente il petrolio, le proposte di partecipazione paritaria ricordavano
molto la politica di Mattei degli anni Cinquanta e il tentativo di offrire ai produttori
collaborazioni più vantaggiose nello sfruttamento delle loro risorse petrolifere rispetto alle grandi
compagnie internazionali. Ad ogni modo, non vi furono conferme sull’uso effettivo di questa
particolare strategia.
808
Ibidem.
Cfr. Iniziative ENI verso paesi produttori di energia, Promemoria interno redatto da Guido Pasetti, 26 giugno 1974, ASE, coll.
BB. III. 1, udc. 442.
810
Cfr. Appunto interno all’ENI (non firmato), 4 dicembre 1974, ibidem.
809
235
Gli accordi bilaterali con i paesi produttori rimanevano l’obiettivo primario poiché solo in
questo modo sarebbe stato possibile tenere conto sia delle esigenze energetiche dell’Italia che
della necessità di orientare il flusso delle esportazioni nazionali verso quelle aree:
“L’ENI, in armonia con le politiche generali del Governo italiano, [stava compiendo] ogni
sforzo per raggiungere accordi con i Paesi produttori articolati in due componenti principale: - da
un lato l’impegno pluriennale del Paese produttore di consegnare determinati quantitativi di
greggio e/o gas naturale; - dall’altro gli interventi delle Società del Gruppo con ricorso anche a
Società di altri Gruppi italiani a partecipazione statale e privati, diretti ad assicurare un contributo
effettivo all’industrializzazione dei Paesi produttori, mediante l’apporto di forniture tecnologiche,
di progetti per la creazione di infrastrutture o di fornitura di beni strumentali o di consumo”811.
Tuttavia, gli accordi bilaterali dell’ENI con i produttori avrebbero lasciato il passo a
intese multilaterali eventualmente sopraggiunte per risolvere i problemi energetici condivisi a
livello mondiale.
5. La cooperazione internazionale
Con la conferenza sull’energia di Washington si formalizzarono ufficialmente le
divergenze franco-americane con profonde ripercussioni sui rapporti intracomunitari. La
direzione intrapresa dall’Eliseo rischiava di determinare forti ripercussioni negative sull’intero
processo di cooperazione europea. In questo contesto avvenne la morte, il 2 aprile del '74, del
presidente francese Georges Pompidou, già malato da tempo e che aveva scelto, nonostante i
sintomi fossero ormai visibili e invalidanti, di non dimettersi e di continuare a esercitare il suo
mandato. Temporaneamente la presidenza della Repubblica venne assegnata ad interim al
presidente del Senato, Alain Poher, fino all’elezione, avvenuta il 28 maggio successivo, di
Valéry Giscard d’Estaing. Il nuovo presidente aveva già ricoperto diversi incarichi governativi e,
da ultimo, era stato ministro delle Finanze e degli Affari Economici, diventando in pratica il
principale artefice della politica economica francese. Grazie alle vaste competenze in campo
finanziario, Giscard d’Estaing era già noto al palcoscenico internazionale per essere da sempre
un convinto europeista: le relazioni all’interno della Comunità iniziarono dunque a prendere una
piega diversa, così come avvenne con i rapporti con gli Stati Uniti812. Il 10 giugno i ministri degli
811
Appunto per l’ing. Girotti dal titolo “Rapporti ENI-Paesi produttori” (redatto da P. Landolfi), Roma, 27 febbraio 1975, ibidem.
Sulla politica estera di Giscard d’Estaing si rimanda a S. Cohen, M. C. Smouts, La politique extérieure de Valérie Giscard
D’Estaing, Paris, 1985.
812
236
Esteri dei Nove, riuniti a Bonn, decisero di dare definitivamente corso al progetto del dialogo
euro-arabo, superando sia la netta ostilità di Kissinger, che vedeva in questa iniziativa una sorta
di interferenza nell’azione politica, diplomatica e economica che stava conducendo in Medio
Oriente813, sia lo scetticismo britannico, direttamente connesso alla scarsa credibilità che agli
occhi degli inglesi aveva una simile iniziativa europea814, sia, infine, l’opposizione di una parte
degli stessi paesi arabi, quelli più vicini alle posizioni statunitensi come l’Arabia Saudita815. Per
quanto concerneva in particolare i rapporti atlantici, i Nove optarono per un contatto diretto con
Washington, dando concreta applicazione al principio delle consultazioni che, come ben
specificato, non sarebbero state né automatiche né istituzionalizzate816. In definitiva, il dialogo
euro-arabo che la Comunità si avviava a intraprendere mediante le nuove decisioni di Bonn
appariva solo un lontano parente dei propositi francesi iniziali. Il Quai d’Orsay intendeva infatti
dar vita a una cooperazione con i paesi produttori alternativa alla politica statunitense e che
portasse dei vantaggi diretti all’intera Comunità, e soprattutto alla Francia i cui accordi bilaterali
erano stati messi in discussione dalle iniziative di Washington. I tempi erano però già
profondamente cambiati: la crisi petrolifera si poteva dire ormai conclusa; Kissinger era riuscito
a ottenere, grazie all’applicazione di quella che passò alla storia come la “diplomazia della
spola”, un accordo di disimpegno fra le forze israeliane e quelle siriane in base al quale Israele si
sarebbe ritirato da tutti i territori conquistati sulle alture del Golan durante la guerra del Kippur.
D’altronde, la stessa elezione di Giscard d’Estaing aveva finito per determinare un approccio
meno antagonista nei confronti degli Stati Uniti. Si trattava insomma di una serie di fattori che
813
Le riserve espresse in precedenza dagli Stati Uniti, seppur ribadite da Kissinger, andarono infatti gradualmente scemando in
concomitanza al superamento della fase acuta della crisi e in virtù dei notevoli progressi che l’opera di mediazione in Medio Oriente
stava avendo. Nella fattispecie, gli USA strinsero un accordo con l’Arabia Saudita mediante il quale, non solo si assicurarono
l’usufrutto delle immense riserve petrolifere del paese arabo, ma lo condizionarono con ingenti forniture militari (cfr. Note du
Secrétaire Général adjoint de la Commission des Communautés Européennes, Klaus Meyer, à l’attention de Monsieur C. Cheysson,
Membre de la Commission, Bruxelles, 14 giugno 1974, HAEU, Fondo Klaus Meyer, n. 39). In effetti, secondo quanto riportato dallo
stesso Meyer in una nota per Cheysson, sulla base di una conversazione avuta con un esperto di affari del Vicino Oriente
dell’Auswärtiges Amt, il Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Federale Tedesca, “les objections américaines contre le projet
du dialogue euro-arabe [étaient] essentiellement dues au fait que les Américains veulent d’abord conclure un important accord de
coopération avec l’Arabie saoudite. Cet accord [aurait prévu] une augmentation de la production et des livraisons de l’Arabie
saoudite de 30% jusqu’en 1980, année à partir de laquelle les Etats-Unis [espéraient] avoir regagné leur autonomie en matière
d’énergie. Les termes de cet accord [avaient] déjà [été] négociés et sa signature [serait intervenue] dès qu'un règlement entre l'Israël
et la Syrie [serait] intervenu. De cette façon, M. Kissinger [aurait reporté] un double succès” (Note du Secrétaire Général adjoint de
la Commission des Communautés Européennes, Klaus Meyer, à l’attention de Monsieur C. Cheysson, Membre de la Commission,
Bruxelles, 29 maggio 1974, ibidem). Per uno studio sui rapporti Stati Uniti-Arabia Saudita in funzione delle risorse petrolifere si veda
R. Bronson, Thicker Than oil: America’s Uneasy Partnership with Saudi Arabia, Oxford, 2006.
814
Ciò fu possibile accettando definitivamente l’impostazione britannica secondo cui la programmata cooperazione euro-araba non
doveva essere intesa in opposizione alla politica statunitense ma strettamente collegata con essa.
815
Per approfondimenti si veda Note du Secrétaire Général adjoint de la Commission des Communautés Européennes, Klaus Meyer,
à l’attention de Monsieur le Président Ortoli, de sir Christopher Soames, vice-président, et de Monsieur C. Cheysson, Membre de la
Commission, Bruxelles, 24 giugno 1974, HAEU, Fondo Klaus Meyer, n. 39.
816
L’accordo definitivo tra i partner europei si raggiunse alla riunione dei ministri degli Esteri del 21 e 22 aprile tenutasi presso il
castello di Schloss Gymnich da cui prese il nome l’intesa stessa: “compromesso di Gymnich” [per approfondimenti si vedano, tra gli
altri, B. Koheler, Le relazioni euro-americane e la CPE, in G. Bonvicini (a cura di), La politica estera dell’Europa. Autonomia o
dipendenza?, Roma, 1980, pp. 105-116; S. Pietrantonio, La guerra d’ottobre vista dall’Europa: tra desideri di autonomia, crisi
energetica e imperativi atlantici, in A. Bitumi, G. D’Ottavio, G. Laschi (a cura di), La Comunità europea e le relazioni esterne,
1957-1992, cit., p. 105; S. J. Nuttal, European Political Co-operation, Oxford, 1992, p. 18].
237
stavano configurando l’avvio di un nuovo clima, più disteso e cooperativo, nel complesso
mosaico dei rapporti atlantici817.
Secondo quanto riportato in una nota dal direttore del Centro d’Analisi e Previsione del
Quai d’Orsay, Thierry de Montbrial, le relazioni franco-americane sembravano addirittura
avviarsi verso un vero e proprio disgelo come testimoniava il nuovo approccio di Parigi verso il
Gruppo dei Dodici, nato con la conferenza di Washington sull’energia:
“La Francia [aveva] deciso di non partecipare al gruppo di coordinamento sull’energia creato
alla Conferenza di Washington per ragioni principalmente politiche: rifiuto di intenzioni
egemoniche che partivano dagli Stati Uniti, difesa dell’identità europea, timore di reazioni
negative dei paesi arabi, dubbi sull’efficacia tecnica delle misure proposte da Washington. […]
Gli eventi sembra[va]no dar ragione agli Stati Uniti: la coesione europea [aveva] avuto un duro
colpo e la costituzione del Gruppo dodici [era] stata accolta positivamente dai paesi arabi che
[avevano] finito per giocare il gioco americano. […] Vi [erano] state diverse richieste perché la
Francia [entrasse] a far parte del Comitato di coordinamento sull’energia: come farlo senza
perdere la faccia? Gli Stati Uniti [avevano] proposto la creazione di un gruppo dei tredici presso
l’OCSE, ma […] sarebbe [stato] meglio creare un gruppo in coordinazione con il Fondo
Monetario Internazionale”818.
Un cambio così netto sarebbe stato forse troppo difficile da effettuare, specie a pochi
giorni dall’elezione di Giscard d’Estaing. Rimaneva però il significativo riavvicinamento con
817
Nel quadro di un’effettiva collaborazione internazionale si potevano collocare anche le decisioni prese durante la sesta sessione
straordinaria dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dedicata ai problemi delle materie prime e dello sviluppo e che si svolse
dal 9 aprile al 2 maggio '74 (per consultare il testo dell’intera sessione si veda Relazione a nome della Commissione per lo sviluppo e
la cooperazione del Parlamento europeo del 9 luglio 1974, ACEU, Intermediate Archives, 12024). Il principale organo istituzionale
dell’ONU stabilì la creazione di uno Special Fund allo scopo di aiutare i paesi in via di sviluppo più bisognosi e cercando di
rispondere a una delle più difficili situazioni del momento. Per quanto riguardava la Comunità europea, venne presentato un progetto
in cui si dichiarava ufficialmente la disponibilità “a svolgere un ruolo attivo” e “a fornire un contributo sostanziale” per l’avvio “di
un’azione di aiuto internazionale a carattere eccezionale, onde far fronte alle difficoltà incontrate da tali paesi in via di sviluppo […]
a condizione che gli altri membri della Comunità internazionale si [associassero] ad essi” (Discorso del Rappresentante della
Comunità europea all’Assemblea Generale straordinaria delle Nazioni Unite, Walter Scheel, Commissione delle Comunità europee,
Bruxelles, 29 maggio 1974, ACEU, Intermediate Archives, 12028). Il riferimento era ovviamente diretto ai paesi produttori che
avevano ottenuto introiti economici smisurati con lo shock petrolifero e che, mediante la loro ritorsione, avevano contribuito
direttamente a rendere insostenibile la situazione dei paesi in via sviluppo; essi erano pertanto chiamati a intervenire per aiutare, con
l’utilizzo dei surplus accumulati, i PVS. Una risposta positiva in questa direzione si ebbe durante il primo simposio mondiale
sull’energia e sulle materie prime svoltosi a Parigi dal 6 all’8 giugno e nel corso del quale il rappresentante dei paesi produttori di
petrolio, Kheme, confermò la disponibilità a collaborare con le nazioni industrializzate per sanare il debito dei paesi del terzo mondo,
dopo aver già messo a disposizione l’uno percento del PIL (cfr. Relazione a nome della Commissione per lo sviluppo e la
cooperazione, Parlamento europeo, Documenti di seduta, 9 luglio 1974, ACEU, Intermediate Archives, 12024). Il 13 giugno, infine,
il Fondo Monetario Internazionale diede seguito alle decisioni prese durante la sesta sessione straordinaria dell’Assemblea Generale e
istituì il suddetto Special Fund, denominandolo Oil Facility, mediante il quale i paesi OPEC si impegnavano a versare una somma
considerevole di dollari per prestiti a tasso agevolato destinati ai paesi maggiormente afflitti dal deficit della bilancia dei pagamenti
[per approfondimenti si veda S. Labbate, Il ruolo dei petroldollari nelle relazioni Nord-Sud, in D. Caviglia, A. Varsori (a cura di),
Dollari, Petrolio e aiuti allo sviluppo. Il confronto Nord-Sud negli anni '60-70, cit., pp. 157-158].
818
Note de Thierry de Montbrial, premier directeur du Centre d'Analyse et de Prévision du ministère des Affaires Etrangères, pour
le Ministre des Affaires Étrangères, Parigi, 26 giugno 1974, MAEF, Archives Diplomatiques, Affaires économiques et financières,
Affaires générales, 1967-1975, 405.
238
l’alleato d’oltreoceano che si rifletteva inevitabilmente anche sulle relazioni intracomunitarie.
Durante un incontro fra il segretario di Stato, in visita in Europa in luglio, e il presidente della
Commissione, Ortoli, i due ebbero modo di analizzare sia la nuova posizione francese che la
situazione dei rapporti transatlantici. Secondo le parole di Kissinger, gli americani erano da
sempre stati favorevoli al processo di integrazione europea e, superati alcuni momenti di
tensione, il clima fra le parti sembrava ora tornato sereno; ciò avrebbe permesso la ripresa di una
cooperazione Europa-Stati Uniti totale, a patto però che i propositi di Parigi fossero realmente
sinceri:
“[…] the United States [had] always supported European integration and we have not
changed that basic position. But we would not [have] appreciated it, of course, to see Europe
organize against the United States, and we would not [have] supported such a movement. As I
said, the climate [was] now much better, and we were certainly prepared to cooperate fully with
the European Community. The French attitude [was] clearly very important and the question I
still [had] in my mind [was] whether the change in France [was] based on a real desire to
cooperate with us or whether it [was] merely a tactical change and the French [have] might later
go back to the Jobert line. This latter would not [have been] a pleasant prospect”819.
La risposta di Ortoli senza dubbio suonò molto confortante per il segretario di Stato in
quanto garantiva l’autenticità delle intenzioni di Parigi e la piena unità di intenti tra i partner
comunitari per la costruzione di un’Europa non contrapposta agli Stati Uniti:
“In my view, the French attitude [was] clear and it [was] shared by all the other members of
the Community: it [was] not our intention to construct Europe against the United States. […] the
change in the French attitude [was] genuine and they were now on the same line with the other
European countries”820.
