AIDP Associazione Italiana per la Direzione del Personale Gruppo Lazio LA GIURISPRUDENZA DEL LAVORO 2010 ROMA, 6 LUGLIO 2011 A CURA DI AVV. MAURIZIO MANICASTRI PROF. AVV. MARCO MARAZZA VICE PRESIDENTE AIDP/LAZIO ORDINARIO DI DIRITTO DEL LAVORO UNIVERSITÀ DI TERAMO STUDIO LEGALE MARAZZA & ASSOCIATI CON IL CONTRIBUTO SULL’EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE IN MATERIA DI INQUADRAMENTO DI AVV. DOMENICO DE FEO SOCIO STUDIO LEGALE MARAZZA & ASSOCIATI ***** HA COLLABORATO ALLA REDAZIONE DELLA RASSEGNA DR.SSA ISIDE DE GIULIO STUDIO LEGALE MARAZZA &ASSOCIATI __________________________________________________________________________________ STUDIO LEGALE MARAZZA & ASSOCIATI ROMA - MILANO - FIRENZE WWW.STUDIOMARAZZA.IT VIA DELLE TRE MADONNE, 8 00197 - ROMA 06/8073201 r.a. - 06/8088208 fax SOMMARIO A. Il contratto collettivo di lavoro - Interpretazione - Efficacia B. Lavoro subordinato e lavoro autonomo C. Costituzione del rapporto - Collocamento obbligatorio - Patto di prova D. I contratti a contenuto formativo E. Il contratto di lavoro a tempo determinato F. Il contratto di lavoro part-time G. Il contratto di lavoro a progetto H. Il contratto di associazione in partecipazione I. La somministrazione di lavoro J. Orario di lavoro K. La retribuzione - Obblighi retributivi - T.F.R. - Il Fondo di garanzia INPS - Prescrizione crediti retributivi L. Inquadramento e mansioni del lavoratore -Inquadramento - Lo ius variandi - Le mansioni equivalenti, superiori e promiscue - Il danno da demansionamento M. Potere direttivo e modificazione del luogo di lavoro - Il trasferimento - La trasferta - Il distacco 2 N. Salute e sicurezza sul lavoro - L’art. 2087 c.c. e le prestazioni di sicurezza - Infortunio in itinere - Il mobbing O. La malattia P. L’appalto Q. Cessione d'azienda e diritti del lavoratore R. Il potere disciplinare del datore di lavoro - Contestazione e vincoli procedurali - Proporzionalità della sanzione S. I licenziamenti individuali - Varie - Giusta causa e giustificato motivo - Superamento del periodo di comporto - Licenziamento del dirigente - Profili risarcitori T. I licenziamenti collettivi - Procedure di mobilità e cassa integrazione U. Le dimissioni del lavoratore V. L’attività sindacale W. Rapporto previdenziale X. Rinunce e transazioni Z. Aspetti processuali 3 A. Il contratto collettivo di lavoro - Interpretazione Cass. civ. Sez. lavoro, 22 novembre 2010, n. 23635 Nel giudizio di legittimità le censure relative all'interpretazione del contratto collettivo offerta dal giudice di merito possono essere prospettate solo sotto il profilo della mancata osservanza dei criteri legali di ermeneutica contrattuale o della insufficienza o contraddittorietà della motivazione, mentre la mera contrapposizione fra l'interpretazione proposta dal ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata non rileva ai fini dell'annullamento di quest'ultima. Sia la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica che la denuncia del vizio di motivazione esigono una specifica indicazione, e cioè la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata la violazione anzidetta e delle ragioni dell'obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento del giudice, non potendo le censure risolversi, in contrasto con la qualificazione loro attribuita dalla parte ricorrente, nella mera contrapposizione di un'interpretazione diversa da quella criticata. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, con congrua e logica motivazione e sulla base dell'interpretazione dell'accordo integrativo per i giornalisti RAI 18 luglio 1997, aveva dichiarato la sussistenza di un contratto di assunzione a tempo indeterminato). (Rigetta, App. Milano, 17/01/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 12 luglio 2010, n. 16298 Nell'interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune deve ritenersi preminente la regola che impone di avere riguardo al significato letterale delle parole, restando precluso, in presenza di dati testuali sufficientemente chiari ed univoci, il ricorso ad altri canoni di interpretazione, ai quali è pertanto riconoscibile natura sussidiaria. (Nella specie, la S.C., nel cassare la sentenza di merito, ha stabilito che il contratto collettivo regionale recepito dal D.P. Reg. 19 novembre 1999, n. 26, all'art. 15, comma terzo, prevede chiaramente l'attribuzione di compensi in favore dei funzionari per particolari posizioni di responsabilità). (Cassa e decide nel merito, App. Messina, 27/06/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 17 febbraio 2010, n. 3685 Nell'interpretazione del contratto collettivo, è necessario procedere al coordinamento delle varie clausole contrattuali, prescritto dall'art. 1363 cod. civ., anche quando l'interpretazione possa essere compiuta sulla base del senso letterale delle parole, senza residui di incertezza, poiché l'espressione "senso letterale delle parole" deve intendersi come riferita all'intera formulazione letterale della dichiarazione negoziale e non già limitata ad una parte soltanto, qual è una singola clausola del contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e confrontare fra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che, nell'interpretazione dell'accordo sindacale del 24 marzo 1993, concernente la collocazione in cassa integrazione e la rotazione dei dipendenti della Alenia Aeronavali S.p.A., già Officine Aeronavali S.p.A., non aveva 4 preso in esame la clausola transitoria secondo cui l'accordo annullava e sostituiva le precedenti intese in ordine ai criteri di rotazione del personale, omettendo di valutare i criteri di collegamento che le parti sociali avevano inteso realizzare fra l'accordo del 1993 e le precedenti intese del 1992). (Cassa con rinvio, Trib. Napoli, 03/06/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 4 febbraio 2010, n. 2625 È riservata al giudice di merito l'interpretazione dell'accordo aziendale, in ragione della sua efficacia limitata (diversa da quella propria degli accordi e contratti collettivi nazionali, oggetto di esegesi diretta da parte della Corte di Cassazione, ai sensi dell'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., come modificato dal d.lgs. n. 40 del 2006), ed essa non è censurabile in cassazione se non per vizio di motivazione o per violazione di canoni ermeneutici. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata la quale, nell'interpretare l'accordo aziendale 22 giugno 1974 per il personale del Poligrafico dello Stato, aveva ritenuto che la previsione in esso contenuta di assorbimento dei compensi relativi al ritmo di produzione si riferisse solo ai compensi analoghi riguardanti comunque la produttività, e fosse estranea, invece, ai compensi percepiti dai lavoratori per la prestazione di lavoro straordinario). (Rigetta, App. Roma, 09/05/2006). - Efficacia Cass. civ. Sez. lavoro, 19 aprile 2011, n. 8994 La disdetta del CCNL trova applicazione esclusivamente con riferimento alle organizzazioni sindacali firmatarie dello stesso contratto ma non di certo con riferimento alle parti del rapporto di lavoro individuale, salva l'ipotesi di contratti aziendali, stipulati dal singolo datore di lavoro e dai sindacati locali dei lavoratori e dai quali, ricorrendone i presupposti, anche il datore di lavoro, quale parte contrattuale, può recedere. Corte giustizia Unione Europea Grande Sez., 12 ottobre 2010, n. 45 Gli articoli 1 e 2 della Direttiva n. 2000/78/CE devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a che uno Stato membro dichiari applicabile erga omnes un contratto collettivo come quello di cui trattasi nella causa principale, a condizione che esso non privi i lavoratori che ricadono nella sfera di applicazione di detto contratto collettivo della protezione offerta loro dalle citate disposizioni contro le discriminazioni fondate sull'età. Cass. civ. Sez. lavoro, 7 ottobre 2010, n. 20784 I contratti collettivi di diritto comune, costituendo manifestazione dell'autonomia negoziale degli stipulanti, operano esclusivamente entro l'ambito temporale concordato dalle parti, atteso che l'opposto principio di ultrattività della vincolatività del contratto scaduto sino ad un nuovo regolamento collettivo, ponendosi come limite alla libera volontà delle organizzazioni sindacali, sarebbe in contrasto con la garanzia prevista dall'art. 39 Cost. (Nella specie la S.C., in applicazione del principio di cui 5 alla massima, ha escluso l'ultrattività del CCNL per i dipendenti dell'Ente Poste Italiane stipulato il 24 novembre 1994, atteso che l'art. 87 dello stesso prevedeva che l'accordo sarebbe rimasto in vigore fino al 31 dicembre 1997 e che da quella data il rapporto sarebbe stato disciplinato dalle norme di diritto privato). (Rigetta, App. Roma, 12/04/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 8 aprile 2010, n. 8342 La reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti che si traduca in trattamento economico o normativo di maggior favore rispetto a quello previsto dai contratti (individuali e collettivi) integra, di per sé, gli estremi dell'uso aziendale, il quale, in ragione della sua appartenenza al novero delle cosiddette fonti sociali - tra le quali vanno considerati sia i contratti collettivi, sia il regolamento d'azienda e che sono definite tali perché, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un'uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un'azienda agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale. Ne consegue che ove la modifica "in melius" del trattamento dovuto ai lavoratori trovi origine nell'uso aziendale, ad essa non si applica né l'art. 1340 cod. civ. - che postula la volontà, tacita, delle parti di inserire l'uso o di escluderlo - né, in generale, la disciplina civilistica sui contratti con esclusione, quindi, di un'indagine sulla volontà del datore di lavoro e dei sindacati - né, comunque, l'art. 2077, comma secondo, cod. civ., con la conseguente legittimazione delle fonti collettive (nazionali e aziendali) di disporre una modifica "in peius" del trattamento in tal modo attribuito. (Rigetta, App. Trieste, 22/02/2006). Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 11 febbraio 2010, n. 405 La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 11 marzo 2002, Direttiva n. 2002/14/CE, che istituisce un quadro generale relativo all'informazione e alla consultazione dei lavoratori nella Comunità europea, deve essere interpretata nel senso che non osta ad una sua trasposizione, mediante contratto, che comporti che una categoria di lavoratori ricada sotto il contratto collettivo in causa, benché i lavoratori appartenenti a tale categoria non siano membri dell'organizzazione sindacale firmataria del detto contratto e il loro settore di attività non sia rappresentato da tale organizzazione, nei limiti in cui il contratto collettivo sia idoneo a garantire ai lavoratori rientranti nel suo ambito di applicazione una tutela effettiva dei diritti loro conferiti da questa stessa direttiva *** 6 B. Lavoro subordinato e lavoro autonomo Cass. civ. Sez. lavoro, 29 novembre 2010, n. 24130 La sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra datore e lavoratore non può essere di per sé esclusa dalla presenza di un vincolo parentale tra le stesse parti. Di conseguenza, se viene accertata l'esistenza di un rapporto di lavoro dipendente non può che derivarne anche un obbligo di versamento dei contributi assicurativi. Cass. civ. Sez. lavoro, 25 novembre 2010, n. 23925 Il mero conferimento dell'incarico di direttore responsabile di un periodico, ai sensi dell'art. 3 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, con la relativa indicazione dello stesso nel periodico, non comporta, di per sé, l'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato che sussiste ove, sulla base delle modalità effettive di esecuzione della prestazione, sia accertato, oltre allo svolgimento di una attività pubblicistica, ancorché episodica, e alla assunzione delle responsabilità esterne derivanti dalla legge, il continuativo esercizio delle responsabilità interne derivanti dalla preposizione, circa gli orientamenti e gli specifici contenuti del quotidiano o periodico, anche se all'opera redazionale si provveda in collettivo, con gli altri collaboratori interni della testata; è, invece, irrilevante il contenimento della soggezione del direttore al potere direttivo della proprietà editoriale, nei limiti delle direttive originariamente impartite, derivando l'ampia autonomia decisionale di chi dirige un quotidiano o periodico sia dalla preposizione al vertice della organizzazione giornalistica, sia dal contenuto spiccatamente fiduciario del rapporto, sia dalla garanzia costituzionale del pluralismo e della libertà di informazione. (Rigetta, App. Napoli, 31/07/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 22 novembre 2010, n. 23624 In tema di rapporto di lavoro domestico in situazione di convivenza, l'esistenza di un contratto a prestazioni corrispettive deve essere escluso solo in presenza della dimostrazione di una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi (famiglia di fatto), che non si esaurisca in un rapporto meramente affettivo o sessuale, ma dia luogo anche alla partecipazione, effettiva ed equa, del convivente alla vita e alle risorse della famiglia di fatto in modo che l'esistenza del vincolo di solidarietà porti ad escludere la configurabilità di un rapporto a titolo oneroso. (Nella specie, la S.C., in applicazione dell'anzidetto principio, ha ritenuto che, pur in presenza di un vincolo affettivo - attestato dalla partecipazione alle attività familiari da piccoli doni, arredo delle stanze, aiuto prestato da altri familiari - non potesse escludersi l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, con obbligo di curare e assistere i figli del datore di lavoro e di provvedere alle faccende domestiche, non assumendo alcun rilievo, ai fini della qualificazione del rapporto, l'originario intento altruistico di accogliere in casa la lavoratrice perché bisognosa di aiuto). (Cassa con rinvio, App. Cagliari, 11/08/2006). 7 Cass. civ. Sez. lavoro, 16 novembre 2010, n. 23129 Nelle società di persone è configurabile un rapporto di lavoro subordinato tra la società e uno dei soci purché ricorrano due condizioni: a) che la prestazione non integri un conferimento previsto dal contratto sociale; b) che il socio presti la sua attività lavorativa sotto il controllo gerarchico di un altro socio munito di poteri di supremazia. Il compimento di atti di gestione o la partecipazione alle scelte più o meno importanti per la vita della società non sono, in linea di principio, incompatibili con la suddetta configurabilità, sicché anche quando esse ricorrano è comunque necessario verificare la sussistenza delle suddette due condizioni. (In applicazione dell'anzidetto principio, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso poiché il socio si era limitato a dedurre la sua partecipazione ai dividendi e alla gestione della società, circostanza in sé non decisiva, nonché la mancata corresponsione della retribuzione, così richiedendo alla Corte la diretta valutazione dei fatti). (Dichiara inammissibile, App. Salerno, 03/11/2006). Cass. civ. Sez. II, 11 giugno 2010, n. 14085 L'esecuzione di una prestazione d'opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell'apposito albo previsto dalla legge dà luogo, ai sensi degli artt. 1418 e 2231 cod. civ., a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di qualsiasi effetto, con la conseguenza che il professionista non iscritto all'albo o che non sia munito nemmeno della prescritta qualifica professionale per appartenere a categoria del tutto differente, non ha alcuna azione per il pagamento della retribuzione, nemmeno quella sussidiaria di arricchimento senza causa, sempreché la prestazione espletata dal professionista rientri in quelle attività che sono riservate in via esclusiva a una determinata categoria professionale, essendo l'esercizio della professione subordinato per legge all'iscrizione in apposito albo o ad abilitazione. Al di fuori di tali attività vige, infatti, il principio generale di libertà di lavoro autonomo o di libertà di impresa di servizi, a seconda del contenuto delle prestazioni e della relativa organizzazione, salvi gli oneri amministrativi o tributari.(Nella specie la S.C., in applicazione del riportato principio, ha cassato la sentenza della corte di merito che aveva escluso il diritto al compenso chiesto da un consulente del lavoro, affermando che le attività professionali svolte - tenuta delle scritture contabili dell'impresa, redazione dei modelli IVA o per la dichiarazione dei redditi, effettuazione di conteggi ai fini dell'IRAP o ai fini dell'ICI, richiesta di certificati o presentazione di domande presso la Camera di Commercio - non rientravano in quelle riservate solo a soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione). (Cassa e decide nel merito, App. Genova, 20/10/2004). Cass. civ. Sez. lavoro, 19 aprile 2010, n. 9252 Ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, quando l'elemento dell'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni (e, in particolare, della loro natura intellettuale o professionale) e del relativo atteggiarsi del rapporto, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari, come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell'osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell'attività lavorativa all'assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell'assenza 8 in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale, elementi che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente con indizi probatori della subordinazione. (Nel caso di specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva qualificato come di lavoro subordinato il rapporto intercorso tra una insegnante di scuola privata e l'istituto ove essa insegnava, attraverso l'individuazione di rilevanti indici sintomatici, quali l'assoggettamento del lavoratore al potere di coordinamento e disciplinare del datore di lavoro, il suo inserimento nell'organizzazione aziendale, la fissazione dell'orario di lavoro e degli orari delle attività ausiliarie da parte del datore di lavoro, l'obbligo del rispetto dei programmi di insegnamento ministeriali, e la svalutazione, invece, dell'importanza della espressione formale della volontà contrattuale, riportata nella sottoscrizione di un modulo a stampa ove il rapporto veniva definito come autonomo). (Rigetta, Trib. Modica, 23/05/2005). App. Firenze, 9 febbraio 2010 Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce, nel nostro ordinamento, il prototipo negoziale cui ricondurre tutte le ipotesi nelle quali Tizio lavori per Caio a fronte di un compenso che sia rapportato alla messa a disposizione delle energie lavorative e quando non sia dedotto in contratto un risultato cui il compenso medesimo sia misurato; quando cioè oggetto della prestazione sia lo svolgimento di un compito strutturato nella organizzazione aziendale ed al prestatore non si richieda la spendita della sua qualità di imprenditore o libero professionista; donde, la regola è la subordinazione a tempo indeterminato e l'eccezione è rappresentata da ogni altro schema negoziale in astratto utilizzabile dalle parti, con la conseguenza che la ricostruzione giuridica del tipo contrattuale eccezionale obbedisce a criteri di stretta interpretazione. *** C. Costituzione del rapporto - Collocamento obbligatorio Cass. civ. Sez. lavoro, 31 maggio 2010, n. 13285 In caso di assunzione con contratto a tempo determinato di un disabile psichico sulla base di specifica previsione della convenzione stipulata tra l'impresa che assume e la P.A. ai sensi della L. 12 marzo 1999, n. 68, art. 11, non è richiesta l Indicazione nel contratto di lavoro delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo eh giustificano l'apposizione del termine. Cass. civ. Sez. lavoro, 22 giugno 2010, n. 15058 La ratio dell'art 9, L. 12 marzo 1999, n. 68, che attribuisce al datore di lavoro la facoltà di indicare nella richiesta di avviamento la qualifica del lavoratore disabile da assumere a copertura dei posti riservati, in un sistema di c.d. avviamento mirato, va 9 ravvisata nel consentire, mediante il riferimento ad una specifica qualifica, l'indicazione delle prestazioni richieste dal datore di lavoro sotto il profilo qualitativo delle capacità tecnico-professionali di cui il lavoratore avviato deve essere provvisto, secondo la formale indicazione dell'atto di avviamento, al fine di una sua collocazione nell'organizzazione aziendale, che sia utile all'impresa e che nello stesso tempo, per consentire l'espletamento delle mansioni per le quali il lavoratore è stato assunto, non si traduca in una lesione della sua professionalità e dignità. Ne consegue che il datore di lavoro può legittimamente rifiutare l'assunzione non soltanto di un lavoratore con qualifica che risulti, in base all'atto di avviamento, diversa, ma anche di un lavoratore con qualifica "simile" a quella richiesta, in mancanza un suo previo addestramento o tirocinio da svolgere secondo le modalità previste dalla stessa L. n. 68 del 1999, art. 12. - Patto di prova Cass. civ. Sez. lavoro, 17 novembre 2010, n. 23224 Ai sensi dell'art. 2096 c.c. e della legge n. 604 del 1966, la disciplina inerente i licenziamenti individuali non si applica, per un periodo massimo di sei mesi, al rapporto di lavoro subordinato costituito con patto di prova. La caratteristica peculiare di siffatto rapporto è la natura discrezionale dello stesso: posto che lo scopo della prova è quello di consentire, tanto al datore di lavoro quanto al dipendente, di acquisire consapevolezza circa la convenienza di addivenire alla stipula di un contratto definitivo, è evidente che entrambe le parti devono essere libere di valutare liberamente la sussistenza di siffatta convenienza e decidere se perpetrare o meno nel rapporto. L'esercizio della discrezionalità da parte del datore di lavoro non è peraltro assoluta, nel senso che l'eventuale licenziamento del lavoratore nel corso del periodo di prova è nullo ove il motivo del recesso sia estraneo alla causa del patto di prova, comminato, in altri termini, illecitamente anche se l'esperimento, da parte del lavoratore, sia stato positivamente superato. Cass. civ. Sez. lavoro, 17 novembre 2010, n. 23231 In tema di assunzione in prova, l'illegittimità del recesso, per l'inadeguata durata della prova o l'esistenza di un motivo illecito non comporta l'applicazione delle norme di cui alla legge 15 luglio 1966, n. 604 o dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ma la prosecuzione della prova per il periodo mancante oppure il risarcimento del danno, dovendosi escludere che la dichiarazione di illegittimità del recesso durante il periodo di prova determini la stabile costituzione del rapporto di lavoro. (Rigetta, App. Catania, 17/01/2007). Cass. civ. Sez. lavoro, 27 ottobre 2010, n. 21965 Se il licenziamento del lavoratore invalido in prova rientra nell’area della “recedibilità acausale”, ciò non vuol dire che il datore di lavoro possa esercitare arbitrariamente il proprio diritto di recesso. Il lavoratore, infatti, potrà sempre dimostrare che il recesso è stato determinato da motivi illeciti, tra i quali anche lo svolgimento della prova con l’assegnazione di mansioni incompatibili con lo stato di 10 invalidità, e che esso sia stato intimato nonostante il superamento del periodo di prova, comportando così l’elusione della disciplina sul collocamento dei disabili e ponendo in essere un licenziamento in frode alla legge. In ogni caso, il lavoratore non avrà diritto ad essere reintegrato dal momento che non trova applicazione la tutela di cui all’art. 18 Stat. Lav. Cass. civ. Sez. lavoro, 22 ottobre 2010, n. 21758 La forma scritta necessaria, a norma dell'art. 2096 cod. civ., per il patto di assunzione in prova è richiesta "ad substantiam", e tale essenziale requisito di forma, la cui mancanza comporta la nullità assoluta del patto di prova, deve sussistere sin dall'inizio del rapporto, senza alcuna possibilità di equipollenti o sanatorie, potendosi ammettere solo la non contestualità della sottoscrizione di entrambe le parti prima della esecuzione del contratto, ma non anche la successiva documentazione della clausola verbalmente pattuita mediante la sottoscrizione, originariamente mancante, di una delle parti, atteso che ciò si risolverebbe nella inammissibile convalida di un atto nullo, con sostanziale diminuzione della tutela del lavoratore. