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“IL ‘DANNO
DIRETTO‘
NELL’ART. 2395
C.C.”
Parte 1 Cass., sez. I, 23 giugno 2010,
n. 15220
Avv. Adolfo Tencati
4 ottobre 2010
Questioni.
Il danneggiato non può invocare l’art. 2395 c.c. quando il pregiudizio
lamentato è il riflesso del danno subito dal patrimonio sociale.
Anche se gli amministratori hanno gestito «in maniera pessima», od il capitale
sociale è andato interamente perduto per perdite, il danno al valore della
partecipazione è riflesso del pregiudizio subito dal patrimonio sociale.
Il danno è, invece, diretto quando le falsità contenute nel bilancio (o nei
documenti similari) sono state idonee a suggerire un finanziamento, o l’acquisto
di un pacchetto azionario, che altrimenti non sarebbe avvenuto.
In tal caso, la responsabilità degli amministratori è aquiliana, ma una corrente
dottrinale minoritaria sostiene la qualificazione contrattuale della responsabilità
stessa.
Orientamenti giurisprudenziali.
Cass., sez. I, 5 agosto 2008, n. 21130, MFI, 2008, 1203 - L’inadempimento contrattuale
di una società di capitali non può, di per sé, implicare responsabilità risarcitoria degli
amministratori nei confronti dell’altro contraente, secondo la previsione dell’art. 2395
c.c., atteso che tale responsabilità, di natura extracontrattuale, postula fatti illeciti
direttamente imputabili a comportamento colposo o doloso degli amministratori
medesimi, come si evince, fra l’altro, dall’utilizzazione dell’avverbio «direttamente», la
quale esclude che detto inadempimento e la pessima amministrazione del patrimonio
sociale siano sufficienti a dare ingresso all’azione di responsabilità.
Cass., sez. I, 12 giugno 2007, n. 13766, GI, 2007, 2761 - Costituisce danno diretto, che
legittima la proposizione di un’azione individuale di responsabilità nei confronti degli
amministratori, quello risentito nella propria sfera patrimoniale da chi, per effetto di una
inveritiera rappresentazione di bilancio, abbia acquistato per un determinato prezzo azioni
di una società aventi, in realtà, valore nullo.
Cass., sez. I, 3 aprile 2007, n. 8359, MFI, 2007, 641 - La responsabilità prevista dall’art.
2395 c.c., per la cui ricorrenza non rileva che il danno sia stato arrecato al socio o al terzo
dagli amministratori nell’esercizio del loro ufficio o al di fuori di tali incombenze, ha
natura extracontrattuale, costituendo un’applicazione dell’ipotesi disciplinata dall’art.
2043 c.c.
Cass., sez. I, 28 maggio 2004, n. 10271, FI, 2005, I, 816 - Fin quando l’assemblea non
disponga la distribuzione degli utili in favore dei soci, l’asserita sottrazione indebita di tali
utili ad opera dell’amministratore di società a responsabilità limitata lede il patrimonio
sociale e solo indirettamente si ripercuote sulla posizione giuridica e sull’interesse
pag. 1-2
economico del singolo socio, cui non compete pertanto l’azione contemplata dall’art.
2395 c.c.
Cass., sez. I, 8 gennaio 1999, n. 97, DPS, (9), 56 - L’azione di responsabilità
contemplata dall’art. 2395 c.c. non può essere esperita al fine di ottenere il risarcimento
del danno subito dal socio in conseguenza del compimento di atti di mala gestio da parte
degli amministratori della società (nella specie, cessione di partecipazione azionaria
detenuta in altra società per un prezzo notevolmente inferiore al valore di essa, così come
risultante dal bilancio, o al valore da attribuirsi a tale partecipazione, così come risultante
a seguito di aumento di capitale di codesta società) in quanto il danno lamentato dal socio
non è prodotto direttamente dall’atto contestato ma si pone soltanto come risultato
indiretto del depauperamento del patrimonio».
App. Milano 23 giugno 2004, GCo, 2006, II, 1049 - Gli amministratori di società sono
tenuti a rispondere ai sensi dell’art. 2395 c.c. del danno ingiusto da loro cagionato
direttamente ai soci od ai terzi a seguito del compimento di un atto illecito nell’esercizio
delle proprie funzioni, mentre rispondono ai sensi dell’art. 2043 c.c. qualora il danno
ingiusto sia stato da loro cagionato a terzi al di fuori della propria attività gestoria.
Trib. Firenze 16 giugno 2008, GI, 2009, 875 - Presupposto non espresso della
responsabilità diretta degli amministratori ex art. 2395 c.c., ma coessenziale alla stessa, è
l’avvenuta violazione del principio di parità di trattamento fra i soci (nell’ipotesi di falsità
in comunicazioni sociali per via di asimmetrie informative create a vantaggio di quelli fra
i soci — attuali o anche futuri — di cui gli amministratori sono espressione), al cui
rispetto la società potrebbe risultare nell’immediato indifferente o interessata di riflesso,
per via della illegittima prevalenza data alla considerazione dell’interesse di alcuni fra i
soci a diretto danno degli altri.
Trib. Milano, sez. X, decr. 30 agosto 2004, DResp, 2005, 755 - Danneggiati dai reati di
bancarotta addebitati ad amministratori, sindaci […] e concorrenti possono essere anche
gli azionisti della società fallita, allorché abbiano riportato danni ulteriori e diversi
rispetto a quelli derivanti dalla svalutazione delle azioni che è effetto indiretto e riflesso
rispetto al pregiudizio subìto dal patrimonio sociale.
SOMMARIO
Questioni.
Orientamenti giurisprudenziali.
Capitolo 1.1 Le ragioni del commento a Cass. n. 15220/2010. - 1.1.1 «Danno diretto» e
fallimento di s. r. l.
Capitolo 1.2 Al capolinea del dibattito sul «danno diretto». - 1.2.1 «Danno diretto» e
prescrizione del’azione.
pag. 1-3
Capitolo 1.3 Rapporti con l’azione sociale di responsabilità. - 1.3.1 «Danno diretto» del
socio di s. p. a.: profili fallimentari.
Capitolo 1.4 Attività istituzionale degli amministratori e «danno diretto».