Risultava tuttavia molto chiaro a entrambi gli interlocutori che questo nuovo
atteggiamento francese doveva essere valutato di volta in volta, ma il terreno comune era basato
su una piena convergenza di propositi in funzione delle relazioni all’interno della Comunità e sul
fronte della cooperazione con gli Stati Uniti dove, tra l’altro, lo scandalo Watergate si stava
819
Memorandum of Conversation about Us-European Relations, Bruxelles, 4 luglio 1974, NARA, NPMP, Presidential HAK
MemCons.
820
Ibidem.
239
avviando alla fase conclusiva con la nomina alla presidenza, in sostituzione di Nixon, del
repubblicano Gerald Rudolph Ford821.
Ad ogni modo, in virtù della nuova e positiva congiuntura comunitaria, furono fatti
diversi passi in avanti in direzione del dialogo euro-arabo: dopo la decisione del 10 giugno i
Nove vennero chiamati a dare corso all’applicazione del progetto. La prima sessione del dialogo
si svolse a Parigi a partire dal 31 luglio '74, anche se i tentativi di istituzionalizzare la
collaborazione, nel corso degli anni successivi, si dimostrarono fallimentari822. Il 3 ottobre Klaus
Meyer, segretario generale della Commissione, presentò una proposta basata sull’identificazione,
all’interno di una commissione di lavoro appropriata, di settori per i quali era ipotizzabile
un’efficace cooperazione industriale euro-araba. Secondo Meyer sarebbe stato necessario dar
vita a piani di collaborazione che associassero capitali congiunti nello sfruttamento di materie
prime di uno o più Stati arabi. Mediante l’attuazione di questi progetti si sarebbero creati posti di
lavoro all’interno dei paesi destinatari e i nuovi prodotti realizzati avrebbero trovato impiego in
loco, nella Comunità europea, o in paesi terzi. Gli europei avrebbero messo a disposizione il
know-how tecnologico, l’organizzazione dei servizi e le nozioni di marketing; erano inoltre
previsti degli incontri preliminari, per ogni singolo settore, fra le principali industrie, i dirigenti
dell’ambiente bancario europeo e i responsabili arabi delle specifiche divisioni industriali,
bancarie o governative, con lo scopo di definire progetti concreti da realizzare in
cooperazione823. Meyer prevedeva anche la creazione di convenzioni garantite da ambo le parti
821
In seguito all’evolversi dello scandalo la posizione di Nixon apparve infatti sempre più compromessa e il 27 luglio '74 la
Commissione della Camera dei Rappresentanti votò a favore della procedura di impeachment. Nixon, dopo la scoperta di ulteriori
prove compromettenti a suo carico, fu costretto a dimettersi il 9 agosto dalla carica di presidente che, come previsto dalla costituzione
federale, passò ad interim al vicepresidente in carica, Gerald Rudolph Ford. Quest’ultimo, in realtà, venne nominato alla seconda
carica dello Stato in sostituzione del dimissionario Spiro Agnew, costretto anch’egli a abbandonare l’incarico pubblico nell’ottobre
dell’anno precedente perché scoperto responsabile di evasione fiscale su alcuni contributi elettorali. Ford divenne quindi il primo
presidente degli Stati Uniti formalmente non eletto direttamente dal popolo.
822
Per approfondimenti si veda L. Riccardi, Sempre più con gli arabi. La politica italiana verso il Medio Oriente dopo la guerra del
Kippur (1973-1976), cit., pp. 65-70. A pesare in questa direzione furono certamente i diversi interessi presenti all’interno dei Nove in
merito alla disputa arabo-israeliana che di fatto finirono per far fallire ogni tentativo di avviare una reale e unitaria politica
comunitaria verso il Medio Oriente [cfr. G. Mammarella, P. Cacace, Storia e politica dell’Unione Europea, Roma-Bari, 1998, p. 162;
L. Riccardi, Sempre più con gli arabi. La politica italiana verso il Medio Oriente dopo la guerra del Kippur (1973-1976), cit., p. 70].
Verso la fine del '74, ad esempio, sorsero enormi difficoltà sulla questione della partecipazione o meno al dialogo anche
dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e del suo leader indiscusso, Yasser Arafat, dietro richiesta esplicita da parte di
alcuni rappresentanti arabi (cfr. Note du Secrétaire Général adjoint de la Commission des Communautés Européennes, Klaus Meyer,
à l’attention de Monsieur le président F. X. Ortoli sur l’Etat actuel du dialogue euro-arabe, 11 aprile 1975, HAEU, Fondo Klaus
Meyer, n. 40). Altri problemi emersero sulla questione dei cosiddetti petroldollari e su quella degli aiuti ai paesi in via di sviluppo
[per approfondimenti si veda S. Labbate, Il ruolo dei petroldollari nelle relazioni Nord-Sud, in D. Caviglia, A. Varsori (a cura di),
Dollari, Petrolio e aiuti allo sviluppo. Il confronto Nord-Sud negli anni '60-70, cit., pp. 143-169]. Ciononostante, all’indomani del
primo incontro di Parigi, Moro, nella relazione presentata alla Commissione Esteri della Camera il 1° agosto '74, apostrofò il dialogo
euro-arabo come quello strumento che, utilizzando “la naturale complementarità e continuità del mondo europeo e del mondo arabo”,
avrebbe potuto portare a “un’ampia ed organica collaborazione in una prospettiva evolutiva di lungo periodo”, comportando la
definitiva “accettazione di quella logica mediterranea che [avevamo] sempre indicato per l’Europa. Ne [dovevano] derivare stabilità e
benessere accresciuti nell’area mediterranea”. Il dialogo avrebbe quindi dovuto “supera[re] gli schemi degli accordi economici già
stipulati o da stipulare dalla CEE con paesi mediterranei, come quelli del Magred ed esprime[re] la volontà dell’Europa di far
ascoltare una voce autorevole anche in un nuovo quadro” (cfr. A. Moro, Scritti e discorsi, a cura di G. Rossini, vol. VI, 1974-1978,
Roma, 1990, p. 3168).
823
Cfr. Note pour M. De Kergorlay, Directeur Général adjoint et M. Durieux, Directeur á la D.G. VIII, Klaus Meyer, Prémier
programme d’action du dialogue euro-arabe, 3 ottobre 1974, HAEU, Fondo Klaus Meyer, n. 39.
240
per prevenire i rischi negli investimenti diretti, uno sforzo congiunto per l’esplorazione di quei
territori non ancora ispezionati e che potevano risultare ricchi di petrolio, il contributo da parte
europea alla formazione di mano d’opera araba locale e all’espansione delle infrastrutture di
formazione per rispondere ai bisogni di industrializzazione824. Tuttavia, la proposta del segretario
generale della Commissione presupponeva una reale unità di intenti sia all’interno dei Nove, che
fra questi ultimi e i paesi arabi; i tempi però non sembravano in questo senso essere troppo
maturi. Da parte araba, ad esempio, ancora non era ben chiara la valenza politica della proposta
e, soprattutto, la reale autonomia del progetto dagli Stati Uniti, specie dopo il cambio di
atteggiamento francese all’indomani dell’avvento di Giscard d’Estaing825.
L’avvio del dialogo euro-arabo, oltretutto, non limitò la politica degli accordi bilaterali
nella quale si dimostrarono particolarmente attive in ambito europeo, oltre all’Italia, sia la
Francia che la Gran Bretagna. Moro continuò a ritenere valida la possibilità di raggiungere
accordi diretti con i governi arabi e, al contempo, puntò sul ruolo costruttivo della Comunità
europea826. L’indirizzo politico impresso dal ministro degli Esteri portò l’Italia a un
riavvicinamento anche nei confronti di quei paesi dell’area mediorientale considerati più radicali,
come l’Iraq827, e ciò avvenne nonostante la profonda crisi di governo in atto che finì per
influenzare le iniziative italiane in Medio Oriente. L’impasse si risolse con uno spostamento più
a sinistra degli equilibri della maggioranza di centrosinistra e della Democrazia Cristiana
mediante la formazione del IV° governo Moro sostenuto direttamente dalla coalizione DC-PRI,
con l’appoggio esterno del PSI e del PSDI e la susseguente astensione dei liberali. Alla Farnesina
venne nominato l’ex presidente del Consiglio, Mariano Rumor, e, di conseguenza, l’indirizzo
della politica mediorientale non subì cambiamenti significativi e rispose pienamente alla
necessità di avviare proficue collaborazioni nel tentativo di ottenere vantaggi energetici
essenziali per risollevare il paese828.
824
Ibidem.
Contemporaneamente allo sviluppo del dialogo euro-arabo, nel settembre '74 il ministro del Petrolio saudita Yamani si fece
promotore di un’iniziativa per rilanciare un vertice tra paesi produttori e consumatori, seppur in forma qualificata e ridotta; la
proposta non trovò tuttavia validi consensi all’interno degli stessi produttori [per approfondimenti si veda G. Garavini, L’arma del
petrolio: lo “shock” petrolifero e il confronto Nord-Sud. Parte Seconda. Il fallimento dell’alternativa europea: la Conferenza di
cooperazione economica internazionale (1975-1977), in D. Caviglia, A. Varsori (a cura di), Dollari, Petrolio e aiuti allo sviluppo. Il
confronto Nord-Sud negli anni '60-70, cit., p. 112].
826
Cfr. Appunto per il ministro Moro in occasione della visita di Kissinger, Roma, 5 luglio 1974, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 6,
MAE, Sottoserie Visite e questioni diverse, Busta 40. Per un approfondimento sulla politica di Moro in questa fase si vedano, tra gli
altri, G. Calchi Novati, Mediterraneo e questione araba nella politica estera italiana, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia
repubblicana, vol. II, La trasformazione dell’Italia. Sviluppo e squilibri, cit., pp. 245-246; L. V. Ferraris (a cura di), Manuale della
politica estera italiana, 1947-1993, cit., p. 274.
827
Il 17 luglio si sottoscrisse con l’Iraq un accordo decennale di collaborazione tecnica e economica e fu l’occasione per il ministro
degli Esteri, Hadil Taka, di ribadire la posizione intransigente del suo governo in merito al conflitto arabo-palestinese [per
approfondimenti si veda L. Riccardi, Sempre più con gli arabi. La politica italiana verso il Medio Oriente dopo la guerra del Kippur
(1973-1976), cit., pp. 74-75].
828
Sul fronte della disputa arabo-israeliana l’Italia agì inoltre in funzione dell’accrescimento del consenso internazionale che la causa
dei palestinesi ottenne nel corso del '74, grazie soprattutto all’operato del leader dell’OLP, Yasser Arafat, senza però schierarsi
dichiaratamente contro Israele (per approfondimenti ibidem, pp. 76-82).
825
241
Sul fronte della cooperazione internazionale, durante la riunione del Consiglio dell’OCSE
del 15 novembre '74 si diede seguito alle scelte fatte a Washington con la creazione
dell’International Energy Agency829. Il compito del nuovo istituto consisteva nel realizzare un
programma di cooperazione seguendo le linee guida espresse durante la conferenza sui problemi
energetici: sviluppare un livello comune di emergenza per raggiungere l’autosufficienza
dell’approvvigionamento di petrolio; dare vita a un sistema di informazione riguardante il
mercato internazionale del greggio; creare e realizzare un programma di collaborazione a lungo
termine per ridurre la dipendenza dalle importazioni petrolifere; promuovere le relazioni
cooperative con i paesi produttori e con gli altri Stati importatori. La mozione dell’OCSE ottenne
l’adesione di sedici paesi830, mentre Francia, Grecia e Finlandia si astennero. Nonostante i
consistenti riavvicinamenti e il riconoscimento pubblico dell’importanza della cooperazione tra i
paesi produttori, Parigi preferì non partecipare all’iniziativa831. L’assenza della Francia non destò
tuttavia particolari preoccupazioni all’interno dei Nove e, anzi, si ritenne ragionevolmente
possibile recuperare in breve tempo il consenso di Parigi. Secondo quanto sottolineato in una
nota della Direzione Generale degli Affari Esteri del MAE, la Francia, pur non entrando a far
parte della nuova agenzia internazionale, aderiva agli sforzi per lo sviluppo di una politica
829
Per approfondimenti sulle scelte statunitensi per la creazione dell’IEA cfr. A. Roncaglia, L'economia del petrolio, cit., pp. 139141.
830
Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Germania, Irlanda, Italia, Giappone, Lussemburgo, Olanda, Spagna, Svezia, Svizzera,
Turchia, Regno Unito e Stati Uniti.
831
Cfr. Decision of the OECD Council, Parigi, 15 novembre 1974, HAEU, Fondo OECD, 32. In una nota interna al Quai d’Orsay si
specificava che l’IEA, per via della sua composizione, non era adatta a sviluppare una politica a lungo termine efficace nel campo
della cooperazione energetica internazionale. I paesi consumatori dovevano certo collaborare tra loro, agendo in maniera solidale, per
diminuire la dipendenza dai produttori ma solo l’OCSE costituiva il luogo naturale per questo tipo di situazioni (cfr. Note pour le
Ministre des Affaires Étrangères, Position de la France sur la coopération internationale dans le secteur de l'énergie, Parigi, 24
ottobre 1974, MAEF, Archives Diplomatiques, Affaires économiques et financières, Affaires générales, 1967-1975, 412). Proprio in
questa direzione andava la proposta di Giscard d’Estaing, formulata qualche giorno prima della riunione del Consiglio
dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, di convocare una conferenza tripartita sull’energia, da tenersi
entro il prossimo febbraio tra i rappresentanti dei produttori, dei paesi industrializzati e di quelli in via di sviluppo, sempre nel quadro
dell’OCSE. Lo scopo era quello di trovare un accordo per ridurre la dipendenza dagli Stati produttori avviando una serie di iniziative
volte a limitare il consumo energetico interno, a favorire lo sviluppo di risorse nazionali e a intraprendere un’azione concertata sia in
seno alla Comunità europea che all’OCSE (cfr. Télétex n. 302 de la Délégation permanente de la Commission Européenne auprès
des organisations internationales a Genève, 11 novembre 1974, HAEU, Fondo European Commission, BAC 25/1980, 1025). La
proposta francese non venne rigettata dagli altri membri della Comunità ma essi sottolinearono il bisogno di preparare accuratamente
questa conferenza, sia nei modi che nei tempi, escludendo implicitamente che potesse essere tenuta entro un termine così ravvicinato
(cfr. Appunto interno del MAE, DGAE, Segreteria Generale, Roma, 21 novembre 1974, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 4, Presidenza
del Consiglio dei ministri, Sottoserie Questioni diverse, Ufficio del Consigliere diplomatico, Busta 81). Un parere positivo
all’iniziativa di Parigi giunse anche da parte dei paesi produttori e, principalmente, dall’Arabia Saudita, dall’Iran e dall’Iraq; il
Giappone accettò invece in linea di principio l’idea di una conferenza tripartita ma espresse la necessità che in via preliminare Stati
Uniti e Francia si incontrassero per raggiungere un compromesso sulle rispettive strategie da adottare (cfr. Note de la Direction
Générale de l’Energie de la Commission des Communautés Européennes, Bruxelles, 5 dicembre 1974, HAEU, Fondo Emile Noël, n.
