Parmenide e Zenone: la Scuola di Elea

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PARMENIDE
Parmenide nasce ad Elea, una cittadina del Cilento (l’attuale costa salernitana) intorno al 510 a.C., da una famiglia ricca e
aristocratica. Non dovendo lavorare, lo troviamo sin da giovanissimo interessato alle questioni filosofiche, guidato da due
maestri pitagorici: Aminia e Senofone. Una volta divenuto adulto, la sua vita si intreccerà con quella di Zenone, un
piccolo bambino di un suo amico rimasto orfano dopo la morte di entrambi i genitori. Parmenide decide di adottarlo. La
coppia Parmenide-Zenone sarà una delle più proficue della storia della filosofia.
Al contrario di Ercalito, Parmenide è molto impegnato politicamente e dalla parte dei democratici, come la stragrande
maggioranza dei filosofi del tempo. Ma la sua moderazione e la sua intelligenza ne fanno un punto di riferimento per
entrambe le fazioni, che a lui ricorrono spesso affinché trovi un compromesso. E così viene eletto pritano, la più
prestigiosa carica cittadina, e in questa veste redige la costituzione. Parmenide è ormai un uomo che gode di stima
universale. Con il giovanissimo Zenone, decide di fondare una scuola, che ha un immediato successo e diventa subito un
punto di riferimento per decine di intellettuali e non solo della Magna Grecia. Nel 445 lo troviamo, sempre in compagnia
di Zenone, ad Atene, per incontrare colui che sta facendo di quella città la più ricca e potente di tutto il mondo antico:
Pericle. I due si stimano e si apprezzano. Non è escluso che Parmenide possa avere incontrato anche Socrate, ma qui le
fonti non sempre concordano. Tuttavia, Pericle è amato ed odiato al tempo stesso. I suoi incredibili successi scatenano
entusiasmi come gelosie, soprattutto nel partito aristocratico, che può scordarsi di tornare al potere finché c’è Pericle al
governo. E così, quasi quotidianamente, tutti gli amici del grande condottiero vengono accusati di questa o quella
malefatta e solo per mettere in difficoltà Pericle. Un altro filosofo amico di Pericle, Anassagora, dovrà fuggire dalla città
per non essere condannato a morte per empietà. A Parmenide va decisamente meglio. In fondo nessuno lo cita in giudizio.
E tuttavia le voci di un rapporto intimo con il suo figlio adottivo fanno il giro della città. L’omosessualità non è affatto un
reato ad Atene né che una persona anziana intrattenga rapporti con un giovane, soprattutto se il primo appartiene ai ceti
più prestigiosi. E tuttavia Zenone è pur sempre figlio di Parmenide, che lo ha adottato quando era un infante.
Tornato ad Elea, Parmenide continua ad insegnare nella sua scuola, con sempre al suo fianco Zenone. Poi, in una data
imprecisata, si spegne. La scuola passa naturalmente nelle mani di Zenone, che decide di dedicarsi alla difesa del pensiero
del patrigno, che comincia ad essere criticata da più parti.
L’Essere è e non può non essere
Parmenide scrive una grande opera, Sulla natura. Ma non si tratta di un saggio, bensì di un poema in versi. È la prima
volta nella storia della filosofia. Di questa opera tuttavia ci rimangono solo alcuni frammenti. Il libro narra di un viaggio
che Parmenide stesso compie nel regno degli dei. Qui incontra Dike, la dea della giustizia, che possiede le chiavi della
verità. Dike si rivolge direttamente al filosofo con queste parole:
Orbene, io ti dirò, e tu ascolta e ricevi la mia parola,
Quali sono le vie della ricerca che sole si possono pensare:
l’una che “è” e che non è possibile che non sia
è il sentiero della Persuasione, perché tien dietro alla Verità,
l’altra che “non è” e che è necessario che non sia.
E io ti dico che questo è un sentiero su cui nulla si apprende.
