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La perdita della tristezza. Come la psichiatria ha
trasformato la tristezza in depressione
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Disturbi e patologie
Giuseppe Maria Silvio Ierace
1 Marzo 2016 | 42 letture |
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Disturbi e patologie
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Grafologia
Programmazione neurolinguistica
“Ci sono al mondo molte più persone infelici per la mancanza del superfluo che per la mancanza del
necessario”, Antoine Rivaroli, detto le comte de Rivarol (1753-1801).
Psicologia
Psicoterapia
Nell’ambito d’una corrente pratica psichiatrica sembra serpeggiare una certa confusione,
sostenuta per giunta anche da scorretti modelli teorici, che non aiuterebbe quella necessaria
discriminazione tra psicopatologia dei sentimenti ed emozioni negative rientranti in una
normale oscillazione dell’umore. Studi antropologici e sociologici contribuiscono ad alimentare
tale sovrapposizione del disturbo depressivo su ciò che invece andrebbe considerato come un
tipo del tutto naturale di tristezza. Da parte degli uni si tende all’elaborazione d’una
concettualizzazione che finisce per trascendere la comprensione stessa di più appropriate e
corrette definizioni cliniche, mentre gli altri arrivano ad accorpare tutte le possibili risposte in
un’unica intercambiabile varianza di reattività. A questa ricognizione, gli Autori di “La perdita
della tristezza. Come la psichiatria ha trasformato la tristezza in depressione”, Allan V. Horw itz e
Jerome C. W akefield [traduzione di Michele Sampaolo (titolo originale: The Loss of Sadness.
How Psychiatry Trasformed Normal Sorrow into Depressive Disorder), L’Asino d’Oro, Roma 2015],
aggiungono una certa carenza nell’esercizio d’una critica autonoma, e non pregiudizievole, nei
confronti di criteri diagnostici a volte fin troppo convenzionali, se non a volte quasi aleatori.
Sottigliezze definitorie?
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La perdita della tristezza. Come la
psichiatria ha trasformato la
tristezza in depressione
Il titolo italiano traduce due volte con un unico termine, “tristezza”, due vocaboli anglosassoni,
“Sadness” (da sad, latino satis, la sensazione della gravità, e ness, che indica lo stato d’essere)
e “Sorrow” (dall’etimo sanskrito surksati, prendersi cura), che forse potrebbero essere
considerati dei sinonimi, tant’è che si sente l’esigenza, almeno per il secondo, d’affiancare un
aggettivo che lo qualifichi per la sua naturalezza (Normal), così come analogamente sembra
necessario ribadire la definizione patologica (Disorder, dal latino medievale disordinare) di
quella che, per noi, linguisticamente, risulterebbe una “semplice” depressione.
La bussola dell’antropologo.
Orientarsi in un mare di culture
Lo psichiatra transculturale Arthur Kleinman (1986) distingue tra “disease” (da des-, senza, e
dal francese aise, benessere) e “illness” (da ill, che in origine definiva una qualità talmente
cattiva da lasciare insoddisfatti), intendendo anormalità o malfunzionamento all’interno d’uno
spettro di naturalezza, l’uno, e vissuto di malattia comprensivo della percezione e sua
rappresentabilità, l’altro.
Dall’invecchiamento cerebrale alla
demenza di Alzheimer
Psichiatria transculturale
Psicologia evolutiva. Gli effetti
psicologici della separazione sui
figli
L’antropologo Gananeth Obeyesekere, che inquadra dispiacere, disperazione e sensazione di
non aver peso nel proprio contesto comunitario, all’interno d’una filosofia di vita culturalmente
riconosciuta tra i cingalesi dello Sri Lanka buddista, nega l’eventualità d’un’universalistica
concettualizzazione (e cioè illness) del disease, ma nel renderli ancora una volta
paradossalmente sinonimi, come in italiano, parteggia per una persistenza di illnesses e non
di diseases. La nozione obiettiva della psicopatologia (disease) soccombe di fronte a una cruda
definizione (illness) di chi assume il ruolo, connotato culturalmente, di malato.
Catherine Lutz ha studiato gli Ifaluk della Micronesia, i quali reagiscono a una perdita
(luttuosa) o a un abbandono della loro isola con “un eccessivo pensare/sentire la persona che se
ne è andata, una diminuzione della voglia di mangiare o d’impegnarsi nella conversazione o in altre
attività, e sopore”.