139). Risultava infatti essenziale valutare quale sarebbe stata la risposta statunitense all’avance francese; Ford, verosimilmente,
avrebbe potuto avvallare questa proposta solo a condizione che Parigi iniziasse a cooperare fattivamente con gli Stati Uniti. Il
presidente americano e Giscard d’Estaing, così come auspicato dal Giappone, si incontrarono sull’isola di Martinica dal 14 al 16
dicembre e concordarono per la preparazione di un vertice tra paesi produttori e consumatori per incrementare la cooperazione nelle
aree della conservazione energetica, dello sviluppo di energie alternative e della cooperazione finanziaria [cfr. Communique Publié à
l’issue des entretiens entre le Président de la République Française et le Président des Etats-Unis, à la Martinique, 16 dicembre
1974, MAEF, Archives Diplomatiques, Affaires économiques et financières, Affaires générales (1967-1975), Direction Economique,
Energie, 265]. Per uno studio sulla proposta di Giscard d’Estaing per la convocazione di una conferenza tripartita sull’energia e sulle
risposte ricevute in merito da parte dei paesi interessati si veda G. Garavini, L’arma del petrolio: lo “shock” petrolifero e il
confronto Nord-Sud, cit., in D. Caviglia, A. Varsori (a cura di), Dollari, Petrolio e aiuti allo sviluppo. Il confronto Nord-Sud negli
anni '60-70, cit., pp. 112-124.
242
energetica comunitaria e gli obiettivi di quest’ultima coincidevano in toto con quelli dell’IEA.
Un ulteriore elemento positivo era rappresentato dal fatto che il nuovo istituto si inquadrava
nell’OCSE che la Francia aveva sempre definito come il luogo ideale dove risolvere i problemi
energetici internazionali832. Diversi elementi lasciavano dunque immaginare, se non una
partecipazione diretta, almeno una collaborazione di Parigi con l’International Energy Agency,
specie dopo l’incontro fa Ford e Giscard d’Estaing a Martinica e successivamente allo
svolgimento del vertice dei capi di governo e dei ministri degli Affari Esteri svoltosi a Parigi in
dicembre833.
Durante la riunione del Consiglio dell’OCSE l’Italia aveva riconosciuto l’esigenza di una
concertazione fra la Comunità e gli altri paesi consumatori, aggiungendo inoltre di ritenere che
l’IEA fosse la sede naturale dove effettuare questo genere di contatti. D’altronde, gli obiettivi
energetici della CEE e dell’IEA coincidevano e l’Italia si auspicava che la Comunità europea
aderisse in quanto tale all’accordo raggiunto in sede OCSE:
“Una soluzione del genere [avrebbe reso] possibile un apporto comunitario globale ai lavori
dell’Agenzia e, in tal modo, [avrebbe assicurato] la partecipazione indiretta della Francia
all’attività dei Sedici”834.
L’auspicio italiano sembrava troppo pretenzioso e, soprattutto, presupponeva che Parigi
avrebbe accettato di buon grado l’adesione diretta della Comunità al progetto dell’IEA. Di certo,
però, la divergenza franco-americana si era notevolmente ridotta e l’attuazione di entrambe le
strategie sembrava essersi trasformata in una questione di tempi: tutti e due i governi
esprimevano ora pubblicamente sia la necessità di una maggiore collaborazione fra le nazioni
consumatrici, principio che era stato alla base della proposta di Kissinger per la creazione di un
Energy Action Group, che l’ineluttabilità dell’avvio un dialogo con i produttori, così come Parigi
aveva da sempre sostenuto. Una conferma in questo senso si ebbe in una nota interna al Quai
d’Orsay in cui veniva sottolineato chiaramente come la Francia non si sarebbe opposta “allo
sviluppo di una concertazione tra paesi consumatori in seno all’OCSE. Questo [avrebbe dovuto]
permettere di ottenere la riduzione della dipendenza dei paesi industrializzati dall’importazione
832
Cfr. Appunto interno del MAE, DGAE, Roma, 16 dicembre 1974, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 4, Presidenza del Consiglio dei
ministri, Sottoserie Questioni diverse, Ufficio del Consigliere diplomatico, Busta 81.
833
Il summit di Parigi rappresentò infatti il momento culminante della cooperazione politica comunitaria: si riaffermò, tra l’altro, la
volontà dei Nove di adottare posizioni comuni mediante l’attuazione di una diplomazia concertata che avrebbe rappresentato
“l’elemento caratteristico della dimensione esterna della Comunità” (cfr. Relazione sull’attività delle Comunità europee per l’anno
1974, presentata dal ministro per gli Affari Esteri, Mariano Rumor, Camera dei Deputati, VI Legislatura, 8 gennaio 1975, HAEU,
Fondo Edoardo Martino, nn. 27-28, pp. 249-250). Il clima di collaborazione ritrovato con il vertice di Parigi faceva presupporre che
anche tutte le altre questioni di carattere internazionale si sarebbero potute risolvere mediante un consenso unanime.
834
Appunto interno del MAE, DGAE, Roma, 16 dicembre 1974, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 4, Presidenza del Consiglio dei
ministri, Sottoserie Questioni diverse, Ufficio del Consigliere diplomatico, Busta 81.
243
di petrolio per via di un programma a lungo termine di cooperazione tra la domanda di energia
economica, dello sviluppo di risorse energetiche interiori e della ricerca”835. La nota non faceva
riferimento diretto all’IEA ma non precisava neanche un’avversione nei confronti dell’agenzia
internazionale, ora diversamente considerata rispetto agli anni di Pompidou.
In un lungo memorandum redatto da Kissinger, l’International Energy Agency era invece
dipinta come uno dei maggiori successi dell’ultima decade sotto il profilo della cooperazione tra
le democrazie industrializzate. In ogni caso, secondo l’opinione del segretario di Stato, nella
risoluzione delle crisi internazionali di carattere economico e energetico rimanevano
determinante il ruolo e la leadership degli Stati Uniti. Nella progettazione di un rapido schema
per la ricerca di nuovi approvvigionamenti e per l’uso di fonti alternative, ad esempio, nulla era
possibile in assenza della tecnologia americana e senza l’iniziativa politica di Washington836.
Mediante l’operato della IEA, Kissinger sosteneva che si dovessero perseguire tre fasi. La prima
era finalizzata alla protezione dalle emergenze: bisognava cioè essere pronti a evitare l’uso del
petrolio o dei petroldollari come armi politiche e, in caso di fallimento, occorreva aver
approntato un’efficace strategia difensiva. A questo fine risultava determinante stabilire
programmi di emergenza condivisi per fronteggiare nuovi eventuali embarghi e creare
meccanismi a protezione delle istituzioni finanziarie. La seconda fase serviva a trasformare le
condizioni di mercato del petrolio dei paesi OPEC: se si fosse agito in maniera decisa per ridurre
il consumo del petrolio importato e per sviluppare risorse alternative, la pressione internazionale
in direzione di una diminuzione dei prezzi avrebbe finito per avere la meglio. Una volta che i
paesi consumatori avessero messo in atto questi passaggi essenziali per ridurre la loro
vulnerabilità, si sarebbe proceduto alla terza e ultima fase: una conferenza con i produttori per
discutere sull’applicazione di prezzi petroliferi equi, su strutture di mercato differenti e su nuove
relazioni economiche di lungo termine837. Due misure di emergenza utili per la realizzazione di
questo progetto erano state già previste: in novembre la IEA aveva infatti stabilito la creazione di
un piano senza precedenti per un’assistenza reciproca in caso di applicazione di un nuovo
embargo petrolifero. Su questa base, ciascuna nazione si era impegnata a creare una scorta di
emergenza e a provvedere, in caso di embargo, a attuare una serie di misure volte a ridurre il
consumo interno e a condividere il petrolio disponibile con gli altri partner, in modo tale che “un
embargo contro uno Stato sarebbe divenuto un embargo contro tutti”838. Inoltre, in gennaio le
835
Note pour le Ministre des Affaires Étrangères, Politique pétrolifère des États-Unis et position française, Parigi, non datato ma del
gennaio 1975, MAEF, Archives Diplomatiques, Affaires économiques et financières, Affaires générales, 1967-1975, 266.
836
Cfr. Memorandum address by Henry A. Kissinger, Secretary of State, before the National Press Club Washington D. C., 3
Febbraio 1975, GFL, Office of Editorial Staff, William Seidman (Economic Affairs), Kissinger.
837
Ibidem.
838
Ibidem.
244
maggiori nazioni industriali avevano deciso, su proposta americana, di creare un fondo di
solidarietà di venticinque miliardi di dollari per un sostegno reciproco in caso di crisi finanziarie.
Mediante questo strumento sarebbero stati concessi prestiti e garanzie ai paesi più colpiti da un
deficit dei pagamenti, salvaguardando così l’economia internazionale da possibili ritorsioni da
parte dei produttori. Tutte le iniziative all’interno dell’International Energy Agency, secondo
Kissinger, partivano dalla necessità assoluta di una collaborazione, in primo luogo fra i paesi
consumatori e, secondariamente, tra questi ultimi e i produttori839.
In questo quadro, sopraggiunse la firma il 28 febbraio '75 della Convenzione di Lomé840,
in sostituzione del precedente accordo di Yaoundé, fra la Comunità europea e ben quarantasei
paesi in via di sviluppo dell’Africa, dei Carabi e del Pacifico. L’intesa stabiliva un rapporto
associativo e di cooperazione che comprendeva le relazioni commerciali, la collaborazione
industriale e tecnica, l’aiuto finanziario e, per la prima volta, il principio della stabilizzazione dei
proventi delle esportazioni di materie prime di questi paesi841. La conclusione di questo accordo
poneva la Comunità in una posizione di primo piano nelle relazioni tra le nazioni industrializzate
e i paesi in via di sviluppo, proseguendo la strada già avviata con la pionieristica applicazione nel
'71 del sistema delle preferenze generalizzate ai PVS appartenenti al “Gruppo dei 77” nell'ambito
dell'UNCTAD, nonché ai paesi e ai territori d'oltremare dipendenti dagli Stati membri.
A distanza di pochi giorni, la Francia decise che era giunto il momento di dare il via alla
strategia proposta da Giscard d’Estaing in novembre per la convocazione di un vertice tripartito
fra consumatori, produttori e paesi in via di sviluppo che si concentrasse principalmente sulla
cooperazione economica internazionale842. La riunione preliminare si svolse dal 7 al 16 aprile a
Parigi ma il negoziato si arrestò fin dalla scelta dell’ordine del giorno: la presenza infatti di
nazioni del terzo mondo non produttrici come l’India, il Brasile e lo Zaire rese praticamente
impossibile stabilire se si dovessero affrontare problemi relativi al petrolio e quindi all’energia,
oppure temi economici di più ampio respiro843. Diverse difficoltà emersero anche all’interno
della stessa IEA alle cui riunioni, nonostante la convergenza di interessi, si evidenziarono metodi
839
Ibidem. Per approfondimenti si veda S. Labbate, Il ruolo dei petroldollari nelle relazioni Nord-Sud, in D. Caviglia, A. Varsori (a
cura di), Dollari, Petrolio e aiuti allo sviluppo. Il confronto Nord-Sud negli anni '60-70, cit., pp. 162-164.
840
Per un’analisi sulla Convenzione di Lomé si vedano G. Migani, Un nuovo modello di cooperazione Nord-Sud? Lomé, la CEE e i
paesi ACP, in A. Bitumi, G. D’Ottavio, G. Laschi (a cura di), La Comunità europea e le relazioni esterne, 1957-1992, cit., pp. 173192; J. M. Palayret, Mondialisme contre régionalisme : CEE et ACP danse les négociations de la Convention de Lomé, in A. Varsori
(a cura di), Inside the European Community. Actors and Policies in European Integration (1957-1972), cit., pp. 369-398.
841
Cfr. Relazione sull’attività delle Comunità europee per l’anno 1975, presentata al ministro per gli Affari Esteri, Rumor, Camera
dei Deputati, VI Legislatura, 30 dicembre 1975, HAEU, Fondo Edoardo Martino, nn. 27-28.
842
Cfr. Telelegram from the Secretary of State to Foreign English Minister, Callaghan, 3 marzo 1975, GFL, Presidential Country
Files for Europe and Canada, England.
843
Le differenze tra i partecipanti erano tuttavia ben più profonde e non si limitavano alla scelta dell’ordine del giorno da discutere;
per ulteriori approfondimenti si veda G. Garavini, L’arma del petrolio: lo “shock” petrolifero e il confronto Nord-Sud, cit., in D.
Caviglia, A. Varsori (a cura di), Dollari, Petrolio e aiuti allo sviluppo. Il confronto Nord-Sud negli anni '60-70, cit., pp. 124-125.
245
di intervento difformi844. La proposta di Kissinger di stabilire un prezzo minimo per le
importazioni di petrolio dei paesi industrializzati al fine di stimolare e proteggere lo sviluppo di
altre risorse di energia845, venne ad esempio accolta con riserva da alcune delegazioni.
L’iniziativa avrebbe di fatto avvantaggiato gli Stati Uniti che disponevano di importanti riserve
energetiche nazionali, mentre la maggior parte dei paesi europei sarebbe continuata a dipendere
almeno per altri dieci-quindici anni dalle importazioni petrolifere; inoltre, se fossero stati
costretti a pagare un prezzo più alto per i rifornimenti di greggio, alcune nazioni del vecchio
continente non avrebbero potuto investire al meglio nello sviluppo di altre risorse energetiche846.
Era questa infatti la preoccupazione espressa da Moro in una lettera inviata a Ford in marzo in
risposta a una possibile collaborazione bilaterale proposta da Washington847. Il premier italiano
chiese espressamente al presidente americano di prendere in considerazione la situazione della
penisola nelle scelte in corso d’opera presso l’International Energy Agency:
“[…] nell’affrontare i problemi energetici in una cornice multinazionale ed a lunga scadenza
non si [poteva] prescindere dalle situazioni di fatto dei singoli Paesi partecipanti. L’Italia, ad
esempio, per il suo fabbisogno energetico, dipende[va] per il 75% dal petrolio e non dispone[va]
di fonti alternative, al di fuori di quelle che [sarebbero state] rappresentate dallo sviluppo
dell’energia nucleare, i cui effetti, tuttavia, non [si sarebbero manifestati] in modo rilevante, se
non a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta. Le nostre preoccupazioni non si [riferivano]
quindi agli obiettivi strategici della cooperazione che si sta[va] realizzando in seno all’Agenzia,
ma alle nostre necessità a breve e medio termine, che [avrebbero continuato] a fondarsi
principalmente sul petrolio”848.
In una situazione economica molto difficile, l’Italia doveva affrontare, da un lato, il
problema dell’approvvigionamento petrolifero a prezzi convenienti e, dall’altro, quello degli
844
Già in gennaio una nota del Quai d’Orsay sottolineava infatti come le notizie che giungevano dai partecipanti all’IEA palesavano
una serie difficoltà interne dovute principalmente a resistenze europee e giapponesi alle soluzioni proposte dagli Stati Uniti (cfr. Note
de M. Labouat pour M. Brunet e pour M. Cabouat, Parigi, 16 gennaio 1975, MAEF, Archives Diplomatiques, Affaires économiques
et financières, Affaires générales, 1967-1975, 406).
845
Una delle cause per cui l’energia nucleare non si era sviluppata in modo adeguato in tutti i paesi industrializzati (e in particolar
modo in Italia) era infatti imputabile all’economicità del petrolio e alle sue caratteristiche. Superata la fase acuta della crisi il prezzo
del greggio era fortemente aumentato rispetto agli anni precedenti ma non era più così elevato come durante i mesi dello shock. Il
rischio era dunque, secondo gli Stati Uniti, che alcuni governi decidessero di non investire in altre risorse energetiche a causa degli
ingenti finanziamenti richiesti. La proposta di Kissinger partiva proprio da questa analisi: solo la fissazione di un prezzo base più alto
per le importazioni petrolifere avrebbe incentivato investimenti su altre fonti energetiche e avrebbe pertanto favorito una necessaria
diversificazione (per ulteriori approfondimenti si veda A. Roncaglia, L'economia del petrolio, cit., pp. 141-146; A. Sampson, Le sette
sorelle: le grandi compagnie petrolifere e il mondo che hanno creato, cit., p. 407; C. E. Solberg, Oil Power, New York, 1976, p.