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto la nullità del patto di prova sottoscritto dal dipendente a distanza di alcuni giorni dall'assunzione). (Rigetta, App. Ancona, 17/07/2006). *** D. I contratti a contenuto formativo Cass. civ. Sez. lavoro, 23 marzo 2011, n. 6639 Nel rapporto di lavoro subordinato privato non opera, di regola, il principio di parità di trattamento retributivo; ne consegue la validità dell'art. 7 del CCNL del 1995 del settore autoferrotranvieri laddove prevede la riduzione salariale per i primi 15 mesi di rapporto a tempo indeterminato, a seguito della trasformazione di contratto di formazione e lavoro, per i motivi espressi dalle parti stipulanti e, cioè, per l'incentivo premiante per il datore di lavoro che trasformi in rapporti a tempo indeterminato l'80% dei contratti di formazione e lavoro in scadenza e per la considerazione che i lavoratori "neoassunti" si trovino in possesso di una professionalità non comparabile con quella degli altri. (Cassa con rinvio, App. Milano, 01/07/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 28 settembre 2010, n. 20357 In tema di apprendistato, posto che la disciplina legislativa in materia (legge 19 gennaio 1955, n. 25) è volta a garantire che il percorso dell'apprendimento professionale sia effettivo e non meramente formale, se non addirittura fittizio, il termine finale del rapporto speciale deve essere certo e non può, relativamente ad esso, esservi ambiguità quanto all'incidenza della detrazione dei periodi di eventuali sospensioni prolungate dal lavoro. Ne consegue che il datore di lavoro, ove ritenga di detrarre dall'apprendistato il periodo di assenza del lavoratore, spostando la scadenza convenuta ad altra data, ha l'obbligo di comunicare al lavoratore stesso, prima della 11 scadenza, il differimento, spiegandone le ragioni e indicando la nuova scadenza o il periodo che deve essere detratto. (Rigetta, App. Torino, 27/10/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 28 settembre 2010, n. 20357 La scadenza del termine dell'apprendistato in assenza di disdetta da parte del datore di lavoro comporta, in forza dell'art. 19 della legge 19 gennaio 1955, n. 25, la continuazione del rapporto lavorativo come ordinario rapporto di lavoro subordinato assoggettato alla regola generale in materia di durata, del tempo indeterminato, con la conseguente applicazione della disciplina generale sui licenziamenti, dovendo escludersi, con riferimento al regime giuridico dell'apprendistato e del rapporto di lavoro a termine applicabili "ratione temporis" ed attualmente ampiamente modificati, la trasformabilità del primo nel secondo, trattandosi di tipologie di rapporto di natura speciale, dotate di un proprio, peculiare, regime di recesso e delle sue conseguenze. (Rigetta, App. Torino, 27/10/2005). Cass. civ. Sez. Unite, 23 settembre 2010, n. 20074 Il principio contenuto nell'art. 3 del d.l. n. 726 del 1984, convertito dall'art. 1 della legge n. 863 del 1984, secondo il quale in caso di trasformazione del rapporto di formazione e lavoro in rapporto a tempo indeterminato, ovvero nel caso di assunzione a tempo indeterminato, con chiamata nominativa, entro dodici mesi dalla cessazione del rapporto di formazione e lavoro, il periodo di formazione e lavoro deve essere computato nell'anzianità di servizio, opera anche quando l'anzianità sia presa in considerazione da discipline contrattuali ai fini dell'attribuzione di emolumenti che hanno fondamento nella sola contrattazione collettiva, come nel caso degli aumenti periodici di anzianità di cui all'art. 7, lett. C), dell'accordo nazionale 11 aprile 1995, riprodotto nel successivo art. 7, lett. C), dell'accordo nazionale 27 novembre 2000, per i dipendenti di aziende di trasporto in concessione. (Rigetta, Trib. Torino, 31/01/2008). Cass. civ. Sez. lavoro, 20 settembre 2010, n. 19834 In tema di apprendistato è necessario che il rapporto di tirocinio abbia un effettivo contenuto formativo professionale, la cui valutazione, in coerenza con la previsione di cui all'art. 16, comma 2, della legge n. 196 del 1997, deve essere operata in concreto in relazione ad ogni singolo rapporto di lavoro. Ne consegue che, pur essendo ortrattamente ammissibile la stipula di contratti di apprendistato con soggetti in possesso di titolo di studio post-obbligo o di attestato di qualifica professionale, il possesso del diploma di geometra non legittima la stipula di un contratto di apprendistato per lo svolgimento di mansioni di disegnatore tecnico, attesa la formazione specifica, impartita dall'Istituto per geometri, per il disegno tecnico in generale e per la progettazione, nonché per quello meramente esecutivo e traspositivo di particolari dei progetti esecutivi che comportano la superfluità di un addestramento pratico senza che possa considerarsi sufficiente, in senso contrario, una dichiarazione negoziale meramente qualificatoria del rapporto instaurato. 12 Cass. civ. Sez. lavoro, 22 giugno 2010, n. 15055 In tema di apprendistato, l'art. 21, comma 6, della legge n. 56 del 1987, prevede che i benefici contributivi previsti dalla legge n. 25 del 1955 (Disciplina dell'apprendistato) e successive modificazioni ed integrazioni, in materia di previdenza ed assistenza sociale, possano essere prolungati all'anno successivo alla trasformazione dell'apprendistato in un rapporto a tempo indeterminato, purché il lavoratore venga, a seguito della predetta trasformazione e per il lasso temporale di un anno, utilizzato per la qualifica per cui il medesimo ha ricevuto la formazione. In tal senso, nel caso concreto, sono state considerate legittime le pretese contributive dell'I.N.P.S. e dell'I.N.A.I.L. nei confronti del datore di lavoro che, solo dopo quattro giorni dalla formale attribuzione al lavoratore della qualifica (operaio meccanico operatore) per la cui acquisizione era stato svolto l'apprendistato, gli aveva poi riconosciuto un'altra e diversa qualifica (impiegato addetto alle revisioni), sì da non poter più usufruire dei benefici contributivi in parola. Corte cost., 14 maggio 2010, n. 176 E' costituzionalmente illegittimo l'art. 23, comma 2, del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, recante "Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria", come convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 ("Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria"), nella parte in cui, modificando l'art. 49 del D.Lgs. n. 276 del 2003, stabilisce che, in caso di formazione esclusivamente aziendale, la regolamentazione dei profili formativi dell'apprendistato professionalizzante non è definita dalle regioni d'intesa con le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, ma dai contratti collettivi di lavoro. Infatti nell'ipotesi di apprendistato, con formazione esclusivamente aziendale, deve comunque essere riconosciuto alle Regioni un ruolo di stimolo e di controllo dell'attività formativa. Non è fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 2 della stessa disposizione nella parte in cui consente che l'apprendistato professionalizzante possa durare anche meno di due anni anziché, com'era previsto in precedenza, non meno di due anni, né del comma 4 nella parte in cui elimina l'obbligo di sottoscrivere un'intesa con le regioni, per poter utilizzare il contratto di apprendistato di alta formazione. *** E. Il contratto di lavoro a tempo determinato Cass. civ. Sez. lavoro, 17 febbraio 2011, n. 3871 In base ad un'interpretazione coerente con il principio di non discriminazione dei lavoratori a tempo determinato, sancito dall'art. 6 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, in attuazione della direttiva comunitaria 70/1999 relativa all'accordo quadro sul 13 lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES, deve ritenersi che l'art. 13 del c.c.n.l. del 16 maggio 2001, relativo al comparto Ministeri e integrativo del precedente c.c.n.l. del 16 febbraio 1999, nel prevedere la fruibilità di permessi retribuiti per motivi di studio, nella misura di 150 ore, da parte dei dipendenti con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, non esclude che i medesimi permessi debbano essere concessi a dipendenti assunti a tempo determinato, sempre che non vi sia un'obiettiva incompatibilità in relazione alla natura del singolo contratto a termine; né l'esclusione del beneficio potrebbe giustificarsi, in ragione della mera apposizione del termine di durata contrattuale, per l'assenza di uno specifico interesse della P.A. alla elevazione culturale dei dipendenti, giacché la fruizione dei permessi di studio prescinde dalla sussistenza di un tale interesse in capo al datore di lavoro, pubblico o privato, essendo riconducibile a diritti fondamentali della persona, garantiti dalla Costituzione (art. 2 e 34 Cost.) e dalla Convenzione dei diritti dell'uomo (art. 2 Protocollo addizionale CEDU), e tutelati dalla legge in relazione ai diritti dei lavoratori studenti (art. 10 della legge n. 300 del 1970). (Rigetta, App. Trento, 18/10/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 28 gennaio 2011, n. 2112 Deve dichiararsi la rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32, commi 5 e 6, L. 4 novembre 2010, n. 183, sollevate con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 Cost. Deve ordinarsi la sospensione del giudizio a quo e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Cass. civ. Sez. lavoro, 4 gennaio 2011, n. 80 L'applicazione retroattiva dell'art. 32, comma 5, della L. n. 183/2010 trova limite nel giudicato formatosi sulla domanda risarcitoria conseguente all'impugnazione del termine illegittimamente apposto al contratto di lavoro, in quanto l'impugnazione del solo capo relativo alla declaratoria di nullità del termine non impedisce la formazione del giudicato sul capo di domanda relativo al risarcimento del danno. D'altra parte, nei procedimenti dinanzi la Cassazione, tale applicazione è possibile solo se la nuova disciplina sia pertinente alle questioni oggetto di censura nel ricorso e vi sia stata la formulazione di uno specifico quesito di diritto relativo alle conseguenze patrimoniali dell'accertata nullità