Capitolo 1.5 La «diretta incidenza» del danno sul patrimonio individuale. - 1.5.1 La
nozione del «danno diretto». - 1.5.2 Uno sguardo alla casistica. - 1.5.2.1 Operazioni
immobiliari e «danno diretto». - 1.5.2.2 Investimenti mobiliari e «danno diretto». - 1.5.2.3
Inadempimenti contrattuali e «danno diretto». - 1.5.2.4 Mala gestio della società e «danno
diretto».
Capitolo 1.6 Il carattere aquiliano della responsabilità per «danno diretto». - 1.6.1
L’inutilità del «contratto con effetti protettivi nei confronti dei terzi». - 1.6.2 L’inutilità
dell’«obbligazione senza prestazione».
Bibliografia.
pag. 1-4
Capitolo 1.1Le ragioni del commento a Cass. n. 15220/2010.
L’importanza di Cass. 15220/2010 (attualmente esaminata) deriva dall’essere una tra le
rare pronunce che, dopo la riforma societaria del 2003, hanno analizzato il «danno
diretto», pretesamente recato dagli amministratori ai soci di s. r. l. Riguardo a tali società
la materia è così regolata:
«le disposizioni dei precedenti commi (che regolano l’azione sociale di responsabilità
contro gli amministratori : N.d.A.) non pregiudicano il diritto al risarcimento dei danni
spettante al singolo socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti dolosi
o colposi degli amministratori»
(art. 2476, 6º co., c.c.).
Rispetto alle s. p. a., invece, l’art. 2395 c.c. così si esprime: «le disposizioni dei
precedenti articoli» 2393, 2393 bis, 2394 e 2394 bis, dedicati all’azione sociale di
responsabilità ed a quella dei creditori sociali, ciascuna nelle sue varie forme, «non
pregiudicano il diritto al risarcimento del danno spettante al singolo socio o al terzo che
sono stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori ».
Dal raffronto tra le riferite disposizioni emerge una sostanziale identità di linguaggio, con
la conseguenza di condividere l’interpretazione giurisprudenziale in forza della quale
«l’azione regolata per la s. r. l. dall’art. 2476, 6º comma, c.c. è la medesima azione
prevista dall’art. 2395 c.c. a tutela del singolo socio o del singolo terzo nella società per
azioni»
(Trib. Udine, ord. 11 febbraio 2005, DF, 2005, II, 808. Sul provvedimento cfr. Bianca M.
2005, 808).
Il richiamato provvedimento è prezioso per il seguito della trattazione. Alla sua luce,
infatti, i soci di s. p. a. e di s. r. l. hanno posizione identica a fronte del «danno diretto»
pretesamente sofferto.
Perché, allora, il legislatore ha quasi letteralmente ripetuto, per le s. r. l., la disciplina da
sempre vigente per le s. p. a.?
«La mera reiterazione del contenuto della norma risponde […] ad una precisa volontà
legislativa tesa ad estendere a soci e terzi di società a responsabilità limitata,
direttamente danneggiati da fatti di mala gestio orditi dagli amministratori, le stesse
garanzie e gli stessi strumenti di tutela previsti in tema di società per azioni»
(Franzini 2008, 490).
pag. 1-5
Così ragionando ci si pone in sintonia con le scelte adottate dalla riforma societaria: la s.
r. l. non è più «una piccola s. p. a.», bensì una «forma societaria» alla quale è apprestato
un autonomo corpo di regole.
Conseguentemente, per parificare i soci dei vari modelli di società di capitali nella
protezione contro le malefatte degli amministratori, è stato necessario riprodurre (all’art.
2476, 6º co., c.c.) la disposizione ex art. 2395 c.c.
Le elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali — stante la vigenza di quest’ultima norma
da maggior tempo — si sono particolarmente sviluppate riguardo all’art. 2395 c.c., ma
ciò non toglie importanza a «danno diretto» lamentato dai soci di s. r. l.
1.1.1
«Danno diretto» e fallimento di s. r. l.
L’intervenuto fallimento della s. r. l. non trasferisce all’organo della procedura
concorsuale la legittimazione attiva all’azione risarcitoria per «danno diretto»,
sottraendola al singolo socio o terzo. L’art. 146, 2º co., lett. b), l. fall. richiama invero
l’art. 2476, 7º co., c.c., il quale (a sua volta) richiama «i precedenti commi», ivi
compreso il trascritto 6º.
Ma dal descritto «gioco ad incastri» delle norme non è dato trarre che il curatore (o
l’equivalente organo della procedura concorsuale) subentra al singolo socio (o terzo) che
lamenta un «danno diretto». Ciò per
«la dirimente osservazione che la lettera della disposizione, sebbene non perspicua, non è
stata tuttavia ritenuta bisognevole di modifica, in considerazione della chiarezza della
norma codicistica, e del pacifico principio generale, in virtù del quale il curatore si
sostituisce nell’esercizio delle sole azioni dirette ad ottenere il risarcimento dei danni
cagionati al patrimonio del debitore»
(Guglielmucci 2005, 287; idee simili in Salvato 2009, 1087).
Il «debitore», al quale l’organo della procedura concorsuale subentra, è tuttavia la società.
L’amministratore, invece, risponde per un titolo diverso, ossia la sua condotta
antigiuridica, produttiva di «danno diretto» all’attore.
Capitolo 1.2Al capolinea del dibattito sul «danno diretto».
Cass. n. 15220/2010, attualmente esaminata, corona un dibattito dottrinale e
giurisprudenziale avviatosi all’inizio del secolo XX. Le tappe fondamentali di tale
dibattito sono:
(1) Le contrapposte sentenze della Corte d’appello (App. Roma 8 luglio 1911, RDCo,
1911, II, 663) e della S.C. che, nei primi anni del Novecento, iniziarono la
pag. 1-6
discussione sul «danno diretto», da imputare agli amministratori. Ribaltando il
verdetto d’appello, i supremi giudici diedero particolare rilievo alla
«funzione ‘esterna‘ del bilancio […], avente per iscopo di assicurare il pubblico mercato
dello stato reale ed effettivo della società con la quale si contratta o voglia contrattarsi:
per cui, se le condizioni economiche della società sono in realtà del tutto diverse da
quelle che dal bilancio apparivano, e le azioni acquistate (dal ricorrente) avevano in
realtà un valore molto minore, niuno potrà negare che l'acquirente, il quale si crede leso
da questi artifizi, possa avere un'azione contro gli autori. E questa azione non può essere
altra che quella (per responsabilità extracontrattuale). […] Il titolo dell'azione di
risarcimento è il bilancio infedele, e non […] l'acquisto di azioni ad un prezzo
insostenibile, che rappresenta solo il danno: il fatto costitutivo della responsabilità è
dunque anteriore all'acquisto della qualità di socio. Inoltre l'azione promossa dal terzo
danneggiato non riguarda un danno prodotto alla società (la quale, anzi, resta
avvantaggiata dal comportamento degli amministratori), ma riguarda il danno che al
terzo venne direttamente ed esclusivamente dall'operato degli amministratori: e perciò si
tratta di azione individuale»
(Cass. Roma 24 maggio 1912, RDCo, 1912, II, 945. Le parole tra parentesi sono dello
scrivente).