262).
846
Da questo punto di vista i propositi statunitensi e quelli di alcuni paesi europei apparivano dunque divergenti (cfr. Note pour le
Ministre des Affaires Étrangères, Parigi, 4 febbraio 1975, MAEF, Archives Diplomatiques, Affaires économiques et financières,
Affaires générales, 1967-1975, 439).
847
Cfr. Letter from Gerald Ford to Aldo Moro, Washington, 22 febbraio 1975, GFL, Presidential Country Files for Europe and
Canada, Italy.
848
Letter from Aldo Moro to the president Ford, delivered by the ambassador Egidio Ortona, Washington, 11 marzo 1975, ibidem.
246
investimenti necessari a realizzare, entro il 1985, un oneroso programma nucleare. Data questa
premessa, Moro mise in evidenza come la penisola avrebbe dovuto poter contare su aiuti
economici proporzionati alle dimensioni dei problemi esistenti e su un trattamento diverso da
quello che si stava mettendo a punto in quei giorni presso l’Agenzia internazionale sull’energia:
“Il Governo italiano, mentre conferma[va] la propria disponibilità di accettare il principio
dell’istituzione di un «floor price» sul petrolio importato, [riteneva] necessario studiarne
attentamente le implicazioni con particolare riguardo al suo livello od anche ai suoi livelli. Ci
[sarebbe sembrato] infatti giustificato sul piano economico prevedere dei «floor prices»
differenziati per zone geografiche, in riferimento ai prezzi dell’energia esistenti in passato nel
Nord America, in Europa ed in Giappone. […] l’Italia dovrebbe poter contare su una adeguata
assistenza finanziaria […] anche nell’ambito di eventuali «Consorzi» od altre iniziative specifiche
da attuare nell’AIE”849.
Le considerazioni espresse da Moro rispondevano in pratica all’esigenza di dover tenere
conto delle diverse condizioni strutturali presenti nei paesi consumatori e, quindi, della necessità
di attenuare queste differenze in funzione di una maggiore solidarietà e di una migliore
cooperazione850. La partecipazione stessa dell’Italia all’IEA era stata pensata proprio in virtù
della condizione critica esistente e nella speranza che un’azione collettiva potesse arrecare
benefici alla penisola. L’International Energy Agency, d’altronde, pur rappresentando il più
valido strumento di collaborazione fra le democrazie industrializzate, possedeva un limite di
azione non indifferente: così come marcatamente sottolineato dalla Francia già durante la
Conferenza di Washington del febbraio '74, non si potevano risolvere concretamente i problemi
849
Ibidem.
I timori manifestati da Moro sulle decisioni in corso presso l’IEA vennero riportate dal presidente dell’ENI in una lettera
indirizzata al ministro delle Partecipazioni Statali, Antonio Bisaglia, nella quale Girotti richiamava l’attenzione del governo sulla
necessità di una collaborazione diretta con gli Stati Uniti. Nella fattispecie, si riteneva possibile e auspicabile che Washington
intervenisse in favore dell’Italia in quei settori in cui le difficoltà erano più marcate. Primo fra tutti, il mercato dell’uranio naturale
che era al momento caratterizzato da notevoli tensioni e, di conseguenza, da prezzi crescenti e da insicurezza degli
approvvigionamenti: “[…] l’intervento [americano] dovrebbe […] consentire l’accesso dell’Italia allo «stock-pile» statunitense di
uranio naturale per far fronte ad eventuali difficoltà […] che dovessero verificarsi [e] […] assicurare, sin da ora, all’industria italiana
un maggiore accesso alle ricerche di minerali uraniferi in aree geografiche in cui i particolari rapporti stabilitisi tra i produttori
[assicuravano] agli USA una influenza diretta od indiretta”. Nel campo dell’uranio arricchito, invece, dove grazie ai contratti stipulati
o in via di definizione con gli stessi Stati Uniti, con l’Unione Sovietica e con l’EURODIF, la penisola si era assicurata una copertura
di approvvigionamento pari a più del cinquanta percento del fabbisogno, la parte restante necessaria poteva essere soddisfatta
mediante la realizzazione di ulteriori capacità di arricchimento europeo o grazie a altre fonti come quelle americane. Gli USA
potevano però aiutare l’Italia anche assicurando l’accesso all’indispensabile know-how riguardante le tecniche di diffusione gassosa,
di centrifugazione e laser, attualmente utilizzate dagli americani con successo. Anche nel settore del ritrattamento e del
condizionamento del combustibile ci si attendeva che gli Stati Uniti assicurassero all’Italia: “a) gli interventi più opportuni per
facilitare […] l’accesso alla tecnologia degli impianti di ritrattamento di grande capacità ed alla tecnologia di condizionamento dei
rifiuti radioattivi […]; b) l’ammissione di tecnici italiani ai centri americani dell’ERDA […]; c) l’ammissione di tecnici italiani ai
Centri di ricerca americani, che svolgono ricerche nel campo della radiochimica, del ritrattamento e della conversione dei Sali di
uranio UF6”. Gli USA potevano infine accelerare l’avvio di programmi di collaborazione tra le aziende dei due paesi e partecipare al
finanziamento del programma di sviluppo elettronucleare italiano in fase di studio dal ministro dell’Industria, del Commercio e
dell’Artigianato (cfr. Lettera del presidente dell’ENI, Raffaele Girotti, al ministro delle Partecipazioni Statali, Antonio Bisaglia,
Roma, 9 maggio 1975, ACS, Fondo Ministero Partecipazioni Statali, DGAE, Serie Energetiche, Busta 6).
850
247
energetici internazionali senza la relativa partecipazione dei paesi produttori di petrolio. La
composizione dell’IEA, sancita sulla base delle proposte di Kissinger e dopo il rifiuto a
parteciparvi di Parigi, rendeva invece di fatto dominante il ruolo e la leadership degli Stati Uniti
anche nella risoluzione delle crisi mondiali di carattere energetico. Ciò, come era immaginabile
ritenere, non poteva essere accettato dai paesi OPEC che nel maggio '75 dichiararono
ufficialmente di non riconoscere l’International Energy Agency come un interlocutore valido,
rafforzando così il ruolo della CEE851.
In questo contesto, il 14 giugno, dopo difficili trattative presso il quartier generale della
Lega Araba al Cairo, venne adottato un “Joint Memorandum” fra la delegazione di esperti
europea e quella araba quale primo concreto passo in direzione del dialogo852. Il documento
finale sottolineava come l’obiettivo stabilito in comune fosse la creazione di una special
relationship tra la Comunità europea e il mondo arabo nelle seguenti aree: l’agricoltura e gli
sviluppi rurali, l’industrializzazione, l’infrastruttura di base, la cooperazione finanziaria, il
commercio, la collaborazione scientifica, tecnologica, culturale, sociale e lavorativa. Per
raggiungere questi obiettivi si convenne di prevedere delle riunioni periodiche nella forma di un
comitato direttivo di esperti che avrebbe dovuto portare avanti la cooperazione nei suddetti
settori, avviando di fatto la prima infrastruttura operativa del dialogo euro-arabo853. L’accordo
rappresentò un importantissimo riconoscimento del ruolo svolto dalla Comunità europea
all’interno dello scacchiere del Mediterraneo, oltre che un fondamentale punto di partenza per
una collaborazione che avrebbe potuto portare vantaggi economici per mezzo di una strategia
caratterizzata da investimenti nei mercati internazionali, soprattutto nel settore petrolifero, nel
commercio e nella produzione industriale. Negli anni successivi si palesarono però evidenti
differenze di vedute fra le parti su questioni delicate, quali la disputa con Israele e le pressioni
americane, che di fatto finirono per limitare notevolmente le potenzialità del dialogo euroarabo854.
851
Cfr. “Dialogue énergie-matières premier : l’OPEP déclare l’AIE « Persona non grata » et il s’adresse vers la CEE”, Nouvelle
Agence de Presse Internationale, Parigi, 6 maggio 1975, MAEF, Archives Diplomatiques, Affaires économiques et financières,
Affaires générales, 1967-1975, 430.
852
Le difficoltà emerse alla fine del '74 sulla possibilità che l’OLP partecipasse attivamente al dialogo euro-arabo, cosa che aveva di
fatto causato il rinvio della convocazione dell’organo istituzionale previsto dalle due parti sotto la denominazione di “Commissione
Generale”, si superarono nei primi mesi dell’anno successivo mediante un compromesso: la cosiddetta “formula di Dublino”. In
questa sede si riunirono infatti i ministri degli Esteri dei Nove il 13 febbraio '75 e decisero, sulla base di una proposta araba pervenuta
tramite l’Ambasciata d’Italia al Cairo (cfr. Note du Secrétaire Général adjoint de la Commission des Communautés Européennes,
Klaus Meyer, à l’attention de Monsieur le Président Ortoli, de sir Christopher Soames, vice-président, et de Monsieur C. Cheysson,
Membre de la Commission, Bruxelles, 28 gennaio 1975, HAEU, Fondo Klaus Meyer, n. 87), di avviare, nel frattempo, una serie di
incontri tra esperti europei e arabi, riuniti in due sole delegazioni unitarie (cfr. Note du Secrétaire Général adjoint de la Commission
des Communautés Européennes, Klaus Meyer, à l’attention de Monsieur le Président Ortoli, Bruxelles, 11 aprile 1975, ibidem, n.
40).
853
Cfr. “Joint communiqué: Euro-Arab Dialogue, Cairo, 14th June 1975”, Note du Secrétaire Général adjoint de la Commission des
Communautés Européennes, Klaus Meyer, à l’attention de MM. Les membres de la Commission, Bruxelles, 16 giugno 1975, ibidem.
854
Il petrolio, ad esempio, venne eliminato come argomento da trattare dall’agenda delle discussioni, mentre, all’indomani degli
accordi di Camp David tra l’Egitto e Israele del '78, si palesarono sempre più le fratture interne al fronte arabo. Tutto ciò finì per
248
Nonostante tutto, il problema principale rimaneva quello di avviare una reale
cooperazione fra consumatori, produttori e paesi in via di sviluppo, così come si era tentato di
fare a Parigi dal 7 al 16 aprile su iniziativa di Giscard d’Estaing. Per quanto concerneva la CEE
era previsto che i Nove, in occasione del Consiglio europeo di Bruxelles del 16-17 luglio, fossero
in grado di raggiungere un punto di vista unitario. Durante la riunione del gruppo di alti
funzionari degli Stati membri, tenutasi a Bruxelles il 7 luglio, si redasse un interessante
documento che doveva rappresentare la base per le discussioni da tenersi in seno al Consiglio: la
Comunità si sarebbe espressa in favore di una ripresa del dialogo fra le parti nel più breve tempo
possibile e avrebbe ufficialmente dichiarato di volere “attribuire la stessa importanza e trattare
con la stessa volontà politica i temi dell’energia, delle materie prime e dello sviluppo dei
PVS”855. Per quanto concerneva i metodi, si sarebbe dovuto scegliere tra la ripresa della riunione
preparatoria dell’aprile precedente e la convocazione di un nuovo vertice preliminare. In
entrambi i casi lo scopo della Comunità sarebbe stato quello di elaborare le basi per la
convocazione di una conferenza ristretta ma rappresentativa delle parti, o di una riunione
conclusiva che avrebbe dovuto adottare le disposizioni necessarie relative all’organizzazione del
dialogo e, in particolare, all’istituzione di commissioni speciali per ciascun settore: materie
prime, energia e sviluppo856. Durante il Consiglio europeo di Bruxelles risultò tuttavia
impossibile concordare una soluzione sulla metodologia da attuare per il prosieguo del dialogo
tra produttori, consumatori e paesi in via si sviluppo857 e si preferì concentrare gli sforzi sulle
questioni che raccoglievano un consenso unanime858.
sancire il fallimento dello stesso dialogo euro-arabo e, di conseguenza, per confermare la debolezza della Comunità di fronte al ruolo
importante che gli Stati Uniti giocavano in Medio Oriente; d’altronde, in questa area gli spazi di manovra concessi all’Europa erano
davvero esigui e difficilmente sfruttabili.
855
Note du Chef de la délégation de la Commission de la Communauté européenne, Edmund P. Wellenstein, pour M. le président,
M. Soames, et M. Cheysson, Bruxelles, 14 luglio 1975, HAEC, BAC 79/1982, 229.
856
Ibidem.
857
Le maggiori differenze vertevano su due questioni: la struttura effettiva da dare alla cooperazione e il problema della
partecipazione al dialogo dell’International Energy Agency in qualità di osservatore. Sul primo problema gli Stati Uniti, appoggiati
dalla maggioranza dei paesi membri dell’IEA e della stessa Comunità europea, avevano proposto che i tre temi principali della
discussione, energia, materie prime e sviluppo fossero affidati a tre distinte commissioni che avrebbero dovuto lavorare in modo
autonomo e non far capo a una conferenza unica, bensì riferire direttamente ai singoli governi. A questo progetto si erano opposti i
paesi in via di sviluppo e la Francia si era fatta interprete delle loro istanze con la proposizione di una conferenza “globale ma
differenziata” e con carattere di continuità. Per quanto concerneva la posizione dell’Italia in proposito, un appunto interno al MAE
suggeriva di attendere una eventuale soluzione di compromesso sulla base dei propositi di Parigi: “Dati i nostri interessi nei confronti
dei Paesi produttori di petrolio avremmo [avuto] interesse ad appoggiare discretamente la posizione dei francese, soprattutto se essi
[avessero presentato] formalmente una soluzione di compromesso che [sarebbe dovuta consistere] nel proporre che le Commissioni
[facessero] rapporto alla Presidenza della Conferenza senza render necessario ripetute ed automatiche riconvocazioni della
Conferenza stessa” (Appunto interno del MAE, Roma, 11 luglio 1975, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 4, Presidenza del Consiglio dei
ministri, Sottoserie Questioni diverse, Ufficio del Consigliere diplomatico, Busta 82). Inoltre, sulla richiesta della partecipazione al
dialogo dell’IEA si opponevano sia la delegazione francese che i paesi produttori (ibidem).
858
Si pervenne, ad esempio, alle dichiarazioni comuni concernenti le Nazioni Unite e la Conferenza per la Sicurezza e la
Cooperazione in Europa. Quest’ultima, in particolare, ricordava il ruolo positivo svolto dalla Comunità in seno alla cooperazione
politica che, in prospettiva della fase finale della lunga trattativa, aveva contribuito affinché trentacinque paesi dell’Europa e
dell’America del nord riuscissero a definire gli orientamenti guida delle loro relazioni future [cfr. Déclaration du Conseil européen
sur la CSCE (17 juillet 1975), consultabile sul sito internet http://www.ena.lu]. Questa dichiarazione venne infatti seguita pochi
giorni dopo dalla firma del noto Atto Finale della conferenza di Helsinki per la promozione della pace, del dialogo politico, della
giustizia e della cooperazione in Europa (per il testo del suddetto Atto Finale si veda il sito internet http://www.osce.org; per il
249
In un contesto internazionale caratterizzato da eventi del tutto inediti rispetto al
passato859, il presidente francese si fece promotore di un’altra iniziativa, suggerendo la
convocazione di un vertice fra i leader delle maggiori potenze860 con l’obiettivo di trovare un
accordo sui principali problemi economici mondiali, avviando al contempo un dialogo con i
paesi in via di sviluppo861. Il summit si sarebbe tenuto in novembre a Parigi e sarebbe passato
alla storia come conferenza di Rambouillet, dal nome del castello omonimo, residenza ufficiale
del presidente della Repubblica francese assieme all’Eliseo. Secondo quanto stabilito nella
dichiarazione finale adottata durante la riunione preparatoria tenutasi a Parigi dal 13 al 16
ottobre862, i problemi strettamente energetici sarebbero stati oggetto, in linea con la proposta di
Giscard d’Estaing, della successiva Conferenza sulla Cooperazione Economica Internazionale863
fissata per dicembre864.
discorso di Moro alla Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa nella duplice veste di capo del governo e quindi
rappresentante dell’Italia, nonché presidente in esercizio del Consiglio delle Comunità europee si vedano Intervento dell’On.
