INTRODUZIONE 11 Introduzione Burnout. Che intende significare questa parola straniera, mai sentita e dal significato non trasparente? E perché mai questo termine viene riferito proprio al caso specifico delle helping professions? Dare una definizione dell’argomento di studio non è impresa semplice. Ciò è dovuto al fatto che il burnout è un nuovo termine medico americano, difficilmente traducibile nella lingua italiana, in quanto manca una parola che ne esprima esattamente il significato. In italiano, infatti, manca una parola che sia esattamente corrispondente al termine inglese; a tale proposito G. Contessa (1981-1982, p. 29) ha proposto di tradurre burned out con «cortocircuitato», «fuso» o «cotto», indicando con questo termine «[ ... ] l’operatore che alla domanda se sarebbe disposto ad essere tra dieci anni allo stesso posto a fare lo stesso lavoro, risponde: “preferirei essere morto”. In italiano, quindi, la traduzione letterale di burnout syndrome è «sindrome del bruciarsi», anche se questa definizione risulta essere alquanto riduttiva, in quanto tende a privilegiare un’ottica individuale: sembrerebbe quasi che l’operatore «burned out» si bruciasse solo per una propria nevrosi caratteriale. Numerosi studi hanno invece dimostrato che vi concorrono anche numerose variabili esterne, per cui è un fenomeno che è possibile comprendere solo considerandolo nelle sue molteplici dimensioni. Palmonari e Zani (1980, p. 134) hanno osservato che: «Il significato dell’espressione americana è comprensibile (almeno in via intuitiva) perché anche in italiano si usa tale parola: quando diciamo che un giovane promettente pieno di 12 IL RISCHIO PSICOSOCIALE NELLE PROFESSIONI DI AIUTO entusiasmo dopo mesi di duro lavoro si è bruciato, esprimiamo lo stesso concetto che la Maslach ha utilizzato per definire tale sindrome», manifestando un atteggiamento o di nervosismo e irrequietezza oppure di apatia, indifferenza e, qualche volta, anche di cinismo nei confronti del suo lavoro. Dopo di allora il termine ha avuto un grande successo; successo testimoniato anche dall’abbondanza di articoli e libri che nel giro di pochi anni sono stati dedicati all’argomento. Il contatto quotidiano con le persone e con le loro esigenze è una delle caratteristiche principali di quanti si dedicano alle necessità altrui, in quelle che vengono definite le «professioni di aiuto». Si tratta di operatori che nel loro lavoro mettono in conto il rischio di farsi assorbire dalle necessità della gente, per essere a disposizione delle loro molteplici richieste. Tale caratteristica accomuna tutte quelle attività che hanno come obiettivo professionale il benessere delle persone e la risoluzione dei loro problemi, come nel caso di medici, psicologi, infermieri, insegnanti, ecc. La sindrome del burnout è una condizione di esaurimento emozionale che investe gli operatori sociosanitari impegnati in attività di dedizione agli altri. Può essere definita «come una strategia stressante di adattamento, che ha conseguenze negative sia per la persona che per l’organizzazione» (Crea, 2003, p. 82). L’esperienza del burnout è un fenomeno che si sta rivelando di estremo interesse e preoccupazione per le conseguenze negative che comporta soprattutto per le professioni di aiuto, professioni che hanno implicita nel loro mandato la connotazione di rispondere alle molteplici richieste di quanti hanno bisogno del loro aiuto professionalmente qualificato. Le ricerche sul burnout registrano una significativa spinta grazie ai contributi sperimentali di Christina Maslach. Questa autrice sintetizza il fenomeno come una sindrome di esaurimento emozionale «che può presentarsi in soggetti i quali, per professione, “si occupano della gente”» (Maslach, 1992, p. 20). Si tratta, quindi, di una sindrome in cui ogni fase contribuisce al manifestarsi delle altre. In particolare la Maslach individua tre dimensioni: l’esaurimento emotivo, inteso come risposta adattiva disfunzionale dinanzi alle eccessive richieste dovute al contatto con la gente; la spersonalizzazione, caratterizzata da atteggiamenti di rifiuto nei confronti delle persone che si rivolgono all’operatore; la riduzione delle capacità personali, riferita alla ridotta motivazione al successo e a una diminuzione della propria autostima e della propria capacità di affrontare le condizioni di fatica del lavoro. Anche Golembieswski, Munzenrider e Stevenson (1986) riconoscono nel burnout un costrutto tridimensionale, specificamente come una sindrome che si caratterizza anzitutto