Piuttosto che alla sintomatologia, l’accentazione viene posta sulle condizioni intrapsichiche che
la promuoverebbero. “Queste varie interpretazioni delle situazioni di perdita si riferiscono tutte a
persone come oggetto primario cui si può essere legati e da cui di può essere separati. Non si parla
mai, per quanto ne so, di risposte alla perdita non concentrate su una persona o senza oggetto”. La
qual cosa le farebbe rientrare nello spettro di una certa “normalità” dell’illness.
Come ascoltare in modo attivo le
notizie in tv
“Male lingue”, vecchi e nuovi codici
delle mafie da decriptare
Psicologia del Futuro (?) (dal
Prana alla respirazione olotropica)
Le cause psicologiche
dell’eiaculazione precoce e i
possibili rimedi
Il pensiero di Blaise Pascal e il suo
interessante contributo
psicologico
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Pertanto, proprio per non incorrere nell’errore di classificare disfunzionali tali risposte, evitando
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di enfatizzarne solo i sintomi, o strutturando categorie che abbiano lo scopo di meglio
omologarli, “l’indagine transculturale della depressione potrebbe essere sostituita dall’esame delle
definizioni indigene delle situazioni di perdita e di blocco degli obiettivi, e dell’organizzazione sociale
delle risposte a esse”.
Psichico o somatico?
L’errore psichiatrico potrebbe consistere nell’immettere tratti marginali della cultura (e
dell’illness) in un metodo diagnostico universale. Nell’impossibilità di evitare completamente tali
contagi, occorre ricercare modalità esplicative specifiche a quest’ambito di influssi (Kleinman,
1988). Se deseases sono per lo più sensazioni somatiche generali e universali, l’esperienza
soggettiva del disturbo psicopatologico risponde a significati di tipo normativo, propri di
determinati gruppi sociali.
Un rifiuto verso ogni forma della valorizzazione psicologica, concentrerà maggiormente
l’attenzione sulla sintomatologia fisica. Un’educazione che promuova esclusivamente relazioni
interindividuali, evidenziandone soltanto i ruoli sociali, scoraggia l’espressività dei sentimenti
personali, non consentendone la verbalizzazione, che svelerebbe un imbarazzante
egocentrismo, e di conseguenza neppure la “mentalizzazione”, che risulterebbe repressa dallo
stigma nei confronti della solitudine verso la quale naturalmente spinge lo scontento.
“La depressione sperimentata completamente come mal di schiena e la depressione sperimentata
completamente come colpevole disperazione esistenziale sono forme di comportamento di illness
così sostanzialmente diverse con diversi sintomi, modelli di ricerca d’aiuto, decorsi e risposte di
trattamento che, sebbene la disease possa essere in ciascuno dei casi la stessa, il fattore
determinante è la illness piuttosto che la disease” (Kleinman, 1987).
La sottostante disfunzione universale (disease) tende a realizzarsi in espressività
culturalmente connotate (illnesses). Il trattamento sarà però tanto più efficace quanto più
indipendente da questa rappresentazione relativistica, e ciò richiede ovviamente un’indagine
attenta alle modalità di inferenza della disfunzione soggiacente alla rappresentazione che di
essa si fornisce, attraverso un’appropriata lettura di quell’idioma dell’angoscia sul quale si
andranno a concentrare i sintomi culturalmente indotti su un versante (somatico) piuttosto che
su un altro (psichico).
La somatizzazione
“Nella misura in cui rimangono differenze di espressione, – precisano Allan V. Horw itz e Jerome C.
W akefield – la somatizzazione della depressione può dipendere dal fatto che alcune culture non
possiedono vocaboli per descrivere stati interni emotivi o hanno norme sociali che impediscono di
percepire o parlare di sentimenti interiori”.
Il superficiale misconoscimento delle emozioni andrà aggirato per approdare alla mera realtà
della sperimentazione dei sentimenti. Le esperienze spiacevoli soggettive vanno allora ben
distinte da qualunque altra situazione organica o psicopatologica sottostante. Assolutamente
determinante diverrà, per far ciò, la discriminazione tra l’effettiva descrizione delle sensazioni
provate e quanto riferito magari perché consentito o socialmente gestito da convenzioni
(Kleinman, 1986).
