Giurisprudenza del Lavoro 2010. Atti del Convegno 6/07/2011

AIDP
Associazione Italiana per la Direzione del Personale
Gruppo Lazio
LA GIURISPRUDENZA DEL LAVORO
2010
ROMA, 6 LUGLIO 2011
A CURA DI
AVV. MAURIZIO MANICASTRI
PROF. AVV. MARCO MARAZZA
VICE PRESIDENTE AIDP/LAZIO
ORDINARIO DI DIRITTO DEL LAVORO
UNIVERSITÀ DI TERAMO
STUDIO LEGALE MARAZZA & ASSOCIATI
CON IL CONTRIBUTO SULL’EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE IN MATERIA DI
INQUADRAMENTO
DI
AVV. DOMENICO DE FEO
SOCIO
STUDIO LEGALE MARAZZA & ASSOCIATI
*****
HA COLLABORATO ALLA REDAZIONE DELLA RASSEGNA
DR.SSA ISIDE DE GIULIO
STUDIO LEGALE MARAZZA &ASSOCIATI
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STUDIO LEGALE MARAZZA & ASSOCIATI
ROMA - MILANO - FIRENZE
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SOMMARIO
A. Il contratto collettivo di lavoro
- Interpretazione
- Efficacia
B. Lavoro subordinato e lavoro autonomo
C. Costituzione del rapporto
- Collocamento obbligatorio
- Patto di prova
D. I contratti a contenuto formativo
E. Il contratto di lavoro a tempo determinato
F. Il contratto di lavoro part-time
G. Il contratto di lavoro a progetto
H. Il contratto di associazione in partecipazione
I. La somministrazione di lavoro
J. Orario di lavoro
K. La retribuzione
- Obblighi retributivi
- T.F.R.
- Il Fondo di garanzia INPS
- Prescrizione crediti retributivi
L. Inquadramento e mansioni del lavoratore
-Inquadramento
- Lo ius variandi
- Le mansioni equivalenti, superiori e promiscue
- Il danno da demansionamento
M. Potere direttivo e modificazione del luogo di lavoro
- Il trasferimento
- La trasferta
- Il distacco
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N. Salute e sicurezza sul lavoro
- L’art. 2087 c.c. e le prestazioni di sicurezza
- Infortunio in itinere
- Il mobbing
O. La malattia
P. L’appalto
Q. Cessione d'azienda e diritti del lavoratore
R. Il potere disciplinare del datore di lavoro
- Contestazione e vincoli procedurali
- Proporzionalità della sanzione
S. I licenziamenti individuali
- Varie
- Giusta causa e giustificato motivo
- Superamento del periodo di comporto
- Licenziamento del dirigente
- Profili risarcitori
T. I licenziamenti collettivi
- Procedure di mobilità e cassa integrazione
U. Le dimissioni del lavoratore
V. L’attività sindacale
W. Rapporto previdenziale
X. Rinunce e transazioni
Z. Aspetti processuali
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A. Il contratto collettivo di lavoro
- Interpretazione
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 novembre 2010, n. 23635
Nel giudizio di legittimità le censure relative all'interpretazione del contratto
collettivo offerta dal giudice di merito possono essere prospettate solo sotto il profilo
della mancata osservanza dei criteri legali di ermeneutica contrattuale o della
insufficienza o contraddittorietà della motivazione, mentre la mera contrapposizione
fra l'interpretazione proposta dal ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata
non rileva ai fini dell'annullamento di quest'ultima. Sia la denuncia della violazione
delle regole di ermeneutica che la denuncia del vizio di motivazione esigono una
specifica indicazione, e cioè la precisazione del modo attraverso il quale si è
realizzata la violazione anzidetta e delle ragioni dell'obiettiva deficienza e
contraddittorietà del ragionamento del giudice, non potendo le censure risolversi, in
contrasto con la qualificazione loro attribuita dalla parte ricorrente, nella mera
contrapposizione di un'interpretazione diversa da quella criticata. (Nella specie la S.C.
ha confermato la sentenza impugnata che, con congrua e logica motivazione e sulla
base dell'interpretazione dell'accordo integrativo per i giornalisti RAI 18 luglio 1997,
aveva dichiarato la sussistenza di un contratto di assunzione a tempo indeterminato).
(Rigetta, App. Milano, 17/01/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 12 luglio 2010, n. 16298
Nell'interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune deve ritenersi preminente
la regola che impone di avere riguardo al significato letterale delle parole, restando
precluso, in presenza di dati testuali sufficientemente chiari ed univoci, il ricorso ad
altri canoni di interpretazione, ai quali è pertanto riconoscibile natura sussidiaria.
(Nella specie, la S.C., nel cassare la sentenza di merito, ha stabilito che il contratto
collettivo regionale recepito dal D.P. Reg. 19 novembre 1999, n. 26, all'art. 15,
comma terzo, prevede chiaramente l'attribuzione di compensi in favore dei funzionari
per particolari posizioni di responsabilità). (Cassa e decide nel merito, App. Messina,
27/06/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 17 febbraio 2010, n. 3685
Nell'interpretazione del contratto collettivo, è necessario procedere al coordinamento
delle varie clausole contrattuali, prescritto dall'art. 1363 cod. civ., anche quando
l'interpretazione possa essere compiuta sulla base del senso letterale delle parole,
senza residui di incertezza, poiché l'espressione "senso letterale delle parole" deve
intendersi come riferita all'intera formulazione letterale della dichiarazione negoziale
e non già limitata ad una parte soltanto, qual è una singola clausola del contratto
composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e confrontare fra loro frasi e
parole al fine di chiarirne il significato. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha
cassato la sentenza impugnata, che, nell'interpretazione dell'accordo sindacale del 24
marzo 1993, concernente la collocazione in cassa integrazione e la rotazione dei
dipendenti della Alenia Aeronavali S.p.A., già Officine Aeronavali S.p.A., non aveva
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preso in esame la clausola transitoria secondo cui l'accordo annullava e sostituiva le
precedenti intese in ordine ai criteri di rotazione del personale, omettendo di valutare i
criteri di collegamento che le parti sociali avevano inteso realizzare fra l'accordo del
1993 e le precedenti intese del 1992). (Cassa con rinvio, Trib. Napoli, 03/06/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 febbraio 2010, n. 2625
È riservata al giudice di merito l'interpretazione dell'accordo aziendale, in ragione
della sua efficacia limitata (diversa da quella propria degli accordi e contratti
collettivi nazionali, oggetto di esegesi diretta da parte della Corte di Cassazione, ai
sensi dell'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., come modificato dal d.lgs. n. 40 del 2006), ed
essa non è censurabile in cassazione se non per vizio di motivazione o per violazione
di canoni ermeneutici. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata la
quale, nell'interpretare l'accordo aziendale 22 giugno 1974 per il personale del
Poligrafico dello Stato, aveva ritenuto che la previsione in esso contenuta di
assorbimento dei compensi relativi al ritmo di produzione si riferisse solo ai
compensi analoghi riguardanti comunque la produttività, e fosse estranea, invece, ai
compensi percepiti dai lavoratori per la prestazione di lavoro straordinario). (Rigetta,
App. Roma, 09/05/2006).
- Efficacia
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 aprile 2011, n. 8994
La disdetta del CCNL trova applicazione esclusivamente con riferimento alle
organizzazioni sindacali firmatarie dello stesso contratto ma non di certo con
riferimento alle parti del rapporto di lavoro individuale, salva l'ipotesi di contratti
aziendali, stipulati dal singolo datore di lavoro e dai sindacati locali dei lavoratori e
dai quali, ricorrendone i presupposti, anche il datore di lavoro, quale parte
contrattuale, può recedere.
Corte giustizia Unione Europea Grande Sez., 12 ottobre 2010, n. 45
Gli articoli 1 e 2 della Direttiva n. 2000/78/CE devono essere interpretati nel senso
che essi non ostano a che uno Stato membro dichiari applicabile erga omnes un
contratto collettivo come quello di cui trattasi nella causa principale, a condizione che
esso non privi i lavoratori che ricadono nella sfera di applicazione di detto contratto
collettivo della protezione offerta loro dalle citate disposizioni contro le
discriminazioni fondate sull'età.
Cass. civ. Sez. lavoro, 7 ottobre 2010, n. 20784
I contratti collettivi di diritto comune, costituendo manifestazione dell'autonomia
negoziale degli stipulanti, operano esclusivamente entro l'ambito temporale
concordato dalle parti, atteso che l'opposto principio di ultrattività della vincolatività
del contratto scaduto sino ad un nuovo regolamento collettivo, ponendosi come limite
alla libera volontà delle organizzazioni sindacali, sarebbe in contrasto con la garanzia
prevista dall'art. 39 Cost. (Nella specie la S.C., in applicazione del principio di cui
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alla massima, ha escluso l'ultrattività del CCNL per i dipendenti dell'Ente Poste
Italiane stipulato il 24 novembre 1994, atteso che l'art. 87 dello stesso prevedeva che
l'accordo sarebbe rimasto in vigore fino al 31 dicembre 1997 e che da quella data il
rapporto sarebbe stato disciplinato dalle norme di diritto privato). (Rigetta, App.
Roma, 12/04/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 8 aprile 2010, n. 8342
La reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di
lavoro nei confronti dei propri dipendenti che si traduca in trattamento economico o
normativo di maggior favore rispetto a quello previsto dai contratti (individuali e
collettivi) integra, di per sé, gli estremi dell'uso aziendale, il quale, in ragione della
sua appartenenza al novero delle cosiddette fonti sociali - tra le quali vanno
considerati sia i contratti collettivi, sia il regolamento d'azienda e che sono definite
tali perché, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano
meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un'uniforme disciplina dei
rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un'azienda agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa
efficacia di un contratto collettivo aziendale. Ne consegue che ove la modifica "in
melius" del trattamento dovuto ai lavoratori trovi origine nell'uso aziendale, ad essa
non si applica né l'art. 1340 cod. civ. - che postula la volontà, tacita, delle parti di
inserire l'uso o di escluderlo - né, in generale, la disciplina civilistica sui contratti con esclusione, quindi, di un'indagine sulla volontà del datore di lavoro e dei sindacati
- né, comunque, l'art. 2077, comma secondo, cod. civ., con la conseguente
legittimazione delle fonti collettive (nazionali e aziendali) di disporre una modifica
"in peius" del trattamento in tal modo attribuito. (Rigetta, App. Trieste, 22/02/2006).
Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 11 febbraio 2010, n. 405
La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 11 marzo 2002, Direttiva n.
2002/14/CE, che istituisce un quadro generale relativo all'informazione e alla
consultazione dei lavoratori nella Comunità europea, deve essere interpretata nel
senso che non osta ad una sua trasposizione, mediante contratto, che comporti che
una categoria di lavoratori ricada sotto il contratto collettivo in causa, benché i
lavoratori appartenenti a tale categoria non siano membri dell'organizzazione
sindacale firmataria del detto contratto e il loro settore di attività non sia
rappresentato da tale organizzazione, nei limiti in cui il contratto collettivo sia idoneo
a garantire ai lavoratori rientranti nel suo ambito di applicazione una tutela effettiva
dei diritti loro conferiti da questa stessa direttiva
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B. Lavoro subordinato e lavoro autonomo
Cass. civ. Sez. lavoro, 29 novembre 2010, n. 24130
La sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra datore e lavoratore non può
essere di per sé esclusa dalla presenza di un vincolo parentale tra le stesse parti. Di
conseguenza, se viene accertata l'esistenza di un rapporto di lavoro dipendente non
può che derivarne anche un obbligo di versamento dei contributi assicurativi.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 novembre 2010, n. 23925
Il mero conferimento dell'incarico di direttore responsabile di un periodico, ai sensi
dell'art. 3 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, con la relativa indicazione dello stesso
nel periodico, non comporta, di per sé, l'instaurazione di un rapporto di lavoro
subordinato che sussiste ove, sulla base delle modalità effettive di esecuzione della
prestazione, sia accertato, oltre allo svolgimento di una attività pubblicistica,
ancorché episodica, e alla assunzione delle responsabilità esterne derivanti dalla
legge, il continuativo esercizio delle responsabilità interne derivanti dalla
preposizione, circa gli orientamenti e gli specifici contenuti del quotidiano o
periodico, anche se all'opera redazionale si provveda in collettivo, con gli altri
collaboratori interni della testata; è, invece, irrilevante il contenimento della
soggezione del direttore al potere direttivo della proprietà editoriale, nei limiti delle
direttive originariamente impartite, derivando l'ampia autonomia decisionale di chi
dirige un quotidiano o periodico sia dalla preposizione al vertice della organizzazione
giornalistica, sia dal contenuto spiccatamente fiduciario del rapporto, sia dalla
garanzia costituzionale del pluralismo e della libertà di informazione. (Rigetta, App.
Napoli, 31/07/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 novembre 2010, n. 23624
In tema di rapporto di lavoro domestico in situazione di convivenza, l'esistenza di un
contratto a prestazioni corrispettive deve essere escluso solo in presenza della
dimostrazione di una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi (famiglia di
fatto), che non si esaurisca in un rapporto meramente affettivo o sessuale, ma dia
luogo anche alla partecipazione, effettiva ed equa, del convivente alla vita e alle
risorse della famiglia di fatto in modo che l'esistenza del vincolo di solidarietà porti
ad escludere la configurabilità di un rapporto a titolo oneroso. (Nella specie, la S.C.,
in applicazione dell'anzidetto principio, ha ritenuto che, pur in presenza di un vincolo
affettivo - attestato dalla partecipazione alle attività familiari da piccoli doni, arredo
delle stanze, aiuto prestato da altri familiari - non potesse escludersi l'esistenza di un
rapporto di lavoro subordinato, con obbligo di curare e assistere i figli del datore di
lavoro e di provvedere alle faccende domestiche, non assumendo alcun rilievo, ai fini
della qualificazione del rapporto, l'originario intento altruistico di accogliere in casa
la lavoratrice perché bisognosa di aiuto). (Cassa con rinvio, App. Cagliari,
11/08/2006).
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Cass. civ. Sez. lavoro, 16 novembre 2010, n. 23129
Nelle società di persone è configurabile un rapporto di lavoro subordinato tra la
società e uno dei soci purché ricorrano due condizioni: a) che la prestazione non
integri un conferimento previsto dal contratto sociale; b) che il socio presti la sua
attività lavorativa sotto il controllo gerarchico di un altro socio munito di poteri di
supremazia. Il compimento di atti di gestione o la partecipazione alle scelte più o
meno importanti per la vita della società non sono, in linea di principio, incompatibili
con la suddetta configurabilità, sicché anche quando esse ricorrano è comunque
necessario verificare la sussistenza delle suddette due condizioni. (In applicazione
dell'anzidetto principio, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso poiché il socio
si era limitato a dedurre la sua partecipazione ai dividendi e alla gestione della
società, circostanza in sé non decisiva, nonché la mancata corresponsione della
retribuzione, così richiedendo alla Corte la diretta valutazione dei fatti). (Dichiara
inammissibile, App. Salerno, 03/11/2006).
Cass. civ. Sez. II, 11 giugno 2010, n. 14085
L'esecuzione di una prestazione d'opera professionale di natura intellettuale effettuata
da chi non sia iscritto nell'apposito albo previsto dalla legge dà luogo, ai sensi degli
artt. 1418 e 2231 cod. civ., a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente,
privando il contratto di qualsiasi effetto, con la conseguenza che il professionista non
iscritto all'albo o che non sia munito nemmeno della prescritta qualifica professionale
per appartenere a categoria del tutto differente, non ha alcuna azione per il pagamento
della retribuzione, nemmeno quella sussidiaria di arricchimento senza causa,
sempreché la prestazione espletata dal professionista rientri in quelle attività che sono
riservate in via esclusiva a una determinata categoria professionale, essendo
l'esercizio della professione subordinato per legge all'iscrizione in apposito albo o ad
abilitazione. Al di fuori di tali attività vige, infatti, il principio generale di libertà di
lavoro autonomo o di libertà di impresa di servizi, a seconda del contenuto delle
prestazioni e della relativa organizzazione, salvi gli oneri amministrativi o
tributari.(Nella specie la S.C., in applicazione del riportato principio, ha cassato la
sentenza della corte di merito che aveva escluso il diritto al compenso chiesto da un
consulente del lavoro, affermando che le attività professionali svolte - tenuta delle
scritture contabili dell'impresa, redazione dei modelli IVA o per la dichiarazione dei
redditi, effettuazione di conteggi ai fini dell'IRAP o ai fini dell'ICI, richiesta di
certificati o presentazione di domande presso la Camera di Commercio - non
rientravano in quelle riservate solo a soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica
abilitazione). (Cassa e decide nel merito, App. Genova, 20/10/2004).
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 aprile 2010, n. 9252
Ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, quando l'elemento
dell'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente
apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni (e, in particolare, della loro
natura intellettuale o professionale) e del relativo atteggiarsi del rapporto, occorre fare
riferimento a criteri complementari e sussidiari, come quelli della collaborazione,
della continuità delle prestazioni, dell'osservanza di un orario determinato, del
versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento
dell'attività lavorativa all'assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell'assenza
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in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale, elementi che,
privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente con indizi
probatori della subordinazione. (Nel caso di specie, la S.C. ha confermato la sentenza
impugnata, che aveva qualificato come di lavoro subordinato il rapporto intercorso tra
una insegnante di scuola privata e l'istituto ove essa insegnava, attraverso
l'individuazione di rilevanti indici sintomatici, quali l'assoggettamento del lavoratore
al potere di coordinamento e disciplinare del datore di lavoro, il suo inserimento
nell'organizzazione aziendale, la fissazione dell'orario di lavoro e degli orari delle
attività ausiliarie da parte del datore di lavoro, l'obbligo del rispetto dei programmi di
insegnamento ministeriali, e la svalutazione, invece, dell'importanza della espressione
formale della volontà contrattuale, riportata nella sottoscrizione di un modulo a
stampa ove il rapporto veniva definito come autonomo). (Rigetta, Trib. Modica,
23/05/2005).
App. Firenze, 9 febbraio 2010
Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce, nel nostro
ordinamento, il prototipo negoziale cui ricondurre tutte le ipotesi nelle quali Tizio
lavori per Caio a fronte di un compenso che sia rapportato alla messa a disposizione
delle energie lavorative e quando non sia dedotto in contratto un risultato cui il
compenso medesimo sia misurato; quando cioè oggetto della prestazione sia lo
svolgimento di un compito strutturato nella organizzazione aziendale ed al prestatore
non si richieda la spendita della sua qualità di imprenditore o libero professionista;
donde, la regola è la subordinazione a tempo indeterminato e l'eccezione è
rappresentata da ogni altro schema negoziale in astratto utilizzabile dalle parti, con la
conseguenza che la ricostruzione giuridica del tipo contrattuale eccezionale obbedisce
a criteri di stretta interpretazione.
***
C. Costituzione del rapporto
- Collocamento obbligatorio
Cass. civ. Sez. lavoro, 31 maggio 2010, n. 13285
In caso di assunzione con contratto a tempo determinato di un disabile psichico sulla
base di specifica previsione della convenzione stipulata tra l'impresa che assume e la
P.A. ai sensi della L. 12 marzo 1999, n. 68, art. 11, non è richiesta l Indicazione nel
contratto di lavoro delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o
sostitutivo eh giustificano l'apposizione del termine.
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 giugno 2010, n. 15058
La ratio dell'art 9, L. 12 marzo 1999, n. 68, che attribuisce al datore di lavoro la
facoltà di indicare nella richiesta di avviamento la qualifica del lavoratore disabile da
assumere a copertura dei posti riservati, in un sistema di c.d. avviamento mirato, va
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ravvisata nel consentire, mediante il riferimento ad una specifica qualifica,
l'indicazione delle prestazioni richieste dal datore di lavoro sotto il profilo qualitativo
delle capacità tecnico-professionali di cui il lavoratore avviato deve essere provvisto,
secondo la formale indicazione dell'atto di avviamento, al fine di una sua collocazione
nell'organizzazione aziendale, che sia utile all'impresa e che nello stesso tempo, per
consentire l'espletamento delle mansioni per le quali il lavoratore è stato assunto, non
si traduca in una lesione della sua professionalità e dignità. Ne consegue che il datore
di lavoro può legittimamente rifiutare l'assunzione non soltanto di un lavoratore con
qualifica che risulti, in base all'atto di avviamento, diversa, ma anche di un lavoratore
con qualifica "simile" a quella richiesta, in mancanza un suo previo addestramento o
tirocinio da svolgere secondo le modalità previste dalla stessa L. n. 68 del 1999, art.
12.
- Patto di prova
Cass. civ. Sez. lavoro, 17 novembre 2010, n. 23224
Ai sensi dell'art. 2096 c.c. e della legge n. 604 del 1966, la disciplina inerente i
licenziamenti individuali non si applica, per un periodo massimo di sei mesi, al
rapporto di lavoro subordinato costituito con patto di prova. La caratteristica peculiare
di siffatto rapporto è la natura discrezionale dello stesso: posto che lo scopo della
prova è quello di consentire, tanto al datore di lavoro quanto al dipendente, di
acquisire consapevolezza circa la convenienza di addivenire alla stipula di un
contratto definitivo, è evidente che entrambe le parti devono essere libere di valutare
liberamente la sussistenza di siffatta convenienza e decidere se perpetrare o meno nel
rapporto. L'esercizio della discrezionalità da parte del datore di lavoro non è peraltro
assoluta, nel senso che l'eventuale licenziamento del lavoratore nel corso del periodo
di prova è nullo ove il motivo del recesso sia estraneo alla causa del patto di prova,
comminato, in altri termini, illecitamente anche se l'esperimento, da parte del
lavoratore, sia stato positivamente superato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 17 novembre 2010, n. 23231
In tema di assunzione in prova, l'illegittimità del recesso, per l'inadeguata durata della
prova o l'esistenza di un motivo illecito non comporta l'applicazione delle norme di
cui alla legge 15 luglio 1966, n. 604 o dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ma la
prosecuzione della prova per il periodo mancante oppure il risarcimento del danno,
dovendosi escludere che la dichiarazione di illegittimità del recesso durante il periodo
di prova determini la stabile costituzione del rapporto di lavoro. (Rigetta, App.
Catania, 17/01/2007).
Cass. civ. Sez. lavoro, 27 ottobre 2010, n. 21965
Se il licenziamento del lavoratore invalido in prova rientra nell’area della
“recedibilità acausale”, ciò non vuol dire che il datore di lavoro possa esercitare
arbitrariamente il proprio diritto di recesso. Il lavoratore, infatti, potrà sempre
dimostrare che il recesso è stato determinato da motivi illeciti, tra i quali anche lo
svolgimento della prova con l’assegnazione di mansioni incompatibili con lo stato di
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invalidità, e che esso sia stato intimato nonostante il superamento del periodo di
prova, comportando così l’elusione della disciplina sul collocamento dei disabili e
ponendo in essere un licenziamento in frode alla legge. In ogni caso, il lavoratore non
avrà diritto ad essere reintegrato dal momento che non trova applicazione la tutela di
cui all’art. 18 Stat. Lav.
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 ottobre 2010, n. 21758
La forma scritta necessaria, a norma dell'art. 2096 cod. civ., per il patto di assunzione
in prova è richiesta "ad substantiam", e tale essenziale requisito di forma, la cui
mancanza comporta la nullità assoluta del patto di prova, deve sussistere sin
dall'inizio del rapporto, senza alcuna possibilità di equipollenti o sanatorie, potendosi
ammettere solo la non contestualità della sottoscrizione di entrambe le parti prima
della esecuzione del contratto, ma non anche la successiva documentazione della
clausola verbalmente pattuita mediante la sottoscrizione, originariamente mancante,
di una delle parti, atteso che ciò si risolverebbe nella inammissibile convalida di un
atto nullo, con sostanziale diminuzione della tutela del lavoratore. (Nella specie, la
S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto la nullità del patto di
prova sottoscritto dal dipendente a distanza di alcuni giorni dall'assunzione). (Rigetta,
App. Ancona, 17/07/2006).
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D. I contratti a contenuto formativo
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 marzo 2011, n. 6639
Nel rapporto di lavoro subordinato privato non opera, di regola, il principio di parità
di trattamento retributivo; ne consegue la validità dell'art. 7 del CCNL del 1995 del
settore autoferrotranvieri laddove prevede la riduzione salariale per i primi 15 mesi di
rapporto a tempo indeterminato, a seguito della trasformazione di contratto di
formazione e lavoro, per i motivi espressi dalle parti stipulanti e, cioè, per l'incentivo
premiante per il datore di lavoro che trasformi in rapporti a tempo indeterminato
l'80% dei contratti di formazione e lavoro in scadenza e per la considerazione che i
lavoratori "neoassunti" si trovino in possesso di una professionalità non comparabile
con quella degli altri. (Cassa con rinvio, App. Milano, 01/07/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 28 settembre 2010, n. 20357
In tema di apprendistato, posto che la disciplina legislativa in materia (legge 19
gennaio 1955, n. 25) è volta a garantire che il percorso dell'apprendimento
professionale sia effettivo e non meramente formale, se non addirittura fittizio, il
termine finale del rapporto speciale deve essere certo e non può, relativamente ad
esso, esservi ambiguità quanto all'incidenza della detrazione dei periodi di eventuali
sospensioni prolungate dal lavoro. Ne consegue che il datore di lavoro, ove ritenga di
detrarre dall'apprendistato il periodo di assenza del lavoratore, spostando la scadenza
convenuta ad altra data, ha l'obbligo di comunicare al lavoratore stesso, prima della
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scadenza, il differimento, spiegandone le ragioni e indicando la nuova scadenza o il
periodo che deve essere detratto. (Rigetta, App. Torino, 27/10/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 28 settembre 2010, n. 20357
La scadenza del termine dell'apprendistato in assenza di disdetta da parte del datore di
lavoro comporta, in forza dell'art. 19 della legge 19 gennaio 1955, n. 25, la
continuazione del rapporto lavorativo come ordinario rapporto di lavoro subordinato
assoggettato alla regola generale in materia di durata, del tempo indeterminato, con la
conseguente applicazione della disciplina generale sui licenziamenti, dovendo
escludersi, con riferimento al regime giuridico dell'apprendistato e del rapporto di
lavoro a termine applicabili "ratione temporis" ed attualmente ampiamente
modificati, la trasformabilità del primo nel secondo, trattandosi di tipologie di
rapporto di natura speciale, dotate di un proprio, peculiare, regime di recesso e delle
sue conseguenze. (Rigetta, App. Torino, 27/10/2005).
Cass. civ. Sez. Unite, 23 settembre 2010, n. 20074
Il principio contenuto nell'art. 3 del d.l. n. 726 del 1984, convertito dall'art. 1 della
legge n. 863 del 1984, secondo il quale in caso di trasformazione del rapporto di
formazione e lavoro in rapporto a tempo indeterminato, ovvero nel caso di assunzione
a tempo indeterminato, con chiamata nominativa, entro dodici mesi dalla cessazione
del rapporto di formazione e lavoro, il periodo di formazione e lavoro deve essere
computato nell'anzianità di servizio, opera anche quando l'anzianità sia presa in
considerazione da discipline contrattuali ai fini dell'attribuzione di emolumenti che
hanno fondamento nella sola contrattazione collettiva, come nel caso degli aumenti
periodici di anzianità di cui all'art. 7, lett. C), dell'accordo nazionale 11 aprile 1995,
riprodotto nel successivo art. 7, lett. C), dell'accordo nazionale 27 novembre 2000,
per i dipendenti di aziende di trasporto in concessione. (Rigetta, Trib. Torino,
31/01/2008).
Cass. civ. Sez. lavoro, 20 settembre 2010, n. 19834
In tema di apprendistato è necessario che il rapporto di tirocinio abbia un effettivo
contenuto formativo professionale, la cui valutazione, in coerenza con la previsione di
cui all'art. 16, comma 2, della legge n. 196 del 1997, deve essere operata in concreto
in relazione ad ogni singolo rapporto di lavoro. Ne consegue che, pur essendo
ortrattamente ammissibile la stipula di contratti di apprendistato con soggetti in
possesso di titolo di studio post-obbligo o di attestato di qualifica professionale, il
possesso del diploma di geometra non legittima la stipula di un contratto di
apprendistato per lo svolgimento di mansioni di disegnatore tecnico, attesa la
formazione specifica, impartita dall'Istituto per geometri, per il disegno tecnico in
generale e per la progettazione, nonché per quello meramente esecutivo e traspositivo
di particolari dei progetti esecutivi che comportano la superfluità di un addestramento
pratico senza che possa considerarsi sufficiente, in senso contrario, una dichiarazione
negoziale meramente qualificatoria del rapporto instaurato.
12
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 giugno 2010, n. 15055
In tema di apprendistato, l'art. 21, comma 6, della legge n. 56 del 1987, prevede che i
benefici contributivi previsti dalla legge n. 25 del 1955 (Disciplina dell'apprendistato)
e successive modificazioni ed integrazioni, in materia di previdenza ed assistenza
sociale, possano essere prolungati all'anno successivo alla trasformazione
dell'apprendistato in un rapporto a tempo indeterminato, purché il lavoratore venga, a
seguito della predetta trasformazione e per il lasso temporale di un anno, utilizzato
per la qualifica per cui il medesimo ha ricevuto la formazione. In tal senso, nel caso
concreto, sono state considerate legittime le pretese contributive dell'I.N.P.S. e
dell'I.N.A.I.L. nei confronti del datore di lavoro che, solo dopo quattro giorni dalla
formale attribuzione al lavoratore della qualifica (operaio meccanico operatore) per la
cui acquisizione era stato svolto l'apprendistato, gli aveva poi riconosciuto un'altra e
diversa qualifica (impiegato addetto alle revisioni), sì da non poter più usufruire dei
benefici contributivi in parola.
Corte cost., 14 maggio 2010, n. 176
E' costituzionalmente illegittimo l'art. 23, comma 2, del D.L. 25 giugno 2008, n. 112,
recante "Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria",
come convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 ("Conversione in legge, con
modificazioni, del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, recante disposizioni urgenti per lo
sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della
finanza pubblica e la perequazione tributaria"), nella parte in cui, modificando l'art.
49 del D.Lgs. n. 276 del 2003, stabilisce che, in caso di formazione esclusivamente
aziendale, la regolamentazione dei profili formativi dell'apprendistato
professionalizzante non è definita dalle regioni d'intesa con le associazioni dei datori
di lavoro e dei lavoratori, ma dai contratti collettivi di lavoro. Infatti nell'ipotesi di
apprendistato, con formazione esclusivamente aziendale, deve comunque essere
riconosciuto alle Regioni un ruolo di stimolo e di controllo dell'attività formativa.
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 2 della stessa
disposizione nella parte in cui consente che l'apprendistato professionalizzante possa
durare anche meno di due anni anziché, com'era previsto in precedenza, non meno di
due anni, né del comma 4 nella parte in cui elimina l'obbligo di sottoscrivere un'intesa
con le regioni, per poter utilizzare il contratto di apprendistato di alta formazione.
***
E. Il contratto di lavoro a tempo determinato
Cass. civ. Sez. lavoro, 17 febbraio 2011, n. 3871
In base ad un'interpretazione coerente con il principio di non discriminazione dei
lavoratori a tempo determinato, sancito dall'art. 6 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368,
in attuazione della direttiva comunitaria 70/1999 relativa all'accordo quadro sul
13
lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES, deve ritenersi
che l'art. 13 del c.c.n.l. del 16 maggio 2001, relativo al comparto Ministeri e
integrativo del precedente c.c.n.l. del 16 febbraio 1999, nel prevedere la fruibilità di
permessi retribuiti per motivi di studio, nella misura di 150 ore, da parte dei
dipendenti con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, non esclude che i medesimi
permessi debbano essere concessi a dipendenti assunti a tempo determinato, sempre
che non vi sia un'obiettiva incompatibilità in relazione alla natura del singolo
contratto a termine; né l'esclusione del beneficio potrebbe giustificarsi, in ragione
della mera apposizione del termine di durata contrattuale, per l'assenza di uno
specifico interesse della P.A. alla elevazione culturale dei dipendenti, giacché la
fruizione dei permessi di studio prescinde dalla sussistenza di un tale interesse in capo
al datore di lavoro, pubblico o privato, essendo riconducibile a diritti fondamentali
della persona, garantiti dalla Costituzione (art. 2 e 34 Cost.) e dalla Convenzione dei
diritti dell'uomo (art. 2 Protocollo addizionale CEDU), e tutelati dalla legge in
relazione ai diritti dei lavoratori studenti (art. 10 della legge n. 300 del 1970).
(Rigetta, App. Trento, 18/10/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 28 gennaio 2011, n. 2112
Deve dichiararsi la rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni di
legittimità costituzionale dell'art. 32, commi 5 e 6, L. 4 novembre 2010, n. 183,
sollevate con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 Cost. Deve ordinarsi la
sospensione del giudizio a quo e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 gennaio 2011, n. 80
L'applicazione retroattiva dell'art. 32, comma 5, della L. n. 183/2010 trova limite nel
giudicato formatosi sulla domanda risarcitoria conseguente all'impugnazione del
termine illegittimamente apposto al contratto di lavoro, in quanto l'impugnazione del
solo capo relativo alla declaratoria di nullità del termine non impedisce la formazione
del giudicato sul capo di domanda relativo al risarcimento del danno. D'altra parte,
nei procedimenti dinanzi la Cassazione, tale applicazione è possibile solo se la nuova
disciplina sia pertinente alle questioni oggetto di censura nel ricorso e vi sia stata la
formulazione di uno specifico quesito di diritto relativo alle conseguenze patrimoniali
dell'accertata nullità del termine.
Cass. civ. Sez. lavoro, 3 gennaio 2011, n. 65
In tema di rapporto di lavoro a termine, l'applicazione retroattiva dell'art. 32, quinto
comma, della legge 4 novembre 2010, n. 183 - il quale ha stabilito che, in caso di
conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro
al pagamento di una "indennità onnicomprensiva" compresa tra 2, 5 e 12 mensilità
dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8
della legge 15 luglio 1966, n. 604 -, prevista dal successivo settimo comma del
medesimo articolo in relazione a tutti i giudizi, compresi quelli pendenti alla data di
entrata in vigore della legge, trova limite nel giudicato formatosi sulla domanda
risarcitoria a seguito dell'impugnazione del solo capo relativo alla declaratoria di
nullità del termine, e non anche della ulteriore statuizione relativa alla condanna al
risarcimento del danno, essendo quest'ultima una statuizione avente individualità,
14
specificità ed autonomia proprie rispetto alle determinazioni concernenti la natura del
rapporto. (Rigetta, App. Torino, 02/03/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 novembre 2010, n. 23319
Nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico
rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione
di un termine a numerosi contratti intervallati da periodi di inattività, affinché possa
configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, é necessario che sia
accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo
contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali
circostanze significative - una chiara e comune volontà delle parti di porre fine ad
ogni rapporto lavorativo, con la precisazione che, a tal fine, non è sufficiente la mera
discontinuità della prestazione lavorativa; la valutazione del significato e della portata
del complesso dei predetti elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui
conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità, se non sussistono vizi logici o
errori di diritto. (Nella specie la S.C., in applicazione del riportato principio, ha
cassato con rinvio la sentenza di merito che, in relazione a quattordici contratti a
termine stipulati tra le parti, aveva affermato la sussistenza di più rapporti a tempo
determinato, sul mero rilievo dell'esistenza di significative interruzioni temporali di
circa un anno ripetutesi tre volte, le quali non avrebbero consentito l'unificazione
dell'intero rapporto, senza tuttavia spiegare in base a quali criteri tali interruzioni
erano state ritenute significative, senza valutare il comportamento delle parti e
l'affidamento derivante dal lungo pregresso rapporto, di tal ché non era dato
comprendere la ragione per la quale, dopo un rapporto riconosciuto a tempo
indeterminato, le predette interruzioni costituissero risoluzioni per mutuo consenso).
(Cassa con rinvio, App. Roma, 31/05/2006).