(2) L’art. 2395 c.c. nella stesura anteriore alla riforma societaria, che si è posto in
sintonia con le ormai remote statuizioni della Corte di legittimità. Come emerge
dal riferito brano, essa applicò agli amministratori — colpevoli del «danno
diretto» — «il diritto comune della responsabilità civile» (Carnevali 1988, 83).
L’inquadramento della responsabilità stessa nel paradigma aquiliano non era
tuttavia pacifico, vigenti i codici ottocenteschi. Sicché redattore del c.c. oggi in
vigore diede voce normativa all’insegnamento giurisprudenziale;
(3) L’art. 2395 c.c. nella formulazione vigente a seguito della riforma societaria.
«Il primo comma è immutato, onde le interpretazioni precedenti conservano piena utilità.
In particolare, non è stato modificato il presupposto tipico della necessità che la condotta
abbia ‘direttamente‘ danneggiato il socio o il terzo, leso nel suo diritto e non quale mera
conseguenza o riflesso del depauperamento del patrimonio sociale»
(Nazzicone 2003, 218).
1.2.1
«Danno Diretto» e prescrizione Del’azione.
La riforma societaria del 2003 ha inserito nell’ormai tradizionale testo dell’art. 2395 c.c.
il 2º co., che recita: «l'azione può essere esercitata entro cinque anni dal compimento
dell'atto che ha pregiudicato il socio o il terzo».
Questa, ovviamente, non è la sede dove discutere se la riferita norma contiene un termine
di decadenza o di prescrizione (v. amplius Ambrosini S. 2004, 1480).
pag. 1-7
Tuttavia non va trascurata l’esistenza dei «danni lungo latenti», ossia che diventano
evidenti quando sono ormai passati oltre 5 anni dall’illecito.
In tale evenienza l’interpretazione rigorosa dell’art. 2395, 2º co., c.c. precluderebbe ogni
azione risarcitoria al danneggiato:
•
•
«prima della verificazione del danno, perché manca un elemento della fattispecie
della responsabilità;
dopo la verificazione del danno, perché è decorso il termine quinquennale dal
compimento dell'atto da parte dell'amministratore (in contrasto con gli artt. 3 e
24 Cost.)»
(Nazzicone 2003, 220. L’esposizione per punti è dello scrivente).
L’unica interpretazione che armonizza l’art. 2395, 2º co., c.c. con le disposizioni
costituzionali testé richiamate è allora quella secondo cui «la prescrizione non inizia a
decorrere che dal momento in cui il danno risulti conosciuto, o comunque conoscibile
attraverso l'ordinaria diligenza, da parte del singolo socio o terzo» (Ambrosini S. 2004,
1482; Zamperetti 2004, 833).
Le precedenti considerazioni tuttavia non riguardano le s. r. l., in quanto la prescrizione
dell’azione risarcitoria per «danno diretto» non è espressamente disciplinata dall’art.
2476, 6º co., c.c.
Non potendosi d’altra parte applicare per analogia l’art. 2395, 2º co., c.c., stante il suo
carattere eccezionale,
«la decorrenza del termine non coincide con la data ‘del compimento dell’atto‘ […],
bensì (con il : N.d.A.) momento in cui si è verificato l’evento dannoso, ovvero dal
momento in cui il danneggiato ne ha avuto reale cognizione»
(Silvestrini 2003, 510).
Rispetto ai «danni lungolatenti», la soluzione è quindi identica a quella presentata dalla
dottrina riguardo alle s. p. a.
Nonostante la ricordata «volontà legislativa» di separare nettamente le norme relative alle
s. p. a. ed alle s. r. l., le considerazioni svolte riguardo ai vari tipi di società di capitali non
sono così distanti come appare a prima vista.
Capitolo 1.3Rapporti con l’azione sociale di responsabilità.
Bisogna prima di tutto chiarire i rapporti tra l’azione prevista da tale norma e quella
sociale di responsabilità (artt. 2393 o 2393 bis) c.c.).
pag. 1-8
L’art. 2395, 1º co., c.c. suggerisce (con la sua semplice lettura) l’autonomia tra le varie
di responsabilità spettanti alla società ed al singolo socio o terzo.
Piace tuttavia evidenziare che la giurisprudenza si è recentemente allineata alla
normativa, così pronunciando:
«la responsabilità risarcitoria dell’amministratore di una società di capitali nei confronti
dei soci e dei terzi non è in alcun modo dipendente, sul piano logico, da quella, di natura
contrattuale, eventualmente fatta valere nei confronti della società, così come questa
seconda non presuppone l’accertamento di quella; ne consegue che, promossa una causa
in primo grado nei confronti sia dell’amministratore che della società, e deceduto nelle
more l’amministratore, la mancata integrazione del contraddittorio, in grado di appello,
relativamente ad uno degli eredi di questo, non si traduce in conseguente inammissibilità
del gravame proposto contro la società, non configurandosi una situazione di
inscindibilità delle cause, ai sensi dell’art. 331 c.p.c.»
(Cass., sez. I, 30 maggio 2008, n. 14558, MFI, 2008, 837).
1.3.1
«Danno diretto»
fallimentari.
del
socio
di
s.
p.
a.:
profili
La miglior prova che le azioni previste dagli artt. 2393 e 2395, 1º co., c.c. sono autonome
si ha nella sede concorsuale.
Emblematica (ancorché speculare a quella discussa nella presente sede) è la ben nota
vicenda della «concessione abusiva di credito». Una banca ha continuato ad assicurare
risorse finanziarie ad un’impresa ormai decotta, facendola apparire florida.