Presidente del Consiglio, Helsinki, luglio 1975, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 1, Scritti e discorsi 1953-1978, Sottoserie annuali,
Busta 31; A. Moro, Scritti e discorsi, a cura di G. Rossini, vol. VI, 1974-1978, Roma, 1990, pp. 3346-3350). Appare tuttavia
importante sottolineare che l’iniziativa italiana per la convocazione di una conferenza per la sicurezza e la cooperazione nel
Mediterraneo, così come gli sviluppi della stessa collaborazione europea in questa area, in funzione di quanto stabilito nell’Atto
finale di Helsinki, si rivelarono fallimentari [per approfondimenti si veda E. Calandri, Il Mediterraneo nella politica estera italiana,
cit., in A. Giovagnoli, S. Pons (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, cit., pp. 373-374].
859
Tra questi accadimenti il più eclatante era certamente la fine della guerra in Vietnam con il ritiro e la relativa prima sconfitta
militare da parte degli Stati Uniti; non meno sorprendente era da considerarsi la firma dell’Atto finale della Conferenza per la
Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Vi erano state inoltre una serie di altre situazioni, quali, ad esempio, la caduta dei regimi
dittatoriali e autoritari di Grecia, Portogallo e Spagna e l’ascesa sempre maggiore dei partiti socialisti in tutta Europa, che rischiavano
di cambiare completamente il quadro delle relazioni internazionali.
860
In realtà l’idea di organizzare entro l’anno un vertice ristretto tra i leader dei maggiori paesi industrializzati si decise durante un
pranzo a quattro al margine della conferenza di Helsinki tra Giscard d’Estaing, Schmidt, Ford e Callaghan; in particolare, l’iniziativa
partì dal presidente francese e dal cancelliere tedesco [per approfondimenti si veda G. Garavini, The Battle for the Participation of
the European Community in the G7 (1975-1977), in «Journal of European Integration History», vol. 12, n. 1, 2006, pp. 143-145].
861
Nei propositi di Giscard d’Estaing per la convocazione di una nuova conferenza internazionale che doveva focalizzare
l’attenzione sui problemi economici fu chiaro fin da subito che tra le maggiori potenze da invitare sarebbe stata esclusa l’Italia perché
non considerata tale. Il vertice doveva infatti essere un meeting ristretto tra Francia, Gran Bretagna, Repubblica Federale Tedesca,
Stati Uniti e Giappone. In proposito, già da settembre il segretario generale del MAE, Raimondo Manzini, si attivò con successo per
fare in modo che la penisola partecipasse attivamente all’iniziativa francese, intravedendo in quest’ultima l’importanza che poi
effettivamente si rivelerà avere con il passare degli anni e la nascita del cosiddetto Gruppo dei Sei, meglio conosciuto con il nome di
G6, a cui partecipò dunque anche l’Italia [per approfondimenti sulle iniziative di Manzini di settembre si veda Memorandum of
Conversation between Raimondo Manzini (Secretary General, Italian Foreign Ministry) and Helmut Sonnenfeldt (Counselor of the
Department of State), Sonnenfeldt’s Office, Washington, 4 settembre 1975, NARA, General Records of the Department of State,
Record Group 59, Records of the Office of the Counselor, 1955-1974]. Sull’azione diplomatica di Manzini nel suo complesso si veda
anche L. V. Ferraris (a cura di), Manuale della politica estera italiana, 1947-1993, cit., p. 264.
862
Anche in questa circostanza la decisione di rilanciare la conferenza tripartita tra consumatori, produttori e paesi in via di sviluppo
venne presa preliminarmente a Helsinki [cfr. G. Garavini, L’arma del petrolio: lo “shock” petrolifero e il confronto Nord-Sud, cit.,
in D. Caviglia, A. Varsori (a cura di), Dollari, Petrolio e aiuti allo sviluppo. Il confronto Nord-Sud negli anni '60-70, cit., p. 127].
863
Ovvero, come venne battezzato dalla stampa, “dialogo Nord-Sud”.
864
Alla riunione preparatoria di Parigi, a cui parteciparono dieci paesi in totale, di cui sette in via di sviluppo (Algeria, Arabia
Saudita, Iran, Venezuela, Brasile, India e Zaire) e tre industrializzati (CEE, Giappone e Stati Uniti), si decise sia l’allargamento della
conferenza a ventisette paesi, sia che essa si sarebbe strutturata su quattro commissioni: energia, materie prime, sviluppo, affari
finanziari [per approfondimenti sulle decisioni prese a Parigi si veda Conferenza sulla Cooperazione Economica Internazionale (1617 dicembre 1975), Appunto interno del MAE, Segreteria Generale, Roma, non datato ma dell’ottobre 1975, ACS, Carte Aldo Moro,
Serie 4, Presidenza del Consiglio dei ministri, Sottoserie Questioni diverse, Ufficio del Consigliere diplomatico, Busta 87]. Molto
interessante rilevare che, qualche giorno prima della suddetta riunione preparatoria, la Gran Bretagna aveva espresso la propria
riluttanza a essere rappresentata dalla CEE alla Conferenza sulla Cooperazione Economica Internazionale. Nella fattispecie, Londra
non voleva che i suoi interessi nelle questioni di cui si sarebbe discusso a Parigi fossero difesi da una delegazione che, a suo parere,
non rispecchiava le reali necessità britanniche. La decisione inglese, resa pubblica direttamente dal ministro degli Affari Esteri,
James Callaghan, durante una riunione dei Nove a Lussemburgo, scatenò le reazioni negative degli altri partner comunitari; il
rappresentante della Repubblica Federale Tedesca, ad esempio, non esitò a qualificare la scelta di Londra come una catastrofe per la
Comunità [cfr. Note pour le Ministre des Affaires Étrangères, Dialogue Nord-Sud: la bombe britannique (Jean Burner),
250
6. Il Piano Energetico Nazionale
Così come previsto, al termine di un approfondito giro di consultazioni con i principali
attori operanti nel settore energetico italiano865, il ministro dell’Industria, del Commercio e
dell’Artigianato, Carlo Donat-Cattin, presentò il 29 luglio '75 il Piano Energetico Nazionale.
Secondo quanto stabilito nella bozza presentata per l’approvazione da parte del CIPE, le misure
previste si concentravano, per via delle necessità contingenti, principalmente sull’offerta
energetica
e,
dunque,
sulla
ricerca
della
massima
indipendenza
possibile
degli
approvvigionamenti di energia, su una più chiara distinzione dei compiti spettanti a ciascun
operatore settoriale, sul tentativo di massimizzare i risvolti positivi per l’industria nazionale e
sull’accertamento dell’esistenza dei presupposti finanziari:
“Il programma […] non [era], e non poteva essere in questa fase, un programma che
[esauriva] tutti gli aspetti della manovra energetica. Esso si sofferma[va] in via prioritaria sui
problemi che [concernevano] l’offerta di energia, anche se a varie riprese [venivano] toccati temi
che [investivano] la domanda di energia e le modalità necessarie per evitare sprechi ed indurre
razionalizzazioni. […] [Nel dettaglio il piano prevedeva]: 1) l’adozione di programmi tendenti
alla massima possibile autonomia degli approvvigionamenti energetici del Paese, pur avendo
presente il fatto che le scelte compiute oggi [incidevano] solo marginalmente sulla situazione
immediata e [potevano] dare risultati tangibili solo dopo un certo numero di anni; 2) la
precisazione del ruolo dei vari operatori pubblici e privati, cercando di eliminare le duplicazioni
che si [rivelavano] inutili o dannose e per contro di individuare i livelli di responsabilità per
alcune azioni che finora [avevano] ricevuto un’attenzione marginale; 3) una concreta azione ai
risvolti di natura industriale dei programmi che si [adottavano] e quindi la preoccupazione di
coglierne tutti gli aspetti che [potevano] massimizzare gli effetti positivi sulla struttura produttiva;
4) la verifica dell’esistenza di una cornice finanziaria adeguata per le varie azioni programmatiche
che si [intendevano] adottare”866.
Lussemburgo, 7 ottobre 1975, MAEF, Archives Diplomatiques, Affaires économiques et financières, Affaires générales, 1967-1975,
433].
865
Per approfondimenti si veda Verbale della 48ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 24 luglio 1975, pp. 46, ASENEA.
866
Ente Nazionale Energia Elettrica, Programma Energetico Nazionale, testo provvisorio presentato al CIPE in data 29 luglio 1975,
Roma, ASENEL, Segreteria del Consiglio, Piani energetici, 12.1.
251
Si trattava di propositi senza dubbio ambiziosi in cui andava preliminarmente risolto il
quesito relativo al reperimento dei finanziamenti necessari. Secondo quanto previsto in una nota
del Ministero delle Partecipazioni Statali, la spesa prevista per l’attuazione del programma
elettronucleare enunciato da Donat-Cattin si aggirava sui quindici miliardi di dollari, inclusi i
costi dei combustibili necessari867. L’ENEL aveva già provveduto a firmare accordi preliminari
per l’acquisto di quattro impianti sia con un consorzio guidato dalla compagnia americana
General Electric che con la Westinghouse868.
La condizione italiana nel campo dell’energia necessitava però di interventi immediati
non più rimandabili nel tempo e, pertanto, le questioni finanziarie dovevano necessariamente
essere risolte a priori e non potevano incidere sull’ampiezza dell’intervento governativo da
realizzare. Nel frattempo la situazione internazionale aveva subito dei mutamenti importanti: il
problema degli approvvigionamenti era divenuto, terminata la fase di crisi acuta, meno grave
mentre rimaneva gravoso il livello dei costi petroliferi, nonostante la sovrabbondanza dell’offerta
dei prodotti derivati del greggio. L’urgenza di perseguire una politica di differenziazione dei
rifornimenti al fine di raggiungere una maggiore sicurezza energetica rimaneva dunque evidente,
ma il problema più grave, specie per l’Italia, era rappresentato dalla necessità di superare il grave
squilibrio esistente nell’offerta di energia che per oltre il settanta percento riguardava i prodotti
petroliferi. Per ovviare gradatamente a questa situazione, il piano di Donat-Cattin prevedeva, nel
breve periodo, di ottimizzare la politica degli acquisti, della raffinazione e della distribuzione dei
prodotti petroliferi, nonché di aumentare al massimo l’uso di fonti energetiche alternative quali il
metano e il carbone; nel medio-lungo periodo, di sollecitare fin da subito una ripresa nelle
ricerche di energia geotermica e, soprattutto, di varare un programma elettronucleare di notevoli
dimensioni. Secondo l’esponente della sinistra democristiana, nonostante i costi e le incertezze
tecniche, il piano rimaneva indispensabile nell’ottica di sottrarre la penisola da possibili ulteriori
minacce esterne:
“Questa manovra [era] costosa e presenta[va] ancora oggi margini non trascurabili di
incertezza anche sul piano strettamente tecnico, soprattutto per quanto concerne[va] la
diversificazione prevista in direzione elettro-nucleare. Tuttavia la manovra [era] necessaria e
[veniva] proposta proprio perché, in sua assenza, il Paese si [sarebbe trovato] a dipendere in via
perenne ed in misura sempre maggiore da possibili ricatti esterni. Tali ricatti [erano] provenuti di
867
Di questa somma, circa sette-otto miliardi sarebbero dovuti provenire da crediti internazionali, mentre la parte restante sarebbe
stata assicurata da finanziamenti nazionali.
868
Cfr. Appunto interno del Gabinetto del Ministero delle Partecipazioni Statali sul finanziamento del programma elettronucleare
italiano (non firmato), Roma, 30 maggio 1975, ACS, Fondo Ministero Partecipazioni Statali, DGAE, Serie Energetiche, Busta 6.
252
recente dai Paesi del Golfo Persico; domani [sarebbero potuti] provenire da altre più insospettabili
869
parti geografiche”
.
Il piano energetico così presentato assegnava un ruolo fondamentale e diretto alle due
aziende pubbliche del settore (ENEL e ENI) che, per far fronte agli eccezionali compiti a cui
erano chiamate, avrebbero dovuto disporre in primo luogo di una solida capacità manageriale.
All’ENEL veniva richiesto ufficialmente di avviare, dopo una lunga pausa negli investimenti
nucleari, un programma indubbiamente impegnativo la cui attuazione, per ammissione dello
stesso Donat-Cattin, non era facile da garantire entro i termini previsti: la realizzazione di ben
venti nuovi impianti nucleari entro il 1985870. All’ENI, invece, per quanto concerneva
l’approvvigionamento petrolifero venivano ribaditi i compiti già delineati dal precedente piano
petrolifero, mentre nuove responsabilità si profilarono nell’ambito della ricerca geotermica, così
come fortemente desiderato dal presidente Girotti, e in quello dell’intero ciclo del combustibile
nucleare871. Si precisarono inoltre i compiti peculiari degli altri operatori energetici che agivano
accanto all’ENEL e all’ENI: IRI, CNEN, Industria della Raffinazione Petrolifera, Industria
termoelettromeccanica. A quest’ultima, ad esempio, si garantiva una committenza molto più
certa e definita rispetto al passato, prevedendo un supporto del CNEN per le azioni di ricerca e di
sviluppo essenziali in materia elettronucleare. Anche per il Comitato Nazionale per l’Energia
Nucleare si delinearono innovazioni, pure di carattere istituzionale, tali da poter operare con più
snellezza e autonomia, a fronte però di un richiamo a un maggiore rispetto delle scadenze
operative prefissate e degli accordi che intercorrevano a livello internazionale872.
Queste precisazioni sui ruoli specifici degli operatori energetici nazionali partivano dal
presupposto per cui solo una forte ripresa delle capacità imprenditoriali, sia pubbliche che
869
Ente Nazionale Energia Elettrica, Programma Energetico Nazionale, testo provvisorio presentato al CIPE in data 29 luglio 1975,
Roma, ASENEL, Segreteria del Consiglio, Piani energetici, 12.1.
870
Tuttavia, all’ente elettrico era garantita, per la prima volta in assoluto dalla nazionalizzazione, una cornice finanziaria ritenuta
idonea per il completamento del progetto.
871
Il ciclo del combustibile consiste nelle varie tappe di approvvigionamento e di smaltimento del combustibile utilizzato per
produrre energia nucleare che formano una successione di tre stadi fondamentali: il trattamento di preparazione del combustibile di
un reattore, lo stadio di sfruttamento (o bruciamento) e il successivo immagazzinamento o riciclaggio del combustibile usato. Tenuto
conto del fatto che l’ENEL costituiva l’acquirente unico sul mercato nazionale del prodotto finale del ciclo del combustibile nucleare,
il PEN individuava possibili soluzioni per una collaborazione diretta tra ENI e l’ente elettrico: si sarebbe potuta costituire sia una
società paritetica tra i due soggetti statali, a cui affidare il compito dell’approvvigionamento di uranio naturale, sia una o più società
miste ENI-ENEL-CNEN, a maggioranza ENI, cui demandare la gestione di tutte le altre fasi del ciclo del combustibile (ad eccezione
dello stoccaggio dei rifiuti radioattivi) e, in particolare, la fornitura diretta all’ENEL degli elementi di combustibile. L’ente elettrico
si poteva tuttavia riservare il diritto di ricorrere direttamente al mercato qualora fossero emerse condizioni per le quali venisse posta
in dubbio l’economicità della fornitura degli elementi di combustibile da parte della suddetta società mista (cfr. Ente Nazionale
Energia Elettrica, Programma Energetico Nazionale, testo provvisorio presentato al CIPE in data 29 luglio 1975, Roma, ASENEL,
Segreteria del Consiglio, Piani energetici, 12.1).