Cass. civ. Sez. VI, 16 novembre 2010, n. 23119
L'art. 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, che demanda alla contrattazione
collettiva la possibilità di individuare - oltre le fattispecie tassativamente previste
dall'art. 1 della legge 18 aprile 1962, n. 230 e successive modifiche nonché dall'art. 8
bis del d.l. 29 gennaio 1983, n. 17, convertito con modificazioni dalla legge 15 marzo
1983, n. 79 - nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di
lavoro, configura una vera e propria "delega in bianco" a favore dei sindacati, i quali,
pertanto, senza essere vincolati alla individuazione di figure di contratto a termine
comunque omologhe a quelle previste per legge, possono legittimare il ricorso al
contratto di lavoro a termine per causali di carattere "oggettivo" ed anche - alla
stregua di esigenze riscontrabili a livello nazionale o locale - per ragioni di tipo
meramente "soggettivo", consentendo (vuoi in funzione di promozione
dell'occupazione o anche di tutela delle fasce deboli di lavoratori) l'assunzione di
speciali categorie di lavoratori, costituendo anche in questo caso l'esame congiunto
delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i suddetti
lavoratori e per una efficace salvaguardia dei loro diritti. (Principio affermato ai sensi
dell'art. 360 bis, comma 1, cod. proc. civ.). (Rigetta, App. Palermo, 16/07/2009)
15
Cass. civ. Sez. lavoro, 15 novembre 2010, n. 23057
Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, la mera inerzia del lavoratore dopo la
scadenza del contratto a termine è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una
risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinché possa configurarsi
una tale risoluzione, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo
trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del
comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara
e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni
rapporto lavorativo dovendosi, peraltro, considerare che l'azione diretta a far valere la
illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle
disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l'assunzione a tempo
determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto
con norme imperative ex artt. 1418 e 1419, comma 2, cod. civ. di natura
imprescrittibile pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal
rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione "ex lege" del rapporto a
tempo determinato cui era stato apposto illegittimamente il termine. (Nella specie,
relativa ad una pluralità di contratti a tempo determinato conclusi tra un aiuto
arredatore e la RAI S.p.a., la S.C., in applicazione dell'anzidetto principio ha ritenuto
che correttamente la Corte di merito avesse dichiarato la nullità del termine apposto,
restando priva di rilievo la mera inerzia tenuta dal lavoratore per oltre un anno e
mezzo, dalla scadenza del termine dell'ultimo dei cinque contratti intervenuti).
(Rigetta, App. Roma, 23/08/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 28 ottobre 2010, n. 22015
In tema di assunzione a termine dei lavoratori subordinati, l'art. 23 della legge 28
febbraio 1987, n. 56, nel consentire alla contrattazione collettiva di individuare nuove
ipotesi rispetto a quelle previste dalla legge 18 aprile 1962, n. 230, non impone di
fissare contrattualmente dei limiti temporali alla facoltà di assumere lavoratori a
tempo determinato, ma, ove un limite sia stato invece previsto, la sua inosservanza
determina l'illegittimità dei contratti scadenti (o comunque stipulati) al di fuori di tale
limite temporale, in quanto non rientranti nel complesso legislativo negoziale
costituito dall'art. 23 citato e della successiva legislazione collettiva che consente la
deroga alla legge n. 230 del 1962. Né - avuto riguardo alle assunzioni a termine, nella
specie di dipendenti postali, effettuate oltre il 30 aprile 1998, limite temporale
stabilito con l'accordo attuativo del 16 gennaio 1998, con cui era stato prorogato
l'originario termine del 31 gennaio 1998 previsto con l'accordo del 25 settembre 1997
- può attribuirsi efficacia sanante all'accordo del 18 gennaio 2001, dovendosi
escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento
dell'interpretazione autentica, di intervenire su diritti indisponibili dei lavoratori in
quanto già perfezionati e, quindi, di autorizzare retroattivamente la stipulazione di
contratti a termine non più legittimi. (Rigetta, App. Ancona, 25/08/2009).
Cass. civ. Sez. VI, 26 ottobre 2010, n. 21919
In tema di risarcimento del danno dovuto al lavoratore per effetto del riconoscimento
ad opera del giudice della nullità del termine apposto al contratto di lavoro,
l'eccezione, con la quale il datore di lavoro deduca che il dipendente licenziato ha
percepito un altro reddito per effetto di una nuova occupazione ovvero deduca la
16
colpevole astensione da comportamenti idonei ad evitare l'aggravamento del danno,
non è oggetto di una specifica disposizione di legge che ne faccia riserva in favore
della parte. Pertanto, allorquando vi è stata rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli
stessi possono ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova
legittimamente disposti, il giudice può trarne d'ufficio (anche nel silenzio della parte
interessata ed anche se l'acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della
controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del
danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato. Ai fini della sottrazione
dell'"aliunde perceptum" dalle retribuzioni dovute al lavoratore, è necessario che
risulti la prova, il cui onere grava sul datore di lavoro, non solo del fatto che il
lavoratore licenziato abbia assunto nel frattempo una nuova occupazione, ma anche di
quanto percepito, essendo questo il fatto che riduce l'entità del danno presunto.
(Rigetta, App. Taranto, 28/08/2009).
Cass. civ. Sez. lavoro, 10 settembre 2010, n. 19360
Quando il rapporto di lavoro a tempo determinato (ovvero un contratto di formazione
e lavoro senza formazione) viene qualificato come rapporto a tempo indeterminato,
l'atto con il quale il datore di lavoro comunica la scadenza del termine integra nella
sostanza un licenziamento. Non incombe, pertanto nel vizio di extrapetizione il
giudice il quale dichiara invalido il recesso e liquida il danno, nell'esercizio del suo
potere di qualificazione giuridica dei fatti prospettati dalla parte qualora tale recesso
sia stato impugnato come licenziamento illegittimo. (Rigetta, App. Napoli,
21/04/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 12 luglio 2010, n. 16302
In tema di contratto a termine dei dipendenti postali l'assunzione per "punte di più
intensa attività stagionale", rientra nell'originaria formulazione dell'art. 8 del c.c.n.l.
del 1994 ed è una ipotesi di contratto a termine direttamente introdotta dalla
contrattazione collettiva, che ha natura autonoma non solo rispetto alla previsione
legale del termine apposto per sostituire dipendenti assenti per ferie ai sensi della
legge n. 230 del 1962, ma anche rispetto ai vincoli cui è sottoposta la fattispecie
introdotta dall'accordo integrativo 25/9/1997 (le c.d. esigenze eccezionali). Pertanto
deve essere escluso per le "punte stagionali" il limite temporale del 30/4/1998
previsto per l'assunzione per esigenze eccezionali, in quanto l'autorizzazione conferita
dal contratto collettivo contempla, quale unico presupposto per la sua operatività,
l'assunzione in periodo caratterizzato da intensa attività di servizio. Ne discende che il
giudice di merito è tenuto unicamente a verificare se sussistano elementi di fatto tali
da supportare l'esistenza delle "punte" richieste dal CCLN. (Cassa e decide nel
merito, App. Roma, 21/07/2005).
Corte giustizia Unione Europea Sez. IV, 24 giugno 2010, n. 98
La clausola 8, n. 3, dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il
18 marzo 1999, che compare in allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999,
Direttiva n. 1999/70/CE, relativa all'accordo quadro Ces, Unice e Ceep sul lavoro a
tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una
normativa nazionale, come quella di cui alla causa principale, che ha eliminato
17
l'obbligo, per il datore di lavoro, di indicare nei contratti a tempo determinato
conclusi per sostituire lavoratori assenti il nome di tali lavoratori e i motivi della loro
sostituzione, e che si limita a prevedere che siffatti contratti a tempo determinato
debbano risultare da atto scritto e debbano specificare le ragioni del ricorso a tali
contratti, purché dette nuove condizioni siano compensate dall'adozione di altre
garanzie o misure di tutela oppure riguardino unicamente una categoria circoscritta di
lavoratori con un contratto di lavoro a tempo determinato, circostanza che spetta al
giudice del rinvio verificare.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 giugno 2010, n. 14785
Le "specifiche ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo e sostitutivo" cui
fa riferimento il D.Lgs. n. 368/2001 richiedono, ai fini di tutela del lavoratore e di
controllo sulla corretta applicazione dell'istituto in questione, la trasparenza, la
riconoscibilità e la verificabilità della causale addotta allo scopo di giustificare il
termine apposto al contratto di lavoro. Ne consegue che tale indicazione deve avere
un sufficiente grado di dettaglio e non può limitarsi all'apodittica ripetizione di quanto
disposto dalla legge o dal contratto collettivo. In caso di conversione in contratto di
lavoro a tempo indeterminato, il diritto del lavoratore alle retribuzioni successive alla
scadenza del contratto a termine illegittimo non è automatico ma postula quantomeno
la costante messa a disposizione del datore le energie lavorative da parte del
lavoratore ricorrente.
Cass. civ. Sez. lavoro, 13 maggio 2010, n. 11625
La specificazione delle ragioni giustificatrici del termine può risultare anche
indirettamente nel contratto di lavoro e da esso "per relationem" in altri testi scritti
accessibili alle parti.
Corte giustizia Unione Europea Sez. I, 22 aprile 2010, n. 486
La clausola 4 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18
marzo 1999, figurante in allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999,
Direttiva n. 1999/70/CE, relativa all'accordo quadro Ces, Unice e Ceep sul lavoro a
tempo determinato, deve interpretarsi nel senso che osta ad una disposizione
nazionale come l'articolo 1, n. 2, lett. m), della legge del Land del Tyrol relativa agli
agenti contrattuali 8 novembre 2000, nella versione in vigore sino al 1° febbraio
2009, che esclude dall'ambito di applicazione di tale legge i lavoratori con un
contratto di lavoro a tempo determinato della durata massima di sei mesi o occupati
solo occasionalmente.
Corte cost., 24 febbraio 2010, n. 65
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1,
comma 1, e 11 del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, impugnati, in riferimento agli
artt. 76, 77 e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui aboliscono l'onere
dell'indicazione del nominativo del lavoratore sostituito previsto dalla legge n. 230
del 1962 quale condizione di liceità dell'assunzione a tempo determinato di altro
dipendente. La questione è già stata ritenuta infondata con la sentenza n. 214 del 2009
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e, successivamente, manifestamente infondata con l'ordinanza n. 325 del 2009, né vi è
ragione di discostarsi dalle motivazioni delle dette decisioni.
Cass. civ. Sez. lavoro, 16 febbraio 2010, n. 3598
Il lavoratore assunto a termine ai sensi dell'art. 1, secondo comma, lett. b), della legge
n. 230 del 1962, per la sostituzione del lavoratore assente con diritto alla
conservazione del posto, non deve essere necessariamente destinato alle medesime
mansioni e/o allo stesso posto del lavoratore assente, atteso che la sostituzione
ipotizzata dalla norma va intesa nel senso più confacente alle esigenze dell'impresa.
Pertanto, non può essere disconosciuta all'imprenditore - nell'esercizio del potere
autorganizzatorio - la facoltà di disporre (in conseguenza dell'assenza di un
dipendente) l'utilizzazione del personale, incluso il lavoratore a termine, mediante i
più opportuni spostamenti interni, con conseguente realizzazione di un insieme di
sostituzioni successive per scorrimento a catena, sempre che vi sia una correlazione,
di tipo causale tra l'attività del sostituto e quella del soggetto sostituito, in difetto della
quale si avrebbe una mera coincidenza temporale tra la sostituzione interna del
dipendente assente e l'assegnazione del sostituto ad una posizione lavorativa non
correlata a quella lasciata scoperta dal dipendente assente.
Cass. civ. Sez. lavoro, 1 febbraio 2010, n. 2279
Per evitare un uso indiscriminato dell'istituto del contratto a tempo determinato, il
legislatore del 2001 ha imposto la trasparenza, la riconoscibilità e la verificabilità
della causale assunta a giustificazione del termine, già a partire dal momento della
stipulazione del contratto di lavoro, attraverso la previsione dell'onere di
specificazione, vale a dire di una indicazione sufficientemente dettagliata della
causale nelle sue componenti identificative essenziali, sia per quanto riguarda il
contenuto che con riguardo alla sua portata spazio-temporale e più in generale
circostanziale. In altri termini, per le finalità indicate e alla luce dell'interpretazione
comunitaria della Direttiva n. 1999/70/CE (sentenze Kyriaki Angelidaki e Mangold) e
della clausola di non regresso, le ragioni giustificatrici devono essere
sufficientemente particolareggiate sin dal primo contratto, in maniera tale da rendere
possibile la conoscenza dell'effettiva portata delle stesse e quindi il controllo di
effettività delle ragioni. D'altra parte, la clausola di non regresso è stata
esplicitamente dalla Corte di giustizia riferita ad ogni aspetto della disciplina
nazionale del contratto a termine e quindi anche a quella del primo o unico contratto e
la verifica dell'esistenza di una sua "reformatio in peius" deve effettuarsi in rapporto
all'insieme delle disposizioni di diritto interno di uno Stato membro relative alla tutela
dei lavoratori in materia di contratti di lavoro a tempo determinato, perseguendo lo
scopo, in generale, di impedire arretramenti ingiustificati della tutela nella materia
considerata. Una interpretazione del termine "specificate" che non consentisse, nella
piena trasparenza, quel controllo di effettività, assicurato, seppur in maniera diversa,
dalla disciplina previdente, risulterebbe in contrasto con la clausola di non regresso,
in quanto rappresenterebbe un ingiustificato arretramento in rapporto al livello
generale di tutela applicabile nello Stato italiano e finirebbe altresì per configurare un
eccesso di delega da parte del governo a quanto stabilito dalla legge n. 422/2000. Per
quanto riguarda le ragioni tecniche, organizzative o produttive, la specificazione delle
ragioni del termine può risultare anche indirettamente nel contratto di lavoro e da esso
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per relationem in altri testi scritti accessibili alle parti, in particolare nel caso in cui,
data la complessità e l'articolazione del fatto organizzativo, tecnico o produttivo che è
alla base della esigenza di assunzioni a termine, questo risulti analizzato in documenti
specificamente ad esso dedicati per ragioni di gestione consapevole e/o concordata
con i rappresentanti del personale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 gennaio 2010, n. 1577
In tema di assunzione a termine di lavoratori subordinati per ragioni di carattere
sostitutivo, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 214 del 2009, con cui
è stata dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma
2, del d.lgs. n. 368 del 2001, l'onere di specificazione delle predette ragioni è
correlato alla finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità della causa
dell'apposizione del termine e l'immodificabilità della stessa nel corso del rapporto.
Pertanto, nelle situazioni aziendali complesse, in cui la sostituzione non è riferita ad
una singola persona, ma ad una funzione produttiva specifica, occasionalmente
scoperta, l'apposizione del termine deve considerarsi legittima se l'enunciazione
dell'esigenza di sostituire lavoratori assenti - da sola insufficiente ad assolvere l'onere
di specificazione delle ragioni stesse - risulti integrata dall'indicazione di elementi
ulteriori (quali l'ambito territoriale di riferimento, il luogo della prestazione
lavorativa, le mansioni dei lavoratori da sostituire, il diritto degli stessi alla
conservazione del posto di lavoro) che consentano di determinare il numero dei
lavoratori da sostituire, ancorchè non identificati nominativamente, ferma restando, in
ogni caso, la verificabilità della sussistenza effettiva del prospettato presupposto di
legittimità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale
che aveva ritenuto esistente il requisito della specificità con l'indicazione nell'atto
scritto della causale sostitutiva, del termine iniziale e finale del rapporto, del luogo di
svolgimento della prestazione a termine, dell'inquadramento e delle mansioni del
personale da sostituire; inoltre, quanto al riscontro fattuale del rispetto della ragione
sostitutiva, la S.C. ha ritenuto correttamente motivato, e come tale incensurabile,
l'accertamento effettuato dal giudice di merito che, con riferimento all'ambito
territoriale dell'ufficio interessato, aveva accertato il numero dei contratti a termine
stipulati in ciascuno dei mesi di durata del contratto a termine, confrontandolo con il
numero delle giornate di assenza per malattia, infortunio, ferie, etc. del personale a
tempo indeterminato, pervenendo alla valutazione di congruità del numero dei
contratti stipulati per esigenze sostitutive). (Rigetta, App. Milano, 17/09/2007).
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 gennaio 2010, n. 839
Nel contratto di lavoro a termine, per poter configurare una risoluzione del rapporto
per mutuo consenso, si richiede l'accertamento rigoroso della comune volontà delle
parti, i cui elementi di fatto che ne comprovano l'esistenza vanno dedotti dal datore di
lavoro; incombe sul medesimo datore l'onere di dimostrare il rispetto delle percentuali
di assunzione con tale contratto rispetto al totale dei dipendenti, essendo condizione
di giustificazione della stessa apposizione del termine.
***
20
F. Il contratto di lavoro part-time
Cass. civ. Sez. lavoro, 20 ottobre 2010, n. 21518
In tema d'indennità di disoccupazione per i lavoratori "part-time", poiché la
determinazione di un'unica soglia minima retributiva per l'accesso all'indennità di
natura previdenziale, con riguardo sia ai lavoratori a tempo pieno che a quelli a tempo
parziale, costituisce un ingiustificato elemento di discriminazione a danno dei
lavoratori "part-time" per l'uguale trattamento di situazioni disuguali dovuto alla
mancanza di un sistema di riparametrazione della retribuzione minima settimanale
analogo a quello adottato dell'art. 1, quarto comma del d.l. n. 338 del 1989, convertito
nella legge n. 369 del 1989, è rilevante e non manifestamente infondata - per
contrasto con gli art. 3 e 38 della Costituzione - la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 7, primo comma, del d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito
nella legge 11 novembre 1983, n. 638, nella parte in cui, in sede di computo del
numero dei contributi settimanali da accreditare ai lavoratori dipendenti nel corso
dell'anno solare al fine delle prestazioni pensionistiche, non prevede che la soglia
minima di retribuzione utile per l'accredito del singolo contributo ivi indicata venga
ricondotta al valore dell'opera lavorativa del lavoratore a tempo pieno, e, quindi,
rapportata al numero di ore settimanali effettivamente prestate dal lavoratore a tempo
parziale. (Rimette gli atti alla Corte Costituzionale, App. Bologna, 22/08/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 13 ottobre 2010, n. 21160
Con riferimento ad una prestazione continuativa di un orario di lavoro pressoché
corrispondente a quello previsto per il lavoro a tempo pieno, un rapporto di lavoro
part-time può trasformarsi in rapporto a tempo pieno, nonostante la difforme, iniziale,
manifestazione di volontà delle parti, non essendo necessario alcun requisito formale
per la trasformazione di un rapporto a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo
pieno, bastando in proposito dei fatti concludenti, in relazione alla prestazione
lavorativa resa, costantemente secondo l'orario normale, o, addirittura, superiore.
***
G. Il contratto di lavoro a progetto
Cons. Stato Sez. V, 25 novembre 2010, n. 8229
Il rapporto con i collaboratori a progetto è assimilabile al lavoro autonomo, anche se
in questo la libertà del lavoratore è piena e concerne anche la scelta dell'opus, mentre
così non avviene nel lavoro a progetto, in cui la definizione della dimensione
finalistica verso la quale far convergere in modo coordinato ed organizzato le
complessive energie lavorative aggregate pertiene unicamente alla parte committente,
tuttavia con evidenti differenze con il lavoro subordinato (Conferma della sentenza
del T.a.r. Lombardia - Milano, sez. III, n. 1356/2009).
21
Cons. Stato Sez. V, 25 novembre 2010, n. 8229
Ai lavoratori autonomi, quali quelli a progetto, non sono applicabili né direttamente
né indirettamente i contratti collettivi che disciplinano il lavoro subordinato, né è loro
applicabile il principio costituzionale di retribuzione sufficiente, che riguarda
esclusivamente il lavoro subordinato, sicché il lavoro a progetto risulta
esclusivamente disciplinato dalle norme dettate dal codice civile in materia di lavoro
autonomo e dalle norme speciali di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, che prevedono che,
fatta salva la applicazione di accordi collettivi più favorevoli, il compenso corrisposto
deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito e debba tenere
conto dei compensi normalmente erogati per analoghe prestazioni di lavoro
autonomo.
Trib. Bergamo, 20 maggio 2010
Nel caso in cui la prestazione dedotta in un contratto a progetto "certificato" sia
estremamente elementare e ripetitiva, in assenza di organizzazione imprenditoriale e
di rischio d'impresa, con predeterminazione del compenso, il rapporto di lavoro
intercorso tra le parti dovrà essere qualificato quale rapporto di lavoro subordinato e
l'accertamento giurisdizionale dell'erroneità della qualificazione avrà effetto fin dal
momento della conclusione dell'accordo contrattuale, secondo quanto stabilito dal
primo periodo del secondo comma dell'art. 80, D.Lgs. n. 276/2003.
Trib. Pistoia, 12 maggio 2010
La mancata contestazione, da parte del datore di lavoro resistente, della affermazione
relativa a modalità di svolgimento di mansioni assimilabili a quelle di un lavoratore
subordinato, rende incontroverse tali circostanze e consente al giudice di interpretare
il contratto di collaborazione coordinata e continuativa alla stregua di un contratto di
lavoro subordinato.
Trib. Bologna, 16 marzo 2010
Il raccordo tra gli artt. 62 e 69 del D.Lgs. n. 276/2003 va inteso nel senso che, stante
il requisito della forma scritta previsto soltanto "ad probationem" del contratto a
progetto, in suo difetto o in presenza di sue carenze si dà una mera presunzione "iuris
tantum" della natura subordinata del rapporto di lavoro, vincibile qualora risulti
provata l'autonomia del rapporto e non la mera natura coordinata e continuativa o
subordinata della prestazione.
Trib. Cassino, 5 marzo 2010
L'accertamento giudiziale e la conseguente declaratoria di nullità del contratto di
lavoro a progetto già perfezionatosi tra le parti determina l'inapplicabilità alla
fattispecie del disposto codicistico di cui all'art. 2126 c.c., nella parte in cui, avuto
riguardo alle prestazioni di fatto rese, pone una fictio iuris di validità del rapporto
nullo, ovvero equipara il rapporto di lavoro invalido a quello valido relativamente al
22
periodo di una sua effettiva esecuzione. Nell'ipotesi di nullità del contratto a progetto
viene, invero, in rilievo un rapporto di lavoro autonomo, sia pure con i tratti della
parasubordinazione, il quale comporta che la declaratoria giudiziale di nullità esclude
che i compensi già pattuiti tra le parti possano trovare fondamento nello stesso
contratto stipulato tra le parti, al contrario residuando unicamente la possibilità di far
valere l'azione di arricchimento senza causa di cui all'art. 2041 c.c. (azione nella
specie, tuttavia, non proposta).
***
H. Il contratto di associazione in partecipazione
Cass. civ. Sez. lavoro, 28 maggio 2010, n. 13179
L'associazione in partecipazione ha, quale elemento causale indefettibile di
distinzione dal rapporto di collaborazione libero-professionale, il sinallagma tra
partecipazione al rischio d'impresa gestita dall'associante e conferimento dell'apporto
lavorativo dell'associato. Ne consegue che l'associato il cui apporto consista in una
prestazione lavorativa deve partecipare sia agli utili che alle perdite, non essendo
ammissibile un contratto di mera cointeressenza agli utili di un'impresa senza
partecipazione alle perdite, tenuto conto dell'espresso richiamo, contenuto nell'art.
2554, secondo comma cod. civ., all'art. 2102 cod. civ., il quale prevede la
partecipazione del lavoratore agli utili "netti" dell'impresa. (Rigetta, App. Ancona,
26/04/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 8 febbraio 2010, n. 2728
In caso di domanda diretta ad accertare la natura subordinata del rapporto di lavoro,
qualora la parte che ne deduce l'esistenza non abbia dimostrato la sussistenza del
requisito della subordinazione - ossia della soggezione del lavoratore al potere
direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, che discende
dall'emanazione di ordini specifici oltre che dall'esercizio di un'assidua attività di
vigilanza e controllo sull'esecuzione della prestazione lavorativa - non occorre, ai fini
del rigetto della domanda, che sia provata anche l'esistenza del diverso rapporto
dedotto dalla controparte (nella specie, di associazione in partecipazione), dovendosi
escludere che il mancato accertamento di quest'ultimo equivalga alla dimostrazione
dell'esistenza della subordinazione, per la cui configurabilità è necessaria la prova
positiva di specifici elementi che non possono ritenersi sussistenti per effetto della
carenza di prova su una diversa tipologia di rapporto. (Rigetta, App. Roma,
27/07/2005).
***
23
I. La Somministrazione di lavoro
Cass. civ. Sez. lavoro, 17 febbraio 2010, n. 3681
Il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro (art. 1 legge
23 ottobre 1960, n. 1369), in riferimento agli appalti "endoaziendali", caratterizzati
dall'affidamento ad un appaltatore esterno di tutte le attività, ancorché strettamente
attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, opera tutte le volte in cui
l'appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa,
rimanendo in capo all'appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione
amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie,
assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una
reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo
autonomo. Tale divieto si applica anche agli appalti concessi dalle Ferrovie dello
Stato successivamente all'entrata in vigore della legge 17 maggio 1985, n. 210, senza
incontrare limiti nella disciplina dettata dall'art. 2, primo comma, lett. i) (speciale e
posteriore rispetto all'art. 1 della legge n. 1369 del 1960), la quale, pur conferendo
ampio rilievo alle finalità di economicità ed efficienza dell'organizzazione delle
Ferrovie ed alle conseguenti esigenze di elasticità e flessibilità nella dislocazione dei
servizi e del personale, non ha, tuttavia, inteso consentire all'Ente Ferrovie dello Stato
più di quanto non fosse consentito all'imprenditore privato in tema di appalti di mano
d'opera. (Rigetta, App. Firenze, 12/10/2006).
Trib. di Vicenza, sent. 17 febbraio 2011
In merito alle causali giustificative dell’utilizzo del contratto di somministrazione di
lavoro a tempo determinato le ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o
sostitutivo individuate all’art. 20, co. 4, D.Lgs. n. 276/2003 non devono essere
necessariamente indicate in maniera specifica e dettagliata nel contratto di
somministrazione, potendo ritenersi sufficiente che le stesse si presentino conformi a
quelle indicate nel contratto collettivo e, come tali, già ex ante idonee a soddisfare
quanto richiesto dalla legge. Inoltre, il merito al controllo giudiziale delle clausole il
giudice non può pensare di dirigere l'organizzazione aziendale secondo un proprio
progetto, magari riconsiderando i reparti produttivi, o procedente ad altre operazioni
invasive dello stesso genere, ma deve limitarsi a verificare che le ragioni indicate nel
contratto abbiano natura di ragioni tecniche o produttivo o organizzative o sostitutive.
Il controllo giudiziale non può avere ad oggetto il livello di specificità della causale;
l'unico limite che le scelte aziendali incontrano è che devono avere natura tecnica
organizzativo produttiva o sostitutiva, essere qualitativamente e quantitativamente
conformi a quanto indicato nella contrattazione collettiva e non incorre nei divieti
espressi previsti dalla legge.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 novembre 2010, n. 23684
Nel caso di interposizione di manodopera vietata, il rapporto di lavoro si instaura
effettivamente con l'interponente, sicché il licenziamento del lavoratore intimato dal
datore apparente o interposto è non solo illegittimo, ma giuridicamente inesistente,
con conseguente impossibilità di ratifica da parte dell'interponente, trattandosi di atto
proveniente da soggetto estraneo al rapporto lavorativo. (Nella specie, relativa a
24
rapporto di lavoro svolto prima dell'entrata in vigore del d. lgs. 1 settembre 2003, n.
276, una impresa aveva fatto illegittimamente ricorso a fornitura di lavoro
temporaneo, destinando i lavoratori, in violazione del divieto di intermediazione di
manodopera, ad un altro utilizzatore, con conseguente realizzazione di un rapporto
contrattuale diretto con quest'ultimo). (Rigetta, App. Brescia, 21/04/2007).
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 settembre 2010, n. 20143
In tema d'interposizione nel rapporto di lavoro, il pagamento dei contributi da parte
dell'intermediario (datore di lavoro apparente) non ha effetto estintivo rispetto al
debito contributivo cui è tenuto esclusivamente il datore di lavoro effettivo. (Cassa
con rinvio, App. Trento, 23/12/2005).
Trib. di Torino, sent. 1° luglio 2010
Il contratto di somministrazione è nullo solo quando non risulti rispettata la forma
scritta, mentre non è da ritenersi causa di nullità la genericità delle clausole che
indicano le ragioni giustificatrici del contratto stesso. Se è vero che la previsione
dell’art. 22, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003 richiama la disciplina del contratto a
termine in quanto compatibile, deve in ogni caso prevalere la previsione dell’art. 21,
comma 4 del medesimo decreto, in forza del quale il contratto di somministrazione è
nullo solo laddove non venga rispettata la forma scritta.
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 marzo 2010, n. 6726
In tema di interposizione vietata nelle prestazioni di lavoro, l'art. 1 della legge n. 1369
del 1960 non riguarda l'impresa interposta nella sua globalità, ma soltanto il rapporto
tra appaltante e appaltatore con riferimento alla prestazione dei lavoratori impegnati
nell'esecuzione dell'opera o del servizio in concreto appaltati, dovendosi
conseguentemente ritenere priva di rilievo l'eventuale esistenza di prestazioni
dell'appaltatore a favore di altri soggetti. (Rigetta, App. Torino, 30/05/2005)
***
J. Orario di lavoro
Cass. civ. Sez. lavoro, 29 luglio 2010, n. 17725
Il diritto dei lavoratori turnisti ad essere compensati per lo svolgimento dell'attività
lavorativa nella giornata di domenica (ancorché con differimento del riposo
settimanale in un giorno diverso) può essere soddisfatto, oltre che con supplementi di
paga o con specifiche indennità, con l'attribuzione di vantaggi e benefici economici
contrattuali di diversa natura (quale la concessione di un maggior numero di riposi),
atteso che, da un lato, la penosità del lavoro domenicale - a seconda delle circostanze
di fatto e delle particolari esigenze del lavoratore, da valutare peraltro nell'attuale
contesto socio - economico - può anche essere eliminata o comunque ridotta mediante
un sistema di riposi settimanali che, permettendone il recupero in forma continua e
concentrata nel tempo, risulti suscettibile di reintegrare compiutamente le energie
25
psicofisiche del lavoratore e che, dall'altro, l'attribuzione alla contrattazione collettiva
di margini di flessibilità nella regolamentazione dei regimi dell'orario e dei riposi
lavorativi discende da ripetuti riconoscimenti legislativi intesi, nel rispetto delle
direttive comunitarie, alla modernizzazione della materia. (Nella specie, la S.C ., in
applicazione dell'anzidetto principio, ha ritenuto adeguatamente compensata la
prestazione domenicale atteso che i lavoratori turnisti, oltre ad usufruire di una
specifica indennità, lavoravano per quattro giorni e riposavano per due, mentre gli
altri lavoratori svolgevano la loro prestazione per cinque giorni di seguito prima di
godere del periodo di riposo). (Rigetta, App. Messina, 21/04/2009).
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 luglio 2010, n. 17511
Il tempo per raggiungere il luogo di lavoro rientra nell'attività lavorativa vera e
propria (e va, quindi, sommato al normale orario di lavoro come straordinario)
allorché lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione; in particolare, sussiste
il carattere di funzionalità nei casi in cui il dipendente, obbligato a presentarsi presso
la sede aziendale, sia poi di volta in volta destinato in diverse località per svolgervi la
sua prestazione lavorativa. (Fattispecie relativa al compenso per lavoro straordinario
prestato dal lavoratore in occasione del trasporto giornaliero da lui effettuato, per la
durata di circa un'ora, di operai e mezzi dalla sede della società ai singoli cantieri).
(Rigetta, App. Reggio Calabria, 27/03/2007).
Cass. civ. Sez. lavoro, 7 giugno 2010, n. 13674
Il lavoratore turnista, che presta la propria opera per sette o più giorni consecutivi, ha
diritto ad un trattamento differenziato per l'attività svolta, che, però, non deve avere
natura necessariamente economica. Il disagio, infatti, può essere compensato da
giorni consecutivi di riposo successivi a quelli della prestazione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2010, n. 8255
Il patto di conglobamento del compenso per lavoro straordinario nella retribuzione
ordinaria deve determinare quale sia il compenso per lavoro ordinario e quale per
quello straordinario, così da permettere al Giudice il controllo in merito all'effettivo
riconoscimento al dipendente dei diritti inderogabili spettanti per legge o per contratto
collettivo. Pertanto, il patto deve ritenersi nullo quando non risultano riconosciuti tali
diritti inderogabili o se non sussiste la distinzione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 15 marzo 2010, n. 6204
In tema di trattamento di fine rapporto dei dipendenti delle Casse di risparmio, la
mancanza, nella disciplina collettiva di settore (in particolare, l'art. 40 del c.c.n.l. del
9 marzo 1983, l'art. 40 del c.c.n.l. del 19 marzo 1987 e l'art. 44 del c.c.n.l. del 16
gennaio 1991) di un'espressa esclusione, dalla base di calcolo del trattamento di fine
rapporto, dei compensi per lavoro straordinario svolto in modo non occasionale, si
interpreta nel senso che le parti collettive non hanno inteso avvalersi della facoltà
derogatoria del regime legale prevista dall'art. 2120, secondo comma, cod. civ.
(Rigetta, Trib. Torino, 24/07/2008).
26
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 febbraio 2010, n. 2625
Il lavoratore può far valere il suo diritto al trattamento di fine rapporto mediante
l'azione di accertamento, fin tanto che persista l'interesse ad eliminare uno stato di
incertezza in ordine alle modalità di maturazione del trattamento (sia nel caso in cui la
composizione della base di computo del trattamento sia stata conosciuta mediante la
comunicazione degli accantonamenti, sia in quello in cui tale composizione possa
venire in discussione a seguito dell'eventuale erogazione di anticipazioni), ovvero
mediante l'azione di condanna, una volta che il rapporto sia cessato e si intenda
ottenere la liquidazione di tale trattamento; allorché venga proposta quest'ultima
azione, diretta ad una diversa liquidazione mediante il ricalcolo del t.f.r., l'interesse ad
agire, identificandosi, non tanto con l'eliminazione di uno stato di incertezza che si
protrae "de die in diem", quanto con il ricevimento di una somma di denaro in
conseguenza di un inesatto adempimento, sorge al momento della cessazione del
rapporto di lavoro, cui sono oggettivamente subordinate l'esistenza del diritto e la
proposizione dell'azione, sicché soltanto da tale momento può decorrere la
prescrizione. (Rigetta, App. Roma, 09/05/2006)
***
K. La retribuzione
- Obblighi retributivi
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 novembre 2010, n. 23683
Lo sciopero è un diritto costituzionalmente garantito e produce l'effetto di sospendere
l'obbligazione del datore di lavoro di corrispondere la retribuzione, mentre il rapporto
di lavoro resta in vita per tutti gli altri profili; ne deriva che, ove una disciplina
contrattuale preveda la corresponsione delle prestazioni economiche sulla base di una
graduatoria che tenga conto della durata e continuità del servizio prestato dal
lavoratore, deve ritenersi continuativo il servizio prestato anche se nell'ambito dello
stesso siano intercorse alcune giornate di sciopero. (Rigetta, App. Bari, 07/03/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 novembre 2010, n. 23614
In tema di rapporto di lavoro subordinato, le obbligazioni delle parti si inseriscono
all'interno di un rapporto contrattuale sinallagmatico di carattere continuativo che
rende inapplicabile il principio, valido per le obbligazioni unilaterali, secondo cui le
obbligazioni non possono avere carattere perpetuo, dovendosi ritenere che le
erogazioni da parte del datore di lavoro trovano la loro causa nelle prestazioni
lavorative dei dipendenti, intesi sia come singoli che come collettività, mentre queste
ultime traggono, a loro volta, la giustificazione nelle erogazioni a carico del datore,
tra le quali rientrano tutte le somme di denaro, a qualsiasi titolo, anche diverso dallo
stipendio di base e dalle voci previste dalla contrattazione collettiva, corrisposte ai
dipendenti in maniera stabile e continuativa. Ne consegue che il datore di lavoro non
può recedere unilateralmente, senza accordo preventivo, dall'obbligo a suo carico di
27
corrisponderle, integrando l'eventuale loro cessazione, in assenza di specifica
giustificazione di carattere giuridico (e non semplicemente di natura economica), una
forma di inadempimento contrattuale che può essere, secondo i casi, totale o parziale.
(Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto
inadempiente il datore di lavoro per aver unilateralmente congelato la quattordicesima
mensilità). (Rigetta, App. Ancona, 06/07/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 15 ottobre 2010, n. 21274
La giusta retribuzione spettante al lavoratore, ai sensi dell'art. 36 Cost., deve essere
individuata nei minimi retributivi stabiliti per ciascuna qualifica dalla contrattazione
collettiva, i quali devono applicarsi necessariamente, indipendentemente
dall'iscrizione o meno del datore di lavoro ad un'associazione sindacale stipulante, ed
anche nel caso si tratti di imprese di non rilevanti dimensioni, ove non sussista una
separata contrattazione collettiva. (Rigetta, App. Bari, 29/06/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 7 ottobre 2010, n. 20790
In tema di retribuzione, ancorchè l'art. 23 del D.P.R. n.600 del 1973, e successive
modificazioni, preveda che il datore di lavoro debba effettuare le trattenute prescritte
dalla legge su tutte le somme e i valori erogati al dipendente, non può escludersi un
accordo, purchè espresso ed inequivoco, tra il lavoratore ed il datore con cui si
stabilisca di calcolare la retribuzione al netto e non al lordo delle imposte e degli
oneri contributivi. (Rigetta, App. Catania, 04/04/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2010, n. 20269
Il principio dell'inderogabilità dei minimi tariffari, stabilito dall'art. 24 della legge 13
giugno 1942, n. 794, sugli onorari di avvocato e procuratore, non trova applicazione
nel caso di rinuncia, totale o parziale, alle competenze professionali, allorché
quest'ultima non risulti posta in essere strumentalmente per violare la norma
imperativa sui minimi di tariffa. La prestazione d'opera del difensore può, infatti,
essere gratuita - in tutto o in parte - per ragioni varie, oltre che di amicizia e parentela,
anche di semplice convenienza. Sotto questo riflesso la retribuzione costituisce un
diritto patrimoniale disponibile e la convenzione relativa può concretarsi, sul piano
sostanziale, anche in un accordo transattivo, in quanto tale, pienamente lecito,
rientrando esso nella libera autonomia dispositiva delle parti contraenti, alle quali è
soltanto inibito di infrangere il divieto legale sancito dal citato art. 24, e cioè quello di
predeterminare consensualmente l'ammontare dei compensi professionali in misura
inferiore ai minimi tariffari. (Nella fattispecie, la Corte, confermando la pronuncia di
secondo grado, ha escluso che la richiesta periodica di pagamento a "forfait"
formulata sulla base di un preventivo accordo in violazione dei minimi fosse
qualificabile come lecita rinuncia successiva). (Cassa e decide nel merito, App.
Napoli, 15/09/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2010, n. 20269
Il disposto dell'art. 429, terzo comma, cod. proc. civ., relativo alla rivalutazione
monetaria (ed interessi) dei crediti di lavoro, trova applicazione - come sottolineato
28
dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 65 del 1978 e n. 76 del 1981 - in ordine a
tutti i rapporti elencati nell'art. 409 dello stesso codice e, pertanto, opera non solo
nell'ambito del lavoro subordinato ma anche in quello autonomo, ove questo sia
caratterizzato dalla continuità e dalla coordinazione delle prestazioni eseguite (cd.
parasubordinazione). Tali caratteristiche sono riscontrabili nella convenzione stipulata
tra un avvocato ed una società relativa all'espletamento di tutta l'attività stragiudiziale
e giudiziale concernente il recupero dei crediti contenziosi. (Cassa e decide nel
merito, App. Napoli, 15/09/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 10 settembre 2010, n. 19358
Nello svolgimento del rapporto di lavoro si rivela necessario operare una distinzione
tra una fase finale, che soddisfa direttamente l'interesse del datore di lavoro, ed una
fase preparatoria, relativa a prestazioni o attività di carattere accessorio e strumentale,
da eseguire nell'ambito della disciplina d'impresa ed autonomamente esigibili dal
datore di lavoro, con la conseguenza che al tempo impiegato dal prestatore
dell'attività lavorativa per prepararsi alla stessa, estraneo alla prestazione finale, deve
corrispondere una retribuzione aggiuntiva. In tal senso, in particolare, al fine di
stabilire se il tempo impiegato dal dipendente per indossare gli abiti da lavoro debba o
meno essere retribuito, si afferma che la relativa attività rientra negli atti di diligenza
preparatoria allo svolgimento dell'attività lavorativa, e come tale non deve essere
retribuita, qualora sia al lavoratore concessa la facoltà di scegliere il tempo ed il luogo
ove indossare la divisa, mentre nella diversa ipotesi in cui, come nella specie, tale
operazione è diretta dal datore di lavoro, il quale ne disciplina il tempo e le modalità
di esecuzione (nello specifico, in particolare, imponendo ai lavoratori l'obbligo di
timbrare il cartellino di presenza anche all'entrata ed all'uscita dallo spogliatoio, oltre
che dall'azienda), essa rientra nel lavoro effettivo e, conseguentemente, deve essere
retribuita.
Cass. civ. Sez. lavoro, 30 agosto 2010, n. 18856
In tema di lavoro minorile, l'avvenuta violazione della norma imperativa di cui all'art.
3, primo comma, della legge 17 ottobre 1967, n. 977, così come sostituito dall'art. 5,
comma 1, del d.lgs. 4 agosto 1999, n. 345, che ha fissato a quindici anni l'età minima
per l'assunzione al lavoro, non fa venir meno il diritto alla retribuzione per l'attività
effettivamente prestata dal soggetto tutelato, stante il disposto, oltre che dell'art. 2126,
secondo comma, cod. civ., anche dell'art. 37 Cost., che sancisce il diritto del
lavoratore minorenne alla parità di retribuzione a parità di lavoro e di mansioni svolte
rispetto agli altri lavoratori, a nulla rilevando che il lavoratore a dette mansioni, in
ragione dell'età, non potesse essere adibito. (Rigetta, App. Napoli, 08/03/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 15 giugno 2010, n. 14334
In tema di retribuzione dei lavoratori socialmente utili, le tutele tipiche del rapporto di
lavoro subordinato, quali la tredicesima mensilità, le ferie retribuite ed il T.F.R., non
sono riconosciute in relazione all'importo integrativo corrisposto dall'ente pubblico
utilizzatore rispetto all'attività coperta dal trattamento previdenziale previsto dall'art.
8 del d.lgs. n. 468 del 1997, atteso che il T.F.R., previsto dall'art. 2, comma 2 della
legge n. 464 del 1972, è determinato sulla sola quota dell'integrazione e la tredicesima
29
mensilità, contenuta nel trattamento straordinario di cassa integrazione guadagni
previsto dall'articolo unico della legge n. 427 del 1980 (sia nel testo originario che in
quello modificato dall'art. 1 della legge n. 299 del 1994) è computata nella
retribuzione costituente la base di calcolo degli importi dell'integrazione salariale,
mentre le ferie e le festività sono direttamente coperte dallo stesso trattamento di
cassa integrazione, che viene erogato per dodici mensilità, e quindi anche per il
periodo nel quale non si presta attività lavorativa, dovendosi ritenere la
ragionevolezza della differenziata tutela rispetto al rapporto di lavoro subordinato,
con conseguente infondatezza dei dubbi di costituzionalità, in quanto il complessivo
assetto così delineato risponde ad un equilibrato contemperamento tra l'esigenza dei
lavoratori di continuare a percepire l'indennità di cassa integrazione di lunga durata,
conservando l'iscrizione nelle liste di collocamento speciale, con quella di assolvere
alla richiesta di lavorare presso soggetti pubblici a progetti di utilità generale.
(Rigetta, App. Napoli, 20/08/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2010, n. 8255
Il patto di conglobamento nei compensi corrisposti per le prestazioni lavorative di
corrispettivi ulteriormente dovuti al lavoratore subordinato per legge o per contratto
(quali la tredicesima mensilità, il compenso per le ferie e per le festività), può essere
ammesso solo se dal patto risultino gli specifici titoli cui è riferibile la prestazione
patrimoniale complessiva, poiché solo in tal caso è superabile la presunzione che il
compenso convenuto è dovuto quale corrispettivo della sola prestazione ordinaria, e si
rende possibile il controllo giudiziale circa l'effettivo riconoscimento al lavoratore dei
diritti inderogabilmente spettanti per legge o per contratto, senza che, in senso
contrario, possa essere invocato il criterio dell'assorbimento - imperniato sul
"trattamento globale più favorevole" tra quello di fatto goduto e quello spettante sulla
base dei minimi contrattuali con conseguente imputazione alle competenze indirette
degli emolumenti eccedenti i primi - che, fondandosi sulla diversa situazione della
conversione di un rapporto qualificato "ab origine" come autonomo in un contratto di
prestazione d'opera subordinata, pone la necessità di operare un raffronto, per la
differente qualificazione delle voci di compenso, fra il percepito e il dovuto. (Rigetta,
App. Roma, 12/05/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 marzo 2010, n. 7380
Il datore di lavoro che abbia stipulato un contratto di lavoro con un lavoratore
extracomunitario privo del permesso di soggiorno è tenuto all'osservanza degli
obblighi retributivi e contributivi derivanti dal contratto.
- T.F.R.
Cass. civ. Sez. lavoro, 9 dicembre 2010, n. 24897
In relazione ai contratti di assicurazione stipulati dal datore di lavoro (nella specie, un
istituto bancario) in favore dei propri dipendenti ai sensi dell'art. 4 r.d.l. 8 gennaio
1942 n. 5, (in sostituzione dell'iscrizione al Fondo per l'indennità agli impiegati,
previsto dal medesimo decreto), qualora la Banca stipulante abbia cessato di
30
ricomprendere negli accantonamenti gli aumenti stipendiali via via succedutisi ed
abbia omesso, con conseguente diminuzione del capitale assicurato e, quindi, del
rendimento dei premi (ceduto, con convenzione aggiuntiva, ai dipendenti), la
riliquidazione delle spettanze di fine rapporto mediante inclusione nell'indennità di
buonuscita delle differenze del rendimento dei premi di polizza non compete ai
dipendenti assunti dopo il suddetto "congelamento" del capitale, che costituisse
revoca del contratto a favore di terzi a suo tempo stipulato, efficace nei confronti di
coloro che, assunti successivamente alla stipula della convenzione, non potessero aver
dichiarato di volerne profittare. (Rigetta, App. Bologna, 19/12/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 1 luglio 2010, n. 15662
Ai fini della tutela prevista dalla legge n. 297 del 1982 in favore dei lavoratori per il
pagamento del TFR in caso di insolvenza del datore di lavoro, ove quest'ultimo, pur
assoggettabile al fallimento, non possa in concreto essere dichiarato fallito per aver
cessato l'attività da oltre un anno, è ammissibile un'azione nei confronti del Fondo di
garanzia, ai sensi dell'art. 2, quinto comma della legge n. 297 citata, purché il
lavoratore abbia esperito infruttuosamente una procedura di esecuzione forzata, salvo
che risulti l'esistenza di altri beni aggredibili con l'azione esecutiva. (Rigetta, App.
Campobasso, 23/03/2007).
Cass. civ. Sez. lavoro, 15 marzo 2010, n. 6204
In tema di trattamento di fine rapporto dei dipendenti delle Casse di risparmio, la
mancanza, nella disciplina collettiva di settore (in particolare, l'art. 40 del c.c.n.l. del
9 marzo 1983, l'art. 40 del c.c.n.l. del 19 marzo 1987 e l'art. 44 del c.c.n.l. del 16
gennaio 1991) di un'espressa esclusione, dalla base di calcolo del trattamento di fine
rapporto, dei compensi per lavoro straordinario svolto in modo non occasionale, si
interpreta nel senso che le parti collettive non hanno inteso avvalersi della facoltà
derogatoria del regime legale prevista dall'art. 2120, secondo comma, cod. civ.
(Rigetta, Trib. Torino, 24/07/2008).
Cass. civ. Sez. lavoro, 13 gennaio 2010, n. 365
In tema di determinazione del trattamento di fine rapporto, il principio secondo il
quale la base di calcolo va di regola determinata in relazione al principio della
onnicomprensività della retribuzione di cui all'art. 2120 cod. civ., nel testo novellato
dalla legge n. 297 del 1982, è derogabile dalla contrattazione collettiva, che può
limitare la base di calcolo anche con modalità indirette purché la volontà risulti chiara
pur senza l'utilizzazione di formule speciale od espressamente derogatorie. Ne
consegue che, con riferimento al personale dipendente delle aziende grafiche e affini
e delle aziende editoriali (nella specie, dell'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato), a
partire dal c.c.n.l. del 1° novembre 1992, la quota annuale di cui all'art. 1 della legge
n. 297 del 1982 per il calcolo del trattamento di fine rapporto concerne la retribuzione
indicata, con definizione non onnicomprensiva, nell'art. 21 del c.c.n.l medesimo sulla
nomenclatura, ossia quella "complessivamente percepita dal quadro, dall'impiegato e
dall'operaio per la sua prestazione lavorativa, nell'orario normale", con esclusione
delle prestazioni di lavoro straordinario. (Interpretazione diretta per la prima volta, ex
art. 360, n. 3 cod. proc. civ., da parte della S.C. delle disposizioni contrattuali
31
collettive relative al TFR per il personale dipendente delle aziende grafiche). (Rigetta,
App. Roma, 22/08/2007).
- Il Fondo di garanzia INPS
Cass. civ. Sez. lavoro, 13 ottobre 2010, n. 21143
La funzione previdenziale dell'intervento del Fondo di garanzia dell'Inps, di cui al
D.Lgs. n. 297/1982, art. 2, non osta all'intervento del Fondo a favore del cessionario a
titolo oneroso del credito relativo al trattamento di fine rapporto spettante al
lavoratore, in quanto l'intervento è previsto in favore degli "aventi diritto" e, con tale
termine, che non può che essere inteso nel medesimo significato attribuito all'identica
espressione contenuta nell'art. 2122 c.c., si fa riferimento agli aventi causa in genere
del lavoratore, a prescindere dal titolo, universale o particolare, della successione nel
diritto.
Cass. civ. Sez. lavoro, 11 giugno 2010, n. 14076
In tema di intervento del Fondo di garanzia dell'INPS per il pagamento del
trattamento di fine rapporto in favore di soci lavoratori di cooperative in situazione di
insolvenza, l'art. 24 della legge n. 196 del 1997 - che ha esteso l'intervento del Fondo
a tali lavoratori - è applicabile retroattivamente, in funzione di tutela previdenziale dei
soci lavoratori, a condizione che siano stati pagati i contributi previdenziali per il
periodo precedente all'entrata in vigore della disposizione, attesa la "ratio" della
norma transitoria, che riconosce rilevanza all'assicurazione volontariamente e
irretrattabilmente istituita dalle cooperative, e la finalità dell'intervento normativo,
consistente nel riconoscimento della garanzia del credito per TFR nei limiti in cui sia
stato reso operativo in favore dei soci dall'autonomia contrattuale, a seguito di
conforme previsione statutaria o assembleare o di comportamenti concludenti (quali il
versamento della prescritta contribuzione). (Rigetta, App. Catania, 09/11/2006)
Cass. civ. Sez. lavoro, 30 aprile 2010, n. 10531
Con riferimento all'obbligo del Fondo di garanzia costituito presso l'INPS, ai sensi del
d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, di pagare ai lavoratori la retribuzione delle ultime tre
mensilità rientranti nei dodici mesi che precedono la data del provvedimento di
apertura della procedura concorsuale a carico del datore di lavoro, alla stregua di
un'interpretazione adeguatrice della norma interna al diritto comunitario, gli ultimi tre
mesi del rapporto, per rientrare nella garanzia approntata dalla direttiva, devono
essere tali da dare diritto alla retribuzione e, ove tale diritto non sussista, i medesimi
non possono esser presi in considerazione, mancando lo stesso presupposto a cui la
disposizione comunitaria è preordinata. Conseguentemente, i periodi non lavorati che
non danno luogo a diritti salariali (nella specie, per sospensione di fatto dell'attività
aziendale) devono essere esclusi, ossia neutralizzati dalla nozione di "ultimi tre mesi
del rapporto", rientrando nella tutela della direttiva i tre mesi immediatamente
precedenti nei quali, invece, vi era diritto alla retribuzione, ma questa non fu pagata.
(Rigetta, App. Roma, 23/01/2006).
32
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 aprile 2010, n. 9231
Il diritto del lavoratore alla prestazione del Fondo di garanzia dell'INPS, in caso di
insolvenza del datore di lavoro, sorge, ove il credito sia stato accertato nell'ambito
della procedura concorsuale, secondo le specifiche regole di quest'ultima, dovendosi
ritenere sufficiente a sorreggere la pretesa di pagamento del lavoratore nei confronti
del Fondo - in coerenza con i principi comunitari in materia, volti a garantire al
lavoratore l'adempimento dei crediti retributivi in caso di insolvenza datoriale l'avvenuta ammissione del credito al passivo, senza la necessità di una preventiva
informazione all'Istituto previdenziale della sussistenza dei presupposti e della misura
del credito. Ne consegue che il potere di organizzazione e regolamentazione attribuito
dalla legge all'INPS, in riferimento alla determinazione della documentazione da
allegare alla domanda del lavoratore, deve essere esercitato secondo criteri di
ragionevolezza, così da non vanificare l'esercizio dei diritti riconosciuti al lavoratore.
(Nella specie, l'INPS aveva rifiutato il pagamento del TFR al lavoratore a causa della
mancata consegna del modello TFR 3-bis, richiesto dall'Istituto per la liquidazione
della somma, nonostante che tale evento fosse imputabile esclusivamente al curatore
fallimentare, che ne aveva omesso la compilazione; la S.C., in applicazione del
principio di cui alla massima, ha ritenuto l'interpretazione dell'INPS "contra legem",
poiché determinava il venir meno del diritto del lavoratore pur in presenza dei
requisiti previsti dalla legge per la sussistenza del diritto). (Rigetta, App. Bari,
06/10/2005).
- Prescrizione crediti retributivi
Cass. civ. Sez. lavoro, 21 dicembre 2010, n. 25861
Gli atti interruttivi della prescrizione riconducibili alla previsione dell'art. 2943,
quarto comma, cod. civ., consistono in atti recettizi, con i quali il titolare del diritto
manifesta al soggetto passivo la sua volontà non equivoca, intesa alla realizzazione
del diritto stesso. Essi, pertanto, possono produrre tale effetto limitatamente ai diritti
ai quali corrisponde nel soggetto passivo un dovere di comportamento e non anche
per i diritti potestativi, ai quali fa riscontro una situazione di mera soggezione,
anziché di obbligo, nel soggetto controinteressato. (Nella specie, la S.C. ha
confermato la sentenza impugnata che, con riguardo all'azione proposta dal lavoratore
subordinato per l'annullamento delle dimissioni comunicate al datore di lavoro, aveva
ritenuto inidoneo ad interrompere il corso della prescrizione l'atto del difensore del
dipendente volto a sollecitare una soluzione transattiva di una futura controversia).
(Rigetta, Trib. Bologna, 07/03/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 28 luglio 2010, n. 17629
In tema di prescrizione dei crediti del lavoratore, il principio di cui agli artt. 2948 n.4,
2955 n. 2 e 2956 n. 1 cod. civ. (quali risultanti dalla pronuncia della Corte
costituzionale n. 63 del 1966), secondo il quale la prescrizione non decorre in
costanza di rapporto di lavoro non assistito da stabilità reale, riguarda per espressa
previsione il solo diritto alla retribuzione e non si estende al diritto del lavoratore al
risarcimento del danno derivante dalla violazione degli obblighi di cui all'art. 2087
cod. civ., la cui prescrizione (decennale in caso di azione di responsabilità
33
contrattuale) decorre dal momento in cui il danno si è manifestato, anche in corso di
rapporto di lavoro. (Rigetta, App. Venezia, 16/11/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 14 luglio 2010, n. 16542
L'eccezione di interruzione della prescrizione, configurandosi diversamente
dall'eccezione di prescrizione come eccezione in senso lato, può essere rilevata anche
d'ufficio dal giudice in qualsiasi stato e grado del processo, ma sulla base di
allegazioni e di prove ritualmente acquisite o acquisibili al processo e, in ordine alle
controversie assoggettate al rito del lavoro, sulla base dei poteri istruttori
legittimamente esercitabili anche di ufficio ai sensi dell'art. 421, secondo comma,
cod. proc. civ., dal giudice, tenuto, secondo tale norma all'accertamento della verità
dei fatti rilevanti ai fini della decisione. Pertanto in presenza di un quadro probatorio
che non consenta di ritenere sicuramente insussistente un fatto costitutivo od
impeditivo l'esercizio di tali poteri istruttori è doveroso ove l'incertezza possa essere
rimossa con opportune iniziative istruttorie sollecitate dal giudice. (Nell'affermare il
principio la Corte, in una fattispecie relativa ad una richiesta di pagamento dei
contributi previdenziali, ha cassato la sentenza di merito laddove questa, pure in
presenza di documentati fatti interruttivi quali la presentazione di una istanza di
fallimento da oltre dieci anni, di un atto di successiva diffida, nonché di pagamenti
parziali effettuati dopo l'istanza di fallimento, non aveva adeguatamente motivato
circa il mancato esercizio di detti poteri istruttori ufficiosi). (Cassa con rinvio, App.
Brescia, 20/06/2006).
***
L. Inquadramento e mansioni del lavoratore
-Inquadramento
Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2010, n. 20272
Nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di
un lavoratore subordinato non si può prescindere da tre fasi successive, e cioè,
dall'accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dalla
individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e
dal raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale
individuati nella seconda. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito
che, con motivazione logica e adeguata, aveva escluso, sulla scorta dell'istruttoria
espletata, di poter ravvisare nelle mansioni svolte dal ricorrente, inquadrato al 3°
livello del CCNL del settore abbigliamento delle aziende artigiane ed addetto alla fase
di stampa di disegni su foulard e sciarpe, l'elemento della particolare complessità che,
unitamente a quello della variabilità, connotava l'inquadramento al 4° livello di detto
CCNL, al cui riconoscimento mirava la domanda giudiziale). (Rigetta, App. Venezia,
08/09/2005).
34
Cass. civ. Sez. lavoro, 2 settembre 2010, n. 19007
Nel rapporto di lavoro pubblico privatizzato, la materia degli inquadramenti del
personale contrattualizzato è stata affidata dalla legge allo speciale sistema di
contrattazione collettiva del settore pubblico che può intervenire senza incontrare il
limite della inderogabilità delle norme in materia di mansioni concernenti il lavoro
subordinato privato. Ne consegue che le scelte della contrattazione collettiva in
materia di inquadramento del personale e di corrispondenza tra le vecchie qualifiche e
le nuove aree sono sottratte al sindacato giurisdizionale, ed il principio di non
discriminazione di cui all'art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001 non costituisce parametro
per giudicare delle eventuali differenziazioni operate in sede di contratto collettivo.
(Nella specie, la S.C., nell'enunciare il principio, ha ritenuto la validità della
collocazione, in sede di prima applicazione, in area C/1 degli ispettori del lavoro, già
inquadrati nella soppressa VII qualifica funzionale, conformemente alle previsioni
della tabella di corrispondenza contrattuale contenuta nella contrattazione collettiva
integrativa che prevedeva un percorso professionale di inserimento iniziale in area
C/1, ed ha escluso che su tali disposizioni dovessero prevalere quelle della
contrattazione nazionale, che invece contemplavano direttamente un inquadramento
in area C/2). (Cassa e decide nel merito, App. Firenze, 16/07/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 maggio 2010, n. 12852
Ai fini del riconoscimento del diritto alla qualifica superiore ai sensi dell'art. 2103
cod. civ., qualora la qualificazione del livello sia connessa alla classificazione in
ambito aziendale dell'importanza dell'ufficio (nella specie, agenzia postale) presso il
quale il lavoratore svolge le proprie mansioni, va escluso che il giudice, apprezzando
autonomamente l'importanza di detto ufficio, possa anticipare gli effetti del
provvedimento che lo riclassifichi, rientrando tale atto nell'ambito delle scelte
organizzative e gestionali dell'imprenditore. Ove, peraltro, l'imprenditore autolimiti la
propria discrezionalità, accettando di procedere alla classificazione degli uffici con il
concerto delle organizzazioni sindacali, occorre fare necessario riferimento agli atti
concordati, restando salva la prova della violazione dei criteri fissati dall'azienda e
dalle oo.ss. per dare corso la riclassificazione. (Rigetta, App. Torino, 24/05/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 10 marzo 2010, n. 5809
Ai fini del riconoscimento della qualifica dirigenziale, è necessario e sufficiente che
sia dimostrato l'espletamento di fatto delle relative mansioni, caratterizzate dalla
preposizione ad uno o più servizi con ampia autonomia decisionale, e non occorre
anche una formale investitura trasfusa in una procura speciale, perché richiedere
anche tale requisito significherebbe subordinare il riconoscimento della qualifica ad
un atto discrezionale del datore di lavoro, di per sé insindacabile, con conseguente
violazione del principio della corrispondenza della qualifica alle mansioni svolte.
(Rigetta, App. Perugia, 20/03/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 8 febbraio 2010, n. 2750
L'art. 6 della legge n. 190 del 1985, nell'attribuire alla contrattazione collettiva la
possibilità di stabilire un periodo superiore a tre mesi per conseguire il diritto, in forza
delle mansioni di fatto svolte, ad una qualifica propria della categoria dei quadri o dei
35
dirigenti, non ha condizionato tale soluzione alla circostanza che sia prevista una sola
qualifica nella categoria (coincidente con la categoria stessa) ovvero ne sia prevista
una pluralità, né, in quest'ultimo caso, che il dipendente rivesta già una qualifica
compresa nella categoria dei quadri o dei dirigenti. Ne consegue che l'art. 38, comma
7, del c.c.n.l. del 26 novembre 1994 dei dipendenti postali, che, senza operare alcuna
differenziazione in base ai livelli presenti nella medesima categoria, prevede il
maggior termine di sei mesi per l'assunzione definitiva in caso di "applicazione
temporanea del dipendente a mansioni proprie della categoria quadri", si interpreta
nel senso che il tempo necessario per accedere ad uno qualsiasi dei due livelli previsti
per la categoria dei quadri è lo stesso sia che il lavoratore appartenga all'area di base
od operativa sia che rivendichi, quale quadro di secondo livello, il riconoscimento
della qualifica di primo livello. (Cassa con rinvio, App. Genova, 25/01/2007).
- Lo ius variandi
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 novembre 2010, n. 23926
L'impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo oggettivo di
recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato non è ravvisabile per
effetto della sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro,
perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa
attività, che sia riconducibile - alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo
buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103
c.c.) o, se ciò è impossibile, a mansioni anche inferiori, purché tale diversa attività sia
utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito
dall'imprenditore. La validità del patto di declassamento del lavoratore presuppone
l'impossibilità sopravvenuta di assegnare mansioni equivalenti alle ultime esercitate e
la manifestazione, sia pure in forma tacita, della disponibilità del lavoratore ad
accettarle.
Cass. civ. Sez. lavoro, 5 agosto 2010, n. 18283
In tema di provvedimento del datore di lavoro a carattere ritorsivo, l'onere della prova
su tale natura dell'atto grava sul lavoratore, potendo esso essere assolto con la
dimostrazione di elementi specifici, tali da far ritenere con sufficiente certezza
l'intento di rappresaglia, il quale deve aver avuto efficacia determinativa esclusiva
della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della
configurazione del provvedimento illegittimo. Ne consegue che, in sede di giudizio di
legittimità, il lavoratore che censuri la sentenza di merito per aver negato carattere
ritorsivo al provvedimento datoriale (nella specie, mutamento di mansioni nell'ambito
di quelle equivalenti previste dalla contrattazione collettiva del settore pubblico, ai
sensi dell'art. 52 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), non può limitarsi a dedurre la
mancata considerazione, da parte del giudice, di circostanze rilevanti in astratto ai fini
della ritorsione, ma deve indicare elementi idonei ad individuare la sussistenza di un
rapporto di causalità tra le circostanze pretermesse e l'asserito intento di rappresaglia.
(Rigetta, App. Messina, 29/07/2005).
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Cass. civ. Sez. lavoro, 1 febbraio 2010, n. 2280
Per lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro, la cui
sostituzione da parte di altro lavoratore avente una qualifica inferiore non attribuisce a
quest'ultimo il diritto alla promozione, ai sensi dell'art. 2103 cod. civ., deve intendersi
soltanto quello che non sia presente in azienda a causa di una delle ipotesi di
sospensione legale o convenzionale del rapporto di lavoro, e non anche quello
destinato, per scelta organizzativa del datore di lavoro, a lavorare fuori dell'azienda o
in altra unità o altro reparto, o, ancora, inviato a partecipare ad un corso di
formazione. (Nella specie, la S.C. ha cassato, con rinvio, la sentenza di merito che
aveva escluso il diritto alla promozione automatica di un dipendente il quale aveva
sostituito un lavoratore inviato in missione in altra sede, che doveva, quindi, reputarsi
non assente dal lavoro, ma solo dall'unità produttiva). (Cassa con rinvio, App.
L'Aquila, 28/12/2005).
- Le mansioni equivalenti, superiori e promiscue
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 marzo 2011, n. 6303
In caso di mansioni promiscue, ove la contrattazione collettiva non preveda una
regola specifica per l'individuazione della categoria di appartenenza del lavoratore, la
prevalenza - a questo fine - non va determinata sulla base di una mera
contrapposizione quantitativa delle mansioni svolte, bensì tenendo conto, in base alla
reciproca analisi qualitativa, della mansione maggiormente significativa sul piano
professionale, purché non espletata in via sporadica od occasionale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 febbraio 2011, n. 3968
Il lavoratore che abbia scelto di contestare, dinanzi al Giudice, un presunto
demansionamento, non può, successivamente, acconsentire all'espletamento di
mansioni inferiori al fine di evitare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Le ragioni legittimanti un siffatto recesso datoriale devono, invero, sussistere, e
conseguentemente essere verificate, alla data del licenziamento e non possono, per
questo, essere integrate da fatti o manifestazioni di volontà successivamente
intervenuti.
Trib. L'Aquila, 15 febbraio 2011
L'art. 2103 c.c. prevede il diritto alla promozione automatica del lavoratore che abbia
svolto mansioni superiori alla qualifica cui il medesimo appartiene per un periodo
superiore a tre mesi, sempre che l'esercizio delle suddette mansioni sia stato effettivo,
pieno e continuativo. In tal senso, deve accertarsi se l'assegnazione del lavoratore a
mansioni superiori abbia implicato anche l'assunzione della relativa responsabilità e
l'autonomia propria della qualifica rivendicata.
Trib. L'Aquila Sez. lavoro, 26 gennaio 2011
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Al fine di individuare la categoria in cui il lavoratore avrebbe dovuto essere
inquadrato, onde stabilire la spettanza o meno dei diritti conseguenti lo svolgimento
delle mansioni superiori, occorre dapprima accertare le mansioni concretamente
svolte dal lavoratore, poi individuare le qualifiche ed i gradi previsti dal relativo
contratto collettivo di categoria ed infine raffrontare i risultati delle due indagini ed
individuare la categoria in cui deve essere inserito il lavoratore in base alle mansioni
dal medesimo svolte.
Trib. Milano Sez. lavoro, 24 gennaio 2011
Il divieto di variazioni "in peius" opera anche quando al lavoratore, nella formale
equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto
mansioni sostanzialmente inferiori. Nell'effettuare tale comparazione non è
sufficiente ancorarsi in astratto al livello di categoria ma occorrerà accertare che le
nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente,
salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e
l'accrescimento delle sue capacità professionali ed a condizione che risulti tutelato il
patrimonio professionale del lavoratore nel senso che la nuova collocazione gli
consenta di utilizzare ed anzi di arricchire il patrimonio professionale acquisito in una
prospettiva dinamica di valorizzazione del proprio bagaglio di conoscenze ed
esperienze.
Trib. Cassino Sez. lavoro, 10 gennaio 2011
Non ogni modifica quantitativa delle mansioni, si traduce automaticamente in una
dequalificazione professionale, incombendo, invece, sul giudice il compito di
accertare, di volta in volta, se l'effettuata sottrazione di mansioni sia tale da
comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore o una
sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite ed un conseguenziale
impoverimento della sua professionalità.
Trib. Milano Sez. lavoro, 25 ottobre 2010
II divieto di variazioni "in peius" opera anche quando al lavoratore, nella formale
equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto
mansioni sostanzialmente inferiori, per la cui comparazione è necessario accertare
che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente,
salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e
l'accrescimento delle sue capacita professionali.
Trib. Perugia Sez. lavoro, 17 settembre 2010
Al fine del riconoscimento del diritto a differenze retributive, il lavoratore che affermi
di svolgere o di aver svolto mansioni corrispondenti ad una qualifica superiore, ha
l'onere di dedurre e dimostrare quali siano tali mansioni e per quanto tempo siano
state da lui esercitate, nonché le disposizioni che legittimano la sua richiesta e la
coincidenza fra le proprie mansioni e quelle caratterizzanti, secondo le medesime
disposizioni, la qualifica superiore reclamata.
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Trib. Taranto Sez. lavoro, 14 luglio 2010
Stante la valenza generale dei criteri parametrici fissati dalla norma costituzionale in
materia di retribuzione, il disposto dell'art. 36 Cost. non può non trovare applicazione
anche nelle fattispecie in cui la pretesa del lavoratore alla retribuzione corrispondente
allo svolgimento dell'attività prestata riguardi mansioni superiori corrispondenti ad
una qualifica di due livelli superiori a quella di inquadramento.
App. Potenza Sez. lavoro, 17 giugno 2010
Il lavoratore che agisce in giudizio per ottenere l'inquadramento in una qualifica
superiore è tenuto ad allegare e provare gli elementi posti a fondamento della
domanda ed, in particolare, deve indicare espressamente quali sono i profili
caratterizzanti le mansioni di detta qualifica, raffrontandoli con quelli concernenti le
mansioni che egli deduce di avere concretamente svolto. Stante quanto detto, nel caso
di specie, dalle risultanze probatorie non solo è emerso che i ricorrenti non avevano
svolto le asserite mansioni superiori tipiche degli infermieri professionali, ma che essi
si erano limitati ad espletare, su prescrizione medica, i compiti propri della loro
qualifica e che anche i compiti superiori erano stati svolti sotto la diretta
responsabilità del medico di turno, la cui costante presenza rendeva non necessaria la
presenza dell'infermiere professionale. Di talché, conformemente a quanto statuito in
prime cure, è stato escluso che i ricorrenti avessero svolto compiti superiori con
carattere di prevalenza, sia dal punto di vista quantitativo, per la mancanza di attività
organizzativa, sia dal punto di vista qualitativo data la complessiva assunzione di
responsabilità da parte del medico di turno, con la conseguenza che, da un punto di
vista retributivo, nulla era a loro dovuto.
Trib. Trapani Sez. lavoro, 12 maggio 2010
Il lavoratore che agisca in giudizio per ottenere l'inquadramento in una qualifica
superiore ha l'onere di allegare e di provare gli elementi posti a base della domanda e,
in particolare, è tenuto ad indicare esplicitamente quali siano i profili caratterizzanti le
mansioni di detta qualifica, raffrontandoli altresì espressamente con quelli
concernenti le mansioni che egli deduce di avere concretamente svolto.
Trib. L'Aquila, 8 marzo 2010
Al fine della verifica del corretto inquadramento del lavoratore anche ex art. 2103
c.c., è necessario accertare se l'assegnazione del lavoratore a mansioni superiori abbia
comportato anche l'assunzione della relativa responsabilità e l'autonomia propria della
qualifica rivendicata.
Trib. Bologna, 2 marzo 2010
È necessario distinguere le indennità corrisposte in considerazione delle qualità
professionali intrinseche alle mansioni da quelle indennità corrisposte in ragione delle
particolari modalità della prestazione lavorativa; mentre le prime, data la loro stretta
attinenza alla professionalità conseguita dal lavoratore per effetto dell'espletamento di
mansioni complesse o implicanti particolari cognizioni tecnico-scientifiche, non
possono essere soppresse dal datore di lavoro, le seconde, se pur erogate sempre in
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funzione di corrispettivo della prestazione lavorativa - di talché rientrano pur esse nel
trattamento retributivo del lavoratore - restano escluse dalla garanzia della
irriducibilità della retribuzione, in quanto vengono corrisposte solo per compensare
particolari disagi o difficoltà e non possono perciò essere pretese quando vengano
meno le speciali situazioni che le abbiano generate. Da ciò consegue che, una volta
venute meno le suddette condizioni, viene meno anche la giustificazione
sinallagmatica del compenso.
Trib. Cassino Sez. lavoro, 25 febbraio 2010
Ferma restando l'irrilevanza di una mera riduzione quantitativa delle mansioni svolte
in precedenza, qualora il lavoratore contesti la legittimità dello ius variandi del datore
di lavoro per l'asserita derivatane dequalificazione professionale, si rivela necessario
accertare la sussistenza delle esigenze aziendali tecnico-produttive poste alla base
dell'eventuale modifica, mediante un giudizio di equivalenza tra le precedenti e le
nuove mansioni con riferimento a quelle in concreto svolte dal dipendente,
prescindendo dalle previsioni astratte del livello di categoria. In tal senso si impone,
da parte del Giudice, un accertamento pluridirezionale afferente l'eventuale
violazione del livello retributivo raggiunto, l'accertamento delle mansioni previste
all'atto dell'assunzione e concretamente poi svolte, oltre l'esatto inquadramento delle
stesse nel corrispondente livello del CCNL di categoria, la rigorosa individuazione
delle nuove mansioni affidate al lavoratore, l'equivalenza o meno delle medesime a
quelle precedentemente espletate, rispetto all'inquadramento astratto e formalistico di
categoria secondo il CCNL, l'accertamento comparativo delle stesse in concreto (sotto
il profilo della loro equivalenza o meno in relazione alla competenza richiesta, al
livello professionale raggiunto e all'utilizzazione del patrimonio professionale
acquisito nella pregressa fase del rapporto e nella precedente attività svolta) e
l'applicazione del principio secondo cui il lavoratore deve essere adibito a funzioni
confacenti alle proprie qualità, nell'ottica di un costante loro affidamento e di una
progressiva evoluzione delle stesse. (L'istruttoria svolta nella fattispecie ha consentito
di accertare l'illegittimità del mutamento di mansioni subito dal dipendente, in quanto
contrario al disposto di cui all'art. 2103 c.c. nonché ai canoni generali di buona fede e
correttezza nello svolgimento del rapporto di lavoro, non risultando provato da parte
della società convenuta che il declassamento subito dal lavoratore sia stato sorretto da
idonee motivazioni, quali l'eventuale riorganizzazione del settore in cui ha operato il
ricorrente in seguito alla cessione del ramo di azienda).