del termine. Cass. civ. Sez. lavoro, 3 gennaio 2011, n. 65 In tema di rapporto di lavoro a termine, l'applicazione retroattiva dell'art. 32, quinto comma, della legge 4 novembre 2010, n. 183 - il quale ha stabilito che, in caso di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di una "indennità onnicomprensiva" compresa tra 2, 5 e 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 -, prevista dal successivo settimo comma del medesimo articolo in relazione a tutti i giudizi, compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della legge, trova limite nel giudicato formatosi sulla domanda risarcitoria a seguito dell'impugnazione del solo capo relativo alla declaratoria di nullità del termine, e non anche della ulteriore statuizione relativa alla condanna al risarcimento del danno, essendo quest'ultima una statuizione avente individualità, 14 specificità ed autonomia proprie rispetto alle determinazioni concernenti la natura del rapporto. (Rigetta, App. Torino, 02/03/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 18 novembre 2010, n. 23319 Nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione di un termine a numerosi contratti intervallati da periodi di inattività, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, é necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e comune volontà delle parti di porre fine ad ogni rapporto lavorativo, con la precisazione che, a tal fine, non è sufficiente la mera discontinuità della prestazione lavorativa; la valutazione del significato e della portata del complesso dei predetti elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità, se non sussistono vizi logici o errori di diritto. (Nella specie la S.C., in applicazione del riportato principio, ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, in relazione a quattordici contratti a termine stipulati tra le parti, aveva affermato la sussistenza di più rapporti a tempo determinato, sul mero rilievo dell'esistenza di significative interruzioni temporali di circa un anno ripetutesi tre volte, le quali non avrebbero consentito l'unificazione dell'intero rapporto, senza tuttavia spiegare in base a quali criteri tali interruzioni erano state ritenute significative, senza valutare il comportamento delle parti e l'affidamento derivante dal lungo pregresso rapporto, di tal ché non era dato comprendere la ragione per la quale, dopo un rapporto riconosciuto a tempo indeterminato, le predette interruzioni costituissero risoluzioni per mutuo consenso). (Cassa con rinvio, App. Roma, 31/05/2006). Cass. civ. Sez. VI, 16 novembre 2010, n. 23119 L'art. 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, che demanda alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare - oltre le fattispecie tassativamente previste dall'art. 1 della legge 18 aprile 1962, n. 230 e successive modifiche nonché dall'art. 8 bis del d.l. 29 gennaio 1983, n. 17, convertito con modificazioni dalla legge 15 marzo 1983, n. 79 - nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria "delega in bianco" a favore dei sindacati, i quali, pertanto, senza essere vincolati alla individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge, possono legittimare il ricorso al contratto di lavoro a termine per causali di carattere "oggettivo" ed anche - alla stregua di esigenze riscontrabili a livello nazionale o locale - per ragioni di tipo meramente "soggettivo", consentendo (vuoi in funzione di promozione dell'occupazione o anche di tutela delle fasce deboli di lavoratori) l'assunzione di speciali categorie di lavoratori, costituendo anche in questo caso l'esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i suddetti lavoratori e per una efficace salvaguardia dei loro diritti. (Principio affermato ai sensi dell'art. 360 bis, comma 1, cod. proc. civ.). (Rigetta, App. Palermo, 16/07/2009) 15 Cass. civ. Sez. lavoro, 15 novembre 2010, n. 23057 Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinché possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo dovendosi, peraltro, considerare che l'azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l'assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con norme imperative ex artt. 1418 e 1419, comma 2, cod. civ. di natura imprescrittibile pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione "ex lege" del rapporto a tempo determinato cui era stato apposto illegittimamente il termine. (Nella specie, relativa ad una pluralità di contratti a tempo determinato conclusi tra un aiuto arredatore e la RAI S.p.a., la S.C., in applicazione dell'anzidetto principio ha ritenuto che correttamente la Corte di merito avesse dichiarato la nullità del termine apposto, restando priva di rilievo la mera inerzia tenuta dal lavoratore per oltre un anno e mezzo, dalla scadenza del termine dell'ultimo dei cinque contratti intervenuti). (Rigetta, App. Roma, 23/08/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 28 ottobre 2010, n. 22015 In tema di assunzione a termine dei lavoratori subordinati, l'art. 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, nel consentire alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi rispetto a quelle previste dalla legge 18 aprile 1962, n. 230, non impone di fissare contrattualmente dei limiti temporali alla facoltà di assumere lavoratori a tempo determinato, ma, ove un limite sia stato invece previsto, la sua inosservanza determina l'illegittimità dei contratti scadenti (o comunque stipulati) al di fuori di tale limite temporale, in quanto non rientranti nel complesso legislativo negoziale costituito dall'art. 23 citato e della successiva legislazione collettiva che consente la deroga alla legge n. 230 del 1962. Né - avuto riguardo alle assunzioni a termine, nella specie di dipendenti postali, effettuate oltre il 30 aprile 1998, limite temporale stabilito con l'accordo attuativo del 16 gennaio 1998, con cui era stato prorogato l'originario termine del 31 gennaio 1998 previsto con l'accordo del 25 settembre 1997 - può attribuirsi efficacia sanante all'accordo del 18 gennaio 2001, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell'interpretazione autentica, di intervenire su diritti indisponibili dei lavoratori in quanto già perfezionati e, quindi, di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi. (Rigetta, App. Ancona, 25/08/2009). Cass. civ. Sez. VI, 26 ottobre 2010, n. 21919 In tema di risarcimento del danno dovuto al lavoratore per effetto del riconoscimento ad opera del giudice della nullità del termine apposto al contratto di lavoro, l'eccezione, con la quale il datore di lavoro deduca che il dipendente licenziato ha percepito un altro reddito per effetto di una nuova occupazione ovvero deduca la 16 colpevole astensione da comportamenti idonei ad evitare l'aggravamento del danno, non è oggetto di una specifica disposizione di legge che ne faccia riserva in favore della parte. Pertanto, allorquando vi è stata rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possono ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d'ufficio (anche nel silenzio della parte interessata ed anche se l'acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato. Ai fini della sottrazione dell'"aliunde perceptum" dalle retribuzioni dovute al lavoratore, è necessario che risulti la prova, il cui onere grava sul datore di lavoro, non solo del fatto che il lavoratore licenziato abbia assunto nel frattempo una nuova occupazione, ma anche di quanto percepito, essendo questo il fatto che riduce l'entità del danno presunto. (Rigetta, App. Taranto, 28/08/2009). Cass. civ. Sez. lavoro, 10 settembre 2010, n. 19360 Quando il rapporto di lavoro a tempo determinato (ovvero un contratto di formazione e lavoro senza formazione) viene qualificato come rapporto a tempo indeterminato, l'atto con il quale il datore di lavoro comunica la scadenza del termine integra nella sostanza un licenziamento. Non incombe, pertanto nel vizio di extrapetizione il giudice il quale dichiara invalido il recesso e liquida il danno, nell'esercizio del suo potere di qualificazione giuridica dei fatti prospettati dalla parte qualora tale recesso sia stato impugnato come licenziamento illegittimo. (Rigetta, App. Napoli, 21/04/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 12 luglio 2010, n. 16302 In tema di contratto a termine dei dipendenti postali l'assunzione per "punte di più intensa attività stagionale", rientra nell'originaria formulazione dell'art. 8 del c.c.n.l. del 1994 ed è una ipotesi di contratto a termine direttamente introdotta dalla contrattazione collettiva, che ha natura autonoma non solo rispetto alla previsione legale del termine apposto per sostituire dipendenti assenti per ferie ai sensi della legge n. 230 del 1962, ma anche rispetto ai vincoli cui è sottoposta la fattispecie introdotta dall'accordo integrativo 25/9/1997 (le c.d. esigenze eccezionali). Pertanto deve essere escluso per le "punte stagionali" il limite temporale del 30/4/1998 previsto per l'assunzione per esigenze eccezionali, in quanto l'autorizzazione conferita dal contratto collettivo contempla, quale unico presupposto per la sua operatività, l'assunzione in periodo caratterizzato da intensa attività di servizio. Ne discende che il giudice di merito è tenuto unicamente a verificare se sussistano elementi di fatto tali da supportare l'esistenza delle "punte" richieste dal CCLN. (Cassa e decide nel merito, App. Roma, 21/07/2005). Corte giustizia Unione Europea Sez. IV, 24 giugno 2010, n. 98 La clausola 8, n. 3, dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che compare in allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, Direttiva n. 1999/70/CE, relativa all'accordo quadro Ces, Unice e Ceep sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui alla causa principale, che ha eliminato 17 l'obbligo, per il datore di lavoro, di indicare nei contratti a tempo determinato conclusi per sostituire lavoratori assenti il nome di tali lavoratori e i motivi della loro sostituzione, e che si limita a prevedere che siffatti contratti a tempo determinato debbano risultare da atto scritto e debbano specificare le ragioni del ricorso a tali contratti, purché dette nuove condizioni siano compensate dall'adozione di altre garanzie o misure di tutela oppure riguardino unicamente una categoria circoscritta di lavoratori con un contratto di lavoro a tempo determinato, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Cass. civ. Sez. lavoro, 18 giugno 2010, n. 14785 Le "specifiche ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo e sostitutivo" cui fa riferimento il D.Lgs. n. 368/2001 richiedono, ai fini di tutela del lavoratore e di controllo sulla corretta applicazione dell'istituto in questione, la trasparenza, la riconoscibilità e la verificabilità della causale addotta allo scopo di giustificare il termine apposto al contratto di lavoro. Ne consegue che tale indicazione deve avere un sufficiente grado di dettaglio e non può limitarsi all'apodittica ripetizione di quanto disposto dalla legge o dal contratto collettivo. In caso di conversione in contratto di lavoro a tempo indeterminato, il diritto del lavoratore alle retribuzioni successive alla scadenza del contratto a termine illegittimo non è automatico ma postula quantomeno la costante messa a disposizione del datore le energie lavorative da parte del lavoratore ricorrente. Cass. civ. Sez. lavoro, 13 maggio 2010, n. 11625 La specificazione delle ragioni giustificatrici del termine può risultare anche indirettamente nel contratto di lavoro e da esso "per relationem" in altri testi