872
Gli interventi previsti dal programma per il Comitato Nazionale per l’Energia Nuclerare si riproponevano di: “a) semplificare le
procedure di vigilanza e di controllo sul CNEN e garantire una maggiore continuità e certezza negli stanziamenti finanziari per il
CNEN; b) dotare il CNEN di una maggiore snellezza decisionale interna anche attraverso maggiori deleghe di funzioni esecutive ai
responsabili delle singole attività; c) permettere al CNEN rapporti con le industrie nazionali tali da rendere possibile un effettivo
travaso alle industrie stesse dei risultati positivi delle azioni di ricerca e sviluppo intraprese dal CNEN” (ibidem).
253
private, avrebbe potuto garantire il buon esito del Piano Energetico Nazionale. Parimenti, solo
comportamenti coerenti in campo economico, soprattutto per quanto concerneva la certezza dei
finanziamenti, e in politica estera, con riferimento alla differenziazione anche geografica degli
approvvigionamenti, avrebbero potuto favorire il raggiungimento degli scopi previsti. Per
rendere il programma più operativo attraverso nuovi strumenti amministrativi, Donat-Cattin
riteneva inoltre necessario “adeguare l’assetto istituzionale delle attuali competenze in materia
energetica alle emergenti esigenze di coordinamento delle diverse fonti di energia”; un percorso
che implicava la creazione di un nuovo ente, l’Alto Commissariato per l’Energia, cui sarebbero
spettate una serie di competenze:
“Il problema [poteva] trovare soluzione con la istituzione di un nuovo organismo di indirizzo
politico-amministrativo, l’Alto Commissariato per l’Energia, con attribuzioni e compiti sui vari
settori energetici […]. La funzione dell’Alto Commissariato [doveva] essere svolta in modo tale
da assicurare la realizzazione del disegno unitario in vista di risultati di interesse generale previsti
dal programma. […] Le attribuzioni da conferire all’Alto Commissario [riguardavano] in primo
luogo il compito di proporre al Governo e al CIPE l’indirizzo della politica energetica e la
formulazione del coordinamento delle politiche energetiche del Paese. In particolare [sarebbe
spettato] all’Alto Commissario: a) esercitare le attribuzioni e i compiti attualmente spettanti al
Ministero dell’Industria, al Ministero delle Partecipazioni Statali ed al Ministero per il
Commercio con l’Estero in materia di fonti di energia, comprese la ricerca e l’attività mineraria;
b) sovraintendere alla esecuzione coordinata da parte dell’ENEL, del CNEN e dell’ENI, nonché
degli altri operatori pubblici e privati, dei programmi annuali e pluriennali deliberati dal CIPE per
il soddisfacimento dei fabbisogni energetici; c) provvedere, d’intesa con la competente Direzione
generale del Ministero degli Affari Esteri, al coordinamento dei rapporti con i paesi terzi degli
enti predetti e degli altri operatori tecnici e privati ai fini dell’approvvigionamento dei prodotti
energetici; d) partecipare alla elaborazione degli indirizzi e delle misure della Comunità
Economica Europea in materia energetica; e) provvedere alla istruttoria per la determinazione dei
prezzi dei prodotti energetici e fornire i relativi elementi al Comitato Interministeriale Prezzi”873.
Il nuovo ente avrebbe dunque dovuto svolgere una funzione unificatrice fra i vari soggetti
pubblici e privati operanti nel campo energetico e, di fatto, dare vita a una politica nazionale nel
settore, controllando lo stato di attuazione del PEN. Particolarmente interessante risulta il legame
previsto con la direzione generale del MAE per il coordinamento dei rapporti con le nazioni terze
in merito all’approvvigionamento dei prodotti energetici. Per quanto concerneva il petrolio, il
873
Ibidem.
254
piano di Donat-Cattin874 sottolineava infatti l’importanza di avviare una politica di
approvvigionamento più consona alle esigenze della bilancia dei pagamenti nazionale e collegata
allo sviluppo economico in corso nei paesi produttori. In particolare, gli investimenti in queste
nazioni potevano essere favoriti e sollecitati da un’attiva collaborazione dell’industria italiana
volta a creare correnti di esportazione di beni capitali e di consumo. La realizzabilità degli
accordi sembrava inoltre godere di una serie di condizioni favorevoli: una crescente domanda di
beni e di servizi da parte dei paesi produttori unita alla disponibilità di notevoli risorse
finanziarie; la presenza in Italia di ampie capacità produttive industriali per quanto riguardava i
beni capitali e di consumo, nonché i servizi di progettazione e di esecuzione di grandi
infrastrutture; l’esistenza di buoni rapporti a livello governativo. Riprendendo un indirizzo
politico-finanziario ampiamente ipotizzato durante i mesi difficili dello shock e già avviato in
alcuni aspetti, l’Italia avrebbe quindi dovuto partecipare direttamente allo sviluppo economico
dei produttori collegando i flussi di approvvigionamento petrolifero agli investimenti.
In questo quadro, lo sviluppo di una politica estera coerente assumeva un ruolo
fondamentale, specie in virtù dei basilari rifornimenti di combustibile atomico senza i quali
l’intera pianificazione elettronucleare del PEN non avrebbe avuto motivo di esistere. In questo
scenario rientravano la partecipazione italiana al progetto dell’EURODIF e alle altre iniziative
multilaterali attivate nel corso degli ultimi anni, nonché i contratti di acquisto di uranio naturale
posti in essere esclusivamente dall’ENI. Tutto ciò imponeva il raggiungimento di nuove intese
commerciali con i paesi produttori di combustibile nucleare e l’avvio di nuove tipologie di
collaborazione in chiave europea che contemplavano la realizzazione di impianti di
arricchimento dell’uranio con il metodo della diffusione gassosa (come l’EURODIF e il
COREDIF) o con il metodo dell’ultracentrifugazione (come l’URENCO-CENTEC).
Nella suo complesso, il Piano Energetico Nazionale presentato da Donat-Cattin appariva
perfino pretenzioso ma rispondeva in dettaglio a tutte le esigenze specifiche di un paese privo di
fonti interne di energia e che solo dopo lo shock petrolifero aveva maturato la scelta di una
valida programmazione energetica. Diverse questioni restavano tuttavia da valutare nel dettaglio,
come nel caso degli ingenti finanziamenti economici occorrenti e delle difficoltà, già emerse in
passato, di ottenere le autorizzazioni regionali e locali per la costruzione di nuovi impianti
874
Durante la fase di predisposizione del PEN si analizzò dettagliatamente sia la situazione dei principali Stati esportatori di petrolio
verso l’Italia che quella relativa ai risultati delle prospezioni petrolifere svolte dall’ENI. Nell’ambito del Medio Oriente i paesi che
avevano maggiormente esportato greggio verso la penisola erano stati: l’Arabia Saudita per il trentaquattro percento sul totale delle
importazioni italiane, l’Iran con circa il dodici percento, l’Iraq con l’undici percento e il Kuwait con il cinque percento; l’altra
sorgente significativa per l’Italia era stata la Libia con circa il venti percento. Per quanto concerneva invece i risultati dell’operato
svolto dell’ente petrolifero, si erano rinvenuti, come già analizzato, dei giacimenti nella Valle Padana, nell’off-shore dell’Adriatico e
nel sud della penisola (compresa la Sicilia); all’estero, viceversa, l’attività di ricerca e di sfruttamento dell’ENI si svolgeva in ventitre
paesi di vari continenti. Tra i ritrovamenti effettuati, vi erano quelli significativi di gas naturale in Gran Bretagna, Norvegia e Egitto
che erano stati già avviati per il consumo locale, mentre per altri (Iran, Labrador e Qatar) erano in corso accertamenti e studi di
fattibilità.
255
elettronucleari875. Un altro aspetto che lasciava a desiderare era rappresentato dal ruolo eccessivo
assegnato agli enti pubblici nazionali che operavano nel settore energetico. Per quanto
concerneva il mercato elettrico, la situazione di monopolio di cui già godeva l’ENEL non
implicava particolari cambiamenti, mentre, nel settore nucleare, le competenze rispetto al CNEN
e all’ENI erano state già ben definite in precedenza. Nel campo petrolifero, invece, l’ENI
operava in concorrenza diretta con le altre compagnie del settore, soprattutto straniere, che
rappresentavano oltre il sessanta percento del mercato nazionale. Già con il precedente piano
petrolifero, si era stabilito che l’ente petrolifero statale svolgesse un ruolo di primo piano
nell’approvvigionamento di greggio e che rafforzasse l’impegno nell’acquisizione di fonti
autonome. Il PEN considerava opportune queste scelte, ampliando ulteriormente le
responsabilità dell’ENI al punto da suscitare la veemente protesta delle aziende private. Il
presidente dell’Unione Petrolifera, Giovanni Theodoli, decise di inviare una lettera al
vicepresidente del Consiglio, Ugo La Malfa, in cui criticava aspramente molti aspetti del
progetto giudicati penalizzanti per gli operatori privati:
“[…] il carattere vincolante e limitativo che caratterizza[va] molte delle proposte riportate
nel documento ministeriale […] [lasciava] trasparire un indirizzo volto a porre restrizioni e
difficoltà alle attività aziendali. Restrizioni e difficoltà queste che non […] [apparivano]
giustificate dall’attuale situazione energetica nazionale ed internazionale né credo [rientravano] in
un organico disegno di programmazione che, per essere flessibile e democratico, non [poteva]
prescindere dal considerare le strutture e le esigenze operative delle imprese petrolifere private
presenti nel nostro Paese. Ove il suddetto indirizzo dovesse trovare completa applicazione,
sicuramente [sarebbero venute] meno quelle condizioni di flessibilità che specie per un settore
tipicamente internazionale e legato a regole di mercato come quello petrolifero, [erano]
indispensabili perché [potesse] validamente continuare a operare e ad investire un’industria
petrolifera privata”876.
875
Secondo una serie di indagini preliminari effettuate dall’ENEL e riportate all’interno del PEN, oltre ai siti già prescelti per
l’ubicazione delle quattro unità ordinate nell’Alto Lazio e Molise, esistevano altre aree geografiche che per la loro posizione e in base
alle caratteristiche tecniche analizzate risultavano adatte a ospitare l’installazione di nuove centrali nucleari. Esse erano: l’arco alpino
lombardo, il Piemonte orientale, la costa ionica (Basilicata), la Lombardia orientale, la costa dell’Alto Tirreno (Toscana centrale), la
costa del Basso Tirreno (Campania), la costa marchigiana meridionale o Abruzzo, l’arco alpino piemontese, la costa dell’Alto
Adriatico (Romagna settentrionale), la costa del Medio Tirreno (Lazio meridionale), la costa della Venezia Giulia e la costa
meridionale della Puglia (ionica o adriatica). Ovviamente, mettendo da parte il problema delle concessioni, questi siti non erano
sufficienti a ottemperare al fabbisogno energetico previsto da Donat-Cattin (cfr. Ente Nazionale Energia Elettrica, Programma
Energetico Nazionale, testo provvisorio presentato al CIPE in data 29 luglio 1975, Roma, ASENEL, Segreteria del Consiglio, Piani
energetici, 12.1).
876
Lettera di Giovanni Theodoli, presidente dell’Unione Petrolifera, a Ugo La Malfa, vicepresidente del Consiglio dei ministri,
Roma, 1 settembre 1975, ACS, Carte Ugo La Malfa, Serie 3, Cariche di Governo, Sottoserie 6, Vicepresidente del Consiglio (IV°
Governo Moro), Busta 39.
256
Le dure parole di Theodoli rispecchiavano fedelmente i malumori delle imprese private
che, dopo la morte di Mattei, si erano di fatto spartite il mercato petrolifero nazionale riservando
all’ENI un ruolo secondario, dopo lo sbandamento seguito alla scomparsa del fondatore. Con
ogni probabilità, queste pressioni da parte del mondo privato finirono per divenire un forte limite
per l’attuazione del PEN, mentre una maggiore centralizzazione del settore petrolifero avrebbe
favorito gli obiettivi del governo in questo campo.
Al contrario di quanto accadeva in Italia, il piano di Donat-Cattin ricevette maggiori
consensi in sede internazionale come testimoniavano i giudizi del gruppo ad hoc sullo sviluppo
accelerato di fonti alternative dell’International Energy Agency877, riunitosi a Parigi dal 22 al 26
settembre. In base alla regolamentazione interna di questo gruppo, la situazione italiana venne
analizzata da un club ristretto composto dai delegati della Gran Bretagna, della Svizzera e della
Spagna i quali, prendendo in esame la condizione del settore energetico dell’Italia e gli obiettivi
dell’IEA, espressero apprezzamento per la politica settoriale perseguita dal governo, soprattutto
nel campo nucleare e in quello dello sviluppo delle risorse di idrocarburi. Il nuovo indirizzo
programmatico intrapreso era ritenuto una valida risposta ai problemi posti dalla recente
evoluzione del mercato energetico internazionale, a patto che si attuassero immediatamente una
serie di azioni coerenti con gli orientamenti preannunciati878. Purtroppo, però, appariva sempre
più evidente l’eccessiva dipendenza nel settore energetico dalle importazioni dall’estero e,
soprattutto, da quelle petrolifere provenienti dal Medio Oriente879. Nonostante la situazione
italiana apparisse più difficile rispetto a altri paesi, il rapporto conclusivo sulle politiche
energetiche dei paesi membri dell’International Energy Agency, redatto sempre dal gruppo ad
hoc, ipotizzava una lieve diminuzione della dipendenza dall’estero nell’arco di un decennio880.
Nel dicembre '75 il CIPE881 approvò in via definitiva il PEN che venne presentato
ufficialmente con una conferenza nazionale a Perugia882. Malgrado la vastità degli interessi e
degli investimenti in gioco, la convergenza sul potenziamento del settore nucleare favorì
un’importante intesa bipartisan che consentì al progetto di Donat-Cattin di superare lo scoglio
877
Tra i compiti riservati al gruppo ad hoc dell’IEA rientrava infatti l’analisi approfondita delle politiche energetiche di tutti i paesi
membri.
878
Cfr. Ad hoc Group on accelerated development of alternative energy sources, International Energy Agency, Meeting 22-26
September, Country report: Italy (allegato di un appunto di Vittorio D’Ermo, dirigente dell’area studi e strategie dell’ENI), Parigi, 25
settembre 1975, ASE, coll. AS. I. 4, udc. 34.
879
Questa situazione, secondo il parere del gruppo ad hoc dell’IEA, non sarebbe invariata nel breve-medio periodo e pertanto il
governo italiano doveva attivarsi per mantenere buoni i rapporti di cooperazione con gli Stati dell’area mediorientale. Ciò
nondimeno, anche per gli altri paesi membri la strategia da seguire in relazione alle importazioni energetiche era simile.
880
Cfr. Ad hoc Group on accelerated development of alternative energy sources, International Energy Agency, Parigi, 13-14
novembre 1975, ASE, coll. AS. I. 4, udc. 34.
881
Cfr. Delibera del CIPE n. 229 del 23 dicembre 1975 (il testo integrale della delibera è consultabile sul sito internet
http://www.cipecomitato.it).
882
Cfr. Regione dell’Umbria (Giunta regionale), Conferenza nazionale sul Piano Energetico, Perugia, 6-7 dicembre 1975, ACS,
Fondo Ministero Partecipazioni Statali, DGAE, Serie Energetiche, Busta 14.