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 gennaio 2010, n. 1575
In tema di assegnazione al lavoratore di mansioni diverse da quelle di assunzione,
l'equivalenza o meno delle mansioni deve essere valutata dal giudice anche nel caso
in cui le mansioni di provenienza non siano state affidate ad altro dipendente, ma si
siano esaurite, con la conseguenza che anche in tale evenienza può aversi
demansionamento, in violazione dell'art. 2103 cod. civ., ove le nuove mansioni
affidate al lavoratore siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime
svolte dal lavoratore. (Cassa con rinvio, App. Trento, 10/01/2006).
40
Trib. Cassino, 14 gennaio 2010
L'attribuzione al lavoratore di una determinata qualifica in relazione all'esercizio di
fatto di mansioni superiori non presuppone l'adozione da parte del datore di lavoro di
un provvedimento formale: è sufficiente che risulti manifesta una volontà in tal senso.
Il giudice chiamato a verificare l'applicabilità dell'art. 2103 c.c., è tenuto a compiere
un accertamento in fatto delle attività concretamente espletate dal lavoratore ed
astrattamente inquadrabili nella qualifica superiore. In particolare la giurisprudenza
ha affermato che l'applicabilità dell'art. 2103 c.c., presuppone un'assegnazione alle
mansioni superiori piena: la stessa deve, cioè, aver comportato l'assunzione della
responsabilità e l'esercizio dell'autonomia e dell'iniziativa proprie della
corrispondente qualifica rivendicata dal prestatore di lavoro, coerentemente con le
mansioni contrattualmente previste in via esemplificativa nelle declaratorie dei
singoli inquadramenti. Dunque il giudice è chiamato a raffrontare le mansioni in
concreto svolte dal lavoratore con le declaratorie contrattuali e successivamente, sulla
base di tale raffronto, a verificare l'effettività delle mansioni svolte.
- Il danno da demansionamento
Cass. civ. Sez. Unite Sent., 22 febbraio 2010, n. 4063
Il danno derivante dal demansionamento del lavoratore deve essere dimostrato in
giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo, peraltro,
preminente rilievo la prova per presunzioni. Perciò, dalla complessiva valutazione di
precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) si
può, attraverso un prudente apprezzamento, risalire coerentemente al fatto ignoto,
ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 cod. proc. civ., a
quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, sulle quali si fonda il ragionamento
presuntivo e la valutazione delle prove. Il danno non patrimoniale da
demansionamento, inoltre, è configurabile ogni qualvolta la condotta illecita del
datore di lavoro abbia violato, in modo grave, diritti oggetto di tutela costituzionale,
quale quello allo svolgimento delle mansioni di assunzione o successivamente
acquisite: questi diritti, non essendo regolati ex ante da norme di legge, per essere
suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal
Giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento (con l'attribuzione di
nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà discriminare i meri pregiudizi concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità,
come tali non risarcibili - dai danni che vanno risarciti.
Cass. civ. Sez. lavoro, 17 settembre 2010, n. 19785
In tema di demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del
lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che
asseritamente ne deriva, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento
datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo
del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. Inoltre
mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione
dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da
intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma
41
oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le
sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse
quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - deve
essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo
peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni. Ne discende che il prestatore di
lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche
nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno
biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione
lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, deve fornire la prova
dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che
costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa.
Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento
illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare
la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che
denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all'art.
2697 c.c..
Cass. civ. Sez. lavoro, 14 aprile 2011, n. 8527
Il lavoratore adibito a nuove mansioni ha diritto al risarcimento del danno morale
qualora non abbia ricevuto alcuna formazione stante il disagio dovuto all'evidente ed
incolpevole imperizia e con conseguente pregiudizio per la dignità personale e per il
prestigio professionale, tutelati dall'art. 35 Cost., comma 1.
Cass. civ. Sez. V, 19 marzo 2010, n. 6754
Le somme corrisposte per le perdite effettivamente subite dal lavoratore (c.d. danno
emergente), che abbiano quindi una funzione di reintegrazione patrimoniale, non
vanno assoggettate a tassazione ai fini Irpef. In particolare, non sono imponibili le
somme percepite dal lavoratore a titolo di risarcimento del danno da
demansionamento. Viceversa, concorrono alla formazione del reddito delle persone
fisiche quegli indennizzi che hanno la funzione di reintegrare un danno concretatosi
nella mancata percezione dei redditi.
***
M. Potere direttivo e modificazione del luogo di lavoro
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 novembre 2010, n. 23675
In materia di trasferimento collettivo dei dipendenti postali, operato sulla base di una
procedura concordata in sede sindacale con formazione di graduatorie redatte in forza
di criteri predeterminati, è onere del datore di lavoro provare il rispetto delle regole
stabilite per la formazione delle graduatorie, essendo questo condizione della
legittimità del mutamento di sede lavorativa del dipendente. (Rigetta, App. Torino,
31/07/2006).
42
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 novembre 2010, n. 23766
La reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente illegittimamente licenziato in un
luogo diverso da quello originario costituisce inadempienza contrattuale e comporta,
pertanto, la conseguente nullità del provvedimento di trasferimento, giustificando il
rifiuto del dipendente di assumere servizio nella sede diversa.
-
Il trasferimento
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 novembre 2010, n. 23493
La violazione della norma imperativa contenuta nell'art. 2103 cod. civ. e la nullità del
provvedimento datoriale di trasferimento del lavoratore ad un'altra unità produttiva
implicano che la conseguente condanna all'adempimento dell'obbligazione in forma
specifica, per sua natura non coercibile, assume nella sostanza natura dichiarativa
delle obbligazioni e dei diritti derivanti dal rapporto dedotto in causa, con
conseguente obbligo del datore di lavoro al ripristino della precedente situazione
lavorativa in base alle regole del contratto di lavoro, senza che ostino, a tal fine, le
successive vicende estintive dell'obbligo, rilevanti solo agli effetti del risarcimento
del danno. (Rigetta, App. Bari, 18/07/2006)
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 maggio 2010, n. 12097
La nozione di trasferimento del lavoratore, che comporta il mutamento definitivo del
luogo geografico di esecuzione della prestazione, ai sensi dell'art. 2103, primo
comma (ultima parte), cod. civ., e alla stregua delle disposizioni collettive applicabili
nella specie (artt. 37 e 74 CCNL per i dipendenti postali), non è configurabile quando
lo spostamento venga attuato nell'ambito della medesima unità produttiva, salvo i casi
in cui l'unità produttiva comprenda uffici notevolmente distanti tra loro (Nella specie
la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto configurabile il
trasferimento di un dipendente dell'Ente Poste presso una sede situata in un comune
diverso, situato a circa trenta chilometri dall'ufficio di provenienza). (Rigetta, App.
Cagliari, 14/11/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 17 maggio 2010, n. 11984
In tema di mutamento della sede di lavoro del lavoratore, sebbene il provvedimento
di trasferimento non sia soggetto ad alcun onere di forma e non debba
necessariamente contenere l'indicazione dei motivi, né il datore di lavoro abbia
l'obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda, ove sia contestata la legittimità
del trasferimento, il datore di lavoro ha l'onere di allegare e provare in giudizio le
fondate ragioni che lo hanno determinato e, se può integrare o modificare la
motivazione eventualmente enunciata nel provvedimento, non può limitarsi a negare
la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria
della controparte, ma deve comunque provare le reali ragioni tecniche, organizzative
e produttive che giustificano il provvedimento. (Rigetta, App. Torino, 27/07/2005).
43
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 marzo 2010, n. 7350
In tema di trasferimento nullo, il lavoratore, ove non abbia assolto l'onere probatorio
in ordine al danno, patrimoniale o non patrimoniale, cagionato dal trasferimento
illegittimo, non può richiedere un risarcimento corrispondente all'indennità di
trasferta per il periodo in cui il trasferimento ha avuto esecuzione, attesa la
disomogeneità tra gli istituti del trasferimento e della trasferta, e restando esclusa la
conversione del negozio, ai sensi dell'art. 1424 cod. civ., in difetto della prova che il
datore di lavoro, se fosse stato consapevole della nullità del trasferimento, avrebbe
disposto la trasferta. (Cassa e decide nel merito, App. Venezia, 15/03/2006)
Cass. civ. Sez. lavoro, 24 marzo 2010, n. 7045
Il trasferimento del lavoratore ad una sede di lavoro diversa da quella dove prestava
precedentemente servizio, pur potendo essere previsto come sanzione disciplinare
dalla contrattazione collettiva, la quale è abilitata a individuare sanzioni diverse da
quelle tipiche previste dall'art. 7 della legge n. 300 del 1970, non assume tale natura
ove il datore di lavoro si limiti ad esercitare lo "ius variandi" riconosciutogli dall'art.
2103 cod. civ., allegando la sussistenza di un giustificato motivo tecnico,
organizzativo e produttivo per il mantenimento del luogo di lavoro (nella specie, la
soppressione dell'attività presso il luogo di origine ed il suo accentramento nella
nuova sede), e non è pertanto assoggettato alle garanzie previste dai commi terzo e
quarto dell'art. 7 e dalla contrattazione collettiva, le quali devono invece assistere il
successivo licenziamento intimato al lavoratore per la sua protratta assenza dalla
nuova sede di servizio, configurandosi tale provvedimento come sanzione
disciplinare, in quanto il predetto comportamento costituisce una tipica inadempienza
degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro. (Cassa con rinvio, App. Venezia,
07/11/2005).
- La trasferta
Cass. civ. Sez. lavoro, 5 agosto 2010, n. 18269
La disposizione di cui all'art. 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153, che esclude dalla
base imponibile ai fini contributivi le somme corrisposte al lavoratore a titolo di
indennità di trasferta in cifra fissa limitatamente al 50 per cento del loro ammontare,
pone una presunzione legale di coesistenza in pari misura nella suddetta indennità di
una parte remunerativa e una parte restitutoria. Affinché tale presunzione possa
operare, è necessario, peraltro, che siano preventivamente accertate l'effettiva natura
dell'emolumento e la compresenza in esso di entrambe le componenti, compresenza
che deve escludersi per il compenso attribuito a titolo di rimborso di spese non
documentabili, effettuato a "piè di lista" sulla base delle spese sostenute nella trasferta
dal lavoratore per le sue ordinarie esigenze di vita. (Nella fattispecie la natura
meramente retributiva dell'importo corrisposto era confermata anche dalla variabilità
dell'ammontare correlata alla professionalità, tipo di lavoro e responsabilità dei
singoli dipendenti). (Rigetta, App. Genova, 07/02/2006).
44
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 marzo 2010, n. 7197
In tema di lavoro, per viaggio comandato, la cui metà del tempo impiegato si computa
come lavoro effettivo, si deve intendere ogni trasferimento inevitabile per
l'organizzazione dei turni derivante da disposizione aziendale, effettuato sia con
mezzo gratuito di servizio sia con proprio mezzo di trasporto con onere di spesa a
carico del lavoratore.
Cass. civ. Sez. lavoro, 17 febbraio 2010, n. 3684
Nell'indennità di trasferta prevista in favore del lavoratore che si trasferisce in un
luogo di lavoro diverso da quello abituale possono ravvisarsi due componenti, quella
risarcitoria e quella residuale retributiva, la cui rispettiva determinazione quantitativa
(rilevante nella specie al fine di stabilirne la computabilità per il calcolo dell'indennità
di anzianità e del trattamento di fine rapporto), discende dalla interpretazione delle
specifiche pattuizioni contrattuali, essendo quindi devoluta al giudice di merito.
(Nella specie, la S.C. ha cassato, con rinvio, la sentenza della corte territoriale che,
nell'escludere l'indennità di trasferta dal computo dell'indennità di anzianità e del
T.F.R. sul rilievo della sua natura risarcitoria, aveva omesso di accertare se in essa
fosse presente, e in quale percentuale, anche una componente retributiva, tanto più
che la stessa indennità risultava essere connessa all'impossibilità per i lavoratori
operanti fuori dalla cinta daziaria del Comune di Roma di usufruire del servizio di
mensa aziendale). (Cassa con rinvio, Trib. Roma, 30/05/2005).
- Il distacco
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 novembre 2010, n. 23933
Il "comando" o "distacco" di un lavoratore disposto dal datore di lavoro presso altro
soggetto, destinatario delle prestazioni lavorative, è configurabile quando sussista
oltre all'interesse del datore di lavoro a che il lavoratore presti la propria opera presso
il soggetto distaccatario, anche la temporaneità del distacco, che non richiede una
predeterminazione della durata, più o meno lunga, ma solo la coincidenza della durata
stessa con l'interesse del datore di lavoro allo svolgimento da parte del proprio
dipendente della sua opera a favore di un terzo, e che permanga in capo al datore di
lavoro distaccante, il potere direttivo, eventualmente delegabile al distaccatario, e
quello di determinare la cessazione del distacco. (Rigetta, App. Milano, 24/11/2006)
Cass. civ. Sez. V, 7 settembre 2010, n. 19129
Nel caso dell'operazione di distacco di personale, la somma corrisposta dal soggetto
che beneficia del lavoro del personale distaccato all'impresa distaccante è suscettibile
di essere considerata imponibile ai fini dell'Iva nella misura dell'eccedenza rispetto
all'importo necessario al rimborso del costo del personale sostenuto dal distaccante.
45
Cass. civ. Sez. lavoro, 11 gennaio 2010, n. 215
In caso di distacco del dipendente presso altra organizzazione aziendale, il datore di
lavoro distaccante, in capo al quale permane la titolarità del rapporto di lavoro, è
responsabile, ai sensi dell'art. 2049 cod. civ., dei fatti illeciti commessi dal dipendente
distaccato, atteso che il distacco presuppone uno specifico interesse del datore di
lavoro all'esecuzione della prestazione presso il terzo, con conseguente permanenza
della responsabilità, secondo il principio del rischio di impresa, per i fatti illeciti
derivati dallo svolgimento della prestazione stessa. (Rigetta, App. Venezia,
14/02/2006).
***
N. Salute e sicurezza sul lavoro
- L’art. 2087 c.c. e le prestazioni di sicurezza
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 settembre 2010, n. 20142
L'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per infortunio sul lavoro o
malattia professionale opera esclusivamente nei limiti posti dall'art. 10 del d.P.R.
n.1124 del 1965 e per i soli eventi coperti dall'assicurazione obbligatoria, mentre
qualora eventi lesivi eccedenti tale copertura abbiano comunque a verificarsi in
pregiudizio del lavoratore e siano casualmente ricollegabili alla nocività dell'ambiente
di lavoro, viene in rilievo l'art. 2087 cod. civ., che come norma di chiusura del
sistema antinfortunistico, impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una
specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e
diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di
esperienza, a tutelare l'integrità fisica del lavoratore assicurato. Anche tale
responsabilità datoriale non è, peraltro, configurabile ove il nesso causale tra l'uso di
una sostanza e la patologia professionale non fosse configurabile allo stato delle
conoscenze scientifiche dell'epoca, sicché non poteva essere prospettata l'adozione di
adeguate misure precauzionali. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di
merito che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno proposta dagli eredi
di un lavoratore, già addetto alla lavorazione dell'amianto, deceduto per mesotelioma
ed esposti al rischio tra il 1953 ed il 1962, ritenendo congruamente motivato il
giudizio secondo il quale il rispetto delle limitate prescrizioni cautelative praticabili
all'epoca dello svolgimento dell'attività lavorativa, non avrebbe impedito l'insorgere
del mesotelioma in quanto malattia dose-dipendente). (Rigetta, App. Trieste,
18/02/2006).
46
Cass. civ. Sez. III, 10 settembre 2010, n. 19280
Le norme in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire
l'insorgenza di situazioni pericolose, hanno lo scopo di tutelare il lavoratore non solo
dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili a sua
imperizia, negligenza ed imprudenza. Sicché, il datore di lavoro è da ritenere
responsabile dell'infortunio in tutti i casi in cui ometta di adottare le idonee misure
protettive, o di vigilare affinché vengano osservate, mentre l'eventuale concorso di
colpa del lavoratore non ha di per sé solo alcun effetto esimente. Esso può comportare
l'esonero totale dell'imprenditore da responsabilità solo quando si tratti di
comportamento abnorme, inopinabile ed esorbitante in relazione alle mansioni svolte,
al procedimento lavorativo "tipico" al quale è addetto ed alle direttive ricevute.
Cass. civ. Sez. lavoro, 5 agosto 2010, n. 18278
Il potere organizzativo del datore di lavoro comprende senz'altro la predisposizione di
regole finalizzate ad una migliore coesistenza delle diverse realtà operanti all'interno
dei luoghi di lavoro e ad evitare conflittualità ma non può tradursi in condotte
pregiudizievoli dell'integrità fisica e morale dei prestatori d'opera in quanto nell'equo
bilanciamento dell'esigenza di funzionalità dell'impresa e di tutela delle condizioni di
lavoro e del lavoratore, il legislatore ha chiaramente privilegiato, con l'art. 41 Cost.,
ripreso dall'art. 2087 cod. civ., i diritti fondamentali dei lavoratori. (Principio
applicato in una fattispecie, caratterizzata dal fatto che, nell'unico ambiente di lavoro,
destinato allo stiro industriale, era stato installato un paravento divisorio che creava
un spazio angusto e poco illuminato per le dipendenti "conflittuali", determinando
una situazione di aggravio materiale delle condizioni di lavoro a causa delle
esalazioni di vapore a getto continuo, e psicologica per la condizione ingiustificata di
isolamento). (Rigetta, App. Bologna, 31/07/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 28 luglio 2010, n. 17649
Lo sforzo fisico del lavoratore può determinare una patologia riconducibile all'infarto
occorso allo stesso qualora si verifichi un'azione rapida e intensa tale da determinare
una lesione del lavoratore medesimo. A tal fine è necessario per il risarcimento del
danno la dimostrazione del nesso causale tra l'attività lavorativa svolta e l'evento
lesivo (nella specie la Cassazione ha rigettato la richiesta di risarcimento del danno
della moglie di un fattorino deceduto per infarto sul rilievo che il semplice stress e
affaticamento quotidiano del lavoro svolto dal marito non può essere l'unico elemento
per dimostrarne la nocività).
Cass. civ. Sez. lavoro, 27 luglio 2010, n. 17547
In tema di qualificazione della domanda giudiziale, ove il lavoratore chieda il
risarcimento del danno derivante dalla lesione del diritto all'integrità personale, non
rileva, ai fini della configurazione di un'azione di natura contrattuale, il mero
richiamo dell'art. 2087 cod. civ. o delle altre disposizioni legislative strumentali alla
protezione delle condizioni di lavoro, occorrendo, invece, la specifica deduzione di un
comportamento inadempiente del datore di lavoro, dal quale, secondo la
prospettazione attorea, sia derivato il danno lamentato. (Nella specie, la S.C. ha
confermato la sentenza di merito che, in base ad un apprezzamento di fatto
47
congruamente motivato, aveva ravvisato nella domanda del lavoratore un'azione di
responsabilità extracontrattuale, soggetta alla prescrizione quinquennale, reputando
del tutto generiche le deduzioni sulla violazione dell'art. 2087 cod. civ. e delle norme
infortunistiche, operate tramite i meri riferimenti al mancato uso del casco protettivo
ed alle modalità dell'infortunio patito dal lavoratore, in quanto inidonei a configurare
una specifica imputazione di responsabilità in capo al datore di lavoro di
comportamenti negligenti nella predisposizione del procedimento lavorativo tipico e
nel controllo della idoneità degli strumenti di lavoro e della sorveglianza degli
interventi a rischio). (Rigetta, App. Messina, 25/11/2005).
Cass. pen. Sez. IV, 9 luglio 2010, n. 42465
È titolare di una posizione di garanzia nei confronti del lavoratore il proprietario
(committente) che affida lavori edili in economia ad un lavoratore autonomo di non
verificata professionalità, ed in assenza di qualsiasi apprestamento di presidi
anticaduta, pur a fronte di lavorazioni in quota superiore a metri due. (La Corte ha
precisato che l'unitaria tutela del diritto alla salute, indivisibilmente operata dagli artt.
32 Cost., 2087 cod. civ. e 1, comma primo, legge n. 833 del 1978, impone
l'utilizzazione dei parametri di sicurezza espressamente stabiliti per i lavoratori
subordinati nell'impresa, anche per ogni altro tipo di lavoro). (Rigetta, App. Lecce,
30/05/2008).
Cass. civ. Sez. lavoro, 5 maggio 2010, n. 10834
In tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, l'esonero del
datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni occorsi al lavoratore infortunato
e la limitazione dell'azione risarcitoria di quest'ultimo al cosiddetto danno
differenziale, nel caso di esclusione di detto esonero per la presenza di responsabilità
di rilievo penale (a norma dell'art. 10 d.P.R. n. 1124 del 1965 e delle inerenti
pronunce della Corte costituzionale), riguarda solo le componenti del danno coperte
dall'assicurazione obbligatoria, la cui individuazione è mutata nel corso degli anni. Ne
consegue che per le fattispecie sottratte, "ratione temporis", all'applicazione dell'art.
13 del d.lgs. n. 38 del 2000 la suddetta limitazione riguarda solo il danno patrimoniale
collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica, e non si applica al danno
non patrimoniale (ivi compreso quello alla salute o biologico) e morale per i quali
continua a trovare applicazione la disciplina antecedente al d.lgs. n. 38 del 2000 che
escludeva la copertura assicurativa obbligatoria. (Rigetta, App. Napoli, 23/08/2005)
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 marzo 2010, n. 7382
Va confermata la statuizione con cui la corte di merito ha ritenuto inoperante la
copertura assicurativa vantata in forza di una polizza stipulata per coprire la
responsabilità civile della società verso i propri dipendenti per infortuni sul lavoro
derivanti da fatti commessi dall'assicurato o da suoi dipendenti, qualora risulti
incontestabilmente dimostrato, e non adeguatamente contestato in sede di legittimità,
il comportamento doloso dell'amministratore unico della società responsabile (nella
specie, l'amministratore era stato consapevole dei comportamenti aggressivi e
vessatori tenuti nei confronti di un dipendente e aveva tollerato e assecondato detti
48
comportamenti senza far nulla per farli cessare, così accettando consapevolmente il
rischio che da essi potessero derivare conseguenze dannose).
Cass. civ. Sez. lavoro, 8 febbraio 2010, n. 2736
In caso di infortunio, la responsabilità dell'azienda, conseguente alla violazione
dell'art. 2087 c.c. per inosservanza delle misure di sicurezza sul lavoro, nei confronti
dell'Inail che agisce in via di regresso ha natura contrattuale. L'Inail, quindi, deve
allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa e del danno, nonché il nesso
causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro, per escludere la
propria responsabilità, deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non
imputabile, e cioè di aver adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le
misure per evitare il danno, e che gli esiti dannosi sono stati determinati da un evento
imprevisto ed imprevedibile.
Cass. pen. Sez. IV, 5 febbraio 2010, n. 30897
In caso di decesso del lavoratore, cagionato da violazione delle norme sulla sicurezza
del lavoro, il datore di lavoro ha il diritto di recuperare, in forma di risarcimento, da
chi l'abbia causato, le somme corrisposte ai superstiti a titolo di indennità sostitutiva
di preavviso a norma dell'art. 2118, comma terzo, cod. civ., somme non dovute ove la
morte non si fosse verificata e quindi causalmente radicate in quell'evento e nelle
responsabilità di chi lo abbia determinato. (Annulla in parte senza rinvio, App.
Bologna, 14 novembre 2008).
-
Infortunio in itinere
Cass. civ. Sez. lavoro, 24 settembre 2010, n. 20221
In materia di infortuni sul lavoro, l'art. 12 del D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, che ha
espressamente ricompreso nell'assicurazione obbligatoria la fattispecie dell'infortunio
"in itinere", inserendola nell'ambito della nozione di occasione di lavoro di cui all'art.
2 del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, esprime dei criteri normativi (come quelli di
"interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non
necessitate", che delimitano l'operatività della garanzia assicurativa) utilizzabili per
decidere anche controversie relative a fatti antecedenti alla sua entrata in vigore. La
valutazione in concreto di tali aspetti non può limitarsi alla semplice osservazione che
il tragitto prescelto dal dipendente risulti essere il "più breve" per raggiungere il posto
di lavoro, dovendosi invece verificare che lo stesso risulti conforme al diverso criterio
della "normalità" della percorrenza dell'indicato itinerario tra casa e lavoro, secondo i
principi già enunciati dalla giurisprudenza e attualmente codificati nell'art. 12 del
D.Lgs. n. 38 del 2000, che riconoscono la copertura assicurativa qualora il
comportamento del lavoratore non sia motivato da ragioni del tutto personali, al di
fuori dell'attività lavorativa.
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Cass. civ. Sez. lavoro, 21 settembre 2010, n. 19937
Ai fini dell'indennizzabilità dell'infortunio in itinere, occorre procedere in primo
luogo alla valutazione dell'elemento topografico e cioè di quello che si presenta come
il percorso più breve dalla abitazione alla sede di lavoro, e verificare successivamente
se le eventuali deviazioni compiute dall'assicurato abbiano comportato, rispetto al
percorso normale, minori intoppi e attraversamenti urbani (la S.C. ha confermato la
sentenza del giudice di rinvio che aveva negato l'indennizzabilità dell'infortunio
occorso ad un medico convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale in quanto il
luogo del sinistro si trovava fuori rotta rispetto all'itinerario che il sanitario avrebbe
dovuto seguire per raggiungere la sede di lavoro).
Cass. civ. Sez. lavoro, 29 luglio 2010, n. 17752
In materia di indennizzabilità dell'infortunio "in itinere" occorso al lavoratore che
utilizzi il mezzo di trasporto privato, non possono farsi rientrare nel rischio coperto
dalle garanzie previste dalla normativa sugli infortuni sul lavoro situazioni che senza
rivestire carattere di necessità - perché volte a conciliare in un'ottica di bilanciamento
di interessi le esigenze del lavoro con quelle familiari proprie del lavoratore rispondano, invece, ad aspettative che, seppure legittime per accreditare condotte di
vita quotidiana improntate a maggiore comodità o a minori disagi, non assumono uno
spessore sociale tale da giustificare un intervento a carattere solidaristico a carico
della collettività (nel caso di specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che
aveva escluso l'indennizzabilità dell'infortunio occorso ad un lavoratore mentre si
recava al lavoro alla guida del proprio ciclomotore nonostante la disponibilità di
mezzi di trasporto pubblico aventi orari compatibili con le sue esigenze di vita e di
lavoro).
Cass. civ. Sez. lavoro, 27 aprile 2010, n. 10028
L'infortunio "in itinere" comporta il suo verificarsi nella pubblica strada e, comunque,
non in luoghi identificabili in quelli di esclusiva proprietà del lavoratore assicurato o
in quelli di proprietà comune, quali le scale ed i cortili condominiali, il portone di
casa o i viali di complessi residenziali con le relative componenti strutturali.
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 marzo 2010, n. 7373
Non è riconosciuto l'infortunio "in itinere" al dipendente che per uscire dall'azienda
usa un percorso alternativo alla via ordinaria, passando per locali non idonei.
- Il mobbing
Cass. pen. Sez. VI, 22 settembre 2010, n. 685
Nel nostro codice penale, nonostante una delibera del Consiglio d'Europa del 2000,
che vincolava tutti gli Stati membri a dotarsi di una normativa corrispondente, non v'è
traccia di una specifica figura incriminatrice per contrastare la pratica persecutoria
definita mobbing. Pertanto, sulla base del diritto positivo e dei dati fattuali acquisiti
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nella fattispecie, la via penale non appare praticabile, mentre è certamente
percorribile la strada del procedimento civile.
Cass. pen. Sez. VI, 22 settembre 2010, n. 685
Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla
sua emarginazione (cosiddetta "mobbing") possono integrare il delitto di
maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e
il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni
intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte
nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in
quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la
configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere dal capo
squadra nei confronti di un operaio). (Rigetta, Gip Trib. Torino, 01/10/2009).
Cass. civ. Sez. lavoro, 29 marzo 2010, n. 7524
Va riconosciuto il risarcimento del danno da perdita di “chance” al dipendente che
non ha fatto carriera a causa del cattivo rapporto che aveva con il suo superiore. La
perdita di opportunità per effetto di un comportamento del datore di lavoro volto ad
ostacolare la promozione del lavoratore, produce dei danni che vanno risarciti, e ciò
anche in ragione del fatto che, se è vero che la promozione di un dipendente è
“discrezionale”, comunque il datore di lavoro deve agire secondo buona fede e
correttezza nella procedura di selezione dei dipendenti da promuovere.
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 marzo 2010, n. 7382
Per "mobbing" deve intendersi una condotta del datore di lavoro nei confronti del
dipendente in violazione degli obblighi di cui all'art. 2087 c.c. e consistente in
reiterati e prolungati comportamenti ostili, di intenzionale discriminazione e
persecuzione psicologica, con mortificazione ed emarginazione del lavoratore,
correttamente individuati dal giudice di merito in continui insulti e rimproveri con
umiliazione e ridicolizzazione davanti ai colleghi di lavoro, e nella frequente
adibizione a lavori più gravosi rispetto a quelli svolti in precedenza.
Cass. civ. Sez. III, 2 febbraio 2010, n. 2352
In una fattispecie di rapporto gerarchico professionale, quale è quello che ricorre tra il
primario di un reparto ospedaliero di chirurgia pediatrica e l'aiuto anziano, rapporto
che integra un contratto sociale, costituisce un fatto colposo configurante illecito
civile continuato ed aggravato dal persistere della volontà punitiva e di atti diretti
all'emarginazione del professionista, la condotta del primario che, nell'esercizio
formale dei poteri di controllo e di vigilanza del reparto, estrometta di fatto l'aiuto
anziano da ogni attività proficua di collaborazione, impedendogli l'esercizio delle
mansioni cui era addetto. Tale condotta altamente lesiva è soggettivamente
imputabile al primario, come soggetto agente, ed esprime l'elemento soggettivo della
colpa in senso lato, essendo intenzionalmente preordinata alla distruzione della
dignità personale e dell'immagine professionale e delle stesse possibilità di lavoro in
ambito professionale, con lesione immediata e diretta dei diritti inviolabili del
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lavoratore professionista tutelati sia dalla Costituzione italiana (articoli 1, 3, comma
2, 4 e 35, comma 1, Cost.) sia dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea
(articoli 1 e 15, comma 1). Così stabilita ed accertata in tutti i suoi elementi,
soggettivi ed oggettivi, la fattispecie da sussumere sotto la norma primaria che regola
il fatto illecito (art. 2043 c.c.), il giudice del rinvio dovrà procedere alla congrua
liquidazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali consequenziali, rispettando il
principio del risarcimento integrale (Cassazione, Sez. Un., n. 26972/2008), evitando
di compiere duplicazioni e considerando, ai fini della liquidazione congrua, la gravità
dell'offesa (rilevante nel caso di specie) e la serietà del pregiudizio. Quanto al ristoro
dei danni patrimoniali dovrà essere considerato il regime professionale vigente
all'epoca dei fatti, e comunque la perdita delle "chances" economiche e di clientela in
relazione alla distruzione dell'immagine nella comunità scientifica e nel mercato
libero delle prestazioni professionali per la perdita di affidabilità scientifica e
curativa.
***
O. La Malattia
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 novembre 2010, n. 23299
La norma di cui all'art. 20, comma 1, del d.l. n. 112 del 2008, conv. in legge n. 133
del 2008 - che esclude l'obbligo di versamento dei contributi da parte del datore, che
abbia corrisposto per legge o per contratto collettivo, anche di diritto comune, il
trattamento economico di malattia, con conseguente esonero dell'Istituto nazionale
della previdenza sociale dall'erogazione della predetta indennità, prevedendo tuttavia
che restano acquisite alla gestione e conservano la loro efficacia le contribuzioni
comunque versate per i periodi anteriori alla data del 1° gennaio 2009 - ha portata
retroattiva quanto all'obbligo datoriale, mentre non si applica alle contribuzioni già
versate, che restano irripetibili, per effetto della seconda parte della norma la quale, in
quanto espressione della discrezionalità di cui gode il legislatore, nella conformazione
dell'obbligazione contributiva, è stata ritenuta costituzionalmente legittima dalla
Corte cost. con la sentenza n. 48 del 2010. (Rigetta, App. Venezia, 24/07/2008).
Cass. civ. Sez. lavoro, 21 giugno 2010, n. 14910
La sospensione dell'obbligo di rendere la prestazione in capo al dipendente richiede,
in caso di malattia, il tempestivo invio della certificazione sanitaria e il rispetto degli
obblighi di collaborazione previsti dal contratto collettivo che regolamenta il rapporto
tra le parti; in caso di grave violazione dei suddetti obblighi, il datore di lavoro è
legittimato al licenziamento.
Cass. civ. Sez. lavoro, 31 maggio 2010, n. 13256
Nell'ipotesi in cui il datore di lavoro si trovi nell'impossibilità di ricevere la
prestazione lavorativa per causa a lui non imputabile (nella specie, per l'adesione ad
uno sciopero da parte della stragrande maggioranza del personale dipendente e la
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conseguente inutilizzabilità del personale residuo non scioperante), il diritto alla
retribuzione non viene meno per quei lavoratori il cui rapporto di lavoro sia già
sospeso per malattia ai sensi dell'art. 2110 cod. civ., atteso che la speciale disciplina
dettata per ragioni di carattere sociale dall'art. 2110 cod. civ. investe in via esclusiva il
rapporto tra datore di lavoro e singolo lavoratore, e su di essa non possono pertanto
incidere le ragioni che, nel medesimo periodo di sospensione del rapporto, rendano
impossibile la prestazione di altri dipendenti in servizio, senza che, peraltro, possa in
tal modo configurarsi una violazione del principio di parità di trattamento, posto che
detto principio non può essere validamente invocato al fine di eliminare un regime
differenziale voluto a tutela di particolari condizioni già ritenute meritevoli di un
trattamento privilegiato. (Rigetta, App. Campobasso, 30/06/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 9 marzo 2010, n. 5718
L'assenza del lavoratore in malattia alla visita domiciliare di controllo, per non essere
sanzionata dalla perdita del trattamento economico di malattia ai sensi dell'art. 5,
comma 14, del D.L. n. 463 del 1983, convertito nella legge n. 638 del 1983, può
essere giustificata oltre che dal caso di forza maggiore, da ogni situazione, che,
sebbene non insuperabile e nemmeno tale da determinare, ove non osservata, la
lesione di beni primari, abbia reso indifferibile altrove la presenza personale
dell'assicurato, come l'esigenza di solidarietà e di vicinanza familiare, consistita, nel
caso concreto, nell'assistenza del lavoratore alla propria madre, ricoverata in un
centro specialistico di riabilitazione e priva di altro sostegno morale, in quanto
divorziata e senza altri familiari. Tale esigenza è, infatti, senza dubbio, meritevole di
tutela nell'ambito dei rapporti etico-sociali garantiti e tutelati dalla Costituzione di
talchè non può essere sanzionato tale lavoratore che ha dato, comunque, prova del
fatto che il suo allontanamento dal domicilio durante le fasce di reperibilità era dipeso
dalla necessità di recarsi nel centro predetto, in coincidenza con l'orario delle visite
dei familiari, non riuscendo poi a rientrare al proprio domicilio nelle fasce di
reperibilità a causa di un blocco del traffico stradale.
***
P. L’appalto
Cass. civ. Sez. V, 17 dicembre 2010, n. 25602
Nelle prestazioni di appalto la società appaltatrice deve emettere fattura al momento
della verifica del lavoro appaltato, in quanto si applica il principio, in tema di imposte
sui redditi, secondo cui, con riferimento ai contratti di appalto, concorrono alla
formazione del reddito d'impresa, in un periodo determinato, esclusivamente i ricavi
per i corrispettivi dei lavori ultimati, ovverosia di quelli in ordine ai quali sia
intervenuta l'accettazione del committente, derivante dalla positiva esecuzione del
collaudo o conseguente all'espressione, per "facta concludentia", di una volontà
incompatibile con la mancata accettazione
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Cass. civ. Sez. lavoro, 19 novembre 2010, n. 23489
L'azione diretta proposta dal dipendente dell'appaltatore contro il committente per
conseguire quanto gli è dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha
verso l'appaltatore al momento della proposizione della domanda, è prevista dall'art.