per la spersonalizzazione, quindi per il senso di diminuita realizzazione personale, e infine per il conclamato esaurimento emotivo che si traduce in comportamenti disfunzionali. INTRODUZIONE 13 Il carattere eminentemente psicologico del libro evidenzia i diversi orientamenti della tematica dello stress, e allo stesso tempo permette di rilevare, attraverso lo studio empirico effettuato in diverse professioni di aiuto, il significato che alcuni comportamenti hanno nella problematica del disadattamento e dell’esaurimento emotivo tra quanti si dedicano al benessere degli altri. Piuttosto che individuare una tipologia comune dell’operatore psicosociale stressato, questo lavoro di indagine nei diversi contesti professionali permette di differenziare i fattori di rischio tenendo conto delle molteplici variabili che caratterizzano ogni professione di aiuto, ipotizzando così un profilo di sindrome differenziato per i medici, psicologi, psicoterapeuti, assistenti sociali, infermieri, fisioterapisti e missionari. L’augurio che si vuole fare è che tale lavoro possa tornare utile ai diversi destinatari a cui esso si riferisce, come accennato nelle righe precedenti. LA SINDROME DEL BURNOUT 55 La professione di aiuto come professione a rischio di burnout L’esperienza del burnout è un fenomeno che si sta rivelando di estremo interesse e preoccupazione per le conseguenze negative che comporta soprattutto per le professioni di aiuto, professioni che hanno implicita nel loro mandato la connotazione di rispondere alle molteplici richieste di quanti hanno bisogno del loro aiuto professionalmente qualificato. Tali professioni sono attività che coinvolgono le persone a livello emotivo perché sono quotidianamente in contatto con le difficoltà e le sofferenze di quanti si rivolgono a loro. Basti pensare ai medici, agli psicologi, agli infermieri, agli assistenti sociali, agli assistenti domiciliari, agli operatori di comunità terapeutiche, ma anche ai poliziotti, ai vigili del fuoco, ai sacerdoti o alle suore. «Queste professioni sono high-touch (a contatto continuo), implicano cioè numerosi contatti diretti con persone in difficoltà» (Maslach e Leiter, 2000, p. 26). A causa delle continue richieste da parte della gente, questi professionisti dell’aiuto agli altri sono continuamente sotto pressione, perché il loro aiuto non solo è necessario ma — il più delle volte — è anche urgente e impone risposte immediate e puntuali ai bisogni dell’utenza. Le professioni di aiuto sono riferite a quanti si occupano dell’assistenza a persone con un’elevata situazione di disagio fisico e psichico, spesso in particolari condizioni di tensione emotiva e di stress. Inoltre, abbiamo visto come siano professioni caratterizzate da un’alta motivazione soggettiva al lavoro di dedizione agli altri. Infatti, chi sceglie una professione di aiuto lo fa perché motivato da un trasporto motivazionale, lo fa cioè in virtù della propria bontà d’animo (Aronson, Wilson e Akert, 1999) e non per calcolo o tradizione. Anche se, a volte, accanto alle motivazioni coscienti, spesso dettate da propensioni altruistiche, ci possono essere anche ragioni non altrettanto nobili ma centrate piuttosto sulla soddisfazione di bisogni personali: come per esempio il bisogno di approvazione e di affetto, il bisogno di rafforzare l’autostima, il bisogno di espiare sensi di colpa o anche il bisogno di intimità (Freud, 1967; Maslach, 1992; Crea, 2003; 2004). Secondo Pellegrino, nella scelta di una professione di aiuto ci sono «motivazioni a livello inconscio che, se non sono rese consapevoli, possono nel tempo condurre a insoddisfazione, cattiva pratica professionale e burnout. Per esempio, l’eccessiva abnegazione e dedizione professionale, le troppe aspettative su se stessi e sulla propria capacità di rendimento personale, l’impegno eccessivo sia qualitativo sia quantitativo possono essere sostenute da una motivazione “patologica”» (2000, p. 186). 