scritti accessibili alle parti. Corte giustizia Unione Europea Sez. I, 22 aprile 2010, n. 486 La clausola 4 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, figurante in allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, Direttiva n. 1999/70/CE, relativa all'accordo quadro Ces, Unice e Ceep sul lavoro a tempo determinato, deve interpretarsi nel senso che osta ad una disposizione nazionale come l'articolo 1, n. 2, lett. m), della legge del Land del Tyrol relativa agli agenti contrattuali 8 novembre 2000, nella versione in vigore sino al 1° febbraio 2009, che esclude dall'ambito di applicazione di tale legge i lavoratori con un contratto di lavoro a tempo determinato della durata massima di sei mesi o occupati solo occasionalmente. Corte cost., 24 febbraio 2010, n. 65 È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 11 del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, impugnati, in riferimento agli artt. 76, 77 e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui aboliscono l'onere dell'indicazione del nominativo del lavoratore sostituito previsto dalla legge n. 230 del 1962 quale condizione di liceità dell'assunzione a tempo determinato di altro dipendente. La questione è già stata ritenuta infondata con la sentenza n. 214 del 2009 18 e, successivamente, manifestamente infondata con l'ordinanza n. 325 del 2009, né vi è ragione di discostarsi dalle motivazioni delle dette decisioni. Cass. civ. Sez. lavoro, 16 febbraio 2010, n. 3598 Il lavoratore assunto a termine ai sensi dell'art. 1, secondo comma, lett. b), della legge n. 230 del 1962, per la sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, non deve essere necessariamente destinato alle medesime mansioni e/o allo stesso posto del lavoratore assente, atteso che la sostituzione ipotizzata dalla norma va intesa nel senso più confacente alle esigenze dell'impresa. Pertanto, non può essere disconosciuta all'imprenditore - nell'esercizio del potere autorganizzatorio - la facoltà di disporre (in conseguenza dell'assenza di un dipendente) l'utilizzazione del personale, incluso il lavoratore a termine, mediante i più opportuni spostamenti interni, con conseguente realizzazione di un insieme di sostituzioni successive per scorrimento a catena, sempre che vi sia una correlazione, di tipo causale tra l'attività del sostituto e quella del soggetto sostituito, in difetto della quale si avrebbe una mera coincidenza temporale tra la sostituzione interna del dipendente assente e l'assegnazione del sostituto ad una posizione lavorativa non correlata a quella lasciata scoperta dal dipendente assente. Cass. civ. Sez. lavoro, 1 febbraio 2010, n. 2279 Per evitare un uso indiscriminato dell'istituto del contratto a tempo determinato, il legislatore del 2001 ha imposto la trasparenza, la riconoscibilità e la verificabilità della causale assunta a giustificazione del termine, già a partire dal momento della stipulazione del contratto di lavoro, attraverso la previsione dell'onere di specificazione, vale a dire di una indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti identificative essenziali, sia per quanto riguarda il contenuto che con riguardo alla sua portata spazio-temporale e più in generale circostanziale. In altri termini, per le finalità indicate e alla luce dell'interpretazione comunitaria della Direttiva n. 1999/70/CE (sentenze Kyriaki Angelidaki e Mangold) e della clausola di non regresso, le ragioni giustificatrici devono essere sufficientemente particolareggiate sin dal primo contratto, in maniera tale da rendere possibile la conoscenza dell'effettiva portata delle stesse e quindi il controllo di effettività delle ragioni. D'altra parte, la clausola di non regresso è stata esplicitamente dalla Corte di giustizia riferita ad ogni aspetto della disciplina nazionale del contratto a termine e quindi anche a quella del primo o unico contratto e la verifica dell'esistenza di una sua "reformatio in peius" deve effettuarsi in rapporto all'insieme delle disposizioni di diritto interno di uno Stato membro relative alla tutela dei lavoratori in materia di contratti di lavoro a tempo determinato, perseguendo lo scopo, in generale, di impedire arretramenti ingiustificati della tutela nella materia considerata. Una interpretazione del termine "specificate" che non consentisse, nella piena trasparenza, quel controllo di effettività, assicurato, seppur in maniera diversa, dalla disciplina previdente, risulterebbe in contrasto con la clausola di non regresso, in quanto rappresenterebbe un ingiustificato arretramento in rapporto al livello generale di tutela applicabile nello Stato italiano e finirebbe altresì per configurare un eccesso di delega da parte del governo a quanto stabilito dalla legge n. 422/2000. Per quanto riguarda le ragioni tecniche, organizzative o produttive, la specificazione delle ragioni del termine può risultare anche indirettamente nel contratto di lavoro e da esso 19 per relationem in altri testi scritti accessibili alle parti, in particolare nel caso in cui, data la complessità e l'articolazione del fatto organizzativo, tecnico o produttivo che è alla base della esigenza di assunzioni a termine, questo risulti analizzato in documenti specificamente ad esso dedicati per ragioni di gestione consapevole e/o concordata con i rappresentanti del personale. Cass. civ. Sez. lavoro, 26 gennaio 2010, n. 1577 In tema di assunzione a termine di lavoratori subordinati per ragioni di carattere sostitutivo, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 214 del 2009, con cui è stata dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 368 del 2001, l'onere di specificazione delle predette ragioni è correlato alla finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità della causa dell'apposizione del termine e l'immodificabilità della stessa nel corso del rapporto. Pertanto, nelle situazioni aziendali complesse, in cui la sostituzione non è riferita ad una singola persona, ma ad una funzione produttiva specifica, occasionalmente scoperta, l'apposizione del termine deve considerarsi legittima se l'enunciazione dell'esigenza di sostituire lavoratori assenti - da sola insufficiente ad assolvere l'onere di specificazione delle ragioni stesse - risulti integrata dall'indicazione di elementi ulteriori (quali l'ambito territoriale di riferimento, il luogo della prestazione lavorativa, le mansioni dei lavoratori da sostituire, il diritto degli stessi alla conservazione del posto di lavoro) che consentano di determinare il numero dei lavoratori da sostituire, ancorchè non identificati nominativamente, ferma restando, in ogni caso, la verificabilità della sussistenza effettiva del prospettato presupposto di legittimità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale che aveva ritenuto esistente il requisito della specificità con l'indicazione nell'atto scritto della causale sostitutiva, del termine iniziale e finale del rapporto, del luogo di svolgimento della prestazione a termine, dell'inquadramento e delle mansioni del personale da sostituire; inoltre, quanto al riscontro fattuale del rispetto della ragione sostitutiva, la S.C. ha ritenuto correttamente motivato, e come tale incensurabile, l'accertamento effettuato dal giudice di merito che, con riferimento all'ambito territoriale dell'ufficio interessato, aveva accertato il numero dei contratti a termine stipulati in ciascuno dei mesi di durata del contratto a termine, confrontandolo con il numero delle giornate di assenza per malattia, infortunio, ferie, etc. del personale a tempo indeterminato, pervenendo alla valutazione di congruità del numero dei contratti stipulati per esigenze sostitutive). (Rigetta, App. Milano, 17/09/2007). Cass. civ. Sez. lavoro, 19 gennaio 2010, n. 839 Nel contratto di lavoro a termine, per poter configurare una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, si richiede l'accertamento rigoroso della comune volontà delle parti, i cui elementi di fatto che ne comprovano l'esistenza vanno dedotti dal datore di lavoro; incombe sul medesimo datore l'onere di dimostrare il rispetto delle percentuali di assunzione con tale contratto rispetto al totale dei dipendenti, essendo condizione di giustificazione della stessa apposizione del termine. *** 20 F. Il contratto di lavoro part-time Cass. civ. Sez. lavoro, 20 ottobre 2010, n. 21518 In tema d'indennità di disoccupazione per i lavoratori "part-time", poiché la determinazione di un'unica soglia minima retributiva per l'accesso all'indennità di natura previdenziale, con riguardo sia ai lavoratori a tempo pieno che a quelli a tempo parziale, costituisce un ingiustificato elemento di discriminazione a danno dei lavoratori "part-time" per l'uguale trattamento di situazioni disuguali dovuto alla mancanza di un sistema di riparametrazione della retribuzione minima settimanale analogo a quello adottato dell'art. 1, quarto comma del d.l. n. 338 del 1989, convertito nella legge n. 369 del 1989, è rilevante e non manifestamente infondata - per contrasto con gli art. 3 e 38 della Costituzione - la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, primo comma, del d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito nella legge 11 novembre 1983, n. 638, nella parte in cui, in sede di computo del numero dei contributi settimanali da accreditare ai lavoratori dipendenti nel corso dell'anno solare al fine delle prestazioni pensionistiche, non prevede che la soglia minima di retribuzione utile per l'accredito del singolo contributo ivi indicata venga ricondotta al valore dell'opera lavorativa del lavoratore a tempo pieno, e, quindi, rapportata al numero di ore settimanali effettivamente prestate dal lavoratore a tempo parziale. (Rimette gli atti alla Corte Costituzionale, App. Bologna, 22/08/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 13 ottobre 2010, n. 21160 Con riferimento ad una prestazione continuativa di un orario di lavoro pressoché corrispondente a quello previsto per il lavoro a tempo pieno, un rapporto di lavoro part-time può trasformarsi in rapporto a tempo pieno, nonostante la difforme, iniziale, manifestazione di volontà delle parti, non essendo necessario alcun requisito formale per la trasformazione di un rapporto a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno, bastando in proposito dei fatti concludenti, in relazione alla prestazione lavorativa resa, costantemente secondo l'orario normale, o, addirittura, superiore. *** G. Il contratto di lavoro a progetto Cons. Stato Sez. V, 25 novembre 2010, n. 8229 Il rapporto con i collaboratori a progetto è assimilabile al lavoro autonomo, anche se in questo la libertà del lavoratore è piena e concerne anche la scelta dell'opus, mentre così non avviene nel lavoro a progetto, in cui la definizione della dimensione finalistica verso la quale far convergere in modo coordinato ed organizzato le complessive energie lavorative aggregate pertiene unicamente alla parte committente, tuttavia con evidenti differenze con il lavoro subordinato (Conferma della sentenza del T.a.r. Lombardia - Milano, sez. III, n. 1356/2009). 