Infatti non potresti conoscere ciò che non è, perché non è cosa fattibile,
né potresti esprimerlo.
[…] Infatti, lo stesso è pensare ed essere.
[…] è necessario il dire e il pensare che l’essere sia:
infatti l’essere è, il nulla non è.
Lo stile letterario di Parmenide non è sempre di facile comprensione. E tuttavia il messaggio è chiaro: Dike afferma che
solo l’essere esiste. Di conseguenza, il non-essere non esiste. Ma che cosa significa? Ripensiamo per un attimo ad
Eraclito, perché e al filosofo di Efeso si fa più o meno esplicito riferimento in quasi tutta l’opera. Il divenire implica
sempre un passaggio dal nulla all’essere e viceversa: prima di nascere, di essere, noi non eravamo, dunque eravamo nulla.
Il nulla è appunto il non-essere. Per Eraclito non era un problema far coesistere l’essere con il nulla: i contrari si
contrappongono, questo e vero, ma non possono stare gli uni senza gli altri. Questo era il logos, la ragione universale. Ma
Parmenide la pensa diversamente. Ancora Dike a parlare (per bocca del filosofo di Elea naturalmente):
Questo non potrà mai imporsi: che le cose siano e non siano!
Qui non c’è alcuna lotta tra i contrari, nessun rapporto tra di loro e per una semplicissima ragione: i contrari non esistono.
Una cosa o “è” oppure “non è”, non sono ammesse altre soluzioni. Ecco perché Dike parla di “due vie” da intraprendere:
o quella della doxa (vale a dire quella del divenire) oppure quella della verità. Ma se si accetta quest’ultima, come
spiegare che le cose mutano? Certo, non nella maniera descritta da Eraclito, ma è innegabile che, per esempio, un uomo
invecchia e una nuvola prima o poi si dissolve. La risposta di Parmenide è la medesima di Eraclito: si tratta di pura doxa.
Qui sta il punto in comune tra i due: ciò che notiamo non è che pura apparenza, dietro o dentro la quale si cela ben altra
realtà. Per entrambi, dunque, la verità dimora nel profondo, come giustamente scritto da Eraclito. E tuttavia per
Parmenide a rappresentare la doxa è proprio quella realtà che per il filosofo di Efeso rappresentava il Logos. Gli effetti di
una tale visione sono devastanti, a tratti anche sconcertanti, perché è evidente che, pur se temperato dalla mediazione di
altri autori che si vedranno in seguito, l’Occidente ha scelto Eraclito e la sua teoria del divenire e non quella di Parmenide.
Già perché se si nega alla radice il divenire degli esseri, si deve affermare che esiste un unico essere che non muta mai.
Certo, in questo modo si riabilitano pensiero e linguaggio perché se esiste un unico essere immutabile allora non potrò
che pensare solo a quello e parlare solo di quello, senza incorrere in errore. Ma per il resto? Come si svolge la vita? Come
negare la pluralità degli esseri e il loro mutare? Parmenide porta alle estreme conseguenze la dialettica tra doxa e logos,
propendendo per una verità che risulta totalmente staccata dalla prima, quindi puramente logica e razionale. Ma lo stupore
con il quale solitamente si accoglie il pensiero di Parmenide deve lasciare il posto ad un atteggiamento diverso, di epoche,
per dirla in termini greci, vale a dire di “sospensione del giudizio”, se si vuole realmente comprenderlo. Cominciamo con
il porci una semplicissima domanda: i sensi sono infallibili? La risposta è no, come anche la più banale esperienza
quotidiana ci mostra: dalle pozze d’acqua sulla strada che scambiano per pozzanghere nelle giornate calde all’impressione
di movimento che si ha stando invece su un treno fermo mentre è quello accanto a muoversi. E poi, se ci fossimo fidati
dei sensi, crederemo ancora oggi che è il Sole a girare intorno alla Terra e non viceversa. Ecco allora che il pensiero di
Parmenide appare meno assurdo, meno lontano dalla nostra visione di come invece solitamente si tenda a presentarlo.