257
parlamentare senza sostanziali modifiche883. Tuttavia, le difficoltà sarebbero affiorate con
l’attuazione del piano stesso, specie in merito al programma nucleare.
7. L’Italia da Rambouillet alla CIEC
In vista della conferenza di Rambouillet si svolsero due riunioni preliminari, tra ottobre e
novembre, durante le quali un gruppo di esperti elaborò uno schema degli argomenti che
sarebbero stati discussi durante il vertice. Oltre alle prospettive economiche relative a ciascun
paese, ai problemi finanziari internazionali, alle relazioni con le nazioni emergenti e ai rapporti
Est-Ovest, si prevedeva anche la trattazione dei temi riguardanti l’energia e le materie prime. Il
dibattito sui problemi energetici, in particolare, doveva svolgersi in prospettiva della successiva
conferenza di Parigi sulla cooperazione economica internazionale prevista in dicembre. Tuttavia,
alla vigilia di Rambouillet le questioni energetiche assunsero delle connotazioni decisamente
diverse rispetto ai mesi precedenti. Una contingenza colta con chiarezza in un appunto della
segreteria generale del MAE, preparato in vista dell’imminente riunione di Rambouillet, in cui si
sottolineava come ogni preoccupazione energetica fosse ormai ampiamente superata:
“L’impressione tratta [dagli] […] ultimi sviluppi [era] che si [stesse] ormai perdendo il senso
della necessità e dell’urgenza di adottare politiche suscettibili di affrancare l’Occidente da una
situazione che [avrebbe consentito] tuttora all’OPEC di imporre unilateralmente le proprie
condizioni in materia di quantità e prezzi delle forniture di idrocarburi. Sintomatica di tale
atmosfera di acquiescenza [era] stata la reazione di sollievo, invece che di protesta, con cui
l’Occidente [aveva] accolto l’ultima decisione OPEC di aumentare i suoi prezzi «soltanto del
10%». […] lo spirito di solidarietà tra i Paesi industrializzati sembra[va] ormai insufficiente a far
materializzare i vasti programmi di sviluppo di fonti non OPEC di idrocarburi o delle fonti
alternative necessarie per l’attuazione di una politica intesa a sottrarre le economie occidentali
alla loro condizione di subordinazione nei confronti dell’OPEC”884.
Le diminuite preoccupazioni del mondo occidentale di fronte al problema degli
approvvigionamenti energetici erano ascrivibili al sovrapporsi di una serie di cause: prima fra
tutte, la constatazione che, seppur con differenze sostanziali fra loro, i paesi industrializzati erano
883
Per approfondimenti si veda Verbale della 58ª riunione del Consiglio di amministrazione del CNEN, Roma, 25 febbraio 1976, pp.
6-17, ASENEA.
884
Riunione dei Capi di Stato o di Governo a Rambouillet, Appunto interno del MAE, Segreteria Generale, Roma, 12 novembre
1975, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 4, Presidenza del Consiglio dei ministri, Sottoserie Questioni diverse, Ufficio del Consigliere
diplomatico, Busta 87.
258
riusciti a riassorbire senza eccessivi contraccolpi il quintuplicarsi del prezzo del petrolio. Ciò era
stato possibile essenzialmente grazie a un collegamento finanziario diretto, creato da ciascuna
nazione del mondo occidentale con i paesi produttori, che in pratica aveva finito per unire
saldamente gli interessi delle due parti in causa attraverso la formula “petrolio in cambio di
investimenti”. In questo modo, le esportazioni dei prodotti dei paesi industriali finirono per
confluire in maniera massiccia verso i paesi del Medio Oriente, favorendo un rapido trend
positivo delle bilance dei pagamenti occidentali885. Anche la spirale inflazionistica dei mesi dello
shock petrolifero si era praticamente bloccata e si poteva ragionevolmente ritenere che proprio
l’accumularsi delle enormi ricchezze negli Stati produttori avesse finito per risolversi in un
volano per l’industria occidentale, sollecitata dall’incremento delle commesse provenienti
dall’area OPEC. Vi erano state inoltre nuove scoperte di giacimenti petroliferi nel Mare del
Nord, nell’Artico nordamericano e nell’off-shore africano e asiatico; in prospettiva, grazie alla
diversificazione dell’approvvigionamento di greggio e alle divergenze di posizioni già
delineatesi, si riteneva dunque molto probabile un prossimo indebolimento del ruolo dell’OPEC
nel mercato petrolifero internazionale. Alcuni paesi mediorientali, oltretutto, avevano investito
ingenti somme di petroldollari in ambiziosi programmi di riarmo e di sviluppo interno che nel
giro di qualche mese avrebbero prodotto ripercussioni negative in campo valutario. Anche
l’andamento positivo dei negoziati per la pacificazione dell’area mediorientale stava infine
incidendo nella determinazione di un clima più disteso sui temi energetici all’interno del mondo
occidentale. Nell’appunto del novembre '75 della segreteria generale del MAE, si rilevava
tuttavia come, nonostante tutto, fosse ancora fortemente necessaria una collaborazione
internazionale nel settore petrolifero. A giustificazione di ciò, si osservava che la domanda
globale di energia avrebbe continuato a aumentare, grazie anche agli scarsi risultati ottenuti dalle
misure messe in atto per scoraggiare l’uso dei prodotti petroliferi e in virtù della ripresa
economica dei paesi occidentali, a fronte di un’offerta energetica che nel breve periodo non
avrebbe registrato sostanziali modifiche, in considerazione dei tempi necessari per l’esplorazione
e lo sfruttamento effettivo dei nuovi giacimenti scoperti nonché per l’attuazione dei programmi
elettronucleari avviati. Di conseguenza, l’OPEC, se non in caso di insanabili contrasti politici
interni, avrebbe rappresentato ancora per diverso tempo un fattore determinante sul mercato
petrolifero internazionale, specie considerando che alcuni paesi membri (Arabia Saudita, Emirati
Arabi Uniti, Qatar, Kuwait e in parte la Libia) erano in condizione di ridurre drasticamente la
produzione di greggio senza subirne i contraccolpi, assicurando così all’organizzazione un
885
Cfr. S. Labbate, Il ruolo dei petroldollari nelle relazioni Nord-Sud, in D. Caviglia, A. Varsori (a cura di), Dollari, Petrolio e aiuti
allo sviluppo. Il confronto Nord-Sud negli anni '60-70, cit., pp. 143-169.
259
notevole potere negoziale nei confronti dei paesi industrializzati886. D’altra parte, bisognava
anche tenere presente che, malgrado nel suo complesso il mondo occidentale apparisse in fase di
ripresa, al suo interno vi erano nazioni che continuavano a soffrire gli effetti della crisi. Era
questo, ovviamente, il caso dell’Italia la cui economia era strettamente condizionata dalla
disponibilità di prodotti energetici e di materie prime d’importazione, senza considerare la grave
situazione dei paesi in via di sviluppo non produttori. Sulla base dello scenario che si era venuto
a delineare, dunque, il vertice economico di Rambouillet avrebbe dovuto compiere un serio
intervento anche sul mercato delle fonti di energia al fine di renderne più ordinato lo sviluppo.
L’atteggiamento dell’Italia avrebbe quindi dovuto orientarsi in questa direzione. A tale
riguardo, l’appunto del MAE sottolineava come “almeno per 10-15 anni lo sviluppo industriale
dell’Italia [sarebbe stato] condizionato dalla regolarità e dai prezzi delle importazioni
energetiche”; anche il progresso degli impianti elettronucleari, previsto dal Piano Energetico
Nazionale, non avrebbe modificato la situazione “perché [esso] – anche se attuato nei termini
indicati – probabilmente [avrebbe ecceduto] di poco il prevedibile accrescimento della domanda
[interna di energia]”. In quest’ottica, le priorità individuate dal MAE in vista del vertice
comprendevano la:
“a) sicurezza degli approvvigionamenti di energia (petrolio, gas naturale, uranio e relativi
servizi di arricchimento); b) [la] stabilizzazione, se non riduzione, nonché «trasparenza» dei
relativi prezzi; c) [l’]accesso alle fonti di energia controllate direttamente o indirettamente dei
principali Paesi occidentali, anche al di fuori degli accordi intesi a far fronte a situazioni di
emergenza; d) [l’]accesso ad adeguate risorse finanziarie: - per far fronte agli squilibri della
bilancia dei pagamenti connessi con le importazioni energetiche; - per finanziare lo sviluppo di
fonti alternative di energia (sostanzialmente nel settore elettro-nucleare in misura minore in quelli
geotermico e solare); e) [l’]inserimento di importanti operazioni bilaterali o multilaterali per
forniture industriali ai Paesi produttori ed ai Paesi in via di sviluppo, così che l’economia italiana
[potesse trarre] beneficio anche dal riciclaggio dei petroldollari operato dai Paesi che [avevano]
maggiore potere negoziale nei confronti dell’OPEC; f) [l’]attenuazione delle conseguenze, anche
finanziarie, della dipendenza dal petrolio OPEC che [poteva] indirettamente conseguirsi da
eventuali importanti programmi per lo sviluppo di fonti alternative attuate nei Paesi occidentali
che [disponevano] di tali fonti”887.
886
Cfr. Riunione dei Capi di Stato o di Governo a Rambouillet, Appunto interno del MAE, Segreteria Generale, Roma, 12 novembre
1975, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 4, Presidenza del Consiglio dei ministri, Sottoserie Questioni diverse, Ufficio del Consigliere
diplomatico, Busta 87.
887
Ibidem.
260
Così posti, gli obiettivi da conseguire mediante la collaborazione internazionale e il
vertice di Rambouillet apparivano a dir poco pretenziosi. In primo luogo, l’Italia era priva della
necessaria forza negoziale, visto che inizialmente non era neanche prevista la sua partecipazione;
secondariamente, era difficile immaginare che dall’incontro sarebbero scaturite soluzioni
quantomeno simili a quelle desiderate dal governo italiano nel settore energetico. D’altronde, gli
Stati Uniti, la Francia, la Repubblica Federale Tedesca e la Gran Bretagna non avevano
manifestato alcun interesse in tal senso. La forte solidarietà fra i paesi industrializzati che aveva
caratterizzato i mesi della crisi petrolifera, mai peraltro tradottasi in una linea politica condivisa,
aveva gradatamente lasciato il passo a strategie d’azione unilaterali. Ciò si riflesse
inevitabilmente sul vertice di Rambouillet888 dove le questioni energetiche finirono per essere
trattate solo marginalmente, attraverso la generica riaffermazione della volontà comune di
cooperare sia per assicurare a tutti i paesi industrializzati le fonti di energia necessarie per la
crescita economica, sia per ridurre la dipendenza dalle importazioni dall’estero tramite la
conservazione e lo sviluppo di energie alternative, sia, infine, mediante la collaborazione
internazionale tra produttori e consumatori889. Oltretutto la riunione mantenne il carattere di
scambio di opinioni così come era stato previsto e ogni decisione venne di fatto rinviata alla
Conferenza sulla Cooperazione Economica Internazionale fissata a Parigi per la fine
dell’anno890.
All’appuntamento891 la Comunità europea fu chiamata a svolgere un ruolo di primo
piano, al pari di Giappone e Stati Uniti, nell’ambito di un’evoluzione delle relazioni economiche
internazionali che aveva dimostrato chiaramente l’interconnessione crescente fra i paesi
industrializzati e quelli in via di sviluppo. Da ciò derivava l’interesse comune da parte dei PVS
888
Per un approfondimento sul vertice di Rambouillet si vedano D. Caviglia, La conferenza di Rambouillet tra rilancio
dell’economia internazionale e dialogo Nord-Sud, in D. Caviglia, A. Varsori (a cura di), Dollari, Petrolio e aiuti allo sviluppo. Il
confronto Nord-Sud negli anni '60-70, cit., pp. 187-210; H. James, Rambouillet, 15 novembre 1975. La globalizzazione
dell’economia, Bologna, 1999.
889
Cfr. Punto 13 della dichiarazione finale del vertice di Rambouillet [per consultarne il testo integrale si veda, ad esempio,
Declaration of Rambouillet, Parigi, 17 novembre 1975, GFL, Council of Economic Affairs, Alan Greenspan Files]. Da questo
incontro sarebbe nato l’esclusivo club delle grandi potenze, all’inizio denominato “G6” (dal numero dei paesi partecipanti), poi “G7”
con l’ammissione del Canada, e infine “G8” con la Russia. Per uno studio sulla partecipazione diretta della Comunità europea alle
riunioni ristrette delle maggiori nazioni industrializzate, caratterizzata fin dall’inizio dall’opposizione britannica e dal veto francese e
avvenuta effettivamente per la prima volta al vertice di Londra del '77, si veda G. Garavini, The Battle for the Participation of the
European Community in the G7 (1975-1977), in «Journal of European Integration History», vol. 12, n. 1, 2006, pp. 141-158.
890
Ibidem. Per consultare il testo delle conversazioni si veda Memorandum of Conversation for the White House, Rambouillet
Economic Summit, Parigi, 15-17 novembre 1975, NARA, General Records of the Department of State, Record Group 59, Records of
the Office of the Counselor, 1955-1974. Molto interessanti, in proposito, le parole del primo ministro giapponese, Takeo Miki, il
quale, riconoscendo l’importanza assoluta in campo energetico dei risultati derivanti dalla fusione nucleare, che avrebbe potuto
rappresentare l’unica valida alternativa all’utilizzo del petrolio, propose una cooperazione internazionale nella ricerca e nello
sviluppo di questo settore scientifico. L’unica risposta positiva pervenne dal ministro Moro, mentre per Wilson il nucleare costava
troppo e presentava questioni di difficile soluzione, fra cui quella dello smaltimento delle scorie radioattive.
891
La CIEC iniziò i lavori il 16 dicembre protraendosi fino al 19 con la partecipazione dei rappresentanti di ventisette paesi e con la
presenza del segretario generale delle Nazioni Unite: Algeria, Arabia Saudita, Argentina, Australia, Brasile, Camerun, Canada, CEE,
Spagna, Stati Uniti, India, Indonesia, Iran, Iraq, Giamaica, Giappone, Messico, Nigeria, Pakistan, Perù, Egitto, Svezia, Svizzera,
Venezuela, Jugoslavia, Zaire e Zambia.
261
produttori e non di petrolio all’espansione e alla prosperità dell’economia mondiale892. Sulla base
di queste considerazioni, in una nota preparata dal Consiglio il 21 novembre si delineava la
posizione generale che la Comunità avrebbe dovuto tenere durante la Conferenza sulla
Cooperazione Economica Internazionale:
“[Essa era] disposta ad iniziare la discussione in tutti i settori che [erano] oggetto del dialogo
e a trattare i vari argomenti su un piede di parità. Essa [era] disposta ad affrontare tale dialogo in
modo costruttivo all’insieme di tali lavori. [Era] infatti necessaria una discussione costruttiva dei
problemi, onde pervenire ad una migliore comprensione dei reciproci interessi e giungere ad una
effettiva collaborazione, solo fattore in grado di condurre a soluzioni globali di interesse
generale”893.