1676 cod. civ. con riferimento al solo credito maturato dal lavoratore in forza
dell'attività svolta per l'esecuzione dell'opera o la prestazione del servizio oggetto
dell'appalto, e non anche con riferimento ad ulteriori crediti, pur relativi allo stesso
rapporto di lavoro. (Rigetta, App. Roma, 05/04/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 novembre 2010, n. 23490
In tema di appalti di opere e servizi di cui all'art. 3 della legge 23 ottobre 1960, n.
1369, la garanzia ivi prevista, in favore dei dipendenti dell'appaltatore, di poter fruire
- con obbligazione solidalmente gravante sul committente e sull'appaltatore - di un
trattamento minimo inderogabile retributivo e normativo non inferiore a quello
spettante ai dipendenti dell'impresa committente, ricomprende anche la possibilità di
disporre di un servizio di mensa, quale trattamento di carattere normativo ancorché se
ne debba escludere il carattere retributivo in forza dell'espressa indicazione di cui
all'art. 6 del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, nella legge 8
agosto 1992, n. 359. (Rigetta, App. Roma, 07/08/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 marzo 2010, n. 6726
In tema di interposizione vietata nelle prestazioni di lavoro, l'utilizzazione da parte
dell'appaltatore di beni immateriali della produzione (cosiddetto "know how") assume
rilievo quale fattore distinto dalla manodopera solamente ove le conoscenze di
quest'ultima - alla luce della definizione contenuta nel regolamento CE 772/2004, che
all'art. 1, lett. i) definisce il "know how" come un patrimonio di conoscenze e di
pratiche di uso non comune, non brevettate, derivanti da esperienze e prove costituiscano un "quid pluris" rispetto alla mera capacità professionale dei lavoratori
impiegati. (Nella specie, relativa ad un rapporto tra una cooperativa di servizi e una
rete televisiva con prestazioni, da parte dei soci, di operatore di messa in onda, di
ripresa e di regista, la S.C., in applicazione dell'anzidetto principio, ha ritenuto
sussistente la fattispecie di intermediazione vietata, attesa l'assenza di competenze e
conoscenze in capo ai lavoratori superiori a quelle proprie dell'attività svolta).
(Rigetta, App. Torino, 30/05/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 17 febbraio 2010, n. 3681
Il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro (art. 1 legge
23 ottobre 1960, n. 1369), in riferimento agli appalti "endoaziendali", caratterizzati
dall'affidamento ad un appaltatore esterno di tutte le attività, ancorché strettamente
attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, opera tutte le volte in cui
l'appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa,
rimanendo in capo all'appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione
amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie,
assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una
reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo
autonomo. Tale divieto si applica anche agli appalti concessi dalle Ferrovie dello
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Stato successivamente all'entrata in vigore della legge 17 maggio 1985, n. 210, senza
incontrare limiti nella disciplina dettata dall'art. 2, primo comma, lett. i) (speciale e
posteriore rispetto all'art. 1 della legge n. 1369 del 1960), la quale, pur conferendo
ampio rilievo alle finalità di economicità ed efficienza dell'organizzazione delle
Ferrovie ed alle conseguenti esigenze di elasticità e flessibilità nella dislocazione dei
servizi e del personale, non ha, tuttavia, inteso consentire all'Ente Ferrovie dello Stato
più di quanto non fosse consentito all'imprenditore privato in tema di appalti di mano
d'opera. (Rigetta, App. Firenze, 12/10/2006).
***
Q. Cessione d’azienda e diritti del lavoratore
Cass. civ. Sez. lavoro, 15 ottobre 2010, n. 21278
L'art. 2112, cod. civ., nel testo modificato dall'art. 47, legge 29 dicembre 1990, n.
428, che ha recepito la direttiva comunitaria 77/187/CE (successivamente modificato
dall'art. 1, d.lgs.2 febbraio 2001, n. 18, in applicazione del canone dell'interpretazione
adeguatrice della norma di diritto nazionale alla norma di diritto comunitario ed in
considerazione dell'orientamento espresso dalla Corte di Giustizia delle Comunità
europee con le sentenze 20 novembre 2003, C- 340-01, 25 gennaio 2001, C-172/99,
26 settembre 2000, C-175/99 e 14 settembre 2000, C-343/98, deve ritenersi
applicabile anche nei casi in cui il trasferimento dell'azienda non derivi dall'esistenza
di un contratto tra cedente e cessionario ma sia riconducibile ad un atto autoritativo
della P.A., con conseguente diritto dei dipendenti dell'impresa cedente alla
continuazione del rapporto di lavoro subordinato con l'impresa subentrante, purché si
accerti l'esistenza di una cessione di elementi materiali significativi tra le due imprese
(Nella specie, la S.C. ha rigettato il ricorso avverso la sentenza di merito che aveva
ritenuto applicabile l'art. 2112 cod. civ. ai dipendenti di una società concessionaria di
trasporto i quali, fallita la società datrice di lavoro, avevano costituito una cooperativa
avente ad oggetto lo svolgimento del medesimo servizio ed erano poi passati
sostanzialmente senza soluzione di continuità, dopo essere stati messi in mobilità
dalle cooperative alle dipendenze di una nuova società, continuando a svolgere le
stesse mansioni, tanto da maturare il diritto, loro riconosciuto dalla Corte territoriale,
all'inquadramento nel 5° livello del CCNL a seguito del compimento di "sedici anni
di guida effettiva"). (Rigetta, App. Venezia, 19/05/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 2 settembre 2010, n. 19000
In caso di fusione per incorporazione di una società in un'altra ai sensi dell'art. 2501 e
2504 bis cod. civ., sussiste il diritto alla reintegrazione del lavoratore illegittimamente
licenziato, già dipendente della società incorporata, nella società incorporante quando
per effetto dell'incorporazione l'intera impresa o una ramo di essa venga trasferita ad
altro soggetto (cessionario) conservando la propria identità in conformità alle
condizioni previste dalla normativa comunitaria (direttiva n. 77/187/CE e successive
modifiche e integrazioni) determinandosi in tale ipotesi il trasferimento di azienda ai
sensi dell'art. 2112 cod. civ.. (Cassa con rinvio, App. L'Aquila, 30/01/2008)
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Cass. civ. Sez. lavoro, 12 aprile 2010, n. 8641
In tema di trasferimento d'azienda, l'effetto estintivo del licenziamento illegittimo
intimato in epoca anteriore al trasferimento medesimo, in quanto meramente precario
e destinato ad essere travolto dalla sentenza di annullamento, comporta che il
rapporto di lavoro ripristinato tra le parti originarie si trasferisce, ai sensi dell'art.
2112 cod. civ., in capo al cessionario, dovendosi escludere che osti a tale soluzione
l'applicazione della direttiva 77/187/CE, la quale prevede - secondo l'interpretazione
offerta dalla Corte di giustizia CE (cfr. sentenze 12 marzo 1998, C-319/94, 11 luglio
1985, C-105/84, e 7 febbraio 1985, C-19/83) - che i lavoratori licenziati in contrasto
con la direttiva debbono essere considerati dipendenti alla data del trasferimento,
senza pregiudizio per la facoltà degli Stati membri di applicare o di introdurre
disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli ai lavoratori.
(Nella specie, la S.C., in applicazione del principio di cui alla massima, ha ritenuto
che, a seguito dell'annullamento del licenziamento, sussisteva la legittimazione
passiva anche del cessionario per le richieste del lavoratore relative al ripristino del
rapporto di lavoro, escludendo la necessità di una pronuncia pregiudiziale della Corte
di Giustizia). (Cassa con rinvio, App. Messina, 29/07/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 12 aprile 2010, n. 8641
Il subentro del cessionario nei rapporti di lavoro dei dipendenti dell'azienda ceduta,
come disciplinato dall'art. 2112 c.c., deve essere escluso solo nel caso in cui detti
rapporti si siano risolti legittimamente e, quindi, definitivamente, in epoca anteriore al
trasferimento stesso, diversamente, infatti, il rapporto di lavoro, apparentemente
interrotto, prosegue "ope legis" con il cessionario e, quindi, il lavoratore conserva
tutti i diritti derivanti dal rapporto medesimo nei confronti del "nuovo" datore di
lavoro. In particolare, ribadito che i rapporti di lavoro, quali rapporti giuridici, non si
esuriscono in via di mero fatto ma occorre, al fine di ritenerli davvero estinti, che si
realizzino precisi accadimenti giuridicamente rilevanti, l'effetto estintivo del
licenziamento annullabile è, in tale quadro, totalmente precario, in quanto
potenzialmente soggetto a pronuncia di annullamento, con la conseguenza che, in
caso di cessione di azienda, il rapporto si ripristina non tra le parti originarie ma tra il
lavoratore ed il cessionario. Nelle controversie inerenti la legittimità del
licenziamento impartito al lavoratore dell'azienda ceduta sussiste, quindi, in base ai
principi appena enunciati, la legittimazione passiva dell'azienda cessionaria (ovvero
dell'azienda subentrata dopo che il licenziamento medesimo è stato inflitto).
Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2010, n. 8262
Costituisce trasferimento d'azienda ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., anche in base al
testo precedente le modificazioni introdotte dall'art. 1 del d.lgs. n. 18 del 2001,
qualsiasi operazione che comporti il mutamento della titolarità di un'attività
economica qualora l'entità oggetto del trasferimento conservi, successivamente allo
stesso, la propria identità, da accertarsi in base al complesso delle circostanze di fatto
che caratterizzano la specifica operazione (tra cui, il tipo d'impresa, la cessione o
meno di elementi materiali, la riassunzione o meno del personale, il trasferimento
della clientela, il grado di analogia tra le attività esercitate). Né osta, alla
configurabilità del trasferimento, la mancanza di un fine di lucro, purché sussista
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un'organizzazione di mezzi produttivi idonei a fornire un prodotto o un servizio
obiettivamente caratterizzati ed economicamente valutabili quanto meno sotto il
profilo dei mezzi di produzione e delle prestazioni lavorative necessari per il loro
conseguimento, dovendosi ritenere irrilevante, alla luce della giurisprudenza
comunitaria (cfr. Corte di giustizia CE, sentenza 26 settembre 2000, C-175/99,
Mayeur e con riferimento a vicende diverse dal trasferimento d'impresa, sentenza 16
ottobre 2003, Commissione c. Italia, C-32/02) che, ai fini dell'applicabilità della
direttiva CE 77/187, l'attività sia esercitata non a fini di lucro e nell'interesse
pubblico. (Cassa con rinvio, App. Roma, 03/10/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 29 marzo 2010, n. 7517
Nel caso di trasferimento di azienda la regola di cui all'art. 2558 cod. civ.
dell'automatico subentro del cessionario in tutti i rapporti contrattuali a prestazioni
corrispettive non aventi carattere personale si applica soltanto ai cosiddetti "contratti
di azienda" (aventi ad oggetto il godimento di beni aziendali non appartenenti
all'imprenditore e da lui acquisiti per lo svolgimento della attività imprenditoriale) e
ai cosiddetti "contratti di impresa" (non aventi ad oggetto diretto beni aziendali, ma
attinenti alla organizzazione dell'impresa stessa, come i contratti di somministrazione
con i fornitori, i contratti di assicurazione, i contratti di appalto e simili), sempreché
non siano soggetti a specifica diversa disciplina, come i contratti di lavoro, di
consorzio e di edizione, rispettivamente regolati dagli artt. 2112 cod. civ., 2610 cod.
civ. e 132 della legge 22 aprile 1941, n. 633. (Rigetta, App. Roma, 06/06/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 11 marzo 2010, n. 5882
L'incorporazione di una società in un'altra è assimilabile al trasferimento d'azienda di
cui all'art. 2112 cod. civ., con la conseguente applicazione del principio statuito dalla
citata norma secondo il quale ai lavoratori che passano alle dipendenze dell'impresa
incorporante si applica il contratto collettivo che regolava il rapporto di lavoro presso
l'azienda cedente solamente nel caso in cui l'impresa cessionaria non applichi alcun
contratto collettivo, mentre, in caso contrario, la contrattazione collettiva dell'impresa
cedente è sostituita immediatamente ed in tutto da quella applicata nell'impresa
cessionaria anche se più sfavorevole. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione
della corte territoriale che aveva ritenuto applicabile ai dipendenti della società
incorporata il premio di rendimento previsto dal contratto integrativo aziendale della
società bancaria incorporante, benché inferiore rispetto a quello previsto dal contratto
integrativo aziendale della banca incorporata). (Cassa con rinvio, App. Catania,
05/08/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 11 marzo 2010, n. 5882
L'uso aziendale, quale fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo del datore
di lavoro, agisce sul piano dei rapporti individuali con la stessa efficacia di un
contratto collettivo aziendale, sostituendo alle clausole contrattuali e a quelle
collettive in vigore quelle più favorevoli dell'uso aziendale, a norma dell'art. 2077,
secondo comma, cod. civ. Ne consegue che il diritto riconosciuto dall'uso aziendale
non sopravvive al mutamento della contrattazione collettiva conseguente al
trasferimento di azienda, posto che operando come una contrattazione integrativa
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aziendale subisce la stessa sorte dei contratti collettivi applicati dal precedente datore
di lavoro e non è più applicabile presso la società cessionaria dotata di propria
contrattazione integrativa. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte
territoriale che aveva riconosciuto ai dipendenti di una banca incorporata in altro
istituto di credito il diritto al superminimo, erogato dalla società incorporata da lungo
tempo, ritenendo erroneamente che tale condotta avesse determinato l'esistenza di un
uso aziendale e l'inserimento del diritto nel contratto individuale di lavoro). (Cassa
con rinvio, App. Catania, 05/08/2006)
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R. Il potere disciplinare del datore di lavoro
- Contestazione e vincoli procedurali
Cass. civ. Sez. lavoro, 13 dicembre 2010, n. 25136
Lo svolgimento di un'attività lavorativa altamente qualificata può far alterare anche il
concetto di immediatezza della contestazione nel licenziamento disciplinare. Infatti,
qualora si renda necessario una verifica specifica ed approfondita delle prestazioni
svolte da un dato dipendente, aumenta anche il tempo a disposizione dell'azienda per
procedere alla formulazione della contestazione.
Cons. Stato Sez. IV, 27 novembre 2010, n. 8289
In termini generali (che valgono per l'impiego privato e per quello pubblico)
l'esistenza di uno stato di incapacità naturale del lavoratore, tale da impedirgli di
rendere le giustificazioni nel termine previsto dalla legge per rispondere agli addebiti
contestati, comporta la necessaria posticipazione del termine di scadenza, risultando
altresì violata, nel caso di irrogazione del provvedimento disciplinare prima di tale
momento, la garanzia procedimentale dell'audizione. Tale principio non può essere
inteso in modo da disconoscere che è onere del dipendente che contesti la legittimità
della sanzione, per non aver potuto esercitare il proprio diritto di difesa a causa di una
minorata capacità di intendere e di volere in detto intervallo, dimostrare di essersi
trovato, nella pendenza del termine, in stato di incapacità naturale. Il comportamento
del datore di lavoro che, in assenza di prova di un effettivo impedimento del
lavoratore, non abbia acconsentito alla richiesta di una proroga del termine per
l'audizione, non concreta una violazione dei principi di correttezza e buona fede, alla
stregua dei quali deve essere valutato l'esercizio del potere disciplinare del datore di
lavoro (Riforma della sentenza del T.a.r. Campania - Napoli, sez. IV, n. 502/2004).
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 novembre 2010, n. 23924
In tema di licenziamento disciplinare, la preventiva contestazione dell'addebito al
lavoratore incolpato deve riguardare, a pena di nullità del licenziamento stesso, anche
la recidiva (o comunque i precedenti disciplinari che la integrano), ove questa
58
rappresenti elemento costitutivo della mancanza addebitata. (Rigetta, App. Torino,
09/01/2007).
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 novembre 2010, n. 23304
L'art. 7 della legge n. 300 del 1970 non prevede, nell'ambito del procedimento
disciplinare, l'obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore,
nei cui confronti sia stata elevata una contestazione di addebiti di natura disciplinare,
la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, restando salva la possibilità
per il lavoratore medesimo di ottenere, nel corso del giudizio ordinario di
impugnazione del licenziamento irrogato all'esito del procedimento suddetto, l'ordine
di esibizione della documentazione stessa. Il datore di lavoro è tenuto, tuttavia, ad
offrire in consultazione all'incolpato i documenti aziendali solo in quanto e nei limiti
in cui l'esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell'addebito
idonea a permettere alla controparte un'adeguata difesa; ne consegue che, in tale
ultima ipotesi, il lavoratore che lamenti la violazione di tale obbligo ha l'onere di
specificare i documenti la cui messa a disposizione sarebbe stata necessaria al
predetto fine. (Rigetta, App. Salerno, 24/07/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 17 novembre 2010, n. 23223
In tema di procedimento disciplinare, il riferimento a fatti oggetto di un procedimento
penale è sufficiente ad integrare una valida contestazione dell'addebito disciplinare,
dovendosi ritenere che, con tale richiamo, sia rispettato il diritto di difesa
dell'incolpato, il quale è posto in grado di svolgere, anche in sede disciplinare, le più
opportune difese. (Rigetta, App. Roma, 26/03/2008).
Cass. civ. Sez. lavoro, 11 novembre 2010, n. 22900
Il datore di lavoro, al fine di rispettare il principio di immediatezza della
contestazione disciplinare, posto a garanzia del diritto di difesa del dipendente, deve
procedere alla suddetta contestazione in un tempo congruo rispetto al momento in cui
i fatti addebitati si sono verificati anche nell'ipotesi in cui il medesimo dipendente sia
sottoposto ad un procedimento penale. In tale situazione, infatti, il datore di lavoro,
dopo aver contestato gli addebiti, potrà eventualmente sospendere il procedimento
disciplinare, riservandosi di irrogare la relativa sanzione all'esito del giudizio, tenuto
conto che, in presenza di un'indagine penale, il carattere immediato dell'irrogazione
della sanzione disciplinare deve essere inteso in senso elastico.
Cass. civ., Sez. lav., 08 marzo 2010, n. 5546.
Nel licenziamento per giusta causa, il principio dell’immediatezza della contestazione
dell’addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere
compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l’accertamento e la
valutazione dei fatti sia molto laborioso e richieda uno spazio temporale maggiore, e
non potendo, nel caso in cui il licenziamento sia motivato dall’abuso di uno
strumento di lavoro, ritorcersi a danno del datore di lavoro l’affidamento riposto nella
correttezza del dipendente, o equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità
di conoscenza dell’illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell’azienda a prescindere
59
dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente; in ogni caso, la
valutazione della tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, non
sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato (nella specie, la suprema corte
ha confermato la sentenza impugnata, che, in riferimento al licenziamento di un
dipendente di un’azienda telefonica determinato dall’uso scorretto del telefono
cellulare di servizio, consistito nell’invio di decine di migliaia di «sms», aveva
escluso l’intempestività della contestazione, intervenuta a pochi mesi di distanza
dall’inizio delle necessarie verifiche, le quali avevano richiesto l’esame di complessi
tabulati e prospetti, al fine di distinguere il traffico telefonico di servizio da quello
illecito).
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 ottobre 2010, n. 21899
L'art. 7 della legge n. 300 del 1970 sancisce a carico del datore di lavoro l'obbligo,
prima di emettere qualsiasi provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore, di
contestargli l'addebito e di sentirlo a difesa. Una corretta interpretazione di siffatta
norma, invero, porta ad affermare che la disposizione dell'audizione de qua si renda
obbligatoria per il datore di lavoro, pena l'illegittimità del provvedimento comminato,
solo ove il lavoratore ne abbia formulato espressa istanza. Incombe, pertanto, sul
dipendente che, sottoposto a procedimento disciplinare, avverta l'esigenza di essere
ascoltato in merito dal datore di lavoro, di formulare apposita richiesta in tal senso (il
cui mancato riscontro, quindi, inficia la legittimità del provvedimento comunque
irrogato). A tutela dell'affidamento del datore di lavoro circa la legittimità del
provvedimento sanzionatorio comminato senza la preventiva audizione del lavoratore
(specialmente nell'ipotesi di licenziamento), risulta necessario, peraltro, che la
richiesta da questi formulata sia esplicita ed univoca, laddove insufficiente e quindi,
irrilevante, deve essere considerata l'istanza che si caratterizzi come generica o,
peggio, come ipotetica ed eventuale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 ottobre 2010, n. 21912
L'operatività del principio d'immutabilità della contestazione dell'addebito al
lavoratore licenziato non preclude le modificazioni dei fatti contestati che non si
configurino come elementi integrativi di una fattispecie di illecito disciplinare diversa
e più grave di quella contestata ma che, riguardando circostanze prive di valore
identificativo della stessa fattispecie, non precludano la difesa del lavoratore sulla
base delle conoscenze acquisite e degli elementi a discolpa apprestati a seguito della
contestazione dell'addebito. (Nella specie, la S.C., rigettando il ricorso del lavoratore
licenziato, ha ritenuto corrette le valutazioni della Corte territoriale in relazione
all'avvenuta osservanza del principio di immutabilità da parte del datore di lavoro che
aveva contestato al ricorrente "atteggiamenti di insofferenza e di sfida nei confronti
dei superiori e dei colleghi" oltre che "lentezza e negligenza" nel lavoro adempiuto
"al di sotto di ogni standard quantitativo accettabile"). (Rigetta, App. Bologna,
10/11/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 1 luglio 2010, n. 15649
In tema di licenziamento per giusta causa, l'immediatezza della comunicazione del
provvedimento espulsivo rispetto al momento della mancanza addotta a sua
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giustificazione, ovvero rispetto a quello della contestazione, si configura quale
elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non
immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce
ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento
ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del
lavoratore; peraltro, il requisito della immediatezza deve essere inteso in senso
relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo, più o
meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio
temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa
dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque
riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto
giustifichi o meno il ritardo. (Nella specie, relativa ad una asserita falsificazione della
sottoscrizione di una ricevuta di lettera raccomandata, la S.C. ha confermato la
sentenza che aveva dichiarato l'illegittimità della sanzione disciplinare irrogata dopo
due anni dalla conoscenza dei fatti, ritenendo irrilevante il rinvio a giudizio del
lavoratore per i medesimi fatti). (Rigetta, App. Bari, 17/07/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 marzo 2010, n. 7410
In tema di licenziamento disciplinare, ove sussista un rilevante intervallo temporale
tra i fatti contestati e l'esercizio del potere disciplinare, la tempestività di tale
esercizio deve essere valutata in relazione al tempo necessario per acquisire
conoscenza della riferibilità del fatto, nelle sue linee essenziali, al lavoratore
medesimo, la cui prova è a carico del datore di lavoro, senza che possa assumere
autonomo ed autosufficiente rilievo la denunzia dei fatti in sede penale o la pendenza
stessa del procedimento penale, considerata l'autonomia tra i due procedimenti,
l'inapplicabilità, al procedimento disciplinare, del principio di non colpevolezza,
stabilito dall'art. 27 Cost. soltanto in relazione al potere punitivo pubblico, e la
circostanza che l'eventuale accertamento dell'irrilevanza penale del fatto non
determina di per sé l'assenza di analogo disvalore in sede disciplinare. (Nella specie,
la S.C. ha confermato la decisione di merito che, con riferimento ad un dipendente
postale, aveva ritenuto violato il principio della immediatezza della contestazione,
avvenuta a distanza di diversi anni dai fatti, ritenendo che il tempo trascorso fosse
oggettivamente eccessivo e tale da ledere il diritto di difesa del dipendente, ed
evidenziando che il datore di lavoro aveva comunque avuto adeguata cognizione dei
fatti fin dagli accertamenti ispettivi). (Rigetta, App. Potenza, 12/10/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 17 marzo 2010, n. 6437
Il licenziamento motivato da una condotta colposa o comunque manchevole del
lavoratore, indipendentemente anche dalla sua inclusione o meno tra le misure
disciplinari della specifica disciplina del rapporto, deve essere considerato di natura
disciplinare e, quindi, deve essere assoggettato alle garanzie dettate in favore del
lavoratore dal secondo e terzo comma dell'art. 7 della L. n. 300/1970 circa la
contestazione dell'addebito ed il diritto di difesa.
61
Cass. civ. Sez. lavoro, 12 marzo 2010, n. 6091
Il principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a
fondamento della sanzione disciplinare, il quale vieta di infliggere un licenziamento
sulla base di fatti diversi da quelli contestati, non può ritenersi violato qualora,
contestati atti idonei ad integrare un'astratta previsione legale, il datore di lavoro
alleghi, nel corso del procedimento disciplinare, circostanze confermative o ulteriori
prove, in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre. (In
applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che, in
riferimento al licenziamento di un impiegato pubblico per aver svolto
continuativamente attività libero-professionale senza autorizzazione, aveva escluso
l'intervenuto mutamento dell'incolpazione di parte del datore di lavoro, che dopo aver
contestato l'illecito disciplinare attraverso il generico richiamo del divieto normativo,
aveva allegato, nel corso del procedimento, la partecipazione del lavoratore ad una
società professionale, lo svolgimento di attività di coordinamento e progettazione di
lavori e la denuncia di redditi di lavoro autonomo per un triennio). (Rigetta, App.
Firenze, 12/04/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 11 marzo 2010, n. 5864
In tema di procedimento disciplinare a carico del lavoratore, le garanzie apprestare
dall'art. 7 della legge n. 300 del 1970 per consentire all'incolpato di esporre le proprie
difese in relazione al comportamento addebitatogli non comportano per il datore di
lavoro un dovere autonomo di convocazione del dipendente per l'audizione orale, ma
solo un obbligo correlato alla richiesta del lavoratore di essere sentito di persona,
sicchè le discolpe fornite dall'incolpato per iscritto consumano il suo diritto di difesa
solo quando dalla dichiarazione scritta emerga la rinuncia ad essere sentito o quando
la richiesta appaia, sulla base delle circostanze del caso, ambigua o priva di univocità:
al di fuori di tali ipotesi, un sindacato del datore di lavoro in ordine all'effettiva
idoneità difensiva della richiesta di audizione orale non può ritenersi consentito
neppure alla stregua dell'obbligo delle parti di conformare la propria condotta a buona
fede e lealtà contrattuale, il quale può assumere rilievo ai fini della valutazione in
ordine all'ambiguità della richiesta, ma non consente di dare ingresso ad una
valutazione di compatibilità della facoltà di audizione esercitata dal lavoratore
incolpato alla luce delle difese già svolte e della sua idoneità ad utilmente integrare
queste ultime. (Rigetta, App. Roma, 11/07/2008).
***
-
Proporzionalità della sanzione
Cass. civ. Sez. lavoro, 13 dicembre 2010, n. 25144
Giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono
nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare,
articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia
delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo
generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la
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valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che
la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro
normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in
sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta
ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro
normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta
causa di licenziamento, ovvero a far sussistere la proporzionalità tra infrazione e
sanzione, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di
merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Pertanto,
l'operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell'applicare le clausole
generali come quella di cui all'art. 2119 o all'art. 2106 cod. civ., che dettano tipiche
"norme elastiche", non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il
profilo della correttezza del metodo seguito nell'applicazione della clausola generale,
poiché l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi
desumibili dall'ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla
disciplina particolare (anche collettiva) in cui la fattispecie si colloca. (Rigetta, App.
Lecce, 18/06/2007).
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 luglio 2010, n. 17514
In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto
addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua
gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che
la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali,
dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in
grado di esercitare il comportamento del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione
ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento
ai canoni di buona fede e correttezza. Spetta al giudice di merito valutare la congruità
della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto
addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che,
alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua
gravità rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro. (Nella specie la S.C.
ha ritenuto adeguatamente motivata la sentenza della Corte territoriale che aveva
respinto il ricorso di un dipendente licenziato da un istituto di credito il quale aveva
consentito ad un cliente, benché in assenza di fondi, l'apertura di un conto corrente al
fine di realizzare operazioni speculative di "trading" con conseguente elevato rischio
per il capitale dell'istituto medesimo). (Rigetta, App. Napoli, 06/06/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 29 marzo 2010, n. 7518
Il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione del licenziamento
individuale per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo si sostanzia nella
valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al
concreto rapporto ed a tutte le circostanze del caso. In tal senso, l’inadempimento del
lavoratore, qualora provato dal datore di lavoro, ex art. 5 legge n. 604 del 1966, deve
essere valutato avuto riguardo al criterio della non scarsa importanza di cui all’art.
1455 c.c., con la conseguenza che la irrogazione della massima sanzione disciplinare
risulta giustificata nella sola ipotesi in cui sia notevole l’inadempimento del prestatore
alle obbligazioni contrattuali, ovvero addirittura tale da non consentire la
63
prosecuzione, neppure temporanea del rapporto. Ciò rilevato, l’esito favorevole di un
giudizio avente ad oggetto l’impugnazione di un licenziamento disciplinare che si
assume ingiustificato, è determinato dalla esclusione dell’inadempimento imputato al
lavoratore, ovvero da un inadempimento tale da non giustificare, per la usa gravità, la
sanzione disciplinare. (Nella fattispecie la condotta del lavoratore concretantesi
nell’impedire ai colleghi di fare ingresso in azienda in occasione di agitazioni
aziendali non è stato ritenuto tale da giustificare la irrogazione del licenziamento).
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 marzo 2010, n. 6848
In tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il
giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all'illecito commesso rimesso al giudice di merito - si sostanzia nella valutazione della gravità
dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto, e
l'inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola
generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 cod. civ., sicché
l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in
presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura
tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto. (Nella
specie, la S.C. ha confermato la decisione della Corte territoriale che aveva ritenuto
ingiustificato il licenziamento disciplinare irrogato ad un lavoratore per aver usato
un'auto aziendale a fini privati - coinvolta in un incidente stradale in cui decedeva il
guidatore, e lo stesso lavoratore licenziato riportava gravi lesioni - in considerazione
del fatto che l'autovettura aziendale era stata prelevata da altro lavoratore, delle
condizioni di lavoro particolarmente disagiate in cui si era trovato ad operare e
dell'assenza di precedenti violazioni). (Rigetta, App. Torino, 12/12/2005
***
S. I licenziamenti individuali
- Varie
Cass. civ. Sez. VI, 14 dicembre 2010, n. 25246
I provvedimenti d'urgenza emessi ai sensi dell'art. 700 cod. proc. civ. hanno di norma
il carattere dell'atipicità, dovendo essere adottati, secondo le circostanze, allo scopo di
assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione di merito, ma non devono per
ciò solo anticipare il prevedibile contenuto della medesima; ne consegue che il
provvedimento d'urgenza con cui si ordina la reintegrazione nel posto di lavoro di un
lavoratore il cui licenziamento appaia illegittimo non ha necessariamente contenuto
ed efficacia analoghi a quelli di un ordine di reintegrazione emesso, ai sensi dell'art.
18 della legge n. 300 del 1970, con la sentenza di merito, non ricomprendendo il
provvedimento cautelare l'accertamento dell'obbligo datoriale del pagamento della
retribuzione maturata nel periodo dalla data del licenziamento a quella della
reintegrazione, ed essendo conseguentemente inidoneo a fondare la domanda di tali
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retribuzioni richieste dal lavoratore in sede monitoria. (Rigetta, App. Potenza,
25/09/2009).
Cass. civ. Sez. VI, 14 dicembre 2010, n. 25249
Ai fini della operatività della tutela reale contro i licenziamenti individuali illegittimi,
il computo dei dipendenti va accertato sulla base del criterio della normale
occupazione, da riferirsi al periodo di tempo antecedente al licenziamento e non
anche a quello successivo; nel caso in cui poi la variabilità del livello occupazionale
sia strutturalmente connessa al carattere dell'attività produttiva, come nella specie
quella stagionale, che richiede normalmente il ricorso al contratto a termine o al parttime verticale, il riferimento al criterio medio-statistico della normale occupazione
trova conferma nella specifica disciplina del part-time e, per l'individuazione dell'arco
di tempo in cui calcolare tale media, il periodo temporale utilizzabile più appropriato
è quello riferito all'anno. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la
sentenza impugnata, che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato ad un
lavoratore da una società che gestiva un'impresa stagionale, ma rigettato la domanda
di reintegrazione nel posto di lavoro, essendo stato accertato che nell'anno
antecedente il licenziamento la media annuale dei lavoratori occupati era stata di non
oltre quindici dipendenti). (Rigetta, App. Brescia, 23/10/2009).
Cass. civ. Sez. lavoro, 1 dicembre 2010, n. 24350
La disposizione dell'art. 18, quinto comma, legge n. 300 del 1970, stabilita per le
sentenze che dispongono la reintegrazione, deve intendersi analogicamente estesa
anche ai provvedimenti cautelari di eguale contenuto, non rilevando in senso
contrario, la circostanza che ad essi non sia seguito il giudizio di merito; ne consegue
che, nell'ipotesi in cui il lavoratore, licenziato e successivamente reintegrato con
provvedimento d'urgenza, non riprenda il lavoro nel termine di trenta giorni dal
ricevimento dell'invito in tal senso rivoltogli dal datore di lavoro (ovvero nel diverso
termine indicato nel suddetto provvedimento), il rapporto deve ritenersi risolto, con
preclusione dell'esercizio di opzione per l'indennità sostitutiva. (Nella specie, la
lavoratrice - che all'esito del provvedimento cautelare di reintegra non aveva ripreso
servizio, rendendosi così destinataria di una sanzione disciplinare per l'ingiustificata
assenza - aveva esercitato la detta opzione all'esito della sentenza di merito che aveva
poi riconosciuto le sue ragioni; la S.C., nell'affermare il principio su esteso, ha
confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto tempestiva l'opzione esercitata
dalla lavoratrice comunque nel termine di 30 giorni dall'invito a riprendere l'attività
lavorativa rivoltale dopo il rigetto del reclamo in sede cautelare, e quando la causa era
stata già decisa nel merito, sicchè il titolo per l'esercizio del diritto di opzione era
costituito non più dall'ordinanza cautelare ma dal dispositivo della sentenza e il
licenziamento era intervenuto nel corso dello "spatium deliberandi" riconosciuto alla
lavoratrice per decidere se dare corso alla reintegra ovvero optare per l'indennità
sostitutiva). (Rigetta, App. Firenze, 17/02/2007).
Cass. civ. Sez. lavoro, 1 dicembre 2010, n. 24361
Rende legittimo il licenziamento per scarso rendimento l'atteggiamento negligente del
lavoratore, protratto nel tempo e non modificato a seguito dei richiami dei superiori, il
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quale violi in modo incontestato la clausola di rendimento relativa all'attività
lavorativa espletata, nonostante la qualità di rendimento e la capacità professionale
dimostrate in precedenza.
Cass. civ. Sez. lavoro, 1 dicembre 2010, n. 24361
È legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia
risultata provata una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal
dipendente - ed a lui imputabile - in conseguenza dell'enorme sproporzione fra gli
obbiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto
effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei
risultanti dati globali riferiti ad una media di attività tra i vari dipendenti ed
indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 30 novembre 2010, n. 24242
La sentenza che, dichiarando l'illegittimità del licenziamento, condanni il datore di
lavoro a corrispondere al lavoratore le mensilità di retribuzione, secondo i criteri di
cui all'art. 2121 cod. civ., per il periodo compreso fra la data del licenziamento stesso
e quella dell'effettiva reintegra, va parificata, quando non sia indicativa di un importo
determinato o determinabile in base a semplice calcolo aritmetico, ad una pronuncia
di condanna generica, con conseguente eventuale necessità di un ulteriore giudizio
per la liquidazione del "quantum", quando insorga successivamente controversia in
ordine alla individuazione della retribuzione globale di fatto assunta dal quarto
comma dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970 quale parametro del risarcimento.
(Rigetta, App. Catania, 08/06/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 novembre 2010, n. 22443
Alla stregua di una interpretazione letterale e logico-sistematica dell'art. 2118 cod.
civ., nel contratto di lavoro a tempo indeterminato il preavviso non ha efficacia reale che comporta, in mancanza di accordo tra le parti circa la cessazione immediata del
rapporto, il diritto alla prosecuzione del rapporto stesso e di tutte le connesse
obbligazioni fino alla scadenza del termine - ma efficacia obbligatoria. Ne consegue
che, nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto
immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l'unico obbligo della
parte recedente di corrispondere l'indennità sostitutiva e senza che da tale momento
possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti, a meno che la parte
recedente, nell'esercizio di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse,
alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l'efficacia sino al termine del
periodo di preavviso. (Nella specie la S.C., rilevato che il datore di lavoro aveva
licenziato il lavoratore per giustificato motivo, individuandolo nell'abolizione della
qualifica rivestita dal lavoratore, per poi convertirlo, due mesi dopo, in licenziamento
per giusta causa, asserendo l'esistenza di gravi inadempimenti, ha dichiarato il
secondo licenziamento privo di efficacia, in quanto intervenuto nell'ambito di un
rapporto già estinto). (Rigetta, App. Venezia, 12/01/2006).