Siamo quindi in grado di continuare a leggere quanto è rimasto dell’opera di Parmenide, per capire meglio quell’essere
che è poi l’unica realtà esistente:
L’essere è […] immobile e senza fine.
Né una volta era, né sarà, perché è ora, insieme, tutto quanto,
uno, continuo.
Quale origine infatti cercherai di esso?
Come e da dove sarebbe cresciuto?
Dal non-essere non ti concedo
né di dirlo né di pensarlo, perché non è possibile né dire né pensare
che non è. Quale necessità lo avrebbe mai costretto a nascere, dopo o prima,
se derivasse dal nulla?
Perciò è necessario che sia per intero, o che non sia per nulla.
Dato che il non-essere non esiste (e quindi non può essere pensato, perché il pensiero attesta solo ciò che realmente
esiste), l’essere non può essere nato dal nulla e neppure al nulla dovrà tornare. Esso non nasce e non muore.
E neppure è divisibile, perché tutto intero è eguale;
né c’è da qualche parte un di più che possa impedirgli di essere unito,
né c’è un di meno, ma tutto intero e pieno di essere.
Perciò è tutto intero, continuo: l’essere, infatti, si stringe con l’essere.
Ma immobile, nei limiti di grandi legami
è senza un principio e senza una fine, poiché nascita e morte
sono state cacciate lontane e le respinse una vera certezza.
E rimanendo identico nell’identico, in sé medesimo giace.
Oltre a non avere un inizio e una fine, l’essere è unico, identico a se stesso, senza parti, immobile, poiché ogni movimento
implicherebbe un passaggio dall’essere al non-essere, vale a dire al nulla. Per potersi muovere, infatti, è necessario che
esistano spazi vuoti, spazi vuoti, cioè “nulli”, che consentano il movimento. Ma questo è impossibile.
L’essere è simile a massa di ben rotonda sfera,
a partire dal centro uguale in ogni parte.
Una grande, immensa sfera: questo è l’essere di Parmenide. Ma come, un essere di tale fattezza non è infinito? No, perché
per i greci l’infinito è qualcosa che manca di determinazioni, dunque privo di perfezione. Perfetta, al contrario, è la sfera e
proprio per le qualità descritte da Parmenide. Riassumendo: l’essere è unico, ingenerato, imperituro, immobile e finito.
Queste le sue qualità e queste le qualità di quanto esiste al mondo, perché l’essere è il mondo.
Nonostante ci si sia avvicinati alla visione di Parmenide, lo sconcerto rimane. E infatti il pensiero di Parmenide ricorda
più la sapienza orientale, quella indiana in particolare, che considera il mondo come un unico enorme animale di cui noi
non siamo che degli organi, delle parti. Per cui, uccidere o fare del male anche ad uno solo di quegli organi, di quelle
parti, significa fare del male al tutto. Una visione statica, non storica, non progressiva come la nostra, che appartiene alle
ancora più lontane culture tibetane o cinesi. Chissà. Resta il fatto che Parmenide appare quasi come un corpo estraneo alla
nostra tradizione, che tuttavia appare ai filosofi del tempo una sfida, ben più dura rispetto a quella di Eraclito.
Ma stabilito che si tratta di qualcosa di “estraneo” alla nostra cultura, è forse impossibile comprenderlo? Parecchi secoli
più tardi, nell’Ottocento, il filosofo tedesco Hegel scriverà che la filosofia è come “la Nottola di Minerva, che spicca il
volo al calar della sera”. La nottola è un volatile, che ha proprio questa caratteristica: di volare al tramonto del sole.