21 Cons. Stato Sez. V, 25 novembre 2010, n. 8229 Ai lavoratori autonomi, quali quelli a progetto, non sono applicabili né direttamente né indirettamente i contratti collettivi che disciplinano il lavoro subordinato, né è loro applicabile il principio costituzionale di retribuzione sufficiente, che riguarda esclusivamente il lavoro subordinato, sicché il lavoro a progetto risulta esclusivamente disciplinato dalle norme dettate dal codice civile in materia di lavoro autonomo e dalle norme speciali di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, che prevedono che, fatta salva la applicazione di accordi collettivi più favorevoli, il compenso corrisposto deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito e debba tenere conto dei compensi normalmente erogati per analoghe prestazioni di lavoro autonomo. Trib. Bergamo, 20 maggio 2010 Nel caso in cui la prestazione dedotta in un contratto a progetto "certificato" sia estremamente elementare e ripetitiva, in assenza di organizzazione imprenditoriale e di rischio d'impresa, con predeterminazione del compenso, il rapporto di lavoro intercorso tra le parti dovrà essere qualificato quale rapporto di lavoro subordinato e l'accertamento giurisdizionale dell'erroneità della qualificazione avrà effetto fin dal momento della conclusione dell'accordo contrattuale, secondo quanto stabilito dal primo periodo del secondo comma dell'art. 80, D.Lgs. n. 276/2003. Trib. Pistoia, 12 maggio 2010 La mancata contestazione, da parte del datore di lavoro resistente, della affermazione relativa a modalità di svolgimento di mansioni assimilabili a quelle di un lavoratore subordinato, rende incontroverse tali circostanze e consente al giudice di interpretare il contratto di collaborazione coordinata e continuativa alla stregua di un contratto di lavoro subordinato. Trib. Bologna, 16 marzo 2010 Il raccordo tra gli artt. 62 e 69 del D.Lgs. n. 276/2003 va inteso nel senso che, stante il requisito della forma scritta previsto soltanto "ad probationem" del contratto a progetto, in suo difetto o in presenza di sue carenze si dà una mera presunzione "iuris tantum" della natura subordinata del rapporto di lavoro, vincibile qualora risulti provata l'autonomia del rapporto e non la mera natura coordinata e continuativa o subordinata della prestazione. Trib. Cassino, 5 marzo 2010 L'accertamento giudiziale e la conseguente declaratoria di nullità del contratto di lavoro a progetto già perfezionatosi tra le parti determina l'inapplicabilità alla fattispecie del disposto codicistico di cui all'art. 2126 c.c., nella parte in cui, avuto riguardo alle prestazioni di fatto rese, pone una fictio iuris di validità del rapporto nullo, ovvero equipara il rapporto di lavoro invalido a quello valido relativamente al 22 periodo di una sua effettiva esecuzione. Nell'ipotesi di nullità del contratto a progetto viene, invero, in rilievo un rapporto di lavoro autonomo, sia pure con i tratti della parasubordinazione, il quale comporta che la declaratoria giudiziale di nullità esclude che i compensi già pattuiti tra le parti possano trovare fondamento nello stesso contratto stipulato tra le parti, al contrario residuando unicamente la possibilità di far valere l'azione di arricchimento senza causa di cui all'art. 2041 c.c. (azione nella specie, tuttavia, non proposta). *** H. Il contratto di associazione in partecipazione Cass. civ. Sez. lavoro, 28 maggio 2010, n. 13179 L'associazione in partecipazione ha, quale elemento causale indefettibile di distinzione dal rapporto di collaborazione libero-professionale, il sinallagma tra partecipazione al rischio d'impresa gestita dall'associante e conferimento dell'apporto lavorativo dell'associato. Ne consegue che l'associato il cui apporto consista in una prestazione lavorativa deve partecipare sia agli utili che alle perdite, non essendo ammissibile un contratto di mera cointeressenza agli utili di un'impresa senza partecipazione alle perdite, tenuto conto dell'espresso richiamo, contenuto nell'art. 2554, secondo comma cod. civ., all'art. 2102 cod. civ., il quale prevede la partecipazione del lavoratore agli utili "netti" dell'impresa. (Rigetta, App. Ancona, 26/04/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 8 febbraio 2010, n. 2728 In caso di domanda diretta ad accertare la natura subordinata del rapporto di lavoro, qualora la parte che ne deduce l'esistenza non abbia dimostrato la sussistenza del requisito della subordinazione - ossia della soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, che discende dall'emanazione di ordini specifici oltre che dall'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e controllo sull'esecuzione della prestazione lavorativa - non occorre, ai fini del rigetto della domanda, che sia provata anche l'esistenza del diverso rapporto dedotto dalla controparte (nella specie, di associazione in partecipazione), dovendosi escludere che il mancato accertamento di quest'ultimo equivalga alla dimostrazione dell'esistenza della subordinazione, per la cui configurabilità è necessaria la prova positiva di specifici elementi che non possono ritenersi sussistenti per effetto della carenza di prova su una diversa tipologia di rapporto. (Rigetta, App. Roma, 27/07/2005). *** 23 I. La Somministrazione di lavoro Cass. civ. Sez. lavoro, 17 febbraio 2010, n. 3681 Il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro (art. 1 legge 23 ottobre 1960, n. 1369), in riferimento agli appalti "endoaziendali", caratterizzati dall'affidamento ad un appaltatore esterno di tutte le attività, ancorché strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, opera tutte le volte in cui l'appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all'appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo. Tale divieto si applica anche agli appalti concessi dalle Ferrovie dello Stato successivamente all'entrata in vigore della legge 17 maggio 1985, n. 210, senza incontrare limiti nella disciplina dettata dall'art. 2, primo comma, lett. i) (speciale e posteriore rispetto all'art. 1 della legge n. 1369 del 1960), la quale, pur conferendo ampio rilievo alle finalità di economicità ed efficienza dell'organizzazione delle Ferrovie ed alle conseguenti esigenze di elasticità e flessibilità nella dislocazione dei servizi e del personale, non ha, tuttavia, inteso consentire all'Ente Ferrovie dello Stato più di quanto non fosse consentito all'imprenditore privato in tema di appalti di mano d'opera. (Rigetta, App. Firenze, 12/10/2006). Trib. di Vicenza, sent. 17 febbraio 2011 In merito alle causali giustificative dell’utilizzo del contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato le ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo individuate all’art. 20, co. 4, D.Lgs. n. 276/2003 non devono essere necessariamente indicate in maniera specifica e dettagliata nel contratto di somministrazione, potendo ritenersi sufficiente che le stesse si presentino conformi a quelle indicate nel contratto collettivo e, come tali, già ex ante idonee a soddisfare quanto richiesto dalla legge. Inoltre, il merito al controllo giudiziale delle clausole il giudice non può pensare di dirigere l'organizzazione aziendale secondo un proprio progetto, magari riconsiderando i reparti produttivi, o procedente ad altre operazioni invasive dello stesso genere, ma deve limitarsi a verificare che le ragioni indicate nel contratto abbiano natura di ragioni tecniche o produttivo o organizzative o sostitutive. Il controllo giudiziale non può avere ad oggetto il livello di specificità della causale; l'unico limite che le scelte aziendali incontrano è che devono avere natura tecnica organizzativo produttiva o sostitutiva, essere qualitativamente e quantitativamente conformi a quanto indicato nella contrattazione collettiva e non incorre nei divieti espressi previsti dalla legge. Cass. civ. Sez. lavoro, 23 novembre 2010, n. 23684 Nel caso di interposizione di manodopera vietata, il rapporto di lavoro si instaura effettivamente con l'interponente, sicché il licenziamento del lavoratore intimato dal datore apparente o interposto è non solo illegittimo, ma giuridicamente inesistente, con conseguente impossibilità di ratifica da parte dell'interponente, trattandosi di atto proveniente da soggetto estraneo al rapporto lavorativo. (Nella specie, relativa a 24 rapporto di lavoro svolto prima dell'entrata in vigore del d. lgs. 1 settembre 2003, n. 276, una impresa aveva fatto illegittimamente ricorso a fornitura di lavoro temporaneo, destinando i lavoratori, in violazione del divieto di intermediazione di manodopera, ad un altro utilizzatore, con conseguente realizzazione di un rapporto contrattuale diretto con quest'ultimo). (Rigetta, App. Brescia, 21/04/2007). Cass. civ. Sez. lavoro, 23 settembre 2010, n. 20143 In tema d'interposizione nel rapporto di lavoro, il pagamento dei contributi da parte dell'intermediario (datore di lavoro apparente) non ha effetto estintivo rispetto al debito contributivo cui è tenuto esclusivamente il datore di lavoro effettivo. (Cassa con rinvio, App. Trento, 23/12/2005). Trib. di Torino, sent. 1° luglio 2010 Il contratto di somministrazione è nullo solo quando non risulti rispettata la forma scritta, mentre non è da ritenersi causa di nullità la genericità delle clausole che indicano le ragioni giustificatrici del contratto stesso. Se è vero che la previsione dell’art. 22, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003 richiama la disciplina del contratto a termine in quanto compatibile, deve in ogni caso prevalere la previsione dell’art. 21, comma 4 del medesimo decreto, in forza del quale il contratto di somministrazione è nullo solo laddove non venga rispettata la forma scritta. Cass. civ. Sez. lavoro, 19 marzo 2010, n. 6726 In tema di interposizione vietata nelle prestazioni di lavoro, l'art. 1 della legge n. 1369 del 1960 non riguarda l'impresa interposta nella sua globalità, ma soltanto il rapporto tra appaltante e appaltatore con riferimento alla prestazione dei lavoratori impegnati nell'esecuzione dell'opera o del servizio in concreto appaltati, dovendosi conseguentemente ritenere priva di rilievo l'eventuale esistenza di prestazioni dell'appaltatore a favore di altri soggetti. (Rigetta, App. Torino, 30/05/2005) *** J. Orario di lavoro Cass. civ. Sez. lavoro, 29 luglio 2010, n. 17725 Il diritto dei lavoratori turnisti ad essere compensati per lo svolgimento dell'attività lavorativa nella giornata di domenica (ancorché con differimento del riposo settimanale in un giorno diverso) può essere soddisfatto, oltre che con supplementi di paga o con specifiche indennità, con l'attribuzione di vantaggi e benefici economici contrattuali di diversa natura (quale la concessione di un maggior numero di riposi), atteso che, da un lato, la penosità del lavoro domenicale - a seconda delle circostanze di fatto e delle particolari esigenze del lavoratore, da valutare peraltro nell'attuale contesto socio - economico - può anche essere eliminata o comunque ridotta mediante un sistema di riposi settimanali che, permettendone il recupero in forma continua e concentrata nel tempo, risulti suscettibile di reintegrare compiutamente le energie 25 psicofisiche del lavoratore e che, dall'altro, l'attribuzione alla contrattazione collettiva di margini di flessibilità nella regolamentazione dei regimi dell'orario e dei riposi lavorativi discende da ripetuti riconoscimenti legislativi intesi, nel rispetto delle direttive comunitarie, alla modernizzazione della materia. (Nella specie, la S.C ., in applicazione dell'anzidetto principio, ha ritenuto adeguatamente compensata la prestazione domenicale atteso che i lavoratori turnisti, oltre ad usufruire di una specifica indennità, lavoravano per quattro giorni e riposavano per due, mentre gli altri lavoratori svolgevano la loro prestazione per cinque giorni di seguito prima di godere del periodo di riposo). (Rigetta, App. Messina, 21/04/2009). Cass. civ. Sez. lavoro, 26 luglio 2010, n. 17511 Il tempo per raggiungere il luogo di lavoro rientra nell'attività lavorativa vera e propria (e va, quindi, sommato al normale orario di lavoro come straordinario) allorché lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione; in particolare, sussiste il carattere di funzionalità nei casi in cui il dipendente, obbligato a presentarsi presso la sede aziendale, sia poi di volta in volta destinato in diverse località per svolgervi la sua prestazione lavorativa. (Fattispecie relativa al compenso per lavoro straordinario prestato dal lavoratore in occasione del trasporto giornaliero da lui effettuato, per la durata di circa un'ora, di operai e mezzi dalla sede della società ai singoli cantieri). (Rigetta, App. Reggio Calabria, 27/03/2007). Cass. civ. Sez. lavoro, 7 giugno 2010, n. 13674 Il lavoratore turnista, che presta la propria opera per sette o più giorni consecutivi, ha diritto ad un trattamento differenziato per l'attività svolta, che, però, non deve avere natura necessariamente economica. Il disagio, infatti, può essere compensato da giorni consecutivi di riposo successivi a quelli della prestazione. Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2010, n. 8255 Il patto di conglobamento del compenso per lavoro straordinario nella retribuzione ordinaria deve determinare quale sia il compenso per lavoro ordinario e quale per quello straordinario, così da permettere al Giudice il controllo in merito all'effettivo riconoscimento al dipendente dei diritti inderogabili spettanti per legge o per contratto collettivo. Pertanto, il patto deve ritenersi nullo quando non risultano riconosciuti tali diritti inderogabili o se non sussiste la distinzione. Cass. civ. Sez. lavoro, 15 marzo 2010, n. 6204 In tema di trattamento di fine rapporto dei dipendenti delle Casse di risparmio, la mancanza, nella disciplina collettiva di settore (in particolare, l'art. 40 del c.c.n.l. del 9 marzo 1983, l'art. 40 del c.c.n.l. del 19 marzo 1987 e l'art. 44 del c.c.n.l. del 16 gennaio 1991) di un'espressa esclusione, dalla base di calcolo del trattamento di fine rapporto, dei compensi per lavoro straordinario svolto in modo non occasionale, si interpreta nel senso che le parti collettive non hanno inteso avvalersi della facoltà derogatoria del regime legale prevista dall'art. 2120, secondo comma, cod. civ. (Rigetta, Trib. Torino, 24/07/2008). 26 Cass. civ. Sez. lavoro, 4 febbraio 2010, n. 2625 Il lavoratore può far valere il suo diritto al trattamento di fine rapporto mediante l'azione di accertamento, fin tanto che persista l'interesse ad eliminare uno stato di incertezza in ordine alle modalità di maturazione del trattamento (sia nel caso in cui la composizione della base di computo del trattamento sia stata conosciuta mediante la comunicazione degli accantonamenti, sia in quello in cui tale composizione possa venire in discussione a seguito dell'eventuale erogazione di anticipazioni), ovvero mediante l'azione di condanna, una volta che il rapporto sia cessato e si intenda ottenere la liquidazione di tale trattamento; allorché venga proposta quest'ultima azione, diretta ad una diversa liquidazione mediante il ricalcolo del t.f.r., l'interesse ad agire, identificandosi, non tanto con l'eliminazione di uno stato di incertezza che si protrae "de die in diem", quanto con il ricevimento di una somma di denaro in conseguenza di un inesatto adempimento, sorge al momento della cessazione del rapporto di lavoro, cui sono oggettivamente subordinate l'esistenza del diritto e la proposizione dell'azione, sicché soltanto da tale momento può decorrere la prescrizione. (Rigetta, App. Roma, 09/05/2006) *** K. La retribuzione - Obblighi retributivi Cass. civ. Sez. lavoro, 23 novembre 2010, n. 23683 Lo sciopero è un diritto costituzionalmente garantito e produce l'effetto di sospendere l'obbligazione del datore di lavoro di corrispondere la retribuzione, mentre il rapporto di lavoro resta in vita per tutti gli altri profili; ne deriva che, ove una disciplina contrattuale preveda la corresponsione delle prestazioni economiche sulla base di una graduatoria che tenga conto della durata e continuità del servizio prestato dal lavoratore, deve ritenersi continuativo il servizio prestato anche se nell'ambito dello stesso siano intercorse alcune giornate di sciopero. (Rigetta, App. Bari, 07/03/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 22 novembre 2010, n. 23614 In tema di rapporto di lavoro subordinato, le obbligazioni delle parti si inseriscono all'interno di un rapporto contrattuale sinallagmatico di carattere continuativo che rende inapplicabile il principio, valido per le obbligazioni unilaterali, secondo cui le obbligazioni non possono avere carattere perpetuo, dovendosi ritenere che le erogazioni da parte del datore di lavoro trovano la loro causa nelle prestazioni lavorative dei dipendenti, intesi sia come singoli che come collettività, mentre queste ultime traggono, a loro volta, la giustificazione nelle erogazioni a carico del datore, tra le quali rientrano tutte le somme di denaro, a qualsiasi titolo, anche diverso dallo stipendio di base e dalle voci previste dalla contrattazione collettiva, corrisposte ai dipendenti in maniera stabile e continuativa. Ne consegue che il datore di lavoro non può recedere unilateralmente, senza accordo preventivo, dall'obbligo a suo carico di 27 corrisponderle, integrando l'eventuale loro cessazione, in assenza di specifica giustificazione di carattere giuridico (e non semplicemente di natura economica), una forma di inadempimento contrattuale che può essere, secondo i casi, totale o parziale. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto inadempiente il datore di lavoro per aver unilateralmente congelato la quattordicesima mensilità). (Rigetta, App. Ancona, 06/07/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 15 ottobre 2010, n. 21274 La giusta retribuzione spettante al lavoratore, ai sensi dell'art. 36 Cost., deve essere individuata nei minimi retributivi stabiliti per ciascuna qualifica dalla contrattazione collettiva, i quali devono applicarsi necessariamente, indipendentemente dall'iscrizione o meno del datore di lavoro ad un'associazione sindacale stipulante, ed anche nel caso si tratti di imprese di non rilevanti dimensioni, ove non sussista una separata contrattazione collettiva. (Rigetta, App. Bari, 29/06/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 7 ottobre 2010, n. 20790 In tema di retribuzione, ancorchè l'art. 23 del D.P.R. n.600 del 1973, e successive modificazioni, preveda che il datore di lavoro debba effettuare le trattenute prescritte dalla legge su tutte le somme e i valori erogati al dipendente, non può escludersi un accordo, purchè espresso ed inequivoco, tra il lavoratore ed il datore con cui si stabilisca di calcolare la retribuzione al netto e non al lordo delle imposte e degli oneri contributivi. (Rigetta, App. Catania, 04/04/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2010, n. 20269 Il principio dell'inderogabilità dei minimi tariffari, stabilito dall'art. 24 della legge 13 giugno 1942, n. 794, sugli onorari di avvocato e procuratore, non trova applicazione nel caso di rinuncia, totale o parziale, alle competenze professionali, allorché quest'ultima non risulti posta in essere strumentalmente per violare la norma imperativa sui minimi di tariffa. La prestazione d'opera del difensore può, infatti, essere gratuita - in tutto o in parte - per ragioni varie, oltre che di amicizia e parentela, anche di semplice convenienza. Sotto questo riflesso la retribuzione costituisce un diritto patrimoniale disponibile e la convenzione relativa può concretarsi, sul piano sostanziale, anche in un accordo transattivo, in quanto tale, pienamente lecito, rientrando esso nella libera autonomia dispositiva delle parti contraenti, alle quali è soltanto inibito di infrangere il divieto legale sancito dal citato art. 24, e cioè quello di predeterminare consensualmente l'ammontare dei compensi professionali in misura inferiore ai minimi tariffari. (Nella fattispecie, la Corte, confermando la pronuncia di secondo grado, ha escluso che la richiesta periodica di pagamento a "forfait" formulata sulla base di un preventivo accordo in violazione dei minimi fosse qualificabile come lecita rinuncia successiva). (Cassa e decide nel merito, App. Napoli, 15/09/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2010, n. 20269 Il disposto dell'art. 429, terzo comma, cod. proc. civ., relativo alla rivalutazione monetaria (ed interessi) dei crediti di lavoro, trova applicazione - come sottolineato 28 dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 65 del 1978 e n. 76 del 1981 - in ordine a tutti i rapporti elencati nell'art. 409 dello stesso codice e, pertanto, opera non solo nell'ambito del lavoro subordinato ma anche in quello autonomo, ove questo sia caratterizzato dalla continuità e dalla coordinazione delle prestazioni eseguite (cd. parasubordinazione). Tali caratteristiche sono riscontrabili nella convenzione stipulata tra un avvocato ed una società relativa all'espletamento di tutta l'attività stragiudiziale e giudiziale concernente il recupero dei crediti contenziosi. (Cassa e decide nel merito, App. Napoli, 15/09/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 10 settembre 2010, n. 19358 Nello svolgimento del rapporto di lavoro si rivela necessario operare una distinzione tra una fase finale, che soddisfa direttamente l'interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni o attività di carattere accessorio e strumentale, da eseguire nell'ambito della disciplina d'impresa ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, con la conseguenza che al tempo impiegato dal prestatore dell'attività lavorativa per prepararsi alla stessa, estraneo alla prestazione finale, deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva. In tal senso, in particolare, al fine di stabilire se il tempo impiegato dal dipendente per indossare gli abiti da lavoro debba o meno essere retribuito, si afferma che la relativa attività rientra negli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell'attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, qualora sia al lavoratore concessa la facoltà di scegliere il tempo ed il luogo ove indossare la divisa, mentre nella diversa ipotesi in cui, come nella specie, tale operazione è diretta dal datore di lavoro, il quale ne disciplina il tempo e le modalità di esecuzione (nello specifico, in particolare, imponendo ai lavoratori l'obbligo di timbrare il cartellino di presenza anche all'entrata ed all'uscita dallo spogliatoio, oltre che dall'azienda), essa rientra nel lavoro effettivo e, conseguentemente, deve essere retribuita. Cass. civ. Sez. lavoro, 30 agosto 2010, n. 18856 In tema di lavoro minorile, l'avvenuta violazione della norma imperativa di cui all'art. 3, primo comma, della legge 17 ottobre 1967, n. 977, così come sostituito dall'art. 5, comma 1, del d.lgs. 4 agosto 1999, n. 345, che ha fissato a quindici anni l'età minima per l'assunzione al lavoro, non fa venir meno il diritto alla retribuzione per l'attività effettivamente prestata dal soggetto tutelato, stante il disposto, oltre che dell'art. 2126, secondo comma, cod. civ., anche dell'art. 37 Cost., che sancisce il diritto del lavoratore minorenne alla parità di retribuzione a parità di lavoro e di mansioni svolte rispetto agli altri lavoratori, a nulla rilevando che il lavoratore a dette mansioni, in ragione dell'età, non potesse essere adibito. (Rigetta, App. Napoli, 08/03/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 15 giugno 2010, n. 14334 In tema di