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Laboratorio interdisciplinare sul diritto d’asilo
Programma e presentazione del laboratorio
Data
Titolo relazione
Relatori
Mar 27-09
Presentazione del laboratorio
Cristina Molfetta
Michele Manocchi
Mer 05-10
Chi sono i rifugiati e come si producono.
Convenzione di Ginevra, processi di etichettamento e rifugiati come
“prodotto” storico-politico
Mauro Van Aken
Mar 11-10
Le azioni dell’occidente e le sue retoriche: leggi e ordinamenti, agenzia
Frontex, accordi bilaterali, sovvenzioni
Alessandra Algostino
Gianluca Vitale
Mar 18-10
Comparazione dei sistemi di accoglienza europei
e regolamento di Dublino
Chiara Marchetti
Barbara Sorgoni
Mar 25-10
Situazione italiana:
pre-sprar; sprar e suoi limiti; possibili evoluzioni
Cristina Molfetta
Gio 03-11
La situazione piemontese:
verso la creazione di un modello alternativo di intervento
Cristina Molfetta
Michele Manocchi
Mar 08-11
Il ruolo delle reti e del capitale sociale
Rocco Sciarrone
Luca Storti
Mer 16-11
Welfare, tra tutela e violenza: famiglie; residenza negata e conseguenze;
ricongiungimenti e rimesse; costruzione della “storia giusta”; il genere
Michele Manocchi
Lucrezia Riccardi
Mar 22-11
Lavoro: spreco del capitale umano e condizioni di sfruttamento
Graziella Rigolino
Mer 30-11
Sanità: leggi, protocolli, ostracismo istituzionale
Salvatore Geraci
Joli Ghibaudi
Mar 06-12
Progettazione:
leggere il territorio, scegliere gli obiettivi, rispondere ai vincoli
Simona Sordo
Cristina Molfetta
Gio 15-12
Come gestire il distacco:
la giusta distanza e il momento del congedo
Ngô Đình Lệ Quyên
Antonella Meo
Il Laboratorio sul diritto d’asilo si propone di avvicinare in modo concreto il mondo universitario e della ricerca
scientifica a quello del terzo settore impegnato sul tema e, più in generale, agli interventi di accoglienza, supporto,
accompagnamento di titolari di protezione internazionale. A tal fine vengono coinvolti, da una parte, ricercatori che
affrontano il tema dell’asilo partendo da punti di vista differenti, in un’ottica interdisciplinare; e, dall’altra, realtà
istituzionali, del privato sociale, dell’associazionismo, ma anche della cooperazione internazionale, che presentano le
proprie esperienze di intervento. Il tema del diritto d’asilo, e delle azioni ad esso collegate, viene affrontato a partire da
tre punti di osservazione: quello storico-giuridico, quello socio-antropologico e quello degli interventi sociali. Inoltre, la
prospettiva adottata è comparata, confrontando tra loro progetti locali (istituzionali e non), nazionali ed europei, con
uno sguardo a quanto sta accadendo anche oltre i confini dell’Europa.
Il Laboratorio si rivolge a due figure specifiche: gli studenti universitari interessati ad approfondire la tematica della
protezione internazionale, con l'eventuale obiettivo di comporre una tesi di laurea sul tema; gli operatori istituzionali,
del privato sociale e delle associazioni che operano, a vario titolo, in questo settore.
Il Coordinamento Non Solo Asilo mette a disposizione la sua rete di enti per consentire agli studenti di seguire tirocini
formativi, finalizzati all’apprendimento delle competenze ma anche alla elaborazione della tesi di laurea.
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Corsi di Laurea Magistrale in Antropologia culturale ed etnologia e in Sociologia
Associazioni e Cooperative del Coordinamento “Nonsoloasilo”
Laboratorio interdisciplinare sul diritto d’asilo
Primo Incontro
5 ottobre 2011
Titolo
Chi sono i rifugiati e come si producono? Convenzione di Ginevra, processi di
etichettamento e rifugiati come “prodotto” storico-politico
Relatore
Mauro Van Aken, ricercatore presso l’Università di Milano-Bicocca
Mauro Van Aken
Buongiorno a tutti, vi ringrazio per avermi invitato. Penso sia sempre una buona occasione, anche per il sottoscritto
per confrontarsi in contesti dove non parlo solo di formazione antropologica ma anche dove le questioni che possono
nascere vengono da contesti applicativi, dalla vita sociale, come dire, di ciò di cui si parla, in questo caso di rifugiati.
I rifugiati come costruzione storica, sociale e culturale. Chiaramente un tema gigantesco. Penso che la cosa più utile sia
riuscire a dare dei contesti e delle dinamiche che vengono fuori dall'etnografia, parola importante per chi fa
antropologia, cioè dalle vite locali, dai vissuti locali, dagli incontri culturali in contesti pratici.
Quello poi è il cuore del laboratorio d'antropologia, attorno a questi bestioni del globale, per vedere come si
localizzano.
Io ho lavorato coi rifugiati palestinesi, che è un caso emblematico e particolare assieme, una storia prolungata tra
rifugiati per sessant'anni e la relazione con istituzioni ed assistenza, e governi nazionali e vuoti politici in diverse
dimensioni.
E poi mi è capitato di lavorare in Italia, in particolare a Milano o da Milano, Milano si è presentata come altro, un po'
come Torino, come un crocevia di percorsi di rifugiati, non solo un luogo dove ci sono i rifugiati o i richiedenti asilo
tanto più, o le altre categorie, protezione umanitaria, possiamo continuare, ma è un crocevia, cioè un “luogo di
mobilità”.
Questa sarà una delle prime parole e delle dinamiche che vorrei mettere sotto la vostra attenzione.
Ed ero rimasto molto colpito dal ritrovare – in contesti completamenti diversi – con una storia dell'umanitario simile
(cioè della protezione dei rifugiati), dinamiche simili a quelle che avevo trovato in un lavoro molto più denso e lungo
con i rifugiati palestinesi. Non sto dicendo che è uguale. Vorrei presentare attraverso un viaggio più lungo – perché
l'antropologia, a partire da Torino, fa i viaggi più lunghi – un viaggio di confronto con contesti diversi, non perdendoci,
ma prendere degli esempi etnografici e dei temi su come noi già, a diversi livelli, dalle scienze sociali dalle politiche fino
ad arrivare al senso comune tanto più importante sulle figure del rifugiato, insieme ad altre figure legali o del senso
comune dello straniero – su come si costruisce “lo straniero”, tanto più nelle politiche – fare un viaggio più lungo con
qualche esempio dell'esperienza palestinese per mostrare cosa intendiamo, a diversi livelli, per costruzione sociale,
culturale e storica dei rifugiati. Tornando poi su qualche esempio italiano, e a partire da Milano.
Esempio di dinamiche. Già dire che i rifugiati sono un costrutto non è relativizzare la questione ma mostrare che c'è
una dinamica, c'è un processo, c'è la relazione tra culture. Tra modi di leggere chi è l'altro, per dirla così generalmente,
e i modi in cui gli altri invece si percepiscono in contesti di profondo cambiamento. Questo è inevitabile, per chi ha a
che fare con fughe, la migrazione forzata.
Diverse forme, eterogeneità delle ragioni politiche e storiche delle fughe e delle modalità di arrivo, in questo caso, in
Italia.
Il Medio Oriente, per esempio, è stato un laboratorio di migrazioni forzate, negli ultimi sessant'anni e non solo. Anzi,
tali sono stati molto spesso i contesti del sud del mondo, piuttosto che l'Europa, “Fortezza Europa” che si sente invasa
dai patologici movimenti dei rifugiati che attendono di sbarcare dal Mediterraneo.
E lì effettivamente ho visto dinamiche storiche e poi culturali, problematiche, attorno a come si costruiscono e cosa
vuol dire e cosa succede nella dinamica di costruzione di assistenza ai rifugiati, ritrovandole poi paradossalmente e in
modo molto forte in Italia, soprattutto attorno a un termine: “ambivalenze” dello status.
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Per poi come spesso è vissuto, nonostante l'incredibile – e questo è l'elemento centrale – eterogeneità di ciò che sta
dentro una categoria che è “rifugiati”.
Una categoria a cui noi diamo già implicitamente, con la nostra storia culturale, per eventi contemporanei, per un
senso comune, per manipolazioni politiche, tanti altri significati un po' naturali, impliciti.
Innanzitutto, da sempre l'uomo fugge. E si muove. E va in pellegrinaggio. Emigra, e cerca ed è curioso di viaggiare. Da
sempre l'uomo fugge ma non da tantissimi decenni c'è il rifugiato.
Che è come tale una costruzione che è nata, per come la conosciamo noi nel mondo occidentale, in seguito soprattutto
al Primo e al Secondo conflitto mondiale. In seguito all'azione e alla costruzione dell'ordine nazionale.
Qui l'elemento importante è: si diventa rifugiati. Cioè, è sempre un elemento processuale quello di “rifugiati”. Adesso
annoto alcuni temi che poi vorrei vedere insieme a voi.
C'è una processualità. E questa processualità spesso non è vissuta come un semplice passo dall'esclusione
all'integrazione. Anzi – un tema che abbiamo visto a Milano – come l'incontro con la protezione col riconoscimento del
richiedente asilo e poi del rifugiato, a Milano, spesso diventa una nuova fuga, per certe fasce, di ciò che mettiamo
sotto il termine “rifugiati”. Un termine giuridico, un riconoscimento giuridico.
Però si è anche costruiti. Allora, costruiti cosa vuol dire: da un lato iniziamo a mettere qualche significato in più.
Si è umanizzati, in una determinata maniera. Pensiamo ai rifugiati, tanto da pensare che ci possa essere anche una
cultura dei rifugiati, o le culture dei rifugiati.
Allora certi termini come cultura – o comunità – di rifugiati, non sono i termini teorici – e l'antropologia spesso lo fa –
ma proprio termini di vita quotidiana, delle politiche dei rifugiati, entrano in modo molto forte e pervasivo – e sono
termini anche di origine antropologica – ma in modo anche molto pericoloso.
Pericolo principale è quello di essenzializzare le categorie di umanità. Farò degli esempi.
C'è uno scrittore somalo, Farah, lui stesso esule, che dice nel suo testo del 2000, “attraversando il confine ci siamo
trasformati in una statistica dell'ACNUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati)”.
Essere un processo che sicuramente aspira alla protezione – in quel contesto a cui lui fa riferimento – ma che diventa
molto spesso, paradossalmente, di alienazione, di spersonalizzazione, di essere ridotti a numeri, di essere ridotti a
oggetti di assistenza o di protezione, o di altre proiezioni di cosa dovrebbe essere un uomo, una donna o una famiglia
da proteggere.
O un uomo o una donna moderna, ciò che per esempio è molto forte coi rifugiati palestinesi, o anche in alcune
contraddizioni molto forti del contesto italiano.
Si diventa rifugiati perché c'è un incontro con istituzioni di altre culture che danno quel riconoscimento, che
riconoscono alcuni aspetti ma che molto spesso rischiano di negare anche altre forme. Riconoscimento sociale
distorto.
E' chiaro che siamo di fronte ad un contesto più generale, ma soprattutto voi nelle prossime lezioni avrete degli sguardi
più precisi sulla storia giuridica, sui vari trattati, che hanno a che fare molto con quello che è un processo di
destrutturazione e di cambiamento della figura del rifugiato, a partire dalla Convenzione di Ginevra.
Sicuramente c'è un passaggio generale culturale da un'idea di protezione dei rifugiati a un'idea di protezione dai
rifugiati. Questo è molto evidente a livello Europeo, anche in tanti altri contesti a sud del Mondo, con masse di rifugiati
molto più ampie di quelle che vive la cosiddetta “Fortezza Europa” […], in questo caso i vari adattamenti e
interpretazioni nazionali delle politiche europee, dai rifugiati. In termini simbolici e in termini materiali: vediamo anche
lo scivolamento italiano, solo nell'ultimo anno, da campi di detenzione che sono già spazi di eccezione particolari, a
isole (Lampedusa), a barche adesso, che diventano spazi di contenimento dell'umanità in eccesso.
Certo, nell'emergenza, ma con questa ambivalenza – un'altra parola che caratterizza molto spesso certe dinamiche
della vita sociale dei rifugiati nell'incontro – e la liminalità – un concetto socio-antropologico – che è essere in uno
stato transitorio, per un periodo molto pervasivo e continuativo.
Si diventa rifugiati anche in relazione al mondo dell'assistenza. Vorrei farvi l'esempio palestinese non solo per le
similarità, ma anche poi per vedere qualche esempio italiano.
Per la relazione asimmetrica dell'aiuto che spesso impone e porta a rapporti di manipolazione reciproca, che portano a
culturalizzare l'altro – i nigeriani fanno così chissà perché, i marocchini fanno cosà per quest'altre ragioni – per cercare
di spiegarsi progetti di inserimento che non coincidono con le aspirazioni, tutte volenterose, di diversi organismi,
soprattutto in Italia.
L'Italia è molto specifica su questo, delega a realtà territoriali, associative, la Chiesa, che non a caso hanno sostituito
ciò che in altri contesti è stato maggiormente preso in mano dallo Stato nazionale.
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Si diventa rifugiati quindi anche in relazione ai contesti di assistenza in generale, senza fare di tutta l'erba un fascio, ma
in rapporti – per esempio su Milano – che vengono vissuti anche come rapporti di violenza, di disconoscimento, di
perpetuazione di un senso di spaesamento, di dipendenza, nonostante i percorsi dovrebbero essere diversi.
Una cosa è il riconoscimento dello status, che certamente rimane un elemento politico importante e altrettanto
costruito.
Noi vedevamo su Milano come i curdi, in un certo periodo, fossero costruiti e definiti più facilmente come rifugiati per
essere ricostruiti tutto a un tratto e incontrare incredibili difficoltà.
E da sempre il riconoscimento del rifugio è stato anche un gioco politico in base agli stati da cui venivano. Caso classico
durante la Guerra fredda: si riconoscevano gli esuli che provenivano dal blocco sovietico ma altrettanto non valeva
all'interno del blocco occidentale. Sono scelte, spesso anche politiche, degli Stati nazionali.
Tre processi vorrei vedere insieme a voi, cioè tre dinamiche in generale, per riuscire a ribaltare certe nostre categorie –
non è il mio compito – ma riuscire a porci delle questioni.
Uno è quello classico della letteratura, che ha cercato di studiare anche in termini etnografici i contesti d'incontro in cui
si è costruita la figura del rifugiato nel sud del mondo ma con dinamiche similari al contesto europeo.
Processi di infantilizzazione e passivizzazione dell'altro, bisogna capire cosa vuol dire, i processi di etichettamento e di
categorizzazione, che assumono una vita sociale a sé, molto spesso, nella vita pratica, nelle politiche, nei contesti
amministrativi.
E le forme di localizzazione, cioè come pensiamo gli altri che devono essere localizzati, assistiti, curati eventualmente,
che ha avuto certe dimensioni in contesti di grandi spostamenti di massa – il caso palestinese è un caso esemplare –
con una fortissima ambivalenza tra dover essere localizzati e cercare invece sempre di muoversi.
Sono tre ambivalenze: essere infantilizzati molto spesso – lasciamola così, banale – ma allo stesso tempo essere inseriti
in percorsi di autonomia e di protezione e di riconoscimento, allo stesso tempo sentirsi irriconosciuti nelle proprie
specificità storiche, culturali, strategie familiari, competenze, capacità, reti di auto aiuto, reti di solidarietà – sono tante
parole che l'antropologia usa ma hanno anche un senso comune – cioè la propria capacità di far fronte a partire dai
propri codici culturali.
Ad esempio l'idea di famiglia: un elemento che più si scontra e che vediamo spesso tornare, sono le diverse idee di
famiglia, che chi assiste a diversi livelli – politica, amministrazione, centri di assistenza – e dei rifugiati che portano.
Parte di idee di famiglia completamente diverse, non irriducibilmente diverse, non contrastanti, ma semplicemente
non ci si riconosce.
Ecco, l'ambivalenza tra autonomia ed essere passivizzato, un'ambivalenza tra essere localizzato in diverse forme e
cercare spesso la mobilità per diverse ragioni.
Questa è una dinamica storica, di tutto l'ultimo secolo, a partire dai palestinesi fino ad arrivare al contesto milanese
che abbiamo visto, essere categorizzati e voler essere invece riconosciuti sotto altre dimensioni. Reimmettere nella
storia, nella specificità.
Da un punto di vista socioculturale, non usare la categoria di rifugiati per capire, la più omogeneizzante e unificante
che ci sia, per la sua importanza giuridico-politica, ma non è una chiave di comprensione della diversità enorme dei
processi di fuga, tanto più oggi.
In altre parole, parlare di rifugiati è parlare soprattutto a noi, cioè alle nostre categorie con cui leggiamo gli altri.
Un testo che vi consiglio per chi ha voglia di leggere qualcosa è della mia connazionale Saskia Sassen, che ha scritto un
testo storico: “Migranti, coloni, rifugiati. Dalle migrazioni di massa alla fortezza Europa”. Un testo edito nel '99 (prima
edizione),
Feltrinelli.
Riassumo solo alcuni punti che possono essere utili. Innanzitutto mostra come da sempre si fugga ma i rifugiati siano
una conseguenza dell'ordine nazionale, non un'invasione patologica dell'ordine nazionale.
E in seguito al rafforzamento, addensamento e crescere dei confini nazionali ed essere solo in quanto appartenenza
nazionale che d'un tratto si formano popolazioni in esubero.
I rifugiati inizialmente erano, a fine 1700, i protestanti della Francia che scappavano, erano solo loro.
Il mio stesso nome, per esempio, Van Aken, è da Aquisgrana, protestanti in Germania – da Aken – che scappavano
verso il nord, e anche loro potevano essere riconosciuti come rifugiati.
Gli stranieri e i rifugiati nascono assieme. Ogni cultura ha sempre costruito la figura dello straniero. I rifugiati nascono
con lo Stato nazionale, sono una costruzione degli Stati nazionali per come vengono identificati oggi.
Innanzitutto con il Primo conflitto mondiale dove grandi massi tutto a un tratto non appartengono più, non ci sono
spazi politicamente vuoti, in cui non si appartiene più a uno Stato nazionale.
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Infatti è da allora che nasce un primo mandato, rafforzato poi soprattutto dopo il Secondo Conflitto Mondiale, un
primo mandato occidentale per la protezione dei rifugiati.
E' la sovranità nazionale che provoca la costruzione e la necessaria identificazione di queste masse che non
appartengono più, quindi possono essere riconosciute e protette come rifugiati.
Quindi la storia – e qui cito la Sassen – delle migrazioni di massa, tra cui le migrazioni forzate e il fuggire, è il rovescio
della storia degli Stati, è intimamente relazionata, non è l'invasione agli Stati.
Questo lei lo mostra molto bene in termini storici proprio a partire dalla storia europea, anche a partire dalla storia
italiana.
Provate a pensare quanti uomini si muovevano in Veneto a fine '800, sulla percentuale della popolazione. Un'idea di
percentuale?
Erano il 40%, in un'epoca a cui noi conferiremmo un'idea del passato, un'idea di sedentarietà, per come leggiamo certe
realtà oggi, il 40% della popolazione maschile si muoveva. Per diverse ragioni, forzate o meno, ma soprattutto
artigianato, le vendemmie, i lavori stagionali, il commercio, ma era obbligata a muoversi per diverse ragioni.
E' in questo ambiente culturale, nel leggere che cos'è una cultura e che cos'è un'appartenenza nazionale, in cui
nascono i rifugiati.
Cinque anni fa i clandestini statunitensi, soprattutto di origine messicana, fecero una delle manifestazioni, dicendo
“non siamo noi che abbiamo attraversato i confini, sono i confini che ci hanno attraversato”.
Ecco, loro, in termini in quel caso di mobilitazione politica, dicevano la stessa cosa che dice Saskia Sassen in questo
testo: siamo conseguenza della costruzione nazionale e anche dei processi economici.
Tre punti lei dimostra: innanzitutto le migrazioni forzate, da cui poco a poco uscirà la figura del rifugiato, sono sempre
limitate nel tempo, nel numero e nello spazio.
Chiaramente quando lei scriveva questo testo voleva rompere certi stereotipi con cui già all'epoca, nel '99, si costruiva
l'idea di “fortezza Europa” rispetto a un'invasione sempre più massiccia, tanto più invasione di rifugiati.
Mi ricordo Pisano che diceva “4 milioni di rifugiati – non diceva migranti – in Libia, tutt'altra rispetto a oggi, che
attendono ...”. L'idea emergenziale, altro aspetto che dobbiamo vedere nel momento in cui si costruiscono i rifugiati,
ma anche l'idea del perché il rifugiato d'un tratto faceva sempre più paura, perché è quello che più si avvicina all'idea
di privilegio di cittadinanza nazionale, rispetto invece allo status di migrante regolare, che è molto più labile, dipende
dal lavoro, dalla residenza, tutta una serie di altre cose, è più difficile.
Quello di rifugiato, sembra quello più vicino, sembra un gran privilegio che ad un tratto va accordato.
Le migrazioni sono sempre limitate nel tempo, nel numero, nello spazio. Le migrazioni forzate anche, e si sono
mostrare nella storia europea di un secolo, funzionali al sistema economico e di espansione economica capitalistica dei
paesi di destinazione.
Anche qui rompe con la classica idea della patologia, dell'invasività, dell'anomalia che viene da fuori, della disperazione
del sud che … che “poveretti, dobbiamo aiutarli noi”.
Terzo punto, le migrazioni (forzate, anche) interessano una piccola parte della popolazione d'origine. Questo è visibile
in tantissimi contesti.
E' stata una costruzione storica quella della definizione di rifugiato, che vedrete molto meglio tanto più perché io non
ho le competenze giuridiche per entrare in certi aspetti, o quelle per mostrare come quella figura di rifugiato che viene
a costruirsi con la Convenzione di Ginevra del 28 luglio del 1951, sia stata un elemento necessario per riconoscere da
qualche parte – proteggere – una massa in esubero, proprio nel termine più metaforico, che eccedeva le costruzioni
nazionali nuove dal Secondo Conflitto Mondiale. Non apparteneva più.
E' basata su un'impostazione però occidentale, tanto più nelle pratiche applicative – questo l'ho visto molto in Medio
Oriente – di cosa sia un uomo, una donna, una famiglia – con le conseguenze pratiche poi – e soprattutto ha avuto
molte difficoltà, inevitabilmente, per il mutarsi delle forme di violenza delle dinamiche di fuga che si sono create in
tanti contesti del Sud, pensiamo ai Balcani, a partire per esempio dagli sfollati interni, ma su tante altre dimensioni.
Complicate, diversificate le ragioni di fuga e le modalità della fuga e la gestione della violenza da parte degli Stati
nazionali stessi.
A partire dagli anni '80 e '90 è evidente che c'è una destrutturazione in Europa – ma non solo in Europa – del sistema di
protezione a diversi livelli. Si cerca di essere sempre meno appetibili al rifugio, tanto in Europa quanto nel Sud Italia,
tanto più che in Italia manca ancora una legge organica: in contesti in cui non si è ancora strutturato qualcosa, si è
iniziato già a destrutturarlo. La protezione dai rifugiati è molto evidente in termini più ampi.
E soprattutto si è passati da forme iniziali – proprio già dagli anni '20 – di riconoscimenti dei rifugiati in termini di
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comunità etnico-nazionali, gruppi che potevano essere riconosciuti come tali, oggi sempre più a casi atomizzati, molto
spesso, individualizzati, riconoscibili come problema locale. O a togliere completamente la sua dimensione più ampia,
storico, politica – per esempio la protezione umanitaria ha fatto questo effetto “facciamo entrare, sblocchiamo
qualcosa” per poi tramutarsi in lavoratori irregolari, cioè l'idea che poi si integrano nell'economia eventualmente.
C'è una depoliticizzazione, tendenzialmente, e soprattutto un tentativo di limitare al massimo qualcosa che viene visto
sempre più come minaccioso e invasivo.
Infatti due sono le proiezioni principali, anche storiche, sui rifugiati, che vorrei vedere insieme a voi.
Una è quella dell'imbroglione – cito Pisanu – ma è tornata molto spesso in contesti, quando sentiamo parlare di
rifugiati, nei contesti emergenziali. In centro la casa occupata, lo stabile dismesso occupato, contesti stagionali: il
freddo che arriva, dove dormono i richiedenti asilo? A Milano è stagionale. Arriva l'inverno, tutto a un tratto emerge la
figura sui media, ed emerge come figura emergenziale, quindi sempre qualcosa di invasivo, patologico. Non si riesce a
viverlo come strutturale, in una dimensione globale in cui per esempio Milano è già inserita.
O è imbroglione, o è la vittima universale. Ecco, vorrei ragionare un attimo attorno a questo elemento che ha una
lunga storia.
E' vittima – e questo sta anche nella Convenzione di Ginevra l'idea che debba essere vittima per tutta una serie di
motivi, e quindi debba essere protetto.
Ma vorrei vedere le implicazioni che ha quest'idea di vittima e anche di “altri”, soprattutto “altri” del Sud del mondo,
dove attiviamo spesso – anche le scienze sociali e le politiche nazionali l'han fatto – due idee di cultura degli altri.
Cioè un'idea funzionalista della cultura – gli altri si portano una cultura-contenitore – e un'idea evoluzionistica della
cultura.
Innanzitutto, o c'è un ordine vittimale dell'altro. L'altro è riprodotto in quanto vittima, ma vittima universale
[mancante-rumore] quanto anche nelle pratiche quotidiane e nelle politiche nazionali.
E perché è vittima universale? In quanto è sradicato dal proprio luogo d'origine (Stato nazionale) con un'idea alla base
per cui la cultura è naturalmente – non storicamente, politicamente, socialmente – radicata a un luogo.
Questo ha due conseguenze – studiate nel contesto degli aiuti umanitari nel Sud del mondo e oggi anche in Europa, ed
è il fatto che se la normalità è quella che un'antropologa – si chiama Lissa Marvin (?) - che ha ricostruito la storia
culturale, com'è stato costruita socialmente e culturalmente la figura del rifugiato, a partire dal sud del Mondo,
guardando anche all'Europa.
Lei dice “diamo come normale una metafisica sedentaria”, il fatto che la sedentarietà – la coincidenza di luogo e
territorio – normale negli Stati nazionali per come sono composti oggi, per cui la cultura è qualcosa di radicato
culturalmente, coincidente col luogo.
Per cui perdere il proprio luogo, essere forzati a sradicarsi – molto spesso sentite la metafora della radice, che ha
chiaramente una valenza etica e metaforica, cioè l'idea dello strappo, del trauma, questioni anche molto serie nel
contesto dei rifugiati – perdere radici è come perdere cultura. E scappare è qualcosa di patologico, è l'anomalia, è disordine, rispetto a un ordine sedentario dove la cultura sta nel suo posto naturale come radice.
E' una metafora arborea che utilizziamo senza esserne consapevoli, per cui tolta quell'identità naturale però, il resto è
sovversivo, il resto è patologico.
Perché metto in risalto questo aspetto che in realtà influenza molto il paradigma culturale con cui spesso guardiamo i
rifugiati, ancor più in contesti applicativi anche nel sud del mondo, a partire dalle agenzie internazionali.
E' che se loro han perso tutto, loro non hanno cultura, non hanno storie, non hanno eterogeneità, non hanno
divergenze, non hanno contraddizioni.
Si attiva quel processo che è uno dei processi cardine – studiato dagli antropologi, messo sull'agenda in modo molto
forte – che è quello di categorizzare gli altri, di educare gli altri, non tenendo conto delle proprie idee di famiglia, delle
proprie reti di supporto in contesti di emergenza e di fuga, delle proprie idee di genere – donna, uomo, famiglia -, dei
propri sistemi valoriali, che sono già spesso molto attivi e sono le risorse principali.
Il paradosso che si riproduce molto spesso e che ricongiunge le piccole esperienze palestinesi con le piccole esperienze
milanesi è che gli “altri” aiutati, spesso, per una molteplicità di ragioni, vengono passivizzati, vengono tolti della loro
umanità nel senso di come la costruiscono, tanto più in un momento di fortissimo cambiamento.
Dal traumatico, allo spaesamento nel nuovo luogo, esautorati dall'avere forme di appartenenza, capacità di definire i
propri bisogni, per diverse ragioni, non tutte volontarie chiaramente.
Il rifugiato, in altre parole, diventa una vittima universale, diventa una categoria, diventa una umanità, diventa una
cultura.
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Anche nei testi politici spesso si parla di una categoria accomunata da questo elemento universale, tanto universale
però da astrarre, da non riconoscere le storicità, dimensioni politiche, da dove arrivano ma anche dove sono arrivati
(Italia, Milano tra i riferimenti che vi vorrei fare).
Il rifugiato quindi diventa una condizione essenziale, fuori però dalla storia, così universale da non aver bisogno di
chiedere, che molto spesso però è il primo passo per astrarre chi abbiamo di fronte, in termini di politica, in termini di
contesti anche di assistenza tanto più grandi sono, per non porsi la questione che c'è un incontro anche culturale, che
ci sono nostre proiezioni che possono essere viste – nei contesti che abbiamo visto anche a Milano – come
profondamente violente.
Non riconoscersi, vivere spaesati, in alienazione, cercare di fuggire dall'assistenza, per arrivare ai casi più estremi ma
molto diffusi come abbiamo visto su Milano.
Vorrei farvi qualche esempio palestinese poi torniamo su Milano.
Così scriveva la Croce Rossa nel '48 di fronte ai palestinesi in fuga – 800mila più o meno – “è necessario considerare la
missione presso gli arabi non solo come un'azione di soccorso immediato, ma anche come un'azione educativa; si
tratta di servirsi dell'esilio di queste migliaia di arabi ignoranti per insegnare loro le basi della pulizia, dell'igiene,
dell'educazione dei bambini, del senso civico”.
E' evidente che qui siamo all'interno della stereotipia coloniale: chi lavorava nella Croce Rossa, si adoperò per
assistenza iniziale ai rifugiati palestinesi, prima che si attivò una agenzia delle Nazioni Unite, che era la prima agenzia
delle Nazioni Unite che si attivava per dei rifugiati che non erano europei.
Nacque l'Alto Commissariato nel '50, la Convenzione di Ginevra nel '51, questi palestinesi non coincidevano per tante
ragioni – anche storiche che qui non stiamo a guardare – ma chi lavorava in queste agenzie veniva dalle
amministrazioni coloniali e portava con sé, col proprio corpo, anche tutta una serie di stereotipie, ma di elementi che
hanno avuto, e un'idea di cultura evoluzionista, nel senso aiutare l'altro non può essere altro che essere aiutare a
uscire dalla propria dimensione culturale, quella del “non”, “non moderno” in questo caso, non igiene, non educazione
ai bambini, non senso civico.
“Servirsi dell'esilio” per fare quell'operazione pedagogica che si tramuta in assistenza nel momento in cui abbiamo di
fronte solo vittime universali, non concrete, non donne uomini, con idee di donne, uomini, con idee di famiglia,
assistenza, e forse certe e tante idee molto più …
Dico questo perché, tornando a Milano, l'assistenza in certi centri per rifugiati, viene vista come una grande madre che
deve educare le rifugiate ad essere brave donne – e soprattutto madri – moderne.
Non è pura continuità, è iniziare a leggere la storia degli altri, le loro dimensioni, le loro fughe, ma vedere anche la
nostra storia e ciò che si riproduce ancora oggi da concetti evoluzionistici della cultura che sono molto attivi, con i quali
si comprende ancora il mondo e gli altri.
Giusto un passaggio, in un contesto in cui si definivano i palestinesi nel '48, e vi ho portato un esempio di come anche
qui, tutto a un tratto, ho visto le stesse forme di passivizzazione dell'altro.
E quindi si va a vedere come la costruzione sociale e culturale dei rifugiati sia anche una costruzione di genere, di cosa
deve diventare un uomo o una donna.
Raramente ci si pone la questione di cosa ne pensano loro, questi “tanti altri”, accomunati dalla categoria dei rifugiati,
ma senza chiedersi quali sono le loro reti di protezione, le loro forme di riconoscimento …
Alcuni esempi palestinesi: è un caso esemplare, abbiamo 4 milioni di rifugiati, tantissimi campi. Ecco, la storia dei
campi, che dal sud del mondo, i palestinesi sono grandi esperti di campi, come tante altre popolazioni del sud del
mondo, ecco i campi come tecnica di controllo e di localizzazione li troviamo oggi, in forme rimaneggiate, a casa
nostra.
Spazi di contenimento, spazi liminali, in cui non si sa quanto ci si sta, inosservabili, il massimo della non-trasparenza,
ma questi campi hanno una storia antica, una storia coloniale, riattivata poi con le prime grandi masse di rifugiati nel
sud del mondo in cui i campi diventano la tecnica principale – nasce come tecnica militare – di contenimento di “altri”
in esubero, a partire dall'Africa, ma anche in Sudamerica, cioè il campo come luogo dei rifugiati.
Come luogo provvisorio che si fa temporaneo, ecco l'ambivalenza di cui bisogna sempre tener conto.
Tenendo conto che molti rifugiati che arrivano qui hanno un'esperienza dell'umanitario già decennale. Nel senso, sono
molto più esperti penso degli esperti nostri, esperti pratici, della vita pratica e di relazione.
Un richiedente asilo a Milano aveva lavorato per 4 anni nell'ACNUR in Somalia. Questo è il massimo dell'expertise, si
era ritrovato lui stesso dall'altra sponda.
Se sono vittime universali – questo è il caso classico dei palestinesi – sono stati sradicati, sono vittime universali, si
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sono poste forme di categorizzazione su cui si è basata l'assistenza – protratta per 60 anni, stiamo parlando di un caso
eccezionale, ce ne sono tanti altri, ma che cosa permette? Uno scivoloso paradigma vittimale rispetto agli altri.
L'intervento pedagogico – non relazionale non riflessivo – sugli altri, e anche controllo, rendere l'altro oggetto, di cui vi
leggevo Farah “siamo diventati una statistica”.
Dalla statistica si definiscono i bisogni, dove tu devi stare, come devi essere, fino ad arrivare a “come devi essere una
brava mamma”. Sei come un bambino da integrare nella nuova cultura perché hai perso la tua.
Qualunque siano le cause, i contesti divergenti, poliglotti, cosmopoliti di chi viene dalla migrazione forzata, è già attiva
dimensione culturale nella fuga.
Anzi, le porta – come hanno fatto i palestinesi – nelle valigie con sé. E si possono portare tante cose nelle valigie.
L'invito qui è di uscire da visioni universali e da strumenti universalistici astratti per comprendere la vita dei rifugiati,
ma andare ai particolari – non sto parlando di individualismo – ma riconoscere eterogeneità e porsi delle questioni di
“chi siete”, quali sono le vostre risorse, conoscersi, come una famiglia che si attiva e che si riattiva in un contesto di
rifugio.
L'idea vittimale è esattamente speculare a quella dello stereotipo negativo dell'imbroglione.
Sono due astrazioni, chiaramente molto diverse, ma sono due stereotipi che si possono attivare, e appunto perché
dicotomici, parlano assieme; tutti e due portano ad astrarre l'altro, uno attraverso una percezione idealizzante positiva,
l'altra invece negativa repellente “siete imbroglioni”. Imbroglioni perché – soprattutto in Europa – nella restrizione
della protezione ai rifugiati si va a cercare chi in realtà sta entrando senza essere un rifugiato, toccando un problema
sociale in realtà molto ampio che è quello di come gli Stati nazionali hanno difficoltà a non cogliere la non invasività di
per sé di processi di mobilità più in generale.
Alcuni esempi di come tra i palestinesi, nella relazione di rifugiati, si può costruire socialmente e culturalmente il
rifugiato. Facciamo un esempio: il rifugiato è una costruzione di genere. I rifugiati palestinesi sono rifugiati da quattro
generazioni ormai.
Molto spesso temporaneamente in campi di rifugiati, che sono diventati città, spesso segregate, a volte no, per quattro
generazioni.
Voglio solo mettervi in risalto che spesso il luogo di provenienza di rifugiati che arrivano a casa nostra, che arrivano
anche da esperienze già assidue con l'umanitario e con il linguaggio di protezione dei rifugiati.
C'è un'ereditarietà dello status. Se io, Abu Ahmed, mi sposo insieme a Nabila, e io ho il riconoscimento di rifugiato,
Nabila no, ma non perché non sia fuggita, ma perché all'epoca non era rientrate nelle clausole – per esempio nel '48,
nel '67 – la possibilità di essere riconosciuti come rifugiati – sono altrettanto complesse dei trattati di Shengen e
Dublino, molto più complesse – ma se io sposo Nabila, i nostri figli ereditano da me in via patrilineare – dice
l'antropologia – tutta costruita socialmente, questo all'interno dell'Agenzia delle Nazioni Unite, ereditano lo status. Il
contrario non vale.
Se Nabila, che è una rifugiata, che può avere assistenza in ospedale, che può mandare i figli alla scuola dell'UNWA,
sposa un palestinese fuggito anche lui ma senza riconoscimento, i figli non possono ereditare lo status.
Una persona potrebbe dire “perché si sono adattati alle tradizioni locali”. In realtà è stata tutta una proiezione, tutta
implicita, tutta culturale, in quel caso dell'organismo delle Nazioni Unite, della visione patrilineare di ereditarietà di
uno status.
Posso dire che questa ha scombussolato, ha determinato la vita sociale, i matrimoni, di tantissima parte della
popolazione dei rifugiati, perché la possibilità di avere uno status per i propri figli è un elemento centrale, tanto più per
la formazione nelle scuole.
Quindi evitare i matrimoni. Si vede come si costruisce la vita a partire da un costrutto giuridico che sembra naturale,
ma che diventa l'incontro tra un'idea – in questo caso delle Nazioni Unite, soprattutto dell'Inghilterra e degli Stati Uniti
– e altre culture locali che però si relazionano: si diventa rifugiati, ma si diventa in modalità specifiche.
Un altro esempio poi torniamo in Italia. Una famiglia – sappiamo che i palestinesi hanno una media di 6 figli – se ha figli
maggiorenni in casa che non lavorano – che è il 95% dei casi in contesti come la Giordania, i territori occupati,
figuriamoci Gaza – se sono in famiglia i genitori non possono più ricevere nessun beneficio, tanto più anche in
condizioni di extreme poverty perché ci sono dei progetti speciali. Questo ha provocato un'incredibile spinta a
matrimoni precocissimi, che venivano imputati alla tradizione orientale di matrimoni precoci. In realtà sono tutti
indotti da pratiche burocratiche. Dover uscire di casa, anche in modo nascosto, per riuscire a mantenere l'assistenza, le
razioni di cibo e tanti altri servizi, per i genitori.
Stavo dicendo come si può intersecare la vita di un riconoscimento giuridico specifico – non qui a Torino, a Milano –
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ma di come altri vivono già queste altre relazioni con l'assistenza in modo protratto. O storiche sono. Ecco qui
l'ambivalenza che è tornata molto forte nel contesto italiano, l'idea per cui i rifugiati – nel '48 fino ad arrivare al 2000 –
dovessero essere localizzati, fermi, campi di rifugiati.
Appena escono, in tanti contesti, in Siria, in Libano prima, ghettizzati. Ma ciò che faceva impazzire per esempio nel '48
fino agli anni '70 era che i rifugiati si muovevano tra campi diversi per cercare di ottenere tessere diverse ed utilizzare
razioni. Andavano in un campo con due bambini, in un altro campo con altri tre, o con un altro nome, per imbrogliare.
Ecco l'imbroglio, ma non un imbroglio per il gusto di farlo, no, erano classiche strategie economiche per cavarsela, per
riutilizzare le risorse dell'aiuto, per avere soldi da investire sugli elementi che si ritenevano importanti per la propria
ricostruzione minima dell'autonomia famigliare.
In questo caso famigliare era lignaggio. O famiglia estesa. Sono per avere un'altra idea di famiglia, semplicemente un
po' più articolata, diffusa, numerosa.
Da lì continua e persevera per sessant'anni l'idea che i rifugiati imbroglino l'aiuto umanitario, tanto che è diventato
strutturale in alcuni contesti.
Ma questo perché si attiva la costruzione dell'ignoranza. Cioè nei contesti in cui si vuol sapere molto, si fanno
statistiche, si diventa una statistica dell'ACNUR, si fanno survey, ma al contempo si continua ad astrarre e ignorare
l'altro, nelle proprie specificità, strategie del rischio, modi di affrontare a livello economico, tanto più negli anni, una
situazione di vulnerabilità e di rifugio in un altro contesto.
Molti rifugiati sono stati tradotti, categorizzati, hanno mantenuto lo status ma in realtà sono stati categorizzati da tutta
una serie di agenzie, come agricoltori. Da sedentarizzare come agricoltori, il cui problema principale era quello delle
semenze e dell'acqua. Il problema del rifugio viene tradotto in un problema agronomico. Il problema politico, la
questione dei rifugiati in quel contesto sul confine, viene tradotto semanticamente – cosa gli si da – in gente astratta
che deve diventare una comunità di agricoltori moderni.
Processo pedagogico, di depoliticizzazione di contesti, avversato da parte dei rifugiati ma che ha avuto una sua
efficacia nell'attivare altre costruzioni sociali e politiche.
I processi di categorizzazione, che viviamo tutti anche qui a casa nostra quando ci chiamano “clienti”, “consumatori” o
“cittadini”.
La questione per cui diventa un elemento molto importante, tanto più nel categorizzare i rifugiati, o altre categorie
interne che alcuni di voi conoscono molto meglio. Non a caso un'ampia categoria, dall'umanitario, alla protezione, si
sta diversificando e precarizzando la figura del rifugiato, è che questi processi di categorizzazione hanno un grande
rischio di astrarre ma espropriano allo stesso tempo la possibilità degli altri di definire i loro bisogni – processo classico
anche nei contesti di modernizzazione – per cui i rifugiati nel sud del mondo sono stati molto spesso tradotti in un
problema di sviluppo.
Tutta la storia dei campi – anni '60 e '70 in grossa parte dell'Africa – era i rifugiati con irrigazione a agricoltura intensiva.
Questo era il modo di traslare la questione. Si depoliticizzava completamente. I processi di etichettamento astraggono
la possibilità dell'altro di definire culturalmente i propri problemi e i propri bisogni. Tanto più è forte la simmetria tra
chi può nominare gli altri, giuridicamente ma anche socialmente, chi può definire l'altro rifugiato o non rifugiato. Nel
caso dei palestinesi “rifugiati? no, siete agricoltori, da modernizzare”. Spesso le categorie raccontano più di chi
categorizza che del categorizzato. Raccontano di più del mondo culturale da cui provengono, piuttosto che gli aspetti
sociali, culturali e storici di chi è stato categorizzato.
Quindi attenzione a usare quelle categorie per una comprensione altra della realtà sociale.
Nascono in pratiche burocratico-giuridiche ma la loro vita sociale è completamente diversa.
Che cosa ricordano poi i palestinesi quando pensano qual è stato l'aiuto? Non ricordano l'Agenzia delle Nazioni Unite.
Per loro quello non rientra nell'aiuto intimo, vicino, qualcosa di quotidiano. Parlano per esempio del diwan, di
un'istituzione politica, che hanno portato con sé nella valigia. Istituzione dell'ospitalità.
Quando nel '67, c'erano già rifugiati nella valle del Giordano, arrivano nuovi dislocati in seguito all'occupazione della
Cisgiordania, ricordano che in mezzo alla neve accolsero e organizzarono i diwan, tende o case in quel contesto, per
ospitare donne e bambini.
E da lì partono tutta una serie di memorie dell'aiuto articolate secondo proprie risorse, propri linguaggi, secondo una
propria istituzione politica – tribù o lignaggio, che è una cosa seria, non è un termine orientalista, come altre istituzioni
di tante altre culture compresa la nostra. E' una forma ritualizzata, è un “sapersi sedere bene”, molto complesso.
Ricordate questo perché poi è successo qualcosa a Milano che mi ha molto colpito.
E' un luogo di riconoscimento, di protezione, e molto spesso è di protezione dello sconosciuto, del fuggitivo. E' stata
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un'articolazione delle storie del luogo di rifugio, un'altra forma di aiuti umanitari che i rifugiati hanno attivato. E'
successo che proprio questa istituzione è stata la più avversata, o irriconosciuta dall'aiuto umanitario, o avversata dallo
Stato ospitante. Perché era un'altra identità, perché non era controllabile.
La risorsa principale di auto aiuto, di ricostruzione di autonomia, intimità del sé per come viene articolata in una
cultura, era quella più avversata, più negata da parte degli aiuti umanitari. Delle risorse nella fuga, nell'emergenza, la
modalità di auto scambio, di auto aiuto, non era riconosciuta dall'aiuto stesso istituzionale. Questo è un paradosso che
si riproduce molto spesso anche in altre forme, che ritroviamo anche in Italia.
C'è un antropologo che ha creato un concetto molto utile, che è “sito culturale”: tanto più in contesti di mobilità e di
fuga, questi diwan che attivano un modo molto complicato, articolato di sedersi, stare assieme tra uomini, donne, tra
gerarchie, tra autorità, tra bambini, in cui si investono molti soldi, si investe tempo nelle relazioni sociali, in cui c'è un
tempo molto prolungato tra la parola, il saluto, dell'offerta … insomma, un rituale altamente complesso, ci si mette
tempo ad imparare a sedersi in contesti del genere.
Sono siti culturali, cioè luoghi deteritorializzati, dislocati, ma di forte identificazione, che si riattivano non a caso anche
nei nostri contesti metropolitani italiani, la capacità di costruire un proprio spazio che possa includere tanti altri,
costruire la propria intimità.
Ho posto questi elementi che vengono dalla storia, su cui c'è anche molta letteratura, non dico quella palestinese, ma
di attenzione a contesti cosmopoliti, molto dinamici, molto coerenti del rifugio nel resto del mondo e dell'incontro
degli aiuti umanitari.
E' perché si riproducono alcune ambivalenze.
Innanzitutto, una delle cose che mi colpì, in un centro di accoglienza milanese per famiglie, ricordate che le famiglie
che arrivano richiedenti asilo o rifugiate – quindi con riconoscimento già avvenuto, sapete che non è né automatico né
il tempo è regolabile – le famiglie rispetto all'assistenza vengono divise. Una famiglia può essere riuscita a viaggiare per
un anno, due anni, come famiglia, e viene divisa al momento dell'assistenza. Uomini da una parte, donne con bambini
dall'altra. Evidentemente ci sono anche situazioni pratiche, applicative, pochi soldi, finanziamenti, tantissime storie che
hanno a che fare con la contingenza, ma ci sono anche delle stranezze. Questo elemento è quello più avversato e visto
come alienante, che provoca il cercare di andarsene dall'assistenza nella vulnerabilità.
E in questo centro, per dire, uno dei problemi principali che mi poneva una delle responsabili, a Milano, era che queste
donne avevano deturpato il divano che nuovo che erano riusciti ad acquistare, perché non sapevano sedersi sul
divano.
Io chiedevo cosa voleva dire, già intuivo. Perché si sedevano coi piedi sopra, senza scarpe, in realtà con tantissime
pratiche, ma non si sedevano come dovrebbero sedersi delle “donne normali”. Allora, chiaro che siamo nel campo
della piccola sterotipia, ma era ciò che loro poi, parlando dei problemi quotidiani, della vita sociale di un centro di
accoglienza, trovavano e avevano avversato e su cui si erano costruite anche molte incomprensioni, proprio perché si
riteneva che non sapessero sedersi bene.
Donne che venivano per lo più dal Corno d'Africa dove sapersi sedere è una cosa abbastanza importante,
tendenzialmente più elaborata di quella che conosciamo noi, è il tempo della seduta con l'altro.
Sedersi su una sedia, ma soprattutto per terra, su un divano, su dei cuscini, ha una complessità corporea, di linguaggio,
di investimento, di costruzione di intimità che storicamente è rimasta più complessa, o diciamo altra, rispetto alla
nostra breve seduta.
Per molti palestinesi è molto più intenso sedersi rispetto a noi. Per chi deve imparare è un gran lavoro: sedersi, stare
assieme, stare tra donne e bambini.
“Non sapevano sedersi”, per dare un'idea di sterotipie e di proiezioni sull'altro, tra cui quella per cui, in diversi centri, si
presentava l'attività alle donne e ai bambini come una “grande madre” proprio perché riscontravano, non solo
diversità, delle difficoltà ad essere delle brave madri.
E' ovvio che in qualsiasi contesto di cambiamento qualsiasi madre può avere delle difficoltà, soprattutto a casa nostra.
Ma c'era una stereotipia di antica storica coloniale, di proiezione di come dev'essere una donna e una madre moderna
su tutta una serie di pratiche. Dal pulire, al gestire, al come allattare, che spesso venivano viste profondamente
invasive.
La base nella costruzione stereotipata una dell'altro, un'offesa da parte di generazioni di donne che più di qualche figlio
avevano avuto.
Seconda ambivalenza, nel contesto italiano, quella per cui i rifugiati vengono costruiti in modo emergenziale. In cui
l'emergenza è strutturale ma strutturante nel momento stesso in cui si reagisce. Per esempio l'emergenza stagionale,
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arriva l'inverno e tutto a un tratto emergono rifugiati come questione, perché sono squatter, clandestini che dormono,
illegali che occupano, non in quanto “altro”, diventando quindi emergenza di pubblica sicurezza, di illegalità nel centro
e via dicendo.
Modi in cui poi, non solo nel senso comune, ma anche nelle forme politiche, e molto spesso anche nel nostro modo di
essere, non dico complici, ma vicini a queste percezioni. Perché emergono, non si vivono come elemento strutturante
della nostra realtà sociale, come di fatto sono. A Milano c'è una comunità etiope, eritrea, somala, da decenni, di
rifugiati.
Anche curda, per esempio. E potrei continuare.
E mentre continuo, le forme di categorizzazione che utilizziamo nel nostro senso pratico, mondano, sono di rifugiati
come categoria unica. Quando abbiamo di fronte, nella vita sociale, una molteplicità di ragioni, di modalità di
esprimere la sofferenza, di modalità di percepire il proprio corpo rispetto a torture, che sono molto importanti nella
testimonianza e nella raccolta per i dati per il riconoscimento.
Ma anche nel ricostruire le relazioni: si può fuggire perché c'è la comunità, si può fuggire dalla comunità. Questo è
molto importante perché si può pensare di mettere assieme la comunità in contesti in cui è stata spesso la causa. La
comunità può essere tante cose diverse, la causa della fuga.
Alcune altre ambivalenze. L'essere localizzati ma allo stesso tempo investire in processi di mobilità. Nel caso
palestinese, che è continuato negli anni, ci si muoveva perché si andava a manipolare l'assistenza in altri centri, ci si
muoveva perché si andava a riallacciare il lignaggio. Cioè, si andava a riallacciare quella risorsa principale per auto
aiutarsi che si era diffusa nella fuga. In tanti centri, in tanti campi, in Siria, in Giordania, muoversi era indispensabile per
riallacciare i contatti. Ci si muoveva per trovare lavoro, si migrava come parte essenziale dell'essere migranti, questo, in
altre forme, visto anche in Italia.
L'importante è il dover stare, dover essere reperibili. O il dover stare per mantenere il posto al dormitorio, perché se
no lo si perde se si sta via più di un x giorni, e poi non si sa se lo si riavrà per quando arriveranno i mesi difficili se si
dorme in dormitorio, gli uomini soprattutto, spesso richiedenti o anche rifugiati.
Dall'altra si è obbligati ad andare. O obbligati, o per lavoro. Per lo più lavoro in nero. Qualcuno di voi forse conoscerà le
statistiche, l'ultima fatta da Medici senza Frontiere nei latifondi dell'agrobusiness italiano nel Sud, che ha tutta una
serie di stagioni che sono adesso in corso, a partire dai pomodori, per cui il 25% erano richiedenti o rifugiati, che è un
numero incredibile rispetto anche solo alle percentuali di “stranieri” in Italia.
Quindi, obbligati ad andarsene, obbligati a stare via, per poi però non essere recuperabili, non trovare assistenza, per
esempio a Milano. Arrivare a Milano per poi partire per il sud per cercare lavoro chiaramente in nero. Molto
profittevole, no? Status liminali che non a caso possono essere utilizzati in quella produzione di clandestinità che è
tanto importante in Italia come in altri paesi europei.
Questo dissidio continuo tra mobilità e immobilità. Il dover andare, per lasciare le reti famigliari, per il lavoro
stagionale come vi dicevo, per uscire da situazioni di vulnerabilità, per esempio come dover dormire continuamente
sulle panchine, perché non ci sono altri posti. Le panchine di Milano, in questo caso. Non so se avete traduzioni a
Torino o in altri contesti.
Se la stagione arriva e ti caccia col freddo, dover andare via perché rimane solo la panchina e trovare altri posti, cercar
casa. Questo provoca però spesso che se non si sta, non si diventa reperibili, non si riceve l'assistenza necessaria, o si
rimane soprattutto in un non saper dove andare continuamente. Quindi spaesamento continuo. Per esempio, abbiamo
fatto un lavoro anche sulla vita della panchina. Dormire sulle panchine, non saper dover andare, fa in modo che si
rimane oggetti allo sguardo e al controllo della polizia, perché si è in situazione di illegalità, ma indotta.
C'è questo traslare nella vita pratica che abbiam visto attraverso l'etnografia in situazioni di ampia marginalità più
diffusa che mette insieme tantissime “categorie”.
Quindi, questa provvisorietà, dei richiedenti, rispetto a un'idea di protezione che dovrebbe essere garantita.
Altra ambivalenza. Il voler essere riconosciuti, ma nell'incontro – come abbiam visto nel caso delle donne nei centri di
assistenza, ma anche di uomini – processi di forte spersonalizzazione e spaesamento nell'incontro con l'assistenza,
penso anche inevitabile.
Il dover afferire alle mense ma non volerci andare – della Caritas come altre – il dover andare nei dormitori ma dover
uscire alle otto di mattina.
O per le donne – questo è molto forte a Milano, ma son processi culturali, costruzione sociale e culturale – non poter
mettere niente nella propria stanza perché non ci si può abituare al posto. Questa è la spiegazione per cui non si può
mettere neanche una foto, un poster, non poter avere ospiti. Non poter ricostruire i legami di ospitalità in posti in cui si
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sta sei mesi.
Una cosa è indurre a non poter stare sei mesi, per questioni economiche. Un'altra cosa è non poter ricostruire una
minima socialità. Ecco, quando dico processi di spersonalizzazione, intendiamo anche cose molto pratiche, molto
concrete, non poter fare una propria nicchia temporanea.