56 IL RISCHIO PSICOSOCIALE NELLE PROFESSIONI DI AIUTO Anche Del Rio (1990) rileva questo aspetto inconscio dell’aiuto agli altri, quando sottolinea come l’attenzione per il benessere delle persone che hanno bisogno di essere aiutate diventi, per chi sceglie questo tipo di professione, qualcosa di importante che spesso può servire indirettamente al soddisfacimento di alcuni bisogni personali (cfr. anche Gergen e Gergen, 1990). Insomma, sono molteplici le motivazioni che spingono un operatore di aiuto a scegliere la sua professione. A livello cosciente, comunque, assume particolare importanza la motivazione dettata dal desiderio altruistico di poter cambiare la condizione disagiata e di sofferenza dell’utente (Maslach, 1992). Lo stesso Freudenberger (1974), in risposta alla domanda di chi sia più soggetto al rischio di burnout, indica coloro che si sentono responsabili di poter incidere sulla condizione della persona. Alcune ricerche hanno evidenziato che è in modo particolare la responsabilità per le persone, piuttosto che per le cose, a caratterizzare le professioni di aiuto (Calhuon e Calhuon, 1983). Se l’utente è percepito soltanto come portatore di problemi da risolvere, o come una persona che riceve passivamente l’aiuto senza attivarsi a trasformare la propria situazione problematica, chi offre aiuto sente il peso della propria responsabilità che, dice la Maslach, a lungo andare gli provoca un forte logoramento emotivo poiché si accorge che il destino dell’utente è nelle sue mani e questo lo pone in uno stato di ansia quando deve affrontare le sue richieste (Maslach, 1992). A ciò si aggiunge la tensione che egli accumula per l’impossibilità di gestire in modo efficace i rapporti con l’utente a causa delle poche risorse a disposizione o per la discrepanza tra le motivazioni personali e quelle dell’organizzazione (Ligabue, 1992). Pines et al. specificano meglio questo aspetto della dedizione ad aiutare gli altri, quando dicono che «la caratteristica dominante di chi è impegnato in una professione d’aiuto è quella di essere una persona che richiede sostegno emotivo (emotionally demanding)» (Pines, Aroson e Kafry, 1981, p. 202) a causa del proprio coinvolgimento nelle situazioni problematiche degli altri. Nella loro ricerca questi autori hanno rilevato che quanti scelgono di impegnarsi in tale tipo di attività in genere hanno le seguenti caratteristiche: svolgono un lavoro emozionalmente impegnativo, condividono alcuni tratti di personalità che li portano a scegliere tale attività, condividono un orientamento centrato sulla persona e sull’utente. Pur sottolineando che la relazione di aiuto è caratterizzata dal proprio «bisogno di dare», la Maslach specifica invece che il burnout dell’operatore emerge quando egli si rapporta in modo critico e percepisce negativamente la gente con cui lavora. I segni che caratterizzano questa percezione negativa dell’utente sono così riassunti (Maslach, 1992, pp. 61-67): LA SINDROME DEL BURNOUT 57 – primo, il fatto che in genere gli operatori d’aiuto tendono a identificare negativamente i propri utenti, perché li percepiscono solo come portatori di problemi da risolvere; – secondo, la mancanza di un riscontro positivo da parte degli utenti, poiché una volta risolti i loro problemi non si fanno più vedere; – terzo, l’alto livello di stress emotivo causato dal contatto con situazioni altamente problematiche, come nel caso di pazienti psichiatrici, di malati di AIDS, tossicodipendenti; – infine, la mancanza di una risposta positiva da parte dell’utenza, per affrontare autonomamente i propri problemi, ciò che porta l’operatore a percepire gli altri con un senso di fastidio.5 In tutte queste condizioni di lavoro l’operatore sostiene le proprie motivazioni interiori con il suo forte «bisogno di dare», di mettere a disposizione degli altri la propria capacità professionale e la propria carica umana, con l’obiettivo di alleviare le condizioni di disagio che l’utenza gli presenta, vivendo tale attitudine quasi come una «vocazione». Come affermano Pedrabissi e Santinello nel loro studio effettuato su un gruppo di infermieri, i risultati delle ricerche sembrano confermare «l’importanza del recupero, quasi in chiave “vocazionale”, di valori ideali nel proprio lavoro» (Pedrabissi e Santinello, 1988, p. 46). Ciò vuol dire che alla base della scelta operata per la professione d’aiuto c’è questo desiderio altruistico verso gli altri, che sostiene il soggetto nell’affrontare le situazioni frustranti. Secondo Del Rio, infatti, «l’importanza del benessere dell’utente costituisce l’elemento chiave nel definire il tipo di relazione tra operatore e utente» (Del Rio, 1990, p. 62). 5 «È come parlare a un muro: niente ti torna indietro. Non so nemmeno se mi hanno sentito, né tanto meno capito. Continui a lavorare ancora e sempre sulle stesse cose: niente cambia mai, qualunque cosa tu faccia» (Maslach, 1992, p. 58). 