Sopraggiunto il fallimento, i creditori hanno promosso l’azione risarcitoria, il cui profilo
processuale consiste nella legittimazione attiva del curatore. La fattispecie è giunta
dinanzi alle Sezioni Unite della S.C., le quali hanno abbracciato
«la interpretazione […] coerente con la linea di tendenza che emerge dalle recenti
riforme nella materia fallimentare […]. Mentre infatti le finalità recuperatorie della
azione revocatoria risultano ribadite, viene ulteriormente rafforzata la opinione oramai
risalente che sostiene lo sganciamento dell´istituto dalle forme di tutela nei confronti
dell’illecito, e dunque viene ulteriormente sottolineata la differenza con la azione
ordinaria. Cosicché pare di dovere concludere che ogni pretesa che, pur riguardando il
patrimonio del fallito, allega a fondamento un illecito da questi subito, sfugge alla logica
della universalità e della concorsualità, tipiche delle azioni esecutive di massa»
(Cass., sez. Un., 28 marzo 2006, n. 7030, GI, 2006, 1193).
Esula da questo commento l’approfondita analisi della pronuncia (e delle coeve Cass, sez.
Un., 28 marzo 2006, n. 7029, GI, 2006, 1194; Cass., sez. Un., 28 marzo 2006, n. 7031,
GI, 2006, 1194), anche perché illustri Autori vi hanno ormai provveduto (cfr. Esposito
2006, 1128; Fauceglia 2006, 646); Spiotta 2006, 1193).
pag. 1-9
Preme piuttosto sottolineare che i creditori, delusi dal fatto che la banca ha continuato a
sovvenzionare chi non meritava il credito, dovranno agire individualmente contro la
banca.
La responsabilità dell’ente finanziatore per l’indebita elargizione di tesoreria può
paragonarsi a quella sanzionata dalla
«azione disciplinata dall’art. 2395 c. c. […]. In particolare, è stata messa in luce
l’analogia che sussiste tra una delle ipotesi paradigmatiche di applicabilità dell’art. 2395
c. c. (quella in cui la redazione e pubblicazione di un bilancio non veritiero abbiano
indotto un terzo a concedere un mutuo alla società oppure ad acquistare e sottoscrivere
azioni ad un prezzo superiore al loro effettivo valore) e la concessione abusiva di credito:
in entrambi i casi la società, lungi dal subire un danno, risulterebbe avvantaggiata»
(Spiotta 2006, 1195).
[Per considerazioni e citazioni, anche della tesi contraria, la cui esistenza ha giustificato
l’intervento delle Sezioni Unite, si veda Nigro 2007, 155].
Dal proposto paragone discende che— indipendentemente dal considerare il creditore
leso dall’abusivo finanziamento od il socio (o terzo) che lamenta un «danno diretto» ex
art. 2395, 1º co. (o 2476, 6º co.), c.c. —
«l’azione non si trasmette al curatore fallimentare, poiché mira […] ad ottenere il
ristoro di un danno subito dal socio o dal terzo, non dalla società e/o dalla massa.
Dunque, non è ammissibile che (gli attori: N.d.A.) possano essere privati della azione, in
virtù di un evento, il fallimento, che non incide sulla pretesa da essi vantata»
(Salvato 2009, 1077. Si veda pure Ambrosini S. 2008, 346).
Capitolo 1.4Attività istituzionale degli amministratori e «danno diretto».
È «ormai superata» l’opinione secondo cui l’azione ex art. 2395, 1º co. (o 2476, 6º co.),
c.c. risarcirebbe il «danno conseguente all’atto illecito compiuto dall’amministratore al di
fuori dell’esercizio delle proprie funzioni» (Stolfi 1984, 295).
A siffatto orientamento ha tuttavia aderito l’autorevole parte della giurisprudenza, ad
avviso della quale «non importa […] che il danno sia stato arrecato dagli amministratori
nell’esercizio del loro ufficio o al di fuori di tali incombenze» (Cass., sez.I, 28 marzo
1996, n. 2850, FI, 1997, I, 235; Cass., sez. I, 3 aprile 2007, n. 8359, GI, 2007, 2761. Su
Cass. n. 2850/1996 cfr. La Rocca 1997, 240).
Il fondamento teorico di quest’affermazione risiede nel ritenere
2476, 6º co.), c.c.
pag. 1-10
l’art. 2395, 1º co. (o
«applicabile (anche : N.d.A.) ai casi in cui l’atto doloso o colposo fosse estraneo
all’attività gestoria, come se il danno avesse dovuto risultare cagionato direttamente
dall’amministratore in qualità di privato cittadino e non quale organo della società»
(App. Milano 23 giugno 2004, GCo, 2006, II, 1053).
[Il giudice così espone l’opinione di Murtula 1967, 348].
La «formula» — usata dalla giurisprudenza e dalla dottrina che con essa concorda — è
però «non del tutto felice» (Rordorf 2008, 1332, nota 55). Infatti è preferibile sostenere:
«che la norma si riferisca, pur non precisandolo espressamente, all’attività compiuta
dagli amministratori nell’esplicazione delle loro funzioni gestorie,enonaldifuori di esse,
deriva […] sia dal riferimento espresso, contenuto nell’art. 2395 c.c., alle ‘disposizioni
dei precedenti articoli‘(che riguardano appunto la responsabilità degli amministratori
nell’esercizio delle loro funzioni), sia dalla considerazione logica che, altrimenti, la
norma non avrebbe altro significato che quello di ribadire che una persona fisica, la
quale assuma la veste di amministratore di società, continua ad essere soggetta
all’applicazione dell’art. 2043 c.c. qualora, agendo per proprio conto, abbia posto in
essere un atto illecito dannoso. Ne consegue che gli amministratori rispondono ex artt.
2395 e 2476, comma 6, c.c. per il danno derivante da fatti attinenti alla gestione sociale;
rispondono, invece, ex art. 2043 c.c. per il danno direttamente cagionato al di fuori
dell’esercizio di tale attività»
(Trib. S. Maria Capua Vetere, sez. III, 10 ottobre 2006, Soc, 2008, 489).
[L’argomento è frequente sia in giurisprudenza (ad es., App. Milano 23 giugno 2004,
GCo, 2006, II, 1053), sia in dottrina (a puro titolo esemplificativo cfr. Giannattasio 1963,
439; Bonelli 1991, 451). Ad avviso di scrittori e giudici, l’art. 2395 c.c. sarebbe una
«norma pleonastica» (o «superfluo doppione») se interpretato come disposizione che si
limita a trasporre l’art. 2043 c.c. nell’ambito societario].