Relativismo culturale
L’unicità culturale si riferisce a valori, credenze, norme, costumi, simboli, condivisi in un gruppo,
ma non per questo validi negli altri, dove quelli vigenti potrebbero differire. Dipende da questo
relativismo la concettualizzazione della normalità o della devianza, molto meno la negatività
d’un disturbo patologico di cui sia possibile una determinazione universale. In proposito,
Laurence J. Kirmayer aggiunge però che i sistemi psicologici “sono così malleabili da essere pronti
per qualsiasi cosa… A parte poche funzioni fisiologiche relativamente semplici, è impossibile
identificare a che cosa i sistemi o le funzioni psicologiche sono destinate in senso universale”
(1994). Per cui sarebbe oltremodo difficoltoso impostare, all’interno della prevista variabilità tra
una cultura e l’altra, distinzioni che si rivelino altrettanto costanti di quelle fondate sul
funzionamento della biologia (Kirmayer & Young, 1999).
Nel classico articolo del 1934, la grande antropologa Ruth Fulton Benedict (1887-1948) asserì
che le definizioni di normalità e devianza patologica derivano da concezioni che non possono
essere generalizzate e quindi applicate a culture diverse. Da studiosa delle popolazioni native
del Nord-America, portava l’esempio degli Zuni dell’Arizona i quali considerano del tutto
normali, se non addirittura tipici di una loro espressione culturale, radicata in atteggiamenti
filosofici e tendenze caratterologiche configurabili in un certo sistema di significato
comunicativo, quel certo fatalismo ed estrema passività che la psichiatria occidentale non
esiterebbe a diagnosticare quale forma di depressione maggiore. Riteneva pertanto, la
discepola di Franz Boas (1858-1942), che, in ciascuna società, a dover discriminare tra ciò che
va considerato patologico e quanto invece accettato come normale non può essere che la
locale metodologia definitoria.
La differente socializzazione
Se una certa condizione viene compresa nella normalità, è da supporre che la sofferenza
provenga da una comune configurazione dei sistemi espressivi e di significato. Parimenti,
procurerà un deciso inquadramento patologico qualsiasi più superficiale malfunzionamento nei
meccanismi reattivi alla perdita che abbiano conosciuto o subito una differente socializzazione.
Le esperienze di perdita, dall’umiliante caduta di status all’incapacità di raggiungere degli
obiettivi o di mantenere legami importanti, hanno degli equivalenti del medesimo rango in ogni
cultura, la quale semmai ne influenza la loro particolare maniera di apprendimento e gestione,
oltre che di espressione. Dall’approfondimento di questa disfunzione e dall’interazione di essa
con i significati culturali ci si potrà aspettare qualche critica costruttiva all’impostazione
diagnostica della psichiatria sociale e transculturale.
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Paradigma dominante della sociologia della salute mentale sembra essere l’assetto stressante
del vivere insieme. Il riflettore, in tal caso, si sposta sull’iniquità e negatività delle situazioni
esistenziali, dal fallimento coniugale a quello lavorativo, dalla mobilità alla conflittualità, dagli
impegni agli obblighi e alle preoccupazioni familiari, onde fornire un qualche correttivo a una
pervasiva medicalizzazione di problematiche soprattutto sociali.
Uno degli Autori di “La perdita della tristezza. Come la psichiatria ha trasformato la tristezza in
depressione”, Allan V. Horw itz, in precedenza (2007), aveva individuato i tre principali processi
che generalmente predispongono a situazioni percentualmente alte di stress, in grado di
indurre comprensibile demoralizzazione, nelle perdite di legami personali importanti,
nell’incapacità di conseguire obiettivi di valore e nell’abbassamento a posizioni inferiori delle
gerarchie di status. Ciò non esclude che le conseguenze stressanti della stratificazione
economico-finanziaria, di relazioni interpersonali subordinate in ambito familiare o lavorativo, di
preoccupazioni per problemi di salute personali o dei propri cari, non giungano a incidere
effettivamente sulla sanità mentale. Ed è certo molto più probabile che tali stati costituiscano
la causa invece che una conseguenza dello scoramento esperito.
Gli eventi notoriamente considerati più stressanti, nella percentuale da un terzo a circa la metà
(Radloff 1977), riguardano la perdita dei legami affettivi più intimi, dalla separazione coniugale
al divorzio e alla vedovanza (Holmes and Rahe 1967).
L’assestamento del tono dell’umore
Quelle situazioni in cui non si riesce a disimpegnarsi da mete irraggiungibili o che rivelano vane
le speranze perseguite produrrebbero prevalentemente una demoralizzazione non patologica.
I casi relativi a quegli studenti universitari che non arrivano al conseguimento della laurea, o di
quelli che da laureati non trovano un’occupazione nel loro campo di interesse, o la cui carriera
accademica non comprenda una cattedra, inducono Randolph M. Nesse a domandarsi se la
reazione depressiva non rappresenti una forma di adattamento, in cui pessimismo e mancanza
di motivazione, inibendo sfide rischiose, costituirebbero in effetti una profilassi difensiva da
eventuali ulteriori danneggiamenti peggiori. Altri (McEw an, Costello & Taylor 1987) riferiscono
un analogo assestamento riguardante quelle donne sterili che vorrebbero diventare madri a
ogni costo.