O, come per gli uomini, afferire a diversi dormitori, cercare di ancorarsi ad uno, ma allo stesso tempo di giorno dover
essere fuori, perché bisogna uscire dal dormitorio, e dover rientrare ad una determinata ora. E questo poco si coniuga
se si trova un lavoro in nero, dovunque questo sia.
Altre ambivalenze. La ricerca di autonomia su cui sono costruiti molti progetti dello SPRAR nelle varie articolazioni
locali, ma una percezione di molte fasce di essere dipendenti dall'assistenza. Venire riconosciuti in certi bisogni che
vengono vissuti come molto più pratici e diretti. E soprattutto poi un caso classico che compone però lo spaesamento
continuo, la discrezionalità delle istituzioni afferenti.
Il caso di rifugiati che devono ritornare da Milano a Crotone e non hanno soldi, e poi la carta è persa, e poi non si sa. Il
“non sapere” continuamente.
O dover andare via per lavoro ma poi rischiare di diventare irreperibili alla chiamata. C'è un tasso, 4 anni fa, era
altissimo il numero di irreperibili. Certo, molti vanno altrove dopo aver fatto domanda in Italia, ma era molto alto
perché c'erano persone costrette a stare ma costrette ad andare. Discrezionalità delle istituzioni, intendo proprio
anche il fatto che rispetto a queste categorie universali, su Milano ma non solo, erano accettabili le incredibili e
interminabili discrezionali file continue. L'essere oggetto, soggetto continuamente a fare queste file, per poi dover
tornare perché manca una carta, manca un altro elemento.
La discrezionalità delle istituzioni intendo anche quella che è stata definita in contesti del sud del Mondo, che poi
abbiamo visto replicare anche in Italia. La produzione della clandestinità, cioè il fatto che c'è una produttività ad ampie
fasce, dallo Stato molto labile. Tanto più nell'economia del sommerso. Di fatto c'è. E c'è un altro tipo di produttività che
è quella simbolica, quella di mantenere nel non-riconoscimento figure che poi possono essere patologizzate e tutto
questo può essere capitalizzato politicamente in altri termini.
Ogni cultura costruire il proprio straniero. Bisogna dire che però le nazioni stanno esagerando nel costruire forme di
capri espiatori molto forti, e molto spesso sono vulnerabili.
Un ultimo aspetto sulle forme di categorizzazione. Sempre più il modo in cui avviene l'aiuto all'altro ha due opposti.
Questa è una dinamica classica che avviene anche nei paesi del sud del mondo. O veniva comunitarizzato, in cui un
rifugiato era emblema di una comunità nazionale in fuga, ma emblema in termini spesso stereotipi, nelle modalità in
cui veniva letto, e quindi spesso si sentiva spersonalizzato da queste stereotipie che gli venivano apposte. O dall'altro
un aiuto atomizzato individuale, sconnesso però dalle proprie storie politiche più ampie da cui venivano.
Su ciò gioca da un lato la concezione, in parte di origine funzionalista, della cultura, che è molto legata a quell'idea
sedentaria, a quell'idea che la cultura è come un albero attaccato al suolo, che la cultura ha una radice naturale.
E che la naturalità è la sedentarietà. Cioè, che l'essere sedentari sia l'aspetto naturale. Questa in realtà è una grande
costruzione storico e politica del nostro modo di guardare il mondo a partire dall'ordine nazionale delle cose. Modi di
abitare sono sempre stati storicamente interrelati ai modi di andare, non per forza solo di fuggire chiaramente, ma
anche.
Se invece viene posta come “norma” il fatto che si sia sedentari in una certa modalità di pensare moderna allo Stato
nazionale, che tutto il resto risulta potenzialmente un disordine, una patologia, un'eversione e tutta una serie di
elementi connessi.
Un'idea funzionalista, ci sono concetti che spesso utilizziamo nel sud e nel nord del mondo: evoluzionisti, quelli che
rientrano nelle relazioni d'aiuto, sono un caso classico, che da sempre sono posizioni asimmetriche, il problema è se
non si mette in discussione come si sta definendo l'altro in relazione d'aiuto protratta nel tempo.
E soprattutto forme anche un po' culturaliste – a volte è anche facile caderci – si cerca di capire qual è la cultura dei
rifugiati, la cultura di quella comunità nazionale, non tenendo conto che la cultura così come tale non esiste. Non è un
oggetto, non è una borsa che qualcuno si porta dietro con la cultura ben definita. E' un processo di cambiamento. Sono
modi di leggere il mondo, ma sono soprattutto dinamiche relazionali, non dobbiamo mai dimenticarsi di accorgerci
della nostra cultura nel momento in cui cerchiamo di comprendere le forme di appartenenza, le modalità di
espressione, soprattutto le cose molto mondane, dei rifugiati. Cioè, pratiche di auto aiuto, idee di famiglia, di uomo, di
donna, di bisogno che si attivano e sono molto importanti nei contesti di assistenza.
Proprio per un'altra forma, accanto a quella giuridica, di riconoscimento dei rifugiati.
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Lavori di gruppo | Primo incontro
Lo scopo è quello di evidenziare e confermare come, nel parlare dei rifugiati, dei loro paesi di provenienza, dei motivi
della loro fuga e delle tratte e i percorsi da loro affrontati per fuggire, spesso si possa cadere vittime di convinzioni e
percezioni errate.
Dopo aver individuato quattro gruppi di circa 8 partecipanti ciascuno, ad ognuno di essi viene assegnato un
determinato paese tra Kurdistan, Afghanistan, Sudan e Somalia.
Ad ogni gruppo, in un tempo massimo di 20 minuti, viene chiesto, in relazione al paese assegnato, di rispondere alle
seguenti domande:
1. Quali i motivi della fuga?
2. Quale è il viaggio intrapreso, con le sue tappe e i paesi coinvolti?
3. Quanta presenza sul territorio italiano e piemontese? (il numero dei rifugiati, per nazionalità, presenti in
Italia)
Il tutto viene fatto per iscritto su di un cartellone precedentemente distribuito.
Una volta scaduto il tempo ogni gruppo presenta, a turno e attraverso un portavoce, le proprie risposte all’intera
classe. Ad ogni presentazione segue l’intervento di un esperto, sia esso un mediatore culturale o un operatore sul
campo, che attraverso il proprio contributo può commentare i risultati e le risposte presentati dai gruppi.
Primo gruppo: Kurdistan
Il gruppo presenta le proprie risposte introducendo il Paese in questione attraverso le sue caratteristiche storicogeografiche. Lo si definisce un territorio, in quanto non è uno stato nazionale propriamente detto, che estende i suoi
confini su 4 stati (Iran, Iraq, Siria e Turchia).
1. Motivi di carattere etnico-religioso: l’appartenenza religiosa (islam sunnita e sciita) viene vista dal gruppo
come la principale causa di fuga da quei territori
2. La rotta individuata è quella via terra attraverso la Grecia, definito come un passaggio obbligato. Le
destinazioni vorrebbero essere i paesi del nord Europa ma causa “Sistema Dublino 2” molti si fermerebbero
nei paesi di passaggio come l’Italia
3. Non si forniscono dati precisi, viene sottolineato però il grande afflusso registrato negli anni 90 in Italia.
Intervento dell’esperto:
Si ribadisce il fatto che il Kurdistan sia una realtà territoriale a cui non è riconosciuta una legittimità politica.
1. Le motivazioni sono di carattere politico. Negli ultimi anni molti partiti kurdi sono stati dichiarati fuorilegge.
La Corte Costituzionale turca, dalla data della sua costituzione (1963), ha
soppresso 26 partiti politici di cui la maggior parte kurdi. Inoltre in Turchia il servizio militare ha una durata di
20 mesi ed è obbligatorio. Si verifica così che i Kurdi siano arruolati per combattere al fronte contro i loro
stessi compagni. Infine gli interessi economici hanno determinato e giustificato l’ evaquazione dai villaggi nei
primi anni 90.
2. Il viaggio è soprattutto via terra con passaggio obbligato in Grecia
3. A partire dagli anni 90 l’ammontare complessivo di presenza kurda sul territorio italiano si aggira intorno alle
57.000 unità.
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Secondo gruppo: Afghanistan
1. Le ragioni della fuga vengono individuate a partire dalla storia dell’Afghanistan. In primis la guerra e la
persecuzione talebana. A queste due cause si affiancano la conseguente instabilità politica e le condizioni di
estrema povertà della popolazione che giustifica la ricerca di migliori condizioni di vita
2. Se il viaggio si effettua via terra la tratta individuata vede l’Iran come territorio di passaggio obbligatorio. Via
mare le tappe sono la Turchia o la Grecia
3. Il gruppo ipotizza una presenza di circa 7000 unità sul territorio italiano.
Intervento dell’esperto
1. Le principali ragioni di fuga evidenziate dall’esperto sono di carattere etnico-religioso. La presenza di
numerosissime etnie e gruppi religiosi, l’assenza di una libertà di religione nonché il regime dittatoriale
giustificano la fuga dal paese
2. L’idea di viaggio presentata è frutto dell’esperienza vissuta dall’esperto. Il viaggio via terra lo ha visto
attraversare il Pakistan, l’Iran e poi la Turchia da lì via mare per approdare in Grecia e poi in gommone fino in
Calabria (Italia)
3. I numeri : 70 afghani in Piemonte (2010), in Italia nel 2010 ci sono state 993 richieste di asilo di cui 224
approvate.
Terzo gruppo: Sudan
1. Il terzo gruppo nello svolgimento del lavoro distingue le cause e le ragioni di fuga. Al primo termine hanno
fatto corrispondere una serie di elementi che hanno caratterizzato la storia del Sudan degli ultimi 20 anni. La
guerra civile in Darfur, la presenza dei Janjaweed (o janjāwīd vale a dire i miliziani filogovernativi impegnati
nella guerra civile nella regione del Darfur in Sudan), la questione Sud Sudan, il conflitto religioso nord
musulmano /sud cristiano, la carestia e il conflitto politico tra arabi e africani. Le cause individuate sono la
persecuzione, il pericolo e il ricongiungimento familiare
2. Il viaggio è caratterizzato dall’attraversamento del deserto e dall’arrivo in Libia. Da qui le possibilità possono
essere il carcere, l’impiego nel lavoro nero o la partenza per Lampedusa.
3. Presenza in Italia, circa 20000 unità
Intervento dell’esperto
1. La guerra in Darfur a partire dal 2003, e la guerra in Libia del 2011. Una questione da non sottovalutare in
Sudan è sicuramente rappresentata dalla presenza di tantissimi profughi interni (si parla di circa 5 milioni di
profughi interni)
2. Il viaggio è attraverso il deserto fino ad arrivare in Libia per poi imbarcarsi verso l’Italia (Lampedusa)
3. Prima del 2003 sono stati registrati in Europa pochissimi arrivi dal Sudan, dopo la guerra in Darfur il numero
dei richiedenti asilo in Europa e nello specifico in Italia è cresciuto. Nel 2010 sono state presentate 89
richieste di asilo di cui 10 riconoscimenti.
Quarto gruppo: Somalia
1. Le principali ragioni individuate dal gruppo sono di natura politica e ambientale. Prima tra tutte la guerra
civile, il reclutamento da parte delle organizzazioni terroristiche, la siccità ed infine la ridefinizione coloniale
dei confini
2. Vengono ipotizzate due alternative di viaggio, la prima via Kenya, Suda e poi Libia, la seconda via Gibuti,
Eritrea, Sudan, Libia e poi via mare verso l’Italia
3. Presenza intorno alle 4000 unità
Intervento dell’esperto
1. 1990, colpo di stato. 1991 Siad Barre viene estromesso, la lotta per il potere che ne seguì contrappose diversi
gruppi tribali (gruppi clanici) in un nuovo crescendo di violenza accompagnato peraltro da una terribile
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2.
3.
carestia. Dopo il fallimento della missione UNOSOM e il ritiro delle proprie forze da parte dell’Onu ci fu un
periodo caratterizzato dalle violenze dei "Signori della guerra", i temibili capi-clan che sottomisero la
popolazione e che costrinsero alla fuga, nel 1994, anche i caschi blu dell'ONU e i militari americani. Inoltre
anche l’intervento della Corte islamica e il fallimento della Shari’a hanno contribuito a questi ultimi 21 anni di
fuga. Aggiungiamo a questo quadro storico politico il ruolo del terrorismo e l’obbligo di appartenere a gruppi
terroristici (reclutamento forzato).
La questione dei confini coloniali sembra non essere motivo di fuga, fino al 1971 ha rappresentato una delle
principali ragioni di scontro tra la Somalia e l’Etiopia
Due le possibilità di viaggio, uno passando per il Kenya, il Sudan e la Libia, l’altro partendo da Mogadiscio, a
sud della Somalia per poi passare attraverso l’Eritrea il Sudan e la Libia. Ricordiamo che il nord della
Somalia(Somaliland) non presenta situazioni di conflitto armato
Numeri????
Bibliografia | Primo incontro
Fabietti Ugo, a cura di
2005
Rifugiati, Antropologia annuario No.5, Roma, Meltemi editore.
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2000
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Rifugiati. Voci della diaspora somala, Roma, Meltemi editore.
Gozzi Gustavo e Sorgoni Barbara, a cura di
2010
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Malkki Liisa H.
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1995b ‘Refugees and Exile: From “Refugee Studies” to the National Order of Things’, Annual Review of Anthropology,
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Ong Aihwa
2003 Buddha Is Hiding. Refugees, Citizenship, the New America, University of California Press; ed. italiana: (2005),
Da rifugiati a cittadini. Pratiche di governo nella nuova America, Milano, Cortina Raffaello.
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Taschenbuch Verlag; ed. italiana: (1999), Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza
Europa, Milano, Feltrinelli.
Van Aken Mauro
2003 Facing home. Palestinian belonging in a valley of doubt, Maastricht, Shaker.
2008 Rifugio Milano. Vie di fuga e vita quotidiana dei richiedenti asilo, Torino, Carta Editore.
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Secondo Incontro
11 ottobre 2011
Titolo
Le azioni dell’occidente e le sue retoriche: leggi e ordinamenti, agenzia Frontex,
accordi bilaterali, sovvenzioni
Relatori
Alessandra Algostino, Professore Associato presso l’Università di Torino
Gianluca Vitale, Avvocato Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI)
Alessandra Algostino
[…] il principio di uguaglianza sostanziale ovvero quello che impone di trattare in maniera differente le situazioni che
sono differenti; es. pratico di questo principio è quello dell'imposizione fiscale che deve essere progressiva, infatti le
aliquote non sono uguali per tutti ma dovrebbero essere più elevate per i redditi più alti.
Si ha un'evoluzione all'interno dell'Occidente del concetto e nel catalogo dei diritti, i diritti di libertà negativa vengono
completati dai diritti sociali che sono due categorie inscindibili. Pensiamo alla libertà di manifestazione del pensiero:
non vi può essere effettiva libertà se non è garantito un diritto all'istruzione (diritto sociale), all'accesso ai mezzi di
informazione (questo comporta una limitazione dell'iniziativa economica e privata nel campo della stampa) insieme di
diritti che vengono poi considerati come inscindibili.
L'individuo non è più maschio, borghese, bianco. L'individuo diventa invece un individuo concreto, una persona
umana, un individuo considerato nella situazione in cui si trova,nelle condizioni economiche e sociali in cui vive.
Senz'altro è stato compiuto un passo avanti, da cui oggi stiamo tornando indietro dato che siamo in un periodo di
regressione sociale e di totale destrutturazione dei diritti sociali della salute e dell'istruzione. Assistiamo anche ad una
destrutturazione dei diritti legati al lavoro dove è fortissima la regressione di tutela dei diritti di libertà – vedi tutte le
nuove normative sulla sicurezza, emergenza- sia dei diritti sociali. I diritti rimangono comunque inscindibili sia sotto
attacco sia quando vengono destrutturati. Questi diritti considerano l'individuo come individuo contestualizzato ma la
premessa è sempre quella: si parte dall'individuo.
Quello che ci possiamo chiedere è se nelle altre culture questa centralità dell'idea di diritto dell'individuo, di pretesa e
di rivendicazione dell'individuo ha lo stesso valore. Nelle culture asiatiche e nelle culture africane tradizionali molto
spesso a prevalere è il concetto di comunità e non quello di individuo. La prospettiva non è tanto quella del diritto ma
del dovere del modo di comportamento da tenere.
C'è una frase di Gandhi che, dando un suo giudizio sull'opportunità di stilare una dichiarazione dei diritti dell'uomo,
quella che sarebbe stata poi stilata nel 1948, dice: “Ho imparato da mia madre molto saggia ma illetterata che tutti i
diritti dell'uomo degni di essere meritati e conservati sono quelli dati dal dovere compiuto”. Secondo questo principio
fondamentale è abbastanza facile definire i diritti dell'uomo a partire dalla prospettiva del dovere e non da quella del
diritto.
Questo è quello che si ritrova nella cultura africana, ad es. ubunto, cioè l'idea di persona che è tale in quanto è insieme
ad altre persone, oppure valori asiatici che si basano sul predomino della comunità nei confronti dell'individuo, dei
comportamenti che il singolo individuo deve avere nei confronti dei familiari e della comunità di appartenenza, fino ad
arrivare nei confronti dello Stato.
Per cui l'immigrazione di per sé, portando all'interno dell'Occidente dei presupposti culturali differenti, mette in dubbio
quello che è un modo di intendere i diritti. Noi siamo abituati a concepire i diritti come posizioni giuridiche soggettive
ma non è detto che questo sia l'unico modo di concepirli: ci possono essere delle prospettive differenti in cui la
centralità non è più assunta dall'individuo. Questa è una delle prospettive da cui si può mettere in discussione la
retorica dei diritti occidentali ma ovviamente non è l'unica. Infatti, proprio l'immigrazione ci mostra che quando a
richiedere l'agibilità di un diritto umano è una persona non cittadino di uno stato occidentale questi diritti rischiano di
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cadere. Hannah Arendt afferma: “Ogni qualvolta a chiedere i diritti è un soggetto senza cittadinanza, una semplice
persona umana nuda, i dritti non vengono garantiti”. Quindi il concetto di diritto si vuota di significato, in realtà il
riconoscimento dei diritti della persona umana quando a chiederli è un individuo senza la cittadinanza di un paese
forte (es. Francia, Italia, Stati Uniti) non viene garantito.
Apriamo una parentesi più giuridica: il testo della nostra Costituzione presenta una norma dedicata agli stranieri
ovvero l'art. 10 che dice che la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità ai Trattati
internazionali. La Costituzione sulla condizione giuridica dello straniero ci dice poco o nulla: la Costituzione è infatti del
1948 ed è entrata in vigore in un periodo in cui non si parlava di immigrazione ma di emigrazione. Infatti la
Costituzione si premura di sancire il diritto di emigrare e si occupa di tutela delle condizioni di lavoro all'estero ma non
si preoccupa della questione dell'immigrazione all'interno del territorio italiano. Per questo il riferimento è molto
scarno; peraltro l'art. 10 non è l'unica norma che riguarda gli stranieri, migranti, rifugiati, perché ovviamente al
migrante, in quanto persona umana, si applicano tutte quelle norme della Costituzione che prevedono dei diritti in
capo alla persona umana: libertà personale, garantita dalla Costituzione con forma impersonale, ovvero "la libertà
personale è inviolabile”, quindi questa formulazione riguarda tutti, la libertà di domicilio e corrispondenza, la libertà di
pensiero. Riguardano tutte le persone umane non solo le libertà negative ma anche i diritti sociali.
L'art. 32 della Costituzione riguarda il diritto alla salute: “La Repubblica Italiana tutela la salute come fondamentale
diritto dell'individuo”, qui si parla dell'individuo non del cittadino.
Questo quanto prevedono le norme costituzionali che estendono la titolarità dei diritti alla persona umana, non si
parla di diritti del cittadino ma di quelli della persona umana.
L'unica categoria di diritti esclusiva per i cittadini è quella dei diritti politici, infatti l'art. 48 della Costituzione riconosce i
diritti politici in capo al cittadino (questo è il dato letterale) anche se poi in realtà è possibile un'altra interpretazione.
Restrizioni maggiori sono possibili per la libertà di circolazione e soggiorno all'interno del territorio ma soprattutto per
quanto riguarda il diritto all'ingresso sul territorio. Allo straniero non è garantito un diritto costituzionale di ingresso
nel territorio a meno che non ricada nelle fattispecie dell'art. 10/3a parte sul diritto di asilo costituzionale: solo chi è in
questa condizione ha diritto ad ottenere l'ingresso nel territorio italiano. Questo in linea di principio, poi in realtà viene
fatto un passo ulteriore anche da parte della Corte Costituzionale che, come interprete della Costituzione, si è
pronunciata più volte sulla questione dell'estensione dei diritti del migrante e dello straniero (distinguendo anche tra
migranti regolari e irregolari).
La Corte costituzionale parte infatti da una distinzione tra titolarità e godimento del diritto. Osserva cioè che le
condizioni concrete possono di fatto portare a distinguere la titolarità del diritto, che è attribuita a tutti (cittadini e
stranieri), dal godimento del diritto stesso che può essere differente tra chi è cittadino e chi è uno straniero (con la
differenza tra straniero regolare, irregolare e rifugiato).
La cittadinanza è in un rapporto ontologico con lo Stato, il cittadino è un elemento costitutivo dello Stato stesso, ha un
rapporto stabile e permanente con lo Stato, mentre lo straniero ha un rapporto con lo Stato che è temporaneo e può
essere occasionale. Questo dimostra che si parte da due differenti situazioni di fatto. Da qui la Corte giustifica le
differenze, ma il ragionamento si potrebbe ribaltare dato che ci sono stranieri sono oramai stabilmente residenti e non
ci sono più quindi queste differenze di fatto tra cittadino e straniero. La Corte non ragiona per restringere la scissione
tra la titolarità e il godimento del diritto giuridico, ma fa un bilanciamento tra diritto ed esigenze di governo
dell'immigrazione, di gestione dei flussi, di sicurezza che possono portare alcuni casi all'istituzione di diritti anche se la
Corte ha messo dei paletti, come ad esempio il fatto che la libertà personale spetti sempre a tutti sia in condizioni di
regolarità che di irregolarità.
Questa scissione tra titolarità di un diritto e suo godimento è evidente soprattutto nei diritti sociali che sono quelli con
costo maggiore. Nei diritti sociali in genere si distingue una tutela pari a quella del cittadino che è riconosciuta agli
stranieri regolari e un minimo grado di tutela minima che è riconosciuta invece a chiunque. Ad esempio per il diritto
salute: agli stranieri in condizione non regolare è riconosciuto solo il diritto alle cure urgenti, anche continuative ma
solo urgenti.
Si parte da una titolarità uguale per tutti ma poi si introducono differenze nel godimento del diritto, delle graduazioni a
seconda delle condizioni giuridiche della persona umana. Ovvio che quanto maggiori sono queste graduazioni, a
seconda dello status giuridico, tanto più si rischia di perdere la natura del diritto della persona umana. Ragionando sul
godimento si viene ad incidere su quella che è la titolarità stessa del diritto, si svuota di contenuto il diritto.
L'immigrazione porta all'interno degli stati occidentali, dove sono nati i diritti e dove sono garantiti i diritti nelle
costituzioni e nei documenti internazionali, questa contraddizione sul ruolo della cittadinanza; la cittadinanza gioca
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ancora un ruolo fondamentale nel determinare la possibilità di godere effettivamente dei diritti e, ovviamente, vi è un
discrimine tra cittadinanze di serie A, che comportano una certa dote di diritti o la possibilità di accedere ad una certa
dote di diritti, e cittadinanze di serie B che portano un'esclusione dal godimento dei diritti. Quindi l'universalità dei
diritti viene inficiata da una differenza nei presupposti culturali ma viene inficiata anche in concreto dal ruolo giocato
dall'elemento della cittadinanza. Molto evidente per quanto riguarda i diritti sociali ma ancor più per i diritti politici
che sono riconosciuti dalla Costituzione in capo al cittadino. Questo è avvenuto perché all'epoca era il modo per poter
garantire il suffragio universale; il diritto di voto era riconosciuto a tutti i cittadini (mente prima del '46 erano escluse le
donne). Con questa formulazione si garantiva a tutti il diritto al voto, diritto che è un elemento fondamentale, seppur
non sufficiente, della democrazia.
Quello che ci si può chiedere è se oggi sia ancora rispettato questo principio democratico che porta poi a interpretare
questa norma costituzionale; oggi c'è un gap tra i governati e i governanti mentre, secondo l'ideale democratico,
dovrebbe esserci una coincidenza tra queste 2 categorie proprio rappresentata attraverso il ricorso al voto e agli istituti
della rappresentanza.
Questo principio è ancora rispettato se una percentuale rilevante di popolazione di governati è in realtà esclusa dal
diritto di accedere al governo?
Il concetto di cittadinanza che emerge da questa veloce disamina è un concetto che è diventato escludente. Ovvero: la
cittadinanza ha avuto negli anni passati (nel secondo dopoguerra) una portata emancipante (specie quando diventava
una cittadinanza legata a diritti sociali). Oggi ha invece mutato significato e va ad escludere, non tanto a garantire diritti
ad un soggetto quanto a determinare chi può godere di diritti e chi no. Questo ruolo escludente della cittadinanza è un
elemento che crea discriminazione, esclusione e questo è reso ancora più evidente proprio dalla presenza di immigrati
e rifugiati nelle società occidentali.
Questi sono alcuni degli elementi che mostrano che quella dei diritti è una retorica che non garantisce effettivamente il
godimento dei diritti a chi ne ha concretamente bisogno.
Questa retorica dei diritti, che troviamo evidente all'interno delle società occidentali con l'immigrazione, è la stessa
retorica che porta a fare interventi come quello in Afganistan o in Iraq nel nome dei diritti quando invece comportano
in sé una violazione dei diritti e un aumento esponenziale (vedi esempio Kosovo) delle violazioni dei diritti. È questa
stessa retorica che porta con sé un discrimine, in quanto i diritti umani nascono e sono garantiti come diritti
occidentali. Infatti, quasi tutti i documenti internazionali garantiscono la libertà di circolazione cioè il diritto di ciascuno
di lasciare il proprio paese, non prevedendo però il diritto ad entrare nel territorio di un altro paese. È un diritto
monco, inutile (si dovrebbe rimanere in acque internazionali? Nella terra di nessuno?), è un diritto senza senso perché
non vi corrisponde un dovere e in questo caso gli stati difendono la propria sovranità. Anche la sovranità dello stato
mette in dubbio quelli che sono i diritti, gli stati difendono la propria sovranità con la possibilità di decidere chi e
perché entra nel proprio territorio.
Un'altra delle questioni che l'immigrazione pone ai diritti, e quindi a questa retorica dei diritti, è quella legata alle
questioni del multiculturalismo. Pensiamo ad es. alle mutilazioni genitali femminili, al velo, al crocifisso, tutti
interrogativi che l'immigrazione pone ai diritti. In questo caso si tratta di bilanciare aspetti diversi dei diritti. Pensiamo
alla tutela del velo: da un lato abbiamo la libertà religiosa di chi indossa il velo, dall'altra c'è, se per esempio a chi
indossare il velo è un insegnante, il principio di laicità dello stato, ma al contempo c'è il diritto di espressione della
propria identità culturale: i valori in gioco sono quindi molti e diversi. In genere c'è stata molta difficoltà da parte delle
società occidentali a fornire delle risposte. Ci si è affidati alla decisione caso per caso, ovvero all'intervento del giudice,
oppure, come in Francia con le legislazioni sul velo del 2004 e del 2010, si lascia sempre un margine di discrezionalità.
C'è difficoltà a dare delle risposte anche perché le democrazie occidentali sono tendenzialmente aperte cioè
riconoscono le libertà di espressione, di manifestazione di pensiero, di religione, ma non erano abituate a confrontarsi
con certe identità culturali. Di conseguenza ci si interroga fino a che punto debba spingersi l'idea di tolleranza (che è un
concetto che delinea una situazione in cui c'è un soggetto che tollera gli altri ovvero si parte da un'idea di superiorità);
ci sono molti dibattiti su questa questione. Di fronte all'idea di democrazia devono essere posti dei limiti a quei gruppi
portatori di identità culturali che paiono in contrasto con la democrazia? Le risposte sono state diverse; in Germania si
è arrivati allo scioglimento dell'associazione del “Califfato islamico” che si proponeva di instaurare nel territorio
tedesco uno stato teocratico e perseguire questo scopo con mezzi legali. In questo caso è stato individuato un limite
alla democrazia.
Forse l'immigrazione portando identità culturali che sono disomogenee rispetto a quelle occidentali interrogano quelli
che sono i diritti, che noi siamo abituati a considerare come tradizione, e interroga anche più in generale quella che è
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la democrazia occidentale.
Gianluca Vitale
Tento di fare un ragionamento sulla questione dei rifugiati.
Alcune considerazioni veloci rispetto a quello che ha detto la Prof.ssa Algostino: mi sembra che in questo momento
l'idea di democrazia e lo stesso diritto di asilo siano concetti pieni di paradossi.
Per quanto riguarda l'interrogativo relativo al punto fino a cui la democrazia deve tollerare qualcosa che può metterla
in pericolo, quesito posto precedentemente da Algostino, cito solo 2 esempi di livello internazionale: Algeria e
Palestina.
Ci sono state delle libere e democratiche elezioni vinte da soggetti che non piacevano alle democrazie e che però
hanno giustificato, con l'appoggio delle democrazie occidentali, dei colpi di stato: la democrazia in qualche modo si
suicida per tutelarsi e rinnega se stessa.
Il diritto di asilo è ancora più emblematico del paradosso in cui viviamo: se sei titolare di diritto di asilo ti nego in primo
luogo la prima tra le libertà democratiche che è quella di partecipazione dalle scelte collettive ovvero del diritto di
voto. Infatti il rifugiato, chi ha diritto di asilo, non ha diritto di voto. Anche qui siamo in un paradosso chi viene da un
paese "cattivo", che ti nega tra gli altri il diritto di voto, viene accolto qui dove ti accolgo ma comunque ti nego il diritto
di voto.
Tornando ai diritti dell'uomo: ogni individuo è libero di lasciare il proprio paese, ma non gli viene garantito il diritto di
entrare in un altro. In questo momento è proprio questo diritto minimo che è messo in crisi da strumenti europei come
Frontex, da accordi con i paese di emigrazione in cui il paese di emigrazione si impegna a contrastare l'immigrazione
illegale in un altro paese. Ad esempio, nel momento in cui l'Italia va a pattugliare le coste libiche o fa accordi con la
Tunisia, accordi il cui oggetto è "le persone non possono uscire da questo paese se non in possesso di un visto" in
realtà significa negare alla radice quel diritto di emigrare: ti nego addirittura il diritto di uscire quindi sostanzialmente
viene violata la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo - principi minimi che sono stati affermati nel secondo
dopoguerra.
Tornando ad un approccio tecnico-giuridico della questione: ho già parlato della Costituzione, mentre lo strumento
internazionale nel campo dei rifugiati è la Convenzione di Ginevra del 1951 che definisce rifugiato “colui che si trova al
di fuori del suo paese d’origine e ha fondato motivo di temere la persecuzione a motivo della sua discendenza,
religione, nazionalità, appartenenza ad un particolare gruppo sociale, opinione politica; e non può o non vuole
avvalersi della protezione di quel paese, o ritornarvi, per timore di essere perseguitato.”
La Convenzione di Ginevra nasce nel '51 ed è l'unica Convenzione planetaria stipulata nell'ambito delle Nazioni Unite. È
spiccatamente eurocentrica: l'uomo bianco individuo borghese di cui si è parlato prima è proprio l'oggetto della
Convenzione di Ginevra che consentiva l'applicazione di 2 clausole. La prima di queste due - che l'Italia ha mantenuto
fino all'89 - è la clausola territoriale ovvero: un paese poteva decidere di applicare le disposizioni della Convenzione di
Ginevra quindi di riconoscere come rifugiato solo chi fosse fuggito da un paese europeo e quindi solo nel caso in cui la
persecuzione fosse stata perpetrata da un paese europeo. Il modello dunque del rifugiato è quello che scappava dalla
Germania est, dalla Polonia o dall'Ungheria o comunque dal blocco sovietico e arrivava nel blocco occidentale.
Notazione storica: questo aveva portato a doversi inventare degli strumenti (normative specifiche, circolari, decreti
ministeriali) per dare protezione ai cosiddetti boat people vietnamiti (provenienti quindi non da un paese europeo)
oppure ai profughi cileni dopo il colpo di stato di Pinochet che nel '71 non avrebbero potuto avere nessuna protezione
in Italia (poiché non in fuga da un paese europeo). Nel '89 scompare questa limitazione geografica comunque il fatto
che fosse prevista dà il segno di quello che era l'immagine del rifugiato cui fa riferimento questa Convenzione.
Il diritto di asilo era, per il diritto della Comunità europea, una materia di cooperazione governativa quindi l'UE non
aveva la possibilità di imporre regole cogenti in materia di immigrazione. La situazione cambia con il Trattato di
Amsterdam (nella seconda metà anni '90) perché immigrazione e il diritto di asilo diventano competenze di materia
comunitaria ovvero la Comunità Europea può dettare le regole e obbligare gli stati ad uniformarsi alle regole che
vengono imposte a livello comunitario. Ovviamente imporre una regola a livello comunitario significa molto spesso
fare una mediazione a ribasso; sappiamo che ci sono paesi con una più antica cultura di immigrazione rispetto ad altri
(l'Italia sicuramente è di questo secondo gruppo rispetto Francia, Germania e Gran Bretagna). Ci sono paesi con
politiche in campo di immigrazione più restrittive rispetto ad altri. L'accordo che viene trovato, gli standard minimi che
sono fissati sono quindi normalmente al ribasso. Questo peraltro è uno dei molti motivi per cui si parla di fortezza
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Europa: in qualche modo l'Europa costruisce i muri intorno ai suoi confini per evitare di essere, secondo l'espressione
popolare, "invasa". Alcune di queste regole comunitarie hanno costretto ad una mitigazione della normativa italiana
proprio nel campo dell'immigrazione e dell'asilo perché in alcuni casi la normativa italiana consentiva un trattamento
più basso rispetto a quello individuato come standard minimo.
Finché non diventa di competenza comunitaria, ogni paese ha le sue regole. L'Italia abbandona la limitazione
geografica nel '89 e quindi può riconoscere lo status di rifugiato anche a chi proviene da paesi extraeuropei, mantiene
però il riferimento unico come meritevole di protezione colui che rientra nella definizione data dalla Convenzione di
Ginevra ovvero l'individuo singolo perseguitato individualmente per i motivi indicati nella Convenzione.
Questa situazione cambia a metà del primo decennio del 2000 perché entra in vigore la normativa europea in
particolare la normativa 83 del 2004, direttiva importantissima perché per la prima volta, in qualche modo ereditando
anche la giurisprudenza costituzionale di altri paesi (in particolare Francia e Germania), vengono definiti alcuni concetti
che sono legati alla materia dei rifugiati cosa che in Italia non esisteva. Ad esempio, la Convenzione di Ginevra parla di
persecuzioni per condizioni personali o sociali, non parla invece di persecuzione per motivi di genere tanto meno
consente di riconoscere come rifugiato una persona che sia perseguitata a causa della sua omosessualità. Ecco, la
direttiva ricomprende tra le condizioni personali o sociali l'appartenenza ad un gruppo caratterizzato da comuni
orientamenti sessuali purché questo non comporti la messa in pratica di atti contrari alla legge - aggiunta che è stata
inserita per limitare che venisse riconosciuto, ad esempio, lo status di rifugiato ad un pedofilo che chiedesse asilo
sostenendo appunto che la pedofilia fosse vietata nel suo paese. Questo consente di ricomprendere nella definizione
di rifugiato anche l'omosessuale perseguitato in ragione della sua omosessualità. Vengono poi date delle indicazioni
per dei criteri interpretativi perché uno dei grossi problemi è capire cosa sia una persecuzione: questa direttiva
definisce la persecuzione e gli atti di persecuzione sufficientemente gravi e reiterati ma non chiarisce bene chi è
l'agente di persecuzione. La convenzione non lo specifica mutuando, in questo caso dalla giurisprudenza tedesca, la
definizione che dice che l'agente di persecuzione è chi pone in essere la persecuzione e può essere: lo stato, una
autorità contraria allo stato ma che controlli una parte significativa del paese dalla quale viene il richiedente la
protezione, un'autorità contro cui lo stato non può o non vuole opporsi per impedire che vengano commessi atti di
persecuzione. Ad es. gli squadroni della morte in Sud America e centro America erano abbastanza diffusi: gruppi
paramilitari che non facevano parte dell'apparato statale. Se io vengo dal Salvador e sono perseguitato dagli squadroni
della morte e non sono però perseguitato dallo stato rientro o non rientro nella definizione di rifugiato? Anche questo
viene chiarito nella direttiva di cui sopra.
La direttiva introduce inoltre un secondo livello di protezione, ovvero la cosiddetta protezione sussidiaria: "ha diritto ad
essere protetto non solo chi sia stato o tema a ragione di poter essere perseguitato, ma anche chi è esposto al pericolo
di un danno grave che viene definito come la condanna a morte o all'esecuzione della pena di morte, la tortura o ogni
altra forma di pene o trattamenti degradanti o inumani”. In questo caso viene praticamente copiata una porzione della
Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo che all'art. 3 vieta la tortura o pene o trattamenti inumani e degradanti.
L'art. 3 (uno dei pochi articoli che stabilisce un dritto che non può essere controbilanciato) prevede anche diritto unità
familiare diritti rispetto della vita privata e familiare sostanzialmente il diritto all'unità familiare ma dice che questo
diritto può essere limitato se necessario in una società democratica per garantire determinati altri interessi collettivi. Il
divieto di tortura pene e trattamenti inumani o degradanti è un divieto assoluto, non consente limitazioni e
bilanciamenti: ciò significa in pratica che io posso essere il peggior delinquente di questa terra ma se nel mio paese
sono esposto al pericolo di tortura non posso essere rimpatriato.
In questo danno grave o minaccia di danno grave rientrano anche quelle situazioni derivanti dalla violenza
indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. In questo modo viene recuperato quel gap che
c'era con il continente americano e africano che fin dalla fine anni '60 prevedevano una forma di protezione per chi
scappasse da conflitti civili, conflitti interni o disastri naturali: finalmente viene introdotta anche nel diritto comunitario
la possibilità di ottenere protezione anche in casi di questo genere. Infatti questa possibilità viene introdotta in Europa
solo con la direttiva del 2004 (Europa patria di civiltà e rispetto dei diritti) mentre in Africa e Sud America era già
prevista dalla fine degli anni '60 del secolo scorso: l'Europa è in questo caso in ritardo sul continente africano (che tutti
consideriamo il continente della violazione dei diritti), quantomeno nell'enunciazione di questo diritto. Nella pratica,
questo ha significato qualcosa di particolare: pur sapendo che l'Africa è un continente particolare rispetto ai diritti
umani, dove ci sono situazioni terribili di violazione dei diritti, l'Africa è anche il continente con più rifugiati. Non è vera
infatti la vulgata popolare o dei media per cui i rifugiati sono tutti in Europa: la maggior parte dei rifugiati è nei paesi
limitrofi al proprio o sono addirittura rifugiati interni nello stesso paese. Succede in Asia, in Africa e nel centro America,
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ovviamente in condizioni peggiori rispetto a quelle che possono trovare qua, e si rifugiano spesso nelle realtà dei
campi UNHCR. Per fare un esempio recente, sicuramente la Tunisia ha avuto e credo abbia ancora più rifugiati libici di
quelli che son entrati in Italia o entreranno in Italia nel giro di 2/3 anni - +300.000 i Libici in Tunisia mentre meno di
30000 quelli arrivati in Italia - (questo peraltro è un numero che non ho mai letto nei media nazionali ma solo nei siti
specializzati o con un certo approccio.. ).
Tornando a questa seconda forma di protezione, che viene definita protezione sussidiaria, diciamo che è la novità del
diritto comunitario che consente di introdurre un'altra forma di protezione: diversi sono i presupposti e diverse sono
anche le conseguenze di questa protezione. Possiamo vedere come questa normativa venga poi recepita in Italia con
decreto legislativo n. 251 del 2007. La direttiva europea è recepita quasi letteralmente, quindi c'è una forma di
protezione maggiore che è data allo status di rifugiato, ovvero un permesso di soggiorno di 5 anni. Peraltro il rifugiato
dopo 5 può chiedere la cittadinanza italiana. Dà inoltre diritto a chiedere il ricongiungimento familiare con procedure
semplificate ovvero possono fare il ricongiungimento familiare i rifugiato al di là non dovendo dimostrare un
determinato reddito e di disporre di un alloggio con determinate caratteristiche. Gli altri migranti, compreso chi ha una
protezione sussidiaria, per fare ricongiungimento familiare devono dimostrare di avere un reddito sufficiente al
mantenimento e di disporre di un alloggio adeguato per i familiari.
Solo per fare un ulteriore esempio: molti rifugiati presenti sul territorio sono di nazionalità somala, i documenti somali
non vengono riconosciuti, viene riconosciuto da pochi anni un ultimo modello di passaporto ma non vengono
riconosciuti tutti gli altri documenti anagrafici. Il rifugiato della Somalia peraltro si trova nelle pieghe delle normativa:
se io devo fare un ricongiungimento familiare i miei documenti somali hanno valore totalmente nullo. Se devo fare il
ricongiungimento con i figli faccio devo quindi fare la prova del DNA (procedura abbastanza consolidata) qui per chi
richiede il ricongiungimento e nel paese di origine per i familiari da ricongiungere. Ma senza alcuna rappresentanza
diplomatica o consolare in Somalia si è obbligati ad andare in Kenya a Nairobi per effettuare test. Questo implica il
dover entrare clandestinamente in Kenya, attraversare un paese in guerra per recarsi a Nairobi per fare il test DNA e se
alla fine l'esame conferma il rapporto genitoriale viene inviato e autorizzato e il visto per il ricongiungimento familiare
qui in Italia. Ma se devo fare ricongiungimento con la moglie o il marito e non abbiamo figli (altrimenti si fa test del
DNA con verifica incrociata) non si è capito come procedere: il matrimonio somalo non è riconosciuto; il consolato
italiano (i consolati rivestono ruolo importante) a Nairobi richiede di portare un documento del Kenya che dimostri il
matrimonio. A volte il documento del Kenya non viene riconosciuto perché riconosce un matrimonio precedentemente
svoltosi in Somalia e che non può essere quindi verificato (il consolato dice che non si può verificare se effettivamente
ci sia una condizione di matrimonio tra questi soggetti).
Torniamo invece alla protezione sussidiaria: dà un permesso di soggiorno di tre anni, il ricongiungimento a differenza
degli altri con dimostrazione alloggio e reddito e il titolare di protezione deve aspettare 10 anni per la cittadinanza
italiana come altri migranti. Sostanzialmente però è uno status che garantisce un certo livello di protezione,
quantomeno dall'espulsione.
C'è poi una terza forma di protezione che possiamo definire nazionale (effettivamente non è prevista nella direttiva
europeo o nella normativa comunitaria) che è la protezione umanitaria, che dice che comunque può essere concesso il
permesso di soggiorno quando sussistano particolari motivi derivanti da obblighi internazionali. Se guardiamo la
gamma delle forme di protezione il rifugiato è il perseguitato individuale; chi ha la protezione sussidiaria è chi scappa
da un paese in guerra; l'umanitario è chiunque altro non possa essere allontanato (ad es. perché in gravi condizioni di
salute: in questo caso l'obbligo costituzione è il diritto alla salute; chi ha comunque ormai una condizione di
inserimento familiare radicata in Italia e quindi non può immediatamente essere allontanato). Ad es. potrebbe avere
protezione umanitaria chi avrebbe diritto alla protezione sussidiaria o al riconoscimento dello status rifugiato ma
rientra in uno dei casi di esclusione che la direttiva comunitaria e della normativa di recepimento individuano, ovvero:
chi sia stato condannato per determinati reati considerati particolarmente gravi, chi è sospettabile di aver commesso
azioni contrarie ai principi delle Nazioni Unite e altro.
Abbiamo da un lato la Convenzione europea dei diritti dell'uomo che vieta radicalmente torture e trattamenti
degradanti e secondo l'interpretazione della corte europea dei diritti dell'uomo questo significa che una persona
esposta a tortura non può essere portata nel suo paese qualunque siano i motivi per cui questa persona dovrebbe
essere portata nel suo paese o allontanata dallo stato. Dall'altra parte abbiamo una normativa comunitaria in materia
di protezione internazionale che dice che chi è esposto a tortura o a trattamenti inumani è meritevole di protezione
internazionale, ma non può avere tale protezione se è stato condannato per determinati reati particolarmente gravi o
se rientra in tipologie di esclusione. A questo punto la protezione umanitaria serve per recuperare queste situazioni.
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Un breve esempio per capire l'universalità dei diritti: c'è stata una serie di condanne dell'Italia da parte della Corte
Europea dei Diritti dell'Uomo prima del gennaio 2011. Dei soggetti tunisini in Italia erano sospettati di far parte di
gruppi di terroristi islamici. La normativa penale italiana ormai consente di punire non solo il compimento o la
preparazione di atti terroristici in Italia ma anche la preparazione di atti terroristici che avverranno all'estero. Si dice
che queste persone fanno parte di un gruppo terroristico fondamentalista islamico, e il processo normalmente
finirebbe con una espulsione. Tuttavia se in Tunisia sono esposte al pericolo di tortura e trattamenti inumani non si
possono rimandare in Tunisia. In almeno 3 o 4 casi l'Italia li ha rimandati ugualmente, nonostante ci fosse una sentenza
della Corte Europea che lo vietasse. Quindi in un caso di questo genere si può essere coperti da protezione umanitaria
perché si ha una condanna per traffico internazionale di stupefacenti ma hai diritto alla protezione umanitaria perché
nel tuo paese potresti essere esposto a tortura.
Nella normativa europea fin dal '90, e poi in maniera più organica dal 2003, con il Regolamento di Dublino 2, si sono
previsti dei meccanismi per stabilire qual è il paese di entrata dell'Unione competente dell'esame della domanda di
asilo. Questo intanto per evitare a livello continentale il cosiddetto fenomeno dei rifugiato in orbita ovvero il rifugiato
che, arrivato in un determinato paese, poi presenta richiesta in altro paese o presenta domande multiple. Ci sono vari
meccanismi per determinare il paese competente: paese che ti ha dato visto di ingresso o il permesso di soggiorno o il
paese attraverso cui sei entrato per la prima volta nell'Unione Europea. Per questo motivo sono aumentate le
domande esaminate in Italia, ovvero perché l'Italia è una frontiera esterna relativamente significativa nel fenomeno
delle migrazioni e delle migrazioni per motivi umanitari e politici.
Guardiamo ora le condizioni di accoglienza: anche qui il diritto impone di dare accoglienza a tutti i richiedenti asilo
privi di mezzi di sussistenza e sostentamento, ma il sistema italiano è assolutamente inefficiente e insufficiente e le
condizioni di accoglienza non garantiscono il rispetto degli standard minimi. L'unico sistema ufficiale esistente in Italia
è lo SPRAR che ha 3000 posti, li moltiplichiamo per 2 ovvero 6000 posti per soggetti che possono essere accolti in un
anno ma nel 2010 si sono ricevute 13000 domande di asilo. Nello SPRAR entrano sia richiedenti asilo sia rifugiati (i
richiedenti asilo sono il 43% dei soggetti che entrano nello SPRAR). Sicuramente una gran parte resta per strada e lo
stesso vale per i rifugiati, ovvero per le persone che hanno già visto riconoscersi una forma protezione. Questa
inefficienza del sistema è stata riconosciuta anche da alcuni giudici, in particolare tedeschi: ci sono infatti già alcune
sentenze che vietano il rimpatrio del richiedente asilo dalla Germania all'Italia proprio perché non c'è garanzia di
accoglienza. L'unico metodo per dire che non ci sono condizioni di accoglienza dignitose è l'art. 3 della Convenzione
Europea non come tortura ma come trattamenti inumani e degradanti: questo significa che viene affermato che in
Italia un richiedente asilo è esposto al pericolo di trattamenti inumani e degradanti. Ci sono state anche 2 ordinanze
della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che hanno vietato trasferimenti dalla Finlandia all'Italia sempre per lo stesso
motivo. Qui è più lampante perché l'unico strumento che può avere la Corte Europea è la normativa della Convenzione
Europea dei Diritti dell'Uomo e quindi è proprio l'art. 3 con cui di nuovo si è affermato che non ci sono sufficienti
garanzie per cui le persone non siano esposte a trattamenti degradanti.
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Lavori di gruppo | Secondo incontro
Ricerca sul web delle fonti e delle informazioni pertinenti e utili per la valutazione della storia dei richiedenti asilo.
A partire dalla storia produce una documentazione per supportare la storia stessa (fonti e dati esterni)presentata alla
Commissione Territoriale competente nel concedere o meno lo status di rifugiato.
Nell’aula d’informatica di Via plana, 10 sono stati organizzati dodici sotto gruppi di lavoro.
Ad ogni gruppo viene assegnata la storia di un richiedente asilo (come se venisse raccontata dal protagonista stesso, le
storie in tutto sono 4). A partire dalla storia ogni gruppo con l’ausilio di un pc ha 15 minuti per verificare le
informazioni presenti nella storia del richiedente. Allo scadere del tempo ogni gruppo espone i passaggi logici e
mentali che lo hanno portato a produrre determinate informazioni finalizzate a “perorare” e sostenere, dinnanzi alla
Commissione, la richiesta d’asilo.
Storia di A.
Il protagonista della storia si chiama A. è nato a Kukes (Albania) il 01.01.1985
Nel marzo del 2010 durante una rissa tra due bande di amici, il fratello di A. di 17 anni uccide un coetaneo. Inizia il
processo e nel frattempo il fratello viene rinchiuso in un carcere minorile. A. in quel momento si trova a Tirana. In
Albania, soprattutto nel nord del paese vige il Kanun, raccolta di leggi consuetudinarie al cui interno si prevede la
legittima vendetta da parte dei parenti maschi della vittima contro i parenti maschi dell’assassino. Avviene così che in
seguito alla morte del ragazzo il protagonista della storia assieme al padre e allo zio comincia ad essere perseguitato.
La polizia albanese non protegge chi si trova in questa situazione ed ecco allora che A. non sentendosi più al sicuro nel
suo paese decide di partire. Il viaggio, costato 3000 euro, lo vede partire il 26 agosto 2010 per Pristina (Kosovo). Da lì
un’organizzazione di trafficanti lo fa salire su un furgone insieme ad altre 5 persone . A. continua il racconto del suo
viaggio fino a Torino dove un suo cugino vive e gli offre ospitalità e aiuto.
Gruppo A.1
1. Lettura della storia. Evidenziando le parti considerate rilevanti ai fini dell’attendibilità della storia
2. Ricerca riferimenti considerati rilevanti (es. esistenza del Kanun)
3. Cercare fonti il più possibile attendibili, siti di istituzioni o siti di organizzazioni internazionali (es. Human Rights
Watch)
4. Controllo esistenza di report di quel periodo sull’Albania
5. Verificare percorso descritto e compatibilità distanze/tempistica
Gruppo A.2
1. Ricercare Associazioni di volontariato, consolato albanese a Torino e Ambasciata Albania
2. Centri di cultura albanese : chiedere ai soci di raccontare le loro storie per vedere se è un caso unici.
Intervento esperti
1. Ricerca sul paese di origine
2. Reperire il cartaceo Kanun. Internet ha un ruolo importante ma non sempre è esaustivo ai fini della ricerca
3. Viaggio, analizzare gli itinerari affrontanti e verificare nel caso non corrispondessero nomi di luoghi con luoghi
realmente esistenti se questo non è determinato dal fatto che a volte i villaggi possono, nel linguaggio comune, avere
nomi differenti da quelli ufficiali.
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Storia di B.
Il protagonista della storia si chiama B., è nato a Narola (Kashmir) il 01.01.1980
Il 7 maggio diventa membro del U.K.P.N.P, un movimento che lotta per l’indipendenza del Kashmir dal Pakistan, il cui
fondatore da 11 anni ha trovato rifugio in Svizzera. Nel 2006 il movimento si è schierato contro le elezioni governative
tenutesi l’11 luglio con la vittoria della Muslim Conference. L’U.K.P.N.P. ha organizzato manifestazioni e proteste
contro le sopracitate elezioni. Durante una di queste manifestazioni il protagonista della storia viene arrestato insieme
ad altri manifestanti. Portati in un luogo vicino alla stazione di polizia vengono trattenuti illegalmente per circa 12
giorni impedendo loro di svolgere qualsiasi attività politica e di propaganda fino alla fine delle elezioni. Durante il
periodo di detenzione B. è stato interrogato sulla natura e le caratteristiche del movimento, la polizia era violenta e
non venne data la possibilità e il permesso di contattare i familiari né un avvocato. Il 17 aprile 2007 B. viene promosso
a responsabile della sezione dell’U.K.P.N.P. in virtù di questo ruolo B. organizza la manifestazione del 1° maggio 2010
Trarkhel City, durante la quale tiene un comizio contro l’esercito, la polizia e il governo Pakistano, per l’indipendenza
del Kashmir. Durante la manifestazione sono intervenuti polizia, esercito e servizi segreti , B. riesce a scappare a Davi
Galli e da qui sotto consiglio del suo avvocato decide di lasciare il paese. B. lascia il Pakistan il 23 giugno 2010,
attraversa l’Iran la turchi ed arriva in Italia il 1 settembre 2010.
Gruppo B.1
1. Elementi verificabili
• Controllare i dati su U.K.N.P.N.
• Polizia pakistana (report Amnesty)
• Responsabili
• Figura dell’avvocato
• Arrivo a Modena : testimoni?