66
Cass. civ. Sez. lavoro, 15 luglio 2010, n. 16579
In tema di licenziamento, trova applicazione la legge italiana allorquando, dalle
risultanze probatorie, emerga chiaramente, come accaduto nel caso concreto, che il
contratto di lavoro è stato concluso in Italia, benché la sede di lavoro fosse situata in
un Paese estero presso una filiale della società - datrice di lavoro che aveva ottenuto,
in base alla normativa interna italiana, l'autorizzazione per l'assunzione all'estero del
lavoratore. Tali circostanze, infatti, insieme al fatto che entrambe le parti contrattuali
fossero italiane (nella specie il prestatore di lavoro aveva nazionalità italiana, con
normale residenza in Italia così come la società, datrice di lavoro, aveva sede in Italia,
sì da essere disciplinata dal diritto italiano) e che la lettera di licenziamento fosse stata
sottoscrittta dalla società-datrice di lavoro italiana, senza che in essa si facesse
riferimento alla predetta filiale estera o che fosse specificato che si agiva in qualità di
mandataria di quest'ultima, confermano la correttezza dell'applicazione della legge
italiana alla fattispecie in oggetto, con il conseguente rigetto del motivo di gravame
sollevato al riguardo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 13 luglio 2010, n. 16421
In tema di licenziamento, conformemente al disposto di cui all'art. 2, legge n. 604 del
1966 (come modificato dall'art. 2, legge n. 108 del 1990), il lavoratore ha la
possibilità di richiedere al datore di lavoro di specificare le ragioni poste a
fondamento del proprio licenziamento, qualora le stesse non siano state
espressamente indicate nel relativo atto di intimazione. Tale richiesta non può, però,
considerarsi implicita nell'atto con cui il lavoratore impugna il licenziamento, atteso
che la ratio dell'impugnazione è quella di contestare in ogni caso il licenziamento, a
prescindere dalla mancata motivazione e non può, conseguentemente, ritenersi idonea
a determinare, pur contenendo la richiesta dei motivi, l'onere in capo al datore di
lavoro di precisarli. Ne deriva che, come accaduto nel caso di specie, laddove il
lavoratore impugni il licenziamento, senza effettuare una separata e preventiva
richiesta dei motivi posti alla base dello stesso, il datore di lavoro non è tenuto a
specificarli, potendolo fare direttamente in sede giudiziale, senza che ciò comporti né
integrazione né modificazione di quanto già espresso nell'atto di intimazione del
licenziamento.
Cass. civ. Sez. lavoro, 11 giugno 2010, n. 14083
In materia di procedimento disciplinare, qualora una norma di legge affidi ad un
organo collegiale l'inflizione di una sanzione disciplinare ed imponga il segreto del
voto, la violazione di quest'obbligo produce l'invalidità della deliberazione e non la
semplice sua irregolarità, in quanto la legittimità sostanziale della sanzione è
connessa anche alla tutela dell'interesse del lavoratore incolpato al corretto
svolgimento del procedimento disciplinare e, in particolare, alla neutralità dei
giudicanti, liberi da pressioni esterne o da semplici condizionamenti psicologici.
(Nella specie, relativa a procedimento disciplinare nei confronti di dipendente di una
I.P.A.B., nel regime precedente il riordino di cui al d.lgs. n. 207 del 2001, la S.C. ha
ritenuto applicabile il principio, di carattere imperativo, di cui all'art. 48 del r.d. 5
febbraio 1891 n. 99 secondo il quale le votazioni hanno sempre luogo a voti segreti
quando si tratti di questioni concernenti persone, desumendo dall'inosservanza delle
anzidette modalità di voto la nullità del licenziamento, ed ha cassato la sentenza
67
impugnata che, invece, aveva ravvisato una mera irregolarità, priva di incidenza sulla
validità del recesso). (Cassa con rinvio, App. Trieste, 12/10/2005)
Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 29 marzo 2010, n. 7531
L'istituto del preavviso contemplato dall'art. 2118 c.c., non trova applicazione, salvo
diversa disposizione legale o contrattuale, allorquando l'esecuzione della prestazione
di lavoro dedotta in contratto sia divenuta totalmente ed assolutamente impossibile,
come è accaduto nel caso di specie, in cui il ricorrente, quale pilota di aeromobile,
essendo stato dichiarato inidoneo permanentemente al volo in esito ad un giudizio
medico-legale, potrebbe rendere una diversa prestazione di lavoro nell'ambito del
personale di terra soltanto in esecuzione di un contratto di lavoro diverso. In similari
ipotesi, infatti, si deve escludere che, nel caso di inidoneità permanente al volo, che è
l'unica prestazione lavorativa dedotta nel contratto dei piloti, configurando ciò una
causa di risoluzione del rapporto, il datore di lavoro possieda uno ius variandi che gli
consenta di inserire il pilota nell'ambito del personale di terra senza che ciò implichi
una novazione del contratto stesso.
Cass. civ. Sez. Unite, 14 aprile 2010, n. 8830
L'impugnazione del licenziamento ai sensi dell'art. 6 della legge 15 luglio 1966, n.
604, formulata mediante dichiarazione spedita al datore di lavoro con missiva
raccomandata a mezzo del servizio postale, deve intendersi tempestivamente
effettuata allorché la spedizione avvenga entro sessanta giorni dalla comunicazione
del licenziamento o dei relativi motivi, anche se la dichiarazione medesima sia
ricevuta dal datore di lavoro oltre detto termine, atteso che - in base ai principi
generali in tema di decadenza, enunciati dalla giurisprudenza di legittimità e
affermati, con riferimento alla notificazione degli atti processuali, dalla Corte
costituzionale - l'effetto di impedimento della decadenza si collega, di regola, al
compimento, da parte del soggetto onerato, dell'attività necessaria ad avviare il
procedimento di comunicazione demandato ad un servizio - idoneo a garantire un
adeguato affidamento - sottratto alla sua ingerenza, non rilevando, in contrario, che,
alla stregua del predetto art. 6, al lavoratore sia rimessa la scelta fra più forme di
comunicazione, la quale, valendo a bilanciare la previsione di un termine breve di
decadenza in relazione al diritto del prestatore a conservare il posto di lavoro e a
mantenere un'esistenza libera e dignitosa (artt. 4 e 36 Cost.), concorre a mantenere un
equo e ragionevole bilanciamento degli interessi coinvolti. (Cassa con rinvio, App.
Palermo, 08/09/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 24 marzo 2010, n. 7044
La scrittura con la quale sia intimato il licenziamento può ritenersi valida, ai sensi
dell'art. 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604, anche quando non venga sottoscritta dal
datore di lavoro o da un suo rappresentante, ma contenga, nell'intestazione ed in
calce, la denominazione dell'impresa e del suo titolare, sia trasmessa mediante
raccomandata e tempestivamente impugnata dal lavoratore con riferimento al
contenuto e non alla forma. (Rigetta, App. Roma, 14/10/2005).
68
Cass. civ. Sez. lavoro, 10 marzo 2010, n. 5804
Il lavoratore decaduto dall'impugnativa del licenziamento illegittimo può esperire
l'azione risarcitoria generale, previa allegazione dei relativi presupposti, diversi da
quelli previsti dalla normativa sui licenziamenti e tali da configurare l'atto di recesso
come idoneo a determinare un danno risarcibile, ma non può ottenere, neppure per
equivalente, il risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute a causa
del licenziamento, essendogli ciò precluso dalla maturata decadenza. (Rigetta, App.
Torino, 20/04/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 febbraio 2010, n. 4375
In tema di controllo del lavoratore, le garanzie procedurali imposte dall'art. 4,
secondo comma, della legge n. 300 del 1970 (espressamente richiamato anche
dall'art. 114 del d.lgs. n. 196 del 2003 e non modificato dall'art. 4 della legge n. 547
del 1993, che ha introdotto il reato di cui all'art. 615-ter cod. pen.) per l'installazione
di impianti ed apparecchiature di controllo richiesti da esigenze organizzative e
produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità
di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, trovano applicazione anche ai
controlli c.d. difensivi, ovverosia a quei controlli diretti ad accertare comportamenti
illeciti dei lavoratori, quando tali comportamenti riguardino l'esatto adempimento
delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela dei beni estranei
al rapporto stesso, dovendo escludersi che l'insopprimibile esigenza di evitare
condotte illecite da parte dei dipendenti possa assumere portata tale da giustificare un
sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del
lavoratore. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto correttamente
motivata la sentenza impugnata, la quale aveva negato l'utilizzabilità a fini
disciplinari dei dati acquisiti mediante programmi informatici che consentono il
monitoraggio della posta elettronica e degli accessi Internet dei dipendenti, sul
presupposto che gli stessi consentono al datore di lavoro di controllare a distanza ed
in via continuativa l'attività lavorativa durante la prestazione, e di accertare se la
stessa sia svolta in termini di diligenza e corretto adempimento). (Rigetta, App.
Milano, 30/09/2005).
Cass. civ. Sez. V Ord., 25 gennaio 2010, n. 1349
L'indennità prevista dal contratto collettivo dei dirigenti di aziende industriali per
l'ipotesi di licenziamento ingiustificato o di recesso per giusta causa è assoggettata a
tassazione separata e a ritenuta d'acconto. Secondo la disciplina dettata dagli artt. 6 e
16 del T.u.i.r. - D.P.R. n. 917/1986 (ora artt. 6 e 17), infatti, tutte le indennità
conseguite dal lavoratore a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di
redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, e quindi tutte le
indennità aventi causa o che traggano comunque origine dal rapporto di lavoro,
comprese le indennità per la risoluzione del rapporto per illegittimo comportamento
del datore di lavoro, costituiscono redditi da lavoro dipendente. È comunque onere
del contribuente dimostrare che l'indennità si riferisce (in tutto o in parte) a voci di
risarcimento puro, esenti da tassazione, e non è sufficiente che sia precisato che essa
ha carattere risarcitorio, perché costituisce risarcimento anche il ristoro di emolumenti
non percepiti, tassabili ai sensi dell'art. 6, comma 2, del T.u.i.r.. Tali somme,
percepite dal lavoratore a titolo di transazione della controversia avente ad oggetto il
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risarcimento del danno per illegittimo licenziamento, sono imponibili ai sensi degli
artt. 6, comma 2, e 48 del T.u.i.r. (ora art. 51) e soggette a tassazione separata ai sensi
dell'art. 16 (ora art. 17), comma 1, lett. i), del medesimo Testo Unico.
- Giusta causa e giustificato motivo
Cass. civ. Sez. lavoro, 21 gennaio 2011, n. 1459
Ai fini della valutazione della legittimità del licenziamento, è necessario accertare se,
in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso fra le parti, ed alla qualità ed
al grado di fiducia che il rapporto comporta, la specifica mancanza risulti
oggettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, così da farla venir
meno, la fiducia che il datore ripone nel proprio dipendente, senza che possa
assumere rilievo l'assenza o la modesta entità del danno patrimoniale subito dal
datore. Sul piano probatorio, poi, se all'integrazione dei fatti giuridicamente
legittimanti il licenziamento è necessario il dolo, l'onere datoriale di provare la
sussistenza dei fatti si estende alla prova del dolo, e pertanto, ai fini della legittimità
del licenziamento, la prova della sussistenza del fatto nella sua mera materialità è
insufficiente.
Cass. civ. Sez. lavoro, 13 dicembre 2010, n. 25144
Giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono
nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare,
articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia
delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo
generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la
valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che
la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro
normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in
sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta
ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro
normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta
causa di licenziamento, ovvero a far sussistere la proporzionalità tra infrazione e
sanzione, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di
merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Pertanto,
l'operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell'applicare le clausole
generali come quella di cui all'art. 2119 o all'art. 2106 cod. civ., che dettano tipiche
"norme elastiche", non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il
profilo della correttezza del metodo seguito nell'applicazione della clausola generale,
poiché l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi
desumibili dall'ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla
disciplina particolare (anche collettiva) in cui la fattispecie si colloca. (Rigetta, App.
Lecce, 18/06/2007).
70
Cass. civ. Sez. lavoro, 17 dicembre 2010, n. 25587
La diversa valutazione in ordine alla minor gravità della condotta addebitata al
dipendente legittima il giudice a operare la conversione del licenziamento
originariamente intimato per giusta causa in giustificato motivo con preavviso.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 novembre 2010, n. 23926
L'impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo oggettivo di
recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato non è ravvisabile per
effetto della sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro,
perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa
attività, che sia riconducibile - alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo
buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103
c.c.) o, se ciò è impossibile, a mansioni anche inferiori, purché tale diversa attività sia
utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito
dall'imprenditore.
Cass. civ. Sez. lavoro, 16 novembre 2010, n. 23132
È illegittimo, perché sproporzionato, il licenziamento per giusta causa irrogato al
lavoratore il quale abbia rivolto per telefono ingiurie e volgarità ad un azionista di
riferimento di una società controllata dalla datrice di lavoro, che sia stato percepito
dal lavoratore come soggetto estraneo all'organizzazione lavorativa e, quindi,
all'assetto gerarchico della società datrice di lavoro.
Cass. civ. Sez. lavoro, 15 luglio 2010, n. 16579
Ove il datore di lavoro, a giustificazione del licenziamento, adduca, con valutazione
rientrante nell'esercizio della libertà di iniziativa economica non sindacabile in sede
giudiziaria, la necessità di sopprimere un posto di lavoro, incombe sul medesimo
datore di lavoro l'onere di provare l'impossibilità di assegnare il lavoratore licenziato
ad altro posto, con riguardo alla sua capacità professionale ed alle caratteristiche
dell'intera azienda.
Cass. civ. Sez. lavoro, 30 aprile 2010, n. 10538
In virtù del principio di immodificabilità del motivo del licenziamento è precluso al
datore di lavoro, il quale intimi un licenziamento per giustificato motivo oggettivo
(mancanza di lavoro) invocare in giudizio una giusta causa, tra l'altro senza dedurre in
quale sede e con quali modalità essa sia stata contestata al lavoratore.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 aprile 2010, n. 9700
L'inidoneità sopravvenuta allo svolgimento delle mansioni contrattualmente previste
integra un giustificato motivo oggettivo di licenziamento ex art. 3 legge n. 604/1966
da parte del datore di lavoro, sul quale ricade l'onere di dimostrare l'impossibilità di
una diversa, ma pur sempre apprezzabile, collocazione del lavoratore nell'attuale
ambito aziendale, senza che tuttavia questo si traduca in un obbligo di modifica della
struttura organizzativa.
71
Cass. civ., Sez. lav., Sent. 12 aprile 2010, n. 8641.
In tema di licenziamento per giusta causa, la condotta del lavoratore deve essere
valutata nel suo contenuto obiettivo, con specifico riferimento alla natura e alla
qualità del rapporto, al particolare vincolo di fiducia che esso implica per la posizione
rivestita nel suo ambito dal prestatore di lavoro, al grado di affidamento richiesto per
le mansioni ricoperte, nonché nella sua portata soggettiva in relazione alle circostanze
del suo verificarsi, ai motivi che l’hanno determinato e alla intensità dell’elemento
volitivo, che deve essere riferito anche all’ambito della relazione lavorativa e non
solo ai profili meramente interiori (nella specie, relativa al licenziamento di un
dipendente bancario, il quale, falsificando la firma della propria fidanzata sul
presupposto del consenso di quest’ultima, aveva effettuato un prelievo indebito da un
conto bancario, la suprema corte, in accoglimento del ricorso, ha annullato la
decisione di merito che non solo aveva omesso ogni considerazione sui profili
oggettivi, ossia sul ruolo ricoperto dal dipendente e sul correlato grado di affidamento
richiesto dalla specifica posizione lavorativa ricoperta, ma anche sul piano soggettivo
aveva preso in considerazione esclusivamente il profilo interno relativo alla relazione
extralavorativa del lavoratore, del tutto ignorando l’aspetto prognostico del giudizio
da formulare sulla potenziale futura compromissione dell’idoneità dello stesso
all’esatto adempimento delle obbligazioni con la banca).
Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2010, n. 8237
In tema di giustificato motivo di licenziamento relativamente ai necessari profili di
congruità ed opportunità che caratterizzano tale disciplina, la scelta imprenditoriale
che abbia avuto come conseguenza la soppressione del posto di lavoro cui era addetto
il dipendente sottoposto a licenziamento non è sindacabile a condizione che risulti
oggettivo e non pretestuoso il riassetto organizzativo della compagine lavorativa che
ha determinato la scelta di licenziare detto dipendente.
Cass. civ., Sez. lav., 29 marzo 2010, n. 7518.
In tema di licenziamento per giusta causa, la mancanza del lavoratore deve essere
tanto grave da giustificare l’irrogazione della sanzione espulsiva e, pertanto, il
comportamento del prestatore va valutato non solo nel suo contenuto oggettivo - con
riguardo alla natura e alla qualità del rapporto, al vincolo che esso comporta e al
grado di affidamento richiesto dalle mansioni espletate - ma anche nella sua portata
soggettiva, con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stato
posto in essere, ai modi, agli effetti e all’intensità dell’elemento psicologico
dell’agente; ne consegue che la condotta del lavoratore, il quale, in occasione di uno
sciopero, abbia cercato di impedire l’accesso ai locali dell’azienda da parte di un altro
lavoratore, strattonandolo e facendolo arretrare, senza, tuttavia, giungere al
compimento di atti di violenza fisica o di percosse, pur costituendo un illecito non
integra i requisiti di gravità idonei a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario
sotteso al rapporto di lavoro e a giustificare l’irrogazione della massima sanzione,
tanto più ove rilevi, sotto il profilo intenzionale, lo stato di elevata tensione delle
relazioni sindacali al momento dei fatti, nonché, quanto all’apparato sanzionatorio
stabilito dal c.c.n.l. applicabile (nella specie, l’art. 25 c.c.n.l. dei metalmeccanici), la
previsione del licenziamento per infrazioni connotate da superiori livelli di gravità,
quali la rissa in azienda ovvero il danneggiamento volontario del materiale aziendale.
72
Cass. civ. Sez. lavoro, 29 marzo 2010, n. 7531
In linea generale, il licenziamento per sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle
mansioni cui è adibito il lavoratore, viene ricondotto all'ipotesi del giustificato motivo
oggettivo (con diritto al preavviso) proprio perché non si può escludere l'impiego del
dipendente in mansioni diverse. Tuttavia, con riguardo allo speciale rapporto di
lavoro dei piloti, deve escludersi l'indicata evenienza per il caso di inidoneità
permanente al volo, che è l'unica prestazione lavorativa dedotta in questo particolare
contratto di lavoro. Non è configurabile, infatti, per il datore di lavoro, uno "ius
variandi" che consenta di inserire il pilota nell'ambito del personale di terra senza che
si produca una novazione del contratto.
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 marzo 2010, n. 7381
In materia di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo determinati
da ragioni inerenti all'attività produttiva, il datore di lavoro ha l'onere di provare, con
riferimento alla capacità professionale del lavoratore ed alla organizzazione aziendale
esistente all'epoca del licenziamento, anche attraverso fatti positivi, tali da
determinare presunzioni semplici (come il fatto che dopo il licenziamento e per un
congruo periodo non vi siano state nuove assunzioni nella stessa qualifica del
lavoratore licenziato), l'impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni
diverse da quelle che prima svolgeva, giustificandosi il recesso solo come "extrema
ratio". (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza della corte territoriale che, con
riferimento ad azienda di grandi dimensioni, aveva ritenuto non assolto dal datore di
lavoro l'onere probatorio, sul rilievo delle numerose assunzioni nell'anno seguente a
quello del licenziamento, di personale con la medesima qualifica del lavoratore
licenziato, e dell'elevato livello di istruzione di questo, che ne consentiva
l'utilizzazione in settori diversi da quello in cui era stato precedentemente addetto).
(Rigetta, App. Roma, 21/08/2006).
Cass. civ., Sez. lav., 08 marzo 2010, n. 5546.
Ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento,
qualora risulti accertato che l’inadempimento del lavoratore è tale da compromettere
irrimediabilmente il rapporto fiduciario, è irrilevante che analoga inadempienza,
commessa da altro dipendente, sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro;
solo l’identità delle situazioni potrebbe, infatti, privare il provvedimento espulsivo
della sua base giustificativa, non potendo porsi a carico del datore di lavoro l’onere di
fornire, per ciascun licenziamento, la motivazione del provvedimento adottato,
comparata a quelle assunte in fattispecie analoghe.
Cass. civ. Sez. lavoro, 8 marzo 2010, n. 5548
In tema di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, anche una condotta
colposa del dipendente, benché non indicativa di un'aperta ribellione alla disciplina
dell'impresa, può rivelare una violazione dei doveri di cautela e di attenzione idonea a
ledere il rapporto fiduciario, soprattutto qualora il datore di lavoro abbia affidato al
lavoratore l'uso e la custodia di beni patrimoniali di rilevante valore. (Nella specie la
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S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto sorretto da giustificato
motivo soggettivo il licenziamento di un autista addetto ai trasporti eccezionali che,
nel condurre un autoarticolato della società di cui era dipendente, si era distratto dalla
guida e, non avvedendosi di un blocco del traffico, non era riuscito a conservare il
controllo del veicolo ed era finito fuori strada, nel tentativo di effettuare una manovra
di emergenza). (Cassa con rinvio, App. Roma, 27/10/2003)
Cass. civ. Sez. lavoro, 5 marzo 2010, n. 5403
In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo del lavoratore distaccato
presso un terzo, gli elementi costitutivi del giustificato motivo oggettivo devono
essere verificati con riferimento all'ambito aziendale del datore di lavoro distaccante,
sul quale ricade anche l'onere di provare, con riguardo all'organizzazione aziendale
esistente all'epoca del licenziamento, l'impossibilità di adibire utilmente il lavoratore
e mansioni diverse da quelle che prima svolgeva, con la conseguenza che non è
sufficiente ad integrare il giustificato motivo oggettivo di licenziamento la mera
cessazione dell'interesse al distacco o la soppressione del posto presso il terzo
distaccato. (Cassa con rinvio, App. Venezia, 21/10/2005)
- Superamento del periodo di comporto
Cass. civ. Sez. lavoro, 21 dicembre 2010, n. 25863
È corretta l'interpretazione del giudice del merito secondo cui la clausola del contratto
collettivo nazionale di lavoro, nella parte in cui prevede che, superato il periodo di
comporto di 12 mesi, su richiesta del lavoratore, impossibilitato a riprendere servizio,
potrà essere concessa un'aspettativa, gli attribuisce il diritto o, quanto meno, un
interesse qualificato a un ulteriore periodo di sospensione del rapporto.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 novembre 2010, n. 23920
Il licenziamento per superamento del periodo di comporto è assimilabile non al
licenziamento disciplinare, ma a quello per giustificato motivo oggettivo. Ne
consegue che il datore di lavoro, non ha l'onere di indicare le singole giornate di
assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive come la
determinazione del numero totale delle assenze verificatesi in un determinato periodo,
fermo restando l'onere, nell'eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare,
compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato. (Rigetta, App. Catania,
04/08/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 13 luglio 2010, n. 16421
Con riferimento al licenziamento che trovi giustificazione nelle assenze per malattia
del lavoratore, si applicano le regole dettate dall'art. 2 della legge n. 604/1966
(modificato dall'art. 2 della legge n. 108 del 1990) sulla forma dell'atto e la
comunicazione dei motivi del recesso, poiché nessuna norma speciale è al riguardo
dettata dall'art. 2110 cod. civ. Conseguentemente, qualora l'atto di intimazione del
licenziamento non precisi le assenze in base alle quali sia ritenuto superato il periodo
74
di conservazione del posto di lavoro, il lavoratore - il quale, particolarmente nel caso
di comporto per sommatoria, ha l'esigenza di poter opporre propri specifici rilievi - ha
la facoltà di chiedere al datore di lavoro di specificare tale aspetto fattuale delle
ragioni del licenziamento, e, nel caso di non ottemperanza con le modalità di legge a
tale richiesta, di dette assenze non può tenersi conto ai fini della verifica del
superamento del periodo di comporto; ove, invece, il lavoratore abbia direttamente
impugnato il licenziamento, il datore di lavoro può precisare in giudizio i motivi di
esso ed i fatti che hanno determinato il superamento del periodo di comporto, non
essendo ravvisabile in ciò una integrazione o modificazione della motivazione del
recesso. (Rigetta, App. Roma, 06/12/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 11 maggio 2010, n. 11342
Risulta incompatibile con la volontà di recedere dal contratto il comportamento del
datore di lavoro di accettare il rientro al lavoro del dipendente, al superamento del
periodo di comporto per sommatoria, senza l'adozione nei confronti di questo di alcun
provvedimento, ingenerando così l'affidamento dell'interessato sulla tolleranza delle
numerose assenze per ripetuti eventi morbosi.
Cass. civ. Sez. lavoro, 28 gennaio 2010, n. 1861
La fattispecie di recesso del datore di lavoro, per l'ipotesi di assenze determinate da
malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in
quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), è
soggetta alle regole dettate dall'art. 2110 cod. civ., che prevalgono, per la loro
specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per
sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina
limitativa dei licenziamenti individuali. Ne consegue che il datore di lavoro, da un
lato, non può recedere dal rapporto prima del superamento del limite di tollerabilità
dell'assenza (cosiddetto periodo di comporto), il quale è predeterminato per legge,
dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal
giudice in via equitativa, e, dall'altro, che il superamento di quel limite è condizione
sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del
giustificato motivo oggettivo nè della sopravvenuta impossibilità della prestazione
lavorativa, nè della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse.
(Cassa con rinvio, App. Palermo, 13/02/2006).
- Licenziamento del dirigente
Cass. civ. Sez. lavoro, 13 dicembre 2010, n. 25145
La disciplina limitativa del potere di licenziamento di cui alle leggi 15 n. 604 del
1966 e n. 300 del 1970 non è applicabile, ai sensi dell'art. 10 della legge n. 604 del
1966, ai dirigenti convenzionali, quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle
declaratorie del contratto collettivo applicabile, sia che si tratti di dirigenti apicali, che
di dirigenti medi o minori, ad eccezione degli pseudo-dirigenti, vale a dire di coloro i
cui compiti non sono in alcun modo riconducibili alla declaratoria contrattuale del
dirigente. Ne consegue che, ai fini dell'eventuale riconoscimento dell'indennità
75
supplementare prevista per la categoria dei dirigenti, occorre fare riferimento alla
nozione contrattuale di giustificatezza che si discosta, sia nel piano soggettivo che su
quello oggettivo, da quello di giustificato motivo ex art. 3, legge n. 604 del 1966, e di
giusta causa ex art. 2119 cod. civ., trovando la sua ragione d'essere, da un lato, nel
rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro in ragione delle mansioni
affidate - suscettibile di essere leso anche da mera inadeguatezza rispetto ad
aspettative riconoscibili "ex ante" o da importante deviazione dalla linea segnata dalle
direttive generali del datore di lavoro, ovvero da comportamento extralavorativo
incidente sull'immagine aziendale a causa della posizione rivestita - e, dall'altro, nello
stesso sviluppo delle strategie di impresa che rendano nel tempo non pienamente
adeguata la concreta posizione assegnata al dirigente nella articolazione della struttura
direttiva dell'azienda. (Cassa con rinvio, App. Sassari, 15/09/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 1 dicembre 2010, n. 24340
In tema di licenziamento di dirigente di azienda bancaria, non trovano applicazione
né la disciplina di cui agli artt. 4 e 24 della legge 23 luglio 2001, n. 223, né la tutela in
materia di licenziamento individuale, bensì le disposizioni del CCNL del 1 dicembre
2000, che all'art. 26 richiama espressamente il D.M. n. 158 del 2000 il quale, all'art. 7,
prevede, quanto agli assegni straordinari per il sostegno del reddito ed i versamenti
contributivi correlati ai processi di ristrutturazione o per le situazioni di crisi, la
salvezza delle norme di legge e del contratto collettivo e, all'art. 29, prevede
l'attribuzione al dirigente ingiustificatamente licenziato di una indennità
supplementare, proporzionata all'anzianità, norma quella da ultimo richiamata,
applicabile anche al caso di recesso per asserite ragioni oggettive di riorganizzazione
aziendale. (Rigetta, App. Milano, 28/07/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 ottobre 2010, n. 21748
Per stabilire se sia giustificato il licenziamento di un dirigente intimato per ragioni di
ristrutturazione aziendale, non è dirimente la circostanza che le mansioni da questi
precedentemente svolte vengano affidate ad altro dirigente in aggiunta a quelle sue
proprie, in quanto quel che rileva è che presso l'azienda non esista più una posizione
lavorativa esattamente sovrapponibile a quella del lavoratore licenziato. (Cassa con
rinvio, App. Torino, 10/05/2006)
Cass. civ. Sez. lavoro, 2 settembre 2010, n. 18998
In tema di licenziamento disciplinare, il lavoratore che abbia subito tale
licenziamento, quale dirigente, per poter fruire del più favorevole regime restrittivo
del licenziamento, deve provare che al formale inquadramento dirigenziale
riconosciutogli dalla società datrice di lavoro non corrispondeva un'attribuzione
effettiva di mansioni e poteri propri di un dirigente, ovvero che le mansioni
effettivamente svolte non corrispondevano a quelle previste per la categoria
dirigenziale. In tal senso, nel caso di specie, a dispetto di quanto asserito dal
ricorrente, non si è ravvisata alcuna violazione nè falsa applicazione dell'art. 2697 c.c.
in ordine all'appartenenza dello stesso alla categoria dei dirigenti, atteso che
quest'ultimo, in violazione all'onere probatorio su di esso ricadente, non ha dimostrato
che le mansioni effettivamente svolte non corrispondevano a quelle di un dirigente.
76
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 marzo 2010, n. 6847
Il dirigente che, in conseguenza della risoluzione del rapporto con il datore di lavoro
causata dal recesso ingiustificato di quest'ultimo, chieda il risarcimento del danno
biologico riconducibile alla condotta datoriale, è tenuto a provare i comportamenti
datoriali cui addebita, in ragione della loro gravità, la lesione del decoro e
dell'integrità psico-fisica e l'elemento soggettivo della colpa grave o del dolo, non
derivando gli effetti risarcitori automaticamente dall'accertata illegittimità del recesso
(a cui è, invece, correlato direttamente il diritto all'indennità supplementare di
preavviso), senza che possa al riguardo operare, ai sensi dell'art. 1229, comma primo,
cod. civ., alcuna clausola di esclusione, in via preventiva, della responsabilità
datoriale che, ove prevista, sarebbe inficiata da nullità. (Rigetta, App. Ancona,
02/10/2006).
- Profili risarcitori
Cass. civ. Sez. lavoro, 1 dicembre 2010, n. 24366
Nel processo del lavoro, qualora il lavoratore - in correlazione con la sospensione
cautelare subita, di cui deduca l'illegittimità - abbia richiesto, in primo grado, il
pagamento delle retribuzioni a titolo di risarcimento da illegittima applicazione della
detta sospensione, costituisce domanda nuova per modificazione della "causa
petendi", come tale inammissibile in appello, quella, avanzata per la prima volta in
secondo grado, di pagamento delle retribuzioni a titolo di adempimento contrattuale,
essendo il diritto alle stesse previsto da un articolo del CCNL di categoria. (Cassa
senza rinvio, App. Roma, 06/11/2006).
Cass. civ. Sez. III, 9 dicembre 2010, n. 24864
Poiché il danno biologico ha natura non patrimoniale, e dal momento che il danno
non patrimoniale ha natura unitaria, è corretto l'operato del giudice di merito che
liquidi il risarcimento del danno biologico in una somma omnicomprensiva, posto che
le varie voci di danno non patrimoniale elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza
(danno estetico, danno esistenziale, danno alla vita di relazione, ecc.) non
costituiscono pregiudizi autonomamente risarcibili, ma possono venire in
considerazione solo in sede di adeguamento del risarcimento al caso specifico, e
sempre che il danneggiato abbia allegato e dimostrato che il danno biologico o morale
presenti aspetti molteplici e riflessi ulteriori rispetto a quelli tipici. (Cassa con rinvio,
App. Napoli, 10/11/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 17 novembre 2010, n. 23226
In tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che contesti la richiesta
risarcitoria pervenutagli dal lavoratore è onerato, pur con l'ausilio di presunzioni
semplici, della prova dell'"aliunde perceptum" o dell' "aliunde percipiendum", a nulla
rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente
estromesso dall'azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l'onere di farsi
77
carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del
licenziamento, riduttiva del danno patito. (Rigetta, App. Bologna, 19/01/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 2 settembre 2010, n. 19000
L'accertamento in ordine all'intervenuta cessazione totale dell'attività aziendale nel
corso del giudizio instaurato al fine di ottenere la declaratoria di inefficacia del
licenziamento intimato al ricorrente dalla oramai cessata impresa, oltre al
risarcimento dei danni, impedisce al Giudice di disporre la reintegrazione del
dipendente nel posto di lavoro. In ipotesi siffatte l'organo giudicante è tenuto, invero,
a limitare la sua pronuncia all'eventuale accoglimento della domanda di risarcimento
del danno subito dal dipendente nel periodo compreso tra la data del licenziamento e
quella della sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto. In tal senso del tutto
infondato si rivela nella specie il motivo di ricorso alla Corte di legittimità con il
quale, verificatasi la cessazione totale dell'attività d'impresa del datore di lavoro nel
corso del giudizio, il ricorrente lamenta la violazione da parte del Giudice del merito
del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c. per non
aver egli adottato alcuna decisione in ordine alla richiesta condanna della resistente
parte datoriale alla reintegrazione del lavoratore ex art. 18 della legge n. 300 del
1970.
Cass. civ. Sez. lavoro, 28 aprile 2010, n. 10164
In caso di illegittimo licenziamento del lavoratore, il risarcimento del danno spettante
a norma dell'art.18 della legge n. 300 del 1970, commisurato all'importo delle
retribuzioni che sarebbero maturate dalla data del licenziamento, non può essere
diminuito degli importi eventualmente ricevuti a titolo di indennità di mobilità, che si
sottraggono alla regola della "compensatio lucri cum danno", in quanto tali somme,
percepite ad altro titolo dall'istituto previdenziale, con l'annullamento del
licenziamento perdono il titolo giustificativo e devono essere restituite, a richiesta
dell'ente previdenziale, con la conseguenza che non realizzano un effettivo
incremento patrimoniale del lavoratore. (Cassa con rinvio, App. Cagliari, 19/07/2005)
Cass. civ. Sez. lavoro, 12 aprile 2010, n. 8643
Nel giudizio avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno derivante da
licenziamento dichiarato illegittimo, non è ravvisabile vizio di ultrapetizione nella
limitazione della condanna al risarcimento compiuta dal giudice d'appello in base alla
valorizzazione di un fatto incidente sulla permanenza dell'obbligo di risarcimento,
quale il richiamo in servizio del lavoratore a seguito della pronuncia di
reintegrazione. La condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, ai sensi
dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n.300, costituisce, infatti, una pronuncia in
futuro e condizionata in particolare, alla permanenza del rapporto di lavoro e alla non
riattivazione con la reintegra del lavoratore, quanto al periodo successivo alla
pronuncia della sentenza, con la conseguenza che, passata in giudicato la sentenza e
devoluta al giudice di appello la controversia per effetto della proposizione
dell'impugnazione, anche se per motivi inerenti alla sola illegittimità del
licenziamento, la cognizione del giudice di appello deve ritenersi estesa alla verifica,
anche d'ufficio, circa l'esistenza e la misura del danno che concretamente matura solo
78
nel corso del giudizio di secondo grado, anche perchè con la eventuale conferma della
sentenza di primo grado la pronuncia relativa al risarcimento del danno muta la sua
portata diventando, per il periodo intercorrente tra le due sentenze di merito, una
pronuncia concreta e non più una condanna in futuro. (Cassa e decide nel merito,
App. Roma, 07/10/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 marzo 2010, n. 7344
In tema di risarcimento del danno a seguito di licenziamento illegittimo, va esclusa
l'applicazione dell'art. 1227, secondo comma, cod. civ. in relazione alle conseguenze
dannose discendenti dal tempo impiegato per la tutela giurisdizionale da parte del
lavoratore - maggiore del previsto a causa di errori difensivi - dovendosi escludere
che la durata del processo possa risolversi in un pregiudizio per la parte vittoriosa,
tanto più che le norme processuali garantiscono al datore di lavoro una posizione
paritaria rispetto alle altre parti del processo, con l'attribuzione di poteri idonei a
contrastare le altrui strategie difensive o, comunque, per intervenire su errori
processuali suscettibili di incidere sui tempi del giudizio. (Nella specie, il ricorrente
aveva dedotto la responsabilità del lavoratore per aver instaurato il giudizio nei
confronti dell'originaria società datrice di lavoro nonostante che la stessa si fosse
estinta per incorporazione otto mesi prima; la S.C., nel rigettare il ricorso, dopo aver
evidenziato che il lavoratore aveva con tempestività avviato il giudizio, ha rilevato
che era stata la società ad omettere ogni utile attività, non avendo neppure curato di
costituirsi anche solo per far constare l'eventuale nullità della notifica e il difetto di
legittimazione della società intimata). (Rigetta, App. Sassari, 13/04/2006)
Cass. civ. Sez. lavoro, 5 febbraio 2010, n. 2676
La decadenza dall'impugnativa del licenziamento impedisce al lavoratore di
richiedere il risarcimento del danno secondo le norme codicistiche ordinarie, poiché
non consente di far accertare in sede giudiziale l'illegittimità del recesso. L'azione di
diritto comune può essere esercitata, anche in caso di decadenza, soltanto in via
residuale per far valere profili di illegittimità del recesso che siano diversi da quelli
previsti dalla normativa speciale sui licenziamenti, individuali o collettivi.