Proviamo a farlo anche noi, con Parmenide. Ipotizziamo di essere in una classe. Una classe molto particolare, perché
priva del soffitto. Vediamo il docente, vediamo i compagni maschi e le compagne femmine, vediamo i banchi, le mappe
appese al muro eccetera. Vediamo cioè una pluralità di esseri differenti, che si muovono, che respirano, che si annoiano e
via dicendo. Ora, come la nottola di Minerva, cominciamo ad abbandonare il suolo terrestre. Gradualmente la scena
apparirà molto meno eterogenea: ad una certa altezza non vedremmo più chi respira e chi si annoia e ad una quota ancora
più alta spariranno anche le differenze di genere. Andando ancora più in alto la nostra classe non si vedrà più, inglobata i
un sistema più vasto, la scuola prima e il quartiere poi. Quindi, proseguendo il nostro viaggio, vedremo la città, poi la
nazione, il continente … e il pianeta Terra. Dove sono finite le differenze? Dove i mutamenti? E tuttavia il viaggio non è
finito, perché oltre alla Terra ci sono altri pianeti, ci sono i satelliti, persino quelli artificiali lanciati dall’uomo nello
spazio. Allora il viaggi deve continuare, fino a quando il sistema solare verrà inglobato in una sola galassia. Poi anche
questa, come le altre, scomparirà alla vista di un solo universo. Fantascienza? No, puro esperimento logico. La filosofia
ha per Parmenide il compito di ergersi al di sopra delle cose terrene e così facendo scorge una realtà ben diversa da quella
descritta da Eraclito o colta con i nostri sensi: i diversi enti non sono che parti di un unico essere al quale appartengono.
Le differenze sono solamente mere apparenze, destinate a scomparire man mano che la nottola di Minerva descritta da
Hegel si alza in cielo. Un soldato in una trincea non può vedere come sta andando la battaglia. Questo è compito del
ricognitore. Quel soldato potrebbe anche uccidere tutti i sui nemici lì intorno e catapultarsi fuori per urlare tutta la sua
gioia. Ma magari, poco lontani, sono già in marcia altri nemici.
Qui pongo termine la discorso che si accompagna a certezza e al pensiero
Intorno alla Verità; da questo punto le opinioni mortali
devi apprendere, ascoltando l’ordine seducente delle mie parole.
Infatti, essi stabilirono di dar nome a due forme
l’unità delle quali per loro non è necessaria: in questo essi si sono ingannati.
Le giudicarono opposte nelle loro strutture e stabilirono i segni che le distinguono
separatamente gli uni dagli altri: da un lato posero l’etero fuoco della fiamma,
che è benigno, molto leggero, a sé medesimo da ogni parte identico,
e rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altro, posero anche l’altro per se stesso,
come opposto, notte oscura, di struttura densa e pesante.
Questo ordinamento del mondo, veritiero in tutto, compiutamente ti espongo,
così che nessuna convinzione dei mortali potrà fuorviarti.
Il viaggio di Parmenide si è concluso. Dike lo invita a ricordare “l’ordine seducente” delle sue parole e a non lasciarsi
ingannare da chi, “i mortali”, crede che esistano gli opposti. Ancora una volta si fa riferimento a Eraclito, al fuoco,
emblema della lotta dei contrari, della ragione universale. La visione del mondo di Parmenide è l’esatto opposto di quella
di Eraclito: non esistono differenze e quindi non esiste alcuna lotta tra i contrari. Ma è ancora più lontana dal senso
comune, il quale, se è vero che rifiuta la visione “tragica” di Eraclito, non ne accetta il Logos e non perché non sia in
grado di volare alto, ma perché preferisce, per pigrizia, stare con i piedi ben piantati per terra.