Nel caso giudicato da Cass. n. 15220/2010, attualmente commentata, si
all’amministratore di aver gestito la società in modo rovinoso. Ma, così
l’amministratore stesso ha svolto l’attività istituzione, ancorché con esiti
addebitabili a sue colpe. Dunque la disciplina applicabile è solo quella ex artt.
co. (o 2476, 6º co.), c.c.
contesta
facendo,
negativi
2395, 1º
Astraendo dal caso specifico, le argomentazioni finora presentate hanno notevole
importanza per l’avvocato: proposta infatti l’azione ex art. 2395, 1º co. (o 2476, 6º co.),
c.c., non è consentito prospettare, in subordine,l’azione ex art. 2043 c.c. L’atto di
citazione imputa, invero, ai convenuti«condotte contrarie ai doveri d’ufficio» (secondo il
linguaggio penalistico della corruzione), mentre l’art. 2043 c.c. riguarda la diversa
fattispecie in cui l’amministratore agisce fuori dalla sua veste istituzionale.
pag. 1-11
Capitolo 1.5La «diretta incidenza» del danno sul patrimonio individuale.
Accertato che gli amministratori hanno commesso (per dolo o per colpa non importa) fatti
illeciti, ai quali il pregiudizio lamentato si lega con il nesso causale, il requisito che ha
maggiormente tormentato interpreti e giudici è ‘direttamente‘, che figura sia nell’art.
2395, 1º co., c.c., sia nell’art. 2476, 6º co., stesso codice.
Bisogna tuttavia guardarsi dall’interpretare queste norme con i criteri che, nell’art. 1223
c.c., definiscono la causalità «immediata e diretta».
«La formulazione dell’art. 2395 c.c. indica infatti — chiaramente — che quanto ivi
espressamente previsto attiene all’an del risarcimento, non al quantum debeatur […].
L’avverbio direttamente è elemento che pertiene alla titolarità del diritto ed alla
legittimazione attiva della relativa azione; pertanto rientra tra i requisiti dell’an
debeatur. Nel contesto della disposizione […] la locuzione non pare possa invece attenere
il profilo quantitativo del risarcimento; non sembra, in altre parole, possa avere la
funzione di determinare l’entità del pregiudizio risarcibile (lucro cessante e danno
emergente) in presenza di un evento lesivo già considerato fonte di responsabilità nei
confronti del singolo socio o del terzo; funzione che, viceversa, deve essere assegnata al
disposto dell’art. 1223 c.c.»
(Cassottana 1983, 530).
1.5.1
La nozione del «danno diretto».
Quando l’illecito degli amministratori incide direttamente sulle sostanze del socio (o del
terzo), l’unica azione che gli spetta è quella ex art. 2395, 1º co. (o2476, 6º co.), c.c.
Così si dà voce ad «una consapevole scelta del legislatore che […] ha voluto sottrarre al
terzo la possibilità di intervenire per reprimere» le malefatte degli amministratori
indirettamente incidenti sul suo patrimonio. A tale ultimo fine sono infatti volte le azioni
spettanti alla società od ai creditori sociali (App. Milano 23 giugno 2004, GCo, 2006, II,
1054).
Ma non sono solo i giudici di Milano a pensarla così. Ormai da tempo, infatti, il S.C.
insegna:
«l’azione individualmente concessa dall’art. 2395 c.c. ai soci per il risarcimento dei
danni loro cagionati dagli atti dolosi o colposi degli amministratori […] presuppone che
i danni non siano solo il riflesso di quelli arrecati eventualmente al patrimonio sociale,
ma siano direttamente cagionati al socio, come conseguenza immediata del
comportamento degli amministratori e dei sindaci che tale comportamento abbiano reso
possibile violando i loro doveri di controllo»
(Cass., Sez. I, 7 settembre 1993, n. 9385, AC, 1994, 297).
pag. 1-12
[Argomentazioni simili in Cass., sez. I, 3 aprile 2007, n. 8359, GI, 2007, 2761; Cass.,
sez. I, 12 giugno 2007, n. 13766, GI, 2007, 2763].
Il concetto si specifica dicendo che,
«alla stregua del tenore letterale dell’art. 2395 c.c., […] l’avverbio ‘direttamente‘
qualifica una speciale inferenza causale relativa al danno-evento, nel senso che ai fini
risarcitori il danno deve risultare essersi ‘immediatamente‘ prodotto nella sfera del
‘terzo‘»
(App. Milano 23 giugno 2004, GCo, 2006, II, 1054. In tal senso anche Cass., sez. I, 28
marzo 1996, n. 2850, FI, 1997, I, 238).
Si incontrano tuttavia inconvenienti particolarmente gravi nell’applicare queste giuste
affermazioni ai casi concreti.
I ricordati inconvenienti giustificano anzi l’ormai vastissima produzione giurisprudenziale
fiorita attorno all’art. 2395, 1º co., c.c. Cass. n. 15220/2010, attualmente esaminata, non
si pone quindi (come precedentemente evidenziato) al capolinea dell’evoluzione
normativa, ma costituisce pure l’ultimo traguardo della giurisprudenza.
1.5.2
Uno sguardo alla casistica.
Dalla complessiva lettura della giurisprudenza e dei relativi commenti emerge «un
quadro articolato per varietà casistica e disomogeneità di criteri utilizzati, in dottrina e in
giurisprudenza, per delineare l’ambito di esperibilità dell’azione» ex art. 2395, 1º co. (o
2476, 6º co.), c.c. (così Lofredo 2006, 1058).
Donde l’impossibilità di analizzare con assoluta completezza le fattispecie postesi
all’attenzione degli studiosi e dei giudici.
Vi sono tuttavia alcuni casi emblematici, che è utile passare in rassegna.
1.5.2.1 Operazioni immobiliari e «danno diretto».
Il «danno diretto» del socio è stato riconosciuto nel caso dove
«il liquidatore di una cooperativa edilizia […] utilizza per l’estinzione parziale di un
mutuo stipulato dalla cooperativa, dopo il suo frazionamento tra gli assegnatari degli
alloggi, somme versate da un socio per il pagamento di una propria rata di mutuo,
esponendolo ad un nuovo pagamento per evitare l’azione esecutiva sul proprio
immobile»
(Cass., sez. I, 17 novembre 1982, n. 6154, GCo, 1983, II, 873).
pag. 1-13
1.5.2.2 Investimenti mobiliari e «danno diretto».
Tra le pronunce significative — che hanno condannato gli amministratori a risarcire il
«danno diretto» ex art. 2395, 1º co. (o 2476, 6º co.), c.c. — si segnala quella del Trib.