2. Verificare i documenti
• Tessera del movimento
• Documenti dell’arresto
• Contattare organismo internazionale sul posto
• Cercare e verificare report Amnesty
Gruppo B.2
1. Argomenti da ricercare e fonti
• U.K.N.P.N : www.uknpn.com , twitter.com/ukpnp
• Sardar Shoukat Ali: www.sananews.net
• Muslim Conference: eur-lex.europa.eu www.peacereporter.net, www.euronews.net
• Manifestazione a Trakhal City: siti di giornali locali
• Davi Galli, Karachi, Rawalpindi: google Maps per verificare se esistono davvero
• Ambasciata indiana a Roma per verificare la situazione politica
• Motore di ricerca Google
Gruppo B.3
1. Inquadrare situazione Kashmir: UNHCR, constatazione esistenza conflitti
2. Verificare esistenza del movimento U.K.N.P.N
3. Verificare veridicità date citate
Intervento esperti
1. statuto del movimento o partito politico relazionato con la Convenzione di Ginevra (in riferimento alla
manifestazione del pensiero e del diritto ivi tutelato)
2. Siti locali per verificare le manifestazioni di realtà piccole
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3. Video su YouTube per eventuali momenti testimoniati
4. Casi di detenzione extra governativa
5. Report Human Rights Watch, Amnesty International
6. Verificare se esistono storie simili o paragonabili a quella del richiedente asilo
7. Quasi mai i carcerati affrontano un iter processuale legale e verificabile
8. Contattare l’ambasciata potrebbe essere pericoloso soprattutto per il kashmir che è un territorio conteso
9. UNHCR: può fornire le linee guida per situazioni particolari
Bibliografia | Secondo incontro
Algostino Alessandra
2005
L’ambigua universalità dei diritti. Diritti occidentali o diritti della persona umana?, Jovene, Napoli
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Terzo Incontro
18 ottobre 2011
Titolo
Comparazione dei sistemi di accoglienza europei e regolamento di Dublino
Relatrici
Chiara Marchetti, Università di Milano
Barbara Sorgoni, ricercatrice presso l’Università di Bologna
Chiara Marchetti
Giusto due parole per dirvi come pensavo di lavorare con voi oggi e un po' come ci siamo coordinati per provare a fare
un lavoro che sia interessante e con degli stimoli, in una dinamica che sia più aperta e disciplinata e una parte più
laboratoriale. Io ho la tendenza a parlare un sacco, anche per questo dichiaro già cosa vorrei fare, cercherò di non
uscire troppo dal seminato anche per lasciare il tempo giusto, sia per l'altro intervento, sia anche e soprattutto per il
laboratorio.
Quello che pensavo di proporvi oggi è un ragionamento rispetto alla situazione europea,nel senso di approfondire i
singoli sistemi di accoglienza e di vedere quali sono le chiavi di lettura più ricorrenti. La parte laboratoriale tenterà di
far fare a voi una parte di ragionamento, di interpretazione, di ipotesi rispetto a queste linee, una sorta di griglia di
quelle che sono delle ricorrenze dei sistemi di accoglienza di rifugiati o immigrati forzati.
Di formazione sono sociologa, ho fatto un dottorato nella statale di Milano e ora continuo a occuparmi, da ricercatrice
precaria, di questi temi. In particolare ho partecipato a un progetto di ricerca, finanziato dai fondi europei, sul tema dei
rifugiati e si è tentato di approfondire la situazione in Italia, facendo una fotografia dello stato attuale del sistema di
asilo in Italia.
Questo lo dico perché, soprattutto nella parte che tratterà delle istituzioni, ci saranno elementi e alcuni dati
interessanti che posso proporvi e che, proprio per lo stato degli studi attuale in Italia, non sono circolati tanto. Il punto
di partenza da cui prendere avvio è una riflessione anche banale, ma che mi serve come prospettiva: il confronto
dell'idea che ci sia una difficoltà, una sorta di strabismo quando si parla delle immigrazioni forzate e di come i Paesi
europei si confrontano con le immigrazioni forzate. Questo strabismo consiste nel guardare da un lato a quelle che
sono le esigenze, i bisogni, i sistemi costituiti da parte degli Stati o dell'Unione Europea, quindi un punto di vista
istituzionale che si dà delle priorità, che mette in campo delle politiche, delle pratiche, ma che comunque ha
ovviamente un suo punto di vista e anche delle sue dinamiche, anche delle proprie resistenze che riguardano il sistema
istituzionale. Un altro occhio, che per noi, o per chi fa l'operatore o anche per chi fa il ricercatore qualitativo, che ci
sembra anche il più scontato, ma sappiamo che non è così, quindi l'altro occhio è il punto di vista dei rifugiati, per
utilizzare una categoria ampia, più propriamente di immigranti forzati, perché non ci sono solo i rifugiati riconosciuti
nello stretto senso dalla convenzione di Ginevra, ma anche l'ampia gamma di persone che richiedono di avere diritto a
questa protezione. Rispetto a questo confronto, cosa dicono e cosa propongono le istituzioni e cosa dicono, cosa fanno
e come si muovono, dove vogliono andare a stare gli immigranti forzati, fra questi due occhi, questi due sguardi,
queste due prospettive, sappiamo che non sempre c'è una convergenza e un'integrazione.
Allora, se oggi parleremo un po' di quelli che sono i modelli, le proposte delle istituzioni, vorrei che ne parlassimo
tenendo a mente e cercando di ragionare insieme su quali sono poi le altre spinte, le altre realtà che si muovono
concretamente: al di là di quelle che sono le leggi, le politiche e le offerte, c'è, come dicevamo, l'idea che alcuni Paesi
Europei sono la Terra promessa. Questa cosa è vera no non è vera, ma se gli immigranti riportano questo, agiscono di
conseguenza, poi scopriranno che magari non è del tutto vero, ma le gambe si muovono per quella direzione. Quindi
noi cerchiamo ti tenere a mente queste due prospettive.
Un'ultima cosa introduttiva: questi due rami vengono allo scoperto e si mostrano molto bene quando parliamo di
Sistema di Dublino. Iimmagino abbiate fatto una parte giuridica, anche se non so quanti di voi siano avvezzi a questa
terminologia e caso mai fermatemi se non è chiaro. Non voglio addentrarmi troppo nei tecnicismi, ma cerchiamo di
capire: se parlo di Sistema Dublino, mi riferisco sia al regolamento Dublino e poi il regolamento Dublino Due, che poi è
diventata legge e regolamento europeo, vincolante per tutti i Paesi europei che prevede che il richiedente asilo
presenti istanza nel Paese di primo ingresso. Comunque quando parlo di sistema Dublino, parlo anche di tutti i
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dispositivi che sono serviti per mettere in piedi questo sistema. Quindi Eurodac, il sistema di rilevamento delle
impronte digitali, tutti quegli strumenti che permettono o dovrebbero permettere di capire da dove è entrata una
persona, se è già entrato nel Paese dove è passato prima e in teoria di ritornare a ritroso nella catena fino a mandarlo
fisicamente nel Paese di primo ingresso dove potrà completare la propria domanda e la propria istanza di protezione.
Quindi quando parlo di sistemi parlo anche della filosofia che sta dietro a questo sistema che è fatto anche di leggi, di
pratiche, di punto di vista istituzionale. Quindi per filosofia di Dublino intendo un qualcosa che si fonda su due
presupposti che sono teorici, ma che si traducono in modo molto concreto: uno è il presupposto che riguarda proprio,
oserei dire, una vecchia teoria delle immigrazioni forzate che descrive gli immigranti forzati come una particolare sottocategoria di immigranti che sono molto più spinti, nel senso che si parla di push factors dai Paesi d'origine per arrivare
ai pull factors. Queste teorie, per chi fa ricerca seria, direi che sono superate. Ma sono imperniate così bene
nell'accademia, ma soprattutto in chi ha costruito le politiche e le leggi, che sono tutt'altro che scadute. Semplificando
al massimo, gli immigranti sociali ed economici rispondo di più ai pull factor, cioè ai fattori di attrazione, cioè mi muovo
perché sono attratto dal fatto che l'Italia è quel Paese dove ho una maggiore aspettativa di trovare un buon lavoro, di
guadagnare di più, di trovare dei maggiori diritti civili o quant'altro, quindi mi muovo attratto da qualcosa, quindi
l'immigrazione è volontaria. Se invece sono spinto, push factors, vuol dire che prevalgono in me quei fattori che mi
impediscono di vivere nel mio Paese, quindi sono espulso in un certo senso, mi sento costretto a lasciare il mio Paese
per motivi come la persecuzione, però insomma la filosofia generale è che prevalgono i fattori di spinta. Capite che è
una visione dicotomica, come se ci fossero effettivamente queste due componenti che ci permettono di dividere in
questa maniera le persone. Sappiamo che uno dei pilastri su cui questa visione è basata è quello economico. Perché è
uno dei pilastri? Perché se così è, se così fosse, cioè che le persone immigranti forzati sono innanzitutto persone che
hanno necessità di lasciare il proprio Paese, allora si giustifica una politica che direbbe che se la cosa importante è
quella di mettersi in salvo, è indifferente per te dove vai a stare,purché ti siano garantiti certi diritti, uno standard
minimo, di accoglienza, protezione e quant'altro, ma dato questo zoccolo duro di fondo, essere in Italia, essere in
Inghilterra, essere in Francia, essere negli Stati Uniti, è indifferente, perché quello che ti interessa è metterti in salvo
dal tuo Paese. Questo è uno dei pilastri, vedremo poi se tiene o meno questo pilastro. L'altro pilastro è più giuridico,
ma con ha una filosofia di fondo, ed è quello che riguarda il processo di armonizzazione europea. Cioè se già è vero il
punto uno, quindi è indifferente il Paese purché siano garantiti questi standard minimi, per quanto riguarda l'Europa, si
aggiunge un tassello in più: dal 1999 , avvio del processo di armonizzazione europea, in cui tutti i paesi si sono
impegnati approvando a livello europeo un insieme di direttive che sono poi state recepite dai singoli paesi. È
importante sapere che c'è questo processo in corso fatto di direttive accoglienza, direttiva procedure, direttiva
qualifiche, che si inseriscono in un più ampio pacchetto, che riguardano anche Dublino 2. I tre pilastri sono le tre
direttive: se tutti i paesi hanno recepito queste direttive che stabiliscono gli standard minimi, allora ancora di più per il
singolo richiedente asilo deve essere indifferente dove va' a stare. Dal punto di vista giuridico, gli stati che hanno
recepito le direttive, che si sono inseriti gioco forza nel processo di armonizzazione europea sono, sempre per questo
discorso della filosofia di Dublino, equiparabili. Quindi per il richiedente asilo politico è indifferente dove va' a stare.
Questo è il punto di vista istituzionale. Ci mettiamo dal punto di vista dei Paesi, a provare a capire qual è il motivo per
cui si mettono in atto certe politiche, che oggi non affronteremo perché ci occupiamo di quelli che sono qui , perché se
ci occupiamo di sistemi di accoglienza più o meno funzionanti, già stiamo parlando di persone che già sono sui nostri
territori. Potrei dire anche che se il paese è sicuro, non è neanche dell'unione europea, ma è appena più in là, in base a
questa filosofia di fondo che l'importante è dare garanzie minime, se sono garantite in un altro Paese, io farò in modo
che la persona non arrivi neanche in Europa, perché comunque ho fatto salvo il suo diritto ad essere protetto. Questa
filosofia riguarda molto le politiche dei singoli paesi, sappiamo di politiche di esternalizzazione, di campi nel Magreb,
però appunto questo è lo scenario più ampio.
Funziona questo ragionamento? Le persone aderiscono a questa filosofia o in qualche modo cercano altre strade,
pagando il fatto di non essere riconosciute o di uscire dai sistemi di accoglienza? Da un punto di vista sia di ricercatori
che di operatori, capiamo che queste maglie sono troppo strette, che gran parte delle persone non trovano risposte in
questo modo, e che c'è qualcuno che è disposto a pagare un prezzo molto alto pur di prendere altre strade, quindi di
non essere riconosciuto formalmente, ma di andare ugualmente in quel Paese dove magari ha la famiglia, o dove ha
delle reti, delle conoscenze. In questo senso ci può aiutare mantenere questo sguardo un po' strabico, che ci dà modo
di vedere degli elementi in più. La realtà dove va'? Lungi da me dal dare una risposta. Ma alcuni indizi ce li abbiamo,
una prima cosa che possiamo vedere, banalmente, è che le domande di asilo non danno ad oggi ragione di questo
ragionamento. Se funzionasse la filosofia di Dublino, avremmo un numero di domande maggiore nei paesi della fascia
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esterna, i paesi di primo ingresso, cosa che non è del tutto vera, perché la maggior parte delle persone non arrivano
comodamente in aereo, anche se ce ne sono, pensate ad esempio quelle che vanno in Francia, dove prima che
introducessero un sistema ristretto di visti, molte persone andavano direttamente all'aeroporto Charles De Gaulle e
presentavano domanda d asilo lì. Nel complesso possiamo pensare che i paesi che si trovano a ridosso delle situazioni
di crisi, quindi la fascia mediterranea, ma anche la fascia orientale, verso la Polonia, la zona est dell'Unione Europea
siano quelli più esposti. Quindi è vero anche che, se deve essere il paese di primo ingresso, dovrebbero essere questi
paesi ad avere il maggior numero di domande. Sappiamo che storicamente non è così. Anzi il sistema di Dublino nasce
proprio per contrastare una realtà che andava da tutt'altra parte. Ancora oggi, nel 2010, le domande di asilo, i primi
paesi con il più alto numero di domande sono la Francia, la Germania, la Svezia, il Belgio, il Regno Unito. Poi arrivano
Italia e Grecia. Poi sappiamo che se prendiamo gli ultimi quattro anni, in Italia, è successo di tutto in termini numerici,
prendiamo i dati con le pinze, questa è una tendenza abbastanza confermata, i paesi che sono nel cuore dell'UE sono
ancora i paesi ad avere il più alto numero di richiedenti asilo, e questo dopo anni e anni dall'entrata in vigore della
Convenzione di Dublino. Considerate che la prima convenzione di Dublino è del '90, addirittura, mentre il Dublino Due
è del 2002. Queste sono persone che se possono o se riescono presentano domanda di asilo in Paesi che sicuramente
non sono il primo paese in cui mettono piede in UE. Lasciamo perdere che se seguissero questa filosofia, dovrebbero
chiedere asilo nel primo paese davvero sicuro, anche fuori dall'UE. Ma mettiamo pure che nello spazio dell'UE, non
sono i paesi più comodi, ma sono quelli per i quali sentono un'attrazione particolare. Quindi c'è più pull, che spinta dai
paesi di origine. Potremmo ragionare assieme su quali sono questi fattori di attrazione. Alcuni li possiamo intuire: la
famiglia, le reti etniche, il passaparola di una conoscenza o presunta conoscenza di altri sistemi di asilo che ti
convogliano, o anche le reti di trafficanti. Un primo dato facile da leggere, ma comunque interessante, è il numero di
domande. Quindi: numero di domande crescenti nel cuore dell'UE. Il dato macro è che sono paesi di forte attrazione,
nonostante negli ultimi anni abbiano politiche più repressive, nonostante ci siano tutti questi dispositivi legislativi.
Un secondo dato interessante, che smentisce più il secondo punto, ovvero quello dell'armonizzazione europea, è
andare a vedere un po' qual è il tasso di riconoscimento delle domande di asilo nei diversi paesi europei. Sappiamo che
si può andare per approssimazione. Possiamo anche dire: “Come mai questo serbo ha chiesto protezione in Italia, e
invece un afgano non l'ha presa, e l'ha presa in Inghilterra?”. Ognuno ha le sue motivazioni, magari quelli che sono
arrivati in Inghilterra sono quelli ad avere ragioni meno valide a chiedere asilo. Proviamo però a guardare il dato
assoluto, cioè qual è il tasso di riconoscimento dei richiedenti asilo nell'UE. Allora la differenza è ovviamente in
percentuali. Dunque, se in Grecia siamo all'1% non dico di riconoscimento dello status di rifugiato, ma di una qualche
forma di protezione, significa che su 100 persone che si presentano in Grecia solo 1 riceve una qualche forma di
protezione. Pensate a tutti quelli che provengono dalla zona mediterranea o medio orientale: allora, di quelli che
chiedono asilo in Grecia, che non sono tantissimi rispetto agli altri paesi, il dato del 2009 diceva 1%, il dato del 2010 è
intorno al 3%, ricevono una qualche forma di protezione. Solo 3 su 100 hanno una qualche possibilità di vedersi
riconosciuta una qualche forma di protezione. Vediamo altri paesi, per esempio l'Italia, parlando di luoghi comuni, ha
tantissimi difetti, ma in termini di tasso di riconoscimento è uno dei paesi europei che ha la più alta percentuale di
riconoscimenti di una qualche protezione, che negli ultimi anni è oscillata dal 40% ad addirittura il 48-50%, mentre nel
2010 intorno al 38%. Il Belgio, che è anche quello un paese dove ci sono tante domande di asilo, il 22%, la Spagna il
13%, l'Olanda il 44%, il Regno Unito il 24%: questi sono i dati assoluti che riguardano in generale una qualche forma di
riconoscimento, ci dicono quindi qualcosa, ma non tutto. Ad esempio ci sono paesi in cui c'è più tendenza riconoscere
lo status di rifugiato, così come ci sono paesi in cui c'è più tendenza a riconoscere, anche a parità di nazionalità, quelle
forme di protezione che però sappiamo essere anche più ridotte in termine di diritti, che si chiamino protezione
sussidiaria o protezione umanitaria. Queste hanno, anche da un punto di vista giuridico, un fondamento diverso, ma in
questo momento le consideriamo nel loro complesso come forme alternative complementari di protezioni comunque
inferiori allo stato di rifugiato. Ecco che vediamo che ci sono paesi in cui ci sono per ¾ rifugiati, e meno di ¼ per la
protezione sussidiaria, umanitaria e viceversa. Ad esempio, il Belgio riconosce molto lo status di rifugiato, la Germania
anche, la Francia anche, l'Italia negli ultimi anni ha avuto un'impennata delle protezioni, addirittura prima della
protezione sussidiaria, poi nel 2010 più dell'umanitaria. Anche un po' un rotolamento a valle delle forme di protezione.
Per esempio anche la Svezia riconosce molto di più la protezione sussidiaria che non lo stato di rifugiato. E per contro il
Regno Unito, poca sussidiaria e molto status di rifugiato. Quindi torniamo alla questione dell'armonizzazione europea:
se fosse vera, ci aspetteremmo che il range di differenza tra un Paese e l'altro, a fronte di flussi simili, non uguali ma
comunque simili, fosse minimo e quindi le situazioni paragonabili. Così non è. In termini assoluti. Il caso della Grecia è
eclatante, perché ha fatto si che anche UNHCR, ovvero l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, e
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recentemente anche la corte europea, abbiano fatto propria l'idea che la Grecia non sia da considerare un Paese
sicuro. E quindi dice: “nei casi di Dublino, non rimandate indietro i richiedenti in Grecia, perché non può garantire il
rispetto di quei diritti minimi”. È una piccola deroga, è una punta dell'iceberg. Senza parlare del resto delle politiche
greche, parliamo solo del dato dei riconoscimenti. Questo è un punto, la percentuale di riconoscimenti sul totale delle
domande presentate.
Un altro punto rivelatore è il riconoscimento relativo alle singole nazionalità: un afgano, che presenta domanda di asilo
in Italia, che probabilità ha di essere riconosciuto? Anche qui, l'afgano, o possiamo prendere alte nazionalità. Non è
facile capire questi dati, perché l'Italia non è molto veloce nel fare le statistiche. Anche qui ci sono indicazioni
interessanti. Vediamo ad esempio che ci sono delle nazionalità, turchi, iracheni, che dal punto di vista geografico
seguono dei percorsi non coerenti. Sono quei richiedenti provenienti da quei paesi dai quali sarebbe più facile e
comodo chiedere asilo all'Italia o alla Grecia invece che alla Germania, ma così non fanno. Perché il tasso di
riconoscimento è difforme. Stessi nuclei famigliari, che si trovano catapultati in realtà diverse. Anche qui, è un
elemento molto evidente, di come questa armonizzazione europea non stia del tutto in piedi.
L'ultimo dato, una considerazione generale sul perché non tiene questo discorso, riguarda Dublino in senso stretto.
Diciamo due parole in più su questo. Cosa prevede il sistema Dublino, facendo un caso molto semplice: l'afgano arriva
in Francia, viene intercettato dalla polizia e i suoi dati, le sue impronte digitali, vengono inseriti nel sistema Eurodac,
quindi nel sistema di confronto europeo. Si scopre che questa persona è già passata per l'Italia. Cosa succede? I due
paesi devono trattare. La Francia sostiene che sia l'Italia a doversi riprendere questa persona, perché ha le prove che
sia passata nel territorio italiano. Perché ne ha le prove, appunto. Visto che nessun paese fa a gara per avere più
richiedenti asilo, pure per quelli che ci sono le prove, non è scontato che le persone siano rimandate nel paese di
primo ingresso. Per quanto riguarda l'Italia, guardiamo solo il numero di persone per le quali è stata richiesto di
tornare in dietro, e viceversa, il numero di persone che l'Italia avrebbe dovuto mandare in altri paesi., ad esempio in
Grecia. I dati sono molto sbilanciati: nel 2008, le richieste di trasferimento dall'Italia verso i Paesi membri sono state
quasi 1900. Mentre dai Paesi membri verso l'Italia, 5600 circa. Nel 2009 è ancora più evidente. Dall'Italia verso
qualsiasi altro paese, 1377 e 47 effettuati. Viceversa, da altri paesi verso l'Italia, sono stati circa 10600 di cui 2688. Una
bella differenza. I trasferimenti sono stati, nel 2008 dall'Italia verso i paesi membri, 124 su 1900 domande presentate.
Dai paesi membri all'Italia ne sono state effettuati 1308 su 5600. Quindi comunque una proporzione maggiore. Questi
sono dati macro. Le vere richieste secondo il sistema Dublino. Ovvero le persone di cui si è avuta la possibilità di capire
che non avevano completato l'iter.
Le situazioni infatti possono essere tre:
1. La persona arriva in Italia, viene intercettato dalla polizia, viene fatto il rilievo dattiloscopico, ma comunque prima
di completare domanda di asilo se ne va e presenta domanda in un altro Paese. Questa persona, pur non avendo
presentando domanda in Italia, viene schedata e quindi viene rimandata in dietro.
2. La persona presenta domanda di asilo in Italia, ma mentre aspetta la risposta, se ne va in un altro Paese e presenta
di nuovo domanda, cosa che non si può più fare.
3. Finto Dublino: la persona viene in Italia, fa tutta la procedura in Italia, si vede riconosciuta in Italia, quindi ha uno
status di protezione, ma comunque decide di andare in un altro Paese e da quel paese viene intercettato e
rimandato in Italia. Questo qui dico che è un finto Dublino, perché ovviamente il Dublino riguarda le domande di
asilo. Qui sono persone che hanno un titolo e possono rimanere in Italia ma comunque decidono di andare a cercar
fortuna altrove.
Questo ci da' il dato, vedremo anche numerico, concettuale, che ci sono persone che preferiscono rinunciare a uno
status garantito in Italia, pur di andare con zero diritti in un altro Paese. Cosa che ci dice qualcosa. Sia sui pull factors,
che non funziona, ma sia e soprattutto forse anche sullo stato del nostro sistema di accoglienza, perché se le persone
preferiscono addirittura, pur avendo il pezzo di carta in tasca, andarsene in un altro Paese, qualcosa di strano c'è!
Questo è un dato che fa parte di quella ricerca di cui vi accennavo prima, cioè siamo riusciti l'anno scorso a recuperare
i dati per gli ultimi due anni, per quel che riguarda Malpensa e Fiumicino che sono i due aeroporti internazionali.
Questa procedura implica il fatto che qualcuno viene caricato su un aereo e rimandato indietro. Pochi, per noi pochi.
Se pensate che nel 2009, le domande di asilo oscillano fra i 10-12mila, lasciamo perdere gli anni particolari, come
questo o il 2008, in cui ce ne sono state più di 30mila. Insomma qui vuol dire che sono uno su dieci. Non sono proprio
numerini.
Queste persone arrivano in un aeroporto. I principali sono Malpensa e Fiumicino. Andando a vedere i dati di questi
aeroporti, per chi presta servizio di accoglienza alla frontiera di questi aeroporti, si scopre che in particolare a
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Fiumicino, quelli classificati come Dublino nel 2009 che sono stati rimandati fisicamente in Italia sono stati: 368
richiedenti asilo e 1048 persone che avevano già una qualche forma di protezione. Nel 2010 invece 302 e 1212. A
Malpensa è un po' meno solo il dato del 2010, i richiedenti asilo erano 199 e 80 circa persone già riconosciute. La
proporzione è inversa, ma comunque è una cifra importante. È un dato che ci dice molto.
Questo è lo scenario che ho voluto tracciarvi, poi se volete ci sarà modo di vedere meglio questi dati, anche perché a
giocarci un po' ce ne sono elementi interessanti.
Per tirare brevemente le fila, quello che avevo piacere condividere con voi è questa divaricazione del sistema europeo
in generale, che in concreto viene chiamato sistema Dublino, che ci fa vedere meglio il punto di vista italiano. Potete
moltiplicare questo ragionamento per qualsiasi paese europeo e ovviamente noterete che i saldi in entrata e uscita
saranno diversi, ma la dinamica è più o meno la stessa. Ciascun Paese europeo cerca di avere il minor numero di
richieste di asilo e di avere il pacchetto più piccolo di diritti e assistenza da garantire alle persone. Chiaramente se
possono mandarlo indietro o ritenere una domanda infondata o non far ricadere una persona sotto la categoria di
protezione, se trovano il modo per farlo, tanto di guadagnato. Questo scenario ci dice che a fronte di un sistema molto
elaborato, anche qui vediamo dai primi dati, il risultato è anche molto fallimentare: se pensate dal punto di vista
istituzionale, se pensate a tutto il sistema Eurodac, o il sistema Dublino che nel suo complesso ha dei costi infiniti,
veramente grossi, alla fine, tenendo il punto di vista delle istituzioni, si è calcolato che in Europa più o meno il 10%
delle persone che son state classificate come Dublino, sono state trasferite. Già non tanti rientrano in queste reti,
perché alcuni riescono a non farsi intercettare, poi di questi, solo il 10% viene trasferito, quindi se volete, c'è anche un
costo che non è del tutto giustificato. Comunque le persone prendono altre strade.
DOMANDA: Quelli che non vengono rimandati in Italia è perché vengono assorbiti dal Paese che li ha accettati o
perché..?
RISPOSTA: No, queste sono persone che spariscono e che non hanno diritto a chiedere asilo in un altro Paese quindi o
si riesce a rimandarlo....alcuni, ci sono singoli casi, in cui se viene fatto un ricorso per un'istanza Dublino, per unità
familiare, ci sono possibilità di rompere questa catena, ma sono proprio residuali in termini di successo, perché poi di
fatto il gran numero di questi sono persone che finiscono nella clandestinità.
Per abbreviare la nostra di procedura, vi distribuisco dei fogli in cui trovate le possibile linee di interpretazione dei
sistemi europei. Che si voglia parlare di migranti forzati o economici, che oggi come oggi non sono così facilmente
etichettabili, con tutte le ambiguità del caso, ma comunque i processi di etichettamento sono anche molto negativi e
molto impattanti sulle persone. È sempre un'arma a doppio taglio quello che ti permette di avere un pezzo di carta in
mano, ma solo nella misura in cui si riesce a vendersi sufficientemente come vittima. Anche se questi processi sono
ambigui, abbiamo capito che le persone prendono delle traiettorie che non sono sempre prevedibili e che non si
inseriscono così fedelmente nelle linee date dalle politiche europee. Ciò nonostante, o anzi proprio per questo, è
possibile individuare alcune linee di lettura, che riguarda, e qui entra la parte di discussione dei gruppi, il capire quanto
questi modelli di accoglienza vi si inseriscono, anche questi sono dei modelli biunivoci tutto buono o tutto cattivo,
quindi il paese del nord Europa è la terra promessa e in Italia fa tutto schifo e via dicendo? Quanto sono costanti nel
tempo? Sappiamo che molto spesso le stelle muoiono e la loro luce dura molto più del necessario. Ci sono Paesi, come
l'Olanda, che è stato un Paese e per certi versi lo è ancora, che dà certe garanzie ai rifugiati in maniera molto liberale,
ma che oggi ha delle politiche di detenzione molto forti o severe, eppure la sua luce continua a brillare, facendo da
specchietto per le allodole per molti richiedenti asilo.
Questo schema che vi ho proposte e che ora illustro, potrebbe servire come guida: uno, se è così facile combinare
questi aspetti, se un Paese con una forte politica di detenzione sia anche un paese fortemente centralizzato. Secondo,
capiamo anche che i Paesi sono soggetti a cambiamenti molto profondi, quindi quello che era un Paese dieci anni fa,
già oggi non è più del tutto vero.
Si potrebbero aggiungere anche altre dimensioni, ma quello che guardiamo adesso, sono il flash di alcuni Paesi.
Queste sono dicotomie, alternative, che vanno considerate non come uno oppure l'altro, ma come estremi di un
continuum, in un certo senso.
In generale, parlando di sistemi di asilo, una prima polarità riguarda: sistemi centralizzati da un lato e sistemi
decentralizzati dall'altro. Questo riguarda i sistemi di accoglienza veri e propri, ovvero, ci sono paesi la cui gestione, ma
anche la localizzazione dell'accoglienza è molto centralizzata, viceversa paesi con un accoglienza sparsa sul territorio, e
però bisogna capire anche se questa dispersione riguarda anche una dispersione di responsabilità degli organi. Ad
esempio, l'Inghilterra per molti anni ha avuto un eccesso di richiedenti asilo che si accentravano tutti a Londra,
centralizzato perché da un punto di vista istituzionale tutto si svolgeva lì. Pensiamo anche quando la commissione
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territoriale era solo a Roma, il sistema romano-centrico era molto più forte, se devi fare domanda lì cerchi di stare in
quella zona. Allora tutto era gestito a Londra, tutto era incentrato lì, questa cosa era gestita anche dal pubblico, dallo
Stato, dal 2006 quando è stato approvato il New Asylum Model, viene introdotta una linea diversa per cui si è cercato
di coinvolgere anche le comunità periferiche. Cosa è successo? Da un certo punto di vista, geograficamente, il sistema
è diventato decentrato, la gente è stata mandata nei posti più tristi, sono stati scelti quartieri molto degradati e poveri.
Però la politica è rimasta fortemente centralizzata, ovvero le decisioni su dove metterli, addirittura la trattativa con i
centri di accoglienza viene fatta solo dallo Stato, il Comune viene completamente bypassato, non avevano alternative.
Le persone dicevano infatti: “Noi non possiamo nemmeno fare delle ispezioni, solo lo Stato centrale può farlo”.
Questo sistema ve l'ho portato come esempio, ovvero non va pensato come un versus ma un continuum. Stesso
ragionamento va fatto per la Francia. In Francia ancora oggi il polo centrale è Parigi, l'equivalente della nostra
commissione territoriale è lì, i centri di accoglienza rimangono lì, però ad esempio sia la centralizzazione che anche la
Repùblic francese tiene una situazione molto statale. Dall'altra parte gli equivalente dei CARA sono gestiti dal privato
sociale, o meglio da grosse ONG nazionali, che sono però para-pubbliche, non sono l'equivalente della situazione
nostra. Hanno grossi interessi, si sostituiscono per certi versi al pubblico fino alle volte a diventare quasi un tutt'uno,
non c'è una distinzione netta.
In Inghilterra, inoltre, lo vedremo quando arriveremo sul punto della detenzione, su questa cosa tra pubblico e privato
ce n'è da dire. In Inghilterra i richiedenti asilo passano lunghi periodi di detenzione, sappiamo che in Inghilterra non c'è
neanche il tetto massimo di permanenza nei centri, e quindi un sistema pubblico, peccato però che 7 su 10 delle
prigioni che rinchiudono i richiedenti asilo, sono gestite dai privati. Quindi la situazione tra pubblico e privato è a dir
poco particolare.
Gli esempi potrebbero continuare, ma li lasciamo lì perché non abbiamo tempo.
L'altra polarità interessante è quella tra sistema assistenzialista e il suo contrario. Può essere, il secondo, sia un sistema
che promuove l'autonomia oppure che abbandona le persone. Il primo lo vediamo di solito come negativo, perché
quando parliamo di assistenzialismo lo vediamo subito così. Vediamo assistenzialista, ovvero che dà aiuto alle persone
ma che dà anche dipendenza dall'aiuto statale. Pensate a quei paesi nella famosa retorica “vado nei paesi del nord
Europa, dove ho l'accoglienza, mi fanno corsi di lingua mi danno pocket money fantastici che quasi sono uno
stipendio”, allo stesso tempo non si chiede mai di uscire dal centro, vi si potrebbe rimanere dentro anche enne anni,
ma sappiamo che questo può tradursi anche in un fallimento dell'integrazione, perché questa persona rimane così.
Vediamo invece il contrario: c'erano questi studi di Maya Korac, studiosa di origine balcanica, di Belgrado, che vive in
Inghilterra, che ha studiato i rifugiati, anche se lo status poi era diverso, provenienti dall'Ex-Jugoslavia in Italia a Roma e
ad Amsterdam in Olanda. Quello che diceva era: bene, ad Amsterdam sono serviti e riveriti, però per strada non ce né
uno che parla la lingua, uno che trova lavoro, uno che ha relazioni con gli olandesi. In Italia, erano gli anni in cui
avevano la protezione umanitaria, quindi lo status gli è stato dato in prima facie a tutti, anche se era uno status
scadente, in termini di diritti. Erano tutti con il lavoro, sposati con italiani. Era quindi un discorso un po' rischioso:
meno gli dai e più si arrangiano. A volerla vedere in maniera un po' meno estrema, equità tra sistema che promuove
autonomia, e un sistema che abbandona le persone. Qual è il rischio, che nel momento in cui abbandoni le persone, i
più fragili non ci stanno dentro. Partendo dall'assunto che c'è comunque una porzione elevata di richiedenti asilo che si
trovano in situazioni di fragilità per diverse ragioni, il discorso “arrangiatevi che vi integrate meglio” riguarda solo chi ce
la fa mentre restano indietro le persone che magari hanno più bisogno.
Ci sono poi le ultime due polarità, che nomino solo, su cui poi potrete lavorare nel gruppo. La prima è una polarità fra
sistema, chiamiamolo, ordinario o anche strutturato, da un lato e sistema emergenziale dall'altro. Cioè ci sono dei
paesi che si strutturano, si organizzano per essere per definizione sotto dimensionati rispetto alle reali esigenze. Se noi
sappiamo che c'è esigenza di diecimila posti, per esempio, e noi sistematicamente ne forniamo solo 2000. quello che
eccede o non gli si da nessuna risposta oppure, in casi particolarmente sensibili per l'opinione pubblica, pensate a
quello che è successo quest'anno, si da una risposta emergenziale. È chiaro che il numero di persone provenienti dalla
Tunisia e Libia è stato molto ingente, però il sistema italiano era già sistematicamente sottodimensionato rispetto alle
reali esigenze. Quindi è altrettanto ovvio che sistematicamente si ricorre a delle misure emergenziali. Soluzioni di
accoglienza, detenzione, ovviamente l'emergenza chiama in ballo delle situazioni molto più delicate. Ci sono paesi che
si organizzano molto più, non che si possa necessariamente dire che sia tutto oro, ma come approccio istituzionale
investono molto per permettere al sistema di essere il più possibile strutturato e ordinario. Poi l'emergenza ci sarà
comunque. Il fatto che sia strutturato non impedisce che ci sia comunque un sistema di detenzione, non dico che se è
ordinario e strutturato è bello... pensate ad esempio che la Francia ha un sistema di accoglienza ordinario di circa 22
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mila posti, che è comunque sottodimensionato se volete rispetto alla reale esigenza. Ogni anno in Francia si investono
138 milioni di euro sull'accoglienza, non sono proprio bruscolini. Questo non vuol dire che sia un sistema in sé più
bello, ma vuol dire che c'è un investimento.
L'ultima polarità è quella che riguarda da un lato sistemi fortemente basati sulle detenzioni, possiamo chiamarla
residenza coatta: non intendo cioè solo la detenzione modello inglese che sono delle vere e proprie prigioni, ma anche
il fatto di subordinare in maniera vincolante una qualsiasi forma di residenza in tal luogo, è insomma una forma anche
questa di contingentamento delle persone e ancora una volta il punto di vista istituzionale che prevale sul punto di
vista delle persone, che preferirebbero spostarsi in un altro territorio che preferirebbero seguire la famiglia, la
comunità anche in senso allargato, la comunità di persone provenienti dallo stesso paese e via dicendo. Qui possiamo
chiamare l'altro polo auto-organizzazione, in cui c'è di nuovo il rischio di essere abbandonati a se stessi, però in senso
più positivo, e riguarda quelle soluzioni in cui si dà valore a quelle forme di autorganizzazione e anche di autonomia,
ovvero i tentativi e le forme di autonomia, invece invece di essere disincentivate, vengono premiate. Se ti riesci a
organizzare stai nell'appartamento con i tuoi connazionali e riesci a muoverti con le tue gambe io non ti penalizzo ma ti
aiuto.
Per ricapitolare questo schema, quindi, sui quattro modelli possibili: quando si parla di accoglienza senza integrazione
intendo dire un po' l'accoglienza in cui, ad esempio in Olanda, accolgo in senso negativo, un po' bieco, ovvero do' delle
forme di sussistenza ma non permetto alla persona di attivare dei processi di integrazione sul territorio. L'integrazione
senza accoglienza è invece un po' quello che, pensate soprattutto nei primi anni 2000, adesso in Italia qualcosa è
cambiato, qualcosa no, era quello che si diceva alla gente “arrangiatevi, magari poi vi integrate anche però a spese
vostre”. Gli altri due sono un po' più intuibili, sono la chiusura totale, quindi non entrare neanche e se entri non vieni
riconosciuto in nessun modo e la quarta via sarebbe quella che dovrebbe cercare di combinare sia elementi di
accompagnamento, se non di assistenza, a momenti di integrazione vera e proprio del territorio.
Sulla base della griglia che abbiamo fatto, provate nel gruppo a collocare l'Italia rispetto a queste polarità sia quello che
succede ora sia il cambiamento all'interno dello stesso Paese a secondo del periodo. In Italia anche se non abbiamo
una storia lunghissima di accoglienza di migranti forzati, qualcosa è cambiato negli ultimi anni, non è proprio come nel
'90, magari peggio su certe cose, più organizzato su altre. Quindi quello che vi chiedo di fare è di provare a vedere se
l'Italia si colloca, magari facendo degli esempi, immagino che nei gruppi ci sia chi ne sa di più chi di meno o chi ha più
in mente delle realtà locali. Ci saranno, secondo me, degli elementi di accoglienza diversi e magari capire come questi
si incastrano, non è che dovete scegliere per forza fra due estremi, può essere che vada bene un po' da una parte ma
anche dall'altra. Quindi ripeto. Quello che potete fare nel gruppo è provare a vedere dove si colloca l'Italia, magari
Torino se vi viene meglio, dove la collochereste rispetto a questa specie di mappa e possibilmente dicendo anche
qualche piccolo esempio che ci aiuti a capire a cosa vi riferite.
Barbara Sorgoni
Insegno antropologia culturale all’università di Bologna, presso la sede di Ravenna. Ho coordinato e svolto negli ultimi
3 anni una ricerca dapprima a Ravenna e poi nelle zone circostanti, a Forlì e a Bologna, su progetti dello Sprar.
Ho pensato di articolare questo incontro in 3 punti: il primo ha a che fare con la costruzione della figura di rifugiato,
dello status e della categoria di rifugiato; il secondo è all’interno di un tema molto ampio, ossia come approcci diversi
di studio al tema si traducono nell’illuminare, nel far capire pezzi diversi del grosso contenitore che è l’asilo, ovvero
come l’antropologia permette di vedere e affrontare cose diverse, rispetto ad approcci più frequenti nello studio
dell’asilo, come quello giuridico e sociologico; nella terza parte porto qualche esempio su questo.
Rispetto al primo punto, su come si costruisce la categoria di rifugiato, c’è un dibattito sulla possibilità o meno di
tenere separati i rifugiati dai migranti economici, sulla proposta di inserire i rifugiati politici come figura intermedia. E’
accettato che i rifugiati politici rientrino tra coloro che abbandonano la propria terra perché costretti a farlo, ovvero
sono migrazioni forzate, mentre invece dall’altro lato abbiamo persone che lasciano il proprio paese spontaneamente,
per motivazioni di tipo economico. In realtà da un punto di vista che gli antropologi definiscono emico, dal punto di
vista dei soggetti che migrano, interno, è molto difficile mantenere questa distinzione. Le persone che lasciano la
propria casa, il proprio paese, il paese in cui vivono e hanno vissuto a lungo, è difficile distinguere le motivazioni
politiche da quelle economiche. In molte vicende troviamo che queste due motivazioni si accompagnano l’una all’altra.
A volte può apparire, sempre dal punto di vista dei soggetti che lasciano la loro casa, privo di senso misurare il grado di
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volontarietà della loro scelta, quanto siano stati costretti e quanto invece abbiano preferito lasciare, che è un elemento
centrale nella determinazione dello status di rifugiato. D’altro canto possiamo dire che questa distinzione tra rifugiati
politici e migranti per motivi facoltativi, spontanei, viene conservata ed è utile operativamente per alcuni soggetti, altri
soggetti, come gli operatori e chi lavora nelle organizzazioni internazionali, nelle ONG transnazionali. In questo caso
tenere separati i migranti che si spostano per motivi economici o volontari dai migranti che sono costretti a fuggire ha
un’utilità immediata e pratica per il processo di labelling, di classificazione ed etichettamento, che consente di
riconoscere gli individui ed immaginare percorsi separati. Questo è il motivo per cui è utile analiticamente per
comprender il fenomeno tenere distinte le due figure. Non si tratta però di utilizzare questa distinzione per capire se
una persona è un vero rifugiato. Come se esserlo fosse caratteristica ontologica, essenza. Non vi propongo di utilizzare
questa categoria come esplicativa della realtà, ma perché rifugiati si diventa. È una categoria costruita attraverso
specifiche pratiche e procedure amministrative, oramai sempre più simili, standardizzate a livello comunitario e che
sono indipendenti dalla motivazione della fuga. Indipendentemente dal fatto che una persona possa fuggire perché
effettivamente è a rischio di vita, ha subito violenze o perché l’asilo è l’ultima carta per non essere rimandato indietro
o per uscire dalla clandestinità, indipendentemente dai motivi dei soggetti, le persone che riescono ad avanzare la
richiesta di protezione internazionale vengono da subito e per un periodo abbastanza lungo immesse in un percorso,
fatto di norme e procedure burocratico-amministrative separate rispetto agli altri migranti. E’ questo il processo di
costruzione di un rifugiato, un percorso che raramente, a volte solo per caso e temporaneamente, intercetta i percorsi,
le traiettorie, gli spazi pensati per gli altri migranti, coloro che hanno scelto di lasciare la loro terra. Mi viene in mente
esempio recente, di questa primavera, successo a Lampedusa, con l’arrivo di un numero alto di persone prima dalla
Tunisia e poi dalla Libia, dove è stato costruito un centro dentro il centro. Dentro il centro di prima accoglienza è stato
costruito un altro centro chiuso e inaccessibile, in cui sono stati letteralmente rinchiusi i migranti provenienti dalla
Tunisia, tutti indistintamente. Dire un centro chiuso dentro il centro, significa identificare uno spazio nel quale non si
poteva entrare e dal quale non si poteva uscire. Alla fine di maggio è stata nominata una sottocommissione ad hoc del
parlamento europeo per fare visita all’isola e controllare cosa stesse accadendo a Lampedusa e questa
sottocommissione ha potuto visitare tutto il centro, tranne il centro nel centro al quale non hanno avuto accesso. Il
rapporto sullo stato dell’isola e sull’esistenza di questo centro, in cui i membri della commissione non sono potuti
entrare, è stato reso pubblico soltanto nei primi di ottobre, presentato al parlamento europeo a settembre. A me
veniva in mente, rispetto a questa costruzione, a questa separazione giuridica e procedurale che assegna ruoli
prestabiliti che le persone si porteranno appresso anche in un iter procedurale molto lungo, una situazione alla quale
mi sono trovata ad assistere: mi è capitato che l'avvocato col quale sto svolgendo la ricerca fosse riuscito a ottenere il
permesso per farmi essere presente in una udienza per ricorso, dove sosteneva un richiedente asilo che aveva ricevuto
il diniego alla presentazione del suo ricorso. Queste situazioni sono di solito chiuse e mi sono trovata in situazione
molto densa. Il richiedente asilo veniva dall’Afghanistan e fino a quel momento l’avvocato aveva parlato per lui
mostrando al giudice come fossero emersi nuovi elementi da valutare tali da giustificare il ricorso. Questi elementi
servivano a dimostrare che lui, rimasto unico uomo di una famiglia estesa, su un lotto di terra che era di suo padre (che
era stato ucciso dai talebani) manteneva sua madre e le sue sorelle e poi sua moglie e i suoi figli. La minaccia veniva dai
talebani che volevano confiscargli la terra. Tutto questo poteva essere usato come elemento che dimostrava per lui il
rischio di tornare a casa visto che aveva ricevuto delle minacce. Il giudice accoglie tutto questo e chiede se abbia delle
cose da aggiungere. Il richiedente asilo dice sì e aggiunge una sorta di preghiera al giudice di tenere in considerazione
la sua richiesta perché avesse perso la terra non avrebbe più avuto modo di mantenere la famiglia. Questo gli fa
perdere la causa, perché sposta la sua richiesta da una motivazione di tipo politico a una motivazione di tipo
economico. La vicenda avviene in tempi rapidissimi, vedo solo l’avvocato che sbianca e fuori dice: “Il ricorso è perso.
Gli avevo spiegato di non nominare motivi di tipo economico”. Ma evidentemente questi ultimi per il soggetto non
erano separabili dalla sua richiesta di protezione, l’uno non esisteva senza l’altro.
Riporto questi due esempi per capire la natura costruita, sovraimposta di uno status giuridico, apparentemente molto
chiaro, ma che non riesce a racchiudere la complessità della vita delle persone. Dal momento in cui le persone
chiedono la protezione internazionale sono immesse in percorsi che sono radicalmente separati, volti a costruire
traiettorie differenziate. La più nota per motivi numerici è quella dei campi profughi, che si trovano essenzialmente nel
sud del mondo, che ospitano i 4/5 degli oltre 15.000.000 richiedenti asilo che ci sono nel mondo. Solitamente i campi
profughi sono stati più studiati che non i centri di accoglienza o i CIE o i centri di detenzione, abbiamo più studi su
questi. Una delle ultime proposte di studio in antropologia sui campi profughi ci viene da un antropologo francese
Michel Agier, che propone che i campi profughi possano essere studiati come formazioni urbane incomplete, delle
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quasi città che sono diventate specialità dei paesi poveri, indice di uno spazio globale di gestione umanitaria degli
indesiderabili della terra. Nel dibattito che ne segue nasce l’ idea, soprattutto da un’antropologa, Liisa Malkki, che è
stata tra le prime a studiare i campi profughi in Africa, che queste formazioni non siano così recenti, non siano cioè
segni della modernità e non identifichino spazi che possiamo trovare unicamente nel sud del mondo. Malkki invita a
guardare ai campi come dispositivi, tecnologie sociali che servono alla identificazione, al controllo e alla cura, al
contenimento di persone e gruppi per fini amministrativi o legali o terapeutici. Se vediamo i campi in questo modo non
si trovano solo nel sud del mondo, li troviamo anche nei centri di accoglienza, nei CIE e nei centri di detenzione che
punteggiano le mappe anche del nord del mondo e sono i luoghi dove si incarnano le procedure amministrative
attraverso le quali si diventa rifugiati, si passa dal divenire richiedenti asilo e poi possibilmente rifugiati.
Se partiamo dall’idea che l’essere rifugiati non sia un’ identità ontologica delle persone, ma qualcosa di costruito,
riconosciamo centralità alle pratiche burocratiche e amministrative dove i rifugiati si formano. Se riconosciamo questo
ci rendiamo conto di quanto l’approccio etnografico ci permetta di illuminare come norme, principi, strutture si
incarnino nelle relazioni quotidiane che tutti i soggetti implicati (volontari, operatori, questura, prefettura, medici,
psicologi, etc.) mettono in campo nella relazione con i richiedenti asilo. Negli studi pubblicati in Italia sull’asilo si può
notare come l’approccio principale sia quello giuridico. Gli studi giuridici si concentrano essenzialmente su ciò che
dovrebbe essere, partono dall’idea di una società giusta e da qui tracciano norme, procedure che possano avvicinarsi a
questo. Insieme a questi rapporti troviamo l’approccio sociologico, che fornisce la ricchezza dei dati quantitativi, e che
di solito propone delle indagini ad ampio raggio, comparando i sistemi di accoglienza o detenzione in diversi luoghi sul
territorio nazionale, per coglierne specificità, differenze e aspetti comparabili utilizzando metodologie come i focus
group e le interviste a soggetti “privilegiati”, ossia si scelgono individui che sembrano meglio raccontare la realtà che ci
interessa. Ci sono vantaggi innegabili in entrambi gli approcci. L’approccio giuridico ci permette di denunciare le
violazioni, la non messa in atto di principi e norme, mentre l’approccio sociologico ci consente di conoscere il
funzionamento di più luoghi in un tempo ridotto. L’uso di un approccio o di un altro ci consente di mettere al centro
della nostra analisi e rispondere ad interrogativi diversi. La scelta di compiere l’intervista con certi soggetti
rappresentativi comporta come rischio il fatto di far cogliere l’immagine che il luogo che sto studiando ha di sé, o
desidera che si abbia, e non necessariamente cosa avviene al suo interno. Questi due approccio in tal senso ci aiutano
a cogliere gli aspetti quantitativi , le procedure e i principi che ispirano i comportamenti, ma presentano maggiore
debolezza nell’aiutarci a cogliere le pratiche, che giornalmente gli operatori e i soggetti mettono in campo nel contatto
e incontro con rifugiati e richiedenti asilo. Una ricerca etnografica si avvale sì di interviste ma passa molto tempo
osservando e partecipando alle attività del luogo che si sceglie di studiare e sono ricerche per questo più lunghe e non
permettono di muoversi in superficie molto ampia. Il vantaggio è quello di cogliere la profondità. Quando spiegavo agli
operatori l’intento della mia ricerca e la modalità c’è stata risposta entusiastica, perché dicevano di dover rispondere
sempre alle stesse domande, ma che nessuno veniva a vedere cosa facevano loro ogni giorno. L’elemento della fatica e
frustrazione degli operatori è centrale nelle ricerche. In questo senso l’approccio antropologico non si concentra tanto
su ciò che dovrebbe essere, ma su ciò che è, non su come dovrebbero operare, o come piacerebbe loro farlo, ma sullo
scarto tra principi e procedure come sono scritte sulla carta e ciò che si riesce a fare. Nei cartelloni era emersa l’idea
dell’emergenza. Questa era centrale nell’auto percezione degli operatori, ben prima dell’emergenza Nord Africa. Gli
operatori dicevano di lavorare in una dimensione emergenziale, non riuscivano mai ad accompagnare i loro utenti fino
a una vera autonomia perché non riuscivano a finire un ciclo dovendo sempre stare a rincorrere le nuove emergenze,
senza riuscire a capire dove fosse l’intoppo. A fronte di progetti ben scritti sulla carta con fondi disponibili non si
riusciva mai a uscire dalle pratiche dall’emergenza, che diventava leitmotiv aggiungendo un’enorme dose di
frustrazione. Una ricerca etnografica sposta lo sguardo dai luoghi decisionali dove vengono definite le procedure a ciò
che avviene all’interno dei luoghi e agli operatori che seguono i diversi progetti. Volevo riportarvi l’esempio di una
riunione cui ho partecipato alla fine del 2009 (prima dell’emergenza Nord Africa) sollecitata dai rifugiati asilo e
richiedenti ai quali non era stato proposto nessun tipo di formazione, tirocinio, stage da oltre un anno ed era stato
richiesto un incontro con l’operatore-lavoro. In questo incontro i richiedenti asilo chiedono il perché di questo ed egli
risponde: “Il mercato del lavoro è selvaggio, la crisi è enorme, milioni di italiani hanno le porte chiuse, qui abbiamo da
offrire materiale povero, povero perché venite da paesi poveri e povero culturalmente perché non sapete la lingua
italiana. Siete materiale fragile, non avete esperienza nel nostro paese e non comprendete tutto. Fate parte di quel
bacino enorme che si chiama basso profilo, è difficile convincere le imprese a scegliere le persone più fragili e in
difficoltà per lavori di basso profilo. L’ultimo inserito con la mediazione ha saputo muoversi bene, ma alla fine è stato
preso perché il proprietario è un mio amico”. Poiché le volontarie del corso di italiano insistevano per sapere il perché
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lui continua dicendo: “Abbiamo lavorato in altre situazioni in carcere, in contesti di tossicodipendenza, siamo passati da
5 a 1 operatore, sono state date risposte, ma ad altri, e il consorzio di servizi sociali non ha come obiettivo
l’inserimento nel lavoro. Deve partire da voi volontari l’input di dirci che certe persone sono pronte per il colloquio
lavorativo”. Il colloquio finisce così, con grande frustrazione di tutti, penso anche da parte dell’operatore-lavoro che
non ha saputo dare risposte adeguate. Da questo monologo emergono molte caratteristiche che qualificano quel
progetto nel quale ho fatto ricerca, ma che sono anche trasversali, emerge la centralità del lavoro come tema
principale, anche se stiamo parlando di persone che non sono emigrate per motivi economici, e la necessità di
raggiungere l’autonomia economica. Emerge una sorta di ordine naturale, l’operatore non fa fatica ad affermare che
queste persone sono destinate a zone marginali del mercato del lavoro, senza controllo sulla loro formazione o sugli
studi precedenti. Viene ribadito il fatto che l’inserimento lavorativo segua più spesso canali amicali che non
istituzionali, viene ripetuto anche che loro sono i più svantaggiati del materiale povero e viene utilizzata la crisi
economica come spiegazione difficilmente contestabile. Ad un certo punto l’operatore gioca in difesa, sente troppo
peso sulle spalle e indica ai volontari di proseguire. Il fatto che la persona che ha concepito e seguito quel progetto per
oltre 2 anni dica “secondo me” rivela l’arbitrarietà e la discrezionalità del modo di procedere.