114 IL RISCHIO PSICOSOCIALE NELLE PROFESSIONI DI AIUTO Il burnout tra gli psicologi e psicoterapeuti Nonostante l’ampia letteratura riguardante il burnout tra le diverse professioni di aiuto, poco è stato scritto per quel che riguarda la stanchezza emozionale degli psicologi. Lo specifico di questa categoria comunque porta a ritenere che anche loro possano incorrere in condizioni di esaurimento emotivo e di stress per il continuo contatto che hanno con le richieste delle persone. Come avvertiva la Maslach, è importante fare attenzione a comprendere il burnout come una esperienza psicologica interna che include sentimenti, atteggiamenti, motivazioni e aspettative. Molti autori concordano che il burnout comprende un processo di esaurimento psicologico e fisiologico, un cambiamento negativo nella risposta agli altri e una risposta negativa nei confronti di se stessi e verso la soddisfazione nel proprio lavoro. In altri termini il burnout viene sperimentato tra i professionisti dell’aiuto come uno stress lavorativo che risulta dall’interazione sociale tra chi aiuta e chi è aiutato (Maslach, 1992) o come una conseguenza di alti livelli di stress lavorativo, di frustrazione personale e di competenze personali inadeguate alla situazione (Paine, 1982). Farber (1985), in un studio specifico su questa popolazione, ha rilevato che il 36% degli operatori affermava di essere moderatamente colpito da condizioni di esaurimento emotivo, mentre solo il 6.3% lo era molto. Altri studi, pur non confermando un elevato livello di burnout, hanno sottolineato la presenza di correlati legati al fenomeno del burnout tra gli psicologi, in particolare una percezione di fallimento personale, difficoltà nelle condizioni lavorative, stress e isolamento (Farber e Heifetz, 1981; 1982; Hellman et al., 1986). Per gli psicoterapeuti il burnout si manifesta come una perdita di empatia, di rispetto e di sentimenti positivi nei confronti delle persone che hanno in terapia. Spesso tale perdita è accompagnata da un certo livello di spersonalizzazione, che porta il terapeuta a rispondere al cliente in un modo rude e a negarlo come persona. Alcune conseguenze di questo atteggiamento sono un crescente assenteismo, esaurimento emotivo e fisico e isolamento (Maslach, 1978). Un terapeuta che si sente bruciato dal lavoro faticherà a prestare attenzione alle diverse sfumature del linguaggio e della comunicazione del cliente; quindi si accorgerà poco di quello che accade nel corso della terapia (Hellman et al., 1986). Un certo numero di studi ha esaminato la relazione tra il disagio degli psicologi e le diverse esperienze stressanti del loro lavoro. Questi professionisti in effetti sperimentano alcune emozioni e vivono alcuni comportamenti che sono associati con la sindrome del burnout (Farber, 1983; Farber e Heifetz, 1981; Hellman et al., 1986). LA SINDROME DEL BURNOUT NEGLI PSICOLOGI E PSICOTERAPEUTI 115 Per quel che riguarda invece la misurazione del burnout tra i terapeuti, gli studi a disposizione non sono frequenti. In uno studio di Raquepaw e Miller (1989) effettuato su 68 psicoterapeuti, è stato esaminato il rapporto tra le variabili demografiche, l’orientamemento terapeutico, il numero dei casi in carico, l’anzianità di servizio e l’intenzione del terapeuta di abbandonare la professione. Dai risultati emerge che i soggetti sperimentavano un livello di burnout medio-basso, e che sia le variabili demografiche, sia gli anni di esperienza e l’orientamento del tipo di terapia effettuata non erano fattori predittivi del livello di burnout. Un risultato interessante è stata la differenza tra i terapeuti che svolgevano la loro professione privatamente e quelli che invece effettuavano servizio in una istituzione sanitaria. Questi ultimi erano maggiormente soggetti al burnout. Lo stesso risultato è stato ottenuto da Ackerley et al. (1988), tra un gruppo di psicologi impegnati in una struttura per malati mentali: più di un terzo dei soggetti intervistati affermavano di sperimentare alti livelli di burnout. Nelle prossime pagine vogliamo verificare a livello sperimentale se il continuo contatto con le richieste dei pazienti che vengono in terapia, o le continue richieste dei servizi dove svolgono la loro attività psicologica, possano essere occasione di stress e di burnout per gli psicologi e psicoterapeuti che non hanno un sano rapporto con se stessi e con le aspettative da parte delle persone in cura. Nella ricerca che presenteremo vogliamo appunto stabilire la relazione tra burnout e strategie di adattamento di questi operatori, per giungere così a delineare le eventuali dimensioni da tenere presente per prevenire il disagio dello stress nel rapporto terapeutico con le necessità dei pazienti.