ZENONE DI CIZIO
Zenone è prima figlio adottivo, poi amico, quindi discepolo e infine, molto probabilmente, amante di Parmenide. Egli è al
fianco al maestro sino alla morte e ne raccoglie l’eredità. La sua filosofia non è altro che una lunga battaglia in difesa del
pensiero del padre, amico, maestro ed amante di una vita. Ma una battaglia che mette capo ad una nuova forma letteraria
basata sui “paradossi”, letteralmente “contro la doxa”, contro il senso comune: la dialettica. Si tratta di prendere per
buone le posizioni che si vogliono confutare, analizzarle e mostrarne la loro assurdità. Un’operazione, quella di Zenone,
non sempre coronata dal successo ma che mostra il genio di questo giovane filosofo. Il bersaglio preferito da Zenone è la
tesi dell’esistenza del movimento. Ogni movimento, per essere realmente tale presuppone l’esistenza del nulla, vale a dire
di uno spazio vuoto che consente ad un ente di passare da uno spazio all’altro.
Paradosso dello Stadio
Zenone dialetticamente accetta la tesi del movimento. Ipotizziamo di trovarci in uno stadio e di assistere alla corsa di un
atleta da un capo all’altro della pista. Ma si tratta di una corsa impossibile: l’atleta non giungerà mai al traguardo, giacché
dovrebbe arrivare prima alla metà di esso e prima ancora alla metà di questa metà e così via, praticamente all’infinito. Ma
non è possibile percorrere in un tempo finito infinite parti di spazio, dunque il movimento non esiste. Osserviamo questa
figura:
Se l’atleta si trova nel punto di partenza, “A”, per potere giungere al traguardo, il puto “B”, deve prima percorrere la sua
metà, A’, e prima ancora la metà della metà, A’’, e così via.
Paradosso di Achille e la tartaruga
Zenone, per mostrare l’assurdità del movimento, chiama in causa un noto personaggio della mitologia greca, Achille,
detto “piè veloce”. Egli un giorno viene sfidato da uno degli esseri più lenti esistenti in natura: una tartaruga. Per i
sostenitori del movimento non c’è storia: Achille vincerebbe ad occhi chiusi anche dando centinaia di metri di vantaggio
all’animale. E Zenone accetta tale tesi, solo che il vantaggio che Achille dà alla tartaruga è minimo. Una sfida impossibile
per il povero animale. E tuttavia quel piccolo vantaggio si mostra incolmabile anche per il più veloce essere dell’antichità.
Supponiamo infatti che la velocità di Achille sia di 10 metri al secondo e quella della tartaruga solamente di 1 metro al
secondo. Ora, qualsiasi vantaggio sia stato concesso alla tartaruga, risulterà decisivo ai fini della vittoria della tartaruga.
Infatti, una volta partita la corsa, Achille (“A” nella figura) dovrà raggiungere il punto da cui la tartaruga è partita (T). Ma
quando questo accade, la tartaruga avrà nel frattempo coperto un altro piccolo tratto del percorso (T’). E quando
finalmente Achille giunge anche qui, la tartaruga avrà percorso nel frattempo un ulteriore spazio (T’’) e così all’infinito, o
meglio, al traguardo.
Si tratta del medesimo esempio precedente, ma ancora più suggestivo e decisamente più paradossale: qui il senso comune
viene rafforzato dalla presenza di una figura mitologica come Achille e letteralmente demolito dalla vittoria di una
semplicissima tartaruga.
La freccia
Prendiamo un arco e una freccia e apprestiamoci a colpire il bersaglio. Una volta presa la mira e lanciato il dardo, questo
dovrebbe raggiungere il bersaglio, se abbiamo un po’ di dimestichezza con l’arma. Ma che lo faccia o meno, un dato è
evidente: che la freccia non è più nell’arco, si è mossa verso un altro spazio. Ma la freccia, ad ogni istante, non può che
occupare solamente un ben determinato spazio, quello pari alla sua lunghezza, e nessun altro. Ma poiché il tempo in cui la
freccia si muove è fatto di infiniti istanti, per ognuno di tali istanti la freccia risulterà immobile. Riprenderemo questo
esperimento più avanti. Veniamo ora a quello più famoso.