Questa riunione è interessante perché con tutto quello che rivela serve anche a nascondere, l’operatore parla di tutte
le pecche e difficoltà del sistema, tranne degli operatori, nascondendo il ruolo che essi hanno nelle pratiche di tutto
l’iter di riconoscimento dello status. In questo gli operatori hanno un ruolo centrale e dei margini di manovra, di scelta,
di discrezionalità e di capacità creativa e si trovano però di fronte a veri e proprio “dilemmi morali” come li definisce
Carolina Kobelinsky, antropologa francese. In Francia da un lato ci sono i CRA (Centres de Rétention Administrative) e
dall’altro i CADA (Centre d'Accueil de Demandeurs d'Asile), recentemente, dal 2006, sono i direttori degli enti gestori
dei CADA che decidono chi entra nei loro centri, in questo senso gli operatori hanno funzione di selezione e
identificazione e quindi di controllo. Sono quindi operatori del sociale spesso mossi da motivazioni politiche che si
trovano a rivestire anche ruolo di controllori (vd. Van Aken, cura insieme al controllo). Una delle operatrici che la
Kobelinsky ha intervistato ha detto: “Penso che nella politica attuale il lavoro sociale appartenga all’ambito del
controllo. Siamo i mezzi umani e gestiamo i mezzi finanziari il cui fine è quello del controllo, siamo contabili, siamo dei
poliziotti. I margini di manovra degli operatori sono sempre più ridotti. Saremo sempre più costretti alla coercizione e
allo stesso tempo è una questione di dispersione. La politica sociale è basata sul controllo e non sulla mutua assistenza,
questo corrompe i lavoratori sociali”. Il motivo per cui lo sfogo è così accorato e duro ha a che fare con le recenti
politiche francesi che prevedono che dal 2008 siano gli stessi operatori dei CADA a denunciare alla prefettura le
persone ospiti che hanno ricevuto il diniego e devono essere accompagnati all’uscita. Si tratta della circolare del 24
luglio del 2008 che include tra le missive istituzionali del CADA alla stregua dell’accompagnamento sociale, medico e
giuridico e la scolarizzazione dei bambini anche la gestione dell’uscita dal centro e che in alcuni casi hanno comportato
l’uso della forza fisica o il ricorso alla polizia per rimuovere dal centro persone che non potevano, non riuscivano a
lasciare il centro. Un’altra operatrice aggiunge: “Saranno costretti a lasciare il centro per mano militare, non so come si
farà concretamente, ma nei testi questo è già possibile. Non siamo più nell’ambito dell’umano, comincerò a venire
vestita da gendarme”. Questo è un esempio estremo e drammatico ma molto vicino a noi nel tempo e nello spazio,
non si è così sicuri che qui questa svolta nonpotrà avvenire. È il dilemma degli operatori il dover scegliere tra il rivestire
un ruolo che non solo non compete loro ma è proprio in antitesi con le motivazioni per cui gli operatori hanno scelto
questo lavoro e dall’altra parte la possibilità di venire considerati incapaci di svolgere le mansioni loro richieste e quindi
perdere il lavoro. Alla fine del saggio “Lo spettro dell’uscita” scopriamo che lo spettro, il terrore è quello degli operatori
e non solo quello dei richiedenti. E’ un paradosso, in cui viene trasformato un lavoro che dovrebbe essere di
accoglienza e cura in qualcosa che deve identificare, non solo controllare ma rimuovere, diventare parte di
meccanismo di rimozione. Sono molti gli esempi in cui gli operatori mi hanno fatto notare come il loro ruolo slittasse in
aspetti manageriali, burocratici, di distanziamento e di puro controllo. Un’antropologa americana che si è occupata di
queste procedure in Usa le definiva così: “La necessità di capire perché e in che modo gli operatori rimangano incastrati
in logiche della preoccupazione statale di qualificare, classificare e punire”. Questi tre aspetti si possono cogliere
unicamente osservando le pratiche e non studiando le procedure, che contengono aspetti di controllo e di tipo
punitivo. In uno dei contesti della mia ricerca, Ravenna, ho coordinato un gruppo che ha svolto una ricerca etnografica
nei diversi uffici del consorzio sociale che fino alla fine del 2010 gestiva i progetti Sprar a Ravenna. Un meccanismo
chiave attraverso il quale adottare di fatto delle forme punitive era la capacità discrezionale degli operatori di gestire il
pocket money, una piccola somma extra data ai richiedenti asilo ospitati nei progetti dello Sprar per beni personali che
veniva settimanalmente consegnata dalle mani dell’operatore a quelle del richiedente asilo, che formava un giorno a
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settimana una lunga fila fuori dal consorzio. Questa pratica è stata percepita a lungo dagli operatori come una pratica
molto umiliante e la possibilità di verificare il corretto comportamento di questi utenti nelle strutture dove abitavano.
Se erano saltati turni di pulizia, se la stanza non era ordinata, per tutto ciò che poteva emergere dai controlli degli
operatori addetti a questo, il pocket money poteva essere decurtato o sospeso in dialogo col dirigente della struttura.
Questa pratica è molto frequente, come emerge anche dall’inchiesta “Vite da rifugiati” fatta da un’associazione di
Bologna che ha messo a confronto tra di loro diverse realtà della regione all’interno del progetto “Romagna terra
d’asilo”. Questo esempio del pocket money che può essere sospeso secondo la valutazione del comportamento
corretto del richiedente asilo è una pratica molto estesa. Questa pratica introduce una relazione fortemente
infantilizzante per il richiedente asilo, che deve ricevere i soldi da un operatore spesso più giovane e li riceve in mano,
per cui la riposta più frequente di questi è: “Ma io dovrei ricevere i soldi dallo stato italiano, non sei mio padre”. Non
essendolo, l’operatore non dovrebbe avere un ruolo punitivo e la capacità di decidere se e quando dispensare i soldi. I
casi di persone in Emilia Romagna che hanno deciso di rinunciare al pocket money, piuttosto che rimanere in questo
tipo di relazione, non sono pochi. Nello stesso tempo questa pratica è moralmente complicata, perché introduce una
sorta di schizofrenia, una frattura nel ruolo dell’operatore stesso, perché per come è previsto nel manuale dello Sprar,
proprio nella descrizione del comportamento dell’operatore rispetto al momento dell’erogazione del pocket money, le
indicazioni prescrivono un ruolo distaccato, asettico, come appunto previsto per una persona che è un funzionario
dello stato. Ma questo non può essere sia perché la relazione non è costruita in quel modo, sia perché gli operatori
sono chiamati a controllare, scandagliare, ascoltare, risolvere particolari anche molto personali, intimi, privati delle vite
e dei problemi dei richiedenti asilo e il ruolo dell’operatore è costruito su una finzione, su una schizofrenia. È richiesto
un distanziamento neutrale e asettico laddove la relazione è incredibilmente coinvolgente, non solo per il tipo di
problemi che i richiedenti asilo si portano dietro, ma anche per il modo in cui l’asilo è strutturato, il fatto di gestirne
l’accoglienza e per esempio controllare l’igiene, che è un aspetto molto intimo e personale che non ha a che fare con la
burocrazia.
Marchetti: Rispetto alla possibilità di essere controllori, nella nostra figura c’è anche da essere subdoli. Ci viene chiesto
di fare del maternage, quindi passare da un atteggiamento di accoglienza, di accudimento che è subdolo nel senso che
ti tengo dentro questo grande utero e nello stesso tempo ti sto controllando e scattano forme manipolatorie anche
inconsce. Le committenze ti chiedono di fare controlli e quindi per ovviare a questo attraverso il maternage ce lo
facciamo un po’ più piacere, ma non è comunque rispettoso perché la posizione non è di confronto, ma impari.
Sorgoni: Questo può essere ripetuto ai diversi livelli, ad esempio nel caso del volontario in Italia non ci sono studi e lì
scattano meccanismi simili, ma anche diversi. Gran parte del volontariato è gratuito e qui si assommano la non
necessità di essere neutri e separati e l’autorizzazione ad essere coinvolgenti, vicini perché informali, perché ci si pone
come amici, il dono è gratuito e scattano altri meccanismi come forme di aspettative di riconoscimento e forme di
gratitudine non riconosciute. Nei volontari questo meccanismo scatta senza che ce ne si renda conto e sarebbe difficile
frenarlo e non si saprebbe come sostituirlo.
Manocchi: Si potrebbe aggiungere questo, incrociato con l’intervento precedente: Chiara ha parlato di committenze,
dipende dalle persone che finanziano il servizio che tu operatore stai fornendo, perché ci sono finanziatori pubblici e
mi pare che quello di cui stiamo parlando rientri in questo, per cui c’è la volontà dell’istituzione statale di tenere sotto
controllo le persone accolte, perché sono soldi pubblici e l’istituzione deve rendere conto politicamente agli elettori
delle scelte fatte, ma poi ci sono anche committenti privati o c’è un giro di soldi tale per cui l’operatore non ha subito il
fiato sul collo da parte di un’istituzione che chiede un controllo. Qui in Piemonte si può fare confronto tra parte di
titolari che è seguita dalle istituzioni locali, e parte di titolari che dall’occupazione del 2008-2009 è seguita da un
insieme di cooperative. La presenza dell’istituzione committente fa sì che ci siano richieste più specifiche agli operatori
che vanno più sul controllo, mi pare che la possibilità di far girare diversamente i fondi che arrivano diano margini
diversi di operatività, bisogna allora interrogarsi su pregi e difetti delle due cose.
Sorgoni: Quello che per me è interessante è come scattino meccanismi di controllo anche laddove questi non siano
richiesti, per esempio in un dormitorio gestito dalla Caritas, che non ospita solo richiedenti asilo o stranieri, ma
nonostante questo quando il richiedente asilo sembrava raccontare qualcosa di lievemente diverso da quello che aveva
raccontato all’entrata oppure faceva qualcosa che non si conformava all’immagine che i volontari si erano fatti della
persona o andava via e non lasciava tracce di sé, si rileggeva tutta la storia e la relazione all’insegna del “allora era un
falso rifugiato, perché ha mentito” e prima o poi in qualche momento di questa relazione solo notturna di fronte al
richiedente asilo scatta la richiesta “raccontami la tua storia” con il tentativo di capire se è un vero o un falso. Questo
meccanismo di controllo, del capire la verità di fronte al richiedente asilo scatta a prescindere dal fatto che sia
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richiesto.“
Molfetta: Ci sono due livelli, ci può essere intenzionalità di chi dà delle linee perché venga scritto un progetto, e non
intenzionalità, indipendentemente da chi abbia concepito il progetto, di chi gestisce il progetto, ognuno si porta un suo
mondo, una sua maniera di relazionarsi. Il progetto nasce con una certa intenzionalità e l’operatore ne mette in atto
un'altra e così lo psicologo o il medico o il volontario e spesso c’è gran confusione tra intenzionalità diverse e figure
diverse. Ci sono tanti livelli diversi che non riguardano solo la committenza, ma ogni persona entrando in relazione con
un’altra mette in atto una serie di meccanismi che in parte sono volontari e in parte non lo sono perché sono risposte
anche automatiche, in quanto siamo portatori di una cultura, e le incarniamo più di quanto vorremmo.
Operatrice: Ho esperienza in una comunità con 8 donne somale. Ho avuto un’esperienza precedente di 6 anni con
alcune donne tolte dalla tratta, dove come operatore ti allinei, fai nei limiti che hai quello che puoi perché nascono
serie di colpevolizzazioni che ti fanno uscire dal tuo ruolo, che dovrebbe essere tenuto molto fermo. Nella mia
comunità non ci sono orari di entrata e uscita, sono stata attenta ad onorare l’individuo per avere un’esistenza
dignitosa e la libertà. Ho spiegato il regolamento e l’ho condiviso con loro, ma può essere cambiato da loro perché se
lo accettano lo rispettano senza fatica così che non devo fare il carabiniere, la sensazione del controllo l’ho vissuta
avendolo esercitato in tanti piccoli gesti e quindi ne conosco la fatica. Un margine di autonomia bisogna però
ritagliarcelo, anche se rivestiamo un ruolo molto basso, nel piccolo spazio che abbiamo si può coltivare un po’ di
dignità. Ho vissuto drammaticamente questo controllo perché non ero d’accordo e questo è frustrante.
Lavori di gruppo | Terzo incontro
Cartelloni “Il sistema di accoglienza in Italia”, analisi sulla base di una griglia di dimensioni proposta da Chiara
Marchetti. Si tratta della proposta di una serie di poli di altrettanti continuum, al cui interno posizionare un sistema in
un dato momento storico, ovvero:
Centralizzato → Decentrato
Pubblico → Privato
Assistenzialista → Autonomia o Abbandono
Ordinario e strutturato → Emergenziale
Detenzione → Auto-organizzazione
Cartellone Blu
Il sistema italiano è in primo luogo come emergenziale, in cui i numeri dei posti disponibili per l'accoglienza sono
volutamente mantenuti in numero inferiore alle necessità concrete. Questa caratteristica emerge non solo nel sistema
SPRAR, ma anche nel modo con cui si è affrontata l'emergenza libica.
È inoltre un sistema che si appoggia con forza al privato sociale e che risulta essere di tipo assistenzialista,
caratterizzato da un atteggiamento riparativo-curativo messo in atto dal privato sociale capace, a differenza dello Stato,
di garantire almeno la soddisfazione dei bisogni primari dei richiedenti asilo. Con privato sociale si intende qui il
volontariato, gli enti religiosi e i privati cittadini che si sono attivati individualmente.
Il gruppo inoltre parla di un sistema al contempo centralizzato e decentrato: centralizzato in quanto SPRAR e sistema
di protezione, ma decentrato nella sua espressione operativa concreta, un sistema cioè di protezione nazionale ma che
si affida al privato sociale a livello operativo.
Infine nella misura in cui il sistema di accoglienza si avvale di centri quali i CARA e CIE lo si definisce con l’espressione
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“residenza coatta/detenzione”.
Nuove proposte:
il gruppo propone diverse azioni dalle quali partire per migliorare il sistema di accoglienza italiano:
• Informare: per sfatare il mito dell’emergenza, per far conoscere realtà di accoglienza degli altri paesi europei
nonché.
• Informare sui costi dell’accoglienza, per non alimentare la sensazione di invasione.
• Definire in maniera strategica i luoghi e i criteri di valutazione dei progetti SPRAR.
Cartellone Verde
Il sistema italiano tende ad essere centralizzante (es.: SPRAR e CARA), con leggi e linee direttive centrali e realizzazione
attraverso il privato sociale attraverso bandi e gare d'appalti – quindi comunque controllate dal centro. Considerando il
sistema SPRAR si parla di un sistema “integrato” capace di assicurare almeno la soddisfazione dei bisogni primari.
È un sistema assistenzialista ma con forte tendenza all'abbandono dopo il periodo di tempo previsto di permanenza
all'interno dello SPRAR. Le case occupate possono essere lette come una delle conseguenze di questa tendenza
all'abbandono.
È un sistema emergenziale, con numeri costantemente sottostimati e, infine, di tipo detentivo (es.: CIE). Il
mantenimento in vita dei CARA e dei CIE nonostante la palese sconvenienza viene giustificato dal gruppo attraverso
motivazioni di natura politica.
Cartellone Rosso
Il sistema italiano si caratterizza con l'essere decentrato nella sua parte operativa e gestionale, ma centralizzato per
quanto riguarda l'aspetto decisionale. Si muove su fondi pubblici gestiti però dal privato sociale, questo sembra
comportare una progressiva apertura al dialogo tra operatori del privato sociale e funzionari pubblici. La sfera politica
si muove poi parallelamente a questa interazione, spesso senza entrare mai in contatto. Il terzo gruppo opera in realtà
una distinzione ben più precisa nel corso della seconda lezione dedicata all’argomento. Si definisce il sistema Sprar con
il termine “integrato”, centralizzato il sistema che prevede l’utilizzo dei CARA e allo stesso modo il sistema
emergenziale soprattutto a livello regionale.
È un sistema che si muove tra assistenzialismo e abbandono. Spinte verso l'autonomia sono potenzialmente presenti
in alcuni interventi e progetti; tuttavia a causa di una carenza di tempi e di fondi queste spinte si perdono in un
abbandono dei soggetti.
È inoltre tarato su un assetto emergenziale costante, tanto da poter quasi dire che ci si trova davanti a un sistema
“strutturalmente emergenziale”.
È infine un sistema che utilizza molto la detenzione, anche se, in quest'ultima fase di emergenza libica sembra ci si stia
muovendo verso qualcosa di diverso.
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2010
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pdf scaricabile http://www.serviziocentrale.it/?Documenti&i=7
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Quarto Incontro
25 ottobre 2011
Titolo
Situazione italiana: pre-Sprar; Sprar e suoi limiti; possibili evoluzioni
Relatrice
Cristina Molfetta, Ufficio Pastorale Migranti
Cristina Molfetta
La convenzione relativa allo status di rifugiati è stata approvata a Ginevra nel 1951, ma l'Italia la rettifica nel 1954
apportando oltretutto una limitazione territoriale, attraverso la quale si dichiara disponibile a garantire il diritto d'asilo
solo a persone in fuga dai Paesi del blocco comunista. Questa limitazione territoriale da conto anche dell'ideologia
soggiacente e delinea il richiedente asilo tipo accettato dall'Italia: un individuo singolo solitamente con un elevato
titolo di studio che fugge dal blocco comunista, per cercare rifugio nell'Occidente liberale. L'Italia mantiene questa
limitazione territoriale fino al 1989 e durante quest'arco di tempo esiste un'unica Commissione Territoriale a Roma che
risulta essere più che sufficiente, dato che il numero delle domande d'asilo era poco rilevante. Prende forma così un
“sistema” che possiamo definire romano-centrico e per i richiedenti asilo provenienti da Paesi diversi dal blocco
comunista l'Italia si presenta come un Paese di transito, ufficialmente di transito in cui poter far domanda d'asilo
rispetto ad un altro Paese (Stati Uniti, Canada, Australia...) che non abbia la sopracitata limitazione territoriale, e in cui
attendere il rilascio del Visto e di tutta la documentazione necessaria per raggiungere il Paese di destinazione. Si
ritrovano così ad attendere nel sistema romano-centrico senza prepararsi alla vita in Italia bensì iniziando a studiare la
lingua che servirà loro nel atteso Paese d'accoglienza.
Nel momento in cui l'Italia, nel 1989, elimina la clausola territoriale, diviene potenzialmente uno Stato nel quale,
chiunque scappi a causa di un conflitto o perché è vittima di persecuzioni, può trovare asilo.
All'eliminazione del vincolo territoriale non corrisponde la costruzione di un sistema adatto a sostenere le
trasformazioni che ciò comporta, l'Italia si trova così impreparata ad accogliere un numero maggiore di richiedenti
asilo. Tra il 1989 e il 1992 il motto diciamo è arrangiarsi e sfruttare i lunghi tempi d'attesa per suggerire ai richiedenti
asilo di far domanda presso Paesi con sistemi d'accoglienza più strutturati. Accade però che saltano gli equilibri nella ex
Jugoslavia e gli anni 1992 e 1995 sono gli anni della forte crisi balcanica, la guerra scoppia prima in Croazia e poi in
Serbia e così via. Come spesso accade durante i conflitti le persone tentano di trovar rifugio innanzitutto in luoghi che
siano il più vicino possibile al posto in cui risiedono, allo stesso modo era più facile per chi scappava in quest'occasione
dal conflitto generalizzato varcare il confine e raggiungere la vicina Italia con cui esisteva oltretutto un forte legame
storico. È importante ricordare che i Paesi della ex Jugoslavia non appartenevano né al blocco liberale né al blocco
comunista rappresentavano invece una “terza via al comunismo” i cui abitanti erano liberi di viaggiare senza visto nei
mondi antagonisti acquisendo in questo modo una forte pratica di movimento e di uscita. Dinanzi questa fuoriuscita in
massa di persone l'Italia si trova impreparata e dopo un lungo dibattito fa ben poco, riesce a garantire e inventare,
perché non contemplata nel diritto internazionale, una Protezione Umanitaria, concessa direttamente dalla Questura.
È inizialmente di un mese viene poi prolungata a 3 mesi, successivamente a 6 e infine, dato che il conflitto si protrae, a
1 anno. Quanto qui riferito rappresenta l'unico atto ufficiale dell'Italia ai fini dell'accoglienza. In quest'occasione hanno
svolto invece un ruolo fondamentale i singoli cittadini italiani, che riunitisi in spontanei comitati d'accoglienza che
garantirono percorsi di ospitalità e di accompagnamento fino all'autonomia. Si trattava di una vera e propria
cooperazione decentrata nel senso che non era portata avanti dallo stato ma da singole città, spesso neanche le
istituzioni di esse ma da gruppi di volontari che si recavano direttamente nei campi profughi della Bosnia per creare
una serie di collegamenti con le città italiane coinvolte. In questo modo tra il 1992 e il 1995 l'Italia, non lo Stato,
accoglie circa 6000 persone; per comprenderne la portata basti pensare che nello stesso periodo la Germania, già in
possesso un sistema d'accoglienza strutturato, ha accolto 360000 persone.
Questi diversi comitati d'accoglienza e questa stretta collaborazione che si è creata tra città italiane e diverse realtà
della Bosnia hanno portato alla nascita di un consorzio che si chiama ICS che in quegli anni lavorava portando avanti
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questi progetti di cooperazione decentrata che andavano in parallelo: così come in queste città italiane c'era un
comitato che accoglieva, allo stesso modo c'erano persone delle medesime città italiane che andavano a visitare le
cittadine e i campi profughi da cui provenivano queste persone e portavano avanti su quel territorio dei progetti per
accompagnarle, finita la guerra, al ritorno alla normalità. Questo genere di comitati fiorì soprattutto nel nord Italia
sicuramente per via della maggior vicinanza del confine sloveno. L'ICS permetteva così che le persone dei diversi
comitati cittadini d'accoglienza si incontrassero e discutessero al fine di investire il proprio capitale di esperienza in
quella che diverrà successivamente la proposta (a tutti gli effetti dal basso) per la nascita del sistema nazionale
d'accoglienza. La forza delle loro esperienza trovava conferme nelle ricerche degli stessi cittadini bosniaci che all'epoca
dimostrarono che i cittadini italiani riuniti nei comitati riuscirono ad accogliere in un tempo minore rispetto ad altri
sistemi in altre parti d'Europa che accoglievano in modo strutturato e con persone specialistiche. Nella proposta
avevano l'intenzione di valorizzare quello che era considerato l'aspetto positivo per eccellenza: la commistione tra
associazioni di volontariato e talvolta le istituzioni e il coinvolgimento di persone non specialistiche. Si forma così da
questa base teorica elaborata dai comitati di accoglienza il PNA, il Piano Nazionale di Accoglienza, che viene finanziato
per un anno nel 2001. L'anno successivo il PNA diventa lo SPRAR, ciò significa che quest'ultimo si porta dietro il fatto di
essere un sistema nato troppo tardi, il più giovane in Europa, e soprattutto il fatto che si tratti di un sistema che non
nasce dallo Stato, lo Stato in qualche modo lo adotta, lo fa proprio ma sulla spinta dal basso, ed è un sistema
decentrato perché le realtà forti dello SPRAR non a caso sono le stesse realtà forti dell'esperienza precedente di
accoglienza dei cittadini bosniaci.
Sapere da dove nasce ci aiuta anche a capire perché lo SPRAR pur essendo il programma nazionale di accoglienza per i
richiedenti asilo sia gestito dall'Associazione Nazionale Comuni Italiani (A.N.C.I.), che in qualche modo era l'organismo
istituzionale più vicino a ciò che era l'ICS, cioè un mondo polimorfe ricco di realtà diverse che avevano provato a fare
qualcosa. Lo SPRAR quando nasce ufficialmente nel 2002 offre 2500 posti e, nonostante l'immediata consapevolezza
collettiva dell'insufficienza dei posti rispetto alla reale domanda, questa carenza strutturale ha continuato a
rappresentare un elemento costante dello SPRAR fino ai giorni d'oggi, basti pensare che da allora ad oggi i posti
disponibili sono aumentati di sole 500 unità. Nato sperimentalmente lo SPRAR si propone di offrire un percorso di 6
mesi che da una fase di orientamento conduca all'autonomia i richiedenti asilo/rifugiati. Da subito l'indicazione
temporale di 6 mesi è apparsa insufficiente per garantire ad un utente, appena arrivato, di giungere all'autonomia, ma
nonostante ciò nulla è cambiato negli anni.
Riassumendo la carenza strutturale dei posti e l'inadeguatezza dei tempi del progetto rappresentano le critiche
costantemente riproposte nei rapporti dello SPRAR ma continuano a restare inascoltate.
Una terza problematica è rappresentata dal finanziamento dei progetti SPRAR che in molti casi è di tipo annuale, il
problema sorge perché, prima che si destinino e siano resi utilizzabili i fondi di un'annualità, si lavora magari con quei
fondi oggettivamente per 9 mesi quindi si crea un buco tra quando si crea un progetto e quando viene riassegnato il
progetto stesso, buco che però non corrisponde al fatto che le persone continuino ad avere delle esigenze anche
quando c'è un cambio tra un progetto e l'altro. Per ovviare a questo problema spesso si è scelto di dare continuità ai
progetti dando quindi la precedenza dei finanziamenti alle realtà già operanti, ciò comporta d'altro canto dei limiti
importanti, primo fra tutti il fatto che sia reso pressoché impossibile il ricambio dei Comuni vincitori dei bandi.
Negli ultimi 4 anni si sono fortunatamente ottenuti bandi biennali e recentemente si lavora nella prima fase triennale, i
cui i fondi vanno dal 2011 al 2013. I finanziamenti triennali hanno da un lato il vantaggio di coprire un periodo con
maggiore regolarità, ma dall'altro lato hanno lo svantaggio di cristallizzare il numero dei posti disponibili almeno fino al
successivo bando.
Il programma statale di accoglienza passa attraverso la sopracitata A.N.C.I. e in virtù di ciò si presenta come un sistema
1
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decentrato perché sono tanti i progetti finanziati nelle differenti realtà italiane che partecipano su base volontaria.
Ciascuna di queste realtà accoglie minimo 10/15 persone. La base volontaria dei comuni è in realtà, come già sopra
ricordato, fittizia.
In Piemonte sono disponibili 145 posti ogni 6 mesi ma può accadere che questi posti diminuiscano nel caso in cui per
alcuni utenti, inseriti nello SPRAR che, conclusosi i 6 mesi, non hanno raggiunto una sufficiente autonomia, sia richiesta
una proroga di 10 mesi/1anno.
1 Attualmente sono 151 i progetti SPRAR.
2 Consultabili sul sito dell'Associazione Nazionale Comuni Italiani.
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Lo SPRAR si propone come un sistema integrato perché, forte dell'esperienza dei comitati cittadini degli anni '90,
rifiutava l'idea di realizzare grandi centri di accoglienza puntando viceversa sull'integrazione di pochi individui in piccole
realtà cittadine all'interno delle quali l'integrazione dovrebbe avvenire non per mano esclusiva degli specialisti del
settore ma attraverso la commistione di individui diversi, di semplici cittadini.
Questo sistema si dimostra integrato anche perché si propone di garantire non solo vitto e alloggio ma anche servizi
differenti come ad esempio una preparazione legale, una mediazione culturale, quando necessario un supporto
psicologico e tutto ciò che può aiutare queste persone in primo luogo a capire dove sono e successivamente a
raggiungere l'autonomia.
Rispetto a questa grande carenza di posti, si potrebbe pensare che effettivamente i fondi necessari per incrementarli
non ci siano, ma in realtà lo Stato li utilizza per fare altro, di cui sono un esempio emblematico due istituzioni diverse: i
CARA (Centri Accoglienza Richiedenti Asilo) e i CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione). L'istituzione di queste
strutture determina la formazione di percorsi diversi per i richiedenti asilo che possiamo definire, per descriverli in
questa sede, di serie A, B, C, a seconda delle varianti che si innestano nelle loro vite. Prendiamo in considerazione il
percorso che può essere definito del rifugiato di serie A, più fortunato è quello che arriva in Italia fa questo passaggio
più o meno indolore presso l'Ufficio Stranieri della città X, in questura e viene accolto e dopo essere sottoposto al
foto-segnalamento e aver fatto il C3, successivamente gli viene chiesto se ha un posto dove stare (fino ad allora non
gliene importa niente a nessuno) e se dice che non ce l'ha la questura stessa o l'Ufficio Stranieri o La Prefettura dà la
segnalazione all'ANCI per vedere se in qualche parte d'Italia c'è un qualche posto disponibile nel sistema nazionale. È
fortunato e finisce nel progetto SPRAR, più o meno fortunato perché anche gli SPRAR non sempre funzionano bene. A
questo proposito c'è stato anche in questo caso un forte dibattito che nasceva dall'evidenza delle differenze che
determinano il buon o cattivo funzionamento dei diversi progetti SPRAR dato che l'esperienza da cui trae origine aveva
delle basi più solide al nord. Esistono 151 progetti da nord a sud ma mettiamo che sia uguale finire in un qualsiasi
progetto SPRAR in Italia, è quindi fortunato, ha risolto almeno il problema di dove mangiare e dormire, di capire dove è
finito e di essere accompagnato almeno fino ad un certo punto. Nel secondo caso potrebbe essere più sfortunato, un
rifugiato di categoria B che poi magari diventa un A o una categoria B che rimane una B, cioè il richiedente asilo che
arriva, fa tutto come nel caso precedente ma gli viene detto che non c'è posto nello SPRAR però c'è posto nel CARA.
Questi posti sono dei centri ben lontani dallo logica dello SPRAR, cioè dei grandi concentrati dove possono esserci dalle
400 alle 500 persone, quindi un bel posto apposito per loro, possibilmente in periferia, da dove possono uscire
soltanto di giorno e viceversa non possono passare la notte al di fuori salvo in caso di autorizzazione precedente, pena
l'espulsione dal sistema. Chi finisce nell'accoglienza B in qualche modo ha una procedura più veloce nel senso che
passa prima in Commissione Territoriale (anche se ciò spesso non accade) perché in questi centri per legge si
dovrebbe rimanere al massimo 45 giorni, anche se in realtà spesso rimangono oltre 6 mesi. Una volta usciti dal CARA
se si è fortunati si ottiene il permesso di soggiorno, (potresti anche aver ricevuto un diniego e a quel punto sei un
clandestino) quindi si è legalmente residente in Italia in quanto rifugiato politico o avente Protezione umanitaria o
sussidiaria, Nonostante il riconoscimento giuridico i problemi si ripresentano: assenza di un posto in cui vivere in Italia,
assenza di lavoro, possibile continua non conoscenza dell'italiano (perché nessuno s'è preso la briga di insegnartelo) e
in questa situazione o si finisce nel gruppo A, magari grazie all'inserimento in un improbabile posto SPRAR oppure si
decade in quello che è il gruppo C. Passare allo status C significa che lo Stato, dopo aver assolto il suo compito cioè
rilasciare il documento di riconoscimento, l'unica/ultima cosa che fa è pagare un biglietto del treno per la località che il
rifugiato vuole raggiungere. Quindi una serie di persone, già con il permesso di soggiorno e riconosciute, arrivano in
diverse città italiane e si scontrano con quello che è il welfare sociale che le città possono o non possono avere, oppure
lo possono avere per un certo numero e magari possono o meno avere un sistema misto migranti, richiedenti asilo,
ecc.. Così ci si rivolge all'Ufficio Stranieri che esplica quanti posti disponibili ha (se ne ha) e di che cosa si tratta,
dormitori o qualcosa di simile allo SPRAR. Nel caso in cui non ci sia alcun posto disponibile, viene messo in lista
d'attesa. Un altro percorso, ancora più sfortunato, è rappresentato dal non finire né in A né in B ed essere solo accolto
dalla città oppure non essere mai accolto da nessuno ed avere sempre lo stesso status giuridico. Questi percorsi e
trattamenti prendono forme diverse a seconda delle contingenze del giorno in cui si arriva nonostante la legge preveda
le stesse cose.
Un posto SPRAR costa circa 33 euro al giorno, un posto nel CARA può arrivare a costare anche 60 euro al giorno e
allora viene da porsi una legittima domanda ma perché se non abbiamo i soldi per potenziare questa cosa che più o
meno funziona, finanziamo quest'altra che costa di più e che produce dei risultati peggiori??? domanda a cui nessuno
ovviamente vuole rispondere. La cosa aberrante è che arriviamo a finanziare un'istituzione più costosa e peggiore di
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questa. Nel Febbraio 2011 lo Stato italiano decreta l'emergenza umanitaria del Nord Africa, per arrivare nell'aprile
del 2011 a finanziare un terzo canale esclusivo per chi arriva a Lampedusa e nello specifico solo per chi arriva dalla
Libia, la motivazione data è semplice: SPRAR e CARA non sono ritenuti adatti per sostenere/contenere “l'emergenza”. È
importante ricordare che chi invece fugge dalla Tunisia viene considerato semplicemente migrante economico, salvo
quelli che sono arrivati tra il 1°gennaio e il 5 aprile a cui ha concesso, non si sa perché, un permesso temporaneo che
all'inizio era di 6mesi e che ora ha prolungato per altri 6 ma fondamentalmente non li ha accompagnati in niente. Lo
Stato prende queste due decisioni a priori . Per chi arriva dalla Libia ( dalla quale arrivano davvero in pochi) e sbarca
esclusivamente a Lampedusa se ne occupa la Protezione Civile, la Prefettura competente, la Provincia della Regione in
cui dovranno andare e la Regione stessa e si fa una cosa che supera i limiti dello SPRAR: si dice tanti ne arrivano, tanti
ogni Regione se ne deve far carico in base alla popolazione che ha, viene praticamente effettuata una divisione sul
territorio nazionale sulla base di un piano che contempla le diverse soluzioni. Questo tipo di accoglienza costa tra i 40 e
i 46 euro al giorno. È chiaro che, essendo un'emergenza, sia più facile andare in deroga ai minimi dei servizi forniti
nello SPRAR, infatti entrano in campo degli attori diversi che sono perlopiù privi di esperienza nel settore. Mediazione
linguistica, persone preparate rispetto la domanda d'asilo, l'iscrizione al Sistema Sanitario e via dicendo in caso di
emergenza è facile (e permesso) andare in deroga e succede quindi che a un prezzo maggiore non si garantisca
neanche quello che si dovrebbe garantire .
Dati IOM al 26 settembre 2011 che dimostrano perché emergenza: dalla Libia sono uscite 685.774 persone, e come
spesso accade in queste situazioni le persone si sono spostate soprattutto nei paesi vicini:in Tunisia 291.000, in Egitto
220.000, in Algeria 13.000, in Nigeria 70.000, in Ciad 50.000, in Italia 29.955.
Dati UNHCR 2010 stabiliscono che il numero di rifugiati totale nel mondo sia di 15,4mln, quello degli sfollati interni di
27,5mln in totale e quello delle persone in difficoltà sia di 43,7 milioni. Paesi da cui scappano Afghanistan, Iraq,
Somalia, Rep. Dem. Del Congo e Birmania e i paesi che ospitano un numero maggiore sono Pakistan, Iran, Siria,
Germania e Giordania. Nella ricca Europa fanno domanda d'asilo (rispetto ai 15mln) 358.800 persone che in
prevalenza fuggono da Serbia, Afghanistan e Cina. Nello specifico in Italia in totale ci sono 56.000 persone riconosciute,
in Germania quasi 600.000 in Gran Bretagna 270.000, in Francia 196.000, nei Paesi Bassi che sono molto più piccoli
dell'Italia 76.000 e in Svezia 81.000. Le domande d'asilo quest'anno in Italia testimoniano una maggior provenienza da:
Nigeria, Pakistan, Turchia, Afghanistan e Serbia. Lo scorso anno (2010) è stato registrato il minor numero di domande
d'asilo e il minor numero di riconoscimenti, solitamente tasso di riconoscimento era pari al 40-45%, nel 2010 le stime
riportano un tasso pari a poco più del 30%.
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Lavori di gruppo | Quarto incontro
Gioco di ruolo
Partecipanti:
- 3 volontarie nel ruolo dei richiedenti asilo,
- 1 voce narrante,
- il resto della classe rivestirà il ruolo di osservatori che evidenzieranno elementi di natura tecnica ed emotiva da
restituire all’intera classe.
Tre scene interpretate:
- la prima vede i tre protagonisti rivolgersi all’ufficio stranieri della città
- la seconda li vede interloquire per la prima volta con la questura
- nella terza i tre richiedenti riescono, sempre in questura ma dopo un mese, a compilare la loro richiesta di asilo.
Restituzione
Impressioni dei protagonisti:
•
la sensazione iniziale è quella di solitudine
•
reale incapacità di comunicare
•
gli interpreti si sono sentiti trattati da criminali a causa delle procedure “poliziesche” attuate dal funzionario
della questura (es. impronte digitali).
Impressioni degli osservatori:
•
si evidenzia un meccanismo di svuotamento e privazione di identità dei richiedenti (es. funzionario che non
compie nessuno sforzo per capire i nomi dei tre protagonisti);
•
atteggiamento ipocrita e per nulla accomodante dell’ufficio stranieri;
•
totale risparmio in termini di empatia, energia, materiale;
•
percezione che non ci sia alcun tentativo di ribellione o opposizione da parte dei tre richiedenti nei confronti
dell’atteggiamento sprezzante del funzionario della questura;
•
totale assenza di una messa in rete dei vari attori che si occupano di accoglienza.
Nota: si aggiunge a tutte queste difficoltà rilevate la presenza di uomini in divisa. La maggior parte delle persone
assumono nei confronti di uomini in divisa un atteggiamento di difesa e paura legato alle pregressa esperienze
negative del richiedente.
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Bibliografia / Quarto incontro
AA.VV.
2011
Per un'accoglienza e una relazione d'aiuto transculturali. Linee guida per un'accoglienza integrata e attenta
alle situazioni vulnerabili dei richiedenti e titolari di protezione internazionale,
http://www.serviziocentrale.it/file/server/file/PubblicazioneLineeguida.pdf
AA.VV.
2011
Il diritto alla protezione. La protezione in Italia, quale futuro? Studio sullo stato del sistema di asilo in Italia e
proposte per una sua evoluzione, http://www.integrazionemigranti.gov.it/Documenti/documentiitalia/Documents/diritto_alla_protezione.pdf
Caritas / Migrantes
2011
Dossier Statistico Immigrazione. 21° Rapporto. Oltre la crisi, insieme, Roma, Idos.
Hein Cristopher, a cura di
2010
Rifugiati. Vent'anni di storia del diritto d'asilo in Italia, Roma, Donzelli editore.
Molfetta Cristina
2011
Piemonte in “emergenza”: i numeri, i problemi e le proposte per uscirne, http://viedifuga.org/?p=2079
Prefettura Città di Torino
2011
Osservatorio Interistituzionale sugli Stranieri in Provincia di Torino. Rapporto 2010,
http://www.prefettura.it/torino/contenuti/1417415.htm
Rastello Luca
2010
La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani, Roma-Bari, Laterza editori.
Sozzi Mirtha
2011
Glossario dei termini, http://viedifuga.org/?p=1186
UNHCR
2010
Asylum Levels and Trends in Industrialized Countries 2010, http://www.unhcr.org/4d8c5b109.html
UNHCR
2011
Asylum Levels and Trends in Industrialized Countries 2011, http://www.unhcr.org/4e9beaa19.html
www.nonsoloasilo.org
www.serviziocentrale.it
www.viedifuga.org
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Quinto Incontro
3 novembre 2011
Titolo
La situazione piemontese: verso la creazione di un modello alternativo di intervento
Relatori
Cristina Molfetta, Ufficio Pastorale Migranti
Michele Manocchi, MOSAICO – Azioni per i Rifugiati
Cristina Molfetta
Prima di parlare di quello che esiste a livello regionale o meglio di quale era la situazione a Torino e in regione nel 2008
data a partire dalla quale nasce e si colloca il Coordinamento Non solo asilo, volevo un po’ brevemente riassumere
quello che ci siamo detti l’altra volta a livello nazionale. E anche dirvi due cose sui morti nel mediterraneo e sulle fonti
da cui si possono recuperare i dati per avere i numeri dei flussi nazionali e internazionali sui richiedenti asilo e rifugiati.
Abbiamo parlato un po’ del numero delle persone che si mettono in viaggio e che arrivano, ma non dimentichiamoci
che c’è anche una serie di persone che si mettono in viaggio e che non arrivano.
E in qualche modo non vengono neanche conteggiate, almeno ufficialmente, tanto che la fonte del conteggio dei morti
del mar mediterraneo è un sito “Fortress Europe”, curato da un giornalista Gabriele del Grande e questo indica la
volontà non solo italiana ma europea di far calare un bel silenzio rispetto a queste persone che scompaiono.
Perché le politiche di respingimento e accordi bilaterali non sono solo nostre nazionali ma sono anche delle politiche
europee o che riguardano altri paesi europei che comportano degli accordi bilaterali con altri territori e queste
politiche portano anche a delle conseguenze che nelle condizioni più tragiche possono essere queste delle morti nel
mediterraneo.
Qui in questi cartelloni che ora guardiamo assieme ho messo dei numeri che sembrano estremamente freddi, ma
ricordatevi che ognuno di loro è una persona.
Si conteggia che nel 2008 sono 1275 le persone morte nell’attraversare il mediterraneo.
Il 2008 è stato un po’ un anno con un picco arrivi nel nostro paese rispetto alla media che si considera di circa 15.000
richieste di asilo in Italia ogni anno, nel 2008 invece ne sono arrivate circa 30.000.
nel 2009 i morti nel mediterraneo che risultano sono 425.
Nel 2010 i morti nel mediterraneo che risultano sono “solo” 20 ma aggiungo un dato che il 2010 è l’anno in cui
abbiamo respinto 4.200 persone. Pratica, quella del respingimento, che rispetto agli accordi internazionali non è legale
ma noi proseguiamo impunemente.
Mentre nel corso del 2011, l’anno non è ancora finito e quindi il dato è estremamente alto, se ne contano già 1674.
Ho messo poi rispetto al 2011 questa differenza fra tratta tunisina e tratta libica perché ci dice qualcosa sul tipo di
viaggio e su come sono state obbligate a partire le persone da questi due paesi nel corso del 2011. In qualche modo la
tratta tunisina per quanto in mano ai trafficanti di essere umani sembra essere una tratta che guardava un po’ di più
alla qualità delle barche, a non ammassare le persone. Invece le imbarcazioni libiche non sono state gestite solo dalle
tratte degli esseri umani ma anche da parte dell’esercito di Gheddafi che ha imbarcato su barche che erano già vicino
al collassare un numero spropositato di persone e questo ha fatto aumentare drasticamente il numero dei morti in
mare in questi mesi sulla tratta Libia - Italia.
Prima di passare alla situazione regionale voglio poi dirvi qualcosa sulle fonti da cui potete recuperare ogni anno i dati
sia internazionali che nazionali rispetto ai flussi di rifugiati, richiedenti asilo ect… di cui abbiamo parlato nel precedente
incontro.
Le fonti principali che vi invito ogni tanto a guardare, perché prima di occuparsi di un problema è bene avere uno
sguardo che non è solo locale, sono ad esempio il rapporto dell’UNHCR che esce almeno una volta all’anno è un
rapporto globale sul flusso di movimento delle persone costrette a muoversi sia all’interno dei propri paesi sia
all’esterno.
A livello nazionale per chi non volesse fare la fatica di leggere il rapporto UNHCR che è in inglese viene tradotto un
estratto in italiano dello stesso rapporto dentro al dossier immigrazione Caritas/Migrantes sempre una volta all’anno.
Tutti gli anni esce poi almeno un rapporto dello SPRAR e a volte anche un aggiornamento semestrale. Tutti questi dati
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mettendoli assieme dovrebbero darvi un’idea del numero mondiale e nazionale delle richieste d’asilo, su quante
persone dopo la richiesta vengono riconosciute o meno, sui progetti di accoglienza che ci sono, su quanti richiedenti
asilo, rifugiati, titolari di protezione internazionale vengono accolti o meno su quanto costa l’accoglienza ect..
Almeno una volta all’anno poi le diverse Commissione Territoriali, anche se sempre in estremo ritardo, fanno avere dei
risultati rispetto al loro lavoro, e quindi appunto su quante persone hanno fatto domanda d’asilo in Italia su quanti
sono stati riconosciuti rifugiati o gli è stato negato lo status e a quanti invece si è dato la protezione internazionale, dati
riferiti di solito all’anno precedente. Esistono poi dei dati europei EURODAK che escono ogni quadrimestre e qui è
evidente che tutti i paesi li mandano in tempo e noi no. Di solito queste tabelle escono e hanno i dati di tutti paesi
tranne l’Italia che è in elaborazione. Noi spesso come paese non riusciamo a dare dati parziali divisi per quadrimestre
ma solo il dato totale nazionale annuale.
Invece rispetto “all’emergenza nord africa 2011” e ai numeri globali nazionali si può consultare il sito della protezione
civile nazionale qui si trovano sia tutti i diversi decreti usciti e che regolano l’emergenza sia il numero di persone
arrivate che la ripartizione per regione.
Rispetto agli spostamenti della popolazione mentre l’UNHCR si focalizza sui movimenti “forzati”delle persone L’IOM si
occupa anche degli spostamenti volontari cioè più in generale di migrazioni.
Questo era solo per dire dove prendiamo e abbiamo preso i dati/i numeri di cui vi abbiamo parlato durante il
laboratorio, e per mettervi anche nella condizione da qui in avanti di cercarli da soli e fare le vostre considerazioni.
Ora un brevissimo ripasso rispetto alla situazione nazionale: abbiamo visto che ci sono almeno tre sistemi per
richiedenti asilo, rifugiati e titolari di protezione internazionale che in questo momento stanno viaggiando
parallelamente e questo “Frankestain” è il nostro sistema paese.
Il primo sistema nasce nel 2002 si chiama SPRAR e ha circa 3000 posti di accoglienza ogni sei mesi e costa più o meno
33 euro al giorno. E’ un sistema decentrato nel senso che è sparso su tutto il territorio ed è su base volontaria. Non sto
a dire se è una pecca o un merito. Sono caratteristiche, ognuno farà le sue valutazioni.
E’ un sistema integrato che quindi dovrebbe garantire non solo vitto e alloggio ma la mediazione, l’assistenza legale e
psicologica, l’orientamento al lavoro e la ricerca casa, E’ un sistema di co-progettazione ossia un pezzo di risorse
dovrebbe essere messo da chi presenta il progetto e un pezzo da fondi nazionali.
Abbiamo visto che la quota di co-progettazione viene subappaltata al comune che partecipa e ricade sulla associazioni
che poi eseguono questo pezzo di lavoro.
Il secondo sistema sono i CARA e i CIE hanno anni di nascita successivi e seguono una logica diversa. Sono grandi
centri. La gestione viene affidata in seguito a delle gare di appalto, quindi non è più una co-progettazione ma viene
scritta una gara d’appalto, i cui atti sono pubblici. E’ invece difficilissimo arrivare ad avere in mano le convenzioni finali
che vengono firmate tra la prefettura l’ente che vince la gara di appalto.
Bisognerebbe garantire almeno dentro ai CARA gli stessi servizi dello SPRAR visto che gli utenti sono gli stessi ciò
richiedenti asilo, ma già si scade verso il basso perché è molto difficile garantire questi servizi integrati rispetto ai
numeri che si trovano nei CARA. E il costo invece sale parliamo di 60/70 euro a persona al giorno.
L’ultima “invenzione geniale” che abbiamo messo in campo è quella del “sistema dell’emergenza” dove la ripartizione
di chi arriva non viene più fatta in base alla disponibilità volontariamente data dai comuni o meno come nello SPRAR,
ma è fatta in base alla popolazione, quindi scavalchiamo l’idea di competenza e volontarietà e arriviamo all’idea che è
lo stato a decidere chi va dove.
Si conta quanta gente c’è nella regione, e in base al numero degli abitanti in proporzione si decide quante persone in
arrivo dal nord africa dovranno andare in quella regione specifica.
In questo sistema gli accordi tra prefettura ed enti che danno la disponibilità ad accogliere diventano un contratto
quasi privato tra la prefettura e l’ente gestore che anche in questo caso non ci mette nulla ma ricevere dei soldi per i
servizi che si impegna a dare.
Quello dell’emergenza è un sistema integrato sulla carta che dovrebbe garantire le stesse cose dello SPRAR. Dico sulla
carta perché per quanto ad un certo punto è nato un gruppo di monitoraggio di queste accoglienze nate durante
l’emergenza, al gruppo di monitoraggio partecipano sia persone dell’UNHCR che della protezione civile, che sono
andate in giro nelle diverse regioni visitando delle realtà campione, le situazioni che si sono create sono davvero
disparate e se ci sono alcune eccellenze ci sono anche molte situazioni estremamente critiche. Questo gruppo di
monitoraggio sta scrivendo una valutazione e sino ad ora però anche le realtà che non garantiscono quello che
dovrebbero, non sono state penalizzate né sono state fatte uscire dal sistema di accoglienza emergenziale, per questo
ribadisco che molti servizi ci sono ma solo sulla carta.
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Adesso arriviamo al Piemonte. Anche in Piemonte ci sono stati questi comitati di accoglienza locale di cui abbiamo
parlato l’altra volta ci sono stati tra gli altri posti a Torino ad Ivrea, ad Alba a Biella e in tante città del Piemonte.
Ci sono state quindi delle persone, dei cittadini che si sono organizzati durante la guerra in Bosnia e hanno creato dei
comitati d’accoglienza e che quindi hanno fatto parte di questa storia di creazione in parte di accoglienza e poi
creazione e di pensiero della proposta nazionale portata avanti a livello nazionale dall’ICS che ha portato alla nascita
prima del PNA (piano nazionale di accoglienza) e successivamente nel 2002 alla nascita dello SPRAR.
Le istituzioni nazionali e locali hanno fatto poco fino al 2001 quando appunto è nato il piano nazionale di accoglienza
che prevedeva che fossero non più i privati e le associazioni ma i comuni su base volontaria a candidarsi in partenariato
con privati ed associazioni nella gestione di alcuni posti di accoglienza per richiedenti asilo.
Nel 2001 parte quest’adesione del Piemonte prima al PNA e poi nel 2002 allo SPRAR all’inizio sono un centinaio di
posti adesso nel 2011 i posti sono circa 150. Anche qui siamo perfettamente in linea con la strategia nazionale, cioè
abbiamo un numero di posti insufficiente rispetto alle richieste. I posti del Piemonte circa 150 rappresentano rispetto
ai 3.000 posti nazionali circa il 4%. Il Piemonte in realtà è una regione estremamente popolosa e i progetti coprono
invece un percentuale molto bassa.
Adesso entriamo nel merito del perché non cambierebbe molto a livello nazionale anche se più comuni in Piemonte
alzassero la mano e dessero la loro disponibilità ad accogliere più persone. I posti sono comunque fissi a livello
nazionale cioè sempre 3000 quindi anche se 20 comuni piemontesi alzassero la mano vuol dire che aumenterebbero i
posti d’accoglienza nazionale in Piemonte e diminuirebbero in un’altra regione italiana. Il sistema paese non avrebbe
nessun beneficio dal fatto che più persone vengano accolte in Piemonte e meno in un’altra regione.
Perché i posti nazionali sono sempre uguali e non aumentano? Perché i fondi messi a disposizione sono sempre quelli.
E’ come tirare una coperta che è troppo corta e se la si tira di più sulla propria regione un’altra viene scoperta.
Adesso entriamo un po’ nel merito dello SPRAR in Piemonte, di quali comuni aderiscono ect… Il capofila di tutte le
progettualità SPRAR in Piemonte è il comune di Torino, i posti di accoglienza sono a Torino 50 (Ordinari)+ 20 (per
persone vulnerabili).
Per capire il significato di posti ordinari e per vulnerabili torniamo un attimo ai 30000 posti a livello nazionale , nel
2010 ma prima non è che era molto diverso, abbiamo 2500 posti per ordinari.
Un ordinario all’interno dello SPRAR è il beneficiario medio. Nei rapporti dello SPRAR il beneficiario medio per il 75% è
un uomo tra i 18 e i 40 anni che proviene dal corno d’africa.
Quindi 2500 posti ordinari a livello nazionale e circa 450 per “vulnerabili”una categoria che è entrata a livello nazionale
e locale solo 3-4 anni fa. Chi sono i “vulnerabili” secondo il sistema nazionale? C’è una definizione legale di queste
categorie e include le donne incinta, i malati cronici, le famiglie monoparentali i minori non accompagnati, gli anziani.
Anche l’uomo solo con figli a carico potrebbe rientrare nelle categorie vulnerabili anche se non si incontra spesso.
Anche qui rispetto all’”anzianità”ci sono classificazioni diverse se guardiamo alla nostra età media, in molti paesi da cui
vengono i richiedenti asilo spesso non si arriva a quell’età quindi non dovrebbe esserci una categoria generica di
anzianità tarata rispetto al nostro criterio ma basata sull’aspettativa di vita dei paesi di provenienza. Poi new entry di
due anni fa, abbiamo nel nostro sistema nazionale 50 posti per persone con problemi mentali. Fino a 2 anni fa i
problemi psichici o mentali venivano posti all’interno della categoria più ampia di malattie croniche o invalidanti.
Questo quindi a livello nazionale.
Se torniamo nella regione Piemonte, nella città di Torino ci sono quindi 50 posti ordinari, 20 per categorie vulnerabili
che abbiamo appena detto a chi si riferiscono e 5 posti per persone con problemi mentali. Poi ci sono i comuni di
Alice del colle, Ivrea, con a loro volta 15 posti ordinari e 7 per categorie speciali e poi la provincia di Alessandria e il
comune di Chiesanuova.
Questi sono i posti storici , dove c’è stato e c’è lo SPRAR in Piemonte. Il primo dato è nella Regione Piemonte ci sono 7
progetti SPRAR per un massimo di circa 150 posti cioè il 4% dei posti nazionali. Pochi, molto pochi. Questo sistema non
prevede ad esempio nessuna accoglienza per famiglie cioè in tutte questi progetti le famiglie sono un po’ un problema.
A oner del vero in tutto lo SPRAR nazionale le accoglienze per famiglie sono molto poche. È vero che la maggioranza
degli utenti sono uomini soli fra i 18 e i 40 anni ma è anche vero che ogni tanto le famiglie arrivano e non possono
diventare un problema. Noi abbiamo incontrato anche famiglie con 5 o 6 figli e non c’era verso di inserirle da nessuna
parte. Sembrava quasi fosse proibito avere più di uno o due figli a carico.