Milano sul «caso Ferruzzi».
I giudici milanesi rilevano innanzi tutto (ed in maniera condivisibile) che
«solo la lesione di un diritto soggettivo proprio del singolo socio (o del terzo) costituisce
il titolo in forza del quale questo è legittimato ad agire in giudizio con l´azione
individuale di responsabilità, salvo poi verificare, una volta introdotta l´azione, se il
danno dedotto sia anche risarcibile e cioè se effettivamente abbia inciso, in via diretta e
non meramente mediata, sul patrimonio personale pregiudicandolo; ne consegue che il
socio deve provare, per un verso, che gli amministratori hanno posto in essere atti dolosi
o colposi da cui sia derivata la violazione di un suo diritto soggettivo […]. Per altro
verso (poiché non ogni lesione del diritto soggettivo produce un danno al patrimonio e
dunque un danno che sia anche risarcibile), che la lesione di tale diritto abbia inciso
direttamente sul patrimonio personale»
(Trib. Milano 21 ottobre 1999, GI, 2000, 1641).
Tra i diritti soggettivi dell’investitore sicuramente rientra quello all’«informazione
societaria», ossia a ricevere «notizie complete e veritiere» sulla «situazione economica,
patrimoniale e finanziaria» della società nei cui titoli vuole investire il denaro. Tali
notizie, anche per gli investitori professionali (com’era l’attrice nel «caso Ferruzzi») si
ricavano dai bilanci e dai relativi allegati. L’esposizione di dati mendaci in tali
documenti,
pertanto, lede certamente il diritto dell’investitore «al consapevole
investimento» del proprio denaro.
La violazione di tale diritto produce tuttavia un pregiudizio meritevole di risarcimento
«solo se la medesima condotta illecita degli amministratori abbia determinato — oltre o
accanto al pregiudizio al patrimonio sociale e a prescindere da questo — un distinto
pregiudizio al patrimonio del singolo sulla base di una serie causale autonoma, il che si
verifica allorché la mancata o falsa informazione sulla complessiva situazione economica
e patrimoniale della società abbia indotto il singolo a fare o a mantenere un investimento
(poi risultato negativo) che non avrebbe fatto qualora fosse stato a conoscenza dei fatti
omessi o falsamente rappresentati nei documenti ufficiali»
(Trib. Milano 21 ottobre 1999, GI, 2000, 1641).
Sulla stessa linea ideale si è posta anche la S.C. quando ha analizzato una fattispecie
simile a quella giudicata a Milano. L’interessato rimproverava alla sentenza impugnata di
aver confuso le azioni rispettivamente spettanti alla società ed al singolo socio contro i
medesimi convenuti, amministratori della stessa.
Tuttavia i supremi giudici hanno respinto l’addebito, così insegnando:
pag. 1-14
«tanto poco il giudice d´appello ha confuso le due situazioni, che nella liquidazione del
danno […] ha distinto il prezzo pagato […] per l´acquisto delle […] azioni, aventi
valore nullo, il cui esborso ha costituito un danno risentito nella sfera patrimoniale
dell’acquirente in via assolutamente diretta, ed il pregiudizio riferito al valore che le
stesse azioni avrebbero avuto se il bilancio […] fosse stato veritiero, rilevando come —
così identificato — il danno verrebbe a ricomprendere anche il valore negativo, ‘vale a
dire le azioni con il carico di passività‘, laddove il passivo sociale rappresenta non un
danno diretto del terzo acquirente, ma un effetto depauperativo del patrimonio sociale,
che solo indirettamente si riflette sul patrimonio del socio o del terzo»
(Cass., sez. I, 12 giugno 2007, n. 13766, GI, 2007, 2765).
1.5.2.3 Inadempimenti contrattuali e «danno diretto».
L’illecito degli amministratori fa da sfondo:
(1) Ai «contratti di investimento», che non sarebbero stati stipulati se l’investitore
avesse conosciuto ex ante la falsità dei dati contabili esposti dai convenuti. La
«fattispecie» — che «costituirebbe (quella: N.d.A.) tenuta in considerazione nel
momento della redazione dell’art. 2395 c. c.» (Minervini 1956, 363) — è stata
ormai analizzata. Pertanto non sono necessarie ulteriori riflessioni;
(2) All’inadempimento di ogni altro contratto. Il caso paradigmatico è giudicato da
app. Milano 23 giugno 2004 (GCo, 2006, II, 1049). L’amministratore di una
società segnala ad una finanziaria l’«interesse al finanziamento» di un nominativo
che mai l’aveva chiesto.
La finanziaria — ignara della’illecito — eroga il finanziamento, ma l’importo viene
illecitamente trattenuto dall’amministratore. Scoperto l’inganno, la finanziaria agisce
contro chi l’ha raggirata ex art. 2395, 1º co., c.c.
In primo grado la fattispecie è considerata un inadempimento contrattuale della società,
sicché l’amministratore non viene condannato.
Il verdetto così sintetizzato è riformato in appello sulla premessa secondo cui la condotta
del convenuto è sicuramente illecita, oltre che pacifica in causa. Dalla condotta stessa
«non è certo derivato un danno diretto per la società, che si è semmai arricchita di tale
importo non dovuto, ma certamente si è verificato un danno (solo) per la terza creditrice
[…], che ha dovuto rimborsare il detto importo alla sua mandante, perdendo un valore
corrispondente.
Il danno si è quindi verificato, ed ha inciso in modo immediato e diretto, sul patrimonio
della […], per effetto ed a causa dell’illecito comportamento dell’amministratore […].
Alla luce di tali considerazioni risultavano dunque integrati tutti i presupposti della
dedotta responsabilità ex art. 2395 c.c., così come richiamato dall’art. 2487 c.c. (oggi
art. 2476, 6º co., c.c.: N.d.A.) per le società a responsabilità limitata (qual era la […])»
pag. 1-15
(App. Milano 23 giugno 2004, GCo, 2006, II, 1056).
La riferita motivazione va condivisa «per evitare che gli illeciti degli amministratori,
lesivi per il singolo socio o terzo: N.d.A.) si trasformino in obblighi risarcitori per la
società, la quale finirebbe per risponderne a titolo di responsabilità oggettiva» (Lofredo
2006, 1063).