L’argomento delle masse nello stadio
Siamo ancora una volta in uno stadio d’atletica (la Grecia è la madre delle Olimpiadi): due uomini si sfidano partendo da
posizioni differenti e in direzioni opposte. Al centro dello stadio c’è un giudice pronto a dare il via. La gara parte. Il primo
atleta, vedendo l’altro avanzare rapidamente in senso contrario, crederà di correre molto più veloce e lo stesso penserà il
secondo. In realtà, i due stanno viaggiando grosso modo alla medesima velocità, come viene attestato dal giudice. Che
cosa significa tutto questo? Che la velocità è una misurazione relativa e non un valore assoluto. Troppo complesso?
Niente affatto, basta rendere più attuale l’esempio di Zenone. Siamo in una stazione ferroviaria: vi sono tre treni su
altrettanti binari paralleli. I primi due si muovono in direzioni opposte con eguale velocità, poniamo 100 km/h, mentre il
terzo resta fermo sui binari. Ora la velocità dei due treni in movimento apparirà effettivamente di 100 km/h per i
passeggeri che siedono sul treno fermo. Ma coloro che sono sul treno in movimento, giudicheranno quella dell’altro treno
in movimento molto superiore, nell’ordine di 200 km/h. Il che è assurdo ... per Zenone.
Zenone non se ne rende conto ma con questi paradossi, soprattutto con quest’ultimo, anticipa la teoria della relatività che
verrà dimostrata solamente nel XX secolo da un certo Albert Einstein. Senza rendersene conto, ma soprattutto senza
volerlo, in quanto per lui, e per Parmenide, tale teoria è un assurdo logico. Ma allora che valore dare a tali argomenti?
Innanzitutto essi inaugurano un nuovo metodo filosofico (la “dialettica”), consistente nel prendere per buone le teorie che
si vogliono confutare, il che, naturalmente, richiede una perfetta conoscenza di queste ultime, contribuendo alla crescita
del sapere. In secondo luogo, i paradossi invitano il lettore a scollarsi dallo stretto rapporto con la realtà fenomenica, con
ciò che i sensi attestano, con la doxa. Riprendiamo l’argomento della freccia. Immaginiamo però di trovarci in un contesto
molto particolare, in cui non vi siano punti di riferimento e dove tutto sia dipinto di un solo colore, poniamo il nero.
Insomma in un luogo simile a quello di Parmenide, dove tutto è uguale a se stesso. Seguiremo il viaggio della freccia con
una potente macchina fotografica. Scagliamo la freccia. Si è mossa? Prendiamo le foto, significativamente chiamate
“istantanee”. Non essendoci alcun punto di riferimento su uno sfondo che rimane sempre lo stesso, ogni fotogramma
riprenderà la freccia che occupa solo lo spazio della sua lunghezza e nient’altro. Per ognuno di quei fotogrammi, dunque,
la freccia è ferma. Spostiamoci ora nel tempo e nello spazio, negli anni Cinquanta del XX secolo negli Stati Uniti. In un
cinema un gruppo di scienziati decide di collocare all’interno della pellicola di un film alcuni fotogrammi con l’immagine
di una nota bevanda. Allora i film erano una lunghissima sequenza di fotogrammi l’uno diverso dall’altro, messi in
movimento da una macchina: la cinepresa. È significativo che “cinema” sia un termine di derivazione greca, che significa,
appunto, movimento. Che cosa accade? Che nessuno spettatore nota alcunché di strano. I fotogrammi della bevanda,
infatti, sono pochi e collocati molto lontani gli uni dagli altri. Insomma, i nostri sensi non sono in grado di coglierli, data
anche l’alta velocità con cui il film viene proiettato, in modo da evitare “salti” tra un fotogramma ed un altro. E tuttavia,
come notano gli studiosi, una bella fetta di pubblico all’uscita dichiara di avere sete e molti di loro desiderano proprio
quella bevanda presente nei fotogrammi. Che cosa è successo? È successo che le immagini della bevanda sono sì sfuggite
ai sensi, ma non alla nostra mente, che ora li rimanda in termini di sete e di una sete ben precisa: la bevanda in questione.