L’altra cosa che quando nasce lo SPRAR in Piemonte, è il tavolo rifugio. Il tavolo rifugio è un organismo, o meglio
all’inizio erano riunioni in cui è stato delegato al comune di Torino la regia di queste riunioni. È stato delegato al
comune di Torino la regia di queste riunioni perché il comune di Torino era anche il capofila dei diversi progetti SPAR in
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Piemonte e quindi il referente che l’ANCI cioè il sistema di smistamento centrale dei posti SPRAR aveva qui in
Piemonte. Il tavolo aveva una spinta ideale, quando è nato che un po’ si è persa nel tempo. Questo tavolo nel corso
degli anni si è molto istituzionalizzato diventando sempre di più un tavolo dove il comune di Torino fa un po’ da regia
rispetto ai progetti che ha sia a livello nazionale che locale rispetto ai richiedenti asilo e rifugiati, preoccupandosi però
poco o comunque proponendo poco rispetto ad eventuali situazioni da proporre alle persone che rimangono fuori dal
loro sistema di accoglienza o da q2uello nazionale.
Cosa c’è a Torino per i richiedenti asilo e rifugiati al di là dei posti SPRAR?La città di Torino è una delle grandi città
italiane ha infatti quasi 1 milione di abitanti. Dal 2002 ad oggi ha sempre avuto fra i 200\250 posti d’accoglienza per
richiedenti asilo e rifugiati. Stiamo parlando della sola città di Torino. Che cosa sono questi posti d’accoglienza?
Qui si apre una varietà, mentre in tutte le realtà SPRAR per quanto non siano tutte identiche è previsto in tutta Italia il
sistema integrato di servizi di cui abbiamo parlato prima (quindi vitto e alloggio, mediazione culturale, assistenza
legale, supporto psicologico se necessario, aiuto nella ricerca lavoro e nella ricerca della casa…) cioè l’idea che le
persone dovrebbero essere accompagnate all’autonomia entro 6 mesi. Sei mesi che se poi andiamo a vedere i dati
SPRAR nazionali e regionali ci rendiamo conto che sono un po’ una forzatura. Se guardiamo i dati nel 2010 dello SPRAR
sono transitati nello SPRAR nazionale 6855 persone. Con 3000 posti a disposizione ogni sei mesi. Se andiamo a vedere
però quali erano i nuovi ingressi erano 2.886 vuol dire che rispetto a 6855 persone a livello nazionale 4000 sono
rimaste lì tutto l’anno magari ereditandolo dall’anno precedente e solo 2.000 sono uscite e altrettante sono state
accolte. Un sistema di 6.000 posti per sei mesi che in un anno di nuovi ne ha accolti 2886 vuol dire che forziamo. Cioè
teniamo chi entra più di sei mesi. Chi li segue in qualche modo prova a forzare in tutti i modi per tenerli un po’ di più.
Metterli alla porta dopo 6 mesi non ha senso perché si sta facendo un percorso che è solo a metà e questo però vuol
dire che drammaticamente ne rimangono fuori sempre di più, mentre a livello locale non abbiamo la stessa precisione
di dati e quindi non riusciamo a provarlo con la stessa chiarezza ma è plausibile pensare che quello che succede a
livello nazionale succede anche a livello locale.
L’altra cosa che mi sembrava giusto far capire e mostrarvi era l’onda lunga dei fenomeni. L’anno di picco che abbiamo
visto rispetto agli arrivi negli ultimi anni era il 2008. Ne sono arrivati tanti nel 2008 quindi ne sono rimasti fuori tanti
ma in realtà le persone impiegano un po’ a capire cosa fare. Se guardiamo ai dati del 2009 che dovrebbe essere l’anno
in cui maggiormente si è sentita la pressione degli arrivi del 2008, le liste di attesa dello SPRAR del 2009 dicono che
c’erano 1000 persone in lista d’attesa. Se guardiamo al 2010 e ci ricordiamo i dati degli arrivi del 2009 che in realtà
sono stati molto meno che nel 2008 le persone in lista d’attesa risultano invece molto di più cioè 2500. Questo vuol
dire che c’è un‘onda lunga dei fenomeni. Le persone che arrivano in un anno si ripercuotono nel sistema nei due anni
successivi. Tenete a mente questo perché poi ci tornerà utile quando parleremo delle case occupate. E anche per
capire che i problemi maggiori rispetto agli arrivi del 2011 non li vedremo subito ma nei successivi due anni cioè nel
2012 ma ancora di più nel 2013.
Dunque sia a livello nazionale che locale abbiamo pochissimi posti per famiglie e per categorie che richiedono più
attenzione (“vulnerabili” e malati di mente). Magari lo SPRAR può essere fatto bene con operatori estremamente
motivati e preparati che tendono a tenerseli fin quando ce la fanno ma capite se 2 anni è il tempo medio di una
persona con un livello d’istruzione senza malattie e figli a carico per raggiungere una qualche forma di autonomia, cioè
il tempo minimo per trovare lavoro allora rispetto a una persona che ha qualsiasi problema cronico i tempi diventano
sono molto più lunghi.
E’ anche importante capire che i posti SPRAR nella regione Piemonte non vengono gestiti dal comune di Torino o dalla
regione Piemonte o dalle istituzioni locali. Se una persona richiedente asilo arriva al comune e alla prefettura di Torino
e fa domanda per entrare nello SPRAR cioè nel sistema nazionale la sua domanda viene fatta dal Comune o dalla
Prefettura di Torino ma la richiesta passa dall’ANCI a Roma e magari c’è un posto libero nello SPRAR in Piemonte e in
quel caso la persona rimane sul territorio, ma può anche essere che il posto libero in quel momento sia solo ad
Agrigento e in quel caso la persona viene mandata ad Agrigento.
L’ANCI a Roma riceve domande per entrare nei posti SPRAR da tutt’Italia possono fare domanda per i posti SPRAR o i
CARA o le prefetture o gli uffici stranieri. E poi è l’ANCI che una volta ricevuta la segnalazione prova a capire dove c’è un
posto libero se c’è. E spesso purtroppo non c’è. Se una persona rifiuta un posto SPRAR nazionale, è fuori dal sistema
non importa se non ha capito cosa gli stavano offrendo; se ha capito che quello era il sistema nazionale, che se non si
spostava in un altro posto che non conosce gli fa solo paura e non sa che non avrà neanche un’occasione rispetto alla
città in cui è. L’ufficio stranieri e la prefettura di Torino comunicano in questo caso bene a chi rifiuta un posto a livello
nazionale che rifiutare vuol dire anche non aver diritto ad entrare in un posto gestito dal comune di Torino fuori dallo
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SPRAR. L’Assegnazione di un posto SPRAR a livello nazionale non tiene quindi conto dei desideri, di un eventuale
familiare, del motivo per cui sei a Torino o in un'altra città. La logica diventa se dici di no per me non hai bisogno del
mio aiuto e non te lo darò più. Tu sei fuori. Se tu invece hai ricevuto un no dal sistema allora sei autorizzato a bussare
alla porta dell’ufficio dì stranieri perché il sistema nazionale ti ha rifiutato non se stato tu, così se sei a Torino vai
all’ufficio stranieri che ti dice noi abbiamo questi 200/250 posti per richiedenti asilo e rifugiati.
Una volta che ti presenti i 2-3 operatori che ci sono scorrono la lista delle loro possibilità e anche qui spesso non c’è
disponibilità e se non c’è subito il tuo nome viene inserito nella lista d’attesa. Con l’emergenza nord africa e la
creazione del terzo canale di accoglienza in realtà sia la lista d’attesa dello SPRAR nazionale che quella locale del
comune di Torino si è accorciata ma continuano ad esserci entrambe. Magari bisogna aspettare venti giorni per poter
essere inserito ad esser messo in qualche posto. Uso questa frase per farvi intuire che questi 200/250 posti non sono
tutti uguali.
Livello minimo, dormitorio e mensa. Livello intermedio, simile allo SPRAR. E livello post SPRAR ossia per le persone che
teoricamente hanno già fatto lo SPRAR cioè la parte di accoglienza e dovrebbero essere accompagnati nell’ultima parte
quella per diventare autonomi. I posti possono quindi essere in una serie di appartamenti con persone che si possono
autogestire o accompagnati dalle associazioni o posti in dormitorio.
Questi sono quindi i 200/250 che gestisce l’ufficio stranieri di Torino. Questi fondi almeno dall’anno scorso e fino alla
fine del 2012 costano circa 2 milioni di euro all’anno. Questi fondi arrivano dal 2010 attraverso il fondo Morcone.
Dunque non sono fondi gestiti della città ma che arrivano da fondi nazionali istituiti dal Prefetto Morcone istituiti
perché riteneva che le grandi città Torino Milano Roma fossero proprio in quanto grandi città un polo attrattivo per le
persone che rimanevano escluse dal sistema di accoglienza nazionale.
C’è poi da parte delle istituzioni locali la “leggenda metropolitana” che il sistema Torino funziona molto bene ed è e
perché funziona molto bene che molte persone vogliono venire qui a Torino.
È una leggenda metropolitana perché le persone non si spostano tanto per andare dove è meglio, ma si spostano
invece proprio perché non sono state accolte e poi se confrontiamo i numeri delle persone che gravano sulla diverse
grandi città italiane diventa evidente che non sono certo tutti qui a Torino. Prendiamo il numero di abitanti normali di
due grandi città italiane circa un milione di persone a Torino circa 3 milioni a Roma, il numero maggiore di rifugiati
nelle case occupate a Torino ha raggiunto le 500 unità a Roma abbiamo molte case occupate il cui numero totale di
abitanti arriva tra le 3000-4000 persone con picchi anche maggiori.
L’altra cosa che molte persone che lavorano nelle istituzioni locali ripetono è una strategia al ribasso cioè che bisogna
fare il meno possibile, che quello che c’è funziona benissimo, ma che aumentare i servizi significa voler far entrare più
persone. Se noi facciamo di più rispetto a qualche altra città vengono poi tutti qui. Dunque è un gioco al ribasso.
Questa è una convinzione radicata, non c’è analisi nazionale o internazionale che tenga. Anche se è ovviamente un
strategia che non paga e che non porta ad affrontare i problemi..
Tutte le città hanno la sensazione che solo loro si confrontato con quel problema anche se non è così.
Dunque le persone che rientrano in questi 200/250 posti di accoglienza della città di Torino o sono inseriti nelle liste di
attesa per entrarci, se torniamo alla classificazione che abbiamo usato nel precedente incontro sono richiedenti asilo e
rifugiati dei percorsi B e C. Il sistema cittadino non è uguale per tutti ma a seconda delle categorie in cui uno ricade
cioè dormitorio, posti simil SPRAR o post SPRAR ect. Poi ci sono quelli che continuano a non essere accolti da nessuno
o che sono stati accolti o dallo SPRAR o dal sistema cittadino per un certo periodo ma che non hanno raggiunto
l’autonomia.
Dove finiscono queste persone quando i fondi a disposizione non sono sufficienti? Nel 2007 quindi in estremo ritardo
rispetto ad altre città (Firenze, Roma ad esempio) che si confrontavano già da tempo con questo fenomeno la città di
Torino si confronta con la realtà delle case occupate.
Nel 2007 c’è infatti il primo fenomeno di casa occupata da rifugiati e titolari di protezione internazionale a Torino in Via
Bologna. I numeri delle persone che la occupano cambia nel tempo ma la casa di Via Bologna è tutt’ora occupata da
rifugiati politici e titolari di protezione internazionale.
Nel 2008 Torino si confronta con la seconda casa occupata da rifugiati e titolari di protezione internazionale quella di
Corso Peschiera. La casa di via Bologna nasce con una cinquantina di persona di nazionalità etiopi eritrei e sudanesi
mentre la casa di Corso Peschiera che nasce nel 2008 è partito con l’occupazione 150 (somali, sudanesi, etiopi ed
eritree) e ha raggiunto nel suo picco anche 400 persone. All’inizio queste persone si organizzarono in maniera
autonoma aiutati da persone e comitati per lo più legate ai centri sociali. Sono due realtà “proprietarie diverse”. La
palazzina di via Bologna è infatti uno stabile di proprietà comunale mentre la clinica di Corso Peschiera è uno stabile
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privato cosa che ha portato anche ad atteggiamento diverse. C’erano quindi differenze di numero rispetto
all’occupazione e quindi di impatto sociale ma anche di proprietà degli stabili coinvolti.
Michele Manocchi
Le cose che vi stiamo raccontando sono frutto di un’esperienza quotidiana di rapporto con le istituzioni, di rapporto
con i soggetti che lavorano attualmente sui rifugiati in Piemonte e con tutte le istituzioni insomma che sono state
citate. Anche il nome mio e di Cristina è dentro il bussolotto delle presentazioni , ma siccome ancora non siamo stati
estratti non abbiamo ancora avuto modo di presentarci vale forse la pena farlo in questa occasione. Cristina ha una
lunga esperienza di lavoro con rifugiati maturata dentro la cooperazione decentrata e la cooperazione internazionale e
da quando è a Torino collabora con l’UPM (ufficio pastorale Migranti) ed è una delle rappresentanti del Coordinamento
Non solo asilo al tavolo di co-progettazione regionale, io descrivo quello che ho vissuto in quanto membro
dell’associazione Mosaico che ha partecipato al Coordinamento Non solo asilo non dalle primissime battute ma dal
primo mese e da studioso che ha osservato il fenomeno scrivendo a riguardo la sua tesi di dottorato. Dunque nei nostri
interventi noi esprimiamo anche dei giudizi però e quindi in quanto tali possono essere discussi, ma anche dati,
racconti ed equilibri tendenzialmente frutto di esperienza. Anche quella si può mettere sul campo e discuterla ma
avete la possibilità di parlarne con chi fa questo tutto il giorno tutti i giorni. Adesso iniziate a vedere nel concreto le
cose che Mauro Van Aken ci ha detto all’inizio nella prima lezione, che per alcuni aspetti può essere risultata un po’
“nebulosa” a chi non si occupa nel concreto di rifugiati, alcuni dei concetti che lui esprimeva nel racconto che avete
sentito trovano piena concretezza. Il discorso di faticare ad accogliere le famiglie, il discorso dell’”etichetta mento”, ad
esempio l’etichetta di vulnerabile. Chi è il vulnerabile? È quella persona lì. Il lavoro dell’operatore diventa dimostrare
che sono vulnerabili. Se siamo di fronte a una donna incinta è facile da dimostrare. L’uomo con la pallottola magari
viene dimostrato 6-7-8 mesi dopo che è in Italia perché magari non è stato controllato prima. Siamo pieni di persone
che hanno ossa rotte magari diagnosticate a tre mesi dall’arrivo perché nessuno l’aveva mai toccato.
Vedete come tutto le cose di costruzione culturale e sociale delle persone che poi noi etichettiamo come rifugiati
richiedenti asilo vulnerabili trovano poi concretezza in questo modo di operare che è al ribasso a livello nazionale come
a livello locale e cerca comunque di spostare il problema da qualche altra parte come ci diceva anche Mauro.
Il problema è che siamo passati da cercare di dare protezione ai rifugiati al proteggerci dai rifugiati e quindi li viviamo
come un’invasione con tutto quello che a livello mass mediatico questo ha comportato negli anni.
A fronte del fatto che i numeri sono sempre quelli e sono sempre piccoli. Non si può dire che 25.000 persone nell’arco
di 6 mesi sono un’emergenza perché se questa è un’emergenza siamo messi male. Se dovessero arrivare realmente le
persona che arrivano nei paesi che noi chiamiamo nel terzo mondo quando per esempio dal Sudan si postano decine
di migliaia nel paese vicino ad esempio il Ciad. Allora lì magari si può parlare di emergenza.
Qui c’è tutta questa retorica che noi nel nostro piccolo abbiamo cercato di presentare. Il mio compito è ora quello di
parlarvi anche se solo a livello descrittivo del Coordinamento Non solo asilo. Magari dirò alcune cose di tipo più
analitico. Il Coordinamento Non solo asilo nasce nel dicembre del 2008 e nasce a seguito del fatto che due associazioni
prima di altre, però poi la cosa è andata abbastanza rapidamente, si sono accorte di quest’occupazione di corso
Peschiera. Cioè il gruppo Abele che ha la sede in corso Trapani quindi molto vicino a corso Peschiera e quasi
contemporaneamente la San Vincenzo. Queste due realtà si dicono che bisogna fare qualcosa per questa situazione,
capiscono e in qualche modo vengono a conoscenza che entrambe si sono mosse. Radunano una serie di altri attori
sociali (enti associazioni, cooperative sociali) attorno ad un tavolo e decidono di scrivere una lettera alla prefettura. Vi
ho fotocopiato questa lettera non perché ci sia qualche particolare bellezza stilistica ma perché la leggerete e vedrete
che ogni capoverso di questa lettera ha previsto quello che poi è successo da lì ad un anno.
Nella lettera che questo gruppo di associazioni ha scritto e indirizzato alla Prefettura e poi anche alle altre istituzioni
locali (essenzialmente alla Prefettura in quanto organo che sul territorio si occupa di rifugiati per legge) si prevedeva
una serie di cose. siamo preoccupati per le condizioni igienico sanitari, per l’addensamento di un numero così grande
di persone, per il fatto che le istituzioni non hanno dato risposta, per il fatto che sono tutte persone che hanno già
riconosciuto il loro status di rifugiati o di protezione internazionale, (non c’erano tra gli occupanti lo stabile di Corso
Peschiera richiedenti asilo o irregolari), siamo preoccupati per la risposta che può avere la popolazione attorno e per
quello che può succedere a queste persone.
Gli obiettivi che si pone inizialmente il Coordinamento Non solo asilo sono quelli di affrontare la situazione di Corso
Peschiera e cercare di dare una sistemazione , inventare un percorso più degno e consono per queste persone.
Percorso che doveva evidentemente essere fatto di una sistemazione abitativa dignitosa e dell’aiuto nella ricerca di un
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lavoro cioè di un accompagnamento che avrebbe dovuto essere garantito loro in realtà dal sistema nazionale.
Quello che sottolineo è l’originalità dell’iniziativa che aveva radunato enti, associazioni, cooperative sociali che non
avevano mai lavorato assieme con i rifugiati. È una novità per il Piemonte, è la prima volta che si creava un gruppo così
esteso ,all’inizio una trentina di realtà, poi divisibile al suo interno in associazioni estremamente attive nel
Coordinamento Non solo asilo, altre che danno un appoggio più che altro nella scrittura dei documenti e compiono
alcune azioni inerenti con la propria mission ma non altre, e infine enti e associazioni che danno un appoggio solo
formale che non mettono cioè direttamente delle persone in questo lavoro.
Questi tre tipi di enti, associazioni, cooperative sociali creano un gruppo estremamente esteso e variopinto .
È la prima volta che si vede una cosa simile in Piemonte e questa originalità viene anche colta dalle istituzioni. Dai
racconti dei “fondatori” del Coordinamento Non solo asilo c’è l’aneddoto che quando sono stati invitati in Prefettura la
prima volta , il Prefetto li ha accolti a braccia aperte perché ha detto “ noi sono quattro mesi che proviamo a trovare
una soluzione vediamo quali sono le vostre proposte”. Poi in realtà il rapporto è sempre stato conflittuale. Il tavolo di
co-progettazione regionale che è nato a partire da quel momento a cui accennava Cristina è un’altra novità importante
dal punto di vista gestionale perché ha avuto effetti positivi. La creazione di un tavolo di co-progettazione regionale
permanete costituito da persone che rappresentano i diversi enti, associazioni e cooperative del Coordinamento che si
siedono con i diversi rappresentanti delle istituzioni locali è interessante.
A questo tavolo vengono poi invitati altri soggetti che rappresentavano enti e organizzazioni che in qualche modo
potevano essere coinvolte in questo percorso di accompagnamento dunque quello che era stato il tentativo del tavolo
rifugio del comune di Torino cioè riunioni in cui il comune si siede con le associazioni che collaborano con lui nella
gestione di richiedenti asilo e rifugiati è salito di livello arrivando a livello più alto perché ha coinvolto direttamente la
Prefettura che è l’organo di riferimento più alto, essendo l’emanazione del ministero degli interni sul territorio e ha
preso non il comune ma la regione come territorio di riferimento.
Una cosa importante che ha subito contraddistinto il livello di riflessione del Coordinamento era la consapevolezza che
in quel momento si stava sostituendo alle istituzioni nazionali e locali perché stava facendo qualche cosa che nessun
altro aveva fatto ma proprio perché ne era consapevole lo sottolineava come un problema.
Una cosa secondo me interessante di questa esperienza è che le associazioni di volontariato hanno dimostrato
immediatamente la consapevolezza che non potevano davvero mettersi al posto delle istituzioni non potevano e non
volevano. Non perché quelle poche leggi che sono in Italia danno questo compito della gestione dei rifugiati ad altri
non al terzo settore e al volontariato e non volevano perché gli enti, associazioni e cooperative sociali del
Coordinamento dicevano di volere un lavoro sistematico rispetto alla tematica rifugiati e questo non può partire solo
dal basso dalle associazioni ma deve essere concordato e coordinato da chi ha il potere e le risorse per poterlo fare
dunque altro elemento interessante è che le istituzioni da parte loro cercano di scaricare il barile.
La logica del terzo settore che sostituisce le istituzioni non riguarda solo i rifugiati ma è generico. Tutti quelli che
banalizzano il mondo del volontariato dicono che senza volontariato l’Italia avrebbe lacune peggiori. Il problema del
volontariato è però che è fatto da volontari non da professionisti. Poi magari si professionalizzano a non ci sono figure
istituzionalmente preposte a quello che dovrebbero fare e fanno di fatto i volontari.
Facciamo un piccolo passo indietro, Cristina ha già detto delle cose quindi vado più rapido.
Perché c’è questa occupazione? Perché in Corso Peschiera, non entro nel merito dell’occupazione poi se vorrete lo
faremo, perché all’inizio arrivano in 150 e poi si arriva ad un certo momento ad averne circa 400 dentro, numero che in
realtà non siamo mai riusciti a quantificare esattamente, anche provandoci.
Paradossalmente nella case occupate le istituzioni non entrano eravamo arrivati all’assurdo che se un vigile del fuoco
doveva arrivare e controllare una porta non chiamava la Prefettura ma chiamava noi del Coordinamento.
Nessuna delle istituzioni cittadine metteva piede lì dentro se non era accompagnata. A fronte del fatto che la
conflittualità è sempre rimasta molto bassa. L’occupazione di via Bologna è praticamente un’isola. La gente del bar lì di
fronte a volte non vede neanche i ragazzi dell’occupazione nel senso che non c’è stata conflittualità sociale. E così tanto
più in Corso Peschiera. Ogni tanto qualcuno (intendo le persone che vivevano vicino a Corso Peschiera) andava a
parlare magari in circoscrizione su cosa stava succedendo però non c’è mai stata la fiaccolata che so io della lega che
voleva mandare via i rifugiati.
C’è stato un tentativo iniziale della Lega ma non è finito bene per loro. Però voglio dire non eravamo in situazioni di
palese conflittualità. Non c’è neanche da dire “ho paura di entrare perché lì mi accoltellano”. Però è questa retorica del
dire non entro perché se sono istituzione e entro lì dentro poi devo notificare a tutti che è un atto illegale etc.
L’occupazione di via Bologna è nata nel novembre 2007 ed è nato in seguito al fatto che c’erano persone che vivevano
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avevano vissuto l’anno precedente in alcune fabbriche abbandonate di Settimo, ai confini di Torino. Non c’era niente.
Quindi un po’ loro sono organizzati un po’ i centri sociali hanno visto la situazione ed hanno deciso di intervenire e di
fatto hanno occupato quella palazzina. Che da novembre 2007 è tutt’oggi occupata.
La cosa da osservatori interessante è che l’occupazione di quella palazzina non ha sortito nessun tipo di risposta da
parte di nessuno non è nato un Coordinamento di associazioni per quella ma è nata invece per Corso Peschiera. Le
ragioni sono tante, Cristina prima ve ne ha data qualcuna, ma sicuramente c’è anche una ragione geografica. Via
Bologna è quasi invisibile alla popolazione di Torino. Corso Peschiera è invece uno dei posti più trafficati della città . A
via Bologna nei momenti di picchi massimi si è arrivato ad avere al massimo 100 persone, numeri abbastanza
contenuti. L’occupazione di Corso Peschiera ha raggiunto invece numeri enormi rispetto all’altra. Poi anche il fatto della
vicinanza geografica con alcune grandi associazioni che si sono accorte del fenomeno come vi ho detto è una delle
ragioni. Rimane il fatto che di via Bologna ci si è accorti e ci si accorge meno.
Vi voglio raccontare anche un’altra storia il 2 giugno 2008 arrivano 200 somali a Settimo direttamente mandati da
Lampedusa con un aereo perché a Torino in quell’estate del 2008 parte la Commissione Territoriale per la valutazione
delle storie dei richiedenti asilo, non c’era prima a Torino. Inizia a lavorare nel luglio 2008 e dichiaratamente inizia a
lavorare su 200 somali mandati da Lampedusa. Che passano davanti a tutti quelli che stavano aspettando. Prima fonte
d’incazzatura per quelli che avevano occupato e per gli altri che stavano aspettando poi questo
Quali sono gli elementi che dal punto di visto gestionale organizzativo di più interesse? Intanto questo tentativo di
questo nuovo stile di lavoro con i rifugiati. Il Coordinamento Non solo asilo con i suoi documenti parte dicendo che
cerca di riportare il lavoro sui/con i rifugiati in realtà non lo dice ma lo possiamo dire, parte dal recuperare l’esperienza
che era poi confluita nell’ICS cioè dell’esperienza bosniaca i cui capisaldi erano stati: accoglienza capillare sul territorio
fatta da piccoli gruppi nelle cittadine cercando di coinvolgere il tessuto associativo e istituzionale delle città senza
dover per forza passare dal bando dello SPRAR. Il tentativo che il Coordinamento mette sul tavolo è noi cercheremo di
coinvolgere i comuni del Piemonte non facendoli partecipare allo SPRAR ma andando direttamente a parlare coi
comuni chiedendo di prenderne in carica alcuni cercando di risollecitare le cittadinanza e le istituzioni locali anche nei
piccoli comini con il coinvolgimento già da subito di quelle organizzazioni, che poi una volta che è arriverà il rifugiato
possono costituire una rete per il rifugiato stesso.
La prossima volta lavoreremo sul capitale sociale e le reti con Storti e Sciarrone però molte di voi sanno già queste cose
e sono intuibili.
Le reti dei rifugiati è abbastanza fragile, è fatta di pochi nodi. Il fatto di riuscire sul territorio dove vengono inseriti a
stimolare una rete di persone che poi si prenderanno cura di loro e li seguiranno, accompagnando queste persone è un
elemento molto importante. Se non gli costruisci attorno qualche cosa finito il tuo intervento queste persone tornano
sole e quindi tornano a Torino nelle case occupate.
Altra cosa interessante del Coordinamento Non solo asilo è la decisione di partecipare ai bandi europei. Qui vado
veloce la novità è che visto che abbiamo capito che i soldi dello SPRAR sono pochi i 3000 posti sono quelli e se togli di
qua levi di là perché lo stato non ci mette più di tanto, allora andiamo a prendere i soldi da un’altra parte e la fonte che
ha più soldi è la comunità europea. L’Italia cronicamente non prende tutti i soldi che potrebbe prendere dalla comunità
europea in parte perché non concorriamo ai bandi in parte perché li facciamo scadere in parte perché non vogliamo
essere controllati dalla comunità europea che di fatto ti da i soldi ma ti controlla.
Il FER è il fondo europeo per rifugiati. Nel maggio del 2009 il Coordinamento Non solo asilo decide di presentare un
progetto a lo fa attraverso una cordata che unisce alcune associazioni e cooperative già dentro il coordinamento e
alcune cooperative sociali esterne con capofila la cooperativa Orso invitata espressamente dal Coordinamento a
prendersi questo onere.
Alcuni degli operatori di Cooperative e associazioni sia dentro che fuori il Coordinamento non avevano mai lavorato
prima con rifugiati e forse si sarebbe dovuta fare una formazione uniforme su questa cosa. Ma i numeri erano tali per
cui c’era bisogno di operatori perché non ci si sarebbe riusciti con i numeri che si aveva. Sono state gestite più di 200
persone nei primi due anni all’interno della logica del Coordinamento Non solo asilo.
Cristina
L’idea era va bene voi (istituzioni locali) ci dite che i fondi che avete non bastano e per questo non riuscite ad
accompagnare queste persone nelle case occupate e per di più ce ne sono altrettante in lista d’attesa, noi (come
Coordinamento non solo asilo) non proviamo solo a dire come si potrebbe fare (cercare nuovi comuni in Piemonte,
costruiamo reti sociali intorno ai rifugiati che li spostiamo proviamo ad individuare case vuote e potenziali percorsi di
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inserimento lavorativo) ma individuiamo anche i fondi per farlo al di fuori dei fondi nazionali e locali già impegnati.
Perché se il problema è che i fondi che ci sono non bastano per tutti la soluzione non è accedere a questi fondi ma
trovarne di nuovi per aumentarla possibilità di accompagnare più persone. Non ci siamo rivolti quindi solo al Fondo
Europeo ma c’è stato anche il primo anno una parte di fondi provinciali e il secondo anno una grossa parte di fondi
regionale (ora con il cambio politico che c’è stato in regione i fondi su immigrazione e integrazione sono stati azzerati).
Comunque tutte e tre istituzioni la comunità europea, la provincia e la regione che fino a quel momento non avevano
stanziato fondi specifici per aiutare percorsi di autonomia rispetto ai rifugiati. Il significato politico del Coordinamento
non solo asilo è stato proporre l’idea e individuare i fondi per gestire queste persone dimostrando che può costare
addirittura meno di quello che spende lo stato.
Abbiamo scelto di accompagnare le persone che rimano rimaste fuori dallo SPRAR o dai percorsi cittadini per
richiedenti asilo e rifugiati o che pur essendo passati da alcuni di questi percorsi non erano evidentemente ancora
autonomi.
Per cui qui inizia un percorso nel 2009 e che continua tutt’oggi. Dopo il primo progetto FER Non solo asilo, ne segue un
secondo e ora siamo alla terza annualità dei progetti FER Non solo asilo e l’anno scorso c’è stata un’ulteriore novità il
Coordinamento è riuscito attraverso sempre una cordata di associazioni e cooperative sociali ad avere dei fondi per
percorsi di autonomia per rifugiati dalla Compagnia San Paolo, coinvolgendo quindi anche una fondazione bancaria
Michele
voglio spiegarvi una cosa, è l’Italia come paese che dice all’Europa voglio partecipare ai bandi per il fondo per i rifugiati
è l’Italia che dichiara in quale sezione di questo fondo vuole partecipare. L’Italia ha dichiarato che voleva partecipare
per la sezione “vulnerabili”, etichetta di cui sopra per cui il problema di questi progetti finora in Piemonte è che si
rivolgono solo a persone per la quali è possibile dimostrare la vulnerabilità.
Quest’anno l’etichetta scelta dall’Italia è stata quella delle vittime di tortura e violenze” per cui con il Fer 3 Non solo
asilo per seguire i rifugiati che si prendono in carico bisogna dimostrare che sono stati vittime o hanno subito torture.
Non è una quindi scelta della cordata di associazioni e cooperative lavorare con i vulnerabili o con le vittime di violenza
e tortura. È una scelta obbligata che nasce dal fatto che l’Italia come paese ha chiesto i fondi per fare quello.
Altra cosa importante il fondo europeo è pensato come integrazione delle spese che uno stato prevede per quel
determinato ambito di spesa.
L’Italia invece vede questi fondi come sostituzione quindi copertura di lacune italiane e questo che sembra solo un
escamotage crea in realtà dei problemi enormi in fase di rendicontazione degli stessi perché l’Europa ti dice questi
soldi li devi aver spesi a fronte di spese che il destinatario ha fatto noi invece usiamo questi fondi a sostituzione di
quelle spese che il destinatario non avrebbe potuto fare da solo. Il problema c’è ed è grave.
Arriviamo adesso a riprendere la storia delle case occupate e arriviamo all’11 settembre 2009. Data scelta dalla
prefettura. È la data di , come lo chiamano loro, “trasferimento dalle persone” dall’ex clinica san paolo. Le persone che
escono di lì dove vanno? Circa la metà viene destinata a Via Asti che il Coordinamento rifiuterà di gestire perché dirà
che questo posto non è adatto alla gestione di queste persone e il comune le metterà lì lo stesso e darà l’appalto ad
altre organizzazioni per la gestione di quelle persone e circa la metà verrà destinata al centro di Settimo della Croce
Rossa, qui finiscono le persone che erano state riconosciute “vulnerabili”e una volta che si individuerà il comune,la
casa e il possibile percorso lavorativo fuori dal centro di Settimo verranno gestite da quella cordata di associazioni e
cooperative sociali che aveva scritto il primo FER Non solo asilo.
In realtà le gli enti, le associazioni e le cooperative sociali del Coordinamento Non solo asilo vogliono tirare le persone
di settimo fuori da questa situazione. Mentre però si individuano tutte le realtà è la Croce Rossa che le gestisce in quel
centro e che gestisce i fondi. Dopo l’11 settembre 2009 in realtà il Coordinamento prende un po’ una botta, diverso è
stato occuparsi delle persone sino a che erano dentro al casa occupata e diverso diventa farlo al centro della Croce
Rossa e per di più con questo passaggio da volontari ad operatori. Prima c’’era molto da fare e quindi si era andati a
testa bassa a fare tutto quello che bisognava fare. Dal settembre 2009 in poi le cose sono cambiate.
Il Coordinamento Non solo asilo inizia una fase di ridefinizione degli enti che ne fanno parte alcuni escono altri entrano
ed escono altri, entrano e rimangano. Una ridefinizione degli obiettivi perché a quel punto devono essere cambiati e il
punto cui è arrivato il Coordinamento Non solo asilo oggi è finire di ridefinire i propri obiettivi ma alcune decisioni le ha
prese ossia che non gestirà mai dei fondi direttamente per gestire dei casi. Il Coordinamento Non solo asilo che ancora
oggi non è
un’entità giuridica per altro, è un insieme di enti,associazioni, cooperative, ha deciso di non partecipare a tutta la prima
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accoglienza dell’emergenza Libica l’ha denunciato dicendo che non era
un modo consono di agire e se ne è tirata fuori ed ha anche deciso che non gestirà mai determinati casi specifici con
soldi propri. Quello che continuerà a fare almeno, queste sono le cose per adesso, è un lavoro di osservazione e
denuncia delle cose che non vanno, di sensibilizzazione del territorio ma anche di formazione sul territorio con serate
specifiche nelle varie città dove magari si riesce a mettere qualche rifugiato, a sensibilizzare un po’ di più la
popolazione, corsi come questo che hanno l’obiettivo di aumentare il livello di conoscenza di un fenomeno che viene
trattato poco e di ricevere poi da voi nel futuro un ritorno in termini di capacità di pensiero e capacità operativa. E
quindi posizionato su questo livello politico e di formazione.
Rispetto al sistema regionale pensate due cose: cioè che era una volontà ma non ancora pienamente realizzata e due
che è un pezzo della realtà in atto.
Abbiamo detto sino ad ora quello che c’era lo SPRAR, l’accoglienza cittadina, il pezzo in più del Coordinamento Non
solo asilo e l’attenzione alla prefettura e alla regione. Non abbiamo ancora detto che cosa non c’è ad esempio nella
regione Piemonte non c’è un CARA. Le istituzioni, la Prefettura si è mossa molto per averlo. Voleva trasformare il
centro di Settimo della Croce Rossa in un CARA:
Mentre noi continuavamo a dire che non c’erano sufficienti posti di prima accoglienza né un efficace programma di
accompagnamento all’autonomia, che i 200 posti di Torino non erano sufficienti e sino a che non ci saranno dei posti
sufficienti e dei percorsi di accompagnamento all’autonomia efficaci continueranno ad esserci le cose occupate.
La soluzione delle istituzioni invece non è guardare che cosa manca ma pensare che serve un CARA. Fortunatamente,
dico io, la Croce Rossa di Settimo non è diventato un CARA. Continua ad esserci il problema di posti aggiuntivi di una
reale prima accoglienza e di un reale accompagnamento.
Cristina
È vero non c’è un CARA ma in compenso esiste un CIE a Torino il terzo più grande per grandezza in Italia, è stato fatto
un ampliamento l’anno scorso. Anche questo viene visto come un punto d’eccellenza nazionale da parte di alcune
persone delle istituzioni locali mentre nel CIE di Torino succedono delle cose bieche su cui non ci soffermeremo oggi.
Adesso riflettiamo assieme su come l’emergenza del nord africa viene pensata nel canale dell’emergenza e quali
ricadute ha a livello locale. Avete presente i numeri di cui abbiamo parlato l’altra volta. L’emergenza nazionale
prevedeva fino a 50 mila arrivi. Guardiamo assieme il cartellone: il primo numero è quello delle effettive presenze
aggiornate ogni 2 giorni e quello vicino è quello delle stimate presenza cui si dovrebbe arrivare se realmente il numero
delle persone che arriva dalla Libia arrivasse a 50.000 in Piemonte invece delle 1.700 presenze attuali che abbiamo a
fronte dei circa 23.000 arrivi avremmo 3119 persone, guardate da soli invece i numeri di tutte le altre regioni.
Al momento le persone seguite in emergenza sono 22.261 a livello nazionale.
Si è poi decretato un allargamento di 15.000 posti dello SPRAR.
Ma questo non vuol dire che sono aumentati, sono posti che avevano fatto domanda per lo SPRAR e non erano mai
stati accolti negli anni precedenti. Potrebbe essere anche in questo caso di Comuni che non si so no mai occupati di
rifugiati Comuni che non erano mai stati inseriti ma che sono stati recuperati e vengono pagati sempre con i fondi
dell’emergenza, appena finiranno questi fondi spariranno anche questi posti che non sono quindi un reale
ampliamento dello SPRAR e quindi del
Sistema nazionale di accoglienza ma solo un temporaneo ampliamento finanziato con i fondi dell’emergenza. Se
assommiamo quindi le 22,261 persone a queste 1.500 arriviamo più o meno alla cifra di 25.000 arrivati come dicevamo
appunto l’altra volta.
Rispetto ai 1737del Piemonte vedete la divisione per provincia. Ogni regione ha la sua triade di enti
responsabili;protezione civile, prefettura del capoluogo regionale, e regione. Mentre lo stato è stato preciso a dividere
il carico di accoglienza di ogni regione rispetto agli effettivi arrivi e alla popolazione della regione la triade di enti
responsabili in ogni regione non lo è stato altrettanto nel dividere il carico al suo interno nelle diverse province. Nel
nostro caso in Piemonte se guardate le divisioni su 1700 presenze si stima che 1300 siano in provincia di Torino e 600
nella città di Torino.
C’è stato sicuramente uno squilibrio nella divisione, ci sono poi province con pochissime presenze tipo 11 persone a
Vercelli e altre provincie Novara, Verbania dove non c’è proprio nessuno.
Abbiamo detto 600 nella città di Torino, ma rispetto a queste persone il comune e l’ufficio stranieri
Non sono stati coinvolti, abbiamo quindi anche a livello locale i tre sistemi paralleli, ed è evidente che quello
dell’emergenza è al momento quello in cui transitano più persone.
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Il sistema nazionale ne accoglie 145 ed il canale di emergenza che ne accoglie 1700. chiaramente c’è una sproporzione
ed è tanto più grave visto che non solo è quello in cui transitano più persone ma è anche il più debole.
Gli enti coinvolti, anche il gruppo di monitoraggio e accoglienza concorda su questo e gli stessi fautori, la regione, la
protezione civile e un po’ meno la prefettura riconoscono i limiti di questo intervento per cui sanno benissimo che ci
sono realtà in cui sono stati coinvolti come enti gestori degli albergatori per cui quello che si riesce a dare ai richiedenti
asilo che lì finiscono è ben lontano dal sistema integrato cara grazia se vitto e alloggio e basta.
Ci sono realtà come Pratonevoso e Pracatinà a 1600 metri, chiunque capirebbe che il paese isolato, collegamenti scarsi,
sono una situazione di debolezza da evitare e non da promuovere che queste persone dovranno essere spostate da lì
molto presto e assolutamente prima dell’arrivo dell’inverno.
Che agglomerare, anche in città, 150 200 persone tutte insieme che pesano su una singola circoscrizione o quartiere
gestiti da associazioni e cooperative che non hanno esperienze né sanno l’iter della domanda d’asilo, che non riescono
a capire l’importanza di collegare i richiedenti asilo al sistema sanitario nazionale e non di garantirgli internamente un
riferimento sanitario per le emergenze non ha molto senso ed è abbastanza grave.
Ci sono enti gestori che dicono “se ti comporterai bene con me scriverò una bella lettera alla Commissione Territoriale
che ne terrà conto e questo ti aiuterà nell’avere un esito positivo”cosa assolutamente non vera ed è molto grave che
invece lo si dica.
Ci sono anche cose gestite bene all’interno di questi 1700 ci sono anche delle eccellenze,persone che non se ne sono
mai occupati e sono riusciti a fare cose ottime. Diciamo che non ci dovrebbe essere questo grado di casualità ma
qualcuno che governa questo fenomeno.
Qualcuno che sancisce e punisce chi non è in grado. Non so se mai arriveremo ad avere un reale ed effettivo sistema di
monitoraggio per chi non rispetta le regole e per questo è solo sulla carta il fatto che ognuno di questi enti gestori
abbia firmato una convenzione per fare cose specifiche può corrispondere alle realtà ma anche no e se non
corrisponde non ne viene fuori una sanzione o un’uscita dal sistema. Dunque diventa una questione di buona volontà.
Non può essere che si paghi la stessa cifra a enti che si limitano a dare da dormire e da mangiare e ad enti che invece
creano un a reale accoglienza e un reale percorso di inserimenti.
Voglio anche darvi un aggiornamento rispetto alle case occupate così che si completi la storia che abbiamo iniziato a
raccontarvi una volta che i fondi che erano stati stanziati per Via Asti sono finiti anche se non si erano trovate
situazioni occupazioni lavorati e professionali per il trasferimento di tutte le persone che c’erano all’interno si è
decretato che la struttura doveva essere chiusa.
In questo si siamo stati un’eccellenza, non si è mai vista una casa occupata favorita dalle istituzioni.
Il giorno che si doveva chiudere erano presenti le persone della Digos, della Polizia, della Prefettura del Comune e per
convincere i 19 irriducibili che continuavano a dire che non volevano uscire li si
è portati con un autobus della GTT verso una nuova casa da occupare corso Chieri.
Durante l’estate le persone che stanno nelle case occupate cercano lavori precari al sud, raccolta di frutta e verdura,
mentre in ottobre novembre le persone ritornano a viverci, le case occupate hanno quindi flussi di crescita e decrescita
nell’arco dell’anno.
Questo per dirci che quando diciamo che dentro ci sono circa 407 50 persone non è un dato immutabile è vero oggi ma
la prossima settimana potrebbe non essere più vero.
Al momento a Torino abbiamo tre occupazioni: via Bologna stabile dal 2007 con 50-60 persone che cresceranno
durante l’inverno. Casa Bianca che è un residuo di Corso Peschiera,(residuo della clinica, vicino c’era una palazzina di
appartamenti di medici ed infermiere della clinica e ci sono dentro circa 40/50 persone e poi quest’occupazione
avvenuta sotto lo sguardo delle istituzioni quella cioè di Corso Chieri che è nata dall’occupazione di 20 persone somale
ma non so dire come si sia evoluta e quante siano effettivamente lì al momento.
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Lavori di gruppo | quinto incontro
Nella seconda parte della lezione, la classe è stata divisa in tre gruppi con le medesime regole di ogni incontro, ossia
eterogeneità (operatori e studenti) ed estraneità (persone che non hanno ancora lavorato insieme) dei partecipanti.
Ogni gruppo, con alcuni spunti su cui interrogarsi a disposizione, aveva il compito di discutere in merito a due questioni
aperte:
1. la relazione tra operatori sociali e volontari nel lavoro con i richiedenti asilo;
2. il rapporto tra assistenzialismo e percorsi di autonomia attivati;
1° Gruppo
La discussione è nata subito e si è concentrata sull’ambivalenza delle due coppie concettuali.
Prima di tutto, i partecipanti hanno ragionato su cosa si intenda per autonomia.
Ci si riferisce al termine nel senso di associazioni spontanee di persone che si occupano della questione o nel senso di
grado di autonomia conquistata del rifugiato?
La conclusione è stata prendere in considerazione la seconda opzione, ossia l’autonomia del richiedente asilo, come
tappa ideale di un lavoro svolto dalle associazioni.
In questa visione, l’assistenza dovrebbe condurre all’autonomia. Se ci si focalizza solo sulla prima accoglienza, si finisce
per essere vittima del “fratello cattivo”, l’assistenzialismo.
Secondo passo del ragionamento è stato chiedersi cosa influisca nel percorso tra assistenza ed autonomia,
considerando quest’ultima come la tappa finale ideale.
A questo merito, viene stesa una lista di 6 fattori.
ASSISTENZA “sana” (prima accoglienza e non solo) /
ASSISTENZIALISMO
AUTONOMIA (tappa finale ideale)
1. Rete (tra associazioni, tra rifugiati stessi…)
2. Competenze (giuridiche ecc…)
3. Progettualità
4. Contatti costanti tra i “nodi delle reti”
5. Tempistiche (es. stanziamenti di fondi, scadenze)
6. Ambiente (isolamento…)
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Per la seconda coppia, si tratta di due figure differenti con diverse caratteristiche.
sinergia
OPERATORI
comunicazione
VOLONTARI
Rischio:
assistenzialismo
1. Reti
2. Competenza
3. Tempi, denaro…
4. Progetti
- Presenza costante
- Presenza saltuaria
- Regole precise
- Possibilità di spaziare
- Competenze specializzate
- Competenza a metà
(problema o complemento all’azione dell’operatore?)
Complementarietà ruolo?
Rischio: risposte diverse date dalle due figure (es. Pocket money che non arriva: volontario si espone e nel
tentativo di tranquillizzare il richiedente fa promesse che non potranno essere mantenute. Al contrario,
l’operatore ha a disposizione risposte più certe e non si espone.)
2° Gruppo
La portavoce del gruppo ammette che è stato difficile scrivere, la discussione è stata lunga e articolata.
OPERATORE
VOLONTARIO
1. Continuità (auspicabile) per favorire percorso di 1. Più assistenzialismo
autonomia invece che assistenza
(es. accompagnamenti socio/sanitari, distribuzione vestiti,
cibo)
2. Visione quantitativa più vincolata ad un ruolo ed alle 2. Visione qualitativa
risorse economiche del progetto (tempo e scadenze)
(meno vincoli, possibilità di tessere relazioni più amicali con
una determinata persona, più implicazioni affettive)
3. Accompagnamento verso autonomia (vincolato al suo 3. Educazione (es. corsi di italiano)
ruolo)
4. Sguardo alla rete
4. Atto gratuito, tempo limitato, variabile
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3° Gruppo
Il terzo gruppo si è dilungato nella discussione delle due questioni, trovando molto difficile mettere per iscritto un
discorso così articolato.
1.
OPERATORE
1. Tempo libero
Retribuzione
VOLONTARIO
Il tirocinio: dove si colloca?
2. Competenza assodata
2. Servizio per gli altri (può la spinta egoistica di
appagamento della domanda interiore diventare
competenza?)
Differenza: v. in organizzazione strutturataistituzionalizzata o in organizzazione su base volontaria.
3. Gestione professionale della relazione educativa
3. Identificazione con la mission dell’associazione
↓
Rischio di intrusione nella vicenda personale dell’utente.
operatore Volontario
SCAMBIO ESPERIENZA
4. 40/48 ore
Quando l’operatore lavora oltre l’orario di lavoro,
diventa volontario?
4. 3/6 ore
ASSISTENZIALISMO
AUTONOMIA
1. Accudisce
2. Assenza progetto
1. Accompagna
2. a) Servirebbe più tempo
b) Lavoro di rete (operatori/volontari)
3. Volontari non formati
???
3. Volontari formati e operatori
???
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SCHEDA CONSEGNATA AI GRUPPI PER STIMOLARE LA RIFLESSIONE
Qui sotto troverete due schede che hanno l'obiettivo di presentare, brevemente, alcuni elementi di discussione che
stanno caratterizzando oggi il confronto tra operatori in Piemonte. Abbiamo scelto due coppie concettuali:
−
−
lavoro degli operatori sociali / lavoro dei volontari;
assistenzialismo / autonomia.
Per ciascuna coppia vi chiediamo di riflettere sul rapporto che si instaura tra i due elementi che la compongono. Essi
potrebbero rinforzarsi l'un l'altro, o avere un rapporto di mutua esclusività, o ancora viaggiare separati e in parallelo,
oppure addirittura essere in conflitto.
Interrogatevi su questi possibili rapporti, portate degli esempi, e cercate di capire quali sono le filosofie di fondo, le
“buone ragioni”, che caratterizzano servizi erogati da operatori sociali o da volontari, per l'assistenzialismo o per
l'autonomia.
Assistenzialismo / autonomia
Ecco alcuni temi che potete usare come spunti di riflessione, se volete:
i vincoli nella gestione delle
l'ambiente territoriale e sociale nel
risorse economiche
quale il destinatario si muove o è
messo dal progetto
gli obiettivi progettuali
la rete sociale che il
rifugiato, o il destinatario,
il fattore tempo
riescono a costituire
la presenza o l'assenza di
le inclinazioni e le caratteristiche
un progetto
personali del destinatario
il livello e la qualità
dei servizi ricevuti
lavoro degli operatori sociali / lavoro dei volontari
Ecco alcuni temi che potete usare come spunti di riflessione, se volete:
 La presa in carico del destinatario:
− fornisco un servizio, indipendentemente dall'utente;
− devo sapere un po' di più della storia personale del destinatario;
− è indispensabile conoscere la vicenda personale del destinatario per poter offrire un servizio
migliore.
 Cosa fa l'operatore / volontario? Accudisce, oppure educa, oppure accompagna?
LA RELAZIONE EDUCATIVA
SPICCIOLA,
SULLA QUOTIDIANITÀ
ASSIMILAZIONE
VALORIALE
PLURALISMO
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Sesto Incontro
8 novembre 2011
Titolo
Il ruolo delle reti e del capitale sociale
Relatori
Rocco Sciarrone, Professore Associato, Università di Torino
Luca Storti, Ricercatore, Università di Torino
Lavori di gruppo
L’intera classe si divide in tre gruppi facendo attenzione che ognuno dei gruppi presenti al proprio interno un
operatore e un sociologo.
Ogni gruppo immagina una persona in fuga dal proprio paese, delineando una breve storia pregressa. A questo punto
si ipotizzano le tappe (quattro o cinque) che porteranno il migrante a fuggire dal proprio paese fino ad arrivare in
Italia. Per ognuna di queste tappe il gruppo dovrà immaginare la rete che il migrante ha e che sfrutta durante il suo
percorso. Ne dovrà così descrivere le caratteristiche (densità o meno della rete, la sua estensione e il suo aspetto
diversificato o omogeneo).
Durante questo lavoro è importante tener conto della MORFOLOGIA della rete nonché gli elementi del contesto che
ostacolano o favoriscono il percorso del migrante.
Gruppo 1
Quattro le tappe immaginate
1. Fuga dal paese d’origine : presenza di una rete parentale/ amicale che si presenta allargata (nazionale
/transnazionale), con legami forti e nodi omogeni;
2. Viaggio(considerando la Libia come tappa intermedia): in questo frangente il migrante ha conoscenze in
prevalenza occasionali pur permanendo la rete familiare. Qui abbiamo una prevalenza di legami deboli, nodi più
eterogeni per provenienza, ma omogeni per finalità;
3. Prima Accoglienza: in questa tappa il migrante ha maturato dei contatti durante il suo viaggio a cui si aggiungono
dei contatti con le istituzioni, la rete si presenta a questo punto con legami deboli, a “ maglie larghe” e ristretta.
4. Inserimento (Cara), il migrante a questo punto affianca alla rete creata con le istituzioni nuove reti amicali con nodi
sempre più eterogenei, legami rafforzati e “a maglie larghe”.
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Gruppo 2
Il protagonista si chiama Ashour 25 anni dalla Somalia.
Le tappe considerate sono tre
A. Somalia
1. rete della famiglia (denaro, risorse, motivazioni),
2. rete coorte, composta da amici e parenti ;
3. contatti nazionali, contatti transnazionali.
B. Viaggio
1. deserto: compagni di viaggio
2. Libia, istituzioni intese come fattori ostacolanti
C. Accoglienza
1. rete composta da connazionali e istituzioni.
Fattori esterni inaspettati (positivi): Associazioni, istituzioni, privati cittadini.
Gruppo 3
Il protagonista si chiama John, attivista politico iraniano.
Vengono ipotizzate cinque tappe:
1. Contesto d’origine: la rete si presenta ampia, densa, diversificata con legami sia deboli che forti. Non si registrano
buchi strutturali. Fanno parte della rete del migrante: la famiglia, i parenti, gli amici i compagni di scuola, il
movimento, i colleghi di lavoro e infine il governo iraniano (elemento ostacolante).
2. Partenza: la rete presenta le stesse caratteristiche della tappa precedente, è però più stirata nello spazio è più
diversificata. Si aggiungono due nodi: contatti per il viaggio e associazione per la tutela dei diritti umani presente in
Italia.
3. Viaggio(tappa intermedia la Grecia): la rete si presenta meno densa, più ampia, più stirata nello spazio con buchi
strutturali e con legami deboli;
4. Arrivo: la rete è composta a questo punto da legami deboli, si presenta meno ampia, meno densa, più stirata nello
spazio e con il protagonista al centro. In aggiunta ai nodi già visti precedentemente si deve aggiungere la presenza
delle istituzioni italiane;
5. Permanenza: l’ultima tappa è composta da legami forti, risulta meno ampia, meno densa ma molto più estesa.
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Considerazioni generali conclusive
Per ogni caso presentato viene evidenziato che:
-
non si fa cenno alla rete dei trafficanti che incide sulla vita dei migranti;
-
non vengono menzioniate eventuali interruzioni del percorso date per esempio dall’assenza di denaro oppure
dall’intervento della polizia (arresto);
-
le istituzioni vengono sempre presentate sotto una luce negativa, purtroppo però, soprattutto nei sistemi di
accoglienza le logiche istituzionali vanno a scontrarsi con quelle relazionali. In questo modo può avvenire che
l’iniziativa del singolo migrante venga stroncata sul nascere.