***
T. I licenziamenti collettivi
- Procedure di mobilità e cassa integrazione
Cass. civ. Sez. lavoro, 13 dicembre 2010, n. 25139
In tema di cassa integrazione guadagni, la richiesta del lavoratore di risarcimento
danni per l'illegittima sospensione a seguito di collocamento in C.i.g.s. ha ad oggetto
un credito da inadempimento contrattuale, soggetto all'ordinaria prescrizione
decennale. (Rigetta, App. Torino, 10/02/2006).
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Cass. civ. Sez. lavoro, 1 dicembre 2010, n. 24343
Deve considerarsi legittimo il licenziamento collettivo di personale irrogato per
ridurre il costo del lavoro, se il datore di lavoro ha individuato un solo criterio di
selezione, purché certo e non discrezionale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 9 novembre 2010, n. 22760
In tema di trattamento straordinario di cassa integrazione guadagni previsto
dall'articolo unico della legge n. 427 del 1980, sia nel suo testo originario che in
quello parzialmente modificato dall'art. 1 del d.l. 299 del 1994 (conv., con mod., nella
legge n. 451 del 1994), ed anche a prescindere dalla norma d'interpretazione autentica
di cui all'art. 44, comma 6, del d.l. n. 269 del 2003 (conv. nella legge n. 326 del
2003), le mensilità aggiuntive e, in particolare, la tredicesima mensilità, sono
computabili nella retribuzione costituente base di calcolo degli importi
dell'integrazione salariale, nell'ambito dei limiti massimi dell'importo mensile
dell'integrazione fissati dal citato articolo unico, dovendosi escludere una diversa ed
ulteriore incidenza delle mensilità aggiuntive sul trattamento di integrazione salariale;
tale computabilità nei limiti precisati è, coerente con l'esigenza di compensare la
riduzione retributiva causata al lavoratore dipendente da sospensioni temporanee del
rapporto di lavoro, attraverso una prestazione previdenziale che si riferisca
unitariamente a tutto il pregiudizio maturato nel periodo di riferimento, ferma la
necessità che il trattamento straordinario sia calcolato su base settimanale e che il
massimale sia rapportato all'integrazione dovuta per le ore non lavorate nel mese.
(Cassa e decide nel merito, App. Campobasso, 05/02/2007).
Cass. civ. Sez. lavoro, 28 ottobre 2010, n. 22033
In materia di licenziamento collettivo, l'impresa che intenda cessare l'attività e
licenziare tutti i dipendenti salvo un gruppo individuato in base al possesso delle
competenze professionali necessarie per il compimento delle operazioni di
liquidazione, deve egualmente effettuare, a pena di inefficacia del licenziamento, la
comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, della legge n. 223 del 1991 con la
precisazione delle modalità di attuazione del criterio di scelta e la comparazione tra
tutte le professionalità del personale in servizio rispetto allo scopo perseguito, senza
che assuma rilievo l'unicità del criterio adottato ancorché concordato con le
organizzazioni sindacali. (Rigetta, App. Napoli, 18/12/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 28 settembre 2010, n. 20358
Il D.M. 28 aprile 2000, n. 158, recante il Regolamento relativo all'istituzione del
Fondo di solidarietà per il sostegno del reddito, dell'occupazione e della riconversione
e riqualificazione professionale del personale dipendente dalle imprese di credito,
presso l'I.N.P.S., prevede espressamente che il lavoratore, richiedendo i benefici ivi
previsti, rinunci al preavviso di licenziamento ed alla relativa indennità sostitutiva, i
quali implicano la risoluzione del rapporto. La rinuncia al preavviso ed all'indennità
sostitutiva è, pertanto, considerata dalla normativa richiamata come accettazione
dell'anticipata risoluzione del rapporto, il che preclude un successivo ripensamento e
80
l'impugnazione del recesso. All'uopo deve, altresì, rilevarsi che trattasi di fatto di una
normativa che mira ad eliminare, per quanto possibile, l'eventuale contenzioso
derivante dai processi di ristrutturazione aziendale che non a caso chiama anche il
datore di lavoro a partecipare finanziariamente all'erogazione dei trattamenti previsti,
per cui deve fondatamente dedursi la contrarietà allo scopo legislativo della
previsione che consentisse l'erogazione del beneficio mantenendo aperta la possibilità
di rimettere in discussione l'ormai intervenuta conclusione del rapporto. (Nella
fattispecie, pacifica la richiesta dei lavoratori ricorrenti di accedere alle prestazioni
del Fondo, l'impugnata decisione di merito che ha escluso l'acquiescenza al
licenziamento non è conforme a diritto in quanto non ha considerato l'effetto legale
che la normativa in considerazione riconnette a tale accesso. Ne consegue la
cassazione della sentenza e la conseguente decisione nel merito).
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 settembre 2010, n. 20005
Ove il datore di lavoro abbia proceduto al licenziamento di dipendenti per riduzione
di personale, il lavoratore licenziato ha la precedenza nella riassunzione presso la
medesima azienda, sempre che la richiesta di nuova assunzione, numerica o
nominativa, presentata dal datore di lavoro, riguardi lavoratori della medesima
qualifica di quello licenziato. Peraltro, in tal caso, l'azienda che ha proceduto
all'assunzione non ha diritto ai benefici contributivi di legge.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2010, n. 15207
In caso di sospensione dell'attività lavorativa per l'attualità di una crisi aziendale
implicante la possibilità di intervento della cassa integrazione guadagni, la
qualificazione giuridica delle somme corrisposte a titolo di anticipazione della
prestazione previdenziale è consentita solo all'esito del procedimento per
l'ammissione al trattamento di integrazione salariale, e in caso di mancato
accoglimento della richiesta di intervento della C.I.G., tali importi costituiscono solo
una parte della retribuzione, al cui pagamento il datore di lavoro continua ad essere
interamente obbligato in base alla disciplina generale delle obbligazioni e dei contratti
con prestazioni corrispettive, trovandosi in una situazione di "mora credendi" rispetto
ad una sospensione unilateralmente da lui disposta, in difetto del relativo potere.
Conseguentemente, la persistenza dell'obbligo retributivo in capo al datore di lavoro
in caso di sospensione dell'attività lavorativa non seguita da intervento della c.i.g.
comporta necessariamente l'assoggettamento a contribuzione previdenziale e
assicurativa delle somme che risultano corrisposte a titolo di anticipazione
dell'integrazione salariale, ma sono da imputare definitivamente alla retribuzione
contrattualmente dovuta.(In applicazione di tale principio la S.C. ha confermato la
sentenza impugnata che aveva escluso che dette somme potessero essere qualificate
come atti di liberalità, ai sensi dell'art. 12 della legge n. 153 del 1969, per il solo fatto
che fossero state oggetto di accordo transattivo). (Rigetta, App. Caltanissetta,
18/02/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 maggio 2010, n. 12746
L'anticipazione dell'indennità di mobilità, prevista dall'art. 7, comma quinto, della
legge n. 223 del 1991 in favore dei lavoratori che ne facciano richiesta per
81
intraprendere una attività lavorativa autonoma, risponde alla "ratio" di indirizzare il
più possibile il disoccupato in mobilità verso attività autonome, al fine precipuo di
ridurre la pressione sul mercato del lavoro subordinato, così perdendo la sua
connotazione di tipica prestazione di sicurezza sociale, e configurandosi non già come
funzionale a sopperire ad uno stato di bisogno, ma come un contributo finanziario,
destinato a sopperire alle spese iniziali di un'attività che il lavoratore in mobilità
svolge in proprio, e che il lavoratore, in caso di rioccupazione alle altrui dipendenze
entro 24 mesi dalla corresponsione delle somme, deve restituire. Ne consegue che, in
ipotesi di temporanea intervenuta rioccupazione quale lavoratore subordinato durante
i ventiquattro mesi successivi all'erogazione dell'anticipazione, le somme percepite
dal lavoratore devono essere restituite per intero, e non solo in proporzione alla durata
di tale rioccupazione. (Cassa e decide nel merito, App. Lecce, 28/03/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 10 maggio 2010, n. 11254
La comunicazione aziendale di avere una contrazione dell'attività produttiva non è
sufficiente per collocare i dipendenti in Cassa integrazione. Il datore di lavoro, infatti,
è tenuto a mettere il sindacato in condizione di valutare preventivamente, di
concordare i criteri di scelta dei lavoratori da sospendere e di verificare la possibilità
di applicare o meno la rotazione. In mancanza di tutto questo, i lavoratori colpiti dal
provvedimento possono ottenere il ripristino del rapporto e il pagamento della
retribuzione piena e non integrata.
Cass. civ. Sez. lavoro, 30 aprile 2010, n. 10512
In tema di cassa integrazione guadagni, il datore di lavoro che abbia provveduto a
favore dei lavoratori all'anticipazione di somme in misura superiore a quelle che è
possibile conguagliare con i contributi dovuti all'INPS, nel periodo di riferimento ai
sensi dell'art. 12 del d.lgs.lgt. n. 788 del 1945, è tenuto a richiedere il rimborso delle
integrazioni corrisposte, nell'ammontare eccedente la parte conguagliata con i
contributi, nel termine decadenziale di sei mesi a far data dalla fine del periodo di
paga in corso alla scadenza del termine di durata della concessione, il cui decorso non
è impedito dall'invio di un modello DM/10 nel quale venga indicato soltanto l'importo
dei contributi da conguagliare e non l'importo complessivo delle somme anticipate
ancorché il predetto modello DM/10 contenga un esplicito riferimento ai
provvedimenti autorizzatori dell'intervento della cassa integrazione ordinaria in base
ai quali sono state effettuate le anticipazioni salariali. (Cassa e decide nel merito,
App. Lecce, 24/10/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 29 marzo 2010, n. 7519
Ai fini della sussistenza di un licenziamento collettivo e della applicabilità della
relativa disciplina, il termine licenziamento va inteso in senso tecnico, non potendo ad
esso parificarsi qualunque altro tipo di cessazione del rapporto determinata (anche o
soltanto) da una scelta del lavoratore, come nelle ipotesi di dimissioni, risoluzioni
concordate, o prepensionamenti, anche ove tali forme di cessazione del rapporto siano
riconducibili alla medesima operazione di riduzione delle eccedenze della forza
lavoro che giustifica il ricorso ai licenziamenti. (Rigetta, App. Napoli, 20/02/2006).
82
Cass. civ., Sez. lav., 22 marzo 2010, n. 6849.
In materia di licenziamento collettivo, l’onere della prova della sussistenza dei
requisiti prescritti dall’art. 24, l. n. 223 del 1991 incombe sulla parte (datore di lavoro
o lavoratore) che sostenga che il licenziamento presenti i requisiti indicati dalla
norma, senza che rilevi la diversa ripartizione dell’onere probatorio prevista dall’art.
5, l. n. 604 del 1966, in tema di prova della giusta causa o del giustificato motivo,
attesa l’inapplicabilità della predetta normativa dai licenziamenti per riduzione di
personale (art. 11 l. n. 604 cit.) (nella specie, la suprema corte ha confermato la
decisione della corte territoriale che aveva escluso l’applicabilità della disciplina sulle
riduzioni del personale per non aver il lavoratore assolto l’onere della prova del
recesso di almeno cinque dipendenti nell’arco di centoventi giorni).
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 marzo 2010, n. 6841
Il criterio di scelta dei dipendenti da porre in cassa integrazione ed in mobilità,
determinato nel rispetto delle procedure previste dagli artt. 4 e 5 della l. 23 luglio
1991, n. 223, non può essere successivamente disapplicato o modificato, travalicando
gli ambiti originariamente previsti, non essendo consentito che in tale spazio
temporale l'individuazione dei singoli destinatari dei provvedimenti datoriali venga
lasciata all'iniziativa ed al mero potere discrezionale dell'imprenditore, in quanto ciò
pregiudicherebbe l'interesse dei lavoratori ad una gestione trasparente ed affidabile
della mobilità e della riduzione del personale. (Rigetta, App. Napoli, 07/02/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 marzo 2010, n. 6741
In tema di cassa integrazione guadagni, ai fini della decadenza del diritto al
trattamento integrativo salariale è sufficiente lo svolgimento di una attività lavorativa
suscettibile di produrre reddito, restando irrilevante che si tratti di attività non
retributiva o che l'attività sia qualificabile come autonoma o subordinata, dovendosi
ritenere che la "ratio" dell'art. 3 del d.lgs.lgt. n. 788 del 1945, applicabile "ratione
temporis", sia quella di evitare l'erogazione del trattamento integrativo in
concomitanza con lo svolgimento di un'attività sostitutiva di quella sospesa. (Rigetta,
App. L'Aquila, 04/05/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 8 febbraio 2010, n. 2734
In tema di licenziamenti collettivi, l'art. 24 della legge n. 223 del 1991 disciplina il
licenziamento collettivo per riduzione di personale in modo diverso dal licenziamento
collettivo preceduto dalla mobilità (c.d. licenziamento collettivo "post mobilità")
previsto dall'art. 4 della medesima legge, richiamando solo alcune delle disposizioni a
quest'ultimo applicabili, con esclusione del requisito numerico previsto dall'art. 4,
comma 1, della legge n. 223 cit. (cinque licenziamenti in 120 giorni per ciascuna
unità produttiva). Né le disposizioni dell'art. 4 citato non richiamate espressamente
dall'art. 24 cit. possono essere applicate analogicamente, a causa del carattere
eccezionale della regolamentazione del licenziamento "post mobilità", il quale rende
necessaria l'utilizzazione di criteri analoghi a quelli adottati per l'interpretazione
dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970. (Cassa e decide nel merito, App. Firenze,
17/11/2005).
83
Cass. civ. Sez. lavoro, 8 febbraio 2010, n. 2734
All'esito della procedura di Cassa integrazione straordinaria, l'imprenditore non deve
rispettare il disposto dell'art. 24 della legge n. 223/1991, ossia non è tenuto, all'atto
dell'intimazione del licenziamento collettivo, a rispettare il requisito numerico dei
cinque licenziamenti nell'arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in
più unità produttive nell'ambito del territorio di una stessa provincia, potendo
procedere al licenziamento anche di un solo dipendente.
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 febbraio 2010, n. 2616
In tema di contributo collegato alla messa in mobilità del personale, ove il datore di
lavoro, nel contestare la pretesa dell'INPS a ricevere nella sua interezza detto
contributo, invochi la riduzione dell'onere economico su di sé gravante, in
applicazione dell'art. 5, comma 5, della legge 23 luglio 1991, n. 223 - per cui non
sono dovute all'Istituto le rimanenti rate del trattamento di mobilità per quei lavoratori
che abbiano rifiutato offerte di lavoro, sempre che l'impresa che li abbia collocati in
mobilità non presenti assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli
dell'impresa che assume ovvero risulti con quest'ultima in rapporto di collegamento o
controllo (secondo quanto previsto dall'art. 8, comma 4-bis, della stessa legge n. 223
del 1991) - spetta ad esso stesso dimostrare che ricorrono le condizioni richieste dalla
legge per avere diritto alla riduzione anzidetta. (Cassa con rinvio, App. Torino,
15/11/2005)
***
U. Le dimissioni del lavoratore
Cass. civ. Sez. lavoro, 13 dicembre 2010, n. 25138
L'atto di dimissioni, nel realizzare il diritto potestativo di recesso del lavoratore,
idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro indipendentemente dalla
volontà del datore di lavoro, non sopporta una condizione risolutiva, che
inammissibilmente porrebbe nel nulla un effetto risolutivo già avvenuto, ma ben può
contenere una condizione sospensiva, permessa dal principio generale di libertà
negoziale. (Nella specie, relativa alla cessazione, per dimissioni volontarie, del
rapporto lavorativo di un dirigente di una società, titolare di azioni della stessa, la
S.C. ha ritenuto ammissibile l'apposizione, all'atto di dimissioni del detto dirigente,
della condizione sospensiva del trasferimento ad altra società delle azioni di cui il
medesimo era titolare). (Rigetta, App. Genova, 19/04/2006)
Cass. civ. Sez. lavoro, 1 dicembre 2010, n. 24363
La violenza morale esercitabile dal datore di lavoro, che può determinare
l'annullabilità delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, può esprimersi secondo
modalità variabili e indefinite, anche non esplicite; può agire anche solo come
84
concausa, ed essere ravvisata nella minaccia dell'esercizio di un diritto, quando la
relativa prospettazione sia immotivata e strumentale. (Nella specie, il datore di lavoro
aveva disposto il trasferimento di un dipendente in una sede lontana dal suo luogo di
residenza e il lavoratore aveva rassegnato le dimissioni al fine di evitare il
trasferimento ed il connesso mutamento di mansioni, ed aveva poi impugnato in
giudizio l'atto risolutivo; la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva
escluso la configurabilità di una coartazione della volontà del dipendente nella
determinazione di rassegnare le dimissioni, riscontrando anzi l'attribuzione al
lavoratore di mensilità aggiuntive quale incentivo all'esodo). (Rigetta, App.
Catanzaro, 16/01/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 11 novembre 2010, n. 22901
Nel caso in cui non sia prevista alcuna forma convenzionale per il recesso del
lavoratore, un determinato comportamento da lui tenuto può essere tale da esternare
esplicitamente, o da lasciar presumere (secondo il principio dell'affidamento), una sua
volontà di recedere dal rapporto di lavoro, restando incensurabile in sede di
legittimità il relativo accertamento del giudice di merito, ove congruamente motivato.
In ogni caso nel giudizio promosso dal lavoratore al fine di impugnare un dedotto
licenziamento, l'indagine circa la sussistenza di dimissioni del lavoratore deve essere
rigorosa, essendo in discussione beni giuridici primari, oggetto di particolare tutela da
parte dell'ordinamento, sicché occorre accertare che da parte del lavoratore sia stata
manifestata in modo univoco l'incondizionata volontà di porre fine al rapporto.
(Rigetta, App. Ancona, 04/04/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 14 aprile 2010, n. 8886
In caso di dimissioni presentate dal lavoratore in stato di incapacità naturale, il diritto
a riprendere il lavoro sorge con la sentenza di annullamento ai sensi dell'art. 428 cod.
civ., i cui effetti retroagiscono al momento della domanda giudiziaria in applicazione
del principio generale secondo cui la durata del processo non deve andare a
detrimento della parte vincitrice. Ne consegue che anche il diritto alle retribuzioni
maturate sorge solo dalla data della domanda giudiziale, dovendosi escludere che
l'efficacia totalmente ripristinatoria dell'annullamento del negozio unilatelare
risolutivo del rapporto di lavoro si estenda al diritto alla retribuzione che, salvo
diversa espressa eccezione di legge, non è dovuta in mancanza dell'attività lavorativa.
(Cassa e decide nel merito, App. Roma, 08/08/2005)
***
V. L’attività sindacale
Cass. civ. Sez. lavoro, 12 novembre 2010, n. 23038
In tema di repressione della condotta antisindacale, ai sensi dell'art. 28 della legge n.
300 del 1970, il solo esaurirsi della singola azione lesiva del datore di lavoro non può
precludere l'ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo ove
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questo, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi, risulti
tuttora persistente e idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata
intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, suscettibile di
determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio
dell'attività sindacale. L'accertamento in ordine alla attualità della condotta
antisindacale e alla permanenza dei suoi effetti costituisce un accertamento di fatto,
demandato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da
adeguata motivazione, immune da vizi logici o giuridici. (Rigetta, App. Catanzaro,
05/09/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 5 agosto 2010, n. 18260
In tema di rappresentanze sindacali aziendali, l'art. 19, primo comma, lett. b), della
legge n. 300 del 1970 va interpretato - in linea con quanto affermato dalla Corte
costituzionale con sentenza n. 244 del 1996, nel senso che, a fini della individuazione
delle associazioni sindacali legittimate ad ottenere la costituzione delle
rappresentanze sindacali aziendali, non è sufficiente la mera adesione formale ad un
contratto negoziato da altra associazione ma è necessaria una partecipazione attiva al
processo di formazione del contratto, assumendo rilievo la capacità del sindacato di
imporsi al datore di lavoro come controparte contrattuale. (Fattispecie relativa al
sindacato unitario lavoratori trasporti con riferimento ai contratti collettivi sottoscritti
con Alitalia Airport). (Rigetta, App. Roma, 26/10/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 luglio 2010, n. 17217
In tema di diritto dei lavoratori a riunirsi in assemblea durante l'orario di lavoro, il
limite temporale di dieci ore annue retribuite, previsto dall'art. 20, primo comma,
della legge n. 300 del 1970 con salvezza delle migliori condizioni previste dalla
contrattazione collettiva, va riferito alla generalità dei lavoratori dell'unità produttiva
e non ai singoli lavoratori, e nella suddivisione del monte ore tra organizzazioni e
rappresentanze sindacali trova applicazione il criterio della prevenzione nelle
convocazioni, dovendo escludersi che l'accordo interconfederale 20 dicembre 1993
(che ha riservato sette ore annuali di assemblea retribuita alle RSU e le ulteriori tre
ore ai sindacati stipulanti il c.c.n.l. applicato nell'unità produttiva) abbia attribuito il
monte ore complessivo a ciascuna organizzazione sindacale. Né tale disciplina
contrasta con i principi costituzionali di uguaglianza, ragionevolezza, tutela sindacale
e tutela dei lavoratori, non avendo essa ad oggetto il diritto all'assemblea in sé, ma
quello all'assemblea retribuita, e dovendosi giustapporre a tali principi quelli della
tutela della proprietà e del diritto di impresa. (Rigetta, App. Torino, 18/04/2005).
Cass. pen. Sez. V, 18 marzo 2010, n. 20722
Le prove di reato acquisite, nei confronti di un dipendente, mediante videoriprese
effettuate con telecamere installate sul luogo di lavoro sono utilizzabili nel
procedimento penale, non rientrandosi nella fattispecie del "controllo a distanza"
dell'attività dei lavoratori, vietato, in assenza di autorizzazione sindacale o
amministrativa, dagli art. 4 e 38 dello statuto dei lavoratori - legge 20 maggio 1970,
n. 300 - bensì in quella dei controlli c.d. difensivi, legittimi in quanto finalizzati alla
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tutela del patrimonio aziendale da condotte illecite esulanti lo svolgimento di attività
lavorativa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 marzo 2010, n. 5209
Ai fini dell'accertamento della legittimazione ad agire per la repressione della
condotta antisindacale, riservata agli organismi locali delle associazioni sindacali
nazionali che vi abbiano interesse, è necessario il concreto riscontro di un'attività
sindacale di carattere nazionale, da verificarsi con specifico riferimento al settore
produttivo cui appartiene l'azienda verso la quale l'associazione intenda agire; assume
rilievo la stipula di un contratto collettivo di livello nazionale ovvero ogni altro
elemento indicativo in concreto di un'attività sindacale al suddetto livello e non il
mero dato formale delle risultanze dello statuto dell'associazione, che di per sé è
rappresentativo solo di un prefigurato obiettivo o di un'autoqualificazione del
sindacato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 marzo 2010, n. 5209
In tema di repressione della condotta antisindacale, ai fini del riconoscimento del
carattere "nazionale" dell'associazione sindacale legittimata all'azione ex art. 28 stat.
lav., non assume decisivo rilievo il mero dato formale dello statuto dell'associazione
(che affermi il carattere nazionale del sindacato), quanto piuttosto la capacità di
contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi, anche gestionali, che
trovino applicazione in tutto il territorio nazionale in riferimento al settore produttivo
al quale appartiene l'azienda nei confronti della quale il sindacato intenda promuovere
il procedimento, e attestino un generale e diffuso collegamento del sindacato con il
contesto socio-economico dell'intero paese, di cui la concreta ed effettiva
organizzazione territoriale si configura quale elemento di riscontro del suo carattere
nazionale piuttosto che come elemento condizionante. (Nella specie, la S.C. ha
cassato la decisione della corte territoriale che aveva ritenuto irrilevante, nel valutare
il carattere "nazionale" del sindacato ricorrente, la circostanza del mancato
svolgimento di attività sindacale a livello nazionale in riferimento alla categoria dei
lavoratori marittimi, attribuendo, invece, rilievo all'enunciazione del carattere
nazionale nello Statuto del sindacato, S.I.N. Cobas). (Cassa con rinvio, Trib. Napoli,
04/09/2005)
***
W. Rapporto previdenziale
Cass. civ. Sez. lavoro, 16 dicembre 2010, n. 25460
In tema di accredito figurativo per maternità per i periodi corrispondenti all'astensione
obbligatoria dal lavoro svoltisi fuori dal rapporto di lavoro, l'art. 2, comma 504, legge
24 dicembre 2007, n. 244, ha - come affermato dalla Corte costituzionale con la
sentenza n. 71 del 26 febbraio 2010 - natura di interpretazione autentica dell'art. 25
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del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151. Ne consegue che detto beneficio previdenziale è
attribuito, con efficacia retroattiva, anche per il periodo di vigenza del d.lgs. 16
settembre 1996, n. 564, esclusivamente a coloro che, alla data di operatività della
disposizione poi oggetto di interpretazione autentica (27 aprile 2001), risultavano
iscritti al fondo pensione lavoratori dipendenti e non anche a chi già fruiva di un
trattamento pensionistico, dovendosi intendere la nozione di "iscritto" contenuta
nell'art. 25 cit. riferibile solo ai lavoratori ancora in attività al momento della
domanda di riconoscimento della contribuzione figurativa. (Rigetta, App. Firenze,
21/05/2008).
Cass. civ. Sez. lavoro, 7 dicembre 2010, n. 24803
Le sanzioni civili e l'obbligazione al pagamento per gli interessi conseguenti
all'omesso o tardivo versamento dei contributi previdenziali costituiscono un effetto
automatico "ex lege" dell'inadempimento senza che rilevi la sussistenza o meno del
diritto ad ottenere il rimborso di detti contributi ai sensi dell'art. 20 della legge3
gennaio 1981, n. 6. (Rigetta, App. Sassari, 22/02/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 1 dicembre 2010, n. 24355
Ove il lavoratore sia titolare di una posizione assicurativa presso varie gestioni dei
lavoratori autonomi, ovvero presso una di queste e la gestione per i lavoratori
dipendenti, il limite massimo di quaranta anni di contribuzione (pari a 2080
settimane) utilmente valutabile opera non solo nell'ambito di ciascuna delle gestioni
presso cui sono versati i contributi ma anche rispetto al cumulo delle quote calcolate
per ogni gestione. Tale conclusione, pur non espressamente affermata dalla legge n.
233/1990, art. 16, risponde ad una interpretazione logico- sistematica, atteso che la
norma, nel prevedere il cumulo dei periodi assicurativi versati nelle diverse gestioni,
riconduce il sistema pensionistico ad una concezione unitaria, caratterizzata da regole
uniformi che si traducono in un cumulo contributivo effettivo e non meramente
virtuale, con la liquidazione di una pensione unica e non di pensioni diverse collegate
funzionalmente; né, per contro, può assumere valore ostativo la circostanza che, per
uno dei trattamenti, la liquidazione sia effettuata con il sistema cosiddetto retributivo,
la cui introduzione è avvenuta in contemporanea all'adozione, sia per il fondo
lavoratori dipendenti che per i fondi speciali dei lavoratori autonomi, del limite
massimo di anni di contribuzione, destinato ad operare, attraverso la tendenziale
valorizzazione dei livelli di retribuzione degli anni più favorevoli, proprio quale
limite ai benefici pensionistici conseguenti all'applicazione del sistema retributivo.
Cass. civ. Sez. V, 24 novembre 2010, n. 23793
L'art. 48, comma 2, lett. a) (ora art. 51, comma 2, lett. a, primo periodo), del Tuir D.P.R. n. 917/1986, laddove dispone che non concorrono a formare reddito
imponibile i contributi previdenziali ed assistenziali versati dal datore di lavoro o dal
lavoratore in ottemperanza a disposizioni di legge, limita con evidenza l'esenzione ai
contributi versati in dipendenza di un rapporto di lavoro, con esclusione di ogni altro
tipo di contributo, a prescindere da eventuali affinità sostanziali con quelli
considerati, e quindi di quelli legati a trattamenti vitalizi derivanti, non da lavoro,
bensì dall'esercizio di cariche pubbliche.
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Cass. civ. Sez. lavoro, 9 novembre 2010, n. 22739
Nella retribuzione imponibile a fini previdenziali, a norma della legge 30 aprile 1969,
n. 153, nel testo vigente fino al 31 dicembre 1997 ed oggi sostituito dal d.lgs. 2
settembre 1997, n. 314, devono essere comprese tutte le erogazioni (in denaro o in
natura) provenienti dal datore di lavoro, che trovino la loro giustificazione nella
costanza del rapporto di lavoro, con la sola esclusione delle somme erogate per uno
dei titoli tassativamente elencati nel capoverso della norma. Ne consegue che le
cosiddette differenze di canone, corrisposte al lavoratore in base alla contrattazione
collettiva per sollevarlo parzialmente dagli oneri della locazione dell'immobile
messogli a disposizione a fini abitativi dal datore di lavoro, sono da ricomprendere
nel suddetto concetto limitatamente al periodo temporale non travalicante la data del
31 dicembre 1997, mentre, per il periodo successivo, ai sensi dell'art. 6 del d.lgs. n.
314 del 1997, i contributi debbono essere corrisposti sulla differenza tra la rendita
catastale, aumentata di tutte le spese inerenti al fabbricato stesso, ivi comprese le
utenze non a carico dell'utilizzatore, e il canone corrisposto. (Cassa con rinvio, App.
Firenze, 29/09/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 29 settembre 2010, n. 20425
In applicazione dell'art. 2, comma 1 della legge n. 29 del 1979, dettato in tema di
ricongiunzione dei contributi versati in Gestioni diverse, il contribuente ha la
possibilità di convogliare, ricongiungere, appunto, la contribuzione versata presso il
fondo lavoratori dipendenti dell'I.N.P.S., o quella versata nelle forme esclusive,
sostitutive ed esonerative, ovvero presso le Gestioni Inps dei lavoratori autonomi, in
un'unica Gestione, da individuare in quella in cui risulti iscritto all'atto in cui presenta
la relativa domanda ovvero in quella, diversa, che lo stesso preferisca, a condizione
che vi risultino versati almeno otto anni di contributi in costanza di prestazione
lavorativa. Dal tenore letterale della norma in parola si deve desumere che al
lavoratore sia attribuita espressamente una facoltà di scelta, ricorrendone i
presupposti (otto anni di iscrizione nella gestione diversa da quella in cui è iscritto
all'attualità), in ordine alla ricongiunzione della contribuzione in una Gestione
piuttosto che in un'altra. Deve pertanto ritenersi illegittimo, come nel caso specifico,
il rifiuto dell'I.N.P.S. di trasferire, come legittimamente domandato dal contribuente, i
contributi versati nella Gestione separata dipendenti (sua ultima gestione di
appartenenza), presso la Gestione "commercianti" (una delle Gestioni di lavoratori
autonomi) alla quale era stato iscritto per moltissimi anni (per quel che rileva più di
otto) adducendo, come motivazione al diniego, un'interpretazione della norma citata
(che illegittimamente ed immotivatamente si discosta dal dato letterale) in virtù della
quale la stessa avrebbe consentito solo il trasferimento nelle Gestioni pensionistiche
dei lavoratori dipendenti i contributi versati nelle altre Gestioni ma non viceversa
(interpretazione che, all'evidenza, limiterebbe in maniera assolutamente ingiustificata
quella facoltà di scelta, attribuita al contribuente, summenzionata).
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 luglio 2010, n. 17526
L'art. 5 del d.lgs. n. 80 del 1992, nel prevedere l'intervento del fondo di Garanzia
costituito presso l'INPS per l'integrazione dei contributi omessi o insufficientemente
versati dal datore di lavoro presso gli enti gestori di forme di previdenza
complementare, si riferisce, in via esclusiva, alla pensione di vecchiaia che il
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dipendente o i superstiti non siano riusciti a costituire a causa dell'inadempienza
contributiva, consistendo, perciò, l'obbligo del Fondo - in coerenza con gli intenti
della direttiva comunitaria n. 80 del 1987 (cfr. Corte Giust. 25 gennaio 2007, n. 278
del 2005) - nell'integrazione dei contributi nella misura necessaria per la costituzione
della predetta prestazione per l'ipotesi in cui il lavoratore o i superstiti non abbiano
recuperato, mediante l'insinuazione nel fallimento, la contribuzione minima richiesta.
Né tale previsione comporta dubbi di illegittimità costituzionale, in relazione alla più
favorevole disciplina prevista dall'art. 3 del medesimo d.lgs. per le prestazioni
dell'assicurazione generale obbligatoria, poiché la limitazione della tutela trova
giustificazione - nell'ambito dei diversi livelli di protezione sociale garantiti dall'art.
38 Cost. - nella finalità propria della previdenza complementare, consistente nel
mantenimento del tenore di vita raggiunto durante l'occupazione lavorativa. (Cassa e
decide nel merito, App. Catania, 30/12/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 luglio 2010, n. 17223
In tema d'interposizione nelle prestazioni di lavoro, qualora i contributi previdenziali
siano stati versati da soci di una società cooperativa che si sia fittiziamente interposta
nel rapporto di lavoro subordinato in realtà svolto alle dipendenze d'altro soggetto, il
versamento eseguito non estingue l'obbligo contributivo dell'effettivo datore di lavoro
che non può invocare ai sensi dell'art. 1180 cod. civ. l'adempimento dell'obbligo del
terzo mentre i lavoratori (soci della cooperativa) hanno diritto alla ripetizione di
quanto ad essi indebitamente ritenuto. (Rigetta, App. Torino, 16/11/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 10 maggio 2010, n. 11261
In tema di obbligazioni contributive nei confronti delle gestioni previdenziali ed
assistenziali, l'omessa denuncia all'INPS di lavoratori, ancorché registrati nei libri
paga e matricola, configura l'ipotesi di "evasione contributiva" di cui all'art. 116,
comma 8, lett. B), della legge n. 388 del 2000 e non la meno grave fattispecie di
"omissione contributiva" di cui alla lettera A) della medesima norma, che riguarda le
sole ipotesi in cui il datore di lavoro, pur avendo provveduto a tutte le denunce e
registrazioni obbligatorie, ometta il pagamento dei contributi, dovendosi ritenere che
l'omessa denuncia dei lavoratori all'INPS faccia presumere l'esistenza della volontà
del datore di occultare i rapporti di lavoro al fine di non versare i contributi, e
gravando sul medesimo l'onere di provare la sua buona fede, che non può reputarsi
assolto in ragione della mera registrazione dei lavoratori nei libri paga e matricola,
che restano nell'esclusiva disponibilità del datore stesso e sono oggetto di verifica da
parte dell'istituto previdenziale solo in occasione delle ispezioni. (Rigetta, App.