Si tratta di “messaggi subliminali”, che ci portano a fare qualcosa senza che la nostra coscienza ne abbia sentore. Ma
quello almeno era un esperimento!
Naturalmente Zenone non c’entra nulla con simili test scientifici, né con i concetti di “coscienza”, “messaggi subliminali”
e quanto altro. Siamo nella Grecia antica. E tuttavia la sua teoria circa la negazione del movimento, sebbene errata, non è
così assurda. Ha cioè una sua logicità. Di per sé un film non è che la somma di istanti, cioè di esseri fermi e uguali a se
stessi che solo un artificio, vale a dire la cinepresa, è in grado di mettere in movimento. È così anche per noi? Siamo
anche noi in grado di cogliere solamente delle istantanee che poi il nostro cervello mette in movimento dandoci l’illusione
che tutto si muova? Se prendiamo una telecamera e la puntiamo sul nostro pc, vedremo delle linee nere orizzontali che si
alternano, cosa che i nostri occhi non vedono. Quale è la realtà? E la nostra voce? A noi pare bella, ma se la registriamo e
la riascoltiamo è proprio così bella?
I paradossi di Zenone vengono criticati ancora oggi. Ma Zenone ha inventato un genere di enorme successo. I rompicapo
enigmistici sono figli dei paradossi zenoniani. Ma non sono un prodotto della modernità. Un certo Epimenide, qualche
anno dopo Zenone, invita tutti a verificare la veridicità di tale affermazione: “tutti i cretesi mentono”. Ora, poiché
Epimenide era cretese, come giudicare l’autore: uno che mente o uno che sta dicendo il vero. Insomma, come ci
comportiamo di fronte ad un signore che ci dice : “io sto mentendo”? Se l’affermazione è vera, allora quel signore sta
dicendo la verità, il che tuttavia contraddice la sua affermazione. Se invece l’affermazione è falsa, allora quel signore non
sta mentendo, il che però contraddice la sua stessa affermazione. Non se ne esce. Siamo di fronte ad un vero e proprio
labirinto logico, ad una insolubile, come viene chiamato in Grecia.
Un altro filosofo greco, Eubulide, riporta un caso ben più drammatico:
un coccodrillo riesce a catturare un bambino che gioca sulle rive del Nilo. La madre accorre, terrorizzata,
supplicandolo di rilasciare il bambino. “Se indovini quello che farò, allora libererò tuo figlio”, esclama l’alligatore. E
la madre, sempre terrorizzata: “Credo che mangerai il piccolo”.
Ora, la madre ha indovinato, il coccodrillo dovrà liberare il bambino, ma se lo fa, significa che non lo ha mangiato,
smentendo quindi la previsione della madre. Se invece non lo libera, significa che la madre non ha indovinato. In ogni
modo, il bambino è spacciato. Un paradosso crudele.
Spostiamoci nel Medioevo. Il filosofo Giovanni Buridano ci invita a riflettere su tale paradosso:
Socrate dice: “Platone afferma il falso”
Platone dice: “Socrate afferma il falso”
Ora, prese singolarmente, ognuna delle due affermazioni non contiene nulla di assurdo: Socrate o Platone possono
effettivamente affermare il falso. Ma considerate insieme? Se, infatti, Socrate dice il vero, allora Platone mente e di
conseguenza Socrate dice il falso. Assurdo!
Qualche secolo dopo, in epoca moderna, Miguel de Chervantes, nel suo Don Chichiotte, narra che tale Sancho Panza
diviene governatore di Barataria e in questa veste deve decidere sul caso di un militare di guardia su un ponte con l’ordine
di impiccare tutti coloro che mentono sui motivi per cui chiedono di passare il ponte. Il militare racconta a Panza che un
giorno si è presentato un tale che voleva passare il ponte. Il militare gli ha chiesto i motivi e quel tale ha risposto: “voglio
attraversare il ponte solo per essere impiccato in base alla legge”. Come risolvereste il caso?
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