Valutazione degli esperti del lavoro dei singoli gruppi:
Gruppo 1: la presentazione in questo caso è molto ordinata, i passaggi sono quasi completamente logici e privi di
imprevisti tanto da risultare eccessivamente stilizzati;
Gruppo 2: caotico, nonostante ciò il lavoro presenta una processualità. La rete, in quanto concetto olistico è difficile
da oggettivare;
Gruppo 3: sintesi del lavoro dei due gruppi precedenti. Questo gruppo però è quello che più sfrutta “l’analisi di rete”
andando ad analizzare come la rete si trasforma.
Per tutti e tre i gruppi viene avvisato un difetto di forma. Si cade in tutti i casi nella trappola dell’evoluzionismo.
L’ampiezza della rete in realtà man mano che le tappe si susseguono diventa meno ampia. Aumentano però i legami
deboli e la rete si allarga (distende).
Bibliografia | Sesto incontro
Decimo Francesca
2005
Quando emigrano le donne. Percorsi e reti femminili della mobilità transnazionale, Bologna, Il Mulino
De Leonardis Ota
2001
Le istituzioni. Come e perché parlarne, Roma, Carocci.
Fabietti Ugo, a cura di
2005
Rifugiati, Antropologia annuario No.5, Roma, Meltemi editore.
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Hannerz Ulf
1992
Esplorare la città. Antropologia della vita urbana, Bologna, Il Mulino.
Piselli Fortunata, a cura di
2001
Reti. L’analisi di network nelle scienze sociali, Roma, Donzelli Editore.
Settimo Incontro
5 ottobre 2011
Titolo
Welfare, tra tutela e violenza: famiglie; residenza negata e conseguenze;
ricongiungimenti e rimesse; costruzione della “storia giusta”; il genere
Relatori
Michele Manocchi, MOSAICO – Azioni per i Rifugiati
Lucrezia Riccardi, Cooperativa ORSO, Torino
Michele Manocchi
Oggi la puntata è dedicata al welfare, ambito piuttosto nebuloso. L’idea è quella di darvi una panoramica generale e
molto sintetica di che cos’è il welfare e poi, grazie all’aiuto di Lucrezia Riccardi, che oggi è qui come operatore sociale
della Cooperativa Orso, che è la cooperativa capofila dei progetti FER sui rifugiati, affronteremo nel concreto che cosa
succede ai rifugiati e nello specifico quel è il ruolo che il terzo settore, genericamente inteso, assume o può assumere
nei confronti del lavoro verso i rifugiati. Quindi parleremo un po’ di stereotipi che vengono fuori e di cui gli stessi
rifugiati sono portatori e che magari si aspettano delle cose specifiche, parleremo di quello che poi in realtà incontrano
e parleremo di come poi il terzo settore si inserisce tra incudine e martello, cioè tra quelli che dovrebbero essere
utenti, cioè persone che sono portatrici di diritti cioè i rifugiati, e quello che dovrebbe essere l’erogatore di servizi che
rispondono a questi diritti, cioè lo Stato.
Allora innanzitutto diciamo che cos’è il welfare. Il welfare state è un qualche cosa che riguarda il prendersi cura dei
cittadini e che nasce contestualmente con il grande capitalismo, la grande industria, i grandi sistemi industriali. Perché
nasce? Nasce perché a fronte del fatto che i lavoratori lavorano e quindi appunto sono impiegati nella grande industria,
diventano però anche richiedenti di servizi che lo Stato si trova a dover erogare, ma per i quali non è detto ci siano
adeguati i fondi. Quindi inizia un sistema a metà-fine ‘800 che piano piano si evolve, dove lo Stato decide di occuparsi
dei cittadini in alcuni ambiti, fino ad entrare in completa crisi da un ventennio circa ed essere oggi in una fase di
profonda ridefinizione. Le principali aree di intervento sono le seguenti:
- Ambito previdenziale il più grosso settore di spesa degli stati occidentali oggi, cioè le pensioni. Chi lavora sul
sistema pensionistico italiano analizzando le azioni che sono state fatte negli ultimi 20 anni sul sistema italiano
porta come esempio il fatto che circa metà dei provvedimenti vanno in una direzione e l’altra metà va in direzione
opposta, per cui il sistema pensionistico italiano non è ancora riformato sia perché non ci sono interventi
strutturali, ma solo cose spot semielettorali, sia perché le cose che sono state fatte vanno in direzione opposta e
quindi alla fine il carro sta fermo.
- Il settore della sanità. La sanità è un altro settore importantissimo dove lo stato spende un sacco di soldi e ad
esempio la creazione del Sistema Sanitario Nazionale, quello che adesso noi diamo per scontato ma che in realtà
in Italia non è così antico, è il frutto di decisioni prese in questo campo, cioè lo Stato decide che dà l’assistenza
pubblica ai cittadini e quindi deve mettere in piedi un sistema per rispondere a queste esigenze qua e questo
sistema costa molti soldi, per cui ci vuole la capacità di mandarlo avanti.
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I servizi sociali, quindi l’assistenza alle persone che sono in difficoltà. I vari Paesi definiscono le persone che sono in
difficoltà in maniera differente, cioè ad esempio per gli inglesi le persone in difficoltà sono quelle proprio allo
stremo, le più in difficoltà di tutte che non hanno proprio più nulla e che quindi devono essere aiutate in qualche
modo perché se no di fatto rischiano seriamente. Per i Paesi scandinavi invece c’è un aiuto che viene dato in
maniera uguale a tutti, cioè tutti i cittadini scandinavi indipendentemente che siano notai o operai partono da un
livello minimo perché l’assistenza da parte dello Stato è sancita come diritto per i cittadini e in quanto tale viene
garantito da un livello minimo. Ci sono anche sperimentazioni di salari minimi, anche in Italia e Spagna, perché si
sta cercando di capire quale sia un modello sostenibile o meno. Però il fatto di definire una persona come
bisognosa d’aiuto cambia fortemente da Paese a Paese e da modello a modello.
Comunque tutto quello che riguarda il sostegno ai cittadini che possono essere in qualche modo in situazione di
bisogno e quindi, se il cittadino non lavora più ha bisogno della pensione, se il cittadino sta male ha bisogno della
sanità e via dicendo.
Le slide iniziano con il diamante del welfare perché sono questi quattro i soggetti che sono erogatori di welfare, vuol
dire erogatori di servizi che si collocano in ognuno dei settori che abbiamo visto finora e quindi c’è lo Stato, per
definizione. Il mercato, perché alcuni servizi possono essere approcciati anche nel settore privato, per esempio negli
Usa Obama è andato su dicendo “farò un’assistenza sanitaria minima per una grande quantità di persone, allargherò
l’assistenza sanitaria minima” perché in realtà il sistema sanitario statunitense è basato molto sul mercato, quindi se
non si ha un’assicurazione sanitaria è meglio non stare male. Quindi questo è un welfare demandato al mercato. Poi c’è
la famiglia perché è uno dei soggetti, che noi qua in Italia viviamo in maniera forte e preoccupante, che in maniera
forte eroga servizi di welfare. Voi adesso siete giovani però se doveste mai avere dei figli e doveste mai avere bisogno
di lasciarli da qualche parte e non avete delle nonne dovete pagare la babysitter perché altrimenti non ci sono dei
servizi pubblici dove lasciare il vostro bambino/a, vi dovete organizzare in altro modo, quindi o ci pensa la famiglia, o ci
pensa la babysitter, o ci pensate voi, quindi la famiglia è un ammortizzatore sociale molto importante in Italia perché
molto viene demandato alla famiglia. E poi ci sono le associazioni intermedie cioè tutto quello che vi viene in mente:
associazioni del terzo settore, volontariato, la Chiesa, quindi tutte quelle realtà che sopperiscono a certe mancanze e
quindi diventano erogatrici di welfare. Ora la letteratura identifica quattro modelli o tre più uno, però diciamo che ci
sono tre modelli e poi il modello mediterraneo che è una variante di questi tre modelli. I tre modelli sono il liberale, il
corporativo conservatore e il social-democratico:
- il liberale è il modello anglosassone per definizione. Quindi spinge molto verso il mercato, i destinatari sono solo i
fortemente bisognosi e i lavoratori a basso reddito, le regole di accesso sono restrittive e c’è un forte controllo
delle caratteristiche della persona che chiede l’aiuto e quindi c’è una verifica da parte dello Stato o dell’erogatore
di servizio sulla reale condizione della persona, se è veramente un avente diritto oppure no e poi predominanza di
interventi assistenziali basati sulla prova dei mezzi, trasferimenti e schemi assicurativi modesti. Quindi un sistema
che lascia molto al mercato.
- il corporativo conservatore è il sistema tedesco, per dare delle etichette. Ha la grande prerogativa di essere basato
sui lavoratori dipendenti, cioè si basa sul fatto che l’economia galoppava alla grande, visto che la Germania è la
locomotiva dell’Europa e quasi tutti avevano lavori a tempo indeterminato, per lo più pubblici e quindi si andava
forte da questo punto di vista. Questo ha comportato che il welfare pensato dai tedeschi si sia creato, si sia
connotato soprattutto su questi tipi di persone. Quindi quali sono le cose che servono di più a questo tipo di
persone? E quindi una serie di aiuti ai lavoratori a tempo indeterminato. Il problema è che un welfare così pensato
diventa problematico per lavoratori che non hanno quel tipo di garanzie, che non sono in regime di tempo
indeterminato, che vanno verso una flessibilità crescente come sta accadendo oggi e che non trovano nel welfare
delle risposte che siano in grado di sopperire a quelle mancanze che erano impensabili quando il welfare è stato
creato. Male breadwinners: oltre al fatto di essere lavoratori dipendenti maschi, quindi un welfare dove le donne
stanno a casa e fanno tutta una parte di cura. E poi c’è l’enfasi sulla sussidiarietà degli interventi pubblici, cioè i
principi di sussidiarietà prevedono una serie di enti intermedi allo Stato che siano in grado di intercettare bene i
bisogni delle singole persone, quindi è che io Stato appoggio le azioni di enti che sono estremamente vicine ai
bisogni della singola persona. Quindi io faccio tutto quello di cui c’è bisogno al mio livello, aiuto, do una mano e
intanto cerco di fare in modo che siano le associazioni più vicine possibili alle persone ad occuparsi di alcuni temi
perché lo fanno sicuramente meglio di come posso farlo io dall’alto. Il principio di sussidiarietà, soprattutto in
Italia, scade nel principio di sostituzione, cioè lo Stato non fa tutta una serie di cose e quindi le associazioni si
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trovano a doverle fare al posto dello Stato, non sostenute dallo Stato. Se togli l’oratorio, la Chiesa, l’associazione di
volontariato lì non c’è più l’italiano per stranieri, la domiciliazione sanitaria;
- il sistema social-democratico invece è quello scandinavo. La caratteristica principale è che è un sistema generalista
e universalista.
C’è una grande questione che è all’attenzione di coloro che dibattono sui sistemi di welfare: è migliore un sistema che
è universalista e che offre una serie di servizi minimi a tutti indipendentemente dal reddito, dalla condizione
economica e sociale della persona che è il sistema social-democratico scandinavo, oppure andiamo verso un sistema
selettivo che risponde solo a specifici problemi e che quindi aiuta solo coloro che ne hanno veramente bisogno?
Questo discorso che parrebbe banale, cioè in un sistema di crisi dai solo a che ha veramente bisogno, in realtà non è
così banale perché dare solo a chi ha veramente bisogno comporta dei costi elevatissimi per l’apparato di controllo
della situazione. Quindi non è così scontato scegliere, infatti l’Europa non ha ancora scelto, tra un sistema generalista e
universalista e un sistema invece selettivo, perché entrambi hanno differenti problemi.
A questi tre modelli di riferimento si aggiunge il modello sud-europeo dell’Italia, Spagna, Portogallo e Grecia. Da una
parte ci avviciniamo molto al modello tedesco, soprattutto perché abbiamo un’assistenza sanitaria a pioggia su tutti e
anche perché in realtà il nostro modello continua ad essere pensato per lavoratori a tempo indeterminato e punta
molto sulla famiglia. Però in più ha un’idea di contrapposizione tra pubblico e privato che altri paesi hanno già superato
da tempo con altri sistemi di controllo, ha una rilevanza fondamentale dell’economia sommersa (es. badanti), la
famiglia come ammortizzatore sociale e economico (es. garanzia del mutuo dei genitori), effetti di stratificazione dei
servizi, cioè alcuni sono ipertutelati e alcuni sono esclusi.
Le slide che seguono indicano una serie di problemi che il welfare si è trovato ad affrontare. Il welfare è radicato alle
condizioni storiche, economiche e sociali dei paesi in cui è nato. I sistemi di welfare però non si stanno modificando
rapidamente per come invece si sta modificando la realtà che dovrebbero aiutare a gestire, cioè mercato del lavoro
cambia, le donne aumentano la loro presenza al lavoro quindi diminuisce la loro presenza a casa nei lavori di cura e
quindi aumenta la domanda di cura dei figli, degli anziani, della casa, la flessibilità sul lavoro costituisce una fascia
importante in Italia, stagnazione economia, l’industrializzazione e economia post- industriale, aspettativa di vita degli
anziani, il peso degli anziani nella società… Vi ha riportato un solo grafico che spiega molto bene: quella roba che si
impenna è la previsione nel 2050 del tasso di dipendenza degli anziani in Italia, non solo si alza come negli altri paesi,
ma triplica.
La situazione attuale è che l’Europa è in un profondo ripensamento del welfare state e non si sa da che parte andare, si
è in crisi totale.
Lascio la parola a Lucrezia che cercherà di riportare le cose che io ho detto nella realtà che invece loro si trovano ad
affrontare quotidianamente che è quella dell’aiuto agli immigrati, quindi come si inseriscono i rifugiati in questo
welfare.
Lucrezia Riccardi
Mi presento mi chiamo Lucrezia Riccardi, lavoro in una cooperativa sociale che si chiama Cooperativa Orso da circa 13
anni, mi sono sempre occupata di politiche attive del lavoro, sono laureata in Lettere in una tesi sulla storia del teatro e
fare formazione in fondo è un po’ come fare teatro.
La nostra cooperativa da qualche anno ormai si occupa di stranieri, inizialmente se ne è occupata sul territorio di
Cuneo e dal 2009 ha intrapreso questa avventura con i rifugiati e in particolare affrontando quello che è il FER cioè il
Fondo Europeo per i Rifugiati, progettando in quella direzione con una serie di partner importanti all’interno della città
di Torino. Io sono dentro questa realtà più specifica a partire dal 2009 e quindi dagli eventi di Corso Peschiera. Alcune
persone che noi abbiamo incontrato in quei giorni sono ancora oggi con noi, nel senso che ci sono alcuni rifugiati che
ancora noi seguiamo dopo tre anni e dopo tre FER perché noi abbiamo partecipato ai tre bandi del FER. Questo per
dirvi che quindi io ho una visione abbastanza parziale delle cose, una visione legata ad un settore molto specifico che è
quello di Torino, io mi occupo in parte di attività più concrete legate alle persone in parte di attività più legate a pezzi di
coordinamento, e quindi mi scuserete se questa parzialità non contempla proprio tutto.
Oggi il tema è il welfare. Per poter preparare questo incontro mi sembra interessante prima dare dei piccoli spunti
relativi al contesto in cui viviamo. L’ipotesi che facciamo è quella che un settore come il privato sociale sta lì proprio in
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quel pezzo tra l’utente e il welfare stesso. Per poter capire come si compiono quelle azioni facciamo questo excursus
minimo, cioè diciamo che oggi viviamo in una transizione epocale e questo un po’ ci deve guidare. Voi sapete che oggi
noi viviamo in una società planetaria in cui c’è la precarietà del lavoro, il declino delle capacità regolative degli stati
nazionali, i flussi migratori che non si immaginavano qualche tempo fa. Tutte queste cose non possono fare a meno di
influenzare le nostre azioni quotidiane. È ingenuo pensare che quello che accade globalmente, anche se è molto
lontano, non ricada su ognuno di noi anche come singoli. Uno dei principali cambiamenti riguarda il processo di
indebolimento delle istituzioni o de-istituzionalizzazione, che a sua volta ha due tendenze: una è quella della
razionalità e l’altra è quello dell’individuo singolare. Con razionalità andiamo incontro alla sostituzione del sacro, cioè al
posto di Dio e del finalismo storico-religioso si pone l’attività razionale che è l’affermazione di un individuo che fonda
nella ragione il suo senso e quindi individualizzazione significa che queste persone che hanno nella razionalità il loro
riferimento sono sempre più libere di scrivere le proprie scelte nell’ambito dei propri desideri e di mettersi quindi sul
libero mercato per proporre insieme agli altri la realizzazione di quelli. Un macrosistema dove le istituzioni non
riescono più, essendo indebolite, a dare degli orientamenti né agli individui e neanche a una nuova razionalità. Allora
in questo indebolimento generale il primo elemento che si vede è quello dell’indebolimento dei legami sociali, infatti
negli ultimi anni parliamo di legami deboli. Le conseguenze di questo indebolimento sono l’incertezza, la competizione
e il risentimento. Generalmente le persone e gli enti vivono una realtà in cui da una situazione di incertezza arrivano
alla competizione, poi alla frustrazione e poi al risentimento. Come la carriera lavorativa. L’illusione è creata dall’idea
che noi abbiamo dell’andamento delle cose cioè della linearità e quindi noi pensiamo il progresso come un elemento
che ha una sua crescita e una suo apice e che non tiene conto spesso di quelle che sono le discontinuità che sono
strutturali all’esistenza. Il welfare si inserisce esattamente in queste dinamiche generali, globali è dà l’illusione di essere
un sistema compensativo di tutte queste storture.
Il welfare dovrebbe essere garante dei diritti democratici e del controllo sociale, è un welfare che non è dalla culla alla
tomba richiama al bisogno, cioè ci sono alcuni bisogni che possono essere soddisfatti. I bisogni di cui oggi dobbiamo
parlare sono quelli dei rifugiati. Se abbiamo detto che i legami sociali non esistono più come un tempo, ma sono
diventati legami deboli e se diciamo che il welfare dovrebbe aiutare i legami deboli attivando reti, mettendo in
connessione associazioni, enti… Come mai quando arriva un rifugiato abbiamo da accoglierlo solo in uno SPRAR o in un
CARA, perché ci mette un anno e mezzo, due anni per ottenere il permesso di soggiorno, perché bisogna aiutare a
ricostruire le storie? La nostra ipotesi è che tutto questo succede perché il sistema sociale non è in grado di sostenere
in alcun modo il welfare così come viene descritto. Quando il rifugiato arriva ha tutta una serie di aspettative e di
rappresentazioni sociali che vengono sciolte nel momento in cui capisce che il welfare è un contenitore di persone in
attesa mentre la vita scorre. C’è un’incapacità di gestione e un’indolenza relativa al cambiamento che è connaturata sia
ad una situazione generale sia ad una situazione particolare che è quella politica ed economica che non permette che il
welfare lavori sui bisogni ma sposta l’attenzione su target economici, o come in Italia a target elettorali. Tuttavia i
rifugiati arrivano e talvolta trovano anche sistemazione. Quindi il privato sociale in questo tipo di panorama sta lì in
mezzo. Nel momento in qui noi siamo entrati in questo settore ci siamo chiesti come in una situazione del genere
avremmo potuto smuovere qualche cosa, come avremmo potuto fare per riuscire ad avvicinare ad una realtà più
dignitosa le persone, quali strumenti potevamo usare? Certo ci sono le politiche attive del lavoro, le leggi che
riguardano i contratti, c’è l’assistenza sociale… Queste cose non sono fruibili per un rifugiato perché arriva con un
bagaglio così pesante che è difficile che si muova agilmente tra le istituzioni e quindi ha bisogno inizialmente di un
accompagnamento, tuttavia anche l’accompagnamento non è sufficiente. La vera azione che può compiere il privato
sociale è quella di riuscire ad entrare veramente dentro al principio di sussidiarietà che è un principio con una base
dialogica, il privato sociale entra in relazione con il pubblico perché il pubblico glielo chiede e gli dice lavoriamo
insieme perché abbiamo obbiettivi comuni. Questo principio di sussidiarietà che è quello che fa vivere il privato
sociale, tuttavia ci mette allo stesso tempo in uno scacco incredibile perché non riusciamo realmente ad avere delle
visioni comuni, cioè la visione politica comune non c’è, ma neanche degli obbiettivi. Per cui i bandi che vengono fatti ai
quali si partecipa sono bandi in cui c’è un macro obbiettivo del comune di riferimento e la richiesta di risolvere sulla
base dell’obbiettivo che loro ci danno, tipo collocare 100 rifugiati, la richiesta di fare delle acrobazie che stanno fuori
dalle istituzioni che non hanno la possibilità di reggere, tuttavia noi stiamo dentro alle istituzioni, perché noi possiamo
considerarci un pezzo di welfare, non un’altra cosa. Le istituzioni rimangono in un assetto più strutturato, più rigido…
Quindi abbiamo parlato di una transizione epocale, un indebolimento delle istituzioni, una società più fondata sulla
razionalità e sull’individualizzazione, un legame sociale che diventa debole, un welfare che dovrebbe sostenere quel
legame debole ma incapace di farlo, la sussidiarietà come elemento che aiuta questo processo di integrazione e che si
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rivolge a terzi per colmare quelle che sono le difficoltà del welfare. Quindi qual è il compito che io ho in quanto privato
sociale? Io posso avere due comportamenti: un modo collusivo di stare oppure un modo trasgressivo. Allora se io ho
un modo collusivo io sto dentro le pieghe delle istituzioni e attraverso il mio atteggiamento insegno anche a loro a
stare dentro quelle pieghe lì e quindi quello che possiamo definire truffaldino, manipolatorio (es. cantieri di lavoro
vedevano l’alternarsi di moglie e marito e quindi era un sussidio a vita). Sopravvivi ma devi accettare di vivere nella
marginalità o di vivere nel silenzio. Oppure il modo della trasgressione. Qui faccio riferimento ad Eugène Enriquez,
socio-psicologo francese, che sostiene che è importante in questo mondo oggi riuscire a trasgredire, cioè stare fuori
dalle regole, non nel senso collusivo, ma nel riuscire a dare una nuova dimensione alle regole stesse cioè per riuscire a
dare spazio al cambiamento. Se io riesco a trasgredire all’interno del welfare probabilmente riesco ad aprire degli
spazi. Concretamente io ho la sanità, la scuola, la casa, la previdenza, le politiche attive del lavoro e per poter riuscire
ad ottenere qualcosa che abbia una valenza un po’ più simbolica di quella che posso fare operando delle strategie
operative. Sulla sanità devo provare a stressare le funzioni, cioè riuscire ad allargare le maglie delle funzioni. Se sulla
sanità come ci è capitato noi avessimo rinunciato anche come coordinamento a stressare la funzione non avremmo
ottenuto un protocollo che allargava il diritto del ticket gratuito a tutti i rifugiati. Non è che non esiste una norma
relativa ai bisogni di persone delle fasce deboli, ma si tratta di capire come entrare dentro e stressarli.
Cristina Molfetta
Però diciamo una cosa: esiste un diritto che è una legge che non viene attesa, dopo di che tu puoi provare a rendere
questa legge un protocollo perché diventi un diritto effettivo. In realtà tutti i richiedenti asilo e i rifugiati hanno pari
diritti ai cittadini italiani che concretamente spesso diventano niente, quindi Lucrezia prova a dirci che cosa vuol dire
poi questa frustrazione.
Lucrezia Riccardi
È vero hai ragione, questi sono solo degli esempi e per questo io parlavo anche di livello simbolico, perché talvolta il
precedente o la prova provata che qualcosa è esistito è sufficiente per dare fiato a un’altra ripresa di quell’argomento.
Trasgredire è questo, cioè provare che ci porta a ottenere la realizzazione dei progetti, ma lavoro anche sul mondo cioè
provo ad aprirmi a quadri concettuali più ampi che non siano esclusivamente quelli del mio piccolo progetto, del mio
piccolo rifugiato… ma cerco di allargare le visioni frustrando le funzioni. E così anche nella scuola: se io devo inserire
una bambina che arriva a metà anno, che non è stata iscritta, che ha un sacco di problemi, che ha bisogno del
sostegno… anche qua cerco di allargare le maglie passando sempre per le istituzioni e comincio a mettere in
connessione l’assistente sociale che si occupa dei rifugiati, con l’assistente sociale di quel quartiere, con la preside della
scuola e comincio a tessere la mia tela e naturalmente vado a raccontare in giro quello che è successo. E con la casa
anche, voi sapete c’è l’emergenza abitativa che ha dei numeri molto bassi, ha bisogno di altissime garanzie, ma
certamente non per gli ultimissimi. In questo caso trasgredisco perché anche rispetto ai costumi e all’etica dominante,
io privato sociale mi rendo garante per quella persona davanti alle istituzioni e così dai una casa a quella persona. La
previdenza è anche tutto quello che riguarda l’invalidità civile, ci sono rifugiati che hanno tutta una serie di problemi
psichiatrici, fisici e quindi dovremmo pur certificarli e quindi anche in questo caso è complicato, ma si può certificare. È
molto faticoso, però esiste la possibilità di lavorare sul welfare attraverso la trasgressione che significa appunto lo
stress delle funzioni e questo è un mezzo faticoso, lungo, ma interessante. L’altra cosa della casa è il concetto di
residenza, senza la residenza noi non siamo niente e anche il welfare non ci riconosce niente perché è orientato sul
lavoro, ma anche sulla cittadinanza, sull’essere nel territorio.
Un altro esempio di trasgressione interessante meno politico, ma più di prassi, è quello del riconoscimento della
fragilità. Una delle questioni sostanziali del welfare è che nel momento in cui tu entri nel sistema dell’assistenza diventi
un poveretto. Non è più dentro quell’immaginario che oggi abbiamo di linearità, perfezione, precisione, efficacia. Le
cose stanno cambiando ma noi in testa certe rappresentazioni le abbiamo. Il riconoscimento della fragilità è riuscire a
pensare che nella discontinuità del tempo e della vita tutti siamo rifugiati in qualche modo e quindi il welfare stesso se
viene inteso come un luogo in cui ciascuno è fragile, cioè che accoglie le fragilità che tutti possono avere, il
riconoscimento della fragilità è un elemento fondamentale. Gli operatori del welfare fanno fatica a stare dentro le
organizzazioni, perché le organizzazioni non curano, se l’organizzazione non cura come posso io curare qualcun altro? Il
riconoscimento della fragilità sta proprio dentro questa concezione di cura e nel momento in cui io la riconosco faccio
un grande passo avanti. Per esempio, se io mi trovo davanti una persona che rivendica il suo diritto la prima cosa che
faccio è arrabbiarmi perché penso: “Ma dopo tutto quello che ho fatto per te tu vieni qua e mi rivendichi ancora dei
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diritti, ho fatto tutto per te!” Il riconoscimento della fragilità sta proprio nel riconoscimento di quella situazione: io non
posso fare niente per te ma se io mi arrabbio non ho capito niente, non ho capito che quella fragilità, come dice Franz
Fanon che la pigrizia e il ritardo degli africani, questo stereotipo in realtà è un boicottaggio politico che è inconsapevole
ma molto efficace. Allora se io riesco a dirti, attraverso tutti i passaggi di stress delle funzioni, che esiste la storia delle
persone, l’emotività delle persone, esiste la psicologia delle persone e che certi agiti non sono consapevoli. E poi
ancora il riconoscimento della comunità dei legami. Se voi pensate le persone che ho incontrato io hanno una
comunità molto forte legata da rappresentazioni sociali e da vissuti comuni di patria che li mette in una situazione di
grandi reti, di grande solidarietà. Ma poi magari si odiano, io so di persone che si sono aiutate ma non si sopportano,
cioè non è una questione relativa all’amore fraterno ma una solidarietà legata alla tradizione di quel popolo, di quelle
persona, magari nata attraverso i vissuti della guerra. Quel tipo di riconoscimento di quella ricchezza di cui certe
popolazioni ci fanno dono è un elemento importante proprio per ricostruire i nostri legami sociali. Allora riconoscere
che quella è una ricchezza ci fa avere un altro sguardo a quella persona che viene da me in modo un po’ scomposto
anche un po’ antipatico a dirmi delle cose.
Michele Manocchi
Allora è finita la prima parte dove abbiamo cercato di darvi una serie di elementi, quindi da una parte una veloce
introduzione al welfare e nella seconda parte abbiamo voluto trasmettere quelli che sono i dubbi e le situazioni che un
operatore sociale che lavora con i rifugiati si trova a dover affrontare oggi in Italia. Quindi noi potremmo dire visto
com’è il welfare lasciamo perdere, cambiamo lavoro. Invece la proposta che è emersa è quella di dire rendiamoci conto
che dobbiamo rimboccarci le maniche e che in qualche modo c’è la possibilità di compiere una serie di azioni che
hanno dei pro e dei contro, che hanno una serie di bagagli che si portano poi dietro che magari non risolvono tutte le
situazioni. Perché la grande differenza tra trasgredire e invece colludere è rilevante, perché in realtà è un rendersi
conto di determinate cose, perché in realtà la collusione è una roba che abbiamo quotidianamente di cui siamo
portatori costanti, ad esempio nel momento stesso in cui facciamo un accompagnamento ad un rifugiato che è stato
piazzato dal progetto su un cucuzzolo della montagna dove non c’è nessun supermercato che prende i ticket, noi gli
cambiamo il ticket con 10 euro, perché se no lui non riesce a mangiare, in quel momento noi stiamo agendo contro il
sistema. Il messaggio che trasmettiamo con questo gesto, normalissimo in Italia, è che qua in Italia bisogna aggiustarsi
in qualche modo. Dire “riflettiamo su questa cosa qua e discutiamone perché non c’è una soluzione predefinita” è già
un aspetto. L’altro aspetto che è quello della trasgressione è altrettanto interessante, cioè vediamo se riusciamo a
metterci in un’ottica dove magari riusciamo in qualche modo a fare qualche cosa che sappiamo dovrebbe fare qualcun
altro. In questo modo si mette in crisi il sistema e si dice alla gente guarda io lo faccio però avresti dovuto farlo tu
perché c’è una legge tal dei tali che tu dovresti consultare.
Il lavoro che faremo nella seconda parte è di partire da un caso concreto che Lucrezia ci porta, una storia di uno dei
destinatari seguiti dal progetto, ce la racconta in maniera relativamente breve e poi insieme cerchiamo di capire che
cosa è successo, quali di queste azioni di stress o quali di queste trasgressioni sono state messe in atto, quali avrebbero
potuto essere messe in atto, dove si è sbagliato, cosa avremmo fatto con il senno di poi… con il tentativo di
impratichirci un po’ di più con questa capacità riflessiva su quello che noi facciamo, che poi è quella che chi fa
l’operatore fra di voi ha già affrontato e chi farà lo stage fra di voi si troverà ad affrontare. Ora ho visto che ci sono delle
domande.
Domanda
La mia è una considerazione o più che una considerazione è un vago dubbio rispetto alla questione della trasgressione.
Noi trasgrediamo per modificare le cose. Ma la sensazione è però che le istituzioni o chi demanda al privato sociale di
fare tutta una serie di cose, sappia benissimo come funziona, ovvero voglia proprio che questa cosa venga fatta da
altre persone perché non ha alcun interesse di farlo. Allora il fastidio e la frustrazione doppia è che poi in realtà un
italiano medio paga le tasse per avere dei servizi esattamente come altre persone dovrebbero farlo e ci sono altre
persone che dovrebbero avere dei diritti, non ti occupi di tutta una serie di cose e quindi il privato sociale risolve i
problemi e l’istituzione riceve tutta una serie di tasse senza essere mai chiamato al fatto che non fa le cose che
dovrebbe fare. Allora la trasgressione dove sta? Sta nel senso che ovviamente ci preoccupiamo di aiutare le persone
perché naturale nelle relazioni umane e con le persone maggiormente in difficoltà, come il caso dei rifugiati. Il
problema è che qui non abbiamo tutele da nessuna parte e quindi sulla trasgressione io stavo un po’ crollando perché
la mia sensazione non è tanto quella di trasgredire perché c’è questo problema a monte, cioè vogliono proprio che sia
così, sospetto un po’ quello ecco.
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Cristina Molfetta
Io lo terrei come contributo e aggiungerei solo una parola cioè alla trasgressione di Lucrezia io aggiungerei la parola
denuncia nel senso che in realtà nelle azioni concrete che abbiamo fatto c’erano sempre entrambi gli aspetti che vanno
di pari passo. Cioè io posso stressare il sistema dichiarando innanzitutto che non sta facendo quello che deve, quindi
ottengo magari qualcosa che è meno del diritto fondamentale, ma poi una volta che ho il protocollo me lo porto anche
dietro tutte le volte nelle singole Asl e impongo che venga rispettato perché ho strappato una cosa che già non è più
un diritto ma è una concessione, ma che per lo meno venga rispettata in ogni singola Asl e non smetto in tutto il
periodo prima, mentre lo utilizzo, quando decade e via dicendo, di dire che quello comunque sarebbe un diritto.
Questo è un po’ quello che stiamo provando a fare con la residenza, cioè la residenza non è un diritto, è addirittura un
dovere, cioè negli approfondimenti e nelle indagini una persona che vive in un territorio e non dichiara di vivere in quel
territorio, sta infrangendo una legge. Quindi la residenza è un diritto/dovere cioè tu sei obbligato a prendere la
residenza nel posto dove stai, dovresti essere sanzionato se non hai la residenza. Qua siamo all’assurdo, cioè ci sono
delle persone che da anni vivono in un quartiere, in un comune e che non hanno la residenza perché non gli viene
riconosciuta perché è in una casa occupata, piuttosto che da un’altra parte. Quindi è ovvio che si sta violando la legge,
è ovvio che ci sono delle altre città italiane che applicano politiche diverse, è ovvio che è una decisone politica, quindi
uno si può limitare alla denuncia, siccome la denuncia non ha portato a niente, abbiamo raccolto una serie di firme per
discuterne in consiglio comunale e vediamo. C’è sempre un elemento di stress e che anche un elemento di denuncia,
cioè non ti faccio nessuno sconto sul fatto di ricordarti che è un diritto che tu stai violando, poi avrai i tuoi motivi ma li
dovrai anche esporre pubblicamente sul fatto perché quella cosa che è una legge nazionale non la stai facendo.
Secondo me trasgressione è la capacità di non demordere rispetto a tutte le porte chiuse e di continuare a dire ci
provo perché non rinuncio. Trasgressione e denuncia vanno un po’ di pari passo rispetto alle cose che abbiamo fatto
che avevano ricaduta regionale.
Lavori di gruppo
In relazione all’argomento proposto durante la lezione viene presentata a tutta la classe la storia, realmente accaduta,
di due rifugiati e delle loro vicissitudini nel sistema d’accoglienza italiano.
Storia
I protagonisti della storia hanno nomi fittizi, Omar e Meryan,. Nel loro paese lui frequentava al secondo anno di
ingegneria informatica, lei svolgeva il lavoro di parrucchiera. I due, provenienti da un paese in guerra da anni,
intraprendono insieme il viaggio verso l’Italia. Per fortuna la traversata non è caratterizzata da nessun evento
traumatico. I due arrivano in Italia, a Torino. Dopo lo sgombero dell’ex clinica San Paolo, dove erano ospiti, vengono
trasferiti nel campo della Croce Rossa “ T. Fenoglio “ a Settimo Torinese. Dopo alcuni mesi trascorsi nel campo e dopo
essere diventati genitori di un bambino i protagonisti della storia vengono presi in carico dalla cooperativa Orso per il
progetto FER.
Durante questo primo percorso Omar riesce a conseguire il titolo di media inferiore e a superare l’esame di guida,
ottiene dunque la patente. L’operatore incaricato di seguire la coppia riveste a questo punto un ruolo importante
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nella vita dei due rifugiati. Omar ottiene una borsa lavoro, Meryan riesce a svolgere qualche lavoretto, entrambi,
grazie anche alla fiducia reciproca che li lega al loro operatore, riescono a costruirsi una rete intorno.
Questo fa sì che i due diventino un esempio per la loro comunità e un successo per il progetto FER.
Si arriva alla scadenza del primo progetto (FER), iniziano i primi dissapori.
Nel frattempo Meryan è di nuovo incinta e Omar manifesta una forte dipendenza nei confronti della moglie.
Inizia il secondo FER. Questo progetto ha caratteristiche diverse dal primo in quanto attribuisce un budget “dedicato”
a seconda dei desideri e degli obiettivi che il rifugiato stabilisce e concorda preliminarmente con l’operatore.
L’operatore che con loro aveva iniziato il percorso ha più casi da seguire, si verifica così che dedicherà solamente il
proprio tempo libero alla coppia.
A questo punto vengono a mancare due cose molto importanti:
1) Il contatto con la rete (il volontario che si era occupato della rete parte per un lungo viaggio);
2) L’operatore “molla la presa” convinto che il percorso di autonomia si sia attivato.
Si assiste all’entrata in scena di un altro operatore che manifesta un approccio diverso con i due rifugiati.
Questa diversità di atteggiamento fa si che Omar e l’operatore vadano incontro a una serie di incomprensioni.
Da una parte Omar non si sente più a suo agio, dall’altra l’operatore, non vedendo l’impegno del rifugiato, decide di
non elargire più soldi ad Omar in virtù del fatto che gli accordi non siano stati rispettati.
A questo punto Omar chiede di poter parlare con il primo operatore e con il responsabile del progetto.
Durante questo incontro viene offerto ad Omar di svolgere un tirocinio formativo come tecnico informatico, per 30
ore settimanali. La risposta del rifugiato è tutt’altro che positiva. Omar infatti pretende di avere immediatamente i
soldi del budget stabilito all’inizio. Vengono , in questo modo cambiate le carte in tavola. Omar viene assecondato
dall’Equipe ed ottiene quello che aveva richiesto.
Purtroppo l’inserimento va male, non per colpa dell’azienda ma perché Omar non ha reazioni positive, non è curioso,
non si misura con le sfide e i compiti che gli vengono assegnati. L’operatore lo richiama ed ad un certo punto Omar
non si presenta più a lavoro. Viene così suggerito all’azienda di assegnare Omar dei micro-obiettivi così da stimolarlo.
Quest’ultima azione non sarà che un fuoco di paglia.
Omar e Meryan manifestano il bisogno di voler andare via avanzando la richiesta di voler vedere il primo operatore.
La situazione attuale vede i due rifugiati vivere all’interno di una casa intestata alla cooperativa Orso il cui contratto
scadrà a dicembre. Vengono proposte altre opportunità per la casa che però vengono rifiutate. Non si capisce se
oramai il rifugiato sia entrato in una logica ricattatoria.
Reazioni e riflessioni
1. Meglio rete su territorio conosciuto dall’operatore o su territorio non conosciuto?;
2. Rapporto diritti/doveri progettuali;
3. Ripercussioni sulla comunità, questo solleva il problema dell’Equità vs Particolarità cioè del modo in cui i progetti
debbano soddisfare bisogni ad hoc oppure debbano rispondere a richieste generiche;
4. Quale intervento sulla moglie? La moglie forse non è stata seguita allo stesso modo come il marito, probabilmente
la presenza di una mediatrice avrebbe potuto monitorare meglio anche le dinamiche di coppia; altro elemento
importante è rappresentato dalle difficoltà riscontrate dalla moglie nella gestione dei figli. Per ovviare a questo
problema Meryan si farà aiutare da una connazionale che si troverà a svolgere tutti i lavori di casa, questa situazione
porterà all’intervento della cooperativa Orso;
5. Cambio dell’operatore, c’era stato un passaggio di consegna? C’è stato ma forse non è stato sufficiente, oppure si
sono date per scontate troppe cose come per esempio che il passar del tempo fosse direttamente proporzionale al
raggiungimento dell’autonomia da parte del rifugiato;
6. Tutela vs “Infantilizzazione”;
7. Gestione da parte dell’operatore dei suoi vissuti, vincoli organizzativi;
8. Atteggiamento dell’operatore: quale approccio poteva considerarsi giusto e quale quello sbagliato? È ovvio che non
è facile stabilire quale tipo di atteggiamento debba avere un operatore ,è importante però capire come l’operatore
viene recepito. Come un amico, come un traditore etc..
9. Capacità di distacco dell’operatore.
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Considerazioni
- Molte cose dette fino ad adesso possono valere anche per altre categorie svantaggiate;
- Da non sottovalutare la strumentalità del rapporto, non è da escludere che il rifugiato consideri l’operatore come un
BANCOMAT, come cioè colui che debba essere impietosito per ottenere i soldi;
- Concetto del tradimento: ci può essere un sincero avvicinamento tra operatore e rifugiato, l’importante è capire che
questo tipo di rapporto porta con sé dei rischi.
Bibliografia | Settimo incontro
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Ottavo Incontro
22 novembre 2011
Titolo
Lavoro: spreco del capitale umano e condizioni di sfruttamento
Relatrice
Graziella Rogolino, segretaria confederale della CGL del Piemonte
Graziella Rogolino
Sono venuta a Torino a 20 anni per lavoro, ho iniziato un’attività sindacale da delegata, per poi ritornare nel mio luogo
d’origine ossia a Roma.
Sono rare le occasioni in cui parliamo e approfondiamo il tema dello sfruttamento sul lavoro, problema che colpisce
ovviamente i segmenti più deboli della società: giovani, donne ed immigrati, perlopiù coloro che si ritrovano senza
permesso di soggiorno. Tuttavia anche gli immigrati con il permesso di soggiorno come i richiedenti asilo e i rifugiati
sono preda facilmente di sfruttamento, perché spesso ricattabili da chi li ha aiutati a entrare nel paese. Questo cordone
ombelicale fatto di violenza e minacce non si rompe necessariamente con il fatto di ottenere il permesso, perché
subentrano altre problematiche quali il mantenimento della famiglia rimasta nel luogo di origine, la necessità di un
mediatore che detiene così il monopolio del mondo del lavoro solo per il fatto che si hanno difficoltà nel capire e
comunicare in una lingua che non si conosce.
In Italia solo il 12%-15% circa delle offerte di lavoro, considerando sia il settore del pubblico che quello privato,
vengono mediate dai centri dell’impiego o dalle agenzia private. Tutto il resto del lavoro viene trovato per altre vie
quali la raccomandazione, il lavoro presso parenti, l'auto promozione, ecc. In questa prospettiva le difficoltà maggiori
sono per chi viene da un altro paese. Paradossalmente viene così più sfruttato chi ha un permesso di soggiorno che chi
trova lavoro più facilmente all’interno del mercato illegale in quanto manca quello legale, come alternativa. Questa è
una questione che riguarda tutta la popolazione italiana e non, presente in Italia, paese estremamente debole da
questo punto di vista. In Italia, sebbene sia uno dei maggiori paesi europei industrializzati, vi è la più bassa mediazione
pubblica e privata del lavoro. Si pensi che in Germania, in Inghilterra, in Francia la mediazione del lavoro legale sia
privata ed accreditata, sia pubblica si aggira intorno al 35%. Nel caso specifico della Francia e della Germania è forte
anche il canale di collocamento legato al lavoro nel passaggio scuola-lavoro, diversamente dall’Italia dove questo
canale è molto più debole. Molti non lo sanno, ma i paesi che hanno il maggior numero di mediazione legate agli uffici
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di collocamento pubblici o privati sono i paesi anglosassoni, quindi Inghilterra e Stati Uniti, dai tempi di Roosevelt. In
America, le persone hanno la tessera di previdenza sociale, che è una sorta di codice fiscale, che si acquisisce al primo
lavoro che si fa il quale può durare anche solo un giorno, per così poter accedere al sistema dove viene registrato e
dove il suo nominativo viene utilizzato per proporre offerte di lavoro. Un sistema di questo tipo non ha eguali in tutto il
mondo e arriva al 50% di mediazione di offerta del lavoro.
Invece in Italia vi è una debolezza storica, oggi resa ancora meno funzionale dalle leggi che hanno aumentato sempre
più le forme di lavoro precario, soppiantando quelle a tempo indeterminato.
In generale si distinguono tre mercati del lavoro:
- Legale: lavoro per cui si pagano mensilmente i contributi. Tuttavia può essere mediato anche da forme di lavoro
precario.
- Grigio: è una forma molto diffusa. Prevede un lavoro con aspetti legali ed altri no. Per esempio, il lavoratore viene
pagato part-time anche se lavora full-time.
- Nero: costituisce quella che viene chiamata l’economia sommersa. Ha numeri così elevati che l’ultima statistica
dell’ISTAT ha registrato 275 miliardi di euro di soldi evasi. Il lavoro nero è sempre presente nell’economia
sommersa, ma non sempre il lavoro nero è da considera interno all’economia sommersa. Infatti vi sono casi di
economia conosciuta per cui si paga una parte delle tasse ma che prevede anche una zona grigia attraverso lo
sfruttamento dei lavoratori immigrati o attraverso forme di pagamento che non vanno a coprire tutto il lavoro
svolto dal lavoratore.
Qualche giorno fa è stato detto ad una conferenza che quasi metà dell’edilizia a Torino fruisce di muratori che hanno
un contratto di lavoro part-time. Un lavoro part-time nell'edilizia è molto improbabile, perciò vuol dire che metà di
quel lavoro è nero e quindi metà di quella metà è destinato al caporale che ha mediato quel rapporto di lavoro. Del
caporale si ha bisogno sempre, perché quel lavoro dura 15 giorni e poi bisogna spostarsi e il caporale ricolloca il
lavoratore da un'altra parte. È molto difficile cogliere il fenomeno di caporalato. A Torino è emerso lo scandalo del
caporalato con il caso della costruzione del grattacielo del San Paolo in pieno centro, dove i lavoratori, quasi tutti
rumeni, sono stati mediati dal caporalato e quindi pagati in parte in nero. Il caporalato è diffuso e si tratta anche di
forme di confine, per esempio il caporale aiuta il lavoratore a trovare impiego ma affitta allo stesso un appartamento
ad un prezzo più alto.
Le forme di sfruttamento del lavoro si innestano nella catena dei bisogni che queste persone hanno quali la ricerca
legata al lavoro per la moglie, per la figlia che spesso svolge lavori quali quello della badante, pulizie di casa.
Paradossalmente anche l’utilizzo del risparmio e le rimesse nei paesi d’origine sono problemi tra i più delicati affrontati
dalla Banca d’Italia, perché dalle rimesse fatte attraverso i money transfert, posta e simili passa anche il riciclaggio così
gli immigrati sono costretti a fare rimesse spesso più elevate perché una parte dei soldi inviati serve a pagare la
persona che consegna direttamente i soldi ai parenti a cui il lavoratore li destina. Anche i nostri immigrati dall’America
spesso mandavano in paesini lontani il vaglia postale o consegnavano i soldi a coloro che poi ritornavano in Italia con il
denaro in tasca. Parliamo di paesi dove le banche non ci sono e non c’è nessun tipo di rete di questo tipo e quindi
bisogna affidarsi alla rete dei mediatori che come la rete dell’acqua potabile al sud è piena di buchi e in quei
innumerevoli chilometri i soldi si perdono.
Le ultime stime parlano di lavoro irregolare pari a 3 milioni di unità di lavoro, che non vuol dire 3 milioni di persone:
unità di lavoro è inteso come orario di lavoro, ossia considerando l’orario di lavoro standard di una persona a livello
statistico si considerano le unità di lavoro.
Non siamo in un mondo in cui c’è solo l’irregolare, bisogna però sapere che la quasi totalità del lavoro irregolare è
concentrato sui segmenti deboli del lavoro tra cui ovviamente gli immigrati e nello specifico nei tre grandi settori che
sono quelli dell’edilizia, dell’agricoltura e dei servizi alla persona. In queste tre grandi categorie si verifica il maggior
numero di violazioni nel lavoro e spesso si tratta dei lavori considerati più umili che gli italiani non fanno. Queste
problematiche sono difficili da affrontare e da superare perché bisognerebbe ricostruire in questo paese un sistema
pulito e trasparente di lavoro. L’Italia è un paese che non da peso al merito e alle persone, ma da peso ai giochi
politico-economici di una società dove a farla da padrona è un sistema costituito da caste. Questo tipo di difficoltà non
si affronta certamente solo con la fase repressiva, ma negli ultimi anni quello che è successo è il calo vertiginoso del
numero degli ispettori del lavoro. A tal proposito, vi leggo, una circolare del, per fortuna, ex-ministro Sacconi che scrive
nel decreto legge del 13 marzo 2011 numero 70, il cosiddetto decreto sviluppo: “Esclusi i casi straordinari di controlli
per salute, giustizia ed emergenza, il controllo amministrativo in forma di accesso da parte di qualsiasi autorità
competente deve essere unificato – quindi ci può andare una persona sola, cioè se ci va la finanzia non ci può andare
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l’ispettore del lavoro – può essere operato al massimo con cadenza semestrale e non può durare più di 15 giorni –
quindi se c’è una verifica in corso da parte della guardia di finanza sui conti non può andare l’ispettore del lavoro a
vedere se c’è lavoro irregolare –. Gli atti compiuti in violazione di quanto sopra costituiscono per i dipendenti pubblici,
illecito disciplinare”. Tutto ciò che è controllo viene vissuto come fastidio al libero esercizio dell’attività economica.
Bisognerebbe agire su più fronti, non basta la repressione ma servirebbe un senso di responsabilità dei cittadini che
spesso nel loro piccolo si sfruttano a vicenda, frodando la legge. Tutto questo in un contesto culturale dove per anni
abbiamo assistito ad un’insistenza pericolosa sulla diversità culturale vissuta come un grande pericolo per il paese e la
cultura. Molte cose sono cambiate in senso positivo, per esempio molti bambini sono abituati ormai ad andare a
scuola con bambini non italiani e che per inciso, per legge non diventeranno italiani solo per il solo fatto di essere nati
in Italia. Sta cambiando molto la cultura, ma bisogna essere consapevoli del fatto che la cultura non è soltanto una
sovrapproduzione politica, ma è radicata nella società. Bisogna fare molta attenzione perché quella di oggi è una
cultura dove la diversità è vista come un pericolo, spesso nascosta non tanto dalle fumerie biologiche della razza,
questa fase per fortuna è stata superata, salvo qualche sacca che c’è ancora in Europa, ma sta prendendo le forme
molto più insidiose della diversità vissuta come pericolosa dal punto di vista culturale. Si ha così la paura dei luoghi di
culto, la paura degli abbigliamenti diversi, degli usi della popolazione addirittura degli usi alimentari. Un esempio a tal
proposito è la grossa polemica sorta con la prima macelleria islamica a Torino o la polemica che c’è a Torino sulla
possibilità di costruire una moschea. Un po’ meno di cento anni fa è nato la chiesa Valdese a Torino, sebbene questa
sia una città laica e con più coscienza civile di tutto il resto del paese, la questione venne vissuta come una violenza alla
libertà di culto cattolica. Da pseudo intellettuali italiani vengono ripresi vecchi scritti di etnologi, non per spiegare una
presunta superiorità ma per dimostrare un’irreversibile diversità che viene sostenuta dietro la facciata del
politicamente più corretto ma che in realtà costruisce uno iato difficile da superare.
Con il sindacato abbiamo fatto molto, ma il molto non è ancora sufficiente. Nel bresciano siamo il primo sindacato, ma
il primo partito votato è la Lega Nord. Noi discutiamo con molta timidezza di questa questione, perché facciamo fatica
a distinguere il senso di appartenenza di un organizzazione con la base culturale e politica di riferimento. C’è una parte
di quella popolazione che si fa difendere da noi in tribunale con i contratti, ma contemporaneamente quando viene
chiamato in causa ad esprimere le proprie opinioni su questioni quali la divisione dell’autobus tra stranieri ed italiani,
pensano che questa divisione sia giusta. Facciamo ancora fatica a trattare su queste questioni anche se siamo
l’organizzazione di massa più radicata di tutto il paese, la più grande d’Europa come sindacato confederale, cioè che
comprende tutte le categorie, tanto che neanche il sindacato tedesco ha tutti questi iscritti. Ci limitiamo a inseguire gli
eventi per poter far passare un messaggio positivo di comportamento culturale che dimostri pari dignità
nell’accoglienza.
Contemporaneamente abbiamo un problema generale ossia quello di intervenire sulla trasparenza e legalità del lavoro,
sapendo che questi non possono essere alternativi al lavoro. In questi giorni vi è un dibattito marziano tra la possibilità
della libertà del licenziamento e il fatto che in questo modo i giovani non verranno assunti. Come se la minore richiesta
di trasparenza del lavoro, ossia il consentire a far emergere le forme di lavoro grigie, riducesse la quantità del lavoro.
Noi del sindacato siamo convinti di no, ma è più facile dirlo che farlo.
Abbiamo vari sportelli, come molte altre associazioni, per condurre le pratiche del permesso di soggiorno, le pratiche
del mercato del lavoro, le pratiche per la cassa integrazione ed è per questo motivo che si rivolgono ai nostri sportelli
una gran quantità di cittadini stranieri. Il passaggio dal sindacato erogatore di servizi a sindacato come organizzazione
che collettivamente consente di raggiungere dei diritti, non è così automatico. È una cultura che dobbiamo costruire
anche nei cittadini stranieri, non è semplice in un mondo nel quale va avanti in maniera massiccia una certa
individualizzazione dei propri interessi. Bauman chiama la nostra società una società liquida, perché è come se si
fossero allentati i legami che tenevano insieme non solo gli interessi individuali ma anche quelli collettivi, è come se
ognuno si fosse costruito una piccolissima comunità di riferimento. Noi siamo vittime di questa situazione, dobbiamo
fare molto per poterla superare e c’è l’ulteriore complicazione del convivere con persone con abitudini, lingue, aspetto
fisico diverso dal nostro che costituisce per le persone più deboli un elemento di ulteriore insicurezza.
Alcuni dati forniti dall’Istituto Superiore di Formazione presente in tutte le regioni, ente che fornisce i numeri sugli
studenti stranieri, ha stimato per il 2005 un totale di 42.915 studenti stranieri iscritti nelle scuole d’infanzia di primo e
secondo grado; oggi sono 64.728 e la differenza tra maschi e femmine è trascurabile ossia è molto bassa, dato
considerato positivo. In Italia le donne parlano l’italiano molto meglio degli uomini che lavorano perché imparano la
lingua dai loro figli. Fenomeno esattamente opposto a quello che colpì i nostri immigrati in America, dove le donne
continuarono a parlare il loro dialetto di provenienza per tutta la vita, avendo rapporti solo con le altre donne della
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famiglia. Mentre qui la scolarizzazione massiccia dei ragazzi ha aiutato queste donne che facendo anche lavori umili,
interagiscono spesso con persone molto anziane.