Dall’enfasi del documento si poteva cogliere l’importanza che i Nove riponevano
nell’evento e, in modo particolare, nella cooperazione con i PVS: un’impostazione che avrebbe
dovuto permettere la realizzazione di reali progressi sulla via di una più equilibrata struttura delle
relazioni economiche internazionali, tale da determinare un rafforzamento della posizione degli
stessi paesi in via di sviluppo894. Secondo quanto riportato nella nota del Consiglio, il dialogo in
campo energetico doveva mirare a: migliorare le relazioni fra produttori e consumatori,
includendo tra questi ultimi i PVS al fine di contribuire al buon funzionamento e alla prosperità
dell’economia mondiale; porre in evidenza il nesso fra l’economia mondiale e le prospettive di
sviluppo delle principali fonti di energia; puntare a un’impostazione comune delle previsioni
relative allo sviluppo nel breve, medio e lungo periodo dell’offerta e della domanda di energia;
facilitare l’approvvigionamento sufficiente e continuo dei paesi consumatori in condizioni di
stabilità e a prezzi equi sia per questi ultimi che per i produttori; esaminare le possibilità di
cooperazione industriale fra tutte le parti in causa in quei settori di comune interesse che
potevano includere gli ambiti scientifici e tecnologici per lo sviluppo, l’utilizzo razionale e la
ricerca di nuove fonti di energia; giungere, infine, a consultazioni regolari fra produttori e
892
Alla CIEC, inoltre, il Movimento dei non allineati, come già visto, puntava a riproporre il suo obiettivo principale: creare un
Nuovo ordine economico internazionale [per approfondimenti G. Garavini, La Comunità europea e il Nuovo ordine economico
internazionale (1974-1977), cit.; K. P. Sauvant, The Group of 77: evolution, structure, organization, cit.; J. Bhagwati, The New
International Economic Order: the North-South Debate, cit.].
893
Nota del Consiglio delle Comunità europee concernente la Conferenza sulla Cooperazione economica internazionale, Progetto di
posizione generale della Comunità, Bruxelles, 21 novembre 1975, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 4, Presidenza del Consiglio dei
ministri, Sottoserie Questioni diverse, Ufficio del Consigliere diplomatico, Busta 82.
894
Per approfondimenti sulle discussioni e sulle decisioni inerenti i paesi in via di sviluppo alla conferenza di Rambouillet si veda in
particolare D. Caviglia, La conferenza di Rambouillet tra rilancio dell’economia internazionale e dialogo Nord-Sud, in D. Caviglia,
A. Varsori (a cura di), Dollari, Petrolio e aiuti allo sviluppo. Il confronto Nord-Sud negli anni '60-70, cit., pp. 199-206.
262
consumatori895. In vista di questi obiettivi, appariva necessario instaurare un dialogo continuo tra
le parti allo scopo di favorire una reciproca comprensione e di contribuire alla risoluzione dei
problemi energetici mondiali. Nel determinare la posizione della CEE, i rappresentanti italiani e,
soprattutto, il capo del governo, Aldo Moro, nella sua veste di presidente di turno della Comunità
europea, svolsero un ruolo particolarmente attivo soprattutto nel convincere i partner europei, e
più di tutti Londra, sulla necessità di presentarsi uniti al vertice896. Secondo quanto riportato in
un appunto sulla posizione italiana alla CIEC redatto dall’Ufficio del Consigliere diplomatico del
presidente del Consiglio dei ministri: “Sul piano comunitario, la presidenza italiana [era] riuscita
a condurre a buon fine i lavori per la stesura del c.d. «mandato» comunitario”897.
Durante la conferenza emerse una completa identità di vedute sulla necessità di rafforzare
la cooperazione economica internazionale mediante il dialogo che, in effetti, ebbe inizio proprio
a partire da quella data898. I tempi sembravano dunque maturi per il raggiungimento di intese sui
temi economici e energetici, a condizione però che si continuasse a manifestare una elevata
disponibilità delle parti in causa a mettere in primo piano gli aspetti della cooperazione
internazionale. La CIEC ebbe in ogni caso il merito di rendere consapevoli tutti gli attori del
fatto che le soluzioni a problemi di carattere globale potevano essere trovate solo mediante un
connubio fra paesi industrializzati e PVS899. Il dialogo proseguì nei mesi successivi con le
riunioni dei co-presidenti della conferenza e delle quattro commissioni create durante la CIEC
895
Cfr. Nota del Consiglio delle Comunità europee concernente la Conferenza sulla Cooperazione economica internazionale,
Progetto di posizione generale della Comunità, Bruxelles, 21 novembre 1975, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 4, Presidenza del
Consiglio dei ministri, Sottoserie Questioni diverse, Ufficio del Consigliere diplomatico, Busta 82.
896
I presupposti per raggiungere un mandato unico comunitario erano infatti stati minati, come già accennato, dalla iniziale decisione
di Londra di non voler essere rappresentata dalla Comunità europea alla CIEC. L’azione mediatrice, giunta a un esito positivo per
merito soprattutto del lavoro diplomatico svolto dai rappresentanti italiani, era riuscita a appianare le divergenze di opinione tra i
Nove sui singoli dettagli, concentrando l’attenzione su quelle direttive generiche su cui la CEE avrebbe dovuto puntare durante la
conferenza [cfr. Conferenza sulla Cooperazione Economica Internazionale: posizione italiana, appunto redatto dall’Ufficio del
consigliere diplomatico del presidente del Consiglio dei ministri (non firmato e non datato, ma del novembre 1975), ACS, Carte Aldo
Moro, Serie 4, Presidenza del Consiglio dei ministri, Sottoserie Questioni diverse, Ufficio del Consigliere diplomatico, Busta 82]. Per
ulteriori approfondimenti si veda anche G. Garavini, L’arma del petrolio: lo “shock” petrolifero e il confronto Nord-Sud, cit., in D.
Caviglia, A. Varsori (a cura di), Dollari, Petrolio e aiuti allo sviluppo. Il confronto Nord-Sud negli anni '60-70, cit., p. 130. Le linee
guida dei Nove vennero ufficializzate e rese pubbliche durante la riunione del Consiglio europeo tenutosi a Roma l’1 e il 2 dicembre
'75 [cfr. Conferenza sulla Cooperazione Economica Internazionale: decisioni prese dal Consiglio CEE, appunto del Ministero degli
Affari Esteri (non firmato), Roma, 1-2 dicembre 1975, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 4, Presidenza del Consiglio dei ministri,
Sottoserie Questioni diverse, Ufficio del Consigliere diplomatico, Busta 82].
897
Conferenza sulla Cooperazione Economica Internazionale: posizione italiana, appunto redatto dall’Ufficio del consigliere
diplomatico del presidente del Consiglio dei ministri (non firmato e non datato, ma del novembre 1975), ibidem.
898
Cfr. Relazione sull’attività delle Comunità europee per l’anno 1975, presentata al ministro per gli Affari Esteri, Rumor, Camera
dei Deputati, VI Legislatura, 30 dicembre 1975, HAEU, Fondo Edoardo Martino, nn. 27-28. D’altronde, alcuni paesi in via di
sviluppo (quali ad esempio l’Egitto, il Messico, il Brasile e la Corea del Sud) rivestivano un ruolo importante anche per gli Stati Uniti
nel quadro delle dinamiche della guerra fredda (per uno studio sul ruolo dei paesi del Terzo mondo nelle relazioni internazionali si
veda O. A. Westad, The Global Cold War. Third World Interventions and the Making of Our Times, New York, 2005)
899
Per consultare il testo del comunicato finale della Conferenza sulla Cooperazione Economica Internazionale e della dichiarazione
finale della riunione preparatoria (Parigi, 16 ottobre 1975) si veda Relazione sull’attività delle Comunità europee per l’anno 1975,
presentata al ministro per gli Affari Esteri, Rumor, Camera dei Deputati, VI Legislatura, 30 dicembre 1975, HAEU, Fondo Edoardo
Martino, nn. 27-28.
263
(energia, materie prime, sviluppo e affari finanziari900). Tuttavia, durante i mesi successivi i
lavori segnarono il passo fino a determinare l’abbandono dei propositi iniziali e il fallimento del
stesso “dialogo Nord-Sud”901. I deludenti risultati erano anche il frutto della debolezza della
Comunità europea: i Nove si trovarono infatti profondamente divisi sulle scelte nei confronti dei
paesi in via di sviluppo e alle prese con diverse difficoltà interne. La Francia, ad esempio, a
causa dell’instabilità del mercato dei cambi si avviava a mettere in atto una politica economica
molto restrittiva con inevitabili ripercussioni sugli aiuti ai PVS. Vi erano inoltre i problemi
connessi al possibile allargamento della Comunità ai paesi del Mediterraneo e, infine, le gravi
preoccupazioni dei partner europei verso l’Italia, la cui crisi economica e politica rischiava di
precipitarla nell’isolamento.
Il caso italiano fu infatti al centro del successivo vertice occidentale di Portorico (27-28
giugno '76) dove emerse la preoccupazione di una partecipazione dei comunisti al governo che
avrebbe potuto coinvolgere gli altri paesi comunitari e, in primis, la Francia. Il tema della
cooperazione economica internazionale si trattò pertanto solo a margine della conferenza, mentre
per quanto concerneva le questioni energetiche nella dichiarazione finale i capi di Stato e di
governo del Canada, della Francia, della Repubblica Federale Tedesca, dell’Italia, del Giappone,
della Gran Bretagna e degli Stati Uniti si limitarono a ribadire il comune intento di intensificare
gli sforzi per lo sviluppo, la conservazione e l’uso razionale delle varie risorse esistenti e di
assistere in questa direzione i paesi in via di sviluppo902. Lo scambio di vedute sull’energia mise
in evidenza i persistenti timori nutriti dai partecipanti per gli scarsi progressi realizzati nel campo
della riduzione dei consumi e per le incertezze in materia di prezzi, riducendo così l’esito del
vertice all’enunciazione di propositi generici per la continuazione del dialogo903. Ancora una
volta si assisteva al fallimento di un accordo generale sull’energia nel quadro di una reale
cooperazione internazionale fra produttori e consumatori che rispondesse in primo luogo alle
900
Per uno studio sui lavori delle singole commissioni e sulla posizione degli Stati Uniti si veda, ad esempio, Background of the
Conference on International Economic Cooperation: the Commissions, Parigi, 7 gennaio 1976, GFL, Council of Economic Affairs,
Paul W. MacAvoy Files, 106, CIEC.
901
Per un’analisi sullo svolgimento e sulle conclusioni della CIEC si veda anche G. Garavini, L’arma del petrolio: lo “shock”
petrolifero e il confronto Nord-Sud, cit., in D. Caviglia, A. Varsori (a cura di), Dollari, Petrolio e aiuti allo sviluppo. Il confronto
Nord-Sud negli anni '60-70, cit., pp. 131-140.
902
Per consultare il testo integrale della dichiarazione finale di Portorico si veda, tra gli altri, Joint Declaration-International
Conference of Puerto Rico, Dorado, 27-28 giugno 1976, GFL, Council of Economic Affairs, Alan Greenspan Files.
903
Per approfondimenti si veda Telespresso n. 076/119799, MAE, DGAE, CEE, Ufficio VI, dal titolo “Vertice di Portorico”, Roma,
6 luglio 1976, ACS, Carte Aldo Moro, Serie 4, Presidenza del Consiglio dei ministri, Sottoserie Questioni diverse, Ufficio del
Consigliere diplomatico, Busta 86. Su proposta della Francia e dell’Italia si decise di menzionare esplicitamente la necessità di
continuare la cooperazione tra i paesi consumatori e quelli produttori [cfr. Memorandum for the President on Puerto Rico Summit
(Alan Greenspan, Brent Scowcroft), The White House, Washigton, 25 giugno 1976, GFL, Council of Economic Affairs, Alan
Greenspan Files]. Per un’analisi sui propositi statunitensi al vertice di Portorico si veda International Economic Summit, Puerto Rico,
Washington, non datato, NARA, General Records of the Department of State, Record Group 59, Records of the Office of the
Counselor, 1955-1974.
264
esigenze dei paesi più in difficoltà, anche perché la riluttanza di alcuni governi a avviare
politiche economiche a sostegno dei PVS risultò alimentata dalla crisi finanziaria in atto.
8. Dai problemi di attuazione del PEN all’abbandono del nucleare
Il Piano Energetico Nazionale presentato dal ministro Carlo Donat-Cattin prevedeva fra
le sue misure più rilevanti la costruzione di venti nuove centrali elettronucleari entro il 1985. Le
numerose difficoltà incontrate dal progetto non si discostarono molto da quelle presentatesi nei
mesi precedenti. Il problema più pressante risultò infatti essere quello relativo alle autorizzazioni
che, in base alla legge n. 880 del 18 dicembre '73, prevedeva il coinvolgimento diretto delle
Regioni nella scelta dei siti. L’iter burocratico, anziché accelerare secondo le intenzioni del
legislatore, si rese ancora più complicato con il risultato di allungare ulteriormente i tempi904. In
aggiunta a questa circostanza, in tutto il mondo iniziarono a sorgere i primi movimenti
ambientalisti che influenzarono, in maniera a volte determinante, l’opinione pubblica sui rischi
di inquinamento radioattivi e sui danni alla salute905. Nel caso dell’Italia il disastro di Seveso del
10 luglio '76, provocato da una fuga di un composto chimico nello stabilimento della società
ICMESA che intossicò la popolazione locale, inquinò l’aria, i terreni circostanti e uccise migliaia
di animali risultò decisivo nell’orientare l’opinione pubblica. Il drammatico evento, che
palesemente non aveva nulla a che vedere con il nucleare, si strumentalizzò ad arte per
evidenziare le possibili conseguenze catastrofiche in caso di incidente all’interno di una centrale
atomica. Il tutto venne amplificato dalla sciagura verificatasi il 28 marzo del '79 nella centrale
americana di Three Mile Island, situata sull’omonima isola nei pressi di Harrisburg, in
Pennsylvania: si trattò del più grave incidente mai occorso in un impianto nucleare statunitense,
che diede luogo a un cospicuo rilascio di radiazioni nell’ambiente e a una pericolosa fusione
parziale del nocciolo. Di fatto, da quel momento i movimenti ambientalisti intensificarono
notevolmente le proteste, divenendo anche in Italia un ulteriore ostacolo da superare in vista
della costruzione di nuovi impianti atomici. Inoltre, per quanto concerneva la penisola si
904
Nel tentativo di modificare questa circostanza si promulgò la legge n. 393 del 2 agosto 1975 dal titolo “Norme sulla
localizzazione delle centrali elettronucleari e sulla produzione e sull’impiego di energia elettrica” che modificava e integrava la
precedente direttiva prevista dalla legge n. 880 del 18 dicembre 1973, ampliando l’intervento delle istituzioni centrali e degli enti
locali e fissando i limiti temporali per ogni fase dell’iter di autorizzazione. In pratica, era il CIPE, nel quadro del PEN e su proposta
del ministro per l’Industria, il Commercio e l’Artigianato, che approvava, d’intesa con la Commissione Consultiva interregionale e
sentito il parere del CNEN, i programmi pluriennali dell’ENEL per la costruzione di centrali elettronucleari e determinava le Regioni
nel cui territorio potevano essere insediati questi impianti, tenendo conto anche delle esigenze di un equilibrato sviluppo economico
del paese (cfr. art. 2 della legge n. 393 del 2 agosto 1975). Una volta che il CIPE aveva determinato le Regioni che potevano ospitare
una centrale nucleare, queste ultime dovevano indicare almeno due zone del proprio territorio suscettibili di insediamento di questi
impianti entro un periodo di cinquanta giorni, scaduti i quali le aree venivano determinate con una legge su proposta del ministro per
l’Industria, il Commercio e l’Artigianato di concerto con il ministro per il Bilancio e la Programmazione economica (ibidem).
905
Sul rapporto energia nucleare-ambiente si rimanda a C. Senis, L’impatto ambientale delle centrali nucleari, in S. Garribba, S.
Vaccà, Il controllo sociale dell'energia nucleare in Italia, Milano, 1978, pp. 109-117.
265
aggiungevano le difficoltà economiche: il finanziamento previsto per l’attuazione del PEN e i
costi relativi alla costruzione di una centrale nucleare risultavano all’incirca al doppio di quelli
necessari per la realizzazione di un impianto di pari potenza alimentato a combustibile fossile.
L’ENEL, pertanto, in attesa di avviare la costruzione di nuovi sistemi elettronuclear