Palermo, 09/12/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 10 maggio 2010, n. 11262
L'indennità sostitutiva di ferie non godute è assoggettabile a contribuzione
previdenziale a norma dell'art. 12 della legge n. 153 del 1969, sia perché, essendo in
rapporto di corrispettività con le prestazioni lavorative effettuate nel periodo di tempo
che avrebbe dovuto essere dedicato al riposo, ha carattere retributivo e gode della
garanzia prestata dall'art. 2126 cod. civ. a favore delle prestazioni effettuate con
violazione di norme poste a tutela del lavoratore sia perché un eventuale suo
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concorrente profilo risarcitorio - oggi pur escluso dal sopravvenuto art. 10 del d.lgs.
n. 66 del 2003, , come modificato dal d.lgs. n. 213, del 2004, , in attuazione della
direttiva n. 93/104/CE - non escluderebbe la riconducibilità all'ampia nozione di
retribuzione imponibile delineata dal citato art. 12, costituendo essa comunque
un'attribuzione patrimoniale riconosciuta a favore del lavoratore in dipendenza del
rapporto di lavoro e non essendo ricompresa nella elencazione tassativa delle
erogazioni escluse dalla contribuzione. (Rigetta, App. Venezia, 06/07/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 13 aprile 2010, n. 8760
L'art. 1 della legge n. 335 del 1995, di riforma del regime pensionistico a carico
dell'assicurazione generale obbligatoria, nell'introdurre la determinazione della
pensione secondo il sistema contributivo, ha compiutamente disciplinato il sistema di
liquidazione delle pensioni ivi contemplate, prevedendo - ai commi 12 e 13 - a favore
dei lavoratori che, alla data del 31 dicembre 1995, potevano far valere una anzianità
contributiva, il mantenimento del sistema retributivo previgente ovvero, ove
l'anzianità maturata fosse inferiore a diciotto anni, la liquidazione secondo il sistema
"pro rata" e consentendo l'integrale determinazione della pensione secondo il nuovo
regime solo nei casi e alle condizioni previste dal secondo periodo del successivo
comma 23, come autenticamente interpretato dall'art. 2, comma 1, del d.l. n. 355 del
2001, convertito nella legge n. 417 del 2001, consistenti nell'aver "maturato
un'anzianità contributiva pari o superiore a quindici anni, di cui almeno cinque nel
sistema contributivo". Ne consegue che, in mancanza di tali condizioni, non è
possibile, per i lavoratori che alla data di passaggio al nuovo regime avevano già
maturato un'anzianità contributiva, ottenere - anche nel caso in cui siano fatti valere i
soli contributi maturati successivamente al 1 gennaio 1996 - l'integrale liquidazione
secondo il sistema contributivo, dovendosi escludere l'estensibilità della disciplina
prevista dall'art. 1, commi 19 e 20, della medesima legge di riforma, la cui
applicazione è riservata ai soli lavoratori "i cui trattamenti pensionistici sono liquidati
esclusivamente secondo il sistema contributivo". Né possono ravvisarsi dubbi di
costituzionalità atteso che l'elemento temporale è legittimo criterio di discrimine
allorquando intervenga a delimitare le sfere di applicazione di norme nell'ambito
complessivo della disciplina di una determinata materia (v. sentenza della Corte Cost.
n. 77/2008). (Cassa e decide nel merito, App. Milano, 25/07/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 9 aprile 2010, n. 8451
Il pagamento dei contributi previdenziali da parte del datore di lavoro "apparente"
estingue il debito con l'Inps anche nei confronti dell'imprenditore effettivo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2010, n. 8252
In tema di trasferimento presso l'INPS della contribuzione versata presso il Fondo
elettrici, l'art. 3, comma 14, del d.lgs. n. 562 del 1996 ha previsto che, una volta
cessata l'iscrizione obbligatoria o volontaria al Fondo speciale, la posizione
assicurativa acquisita può essere trasferita al Fondo per i lavoratori dipendenti gestito
dall'INPS nell'assicurazione generale obbligatoria (A.G.O.) soltanto a domanda degli
iscritti (o dei loro superstiti) solo se non sia già intervenuta la liquidazione della
pensione eventualmente spettante a carico del Fondo medesimo. Ne consegue che la
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domanda di trasferimento nel Fondo A.G.O. per i lavoratori dipendenti ha carattere
costitutivo, dovendosi ritenere, ove l'interessato non abbia esercitato la relativa
opzione, che - in applicazione dell'art. 41 della legge n. 488 del 1999 che ha
soppresso il Fondo speciale - continuino ad applicarsi le regole previste dalla
normativa vigente ed i criteri di calcolo delle pensioni in riferimento alle anzianità
maturate nel Fondo stesso. (Rigetta, App. Torino, 03/04/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 marzo 2010, n. 7194
In materia di contribuzione previdenziale, il richiamo operato dall'art. 1 del d.l. n. 338
del 1989, convertito nella legge n. 389 del 1989, alla retribuzione prevista dai
contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base
nazionale se superiore a quella fissata dai contratti individuali o dagli accordi
aziendali, impone di assumere la contrattazione collettiva quale parametro per il
calcolo dei contributi. Ne consegue che, ove il contratto individuale preveda una
retribuzione meno elevata rispetto al contratto collettivo, il datore di lavoro è tenuto a
pagare i contributi anche sulle differenze tra salario percepito e quello fissato dalla
contrattazione collettiva di settore. (Fattispecie relativa ai contributi relativi al
rapporto di lavoro delle suore impiegate in una clinica privata che, in base ad una
convenzione, percepivano una retribuzione inferiore a quella prevista dalla
contrattazione collettiva). (Cassa con rinvio, App. Venezia, 13/01/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 24 marzo 2010, n. 7043
L'azione od eccezione con la quale l'I.N.P.S. intenda far accertare la nullità, totale o
parziale, della posizione previdenziale di un lavoratore, per inesistenza del rapporto di
lavoro sottostante, è imprescrittibile, ai sensi dell'art. 1422 cod. civ., ancorché sia
assoggettata a prescrizione decennale, ai sensi dell'art. 2946 cod. civ., l'azione di
ripetizione dei contributi indebitamente versati. (Cassa con rinvio, App. Venezia,
31/08/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 18 marzo 2010, n. 6568
La facoltà di riscatto dei periodi di lavoro prestato all'estero senza copertura
assicurativa, prevista dall'art. 51, secondo comma, della legge n. 153 del 1969, va
esercitata nei modi previsti dall'art. 13 della legge n. 1338 del 1962, che, all'ultimo
comma, stabilisce l'obbligo del datore di lavoro o del lavoratore di versare all'INPS la
riserva matematica "calcolata in base alle tariffe che saranno determinate e variate,
quando occorra, con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale". Ne
consegue che la decorrenza della pensione non coincide necessariamente con il
momento dell'esercizio della facoltà di riscatto, dovendosi ritenere tempestivi i
contributi versati ai sensi del citato art. 13 in corrispondenza dei periodi cui si
riferisce la mancanza di contribuzione, fermo restando che la costituzione della
rendita presuppone il versamento, oltre alla riserva matematica, anche del capitale
necessario alla copertura delle quote di pensione per il periodo compreso tra la data di
decorrenza di quest'ultima e la data della domanda. (Rigetta, App. Roma,
22/11/2005).
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Cass. civ. Sez. lavoro, 16 marzo 2010, n. 6340
La facoltà riconosciuta dall'art. 22, comma 11, del d.lgs. n. 286 del 1998 (nel testo
vigente "ratione temporis"), ai lavoratori extracomunitari, che abbiano cessato
l'attività lavorativa in Italia e lascino il territorio nazionale, di richiedere, nei casi in
cui la materia non sia regolata da convenzioni internazionali, la liquidazione dei
contributi che risultino versati in loro favore presso forme di previdenza obbligatoria
maggiorati del 5 per cento annuo, compete solo nel caso in cui la cessazione
dell'attività lavorativa ed il trasferimento dal territorio nazionale abbiano carattere di
definitività. L'accertamento delle situazioni idonee a qualificare in tal senso il
trasferimento spetta al giudice di merito, e il relativo apprezzamento, se correttamente
motivato, è esente da sindacato di legittimità. (Nella specie la Corte ha cassato la
sentenza impugnata che aveva respinto la domanda in quanto il lavoratore non aveva
dato prova dell'autorizzazione all'ingresso ed alla residenza in altro Paese, omettendo
di valorizzare la restituzione, da parte del lavoratore extracomunitario, del permesso
di soggiorno al consolato italiano e del libretto di lavoro all'Inps). (Cassa e decide nel
merito, App. Venezia, 19/06/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 10 marzo 2010, n. 5811
In tema di prescrizione del diritto ai contributi di previdenza e di assistenza
obbligatoria, il principio secondo cui, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 3,
commi 9 e 10, della legge n. 335 del 1993, che ha introdotto il nuovo regime per la
prescrizione dei contributi relativi a periodi precedenti, opera, al di fuori dei casi di
conservazione del precedente termine decennale, il nuovo termine di prescrizione più
breve, con decorrenza dal 1° gennaio 1996, trova applicazione anche nel caso,
contemplato dal comma 9, lett. a), ultima parte, dell'art. 3 cit., di denuncia da parte
del lavoratore del mancato versamento dei contributi all'Istituto previdenziale, con la
conseguenza che, in relazione ai contributi dovuti per anni anteriori all'entrata in
vigore della legge, il termine entro il quale la denuncia dev'essere inoltrata è quello di
cinque anni dal 31 dicembre 1996, potendo però detto termine essere inferiore, in
applicazione della regola generale di cui all'art. 252 disp. att. cod. civ., se tale è il
residuo del più lungo termine determinato secondo il regime precedente, e che il
diritto alla riscossione si prescrive entro il quinquennio dalla denuncia del lavoratore.
(Cassa con rinvio, App. Roma, 15/12/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 23 febbraio 2010, n. 4369
In tema di previdenza complementare, il diritto al riscatto delle quote, previsto
dall'art. 10, lett. c), del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124 (in alternativa al trasferimento del
capitale accumulato ad altro fondo chiuso o al trasferimento ad un fondo aperto) in
favore degli iscritti a fondi preesistenti che abbiano cessato il rapporto senza
maturazione del diritto a pensione in epoca successiva all'entrata in vigore della
legge, non trova applicazione in riferimento a forme di previdenza integrativa basate
su un sistema a ripartizione (nel senso che la misura della prestazione erogata non è
calcolata in rapporto con l'insieme dei contributi versati nel tempo dal singolo
lavoratore o per suo conto), non essendo nelle stesse configurabili posizioni
individuali soggette a capitalizzazione, e non essendo detta disposizione inclusa tra
quelle per le quali l'art. 18 del d.lgs. cit. prevede precisi termini di adeguamento nei
confronti dei fondi preesistenti, ai quali è pertanto demandato il compito di
93
riorganizzarsi secondo il principio della capitalizzazione anche attraverso
adeguamenti statutari, tenendo conto delle proprie caratteristiche strutturali.
(Principio enunciato dalla S.C. in riferimento al Fondo di Trattamento Integrativo
Aziendale del Credito Bergamasco, alimentato da versamenti annuali a carico della
banca, senza previsione del versamento di contributi da parte dei dipendenti, e nel
quale l'ammontare delle prestazioni integrative erogate era prestabilito con
riferimento alla retribuzione percepita nel periodo conclusivo del rapporto e al
trattamento pensionistico obbligatorio). (Cassa e decide nel merito, App. Brescia,
15/04/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 26 gennaio 2010, n. 1584
In tema di omissioni contributive, l'art. 24, primo comma, del d.lgs. n. 46 del 1999,
nel prevedere espressamente che la riscossione dei contributi o premi dovuti agli enti
previdenziali non versati dal debitore nei termini di legge ovvero di quelli dovuti a
seguito di accertamento d'ufficio, ivi comprese le sanzioni e le somme aggiuntive,
avviene mediante iscrizione a ruolo da effettuarsi entro i termini di decadenza previsti
dall'art. 25 del citato d.lgs. n. 46, esclude l'applicabilità della procedura di cui alla
legge n. 689 del 1981 e la necessità di atti prodromici per la validità della riscossione.
Ne consegue che, ove sia stata proposta opposizione in sede amministrativa contro
l'atto di accertamento ispettivo, l'ente previdenziale deve procedere all'iscrizione a
ruolo anche se non sia intervenuta alcuna decisione in sede di gravame, senza che la
mancata risposta dell'organo competente configuri un tacito accoglimento
dell'opposizione o determini l'impossibilità di dare corso alla riscossione. (Rigetta,
App. Trieste, 11/02/2006).
***
X. Rinunce e Transazioni
Cass. civ. Sez. lavoro, 10 febbraio 2011, n. 3237
Il verbale di conciliazione non può ritenersi qualificabile agli effetti di cui all'art. 411
c.p.c. nelle ipotesi in cui non risulti sottoscritto in sede sindacale, né dal
rappresentante sindacale alla presenza ed in contestualità del lavoratore. In ipotesi
siffatte, invero, non può attribuirsi al menzionato documento quella funzione di
supporto che la legge riconosce al sindacato nella fattispecie conciliativa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 2 dicembre 2010, n. 24433
In tema di licenziamento illegittimo, il passaggio in giudicato dei decreti ingiuntivi
ottenuti per il pagamento del trattamento di fine rapporto non comporta
l'improponibilità della domanda di reintegra, posto che la mera accettazione della
somma a titolo di trattamento di fine rapporto, ancorché non accompagnata da alcuna
riserva, non può essere interpretata come tacita dichiarazione di rinuncia ai diritti
derivanti dall'illegittimità del licenziamento, per assoluto difetto di concludenza.
(Cassa con rinvio, App. Napoli, 20/02/2007).
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Cass. civ. Sez. lavoro, 23 settembre 2010, n. 20146
Non è assoggettabile a contribuzione previdenziale la somma versata ad un ex
dipendente nell'ambito di una transazione "novativa" con la quale sia stata definita
una controversia giudiziaria. Caratteristica della transazione novativa è di essere - al
pari della transazione propria - un negozio di secondo grado, ma non un negozio
"ausiliario", ancorché "principale", con la conseguenza che i diritti e gli obblighi delle
parti avranno, come "unica fonte" il contratto di transazione e non, come la
transazione propria, il fatto causativo del rapporto originario. Ne consegue che, in
base al disposto dell'art. 12 della legge n. 169 del 1963, la somma dovuta - ancorché
avente natura retributiva - in esecuzione di una transazione novativa, in quanto del
tutto disancorata dal preesistente, estinto rapporto di lavoro, ormai scomparso dalla
"scena giuridica", non può essere computata per la determinazione della base
imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale. Per
determinare il carattere novativo o conservativo della transazione, occorre accertare
se le parti, nel comporre l'originario rapporto litigioso, abbiano o meno inteso
addivenire alla conclusione di un rapporto, diretto a costituire, in sostituzione di
quello precedente, nuove ed autonome statuizioni. Tale accertamento è riservato al
giudice di merito.
Cass. civ. Sez. lavoro, 10 settembre 2010, n. 19345
Qualora tra le medesime parti processuali ci siano stati due giudizi diversi, aventi ad
oggetto domande sovrapponibili conclusisi, rispettivamente, il primo con una
sentenza passata in giudicato che riconosceva la meritevolezza della domanda
risarcitoria formulata dal ricorrente (nella specie inerente al risarcimento dei danni
patiti in virtù del licenziamento intimato) ed il secondo con una transazione con cui il
medesimo dichiarava di accettare una data somma "a tacitazione e saldo di ogni sua
pretesa", non è possibile mantenere in vita partite contabili che non trovino riscontri
documentali nell'istruttoria di merito. Ciò vale sia per le domande ormai "coperte"
dalla definizione dei due procedimenti quanto per tutte le ulteriori pretese, in quanto
le stesse risulterebbero prive di ogni base documentale o motivazionale nella sentenza
gravata.
Cass. civ. Sez. lavoro, 2 luglio 2010, n. 15806
In materia di diritti dei lavoratori, la transazione intervenuta innanzi al giudice
straniero può essere qualificata transazione giudiziale, per gli effetti di cui all'art. 410
cod. proc. civ., ove siano assicurate dinanzi all'autorità giudiziaria straniera le
garanzie difensive sottese alla richiamata norma, secondo la valutazione incensurabile in sede di legittimità ove congruamente motivata - operata dal giudice
di merito, cui compete anche l'interpretazione di tale transazione. (Nella specie, la
S.C. ha confermato la sentenza di merito italiana che aveva definito la controversia
attribuendo rilevanza ad una transazione tra lavoratore e datore di lavoro intervenuta
in un giudizio tedesco, assicurando questo una tutela dei diritti delle parti analoga a
quella garantita dall'ordinamento italiano). (Rigetta, App. Milano, 02/11/2006).
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Cass. civ. Sez. II, 13 maggio 2010, n. 11632
Nella transazione c.d. "conservativa", con cui le parti si limitano a regolare il rapporto
preesistente mediante reciproche concessioni, senza crearne uno nuovo (come
avviene invece nel caso di transazione c.d. "novativa"), il rapporto che ne discende è
comunque regolato dall'accordo transattivo e non già da quello che in precedenza
vincolava le parti medesime, con la conseguenza che la successiva scoperta di
inadempimenti non rilevati al momento della transazione (nella specie, relativa ad un
contratto di appalto privato di lavori) può essere eventualmente fatta valere con
l'impugnazione per errore dell'accordo transattivo, siccome rilevante ove abbia ad
oggetto il presupposto della transazione e non già le reciproche concessioni.
L'accertamento relativo alla natura ed alla portata dell'accordo transattivo integra un
apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, incensurabile in sede di
legittimità se la relativa motivazione sia immune da vizi logici e giuridici. (Rigetta,
App. Potenza, 22/01/2004).
***
Z. Aspetti processuali
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 gennaio 2011, n. 80
Il quesito di diritto, richiesto dall'art. 366 bis cod. proc. civ. (applicabile "ratione
temporis") e formulato con il ricorso, deve essere conferente rispetto alla fattispecie
dedotta in giudizio e rilevante per la decisione della controversia anche nell'ipotesi in
cui la parte alleghi, con memoria ex art. 378 cod. proc. civ., l'applicabilità dello "ius
superveniens" ai fini della decisione del ricorso, dovendosi ritenere, in mancanza,
l'inammissibilità del motivo. (Nella specie, con riguardo ad un controversia relativa
alla nullità del termine apposto ad un contratto di lavoro, la parte, con la memoria ex
art. 378 cod. proc. civ., aveva dedotto l'applicabilità della norma sopravvenuta di cui
all'art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del 2010, con la quale il legislatore
aveva disciplinato, con efficacia estesa ai procedimenti pendenti, la determinazione
del risarcimento conseguente alla conversione del contratto a tempo determinato,
mentre il quesito di diritto formulato con il ricorso non si riferiva all'"aliunde
perceptum", era generico sulla "mora credendi" e non era pertinente rispetto alla
fattispecie, risolvendosi nell'enunciazione in astratto delle regole vigenti nella
materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto
accertamento operato dai giudici di merito). (Rigetta, App. Roma, 06/09/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 gennaio 2011, n. 80
L'applicazione retroattiva dell'art. 32, comma 5, della L. n. 183/2010 trova limite nel
giudicato formatosi sulla domanda risarcitoria conseguente all'impugnazione del
termine illegittimamente apposto al contratto di lavoro, in quanto l'impugnazione del
solo capo relativo alla declaratoria di nullità del termine non impedisce la formazione
del giudicato sul capo di domanda relativo al risarcimento del danno. D'altra parte,
nei procedimenti dinanzi la Cassazione, tale applicazione è possibile solo se la nuova
disciplina sia pertinente alle questioni oggetto di censura nel ricorso e vi sia stata la
96
formulazione di uno specifico quesito di diritto relativo alle conseguenze patrimoniali
dell'accertata nullità del termine.
Cass. civ. Sez. lavoro, 6 dicembre 2010, n. 24695
I fori speciali esclusivi, alternativamente concorrenti tra loro, indicati dall' art. 413,
secondo e terzo comma, cod. proc. civ. per individuare il giudice territorialmente
competente in una controversia individuale di lavoro subordinato, sono tre e, cioè,
quello ove è sorto il rapporto, quello ove si trova l'azienda e quello della dipendenza
ove il lavoratore è addetto (o prestava la sua attività lavorativa alla fine del rapporto),
senza che gli ultimi due possano intendersi compendiati unitariamente in quello di
svolgimento della prestazione lavorativa e senza che sia dato argomentare
diversamente, nè in base al disposto della legge 11 febbraio 1992, n. 128, relativa ai
rapporti di lavoro di cui all'art. 409, n. 3 cod. proc. civ., nè in base a quello dell'art. 40
del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 per le controversie relative al pubblico impiego, attese
le peculiarità delle situazioni ivi regolate, alla cui stregua sono altresì da escludere
dubbi di illegittimità costituzionale del sistema. (Nella specie, relativa alla domanda
proposta da un informatore scientifico nei confronti della società datrice di lavoro, la
S.C., nel ritenere corretta la qualificazione del domicilio del lavoratore quale
dipendenza aziendale operata dal giudice di merito, ha escluso che si potesse far
coincidere la nozione di dipendenza aziendale con l'intero territorio di attività della
società, trattandosi di criterio privo di fondamento normativo). (Regola competenza).
Cass. civ. Sez. VI, 6 dicembre 2010, n. 24692
In tema di lavoro del socio di cooperativa, nel regime successivo all'entrata in vigore
della legge 14 febbraio 2003, n. 30, la controversia sul licenziamento intimato in
dipendenza o contestualmente all'esclusione del socio non spetta alla competenza del
tribunale in funzione di giudice del lavoro, ma compete al tribunale ordinario (nella
specie, con il rito societario di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, "ratione temporis"
applicabile), avendo la legge richiamata valorizzato la dipendenza del rapporto di
lavoro da quello societario, l'accertamento della cui legittima cessazione è
pregiudiziale a quello della legittimità del licenziamento. (Rigetta, Trib. Genova,
25/11/2009).
Cass. civ. Sez. lavoro, 1 dicembre 2010, n. 24339
Nel rito del lavoro - nel quale il divieto di proporre domande nuove nel corso del
giudizio di primo grado è particolarmente rigoroso - non è, tuttavia, precluso alla
parte che abbia già proposto, con un primo ricorso, determinate domande, di proporne
ulteriori, nei confronti del medesimo convenuto, con un nuovo e separato ricorso il
quale deve ritenersi completo con l'indicazione, a sostegno delle suddette ulteriori
domande, di documenti già prodotti nel precedente giudizio di cui sia chiesta la
riunione al secondo per ragioni di economia processuale. (Cassa con rinvio, App.
Roma, 19/12/2005).
97
Cass. civ. Sez. lavoro, 30 novembre 2010, n. 24241
In caso di pluralità di domande proponibili contro la stessa parte, ai sensi dell'art. 104
cod. proc. civ., le quali restano autonome anche nell'ipotesi in cui siano decise nello
stesso giudizio, il giudicato formatosi su una delle domande non si riverbera sulle
residue, proponibili, ma in concreto non proposte, nel medesimo giudizio, in
conformità alla regola per cui ha autorità di cosa giudicata soltanto ciò che è stato
oggetto della decisione giudiziale, e, perciò, di contestazione tra le parti, nei limiti
segnati dal giudizio, per come qualificato dai suoi elementi identificativi. (Nella
specie, la S.C. nell'accogliere il ricorso, ha rilevato che la domanda del lavoratore di
risarcimento dei danni connessi alla mancata restituzione del libretto di lavoro
integrava un profilo di danno ulteriore rispetto alla richiesta di risarcimento connesso
al licenziamento illegittimo che aveva formato oggetto di un precedente giudizio tra
le medesime parti e, quindi, non restava preclusa dal giudicato formatosi). (Cassa con
rinvio, App. Catania, 28/07/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 novembre 2010, n. 23625
Nelle controversie di lavoro il difetto di trascrizione della procura al difensore nella
copia notificata di un ricorso in appello, è privo di rilevanza quando la prova del
tempestivo conferimento della procura può desumersi dall'originale del ricorso,
sottoscritto dal procuratore prima del decreto presidenziale di fissazione dell'udienza
e di nomina del relatore. Pertanto, la mancanza dell'indicazione di elementi essenziali
nella copia del ricorso consegnata all'appellato in sede di notifica, contenuta invece
nell'originale dell'atto stesso, determina una nullità che investe non il ricorso predetto
ma solo la notifica del medesimo, ove la stessa non sia autonomamente idonea a far
conoscere al destinatario il contenuto dell'atto notificato che è sanata dalla
costituzione in giudizio del convenuto. (Cassa con rinvio, App. Roma, 17/07/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 novembre 2010, n. 23495
La relazione della causa che, nei giudizi innanzi ad organi collegiali, deve precedere
la discussione delle parti sia nel rito ordinario (art. 275 cod. proc. civ.) che in quello
del lavoro (art. 437 cod. proc. civ.) non è prescritta a pena di nullità e la sua
omissione non inficia, quindi, la validità della successiva sentenza, non essendo tale
sanzione contemplata da alcuna specifica norma nè derivando la stessa dai principi
fondamentali che regolano il processo civile. (Rigetta, App. Roma, 02/11/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 10 novembre 2010, n. 22872
In tema di ripetizione di indebito oggettivo, la prova dell'inesistenza della "causa
debendi" (nella specie, relativa al pagamento al lavoratore di compensi non pattuiti)
incombe sulla parte che propone la domanda, trattandosi di elemento costitutivo della
stessa ancorchè abbia ad oggetto fatti negativi, dei quali può essere data prova
mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario o anche mediante
presunzioni da cui desumersi il fatto negativo. Ove, peraltro, la domanda sia stata
proposta solo in via riconvenzionale di fronte alla richiesta del lavoratore diretta ad
ottenere l'adeguamento annuale dell'assegno "ad personam", asseritamente stipulato
con il datore di lavoro, incombe sul lavoratore provare il fatto costitutivo del credito
azionato (l'esistenza di detto accordo), senza necessità di provare l'indebito
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pagamento, dovendosi ritenere la relativa prova già acquisita al giudizio. (Rigetta,
App. Venezia, 18/09/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 9 novembre 2010, n. 22743
I verbali redatti dai funzionari degli enti previdenziali e assistenziali o dell'Ispettorato
del lavoro fanno piena prova dei fatti che i funzionari stessi attestino avvenuti in loro
presenza, mentre, per le altre circostanze di fatto che i verbalizzanti segnalino di
avere accertato, il materiale probatorio è liberamente valutabile e apprezzabile dal
giudice, il quale può anche considerarlo prova sufficiente delle circostanze riferite al
pubblico ufficiale, qualora il loro specifico contenuto probatorio o il concorso d'altri
elementi renda superfluo l'espletamento di ulteriori mezzi istruttori.
Cass. civ. Sez. lavoro, 22 ottobre 2010, n. 21760
Nel rito del lavoro, l'invocazione a sostegno della domanda di una regolamentazione
di fonte pattizia non dedotta nell'atto introduttivo costituisce mutamento della "causa
petendi" e implica una modifica della domanda possibile solo in primo grado e
unicamente previa autorizzazione del giudice a norma dell'art. 420 cod. proc. civ.,
sicché la relativa deduzione fatta per la prima volta in appello deve essere dichiarata
d'ufficio inammissibile dal giudice del gravame. (In applicazione del principio la
Corte, confermando la sentenza di secondo grado, ha ritenuto che con riferimento al
diritto alla tutela reale od obbligatoria del rapporto di lavoro subordinato, non potesse
essere invocata dalla parte interessata per la prima volta in appello l'applicabilità della
clausola di stabilità, prevista in sede collettiva). (Rigetta, App. Salerno, 27/02/2006).
Cass. civ. Sez. Unite, 24 settembre 2010, n. 20161
Il regolamento preventivo di giurisdizione è ammissibile durante la pendenza del
giudizio di opposizione al decreto conclusivo del procedimento di repressione della
condotta antisindacale ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori, posto che tale decreto
costituisce, fino al momento in cui venga confermato o revocato in sede di
opposizione, un atto processuale provvisorio che non può contenere alcuna implicita
statuizione concernente la giurisdizione, sulla quale possa formarsi il giudicato.
(Regola competenza,).
Cass. civ. Sez. Unite, 23 settembre 2010, n. 20075
L'art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., nella parte in cui onera il ricorrente
(principale od incidentale), a pena di improcedibilità del ricorso, di depositare i
contratti od accordi collettivi di diritto privato sui quali il ricorso si fonda, va
interpretato nel senso che, ove il ricorrente impugni, con ricorso immediato per
cassazione ai sensi dell'art. 420 bis, secondo comma, cod. proc. civ., la sentenza che
abbia deciso in via pregiudiziale una questione concernente l'efficacia, la validità o
l'interpretazione delle clausole di un contratto od accordo collettivo nazionale, ovvero
denunci, con ricorso ordinario, la violazione o falsa applicazione di norme dei
contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro ai sensi dell'art. 360, primo comma,
n. 3, cod. proc. civ. (nel testo sostituito dall'art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006), il deposito
suddetto deve avere ad oggetto non solo l'estratto recante le singole disposizioni
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collettive invocate nel ricorso, ma l'integrale testo del contratto od accordo collettivo
di livello nazionale contenente tali disposizioni, rispondendo tale adempimento alla
funzione nomofilattica assegnata alla Corte di cassazione nell'esercizio del sindacato
di legittimità sull'interpretazione della contrattazione collettiva di livello nazionale.
Ove, poi, la Corte ritenga di porre a fondamento della sua decisione una disposizione
dell'accordo o contratto collettivo nazionale depositato dal ricorrente diversa da
quelle indicate dalla parte, procedendo d'ufficio ad una interpretazione complessiva
ex art. 1363 cod. civ. non riconducibile a quanto già dibattuto, trova applicazione, a
garanzia dell'effettività del contraddittorio, l'art. 384, terzo comma, cod. proc. civ.
(nel testo sostituito dall'art. 12 del d.lgs. n. 40 del 2006), per cui la Corte riserva la
decisione, assegnando con ordinanza al P.M. e alle parti un termine non inferiore a
venti giorni e non superiore a sessanta dalla comunicazione per il deposito in
cancelleria di osservazioni sulla questione. (Dichiara improcedibile, Trib. Torino,
02/12/2008).
Cass. civ. Sez. lavoro, 2 settembre 2010, n. 18998
In materia di ripartizione dell'onere della prova, il principio secondo il quale spetta al
datore di lavoro provare l'appartenenza del lavoratore alla categoria dei dirigenti non
si applica ove l'accertamento della natura dirigenziale dell'attività lavorativa
costituisca oggetto di specifico interesse del prestatore, dovendo trovare applicazione
il principio generale che spetta a chi vuole far valere un diritto in giudizio l'onere di
provare i fatti che ne costituiscono fondamento. Ne consegue che, in caso di
licenziamento di dipendente formalmente inquadrato come dirigente, grava sul
lavoratore, che intenda fruire del più favorevole regime limitativo dei licenziamenti
previsto per i dipendenti non aventi tale qualifica, l'onere di provare la natura
meramente convenzionale dell'inquadramento, e che le mansioni effettivamente
svolte non corrispondevano a quelle previste o, comunque, difettavano, in concreto,
delle connotazioni proprie della categoria dirigenziale. (Rigetta, App. Roma,
28/08/2008).
Cass. civ. Sez. lavoro, 1 luglio 2010, n. 15653
Nelle cause soggette al rito del lavoro, l'acquisizione del testo dei contratti o accordi
collettivi può aver luogo anche in appello, sia attraverso la richiesta di informazioni
alle associazioni sindacali, la quale non è soggetta al divieto di cui all'art. 437,
secondo comma, cod. proc. civ., non costituendo un mezzo di prova, sia attraverso
l'esercizio da parte del giudice del potere officioso, riconosciuto dal medesimo art.
437, secondo comma, di invitare le parti a produrre il contratto collettivo, ove non ne
risulti contestata l'applicabilità al rapporto. (Rigetta, App. Catanzaro, 30/09/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 14 giugno 2010, n. 14197
Nel giudizio tra datore di lavoro ed istituti previdenziali o assistenziali avente ad
oggetto il pagamento di contributi, qualora sorga contestazione sull'esistenza del
rapporto di lavoro subordinato, con conseguente necessità di preliminare
accertamento di detto rapporto quale presupposto dell'obbligo contributivo, la
posizione che il lavoratore assume in detto giudizio determina la sua incapacità a
testimoniare; tuttavia, ciò non esclude che il giudice possa, avvalendosi dei poteri
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conferitigli dall'art. 421 cod. proc. civ., interrogarlo liberamente sui fatti di causa.
(Nella specie, relativa ad un giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione per
l'omesso versamento di contributi previdenziali, la S.C. ha confermato la sentenza
d'appello che aveva ritenuto legittima l'audizione della lavoratrice ai sensi dell'art.
421 cod. proc. civ., rilevando altresì che la decisione in primo grado non era stata
assunta soltanto in base alle dichiarazioni da parte di quest'ultima, ma che esse erano
state valutate nell'insieme delle risultanze processuali). (Rigetta, App. Venezia,
06/07/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 maggio 2010, n. 12793
Nel rito del lavoro il ricorrente che non deposita contestualmente al ricorso i
documenti dei quali intende avvalersi decade dal diritto di produrli tardivamente; tale
decadenza non opera solo in due casi: a) quando la produzione tardiva dei documenti
sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall'evolversi della vicenda
processuale (ad es. a seguito di riconvenzionale o di intervento o di chiamata in causa
di terzo); b) in considerazione dei poteri d'ufficio del giudice in materia di
ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell'art. 437, comma 2, c.p.c., ove essi
siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri da esercitarsi sempre
con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo (in applicazione del
suesposto principio, la Corte ha escluso il diritto all'assegno di invalidità per la parte
che solo in appello aveva prodotto la documentazione necessaria a comprovare la sua
situazione; la produzione in appello non era giustificata né dal tempo della
formazione di tali documenti, già a disposizione della parte in precedenza, né
dall'evolversi della situazione processuale).
Cass. civ. Sez. lavoro, 4 maggio 2010, n. 10711
Nel rito del lavoro, la facoltà di richiedere osservazioni scritte ed orali alle
organizzazioni sindacali stipulanti un contratto collettivo può essere esercitata solo
nel giudizio di primo grado e non anche in appello, e presuppone che la norma
contrattuale presenti aspetti oscuri ed ambigui o ponga una questione interpretativa
seriamente opinabile. (Rigetta, App. Trieste, 10/08/2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 12 aprile 2010, n. 8650
Qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto
giuridico, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato,
l'accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione
di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad
entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione
contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di
diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da
quelle che hanno costituito lo scopo ed il "petitum" del primo. (Principio affermato
dalla S.C. con riferimento all'inquadramento del datore di lavoro a fini contributivi,
accertato con sentenza passata in giudicato in relazione al medesimo periodo per il
quale l'INPS aveva successivamente proceduto alla riscossione dei contributi con
cartella esattoriale avverso la quale era stata proposta opposizione). (Cassa con rinvio,
App. Bologna, 07/03/2005).
101
Cass. civ. Sez. lavoro, 19 marzo 2010, n. 6748
È inammissibile la denuncia, con ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 360, comma
1, n. 3, cod. proc. civ., come modificato dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, della
violazione o falsa applicazione del contratto collettivo integrativo (nella specie
collettivo integrativo di amministrazione del 3 luglio 2000), posto che detta
disposizione si riferisce ai soli contratti collettivi nazionali di lavoro, mentre i
contratti integrativi, attivati dalle amministrazioni sulle singole materie e nei limiti
stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che
questi ultimi prevedono, se pure parametrati al territorio nazionale in ragione
dell'amministrazione interessata, hanno una dimensione di carattere decentrato
rispetto al comparto, e per essi non è previsto, a differenza dei contratti collettivi
nazionali, il particolare regime di pubblicità di cui all'art. 47, comma 8, del d.lgs. n.
165 del 2001. Ne consegue che l'interpretazione di tali contratti è censurabile, in sede
di legittimità, soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale
ovvero per vizi di motivazione. (Rigetta, App. Bolzano 30/3/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 febbraio 2010, n. 4623
Nel giudizio avente ad oggetto il riconoscimento del diritto a fruire dei permessi
previsti dall'art. 33 della legge n. 104 del 1992 in favore dei genitori di bambini
portatori di handicap grave, la legittimazione passiva spetta all'INPS, riferendosi la
domanda ad un provvedimento dell'ente previdenziale che si sostanzia
nell'autorizzazione preventiva al datore di lavoro (o nel suo diniego) a compensare le
somme eventualmente corrisposte a tale titolo con i contributi obbligatori dovuti
all'INPS, a carico del quale è posto l'onere finanziario del beneficio. (Cassa e decide
nel merito, App. Brescia, 22/02/2006).
Cass. civ. Sez. lavoro, 28 gennaio 2010, n. 1863
Nel rito del lavoro, è corretto l'operato del giudice che, nell'ambito di una
controversia promossa per accertare la natura subordinata di un rapporto di lavoro,
chieda al testimone di precisare, al di fuori delle circostanze capitolate, se veniva
rispettato un orario di lavoro, quali fossero le mansioni svolte dal prestatore nonché in
quale posizione materiale la prestazione fosse effettuata, dovendosi ritenere che la
possibilità di porre tali domande sia consentita, se non anche imposta, dall'art. 421
cod. proc. civ., e ciò tanto più ove al ricorso siano stati allegati conteggi elaborati sul
presupposto dello svolgimento di determinate mansioni e orari e la controparte abbia
contestato, oltre alla natura subordinata del rapporto, anche lo svolgimento di un
orario a tempo pieno. (Rigetta, App. Bologna, 27/07/2005).
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