Non è il caso dei richiedenti asilo che fruiscono di un soggiorno temporaneo, ma la clandestinità è un reato stabilito
dalla corte europea ed è quello che oggi crea più ostacoli alla denuncia del lavoro nero. Nei cantieri delle città si
trovano molti lavoratori Kosovari, facilmente confondibili con gli italiani, mentre più difficilmente si trovano lavoratori
di etnia chiaramente non europea.
Fornisco altri dati della regione Piemonte riferiti al settore delle costruzioni dei lavoratori regolari, che probabilmente
sono solo la metà dei lavoratori effettivi in tutta la regine considerando anche il lavoro nero.
Assunzioni regolari: 49.000 persone straniere, di cui
- in agricoltura, dove assistiamo ad un storico sorpasso perché gli stranieri sono 8.456 a fronte 6.805 cittadini italiani
nel 2010, sono 10.400 nel 2011, stiamo quindi arrivando al raddoppio dei lavoratori italiani,
- nell’edilizia, 8.300 lavoratori stranieri rispetto a 12.000 italiani, nel 2011,
- in sanità ed assistenza solo 2.400 lavoratori stranieri rispetto 11.00 italiani, perché qui è presente tutto il nero
della cura alla persona che non risulta da nessuna parte. Torino è stato il centro di uno dei primi scandali di
caporalato per così dire buono, diverso da quello che si è scoperto a Rosarno, ai danni delle infermiere rumene.
C'è stato il caso famoso di una clinica privata torinese che assumeva, attraverso caporali dei paesi d’origine,
infermiere diplomate rumene che venivano pagate 1/3 della paga sindacale.
Nei confronti dei nostri lavoratori abbiamo svolto anche un ruolo storico che molte altre organizzazioni non sono mai
riuscite ad avere e cioè quello di far emergere il più possibile la visibilità del fenomeno dello sfruttamento del lavoro
straniero e della presenza in generale degli stranieri. Gli stranieri sono invisibili, escono la mattina presto e si ritirano a
casa la sera tardi e se sono clandestini fanno di tutto per non farsi vedere, diventano gli invisibili di questa società.
Esempio dello scandalo del caporalato pugliese dove ragazzi polacchi, per inciso la Polonia allora non era ancora un
paese comunitario, sparivano nel nulla, tant’è che il sito della polizia polacca è pieno di fotografie di questi ragazzi che
ancora le famiglie cercano. In un paesino del Tavoliere delle Puglie c’è una tomba con su scritto “sconosciuto”, che
ancora una signora contadina venera come se fosse suo figlio, accudisce la tomba di un ragazzo il cui volto è stato
distrutto sotto le ruote di un camion, quindi non si è mai saputo chi fosse né è possibile esporre la sua foto da qualche
parte perché qualcuno possa riconoscerlo. L’invisibilità del lavoro che si esprime anche in altre forme meno travagliate,
è il maggiore nemico di una presa di coscienza diffusa nella necessità di trovare forme non solo di convivenza ma
anche di rispetto reciproco e di miglioramento di ciascuno di noi senza eccessi di relativismi culturali né da una parte
né dall’altra.
Ogni anno i permessi di asilo politico rilasciati dalla questura si aggirano intorno ai 500. A Torino oggi ci sono qualche
migliaia di persone che hanno avuto questo status e che ovviamente vengono da paesi non europei, quali l’Asia,
Turchia e per la maggior parte dall’Africa.
All’interno della comunità più vasta degli stranieri clandestini sfruttati, c’è una comunità più piccola di quelli che sono
più garantiti nella loro stabilità del paese perché magari hanno già un permesso, ma questo non li fa sfuggire a forme di
sfruttamento di lavoro e a forme di caporalato anzi sono più appetibili perché pagano “il pizzo” per garantirsi un lavoro
e mandare i soldi alla famiglia che non necessariamente si trova in Africa, ma possibilmente anche in altri paesi
Europei. Tra gli stranieri che vivono in questa condizione vi sono laureati con livelli culturali elevati che fanno i pizzaioli,
i muratori senza protezioni, le badanti di anziani o bambini. Persone con livelli culturali che gli consentirebbero invece
strade diverse per loro e le loro famiglie all’interno della società. Viverli come concorrenti, come li vive spesso parte
della nostra popolazione in un segmento che sempre di più si restringe che è quello della ricerca del lavoro è una
visione estremamente miope perché in realtà più si equiparano i diritti più si evita il fenomeno dell’esercito di riserva e
la forme di concorrenza “ sleale” sul costo del lavoro. Bisogna farli emergere perché così i diritti di tutti aumentano, di
questo ne siamo convinti.
Lamine Souw, senegalese.
Io sono qui dal 1986, anno della prima legge italiana sull’immigrazione la L. 943 del 1986. Prima di quell’anno il testo di
riferimento della legislazione italiana era il testo unico di sicurezza unica del 1931, questo spiega la storia
dell’immigrazione italiana, in quanto l’Italia era un paese di emigrazione. Da allora la legislazione ha fatto dei passi
avanti con la legge Martelli L.39 del 1990 che ha introdotto la possibilità per le persone di lavorare. Prima gli stranieri
in Italia o erano studenti o avevano un qualche titolo di asilo, tutti gli altri erano persone che avevano un visto turistico
ed erano rimasti qui anche dopo la scadenza del permesso per poter continuare a lavorare. È per questa ragione che in
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Italia di tanto in tanto vi sono le sanatorie. Tutt’ora nel 2011 l’Italia non ha ancora una legge organica sull’asilo e questo
è un problema molto grande. È la legislazione stessa che fa sì che le persone vengano sfruttate maggiormente. Ora mi
spiego portando alcuni esempi per poter fare un confronto tra la situazione degli immigrati e quella dei rifugiati sia dal
punto di vista delle condizioni di vita che dal punto di vista delle condizioni lavorative. Per quanto riguarda gli stranieri,
dietro ad un contratto di lavoro c’è un contratto di soggiorno che è un contratto tra il datore di lavoro e il lavoratore.
L’immigrato quindi in Italia ha valore solo in quanto lavoratore, non viene valutata la sua condizione sociale. Quando
viene a mancare il contratto di lavoro anche la stabilità nel paese viene a cadere, a cascata questo si riversa anche sui
familiari perché in quanto titolare del diritto di soggiorno trasferisci questo diritto sia al coniuge che ai figli. In questa
fase di crisi, questo problema colpisce la stragrande maggioranza degli immigrati. Molti hanno perso il lavoro e hanno
la possibilità di avere una proroga di 6 mesi, dopo di che non hanno più il titolo per rimanere in Italia. Queste sono
persone che sono qui da dieci, quindici, vent'anni, che hanno fatto il ricongiungimento familiare, i cui figli ormai vanno
a scuola, ma questo rimette in discussione tutta la stabilità della famiglia. Questo problema giuridico che esiste oggi in
tempo di crisi dove il lavoro scarseggia per tutti, riguarda migliaia di persone solo a Torino e non è ancora stata trovata
una soluzione. I rifugiati si salvano per via della loro condizione politica in quanto non soggetti al contratto di
soggiorno e in quanto titolare di protezione internazionale, possono vedere rinnovato il loro contratto senza tener
conto della loro situazione lavorativa. Tuttavia anche i richiedenti asilo sono in una situazione complicata, perché
manca una legge organica, vi è così un malfunzionamento nelle commissioni territoriali che devono valutare le
richieste dei richiedenti, ma i tempi sono biblici e questa è una fase di attesa in cui per i primi 6 mesi non si può
lavorare per motivi burocratici e non per propria volontà. Nel momento in cui si ottiene il titolo di asilo o di permesso
sussidiario o umanitario, solo in quel momento si può esistere anche come lavoratore.
Oggi questo è un grosso problema in tutta Italia. L’immigrazione proveniente dalla Libia comprende persone scappate
per le condizioni di vita e per l’intervento della Nato che ha destabilizzato il paese e sono persone che lì in Libia
lavoravano. Il problema è che adesso l’Europa fa fatica a considerare queste persone come rifugiati perché pensano
che siano portatori di interessi economici quando in realtà la situazione è cambiata e questo è un fatto oggettivo. Tener
conto solo dell’affidabilità del paese di origine, come succede nelle richieste d’asilo oggi, crea un grosso problema. Per
esempio io senegalese, se fossi andato in Libia a lavorare e ora per recenti problemi politici fossi stato costretto a
scappare e venire in Italia, una volta qua e una volta fatta la richiesta d’asilo, l’Italia terrebbe conto non della Libia ma
del mio paese d’origine, il Senegal, anche se la mia vita ormai era in Libia. O si interviene puntando almeno su un
soggiorno umanitario per queste persone o avremo sempre, come adesso, delle grosse difficoltà nel difenderle. Nel
sindacato gli immigrati hanno una condizione giuridica diversa da quella degli italiani per ragioni oggettive e per
intervenire come sindacato si può intervenire solo contrattando a livello internazionale ed aziendale cosa che però non
tiene conto della specificità delle persone. Per esempio tanti immigrati richiedono il cumulo delle ferie perché vanno
nel paese di provenienza ogni 2 anni, nei processi di formazione hanno bisogno di un’integrazione per quanto riguarda
la lingua, anche per quanto riguarda le pensioni e il futuro delle persone straniere, oggi vige il contributivo soprattutto
per gli immigrati e l’Italia in questo momento non ha accordi di sicurezza di previdenza sociale con i paesi di
provenienza. Eppure l’Italia ha preteso per i suoi emigrati accordi con gli altri paesi quali la Svizzera, la Germania, il
Belgio e l'Argentina. Quindi anche i sindacati dovrebbero capire dove vanno a finire i contributi pagati dai lavoratori
immigrati in Italia, perché un conto è se la propria fase lavorativa si svolge per intero in Italia un altro conto è lavorare
15 anni in Italia per poi vedersi negato il permesso di soggiorno e quindi esser costretti a ritornare a casa, nel proprio
paese d’origine. Spesso si fa un discorso di comodo dicendo che gli immigrati pagano le pensioni degli immigrati, ma in
realtà non è così. L’ immigrato, con il contributivo, viene pagato con un salario differito che poi serve a pagare le
pensioni degli italiani.
È difficile il lavoro del sindacato confederale perché deve curare diversi interessi, a volte questi interessi configgono tra
di loro, in questo caso gli interessi dei lavoratori immigrati possono confliggere con gli interessi dei lavoratori italiani
oppure dei pensionati italiani. La sfida della confederazione è fare una sintesi di questi problemi. C’è una iniziativa che
facciamo con altre 18 associazioni, proponiamo a partire dall’iniziativa popolare della società civile delle leggi sulla
cittadinanza e il voto amministrativo, tutto questo è sostenuto da tante firme dei cittadini che cercano di trovare
soluzioni ai vari problemi.
Domanda
Appurato il carattere di massa del sindacato e lo scollamento tra l’adesione al sindacato e la portata ideologica dello
stesso, vorrei capire la forza del sindacato come ente di integrazione. Negli anni '60 - '70 in cui il conflitto sociale era
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forte, il sindacato ha svolto un ruolo importante nell’unificare l’Italia, quando gli italiani del sud venivano nelle grandi
città del nord e tutti condividevano dei significati. Dato che si prefigura, spero, un aumento del conflitto sociale per via
delle riforme che si stanno attuando, vorrei chiederle se lei ha la speranza che si possa riattivare oggi questo buon
potenziale che il sindacato ha avuto in altri momenti.
Rogolino
Rappresentarsi i problemi vuol dire non negarli, bisogna esser consapevoli che al nostro interno vi sono atteggiamenti
personale ed ideali diversi. Dobbiamo sapere che quello che è successo negli anni '60 non era molto diverso da quello
che sta succedendo ora, per cui i cartelli non si affitta agli immigrati non erano ovviamente riferiti all’alta borghesia, e
una delle cose che straordinariamente unì gli immigrati del sud con gli operai del nord sono stati i matrimoni per
procura che ci sono stati nelle campagne isolate. C’è stata un’integrazione etnica, prima ancora che nella comune
coscienza sociale. Dobbiamo sapere che le difficoltà che si incontrano si superano attraverso la consapevolezza della
loro esistenza e non per il semplice fatto di pensare che gli interessi di tutti siano quelli di stare tutti meglio. Prendiamo
ad esempio del caso delle pensioni: il sistema è contributivo, non è un sistema a capitalizzazione, quindi non è un
tesoretto intestato personalmente e i contributi che versano i giovani e gli immigrati servono a pagare le pensioni di
oggi. Ma una delle difficoltà che ci saranno sono connesse al fatto di riconoscere i 15 anni di lavoro che l’immigrato ha
fatto in Italia nel momento in cui si sposta in un altro paese. Con l’Argentina ci abbiamo messo 30 anni per trovare un
accordo su tale questione. Il primo paese che ha fatto un accordo bilaterale con l’Italia è stato il Belgio. Tant’è che tutti
gli operai malati di silicosi che lavoravano nelle miniere erano fortunati perché le loro pensioni erano tra le migliori..
giovani e malati ma fortunati! Conoscere i conflitti di interessi aiuta a governarli e a superarli. I contratti prevedono
mense separate perché ci sono usi diversi, ma questo è un costo e gli italiani si arrabbiano perché devono pagare 1
euro in più per ogni pasto. Non è la lotta che serve, ma la coscienza che i diritti possano diventare comuni e collettivi
pur tenendo conto delle diversità e degli interessi diversi. Diritto e interesse non sono sinonimi, il diritto ha sempre una
portata collettiva.
Domanda
Come potrà durare nel tempo il sistema contributivo se i lavoratori che andranno in pensione con questo sistema
devono pagare anche le pensioni di coloro che sono andati in pensione con il sistema retributivo?
Rogolino
Non bisogna far confusione tra il sistema contributivo e quello retributivo. Il sistema pensionistico è di due tipi
− Sistema a capitalizzazione che è un sistema privato, cioè i fondi privati sono a capitalizzazione come quelli
assicurativi e reinvestiti in pensioni integrative. Aggiuntiva.
− Sistema a ripartizione che è la pensione pubblica ossia quella di base e sempre si pagano le pensioni con i
contributi pagati dai lavoratori. Questo succede in Italia, in Francia e anche negli Stati Uniti. L’unico paese al mondo
pubblico a capitalizzazione era il sistema Cileno e quello fascista. I sistemi pubblici moderni sono tutti a ripartizione.
Il problema connesso alle pensioni future non corrisponde a un sistema di calcolo. Non bisogna confondere il
sistema contributivo che è un sistema di calcolo dove il tasso di trasformazione è minore, dove cioè guadagni meno
di pensione rispetto al salario per il tipo di calcolo, con quello retributivo che non è un sistema di costruzione
artificiosa del calcolo e ciò è sfavorevole per i giovani perché ora iniziano a lavorare molto tardi e spesso lavorano
con contratti a tempo determinato o lavori a collaborazione. In più c’è da considerare il fenomeno
dell’allungamento della vita anagrafica che oggi crea un vero problema.
Domanda
Io lavoro in un ufficio di accoglienza per i rifugiati e sono tesserata Cgil, vorrei sapere per queste persone che tipi di
servizi può offrire il sindacato, rispetto al lavoro e all’informazione sui diritti.
Rogolino
L’impiego passa attraverso due pilastri che in realtà mediano solo il 15 % e sono i centri per l’impiego e le società
accreditate che fanno da collocamento. Il sindacato ha un sportello che fornisce questi servizi di informazione, ma il
sindacato non gestisce il collocamento diversamente da quello che succede in Inghilterra e Germania.
Per i rifugiati è richiesto per il lavoro una residenza e così molti si trovano nel paradosso di avere un lavoro e un
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permesso di soggiorno ma non una residenza.
Lavori di gruppo
Nono Incontro
30 novembre 2011
Titolo
Sanità: leggi, protocolli, ostracismo istituzionale
Relatore
Salvatore Geraci, Area Sanitaria Caritas Roma; Società Italiana di Medicina delle
Migrazioni
Salvatore Geraci
Premessa: La salute come bene indivisibile
Quali sono le malattie più frequenti tra gli immigrati?
- Malattie sessualmente trasmissibili, HIV, TBC
- Malattie legate all’apparato respiratorio, dell’apparato digerente,…
- Traumi, lesioni, …
- Disagi di tipo psicologico, malattie di tipo psicosomatico
Si tende a pensare che le malattie più frequenti fra gli immigrati siano quelle del primo tipo. Si tratta in realtà di una
distorsione pregiudiziale: le malattie più frequenti sono infatti quelle legate all’apparato respiratorio (legate spesso al
fatto di vivere in ambienti sovraffollati, mal riscaldati, ecc.) e traumi (legati al fatto di occupare spesso quei settori
lavorativi scartati dagli italiani, i lavori pericolosi, precari, poco pagati, pesanti e penalizzati socialmente – i cosiddetti
“lavori delle 5P”). Sono queste le cause più frequenti di visite e ricoveri ospedalieri.
Ma quando si parla di tutela della salute, non si può soltanto pensare alle cure mediche prestate in Pronto Soccorso. La
tutela della salute deve investire anche la prevenzione, la continuità dell’assistenza, e non solo gli interventi di tipo
emergenziale.
Fra i vari tipi di Sistemi Sanitari, si distinguono quelli di tipo universalistico come quello inglese; anche quello italiano
non si basa sulle assicurazioni dei cittadini, ma garantisce, almeno in teoria, gli stessi diritti per tutti (si veda la legge
883 del 1978, in cui si garantiva il diritto alla salute per tutti...non erano però inclusi gli immigrati)
L’Europa non ha competenze dirette sulla sanità, pur avendo individuato degli standard minimi di assistenza. Per il
resto, la sanità è di competenza dei singoli stati. Nel 2007 l’Europa parla di salute per i migranti come di una via per
arrivare al benessere collettivo: la salute viene vista come bene indivisibile (e questo è un passaggio culturale
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importante) e come salute globale.
“Rivolgersi alla salute degli immigrati non è solo una giusta causa umanitaria, ma è anche un bisogno per il
raggiungimento di un miglior livello di salute e benessere di tutti coloro che vivono in Europa…” (Conclusioni della
Conferenza di Lisbona – Presidenza Portoghese del consiglio dell’Unione Europea, 2007)
Il percorso legislativo in materia di immigrazione in Italia:
- 1986: LEGGE FOSCHI (prima legge sull’immigrazione)
- 1990: LEGGE MARTELLI
- 1995: LEGGE DINI (coincide con lo sdoganamento del diritto alla salute – si veda l’art. 13, dove anche per gli STP –
stranieri temporaneamente presenti – viene sancito il diritto alle cure ambulatoriali e preventive)
- 1998: LEGGE TURCO-NAPOLITANO (coincide con il completamento e il consolidamento del diritto alla salute “per
tutti”)
- 2002: LEGGE BOSSI-FINI
- 2009: PACCHETTO SICUREZZA
I permessi di soggiorno che vengono rilasciati per i migranti extracomunitari sono dovuti a motivi di studio, familiari,
religiosi, di lavoro, di residenza. Con il permesso di soggiorno si attiva obbligatoriamente l’iscrizione al SSN. Tuttavia, in
molti casi, il diritto formale non coincide con il diritto sostanziale: essere iscritti al SSN non equivale esattamente ad
avere il diritto alla salute. L’iscrizione al SSN dura quanto il permesso di soggiorno e rimane valido nelle more di
rinnovo dello stesso; è basata sulla territorialità, cioè alla residenza; quando questa non c’è, vale il luogo di effettiva
dimora. Per quanto riguarda la cura agli stranieri irregolari, sono garantite le cure d’emergenza, quelle ambulatoriali e
quelle preventive (si vedano i Centri ISI in Piemonte).
Se si guardano le statistiche (aggiornate alla fine del 2010), i motivi della presenza degli stranieri in Italia sono dovuti
per il 46% circa al lavoro e per il 50% circa alla famiglia. La maggior parte dei migranti infatti, ha un regolare permesso
e si trova qui con la famiglia, e di questo le politiche devono tenerne conto e improntare la loro azione all’equità e
all’inclusività.
Dal 1995, l’Italia ha scelto “politiche sanitarie inclusive”, in un’ottica di tutela sanitaria senza esclusioni. Ciò ha avuto
l’espressione più alta nelle normative, tuttora in vigore, emanate con la legge 286 del 1998 e nei documenti ad essa
collegati.
L’impianto normativo attuale è il seguente:
LEGGE 6 MARZO 1998, N. 40 (LEGGE TURCO-NAPOLITANO): Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione
dello straniero (gli articoli sanitari sono il n. 32, 33 e 34); ad essa è collegato il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286: Testo Unico
delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (gli articoli sanitari
sono il n. 34, 35 e 36); il D.P.R. 31 agosto 1999: Regolamento recante le norme dell’attuazione del Testo Unico (gli
articoli sanitari sono il n. 42, 43 e 44); la Circolare del Ministro della Sanità n. 5 del 24 marzo 2000 (Indicazioni
applicative del Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286).
Si può dire che, con questo impianto normativo, sia stato costruito un corpo giuridico coerente e moderno con una
chiara volontà di inclusione ordinaria degli stranieri nel sistema di tutela della salute di tutti i cittadini e di
intercettazione del bisogno e della domanda di salute anche dei soggetti ai margini del sistema.
Le principali indicazioni previste dal Testo Unico, con Regolamento d’attuazione e Circolare ministeriale sono:
- L’inclusione nel “sistema salute” dei cittadini stranieri regolarmente soggiornanti
- L’estensione dell’obbligatorietà di iscrizione al SSN e la previsione di copertura sanitaria per tutti gli stranieri
presenti sul territorio (teoricamente si tratta del 97% circa di iscritti obbligatoriamente + 2% iscritti
facoltativamente)
- Il superamento della temporaneità di iscrizione al SSN (inserendo la validità dell’iscrizione anche in corso di rinnovo
del permesso di soggiorno)
- L’eliminazione del requisito della residenza per l’iscrivibilità al SSN
- La parità di diritti e doveri (ad esempio, l’equiparazione dei disoccupati stranieri ai disoccupati italiani)
- L’Ampliamento delle garanzie di assistenza per gli Stranieri Temporaneamente Presenti (irregolari e clandestini)
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-
La garanzia di cure ospedaliere e ambulatoriali per urgenze, malattie essenziali, medicina preventiva e riabilitativa
Particolare tutela per donne e minori
Attenzione alle malattie infettive e alla profilassi internazionale
Divieto di segnalazione all’autorità prefettizia dell’irregolare che ha usufruito di una prestazione sanitaria
Il diritto alla salute in Italia è un diritto costituzionale, come riportato nell’Art. 32 della Costituzione Italiana, ma
occorrono delle precise politiche e norme nazionali e locali affinché si possa passare dal diritto alla salute al diritto
all’assistenza.
La tesi di fondo infatti è che il tema dell’accesso ai servizi si iscrive nello scenario dell’equità: ogni persona dovrebbe
avere l’opportunità di raggiungere il suo pieno potenziale di salute. E’ importante quindi dare a tutti pari opportunità.
Un sistema di salute equo non mira ad eliminare le differenze, ma a ridurre le diseguaglianze.
Il termine diseguaglianza si riferisce alle differenze evitabili e non necessarie, quindi ingiuste; ha inoltre una
dimensione morale, etica e anche politica, soprattutto se parliamo di accesso ai servizi socio-assistenziali e sanitari.
L’8 marzo 2011 l’Unione Europea ha lanciato un monito per combattere le disuguaglianze nella salute, tramite
l’adozione da parte del Parlamento Europeo di una Risoluzione sulla “Riduzione delle disuguaglianze sanitarie
nell’Unione Europea”.
“Le disuguaglianze sanitarie sono il risultato non soltanto di una moltitudine di fattori economici, ambientali e connessi
alle scelte di vita, ma anche di problemi relativi all’accesso ai servizi di assistenza sanitaria” (punto P).
Il Parlamento Europeo invita gli stati membri ad “assicurare che i gruppi più vulnerabili, compresi i migranti sprovvisti di
documenti, abbiano diritto e possano di fatto beneficiare della parità di accesso al sistema sanitario”, per “valutare la
fattibilità di soluzioni volte a sostenere l’assistenza sanitaria per minori irregolari, elaborando sulla base di principi
comuni una definizione degli elementi di base dell’assistenza sanitaria definita nelle relative normative nazionali”
(punto 5) e “a garantire che tutte le donne in gravidanza e i bambini, indipendentemente dal loro status, abbiano
diritto alla protezione sociale quale difinita nella loro legislazione nazionale, e di fatto la ricevano” (punto 22).
Inoltre, il 9 marzo 2011, il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione sulla “Strategia dell’UE per l’inclusione dei
Rom”.
“Considerando che un’ampia percentuale dei 10-12 milioni di Rom d’Europa – la maggior parte dei quali sono cittadini
dell’UE – ha subito discriminazioni sistematiche e combatte pertanto contro un livello intollerabile di emarginazione
sociale” (punto A).
Tra i settori prioritari della Strategia, è indicata l’assistenza sanitaria e il miglioramento delle condizioni sanitarie dei
rom (punto 4a), mentre tra gli obiettivi prioritari la lotta contro le disuguaglianze in campo sanitario con particolare
protezione per donne, bambini, anziani e persone con disabilità (punto 4a).
Dunque, dal diritto all’assistenza si deve passare alle politiche sanitarie, cioè dall’accesso all’effettiva fruibilità dei
servizi.
Le politiche per la salute degli immigrati, si sviluppano in tre ambiti fra loro compenetrantesi: la politica
sull’immigrazione e sull’asilo (legislazione “esclusiva”, che riguarda anche la politica locale sull’integrazione e di
welfare), le politiche nazionali (e locali) di sicurezza e le politiche sanitarie (legislazione “concorrente”).
Queste ultime non sono nazionali ma regionali. La sfera di competenza dello Stato o delle Regioni rappresenta un
pendolo di possibile ambiguità tra la politica sull’immigrazione e l’asilo, assunta come appannaggio esclusivo dello
Stato, e le politiche sull’assistenza sanitaria, competenza concorrente tra Stato e Regioni.
Ecco tre esempi:
- Le reazioni alla legge nazionale n.94 2009
- I ricorsi presentati dal Governo sulla legittimità costituzionale di alcune Leggi regionali sull’immigrazione
- Le specificazioni sull’assistenza ai cittadini comunitari “fragili”.
La maggior parte delle Regioni ha infatti reagito con interventi locali vari (circolari, note, comunicazioni) al Pacchetto
Sicurezza, prima o dopo la sua approvazione. Alcune regioni, tra cui il Piemonte, ad esempio, hanno sostenuto la
formulazione di atti per la dichiarazione di nascita e il riconoscimento del figlio naturale da parte di cittadini stranieri
irregolarmente soggiornanti, e di fronte all’obbligo di segnalazione degli stranieri irregolari da parte del personale
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sanitario, poi non entrato in vigore, molte associazioni di medici e non solo hanno adottato un logo “disobbediente”
che reca la scritta “Noi non segnaliamo!” per dichiarare la propria opposizione alla norma proposta. Il logo si trova
anche sul sito ufficiale della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (www.simmweb.it).
Il nuovo problema da affrontare è ora quello dei neocomunitari. Anche in questo caso le normative sono locali e non
nazionali. In Piemonte e altre regioni si adotta il codice ENI (Europeo Non Iscritto), per il quale si attuano gli stessi
procedimenti del STP (straniero Temporaneamente Presente).
La Società Italiana di Medicina delle Migrazioni ha tra i suoi membri non solo medici e operatori sanitari, ma
chiunque sia interessato alla salute e alla tutela del diritto alla salute. La SIMM si propone di passare infatti dalla
medicina alla salute, dalla delega alla partecipazione e dalla advocacy all’empowerment.
La SIMM produce regolarmente documenti di carattere divulgativo, report e statistiche consultabili sul sito
(www.simmweb.it), tra cui un importante documento della Conferenza delle Regioni, con consulenza tecnica della
SIMM, predisposto dai funzionari/tecnici degli assessorati alla sanità delle Regioni: “Indicazioni per la corretta
applicazione della normativa sull’assistenza sanitaria alla popolazione straniera da parte delle Regioni e Province
Autonome Italiane” (giugno 2011, approvato il 21 settembre 2011 e inviato per l’approvazione della Conferenza StatoRegioni).
È importante tenere sempre presente le determinanti sociali della malattia. Il progetto migratorio comprende la fase
prima del viaggio, durante la quale si attua automaticamente un processo di selezione (l’effetto migrante sano, per cui
parte solo chi gode di buone condizioni di salute), e in seguito di esposizione, la fase del viaggio (per mare, deserto,
ecc) e infine la fase dell’accoglienza, dove tutto concorre a determinare lo stato di salute del migrante, dall’ambiente di
approdo, all’alimentazione, alla casa, alle condizioni di lavoro, alle relazioni sociali. Se il progetto migratorio esiste in chi
parte e si realizza, di sicuro esso “difenderà” la salute del migrante; se invece il progetto migratorio fallisce, allora
emergeranno le criticità nella salute del migrante.
“…Le misure sanitarie per i migranti che siano ben gestite, inclusa la salute pubblica, promuovono il benessere di tutti e
possono facilitare l’integrazione e la partecipazione dei migranti all’interno dei paesi ospitanti promuovendo
l’inclusione e la comprensione, contribuendo alla coesione, aumentando lo sviluppo” (Dichiarazione di Bratislava a
conclusione dell’8° Conferenza dei Ministri Europei della Salute, 2007).
Lavori di gruppo
In relazione all’argomento proposto durante la lezione vengono presentate a tutta la classe due storie.
Prima storia
Il protagonista della storia è un uomo di 50 anni di nome Mohamed proveniente dalla Somalia.
Mohamed ha lo status di rifugiato, vive in un centro di accoglienza in cui non è residente ma in cui ha il domicilio. È
iscritto al servizio sanitario nazionale. Ad un certo punto della sua permanenza presso il centro M. comincia a
manifestare dolori agli arti inferiori con carattere di ingravescenza. A causa di questi dolori M. viene ricoverato presso
l’ospedale territoriale di competenza. Gli viene diagnosticata un’infezione tubercolare e per questo motivo viene
trasferito all’Amedeo di Savoia in cui viene dichiarato affetto da TBC. Con il passar dei giorni oltre al dolore M.
comincia ad avere difficoltà di movimento agli arti inferiori. Queste difficoltà si tramutano in paralisi tale da
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compromettere l’uso delle gambe. A questo punto l’ospedale comunica che il paziente, essendo stato sottoposto a
tutte le cure possibili per la TBC, deve essere dimesso di li a poco. M. viene trasferito presso un centro di riabilitazione
in Lombardia dove il trascorre un paio di mesi allo scadere dei quali viene dimesso per esubero. Per comunicare ciò il
primario della struttura contatta la Prefettura di Torino la quale per tutta risposta si rivolge alle associazioni.
A questo punto, quale potrebbe essere la soluzione?
Ognuno dei partecipanti presenta una propria riflessione, un proprio dubbio o una propria soluzione.
1. M. aveva una rete amicale o era completamente solo? Gli unici amici che aveva erano in un centro di
accoglienza a Firenze.
2. Che relazione c’era tra la TBC e la paralisi agli arti? C’è una responsabilità ospedaliera?
3. Possibile ragionamento su due tempi
- trovare una situazione temporanea (anche la casa di un operatore che si offra disponibile ad ospitare
il rifugiato);
- successiva (attingendo dalle risorse del territorio ma anche dalla rete creata con le diverse
associazioni).
4. C’erano dei fondi da utilizzare? i costi per le spese vive erano coperti dalla regione ma cioè escludeva la
possibilità di accedere a strutture private a a pagamento.
5. Aveva bisogno di una riabilitazione? Camminava? Aveva bisogno di una carrozzina?
- M. era paraplegico e necessitava di tutte le cure/assistenza previste dal caso.
6. Ci si poteva rivolgere ai servizi sociali? Tornare dove era prima?
7. Poteva svolgere il ruolo di interprete all’interno della struttura ospedaliera? No perché il suo italiano era
molto scarso.
Soluzione/i
La soluzione presa dal coordinamento viene elaborata a partire da una considerazione:
bisogna riflettere su cosa significava far riconoscere un diritto.
Ci si avvale della consulenza e collaborazione dell’Asgi e del Gris.
Due le soluzioni che si delineano :
1. Soluzione temporanea: s telefona al centro di riabilitazione concordando il giorno delle dimissioni per il
paziente per poter organizzare in questo modo il trasporto presso la struttura ospedaliera territoriale di
riferimento. Dopo un momento delicato e grazie all’intervento di una dottoressa consapevole dei diritti
spettanti al paziente M. viene ricoverato per ulteriori accertamenti.
2. Verificare la correlazione tra TBC e paralisi: questo approfondimento ha fatto si che si scoprisse che la paralisi
fosse avvenuta per una compressione del midollo e che il rilevamento tardivo da parte dell’ospedale avesse
certamente compromesso il decorso della malattia. M. viene trasferito per un mese e mezzo presso l’unità
spinale della Regione Lombardia per poi far ritorno in una struttura per disabili dove poter effettuare la
riabilitazione. Oggi M. ha riacquistato in parte l’uso delle gambe (grazie all’utilizzo di un girello),ha ottenuto la
residenza presso la struttura e in questo modo ha ottenuto anche l’invalidità. Ad oggi l’obiettivo è trasferirlo
presso una struttura torinese.
Seconda storia
Questa seconda storia, diversa dalla precedente, ha a che vedere con la difficoltà di far riconoscere un diritto. La
protagonista della storia si chiama Mulu, viene dall’Etiopia ed è madre di una bambina. Nel suo viaggio per arrivare in
Italia , passando anche dalla Francia M. rimane incinta. Dopo lo sgombero della clinica San Paolo M. viene trasferita
presso il centro della Croce Rossa di Settimo Torinese. Inserita in un percorso M. si trasferisce in un appartamento
nella cintura di Torino, non ottiene la residenza ma solo un domicilio. Munita di documento attestante il proprio
domicilio M. si reca presso gli uffici della Asl di riferimento per effettuare il cambio del medico. L’impiegata dello
sportello le richiede la carta di identità, documento che M. non ha perché non residente.
A questo punto, quale potrebbe essere la soluzione?
1. Ribadire l’ assurdità della richiesta affermando che non è vero che M. ha l’obbligo di mostrare una carta di
identità per ottenere l’assegnazione di un medico per se e ed un pediatra per i propri figli (bisogna cioè fare
pressione).
2. Si parla con la San Vincenzo e si chiede l’intervento diretto dell’associazione.
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3. Si contatta l’Asgi.
Soluzione:
Tutti e tre le possibilità presentate vengono considerate valide ed efficaci per far valere un diritto non riconosciuto.
Bibliografia | Nono incontro
Geraci Salvatore, Bonciani Manila, Martinelli Barbara [2010], La tutela della salute degli immigrati nelle
politiche locali, Roma, Caritas, http://www.caritasroma.it/wp-content/uploads/2010/09/DIRITTO_ALLA_SALUTE.pdf
Decimo Incontro
6 dicembre 2011
Titolo
Progettazione: leggere il territorio, scegliere gli obiettivi, rispondere ai vincoli
Relatori
Simona Sordo, Cooperativa ORSO, Torino
Cristina Molfetta, Ufficio Pastorale Migranti
Michele Manocchi, MOSAICO – Azioni per i Rifugiati
Lavori di gruppo
Presentazione dei lavori di gruppo
(Gruppo “Giornata Mondiale del Rifugiato”)
Studentessa 1
Gli obiettivi del progetto per noi sono la sensibilizzazione, l’informazione e la formazione. Noi siamo un gruppo di
associazioni con degli stand.
I beneficiari diretti sono i rifugiati e i cittadini; gli indiretti, invece, sono le istituzione e le associazioni.
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I temi da trattare per noi sono due: l’accoglienza e il diritto di cittadinanza.
Abbiamo scelto come luogo il parco Michelotti perché dispone anche di teli in caso di pioggia. Bisogna essere
previdenti!
Per quanto riguarda la cronologia, per noi la giornata dovrebbe andare in questo modo:
alle 7 di mattina iniziamo a montare gli stand e tutto il materiale che già abbiamo;
alle 10 offriamo caffè e the per colazione (abbiamo previsto un costo di 200 euro e una partecipazione di 250 persone);
alle 11 inizia il primo dibattito sull’accoglienza, con un moderatore e 4 interventi di mezz’ora ciascuno. Abbiamo
pensato di chiamare una scrittrice somala per il ruolo di moderatore, due professionisti per una lezione interattiva e
due testimonianze di rifugiati per un totale di 500 euro, cioè un rimborso spese.
dalle 13 alle 14 è previsto il buffet. In questo caso siamo un po’ indecisi: o facciamo un subappalto e non paghiamo
niente, facendo un pranzo a pagamento di 2-3 euro e lasciando tutto il guadagno agli stand, oppure lasciamo il
compito alle associazioni autorizzate a cucinare più gli sponsor. In ogni caso non spendiamo niente.
Magda
Per le associazioni autorizzate non avete previsto neanche un rimborso spese per l’acquisto degli ingredienti?
Studentessa 1: no, perché il pranzo costa 2-3 euro e tutto l’introito sarebbe loro.
Dalle 14 alle 15 guardiamo un film;
dalle 15 alle 17 c’è un dibattito sulla cittadinanza con due professionisti, due rifugiati e un moderatore;
dalle 17 alle 18, invece, faremmo un spettacolo del teatro dell’oppresso.
Studentessa 2
Il “teatro dell’oppresso” può avere una brutta etichetta, ma può essere molto interessante e soprattutto ci consente di
tirare le fila della giornata e di far partecipare in modo attivo gli astanti che quindi non stanno in poltrona tutto il
tempo ad ascoltare, ma hanno poi alla fine un momento per intervenire. Il teatro dell’oppresso è un teatro della
spontaneità, dove non ci sono attori professionisti ma si cerca di mettere in scena un problema e di risolverlo
contemporaneamente alla messa in scena. Tutti sembrano sempre molto restii, ma da quel che ho visto sempre io, alla
fine si crea un momento di unione, di confronto ravvicinato che può essere utile e che magari spezza un pochino la
partecipazione passiva.
Studentessa 1: Dopo tutto ciò, abbiamo previsto una pausa fino alle ore 22, quando è previsto l’inizio dei concerti.
Abbiamo pensato di far esibire i vari gruppi di rifugiati, a seconda della nazionalità per dare un’idea della musica del
posto. Il costo massimo previsto è di 300 euro. Sarebbe bello un patrocinio economico della città di Torino!
Per pubblicizzare l’evento, vorremmo stampare volantini (per una somma pari a 500 euro) e creare un evento su
Facebook.
Per ottenere un indice di gradimento, abbiamo pensato di disegnare su tre cartelloni bianchi una faccia sorridente, una
normale e una triste. Ad ogni partecipante verrà distribuito un post-it giallo sul quale scriverà il proprio commento e lo
attaccherà alla faccia che ritiene più appropriata in base al suo gradimento. Inoltre metteremmo a disposizione un
quaderno per i commenti più lunghi.
Cristina Molfetta
Quindi dei 2000 euro di budget che vi abbiamo dato quanti ne spendete?
Studentessa 1
Spendiamo tutto: 500 per i volantini, 200 per la colazione, 500 per il dibattito della mattina e 500 per quello del
pomeriggio, 300 euro per i concerti.
Michele Manocchi
Va bene. Adesso presenta il secondo gruppo riguardo la “sensibilizzazione”. (min 7.43)
Studentessa 3
L’obiettivo è sensibilizzare le realtà limitrofe ai luoghi in cui risiedono i richiedenti e i titolari di asilo politico e quindi
pensavamo alle zone limitrofe alle case occupate o alle case di accoglienza o di seconda accoglienza, quelle successive
alla prima ondata. L’obiettivo dunque è quello di promuovere una convivenza/conoscenza e di sensibilizzare chi non è
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rifugiato e che si ritrova nel quartiere una popolazione di rifugiati.
I beneficiari diretti sono i rifugiati e il contesto territoriale; i beneficiari indiretti sono nuovamente i rifugiati e tutta la
cittadinanza. Infatti, visto che l’obiettivo è soltanto su un territorio o un quartiere, contiamo come beneficiari indiretti
tutti gli abitanti verranno a sapere dell’iniziativa.
Come partner abbiamo pensato ad associazioni e cooperative che gestiscono l’accoglienza dei rifugiati.
Come budget abbiamo 5000 euro e ne potevamo spendere solamente il 20% per il personale ed è per sopperire a
questa cosa abbiamo pensato di coinvolgere altre associazioni. Non potevamo nemmeno spendere soldi per la
struttura, quindi, senza nessuna base operativa, abbiamo dovuto per forza appoggiarci alle associazioni, che pure loro
hanno interesse a sensibilizzare.
Come metodologia abbiamo pensato ad una sorta di cena del vicinato: delle cene all’aperto in estate alle quali ognuno
porta qualcosa (in modo da non dover spendere soldi per le cene).
È itinerante, ovvero noi dovevamo impegnarci per almeno venti realtà in regione e quindi abbiamo pensato di farlo
nella città di Torino nei vari quartieri. In questo modo per venti sere ci sarebbe una cena vicino alle case occupate.
Abbiamo pensato ad un costo massimo di 25 euro a serata per pagare la tassa del suolo pubblico piuttosto che la
musica o i tendoni per l’allestimento di tavolate e cose varie.
Studentessa 4
Queste serate, in realtà, possono essere fatte non necessariamente in un mese, ma da primavera a estate inoltrata.
Studentessa 3
Sì, o magari nei fine settimana.
Cristina Molfetta
Va bene, grazie! Ora il gruppo “inserimento sociale”.
Studentessa 5
Noi premettiamo che non abbiamo finito! Come beneficiari del progetto abbiamo messo dieci uomini tra i 20 e i 50
anni che per qualche motivo sono già iscritti al servizio sanitario nazionale o hanno già frequentato corsi di lingua
basica italiana per cui è una spesa che non dobbiamo sostenere noi.
Provenienza dalla Somalia.
Noi dovremmo essere come associazione promotrice una cooperativa sociale che collabora con il comune e l’istituto di
cultura somala. Semplicemente cercavamo di trovare un modo, un criterio..
Cristina Molfetta
Magari un canale di accesso a questi dieci signori somali
Studentessa 5
Sì, e anche un criterio di scelta. Per esempio, se fanno riferimento a questo istituto di cultura somala significa che
hanno fatto corsi di lingua. È un criterio un po’ complesso. (min 14:26)
Le spese che dobbiamo sostenere sono:
3 operatori che vengono part-time e vengono pagati 500€ al mese e un mediatore che viene pagato anche lui tra i 500
e i 700€ al mese. Questi operatori devono seguire le persone che impieghiamo e per questo motivo abbiamo scelto
non un’unica modalità d’impiego, ma varie modalità che possono essere gestite in modo autonomo da questi tre
operatori. Il mediatore deve andare in giro per seguire le varie situazioni, dunque nello stipendio sono contate anche le
spese per gli spostamenti.
Di questi 10 uomini, tre vengono impiegati come custodi in qualche edificio, autolavaggio e come persona che si
occupa di pulizie in un supermercato attraverso la modalità delle borse lavoro, cioè una modalità comunale che
prevede l’inserimento di una persona inizialmente pagata da un’associazione, poi se la collaborazione lavorativa va a
buon fine può essere anche assunta.
Il custode ha già un alloggio dove lavoro, dunque non bisogna trovargli un posto.
Altri due uomini vengono impiegati come pastori in un alpeggio e si presuppone che anche loro abbiano già sul posto
di lavoro un posto dove stare, quindi noi spenderemmo solo la cifra per la loro retribuzione mensile (per esempio 500€
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al mese).
Altri due vengono impiegati in un housing sociale, quindi si occupano di pulizie, giardinaggio, custodia, eccetera e
anche in questo caso hanno già un alloggio e la nostra spesa è costituita dallo stipendio mensile.
Uno di loro è uno studente universitario che ha vinto una borsa di studio e quindi vive in una casa-studente.
Infine gli altri due lavorano in una fattoria o azienda casearia e in questo caso noi paghiamo lo stipendio iniziale ma si
spera che successivamente i prodotti venduti all’interno di questa azienda possano costituire un eventuale stipendio.
A tutte le spese mensili che abbiamo calcolato come stipendio, dobbiamo aggiungere i biglietti e gli abbonamenti per
lo spostamento, le tessere telefoniche per telefonare o qualcuno potrebbe avere qualche incentivo come skype in
modo da ridurre la spesa.
Non siamo riusciti a calcolare la nostra spesa totale e capire se rientriamo o meno nei 50000€. Abbiamo solo calcolato
12000€ per le persone che impieghiamo e quindi ce ne avanzano 38 mila.
Michele Manocchi
Quanto dura il progetto?
Cristina Molfetta
Sei mesi. Abbiamo 10 persone con 10 borse lavoro di 500€ al mese, cioè 5000€ al mese. 5000€ per 6 fa 30000€ per le
borse lavoro.
Studentessa 6
In realtà non sono tutte borse lavoro. Ad esempio i due impiegati nell’azienda casearia vengono pagati dai proprietari.
Michele Manocchi
Poi avete preso un punto dell’altro gruppo, cioè la partecipazione attiva alla Giornata Mondiale del Rifugiato.
Studentessa 5
Sì, era per l’inserimento sociale.
Michele Manocchi
Adesso vi facciamo una breve restituzione. La premessa è che non andiamo troppo sui contenuti perché il tema e il
vostro compito erano difficili e avete avuto pochissimo tempo. Quindi vi diamo più che altro alcune visioni di sistema.
Quello che vi diciamo è solo la metà della metà di quello che avremmo voluto dirvi.
Per quanto riguarda la Giornata Mondiale del Rifugiato due osservazioni generali che riguardano tutto l’impianto
dell’organizzazione e che sono abbastanza rilevanti. Da una parte c’è una scarsa definizione del target, cioè a chi si
indirizza questo tipo di giornata?/chi voglio che partecipi?/come lo contatto?. Questo è importante perché in base al
tipo di target che definisco devo poi utilizzare strategie differenti di comunicazione. Per esempio, se io definisco il
target “richiedenti asilo e rifugiati”, magari faccio i volantini multilingue. La definizione del target è molto molto
importante quando si fanno degli eventi.
L’altra osservazione è che voi avete solo una giornata. Non avete come negli altri casi dei progetti che vanno sul lungo
periodo. In un caso, i progetti di sensibilizzazione, avete alcuni momenti ridotti, ma c’è un margine di correzione se
trovate qualcosa che non va; nell’altro caso vedete le stesse persone per sei mesi e c’è un rapporto che si crea. Nella
Giornata Mondiale del Rifugiato, invece, avete un’unica giornata. Se c’è qualcosa che non va, è difficile porvi rimedio e
la giornata finisce. Quindi ci vuole un grandissimo lavoro di progettazione e pianificazione, cioè chiedersi quanto
tempo ci vuole per fare una certa cosa e quando la devo fare. Per esempio, all’università voi avete gli esami
propedeutici, non potete fare un esame se non ne avete fatto prima un altro, qui succede la stessa cosa. Ci sono dei
passi che devono essere infilati in un certo modo altrimenti vi ritrovate ad avere qualcosa organizzata male. Per
esempio, se prevedete un dibattito all’aperto, avete bisogno del service, dei microfoni, delle amplificazioni, ecc che
oltre a costare molto, è molto richiesta e quindi dovete accelerare i tempi. Se ingombrate il suolo pubblico, dovete
avere l’autorizzazione, e quindi quasi mesi servono per ottenerla? Dovete avere questa informazione, perché se voi la
chiedete una settimana prima dell’evento è molto difficile ottenerla.
Questi aspetti qua riguardano anche coloro che hanno gli stand, poi bisogna capire quanti stand ci sono, se serve
materiale come le griglie, quanto tempo prima bisogna contattare le varie associazioni perché si muovano, e via
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discorrendo. Non ci dilunghiamo, però questo è davvero importante.
Il film dopo pranzo potrebbe risultare troppo pesante dopo pranzo, inoltre è difficile riuscire a proiettarlo all’aperto
con la luce del sole. Quindi suggeriremmo di spostarlo prima dei concerti, mentre qui mettiamo una zona gioco-bimbi.
Cristina Molfetta
Solo per chiarezza, forse non sapete che il comune di Torino è uno dei comuni più indebitati d’Italia, quindi la
possibilità che vi dia un patrocinio oltre all’immagine, allo stemma del comune da mettere sulle locandine, rasenta lo
zero.
Michele Manocchi
Questo è importante: per chiedere i patrocini, voi dovete avere già il programma pronto, quindi dovete partire presto
per avere già una bozza di programma pronto perché i patrocinanti vogliono vedere dove piazzate il loro logo e come
lo utilizzate. Prima dovete fare la domanda e devono accettarla, poi devono spedirvi il logo, voi dovete metterlo nella
locandina, spedirgliela e aspettare l’accettazione formale.
Cristina Molfetta
La chiarezza dei destinatari e dei tempi che richiedono le azioni è ricorrente nei tre progetti. Anche questo della
sensibilizzazione era poco chiaro a chi era rivolto. Voi avete inteso la sensibilizzazione come uno strumento che a noi
sembra più di mediazione, cioè non l’avete utilizzata come sensibilizzazione per preparare un nuovo territorio ad
accogliere dei rifugiati, ma l’avete usata come sensibilizzazione di un territorio che i rifugiati li ha già incontrati. La
sensibilizzazione di solito è uno strumento di preparazione, cioè interviene prima di ogni altra cosa, mentre quello che
avete proposto voi sembra più un intervento di mediazione rispetto ad una convivenza che in qualche modo c’è già
stata o a dei contatti che già ci sono, quindi di condivisione, di mediazione culturale, di conoscenza reciproca. Ci è
sembrato insomma che sul termine forse non eravamo tanto d’accordo. La sensibilizzazione è uno strumento
preparativo, più che uno strumento da utilizzare quando c’è già una dinamica in atto. È una differenza tra prima e
dopo: se si utilizza come strumento prima si tende a utilizzare o rispetto a realtà che ci sembra potrebbero essere un
canale o un bacino per individuare case o possibilità lavorative per i rifugiati oppure un prima senza finalità di trovare
delle cose, ma un investimento sulle nuove generazioni rispetto alle scuole e via dicendo. Sempre perché la
sensibilizzazione ha l’obiettivo di passare dei contenuti, la grande domanda che ci veniva era: in queste cene, oltre alla
condivisione del cibo, che cosa uno poteva sapere in più rispetto ai rifugiati? Ci sembrava che il contenuto di
conoscenza rispetto alla problematica dei richiedenti asilo e rifugiati (per esempio, chi sono/da dove vengono/quanti
sono) fosse poco. Quindi ci sembrava un bellissimo strumento però che c’entrava poco con la parola sensibilizzazione,
ci passava la convivenza della convivialità, del cibo ma pochi contenuti rispetto al tema.
E come prima, è vero che in questo caso non c’è un chiaro termine, ma avete usato una tempistica che nei progetti io
non ho mai sentito (“primavera-autunno”); tendono piuttosto a dire “tre mesi, sei mesi”, però potevamo tradurlo
come “sei mesi”. Nell’arco di sei mesi è poco chiaro il tempo che vi serve per la preparazione. Voi avete molto chiaro
che sono venti giornate, ma per arrivare a quelle venti giornate, che siano l’intervento nella scuola o la cena, c’è tutto
un lavoro precedente. Quello che Michele ha detto rispetto alla giornata, moltiplicatelo per venti. In un arco di sei mesi
voi dovete contattare le varie realtà che possono essere la scuola, il quartiere; poi avere già un’idea riguardo le
associazioni a cui vi potete appoggiare. C’è tutto un lavoro precedente, prima della scrittura del progetto, che qui non è
molto chiaro.
Però l’idea di queste cena era bella, magari da recuperare rispetto ad un altro fine.
Ci sono delle domande?
Studentessa 7
Il mio in realtà è un dubbio, non tanto sul termine sensibilizzazione che in effetti è stata la prima cosa su cui abbiamo
discusso molto, ma sulla questione legata alla convivenza/conoscenza e ai contenuti. Il fatto è che ogni volta che si
organizzano proiezioni di film e altro, le persone che tendenzialmente partecipano sono persone già sensibili riguardo
a questo e magari ad altri temi. L’idea era provare a pensare a situazioni di incontro più pratico, più conviviale che
potessero avvicinare dalla portinaia all’insegnante che, con tutti i suoi limiti, è un po’ lo spirito della festa coi vicini.
Cristina Molfetta
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Dobbiamo allora capire come far passare anche qualche contenuto. Non possiamo propinare tanti film, dunque quale
può essere la modalità adatta ad un clima più conviviale? Perché qui ci sembrava che aveste proprio rinunciato a
questa seconda parte. Chiaramente è stata una scelta..
Studentessa 7
È stata una questione di budget, pratica. Spesso l’incontro con qualcosa che non conosci passa più facilmente
attraverso qualcosa di piacevole, senza magari conoscere realmente le problematiche, ma ci immaginavamo le
partnership già esistenti e vedendo le realtà in cui queste persone stanno, in qualche modo avvicinandole perché ci
potesse essere un avvicinamento in termini di incontro pratico con le persone. Con questo non vuol dire che fosse
esaurito il discorso..
Cristina Molfetta
Può essere molto utile, ma ci creava solo un po’ un problema metterlo sotto l’etichetta “sensibilizzazione”.
Michele Manocchi
Più che altro perché sono processi complessi, quindi o tu, passatemi l’espressione, fai finta di non vedere la
complessità e organizzi la cena sperando che non litighino, oppure tu cerchi di “aprire la pentola” per vedere cosa c’è
dentro e organizzi qualcosa per gestire questa complessità o interrogarti su di essa. Una cosa che mi viene in mente è
che se tu lo fai coi rifugiati e i richiedenti asilo che sono in una situazione di prima accoglienza o di occupazione, magari
c’è anche un problema di queste persone di incapacità di riuscire a portare qualche cosa e quindi una nonpartecipazione perché si sentono umiliati dal fatto di non poter partecipare coi loro piatti tipici perché non hanno a
disposizione una cucina. Allora la prima cosa che puoi fare è mettere a disposizione una cucina dove loro possono
preparare le loro cose.