Pur non potendola, ratione temporis, conoscere, il giudice di Milano si è adeguato al più
recente insegnamento del S.C. A suo avviso, infatti, non basta che la società sia
inadempiente ad un contratto a fondare la responsabilità dell’amministratore ex art. 2395,
1º co. (o 2476, 6º co.), c.c. Infatti,
«il riferimento all'incidenza diretta del danno sul patrimonio del terzo danneggiato,
quale tratto distintivo della responsabilità ex art. 2395 c.c., importa un esame rigoroso
del nesso di causalità adeguata tra il pregiudizio subito dal creditore ed il
comportamento dell'amministratore, così come in generale in ogni ipotesi di tutela
aquiliana del credito»
(Cass., sez. I, 5 agosto 2008, n. 21130, FICDRom, 2/2010. Sulla sentenza cfr. Spiotta
2009, 879, dove l’autrice commenta pure Trib. Firenze 16 giugno 2008, GI, 2009, 875.
Anche questa pronuncia riguarda l’art. 2395, 1º co., c.c.).
Neppure qualificando contrattuale (salve le obiezioni proposte nella competente sede) la
responsabilità in esame, tuttavia, si sovvertirebbe l’insegnamento della S.C., nonché dei
giudici di merito e degli studiosi con la stessa concordi. Infatti la società non ha assolto
un’obbligazione diversa da quella alla quale gli amministratori non hanno adempiuto. La
società è obbligata verso la propria controparte, mentre l’obbligo degli amministratori
stessi sorge verso i soci od i restanti terzi.
1.5.2.4 Mala gestio della società e «danno diretto».
Alle ipotesi finora considerate, dove il risarcimento per «danno diretto» ai soci od ai terzi
è stato riconosciuto ex art. 2395, 1º co. (o 2476, 6º co.), c.c., si contrappone la casistica in
cui rientra Cass. n. 15220/2010, attualmente in esame. Le fattispecie ora considerate sono
accomunate dal fatto che il socio — non conseguendo utili (od addirittura vedendo fallire
la società) — imputa le vicende economiche negative alle condotte colpevoli, e talora
criminose, degli amministratori..
La considerazione di comportamenti costituenti altrettanti reati, oltre che illeciti civili, è
suggerita da un caso giunto dinanzi al Trib. di Milano. Lo scenario sul quale il caso stesso
si svolge consiste nel noto default del Vecchio Banco Ambrosiano. Le malefatte ascritte
ai managers di tale banca costituiscono bancarotta fraudolenta, in relazione alla quale è
intervenuta condanna penale.
Dall’azione penalmente illecita (che presuppone il fallimento dell’imprenditore: cfr. art.
216 l. fall.) può tuttavia nascere
pag. 1-16
«una pretesa risarcitoria da parte di soggetti che, pur non essendo creditori concorsuali,
siano pregiudicati dai fatti di bancarotta costituenti reato. Tale conclusione trova, a
monte, argomenti nella distinzione, nel rapporto fallimento ?? reato concorsuale, del
pregiudizio economico collegato all’insolvenza fallimentare — che deriva
dall’inadempimento da parte dell’imprenditore dichiarato fallito di obbligazione ex
contractu — dal pregiudizio derivante da obbligazione ex delicto su cui può fondarsi
l’azione civile per ottenere il ristoro dei danni morali e dei c.d. danni patrimoniali
supplementari derivanti dai fatti costituenti le singole fattispecie incriminatrici. […] Ciò
a conferma della necessità di individuare la parte lesa del reato di bancarotta secondo i
criteri generali. E secondo i criteri generali, danneggiati dai reati di bancarotta,
addebitati ad amministratori, sindaci […] e concorrenti, possono essere allora anche gli
azionisti, allorché abbiano riportato danni ulteriori e diversi rispetto a quelli derivanti
dalla svalutazione delle azioni che è effetto indiretto e riflesso rispetto al pregiudizio
subito dal patrimonio sociale»
(Trib. Milano, sez. X, decr. 30 agosto 2004, DResp, 2005, 756. Sul provvedimento cfr.
Maccaboni 2005, 760, che peraltro lo commenta rispetto a problemi non rilevanti in
questa sede).
Pur senza espressamente richiamarlo, il giudice milanese si allinea all’ormai pacifico
insegnamento del S.C. (per citazioni v. Nazzicone 2005, 818). A suo avviso,
«essendo gli utili parte del patrimonio sociale fin quando l’assemblea eventualmente non
ne disponga la distribuzione in favore dei soci, è di assoluta evidenza che l’asserita
sottrazione indebita di tali utili ad opera dell’amministratore lede appunto il patrimonio
sociale»
(Cass., sez. I, 28 maggio 2004, n. 10271, FI, 2005, I, 817).
Il «singolo socio», invece, vede soltanto indirettamente danneggiata «la sua aspettativa di
reddito e» limitato «il valore della sua quota».
Tamto basta
«ad escludere che al socio competa, in simili casi, l’azione contemplata dal citato art.
2395, la quale presuppone invece l’esistenza di un danno subìto dal medesimo socio
direttamente: non cioè come mero riflesso del danno sociale di cui solo la società,
tramite gli organi a ciò abilitati e con il procedimento a tal fine prescritto dal precedente
art. 2393, può chiedere il risarcimento all’amministratore»
(Cass., sez. I, 28 maggio 2004, FI, 2005, I, 817).
[Si veda pure Cass., sez. I, 8 gennaio 1999, n. 97, DPS, (9), 56. Sulla sentenza — la cui
massima è riprodotta neli «Orientamenti giurisprudenziali» — v. Manzini 1999, 56].
Integrando peraltro la «distrazione degli utili» a profitto degli amministratori
l’appropriazione indebita, prevista e punita dall’art. 646 c.p., il socio è comunque
pag. 1-17
legittimato a pretendere, ex art. 2395, 1º co. (o 2476, 6º co.), c.c., il risarcimento di dei
pregiudizi non patrimoniali, nonché dei danni patrimoniali non ristorati mediante la
condanna generica, eventualmente emessa dal giudice penale.
Capitolo 1.6Il carattere aquiliano della responsabilità per «danno
diretto».
L’avvicinamento della responsabilità ex art. 2395, 1º co. (o 2476, 6º co.), c.c. a quella
predicata dall’art. 2043 stesso codice è frutto dell’idea per cui gli amministratori
rispondono «direttamente» verso i soci od i terzi a titolo extracontrattuale.