La depressione come adattamento
Molto verosimilmente l’espressione emotiva risulterebbe equipollente alla comunicazione d’un
bisogno di aiuto, che spesso segnala un cedimento nel corso d’uno sviluppo gerarchico
conflittuale, o la necessità del disimpegno da obblighi, di cui si avverte tutta la pesantezza, nei
confronti di obiettivi rivelatisi, rispetto alle previsioni, molto più difficili da raggiungere. L’umore
in tal modo fungerebbe da regolatore per i futuri modelli di investimento.
Una spiegazione più completa, di tipo evoluzionistico, identificherebbe l’avvilimento quale
tentativo di recupero delle consuete capacità d’un organismo di far fronte alle impellenti
richieste di accomodamento dinanzi a quelle situazioni nefaste in cui lo sforzo di insistere nel
perseguire un obiettivo, sia pur importante, presumibilmente si configurerebbe quanto meno
come fatica sprecata, se non un vero e proprio imminente maggior pericolo per l’integrità psicoorganica. In assenza di cruciali risorse di cui disporre, o di progetti efficacemente praticabili,
qualsiasi modificazione psichica, meno grave, atta a interrompere un’insoddisfazione più
deleteria, che potrebbe danneggiare l’intero organismo, risulterebbe di ristoro per il fisico,
potenzialmente in grado di recuperare le forze al momento mancanti, nonché una valida
alternativa a quanto potrebbe dunque rivelarsi di maggior nocumento (Nesse 2000).
Un effetto sommatorio
Gravità e durata della risposta a tali incapacità, vissute come ferite narcisistiche, si correlano
alla profondità dello stress intervenuto, sottolinea R. Jay Turner (2003), anche in funzione
diretta dei precedenti, o persistenti, altri fattori cronici, quali eventi esistenziali sperimentati
come particolarmente sgradevoli.
Spesso gli studi socio-psichiatrici non prendono nella giusta considerazione il contesto
ambientale nel quale si va sviluppando la sintomatologia psicopatologica. I criteri diagnostici in
voga esigono la coesistenza di una qualche difficoltà di provare piacere, e di una certa durata
di questa condizione, di almeno due settimane. Se non si tiene conto di quest’ultimo requisito
minimo si rischia di includere nella psicopatologia affettiva quei fenomeni passeggeri e molto
banali di fallimento, delusione o sconfitta, che invece procurano un qualche banale disagio da
scoramento, avvilimento e sconforto, semplicemente auto-riferito al surrogato d’un equivalente
depressivo (Coyne J. C. 1994). Per esempio, tra adolescenti, risulta essere un fenomeno
piuttosto diffuso la rottura d’un rapporto sentimentale. Per cui, l’inquietudine, o la difficoltà a
concentrarsi, in seguito a ciò, non andrebbe enfatizzata più di tanto, soprattutto se tale
emozione deprimente non perdura oltre il suo consueto limite.
Altre volte, si fa confusione tra mancanza di benessere, situazione stressante e stress nudo e
crudo. Di per sé, uno stress non patologico compare quale funzione di condizioni esterne
rispetto alle quali rimane del tutto proporzionale e dipendente, mentre il vero disturbo
depressivo è conseguenza d’una disfunzione psicologica interna e autonoma nei confronti
degli accadimenti.
Le conseguenze d’uno stress provocato da normali situazioni e fattori sociali possono rivelarsi
comunque esagerate e rientrare quindi nel disturbo mentale, almeno quanto gravi cause
esterne, di natura traumatizzante, quali violenze, combattimenti, disastri, possano procurare
disfunzioni psicologiche abbastanza tipiche (Mollica et al. 1998, 1999). Ma anche il prolungarsi
della situazione stressante, come la povertà senza prospettive, infonde un senso pervasivo di
disperazione che potrebbe permanere interiorizzato persino dopo il cambiamento delle
circostanze che l’avevano provocato. Si tratta d’una caratteristica tipicamente umana,
brillantemente posta in rilievo da Robert Morris Sapolsky nel suo “Why Zebras Don’t Get Ulcers”
(1993), pur sempre però in esito a risposte prevedibili (Price et al. 1994, Nesse 2000), in
quanto preordinate da meccanismi reattivi normalmente funzionanti.
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Giuseppe M. S. Ierace
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