Cristina Molfetta
Sì, i soldi non sono un problema. Ti assicuro che con 5000€ degli interventi di sensibilizzazione con dei contenuti ci
possono stare. In quel caso magari si possono sacrificare un po’ i costi della cena, però investe nella preparazione dei
materiali che possono essere utilizzati in tutti i 20 eventi. Quindi, non era un problema di costi in questo caso, la
difficoltà di questo progetto non era legata al budget perché 5000€ coprono la spesa per riuscire a pensare ad un
“mini-formato” per un evento che poi si moltiplica per venti. I contenuti possono essere schede, film, cena, la caccia al
tesoro coi bambini del quartiere, eccetera. Ognuno poi si immagina quale può essere il percorso di sensibilizzazione. La
difficoltà non era il budget, ma capire come passare dei contenuti coinvolgendo le persone. L’altra cosa, ribadisco che
avete puntato più sul convivere e sul creare una situazione assieme, però solitamente la sensibilizzazione è targata più
sulla popolazione italiana: il rifugiato appena arrivato non deve essere sensibilizzato rispetto al suo problema perché
ce l’ha ben presente, dunque la sensibilizzazione è più uno strumento volto a chi dovrebbe facilitare o rendersi conto
delle difficoltà che possono avere le persone quando arrivano. È rispetto a questo che il progetto non ci sembrava
tanto centrato. Però l’idea è buona e si può utilizzare sotto un altro cappello.
Simona Sordo
L’ultimo progetto sull’accompagnamento era il più difficile, nel senso che parlare di accompagnamento per sei mesi,
già soltanto la finestra temporale implica una complessità di azioni maggiore rispetto a quella descritta negli altri
progetti. Quando però abbiamo preparato le tracce, abbiamo scelto di inserirla perché quello è il testo, ovviamente
riassunto e semplificato, di un bando con termini temporali, economici e risultati attesi: cioè 5000€ per sei mesi per un
indice del 70% come risultato atteso. Quindi è una fotografia di quello che effettivamente trovate e vi è chiesto di
realizzare.
Premesso questo, la sensazione che abbiamo avuto vedendo il vostro progetto è che, più che un progetto, fosse una
relazione che di un lavoro svolto. Se voi foste riusciti effettivamente a mettere in campo questa gamma di azioni, che vi
sono anche venute in mente come risultato a cui tendere, e aveste ottenuto queste cose, avreste fatto un ottimo
lavoro. Però dopo aver ottenuto un finanziamento. Se io ricevo una progettazione di questo tipo rimango spiazzata
perché mi sembra che voi abbiate già immaginato dei percorsi predefiniti all’interno dei quali inserire delle persone
per rispondere esattamente ai criteri del bando. Sembra che non stiate ragionando su delle persone che incontrate e
che dovete conoscere per immaginare dei percorsi, ma sembra che abbiate già in mente qua le persone che magari
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hanno già dei percorsi di accompagnamento avviati che sono perfettamente funzionali a raggiungere gli obiettivi che vi
viene chiesto di perseguire.
Michele Manocchi
Questo è importante perché è una logica di fondo di moltissimi servizi pubblici.
Simona Sordo
Sì, io non mi taro sul bisogno che trovo, ma io mi taro sulla richiesta che mi viene fatta. Cioè mi non mi taro sui bisogni
della persona rispetto a cui in realtà i progetti e le risorse che io trovo diventano uno strumento per rispondere a quel
bisogno, ma io costruisco i progetti in base alla richiesta che mi viene fatta e quindi vado paradossalmente a cercarmi
le dieci persone che sono maschi, perché magari con le donne è più difficile lavorare e che hanno già fatto, come avete
detto voi, un certo tipo di percorso in modo che tutto il lavoro che segue sia più facile. La logica dentro cui noi abbiamo
letto il lavoro che avete fatto è questa. È come se vi foste creati le condizioni ideali per poter raggiungere quegli
obiettivi. Questo è il modo di procede di alcune organizzazioni, cioè concorrono un bando cercando di rispondere alle
richieste del bando nella progettazione, però poi andando a individuare sul territorio le persone che più facilmente
permettono loro di raggiungere gli obiettivi e i risultati che il bando chiede. Dunque, non provando a utilizzare il bando
per rispondere a dei bisogni che le persone che incontrano hanno e che possono essere più lontani, articolati e
complessi di quelli che il bando prefigura.
Studentessa 8
A me è molto chiaro. L’unica cosa è che i dieci titolari dovevamo delinearli noi. Quindi è vero che l’impressione è quella
di una forzatura ai fini di rispondere al bando, però partendo da dieci titolari di protezione internazionale noi abbiamo
dovuto delineare una rappresentazione nostra di questi dieci titolari, quindi capisco che l’impressione sia quella, però
forse se avessimo ricevuto delle indicazioni maggiori sui dieci titolari, avremmo plasmato il progetto sui titolari e non i
titolari sul progetto.
Studente 9
Sì, perché abbiamo pensato che pensare un progetto specifico su ogni titolare avrebbe reso il lavoro troppo lungo per
il tempo che avevamo. Noi abbiamo pensato alle capacità di ognuno.
Studentessa 5
Abbiamo pensato che sono persone diverse, per questo abbiamo diversificato la cosa, proprio perché i dieci titolari
erano immaginari.
Cristina Molfetta
Aspetta, provo a farti una domanda. Se tu devi inserire dieci persone che non conosci e il bando è fatto per persone
che non hanno un lavoro o una casa perché altrimenti non si capisce perché tu dovresti fare un’azione per
l’inserimento sociale e lavorativo, ok? Allora non hanno né un lavoro né una casa, qual è l’azione che tu fai per riuscire
a trovare un lavoro o una casa a dieci persone reali? È questo che mancava. Mancano le azioni intermedie. Prima di
inserire le varie persone nei vari ambiti, quali azioni fai? Bisogna prima capire che uno, per esempio, nella sua vita era
un pastore e così via.
Studentessa 10
È chiaro! noi, sbagliando, abbiamo immaginato di avere già dieci persone con un profilo definito.
Cristina Molfetta
Però rispetto a queste dieci persone che vi siete immaginati molte non avrebbero avuto bisogno di voi ad esempio i
due pastori che stanno in un alpeggio.
Studente 9
No, siamo noi che gli troviamo il lavoro all’alpeggio. Noi siamo una cooperativa sociale che si appoggia ad esempio ad
una cooperativa agraria che riceve queste dieci persone e vede dai loro profili che sono pastori, dunque affidiamo a
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loro questo incarico tramite la cooperativa agraria.
Michele Manocchi
Allora dovevate scrivere questo.
Cristina Molfetta
L’azione importante è selezionare le persone, cioè capire le capacità di queste persone e contattare delle realtà che
potrebbero valorizzarle. Questa parte è il progetto e si è persa totalmente: da quando non hai nessuno a quando
capisci chi sono mancano delle azioni, dei passaggi.
Simona Sordo
Proprio per quello ci sembra la relazione di un lavoro svolto, perché si intuisce il processo di lavoro che credo ci sia
stato dietro, quindi l’idea di aprirsi una rete sul territorio, contattare altri soggetti, cercare delle economie. Io mi sono
immaginata queste cose quando parlavate di housing, cioè provare a inserirsi negli interstizi che ci sono sul territorio,
immaginando dei profili che riguardano prevalentemente i rifugiati. Per chi legge un progetto sembra in realtà
preconfezionata all’interno della quale infilare le persone che è una logica non del lavoro sociale e assolutamente
impropria e fallimentare coi rifugiati. Mai mettere un rifugiato dentro una scatola perché se c’è una persona che
sgomita se messo in una scatola è proprio il rifugiato. La domanda che ci siamo fatti riguardava il target che sembrava
molto adeguato, astuto e costruito per raggiungere i risultati che il progetto si propone; non un target che parte dal
bisogno reale del contesto all’interno del quale lavorate. Rispetto a questo aggiungo una cosa che è importante anche
nel lavoro che avete fatto voi: i bandi sono spesso troppo ambiziosi rispetto alle problematiche che le persone hanno e
agli strumenti che danno, quindi quando si è di fronte ad un bando bisogna porsi, in fase di progettazione e di
realizzazione, delle domande sui requisiti di accesso ai progetti in modo che la nostra azione possa essere sostenibile,
senza però forzare il progetto. È sbagliato infilarsi in una progettazione o in una realizzazione che non tenga conto della
capacità della tua organizzazione di sostenerla e portarla avanti, cioè prendere magari in carico delle situazioni che non
si è in grado di risolvere o accompagnare; per cui anche in questo c’è un ragionamento interessante.
L’ultima questione era legata ai costi del personale. Ovviamente non avendo esperienze lavorative è un elemento che
difficilmente potevate prendere in considerazione. Questa è una nota tecnica e questi costi sono fuori mercato, ad un
mercato regolare. L’altro aspetto è che la quota che avete immaginato di assegnare all’accompagnamento sul totale del
progetto che era 50 mila euro è bassa rispetto al tetto massimo che avevate e rispetto effettivamente al lavoro di
accompagnamento molto intenso e molto articolato che viene richiesto coi rifugiati. Ma questo è solo un dettaglio.
Cristina Molfetta
Se riprendiamo lo schema iniziale, vediamo che c’erano alcune parole che vi abbiamo detto di tenere a mente. Ad
esempio a me piacerebbe entrare nel dettaglio della partecipazione, cioè che cosa intendiamo nel dettaglio con questo
termine. Tutti, infatti, si riempiono la bocca dicendo di avere un progetto “partecipativo” utilizzando l’aggettivo come
passepartout. Ci possono essere tanti livelli di partecipazione. In questi che abbiamo toccato adesso, in quasi nessuno
era incluso il livello più basso che è a sua volta un progetto e spiega perché è così difficile includerlo. Bisogna chiedersi
che cosa è davvero un progetto “partecipativo” su un territorio, in un quartiere o una zona. Significa innanzitutto
conoscere quel territorio/quartiere/zona e fare un lavoro assieme a quelle persone o a quei beneficiari, cioè ai
richiedenti asilo e rifugiati che arrivano o sono già arrivati da tempo, per raccogliere direttamente da loro le difficoltà e
le problematiche che vivono. Nel momento in cui un operatore che lavora già da un tot di anni coi richiedenti asilo e
rifugiati e scrive un progetto da solo senza chiedere nulla ai richiedenti asilo o ai rifugiati sta saltando un passaggio,
perché avendo lavorato con molti di loro crede di essere portatore delle problematiche che negli anni queste persone
gli hanno rivolto oppure si presuppone che un operatore che ha lavorato con queste persone in un’altra città sia
comunque portatore di un sapere che porta d’emblée da un’altra parte pensando che vada bene lo stesso, ma non
sempre funziona in questo modo. A volte si scopre che l’esperienza in un’altra città o in altro quartiere con altri rifugiati
e richiedenti d’asilo di altri Paesi può avere una stortura. Bisogna metterlo in conto. O uno apre un lungo processo di
partecipazione effettiva con le persone che poi potenzialmente potrebbero essere beneficiari e quindi si decide
insieme chiedendo loro se il bando può essere la risposta effettiva ai problemi di qualcuno di loro/quanti soldi che
destinerebbero/quali azioni farebbero, cioè spiegare loro cos’è un progetto, un bando, la logica rispetto a queste cose e
arrivare a una programmazione con loro e presentarlo. Sembra un lavoro infinito, ma in alcune parti è un lavoro che si
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fa. In particolar modo più nella cooperazione internazionale, piuttosto che nell’organizzazione sociale qui, ci sono dei
progetti specifici in varie parti del mondo che sono delle mappe di priorità dei territori. Questo perché la cooperazione
internazionale è stata accusata per anni di avere delle persone che decidessero le priorità dei vari Paesi, dunque negli
anni ha messo in moto dei meccanismi correttivi. Quindi sempre più spesso, dentro la cooperazione e un po’ meno alle
risorse sociali qui si parte da questo livello: vuol dire che rispetto ad un’area o un territorio le persone (teoricamente i
beneficiari) stabiliscono quali sono le loro priorità. Ciò può richiedere anche sei mesi o un anno. Può sembrare un
lavoro molto lungo, ma aiuta: cioè se tu arrivi ad una definizione partecipativa e poni non degli obiettivi che pensi, ma
gli obiettivi che vogliono i beneficiari, hai una mappa iniziale che ti dà uno strumento per orientarti. La vera
partecipazione per me vuol dire questo: partire da una definizione comune. Ciò accade pochissime volte o quasi mai
perché richiede tempo, energie, risorse che spesso non ci sono. Ammesso che uno non abbia energie e tempo per fare
questa cosa, può essere che un operatore che se ne occupa da anni può farlo in proprio, sentendo le persone; non è
così sistematico e condiviso, ma per lo meno si pone il problema. Più una persona conosce una
situazione/problematica/i beneficiari con cui lavora, più ha un quadro ampio; non è mai perfetto, ma più ha un quadro
ampio della problematica, più riuscirà ad utilizzare lo strumento progettuale come uno strumento. Questo vuol dire
che il progetto ha sempre dei vincoli, ma se tu hai un’idea di quali sono le problematiche di quel momento rispetto a
quel problema in quella situazione in cui sei tu che è molto specifica e mai in assoluto, allora in base ai bandi che
usciranno puoi utilizzare il progetto per dare una risposta ad alcune delle problematiche che hai, ma sapendo che non
sarà una risposta a tutto, ma ad un pezzetto. Di bandi ne usciranno sempre. Non abbiate mai l’ansia di dover fare per
forza un progetto perché ne escono sempre, magari con vincoli diversi e fatti da altre persone.
Quindi o tu hai un’idea chiara perché ci lavori, parli con le persone, provi a includere le persone per farti dire quali
sono le loro priorità, oppure un altro mezzo può essere quello che stiamo facendo col FER: non abbiamo fatto
inizialmente una ricerca rispetto alla salute, ma dopo due anni recuperiamo il punto di vista dei rifugiati e questo ci
aiuterà negli anni prossimi rispetto ad una programmazione futura. A volte non hai dei fondi per fare una mappa delle
priorità d’emblée, ma puoi all’interno di un progetto specifico inserire un’azione che ti aiuterà a farne un altro in un
secondo momento. Cioè si inizia a chiedere un po’ di fondi per fare una cosa che ti aiuterà magari successivamente, ma
questo significa che devi avere un panorama o provare ad avere un panorama ampio. Questo vuol dire avere una
partecipazione ampia.
Scrivere un progetto potrebbe farlo anche una persona sola, ma molto brava a leggere il progetto e a rispettare i
vincoli. Ci sono dei progetti scritti benissimo da progettisti che si fanno pagare molto perché sono bravissimi a
rispettare tutti i canoni formali e spesso questi progetti passano. Può essere che formalmente un progetto sia ottimo,
ma non nasca da una conoscenza o esperienza di un programma e avrà dei problemi, perché questi progetti
formalmente ottimi, nel momento in cui tu fai un passo, sono quelli che spesso ti portano in una buca. Meglio è la
situazione in cui più operatori si siedono assieme e ragionano sui problemi che hanno incontrato, su cosa vorrebbero
fare e utilizzano il progetto. Attenzione: sono le persone che utilizzano il progetto e non il contrario! Non state
rincorrendo i fondi che il progetto vi dà, avete un’idea dei problemi e provate a utilizzare quel progetto come uno
strumento per andare dove volete andare voi per risolvere i problemi. Questo è già un livello accettabile di
partecipazione: più persone che con un progettista si siedono insieme e ragionano. Ancor meglio se le stesse persone
l’anno dopo possono aggiustare il tiro, capire che magari quello che hanno pensato magari non funzionava e ancor
meglio se possono recuperare quello che le persone hanno pensato per capire cosa non ha funzionato. Non è la vera
partecipazione, ma è un livello accettabile.
Il terzo livello di partecipazione che, secondo me, è inaccettabile è quello in cui uno ha visto un bando ed è attirato dai
fondi, non sa nulla dell’argomento, prova a scriverlo e formalmente glielo concedono
scrivendo anche che è un progetto partecipativo perché poi farà delle azioni come contattare le associazioni che
lavorano nel settore, l’agente del quartiere che non ha mai visto né conosciuto prima, ma rincorre questa dinamica di
partecipazione per arrivare formalmente a quel risultato che ha scritto all’inizio come obiettivo. In questo caso scrivere
un progetto da solo e utilizzare una metodologia partecipativa non vuol dire niente.
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Undicesimo Incontro
15 dicembre 2011
Titolo
Come gestire il distacco: la giusta distanza e il momento del congedo
Relatrici
(†) Ngô Đình Lệ Quyên, Responsabile immigrazione, Caritas Roma
Antonella Meo, Ricercatrice presso l’Università di Torino
Lavori di gruppo
Gruppo 1: Abbiamo individuato che il sistema di accoglienza è diseguale in Europa e in Italia, inoltre vi è una
distorsione da parte della politica in relazione a questa tematica; bisogna poi chiedersi che tipo di rapporto si debba
costruire con i rifugiati; Vorremmo poi sottolineare meglio la questione di Lampedusa e del conflitto con l’altro; Per
quanto però riguarda il modello Lampedusa, l’abbiamo sottolineato come punto critico essendo sempre descritto
come emergenza, un nodo critico che però funzionava fino al 2008, dopo sono iniziati i respingimenti ed è rimasta
emergenza; a questo punto insistiamo su un lavoro necessario di sensibilizzazione della società che verte su
determinati punti come la relazione da costruire con i rifugiati; la vulnerabilità del rifugiato e la pratica
dell’etichettamento del rifugiato che secondo noi va eliminata infatti l’etichetta da un lato può agevolare ma dall’altro
lato può discriminare il rifugiato quindi pensiamo si debba ripensare la categoria.
Gruppo 2: Abbiamo evidenziato sette punti fondamentali che metteremo insieme in sintesi
1. Inefficienza del sistema italiano che ha grandi pretese ma anche lunghi tempi d’attesa.
2. Inadeguatezza definizione del rifugiato.
3. Inadeguatezza dei tempi di intervento del sistema italiano, i progetti hanno tempistiche limitate e devono
raggiungere però obiettivi troppo grandi.
4. Difficoltà di mediazione tra soggetto e le istituzioni che si presenta a livelli differenti, un primo livello
istituzionale e un secondo livello rappresentato dal rapporto soggetto e operatore.
5. Vi è poi una diseguaglianza dei sistemi di accoglienza, non esiste una logica reale nei vari percorsi
d’integrazione.
6. A quale modello integrativo si deve ispirare l’Italia? Dublino 2 pone dei problemi secondo noi, come ad
esempio la pratica del prendere le impronte digitali che a nostro avviso provoca un danneggiamento al
richiedente asilo in quanto è già svantaggiato ad avere una normativa non comune.
7. Cosa succede quando non c’è risposta positiva alla richiesta d’asilo? Qui evidenziamo il problema relativo alle
espulsioni, secondo noi si dovrebbe favorire un periodo di inclusione.
Gruppo 3: Anche noi abbiamo fatto una suddivisione in punti:
1. Tempi di attesa sono lunghissimi e vi è una posticipazione dei tempi d’arrivo.
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Il destinatario subisce dei processi di spersonalizzazione.
Esiste un problema relativo ai soldi dell’operatore in particolare a quelli disponibili dal pocket money.
Inadeguatezza della legislazione, la governance è infatti frammentata e si riflette sull’inadeguatezza
dell’accoglienza.
Poi bisogna sotto lineare quello che viene chiamato dissistema Italia ovvero la presenza di quel gap tra le
politiche dall’alto che provoca una sorta di fenomeno amorevole nei confronti dei rifugiati.
Sensibilizzazione al fenomeno migrazione forzata; infatti in Italia vi è una mancanza di conoscenza dei
fenomeni relativi al fenomeno; spesso questi dati non arrivano alla maggior parte delle persone; si sottolinea
anche la necessità di una modifica dei sistemi.
Problema aree reti ovvero necessità di creare delle reti per il rifugiato, per ora vi sono reti tra organizzazioni
che però lavorano sempre su progetti a tempo.
Ngô Đình Lệ Quyên
Io sono di origine vietnamita, ho una formazione da giurista in particolare in diritto internazionale, ho anche lavorato
come assistente all’università. Poi sono entrata nella Caritas Roma, dove lavoro da circa 20 anni: qui ho la
responsabilità di decidere se aprire o chiudere un servizio, se e come mantenerlo, e mi occupo anche della selezione e
della formazione del personale.
Per 9 anni ho fatto la promotrice della “rete asilo”, conosco il sistema italiano che in effetti è un “dissistema”, ma
comincerei con ordine a trattare i temi che avete appena evidenziato.
Come gestire il distacco? La distanza? Il congedo? Il distacco è una fase fondamentale per la crescita della persona, ma
il modello del sistema italiano è maternalistico, proietta sul destinatario un surplus di affettività inutile e crea un
confusione in chi arriva, che si vede trattato come se avesse bisogno di qualsiasi cosa, e questo può sviare. Quando
seleziono il personale guardo il curriculum, e ultimamente i curriculum sono molto elevati prevedono già dei master,
ma pur essendoci tutta questa formazione gli stereotipi sul destinatario dei progetti rimangono. La mia regola
fondamentale è “Regole chiare e patti chiari” cioè quando si dà il via ad un progetto dobbiamo dare l’IN all’inclusione
ma dobbiamo dare anche l’OUT; l’OUT non significa “quando ti senti pronto te ne vai”, ma è predeterminato dalla
conclusione formale del progetto, e si arriva dove si può arrivare.
Io sono solita dare del Lei alle persone perché sono dell’idea che un po’ di distanza non guasti. Le persone che arrivano
in Italia non conoscono la nostra cultura, e io dico “Lei in sei mesi deve farcela”: se lo capiscono subito abbiamo già un
setting adeguato, altrimenti la persona va in ansia, noi cadiamo nel ricatto morale che a quel punto scatta
automaticamente, e il progetto è compromesso.
A Roma venti anno fa non c’erano centri ma strutture aperte dalla Caritas che avevano al loro interno un certo numero
di posti letto destinati a tutte le persone che all’epoca transitavano a Roma dirette verso altri Paesi. Per far uscire le
persone dalle strutture in cui il soggetto era finito bisognava con molta calme dire, ad esempio: “Lei è qui perché
transitava verso il Canada, ma il Canada ha detto No. Io da parte mia ho rispettato i patti, quindi esca dalla struttura”.
Bisogna mantenere il distacco altrimenti il sistema diviene “dissistema” e noi ci troviamo con persone scontente che
stanno buttando la propria vita, che non parlano l’italiano o lo parlano male e l’accoglienza diviene un flop.
Insisto sull’istinto maternalistico del sistema italiano perché si sa che una persona sana se troppo curata rischia di
fingersi malata. Le persone devono uscire con le loro gambe dai progetti, nei tempi stabiliti. Se una persona sa che
abbiamo parlato di proroghe non stiamo rispettando i patti, e se una rissa è sanzionata con l’uscita la rissa deve essere
sanzionata con l’uscita, non si deve cedere. Allo stesso tempo, si devono valutare le diverse situazioni. Ad esempio ora
sto lavorando in un progetto Caritas che finirà il 30 giugno e già nella selezione dei destinatari lo diciamo chiaramente
che finirà il 30 giugno. Inoltre non vado certamente a selezionare casi particolarmente gravi, che so che non
riuscirebbero ad ottenere molto in tempi così stretti.
Per quanto riguarda il discorso relativo ai modelli cui tendere, il sistema italiano ha fatto meraviglie infatti è partito
molto tardi rispetto a Paesi che hanno 20 o 30 anni di tradizione; Paesi con un sistema molto più avviato che hanno
inoltre il vantaggio di avere un sistema sociale come ad esempio l’Austria che possiede un sistema sociale molto forte
e nel momento in cui i richiedenti ne escono si ritrovano nel welfare. Perché è stato inventato Dublino? Perché tutti
volevano andare o in Svezia o in Germania. L’Italia prima di Dublino nel 1990 non faceva nulla: oggi deve affrontare
una domanda di 30.000 posti.
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Per quanto riguarda i modelli esteri da seguire io sono andata in Svezia e ho visitato un centro d’espulsione vicino a
Stoccolma. Il centro era molto diverso dai nostri: struttura di mattoni e vetri, nessuna sbarra, ovunque vetri anti
proiettile perché gli psicologi che lavoravano nel centro ritenevano che le sbarre avessero influsso negativo, gli
operatori non avevano l’uniforme e si faceva fatica a distinguere l’ospite dall’operatore, inoltre non avevano neanche
chiavi per chiudere ma badge elettronici, e addirittura ci fu una partita di pallavolo tra ospiti operatori; il responsabile
mi confessò che i costi erano altissimi, e di fatto sostenibili solo per un Paese come la Svezia, che ha deciso di fare un
certo tipo di investimento, anche se in perdita, perché aderente ai valori di riferimento di quel popolo, ma si tratta di
un modello impossibile da trapiantare. In Francia le cose sono molto diverse: nei centri d’espulsione troviamo la
Gendarmerie, ed esistono anche Paesi con sistemi peggiori del nostro e dove i centri sono molto costosi.
Noi tendiamo a non dare mai la cattiva notizia, ma se al momento dell’approccio sottolineando all’ospite un
“benvenuto in Italia nell’anno 2011 con tale situazione e problematiche” facciamo la cosa giusta, sbagliato sarebbe
dirglielo tardi facendolo sentire vittima di una presa in giro. Io utilizzo una metafora: per fare l’operatore bisogna
essere come un bravo cuoco che fa buona cucina anche con il poco che c’è, e quando l’ospite va in escandescenze lo si
deve approcciare così: “Mi dica cosa vuole, e noi vedremo in cosa siamo venuti meno rispetto a quello che avevamo
concordato all’inizio”. Questo serve ad evitare degenerazioni.
Antonella Meo
Affronterò il tema relativo al punto di vista di un ricercatore sociale che svolge ricerca empirica. Per quanto riguarda la
“giusta distanza”, dobbiamo analizzare i rapporti che si instaurano con il ricercatore e le modalità di accesso al campo
che il ricercatore riesce a mettere in atto. Il punto fondamentale è l’interazione che viene a crearsi tra ricercatore e
attori sociali, che poi viene fatta oggetto di osservazione e analisi. Ma come fare ad analizzare questa relazione? I
metodi di ricerca qualitativi assegnano ai soggetti osservati un ruolo attivo e importante, e attraverso il confronto
prende corpo una relazione che può essere più o meno simmetrica, all’interno della quale i soggetti – ricercatore
compreso – sono spinti da bisogni diversi, a volte non reciprocamente comprensibili o comunicabili. Aggiungo che la
partecipazione al mondo degli attori da parte del ricercatore è sempre un qualcosa di provvisorio.
Si stabilisce una sorta di patto tra i ricercatori e i soggetti osservati, una sorta di alleanza, uno scambio di risorse
diverse. Il ricercatore possiede le tecniche e il sapere fornito dalle categorie concettuali che lui padroneggia; ma è solo
grazie agli attori che possiedono invece le azioni vere e proprie che egli po’ applicare il suo sapere. Ad esempio, una
ricerca può offrire risorse di riflessività agli attori. Il contratto si fonda tra domanda conoscitiva del ricercatore e
domanda degli attori relativa al loro ambiente sociale, il patto tra osservatore e attori, quindi, si basa sulla diversità dei
ruoli.
Vi è poi un aspetto detto della negoziazione cioè un’alleanza che non è mai una volta per tutte ma nel corso del tempo
viene via via ridefinita, perché entrano in gioco le identità degli attori e del ricercatore. Sarebbe poi interessante che il
ricercatore mantenesse traccia delle identità fornite dagli attori nella fase di reciproca conoscenza; infatti, l’identità
degli attori non è pre costituita, data a priori, ma si costruisce proprio nel corso della relazione con il ricercatore, e
quindi essa assume una forma differenze a seconda delle situazioni e dei concreti attori in gioco in un dato momento.
Diventa allora importante un punto d’osservazione esterno, bisogna avere la capacità di vedere le cose da un punto di
vista esterno sviluppando una propria riflessività. E per osservare questa sorta di “gioco” è comunque necessario
prendere le distanze. Il tempo sul campo richiede pendolarismo. È importante per una buona ricerca prendersi tempo
per scrivere le storie che si ascoltano, e confrontarsi con i soggetti osservati, i quali a loro volta sono in grado di creare
riflessività.
Occorre considerare che il ricercatore ha un ruolo che lo lega a una istituzione, e questo per alcuni soggetti osservati
può essere un problema, innescare delle incomprensioni e delle diffidenze, connesse alla distanza culturale che separa
l’osservatore dall’attore e possono sorgere anche quando gli attori chiedono al ricercatore di dare loro una mano, di
intervenire, di prendere parte ad esempio in una disputa.
Ma anche il ricercatore può cadere nell’illusione del “salvatore”, di colui che risolverà tutti i problemi. Questa deriva
rende particolarmente difficile il momento del distacco dal campo, anche se questo era stato negoziato con i soggetti
della ricerca.
Al momento del congedo, poi, è facile che il ricercatore si senta in debito: come ringraziare i soggetti della ricerca?
Come restituire i risultati del lavoro? E spesso si torna sul campo, lo si frequenta, ad esempio perché si sono create
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delle amicizie con quelli che erano gli informatori o i mediatori di quel mondo che si è studiato.
Dunque, sta ad ogni ricercatore trovare la modalità giusta per il distacco e non ci sono regole definitive da seguire; ciò
che spesso accade in certi ambiti di ricerca è che si mantengono in maniera diversa i rapporti con i soggetti osservati,
ad esempio con attività di volontariato.
Lampedusa dal punto di vista di Ngô Đình Lệ Quyên
Nel luglio del 2006 per un semestre il ministro dell'Interno, allora Amato, incaricò l'attuale sottosegretario agli Esteri,
Staffan de Mistura, di coordinare un gruppo di lavoro di rappresentanti delle principali organizzazioni umanitarie
insieme a una rappresentanza di Prefetti del Ministero dell'Interno affinché fossero esaminate tutte le situazioni dei
centri di espulsione in Italia in vista di una proposta riformatrice, e io feci parte di questa commissione, quindi ebbi la
possibilità di entrare in tutti i centri di espulsione, ma anche nei grandi centri di accoglienza, i cosiddetti ex legge
Puglia, come nei centri per i richiedenti asilo. Durante sei mesi, quindi, lavorammo alacremente, avendo anche accesso
a una serie di informazioni importanti. Questa è quindi la mia conoscenza su Lampedusa. Lampedusa non è un luogo
dove le persone sono sempre arrivate. Come sapete in Italia i flussi negli anni '90 hanno cominciato ad arrivare in
Puglia. Verso la fine degli anni '90 c'è stato l'arrivo soprattutto verso la Calabria: soprattutto i Curdi che arrivavano dalla
Turchia. Tra la fine dei '90 e inizio 2000 è cominciato il flusso verso la Sicilia e verso Lampedusa, in particolare a
Lampedusa, quel piccolo isolotto che sta all'altezza della Tunisia, più vicina alla Tunisia che all'Italia. Una delle battute
che facevano gli “altogradati” della guardia di finanza era: “Diamo Lampedusa ai tunisini, così risolviamo un problema”.
Ho avuto occasione di imbarcarmi con la Guardia di Finanza, la Marina Militare e anche i Carabinieri in lavori di
pattugliamento e di soccorso in mare e un po' conosco le tecniche che vengono adottate.
Che cosa dire su Lampedusa?
Io credo che sia un grande fenomeno mediatico. Intanto perché è chiaro che le persone giunte a Lampedusa dall'inizio
degli anni 2000 non sono state a carico della comunità lampedusana: i costi dell'accoglienza sono stati a carico del
Ministero dell'Interno che ha dapprima aperto un centro di accoglienza nei pressi dell'aeroporto e in seguito un altro
grande centro, di un certo livello. Tutti i costi, comunque sono stati a carico del Ministero dell'Interno. La popolazione
locale non vedeva arrivare i migranti. Qualsiasi luogo italiano, qualsiasi parrocchia italiana ha visto passare più stranieri
della parrocchia di Lampedusa, perché le operazioni di soccorso avvengono in mare: l'Italia – se vuole – interviene in
mare. Se non vuole intervenire, allora non interviene. Tendenzialmente, però, interviene. Sapete che c'è un controllo
satellitare etc., quindi non è che dalla sera alla mattina le persone arrivino nel porto. Se li fai arrivare su dal porto è
perché comunque sai che stanno arrivando verso il porto, oppure lo sai già ore e ore avanti che c'è una barca alla
deriva etc. etc.
Quest'estate sono stata per una visita di studio anche a Malta, e con Malta i rapporti non sono buonissimi. Gli stessi
militari italiani mi dicevano: “preferiamo andare noi a salvare le persone in mare piuttosto che aspettare che le
prendano i Maltesi, poi magari non ce la fanno a portarle, poi magari dobbiamo andare pure ad aiutare i Maltesi a
recuperare le loro persone. Perdiamo più tempo e rischiamo tutti molto di più, perché quando si va in mare a fare
un'operazione di soccorso non è per nulla semplice”. Non ci vuole niente: basta che la gente si muova, si rovescia la
barca, la gente annega ed è finita, quindi si fa il possibile per farlo in condizioni di sicurezza.
Le persone vengono quindi soccorse in mare e caricate sulle imbarcazioni italiane e portate a riva. Quando vengono
portate a riva c'è, da sempre, un sistema ben preciso: di solito arriva il furgoncino dell'ente incaricato di gestire
l'accoglienza nel centro x o y che è finanziato dal Ministero, carica tutte le persone che devono essere caricate e poi le
porta al centro. Io ero lì in quel periodo, tra l'altro insieme a un fotografo perché volevamo fare un servizio. Tutta l'isola
sapeva che noi dovevamo fare un servizio, anche perché ormai mi conoscevano: di Vietnamiti a Lampedusa non è che
ce ne fossero tanti. Mentre aspettavamo lo sbarco frequentavamo i bar, i ristoranti, tutti i posti dove c'erano quelli
della marina, della guardia di finanza e quant'altro. Quindi si diceva: “Possibile che è estate, è luglio e non arriva
nessuno? Cioè, proprio quando ci siamo noi qua?” Uno sta una settimana lì e ha già fatto il giro di tutta l'isola, ha
conosciuto tutti: è veramente un'isola molto piccola.
Quando le persone vengono portate dal porto al centro nessuno le vede. Direi che il turismo a volte è un po' perverso.
C'era gente che veniva lì è diceva: “Non è che ogni tanto potremmo un po' vedere questi che arrivano?”.
Noi stavamo lì per fare un servizio fotografico, e per una settimana non è arrivato nessuno. Il giorno che sono arrivati
noi eravamo dall'altra parte dell'isola.
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Io ho visto arrivare il furgoncino: l'operazione è avvenuta quasi in maniera militare, cioè non s'è visto niente. Uno che
sa che funziona in un certo modo si rende conto, ma altrimenti non ci si accorge di nulla. Una volta condotti nel centro,
stavano dentro il centro. Non è che uscissero. Quindi l'impatto sulla popolazione non c'era. Stavano là 2/3/4/5 giorni,
quello che serviva per portarli poi secondo le condizioni del mare o quant'altro sul continente.
Qual è il sistema Lampedusa? Lampedusa è un centro che può avere natura o di centro di prima accoglienza e soccorso
o di centro di espulsione. L'Italia tendenzialmente ne ha fatto un centro di prima accoglienza e soccorso: ti prendo, ti
asciugo, ti faccio un breve screening, prendo le impronte digitali, etc., dopodiché ti porto da un'altra parte. In
quest'altra parte farai domanda d'asilo oppure si constata che non ci sono le condizioni perché tu faccia la domanda
d'asilo, ergo espulsione, ti do un bel foglio di espulsione, t'arrangi, poi in realtà non t'espello subito, perché troppa
fatica, troppi soldi, e quindi c'era un sacco di gente che mi diceva, quando facevo parte della commissione Di Mistura:
“Sono arrivato a Lampedusa, m'hanno portato a Caltanissetta, adesso mi danno un permesso di soggiorno di 5 giorni”.
Dico: “Qual è questo permesso di soggiorno di 5 giorni?”. Era il decreto di espulsione. Glielo si dava perché non aveva
fatto domanda d'asilo, non avevano interesse a far domanda d'asilo: perché farla? Non sono un rifugiato, non c'è
nessuna speranza che mi riconoscano, mi danno un pezzo di carta in cui mi dicono che devo andare via. Non me ne
vado via e vado dove mi pare. Lo chiamano permesso di soggiorno, questo è il sistema Lampedusa. Per cui la logica è:
arrivo a Lampedusa, ti porto nel centro di Crotone, il più grande d'Europa, lì se tu sei un richiedente ti metto nel centro
ad hoc per richiedenti, se non sei un richiedente ti faccio l'espulsione e ti rimando nel tuo paese. Quante di queste
persone hanno effettivamente ricevuto il foglio dell'espulsione che poi s'è concretizzato in un rimpatrio coattivo?
Pochissime. Perché per fare un rimpatrio coattivo bisogna che la persona dica chi è, da quale paese proviene, si prenda
il lasciapassare, perché chiaramente il passaporto non te lo consegna per essere rimpatriato dopo che ha speso un
sacco di soldi per venire. Quindi tutta questa operazione vuol dire: ti devo mettere in un centro di espulsione, ci devi
stare tutto il tempo che serve per fare questo lavoro qui, magari in questo periodo non si riesce neanche ad avere
l'autorizzazione da parte del Paese di provenienza (del supposto Paese di provenienza) e l'espulsione non si riesce a
fare.
Nell'anno in cui noi abbiamo fatto tutto questo giro con la commissione Di Mistura c'era un tasso di espulsione del 3538% circa, una percentuale discreta. È una media buona a livello europeo, però erano quasi tutti romeni, prima
dell'ingresso della Romania nell'Unione Europea, quindi il dato è sviato.
Quando io sono andata con la commissione Di Mistura in Spagna, gli Spagnoli erano molto fieri, dicevano: “Noi
abbiamo un tasso d'espulsione altissimo: l'80%”. I nostri Prefetti della commissione dicevano: “Dateci la ricetta, come
fate a fare l'80% di espulsioni?”. Perché facevano un trattenimento selettivo: trattengo quelli che so provenire da Paesi
con i quali ci sono degli accordi, per cui effettivamente il rimpatrio sarà facile. Invece se tu vai a prendere chiunque ti
capiti... Se io prendo delle persone che sono di supposte origini con le quali il governo spagnolo ha degli accordi di
riammissione, ci sarà una facilità di identificazione e di rimpatrio coatto. Se mi capita un cinese, e io so che i Cinesi non
collaborano, allora non lo trattengo. Il che non significa che non ci siano Cinesi espellibili. Però di fatto io non li
trattengo perché ci vuole troppo tempo, ci vogliono troppo soldi, non ne vale la pena e quindi è così. Per cui anche
quando andate a vedere i dati dei centri di espulsione, vanno letti alla luce di questi aspetti.
Il sistema Lampedusa, finché s'è trattato di “ti prendo, t'asciugo, ti faccio lo screening, etc. e poi ti porto nel resto del
Paese, allora andava benissimo. Se voi foste andati a Lampedusa nel 2001/2002, come me, avreste visto che si andava
ai ristoranti, si spendeva pochissimo, c'erano pochissimi hotel e nessuno aveva il riscaldamento. Se ci andavate verso il
2007/2008/2009 era aumentato il costo dei ristoranti, era aumentata vertiginosamente la cifra degli hotel e tutti quanti
stavano mettendo il riscaldamento, perché, con tutti i poliziotti che vi si recavano, si faceva business anche d'inverno.
Quindi io non so quanta gente alla fine protesti di questa situazione. È vero che l'isola è stata a un certo punto
militarizzata intorno al 2008/2009, ed è stata una cosa impressionante. Questo è dovuto al fatto che a un certo punto
gli hanno cambiato lo status: da centro di accoglienza era diventato centro di espulsione. Nel 2002/2003 era tornato ad
essere centro di espulsione, poi centro di accoglienza. Quindi è la condizione dello status del centro che cambia la
natura. Quando tu porti uno che sbarca dentro un alloggio, gli dici: “Si lavi, si riprenda, mangi qualcosa, dopodiché la
mandiamo sul continente”, quello sta tranquillo, non si muove. Perché si dovrebbe muovere? Altra cosa è: “Guardi, sa
che c'è? Dopodomani la rimpatrio”. Allora sì che comincia a essere un po' nervoso.
Per un certo tempo, quando il centro è stato di espulsione, le espulsioni avvenivano addirittura direttamente da
Lampedusa, e non perché non li si volesse portare a Crotone, ma perché una volta che tu li poti a Crotone, dove il
centro è molto piccolo (cioè, il centro è uno dei più grandi in Europa, anzi il più grande come centro di accoglienza, ma
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il centro di espulsione è molto piccolo). Quindi non riusciva a contenere le persone che dovevano essere espulse.
Quindi di fatto portarle a Crotone voleva dire: scappate. Per cui il Ministero ha detto: “Li rimpatriamo”. Sulla base di
che cosa li rimpatri a Lampedusa? Sulla base del fatto che “a occhio” sembri egiziano, “a occhio” sembri tunisino. Una
volta conveniva non essere chiari, ma essere scuri, perché essendo un po' più scuri si passava per somali o etiopi, etc.
Forse viene dal Corno d'Africa, quindi potrebbe essere un richiedente asilo. Quindi tutti i neri avevano la possibilità di
essere un po' “parcheggiati” e forse di finire a Crotone, dove con un po' di fortuna – o perché richiedenti asilo o perché
ormai le porte erano aperte e riuscivano a intraprendere un percorso. Invece tutti quelli che erano chiari venivano
rimpatriati “ipso facto”, il che dal punto di vista del diritto internazionale è estremamente discutibile, infatti è durato
per un po' e poi hanno cambiato sistema. Il modello Lampedusa a un certo punto, dopo questa stagione 2002/2003 del
rimpatrio “a occhio” (quando lo racconto ai colleghi stranieri è difficile da spiegare. Si chiedono: “Sulla base di che
cosa? Perché uno è chiaro?”).
Sapete come si fa l'identificazione? Non sulla base delle impronte, perché è chiaro che prendi le impronte che vanno a
finire nel database, etc., però non è dalle impronte che capisci se una persona è tunisina o meno. In realtà quello che
succede è che quando lo metti dentro un centro di espulsione, lo sistemi nel gruppo di quelli che ti paiono tunisini, poi
chiami qualcuno del Consolato che viene e, parlandoci, ti conferma se è uno dei loro.
Alla domanda che feci – abbastanza impertinente devo dire – come commissione Di Mistura ai vari commissari,
ispettori e responsabili dei centri di espulsione... cioè “tutto questo funziona sulla base della disponibilità del
trattenuto a parlare. Non v'è capitato un trattenuto muto? O che si rifiuta di parlare? Che fate?” Risposta: “Rimane
qua”.
Non c'è nessun sistema veramente perfetto per l'identificazione. La si fa su una presunta nazionalità con la
collaborazione di una persona che come minimo quattro parole le deve dire, altrimenti non si riesce. E ci dev'essere la
volontà da parte del Consolato di dare il lasciapassare, perché altrimenti non si riesce a rimpatriare. Quindi rimpatriare
è complicato. Non è un caso che l'Italia per tanti anni abbia avuto dei grossi problemi con alcuni Paesi, perché i Paesi
tipo la Cina – che non ha interesse di favorire il rimpatrio dei soggetti che sono usciti, d’altronde che gli dai in cambio?
Devi dare qualcosa in cambio. Bisogna dare parecchio in cambio. Poi ci sono altri Paesi, tipo l'Austria che diceva: “Ci
dovessi impiegare un anno e mezzo, io quel cinese lo rimando in Cina. È una questione di determinazione, è un altro
discorso.
L'elemento per cui a un certo punto Lampedusa è assurta a esempio anche a livello europeo è stato quando c'è stato
questo progetto europeo che tra l'altro ha dato anche i finanziamenti al Ministero dell'Interno che ha messo su un
presidio a Lampedusa dove erano presenti l'Unhcr, la Croce Rossa e Amnesty International. Successivamente è arrivato
anche Save the Children, quindi c'era un gruppo di enti che aveva la possibilità di intervistare e orientare tutti quelli
che arrivavano a Lampedusa. E qui, sotto un certo punto di vista uno dice: “Gli Italiani se li vanno a prendere in mare
aperto, anche oltre le acque territoriali per, evidentemente, fini umanitari”. Su questo gli italiani si sono sempre
distinti: andare a prendere le persone in mare, portarle a riva, metterle dentro un centro per un tempo limitatissimo
con delle organizzazioni, diciamo, quelle che vi ho citato, che assicurano quindi anche una gestione delle informazioni
corretta, dopodiché vengono mandati sul continente e poi a seconda della situazione, la situazione evolve come dovrà
evolvere. Questo è il modello Lampedusa. Però quando si dice “un modello che ha funzionato”. Cioè, ha funzionato per
quel pezzo di strada che vi ho illustrato, perché poi una volta che arrivavano sul continente in realtà era il caos totale e
la tensione c'è stata o non c'è stata in base al discorso “se posso o non posso scappare”. Dopodiché perché l'Italia ha
cambiato strada? Perché era noto che arrivare a Lampedusa voleva dire in un modo o in un altro finire sul continente e
poi lì diciamo entrare nell'area Schengen.
Quindi quando il governo ha deciso di fare un rimpatrio, un respingimento direttamente verso la Libia o quant'altro il
quadro è cambiato. Ma io non mi sentirei di creare diciamo troppa enfasi sull'accoglienza dei Lampedusani. I
Lampedusani stanno lì, evidentemente stare su un'isola così esposta non è un'operazione facile, però certamente non
si può dire che siano stati lasciati soli. C'è stato un periodo limitatissimo con l'emergenza Nord Africa, ricorderete, a un
certo punto ci sono stati alcuni giorni in cui le persone sono state lasciate proprio sul territorio lampedusano, quindi si
sono create delle situazioni di disagio rilevante. Però se uno lo vede nell'arco di dieci anni, uno pensa: “quanti milioni
di euro sono caduti sull'isola?”. Come indotto e come tutto il resto? Tanti. Addirittura quando ero andata a parlare con
il responsabile di una delle cooperative che gestivano il personale del centro di accoglienza, beh, le tariffe degli
stipendi erano mediamente molto più alte di quelle che si pagavano a Roma. Cioè erano ben pagati e almeno c'erano
cento famiglie locali che campavano più che bene. Addirittura compravano le sigarette dal tabaccaio dell'isola, e
c'erano decine di migliaia di euro che ogni settimana partivano. C'è tutto un mondo che ruota intorno a questo, infatti
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l'altro giorno stavo al Ministero e dicevano: “Adesso sai che c'è? Si lamentano perché non gli mandiamo più le persone
a Lampedusa”. Dice: “Sai che adesso per dispetto non gliele porto più”. Perché idealmente tu vuoi avere sulla tua isola
un centro aperto, modello europeo, dove ci sono tutte belle organizzazioni che stanno lì 3-4 giorni, poi vanno via. Tu
non li vedi e t'arrivano i soldi lo stesso.
Poi è chiaro che quando il centro diventa un centro di espulsione, militarizzo l'isola, c'erano 500 poliziotti quando sono
arrivata io a marzo del 2009, cioè c'erano più poliziotti che lampedusani e a un certo punto c'era un mio collega
africano, gli dico: “Senti, adesso facciamo uno scherzo: tu comincia a correre per la strada, voglio vedere che fanno”.
Lui diceva: “E se mi sparano?”. “Ti sparano? Ma stanno tutti in mutande, stanno facendo il bagno, scusa, che ti
sparano? Corri, no?”. Non ha corso. Non posso mettermi a correre io, però era da fare come scena, più che altro per
capire. Tanto più per vedere. Però c'erano 500 poliziotti quando sono arrivata io sull'isola, non è una cosa da poco. E
quindi c'è una marea di denaro, d'investimento sul sistema. Poi è chiaro che Lampedusa è stata una bella immagine
dell'Italia, però per qualcuno che conosce un po' il sistema, è chiaro che si tratta solo di un pezzo, piccolo, del sistema.
Ad esempio la fatalità, il caso nei procedimenti di espulsione: “Perché quello è stato espulso e quell'altro no?”. Magari
è capitato che era inverno, i centri di espulsione erano semi-vuoti e allora si sono potuti accanire un po' di più. E invece
un altro non è stato espulso perché è capitato d'estate, ce n'erano un sacco, i centri di espulsione erano tutti pieni e
quindi l’ha scampata.
Cito un'altra nota di colore tanto per parlare di casualità e poi chiuderei. Sempre tanti anni fa, quando ero andata ad
Agrigento in un centro di espulsione, adesso non c'è più per fortuna: terribile, proprio terribile. Tra l'altro non mi
volevano far entrare. Io pur di entrare ero decisa a farmi passare come suora laica. Ho preso un sacerdote e gli ho
detto: “Senta, lei ci va come direttore spirituale, comunque come ministro dei culti; lei ci va, mi porti dietro, mi vesto di
nero, mi dia la croce, facciamo qualcosa, insomma, l'assisto”. E lui fa: “Sì, sì, non si preoccupi, in qualche modo
faremo”. Poi alla fine siamo riusciti in maniera un po' più ortodossa a entrare e comunque quando siamo entrati ho
visto che c'era un'ala dedicata ai trans. Era estate e queste persone stavano in una parte senza tetto, scoperta. Allora io
ho detto: “Ma perché avete questi trans di qua?” “Perché se li mettiamo di là li picchiano”. Dico: “Vabbé, ma adesso
potete perché fa caldo, ma immaginiamo che piova, che faccia freddo, etc., voi non li potreste mettere qui, che
praticamente è all'aperto, no?”. Dice: “In effetti no”. “E quindi?”. “E quindi d'estate sono espellibili, d'inverno non sono
espellibili”. Ecco la casualità: conviene essere trans e esserlo d'inverno. Questa è la morale della storia. Cioè, so che
siete sconcertati, perché non pensavate che la casualità potesse arrivare fino a tale punto, però sì.
In un sistema che è così anomalo, cercare di portarlo a unità, coerenza e tutto quanto e renderlo digeribile al rifugiato
di turno, a mio parere è impossibile. Al rifugiato è come se gli si dicesse: “Questo è il quadro, questo è il Paese. Si fa
quello che si può e lei cerchi di salvare la sua vita, perché tanto è arrivato fin qua e ha già fatto un gran pezzo di strada.
Adesso noi le diamo una mano per non disperdere la grandissima fatica e tutto quello che lei ha fatto per arrivar fin
qua. Ci aiutiamo per questo tempo che ci è dato. Lo facciamo meglio che si può, fissiamo insieme delle regole e poi le
rispettiamo entrambi: lei dalla sua parte e io dalla mia, ok?”. E questo secondo me è la cosa più pulita che si riesca a
fare con un quadro così.
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Corsi di Laurea Magistrale in Antropologia culturale ed etnologia e in Sociologia
Associazioni e Cooperative del Coordinamento “Nonsoloasilo”
Laboratorio interdisciplinare sul diritto d’asilo
Valutazione del laboratorio da parte dei partecipanti
Nell’incontro conclusivo del laboratorio è stato chiesto ai partecipanti di compilare un questionario di valutazione e di
condividere insieme alcune riflessioni di carattere più generale sull'andamento del laboratorio e sulle sue
caratteristiche. Sia dal confronto orale che dai questionari, è emersa una generale soddisfazione nei confronti del
progetto e del suo approccio che ha integrato operatori e studenti provenienti da diverse realtà. Quasi l’80% ha infatti
considerato come molto positiva la presenza di persone con esperienze e background differenti, mentre i rimanenti si
collocano tra coloro che la considerano abbastanza positiva, evidenziando tuttavia alcune difficoltà nel mediare tra
esperienze e richieste diverse. Tra gli operatori, in particolare, la soddisfazione si attesta all’85%, mentre è del 75%
circa tra gli studenti.
È stata ampiamente apprezzata la presenza di relatori diversi, esperti in differenti declinazioni del tema, che hanno
consentito un approccio ampio e particolareggiato al tempo stesso. L’approccio adottato prevedeva in ciascun
incontro una lezione frontale e una parte laboratoriale di gruppo, in cui i partecipanti potevano confrontarsi con
aspetti pratici ed esperienze reali, per mettere immediatamente alla prova quanto ascoltato e valutarne le ricadute
sulla vita quotidiana di richiedenti asilo, rifugiati e titolari di protezione internazionale. Carattere distintivo
dell’impostazione del laboratorio, questa alternanza tra teoria e pratica è stata valutata in modo positivo dai
partecipanti, nonostante i tempi relativamente ristretti di ciascun incontro (3 ore l’uno) abbiano fatto nascere più
volte il desiderio di spazi aggiuntivi per ulteriori approfondimenti e disussioni.
L’utilità del laboratorio per le proprie attività e la diretta traducibilità pratica di quanto appreso durante il laboratorio
rispecchia ancora una, seppur lieve, differenza tra operatori e studenti: se l’ultilità del laboratorio è stata considerata
molto elevata dalla totalità dei partecipanti, la diretta traducibilità dei contenuti è valutata positivamente dalla totalità
degli operatori, mentre gli studenti oscillano tra posizioni differenti. Molti di questi ultimi sottolinenano in realtà la
problematicità di esprimere un giudizio a tal riguardo, in virtù della loro mancanza di esperienza al di fuori di ambiti
accademici che, di fatto, spesso non richiedono una implementazione pratica di quanto appreso in via teorica. A
questa carenza il laboratorio ha tentato di far fronte in due modi. Da un lato proponendo una modalità in cui lezioni
frontali e lavori interattivi di gruppo si affiancassero e rinforzassero a vicenda, dall’altro offrendo agli studenti
l’opportunità di svolgere un periodo di tirocinio formativo nelle realtà connesse all’esperienza del Coordinamento Non
Solo Asilo. La possibilità di svolgere un tirocinio in realtà del territorio attive nel campo del diritto d’asilo è stata un
altro punto di forza del laboratorio, apprezzata e colta da molti studenti. I tirocini attivi o che verranno attivati nel
corso del 2012 sono 13 e vedono coinvolti vari contesti piemontesi che fanno parte della rete territoriale del
Coordinamento Non Solo Asilo.
I temi affrontati sono stati considerati rilevanti dalla maggior parte dei rispondenti e gli ulteriori suggerimenti
pervenuti saranno valutati per proporre integrazioni ad una eventuale seconda edizione del laboratorio. Grazie ai
feedback di questo primo anno di esperienza, sono stati individuati anche alcuni ostacoli di tipo organizzativo e
logistico, che nella prossima edizione si tenterà di appianare quanto più possibile. La valutazione generale
dell’esperimento è comunque di carattere assolutamente positivo e non può che far sperare in una sua seconda
edizione.
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