La maggior parte delle sentenze afferma peraltro il concetto senza particolare
approfondimento. Giova allora svolgerlo, giustificando la natura aquiliana della
responsabilità in esame con il fatto che questa discende «da comportamenti lesivi della
persona e del patrimonio tenuti in difetto di un obbligo di prestazione del danneggiante
verso il danneggiato. (Il) socio (è infatti estraneo) al vinculum iuris che affetta l'azione dei
gestori» (Pinto 2006, 901. Le parole tra parentesi sono dello scrivente).
La difficoltà di provare gli elementi costitutivi della responsabilità aquiliana fa tuttavia
sorgere il dubbio se il danneggiato stesso può trovare migliore tutela grazie alla
«ormai prevalente concezione del rapporto obbligatorio come Organismus complesso
(che: N.d.A.) ha condotto la dottrina civilistica ad ampliare il perimetro della
responsabilità ‘contrattuale‘ oltre i limiti dell'inadempimento di una preesistente
obbligazione di prestazione»
(Mengoni 1988, 1072).
L’estensione della responsabilità contrattuale (con le conseguenti facilitazioni probatorie)
oltre i suoi tradizionali confini è avvenuta trasportando nell’ordinamento italiano i
risultati raggiunti dalla dottrina tedesca (ampie citazioni della stessa in Pinto 2006, 901905) in ordine:
(a) Al «contratto con effetti protettivi nei confronti dei terzi»;
(b) All’«obbligazione senza prestazioni».
Nessuno dei richiamati concetti è però idoneo a sovvertire l’ormai usuale configurazione
aquiliana della responsabilità ex art. 2395, 1º co. (o 2476, 6º co.), c.c.
1.6.1
l’inutilità Del «contratto con effetti protettivi
nei confronti dei terzi».
Non può invocarsi il «contratto con effetti protettivi nei confronti dei terzi», atteso che la
fattispecie ex art. 2395, 1º co. (o 2476, 6º co.), c.c. è antitetica a quella sottostante
all’istituto entro il quale dovrebbe inquadrarsi. Esso è invero utile allorché l’«interesse»
tutelato dall’azione ex art. 2395, 1º co. (o 2476, 6º co.), c.c.
pag. 1-18
«si presenta quale ‘riflesso‘ della protezione dovuta tra i diretti contraenti, essendo
incongruo predicare una ‘protezione‘ che nasca per la prima volta, quasi a titolo
originario, in favore di terzi estranei al contratto. Ne discende un evidente impedimento a
riconnettere al rapporto di amministrazione effetti protettivi della sfera del socio
‘direttamente‘ danneggiato»
(Pinto 2006, 902. Il carattere diverso è nel brano).
[L’Autore condivide le giuste critiche che Castronovo 1976, 168 e Di Majo 2000, 23
formulano, in termini generali, al «contratto con effetti protettivi nei confronti dei terzi»].
Ed invero (come evidenziato dalla richiamata vicenda decisa da App. Milano 23 giugno
2004) non necessariamente le condotte «direttamente» pregiudizievoli al socio od al
terzo danneggiano il patrimonio sociale. Il seppur non meritevole interesse della società a
conservare il frutto dell’illecito e quello del danneggiato al risarcimento sono dunque
contrapposti (così Allegri 1979, 93, dove l’Autore parla di «otenziale conflitto»)
Sicché non c’è spazio per considerare la protezione della parte lesa come riflesso del
contratto che vincola gli amministratori alla società (quasi testualmente Pinto 2006, 902.
Il corsivo è dell’Autore).
1.6.2 l’inutilità Dell’«obbligazione senza prestazione».
Applicando al diritto societario un istituto che ha trovato particolare fortuna nell’ambito
della «responsabilità medica» (v. Trib. Nocera Inferiore 26 marzo 2003, CSal, 2006, 344,
sulla quale si veda Alpini 2006, 354), gli amministratori assumono [ex art. 2395, 1º co. (o
2476, 6º co.), c.c.] un’«obbligazione senza prestazione».
Essa si fonda sull’«affidamento che si verrebbe ad ingenerare nel socio in ragione della
posizione dei gestori nell'ambito dell’organizzazione sociale» (Guerrera 2004, 248;
Sambucci 2004, 718. Il pensiero di questi Autori è così riassunto da Pinto 2006, 902).
La pur interessante interpretazione dell’art. 2395, 1º co. (o 2476, 6º co.), c.c. va tuttavia
respinta. Infatti
«tra amministratori e soci non si rileva di per sé alcuna situazione relazionale in grado
di giustificare obblighi degli amministratori, la cui violazione darebbe vita a
responsabilità contrattuale, in quanto quello degli amministratori è un agire per la
società — e questo è l'aspetto relazionale — che può avere soltanto effetti riflessi per i
soci»
(Castronovo 1995, 240, nota 184).
Quest’osservazione si collega all’altra, di portata generale, secondo cui l’esistenza «di un
mero ‘contatto sociale‘, (fa crollare: N.d.A.) ogni parametro che possa consentire di
definire la situazione di responsabilità in base a comportamenti promessi, pattuiti o
comunque dovuti» (Di Majo 2000, 27).
pag. 1-19
Inoltre gli amministratori assumono [ex art. 2395, 1º co. (o 2476, 6º co.), c.c.] una
responsabilità aquiliana verso i soci od i creditori potenziali della società, in quanto
individuabili solo ex post, ossia quando l’illecito è già avvenuto.
Configurare anche quest’ultima responsabilità in termini contrattuali — attesa la normale
sua estensione ai soli danni prevedibili quand’è sorta l’obbligazione (art. 1225 c.c.) —
significa peraltro superare difficili problemi di «dominio della responsabilità»: quando è
«ragionevolmente prevedibile», alla luce di criteri oggettivi, che il danneggiato ha ispirato
la sua condotta soltanto alle informazioni fornite (attraverso bilanci o documenti similari)
dagli amministratori convenuti, perciò responsabili per «danno diretto» nei suoi
confronti? (così Cariello 2002, 343-347).
La risposta non è ancora stata fornita in termini soddisfacenti.
Trovarla (superando i problemi di «eccessiva deterrenza», insiti nell’esagerata estensione
dei possibili danneggiati) costituisce tuttavia il modo per fare dell’azione ex art. 2395, 1º
co. (o 2476, 6º co.), c.c. un valido strumento protettivo dei risparmiatori.
pag. 1-20
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