retribuzione dei lavoratori socialmente utili, le tutele tipiche del rapporto di lavoro subordinato, quali la tredicesima mensilità, le ferie retribuite ed il T.F.R., non sono riconosciute in relazione all'importo integrativo corrisposto dall'ente pubblico utilizzatore rispetto all'attività coperta dal trattamento previdenziale previsto dall'art. 8 del d.lgs. n. 468 del 1997, atteso che il T.F.R., previsto dall'art. 2, comma 2 della legge n. 464 del 1972, è determinato sulla sola quota dell'integrazione e la tredicesima 29 mensilità, contenuta nel trattamento straordinario di cassa integrazione guadagni previsto dall'articolo unico della legge n. 427 del 1980 (sia nel testo originario che in quello modificato dall'art. 1 della legge n. 299 del 1994) è computata nella retribuzione costituente la base di calcolo degli importi dell'integrazione salariale, mentre le ferie e le festività sono direttamente coperte dallo stesso trattamento di cassa integrazione, che viene erogato per dodici mensilità, e quindi anche per il periodo nel quale non si presta attività lavorativa, dovendosi ritenere la ragionevolezza della differenziata tutela rispetto al rapporto di lavoro subordinato, con conseguente infondatezza dei dubbi di costituzionalità, in quanto il complessivo assetto così delineato risponde ad un equilibrato contemperamento tra l'esigenza dei lavoratori di continuare a percepire l'indennità di cassa integrazione di lunga durata, conservando l'iscrizione nelle liste di collocamento speciale, con quella di assolvere alla richiesta di lavorare presso soggetti pubblici a progetti di utilità generale. (Rigetta, App. Napoli, 20/08/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2010, n. 8255 Il patto di conglobamento nei compensi corrisposti per le prestazioni lavorative di corrispettivi ulteriormente dovuti al lavoratore subordinato per legge o per contratto (quali la tredicesima mensilità, il compenso per le ferie e per le festività), può essere ammesso solo se dal patto risultino gli specifici titoli cui è riferibile la prestazione patrimoniale complessiva, poiché solo in tal caso è superabile la presunzione che il compenso convenuto è dovuto quale corrispettivo della sola prestazione ordinaria, e si rende possibile il controllo giudiziale circa l'effettivo riconoscimento al lavoratore dei diritti inderogabilmente spettanti per legge o per contratto, senza che, in senso contrario, possa essere invocato il criterio dell'assorbimento - imperniato sul "trattamento globale più favorevole" tra quello di fatto goduto e quello spettante sulla base dei minimi contrattuali con conseguente imputazione alle competenze indirette degli emolumenti eccedenti i primi - che, fondandosi sulla diversa situazione della conversione di un rapporto qualificato "ab origine" come autonomo in un contratto di prestazione d'opera subordinata, pone la necessità di operare un raffronto, per la differente qualificazione delle voci di compenso, fra il percepito e il dovuto. (Rigetta, App. Roma, 12/05/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 26 marzo 2010, n. 7380 Il datore di lavoro che abbia stipulato un contratto di lavoro con un lavoratore extracomunitario privo del permesso di soggiorno è tenuto all'osservanza degli obblighi retributivi e contributivi derivanti dal contratto. - T.F.R. Cass. civ. Sez. lavoro, 9 dicembre 2010, n. 24897 In relazione ai contratti di assicurazione stipulati dal datore di lavoro (nella specie, un istituto bancario) in favore dei propri dipendenti ai sensi dell'art. 4 r.d.l. 8 gennaio 1942 n. 5, (in sostituzione dell'iscrizione al Fondo per l'indennità agli impiegati, previsto dal medesimo decreto), qualora la Banca stipulante abbia cessato di 30 ricomprendere negli accantonamenti gli aumenti stipendiali via via succedutisi ed abbia omesso, con conseguente diminuzione del capitale assicurato e, quindi, del rendimento dei premi (ceduto, con convenzione aggiuntiva, ai dipendenti), la riliquidazione delle spettanze di fine rapporto mediante inclusione nell'indennità di buonuscita delle differenze del rendimento dei premi di polizza non compete ai dipendenti assunti dopo il suddetto "congelamento" del capitale, che costituisse revoca del contratto a favore di terzi a suo tempo stipulato, efficace nei confronti di coloro che, assunti successivamente alla stipula della convenzione, non potessero aver dichiarato di volerne profittare. (Rigetta, App. Bologna, 19/12/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 1 luglio 2010, n. 15662 Ai fini della tutela prevista dalla legge n. 297 del 1982 in favore dei lavoratori per il pagamento del TFR in caso di insolvenza del datore di lavoro, ove quest'ultimo, pur assoggettabile al fallimento, non possa in concreto essere dichiarato fallito per aver cessato l'attività da oltre un anno, è ammissibile un'azione nei confronti del Fondo di garanzia, ai sensi dell'art. 2, quinto comma della legge n. 297 citata, purché il lavoratore abbia esperito infruttuosamente una procedura di esecuzione forzata, salvo che risulti l'esistenza di altri beni aggredibili con l'azione esecutiva. (Rigetta, App. Campobasso, 23/03/2007). Cass. civ. Sez. lavoro, 15 marzo 2010, n. 6204 In tema di trattamento di fine rapporto dei dipendenti delle Casse di risparmio, la mancanza, nella disciplina collettiva di settore (in particolare, l'art. 40 del c.c.n.l. del 9 marzo 1983, l'art. 40 del c.c.n.l. del 19 marzo 1987 e l'art. 44 del c.c.n.l. del 16 gennaio 1991) di un'espressa esclusione, dalla base di calcolo del trattamento di fine rapporto, dei compensi per lavoro straordinario svolto in modo non occasionale, si interpreta nel senso che le parti collettive non hanno inteso avvalersi della facoltà derogatoria del regime legale prevista dall'art. 2120, secondo comma, cod. civ. (Rigetta, Trib. Torino, 24/07/2008). Cass. civ. Sez. lavoro, 13 gennaio 2010, n. 365 In tema di determinazione del trattamento di fine rapporto, il principio secondo il quale la base di calcolo va di regola determinata in relazione al principio della onnicomprensività della retribuzione di cui all'art. 2120 cod. civ., nel testo novellato dalla legge n. 297 del 1982, è derogabile dalla contrattazione collettiva, che può limitare la base di calcolo anche con modalità indirette purché la volontà risulti chiara pur senza l'utilizzazione di formule speciale od espressamente derogatorie. Ne consegue che, con riferimento al personale dipendente delle aziende grafiche e affini e delle aziende editoriali (nella specie, dell'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato), a partire dal c.c.n.l. del 1° novembre 1992, la quota annuale di cui all'art. 1 della legge n. 297 del 1982 per il calcolo del trattamento di fine rapporto concerne la retribuzione indicata, con definizione non onnicomprensiva, nell'art. 21 del c.c.n.l medesimo sulla nomenclatura, ossia quella "complessivamente percepita dal quadro, dall'impiegato e dall'operaio per la sua prestazione lavorativa, nell'orario normale", con esclusione delle prestazioni di lavoro straordinario. (Interpretazione diretta per la prima volta, ex art. 360, n. 3 cod. proc. civ., da parte della S.C. delle disposizioni contrattuali 31 collettive relative al TFR per il personale dipendente delle aziende grafiche). (Rigetta, App. Roma, 22/08/2007). - Il Fondo di garanzia INPS Cass. civ. Sez. lavoro, 13 ottobre 2010, n. 21143 La funzione previdenziale dell'intervento del Fondo di garanzia dell'Inps, di cui al D.Lgs. n. 297/1982, art. 2, non osta all'intervento del Fondo a favore del cessionario a titolo oneroso del credito relativo al trattamento di fine rapporto spettante al lavoratore, in quanto l'intervento è previsto in favore degli "aventi diritto" e, con tale termine, che non può che essere inteso nel medesimo significato attribuito all'identica espressione contenuta nell'art. 2122 c.c., si fa riferimento agli aventi causa in genere del lavoratore, a prescindere dal titolo, universale o particolare, della successione nel diritto. Cass. civ. Sez. lavoro, 11 giugno 2010, n. 14076 In tema di intervento del Fondo di garanzia dell'INPS per il pagamento del trattamento di fine rapporto in favore di soci lavoratori di cooperative in situazione di insolvenza, l'art. 24 della legge n. 196 del 1997 - che ha esteso l'intervento del Fondo a tali lavoratori - è applicabile retroattivamente, in funzione di tutela previdenziale dei soci lavoratori, a condizione che siano stati pagati i contributi previdenziali per il periodo precedente all'entrata in vigore della disposizione, attesa la "ratio" della norma transitoria, che riconosce rilevanza all'assicurazione volontariamente e irretrattabilmente istituita dalle cooperative, e la finalità dell'intervento normativo, consistente nel riconoscimento della garanzia del credito per TFR nei limiti in cui sia stato reso operativo in favore dei soci dall'autonomia contrattuale, a seguito di conforme previsione statutaria o assembleare o di comportamenti concludenti (quali il versamento della prescritta contribuzione). (Rigetta, App. Catania, 09/11/2006) Cass. civ. Sez. lavoro, 30 aprile 2010, n. 10531 Con riferimento all'obbligo del Fondo di garanzia costituito presso l'INPS, ai sensi del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, di pagare ai lavoratori la retribuzione delle ultime tre mensilità rientranti nei dodici mesi che precedono la data del provvedimento di apertura della procedura concorsuale a carico del datore di lavoro, alla stregua di un'interpretazione adeguatrice della norma interna al diritto comunitario, gli ultimi tre mesi del rapporto, per rientrare nella garanzia approntata dalla direttiva, devono essere tali da dare diritto alla retribuzione e, ove tale diritto non sussista, i medesimi non possono esser presi in considerazione, mancando lo stesso presupposto a cui la disposizione comunitaria è preordinata. Conseguentemente, i periodi non lavorati che non danno luogo a diritti salariali (nella specie, per sospensione di fatto dell'attività aziendale) devono essere esclusi, ossia neutralizzati dalla nozione di "ultimi tre mesi del rapporto", rientrando nella tutela della direttiva i tre mesi immediatamente precedenti nei quali, invece, vi era diritto alla retribuzione, ma questa non fu pagata. (Rigetta, App. Roma, 23/01/2006). 32 Cass. civ. Sez. lavoro, 19 aprile 2010, n. 9231 Il diritto del lavoratore alla prestazione del Fondo di garanzia dell'INPS, in caso di insolvenza del datore di lavoro, sorge, ove il credito sia stato accertato nell'ambito della procedura concorsuale, secondo le specifiche regole di quest'ultima, dovendosi ritenere sufficiente a sorreggere la pretesa di pagamento del lavoratore nei confronti del Fondo - in coerenza con i principi comunitari in materia, volti a garantire al lavoratore l'adempimento dei crediti retributivi in caso di insolvenza datoriale l'avvenuta ammissione del credito al passivo, senza la necessità di una preventiva informazione all'Istituto previdenziale della sussistenza dei presupposti e della misura del credito. Ne consegue che il potere di organizzazione e regolamentazione attribuito dalla legge all'INPS, in riferimento alla determinazione della documentazione da allegare alla domanda del lavoratore, deve essere esercitato secondo criteri di ragionevolezza, così da non vanificare l'esercizio dei diritti riconosciuti al lavoratore. (Nella specie, l'INPS aveva rifiutato il pagamento del TFR al lavoratore a causa della mancata consegna del modello TFR 3-bis, richiesto dall'Istituto per la liquidazione della somma, nonostante che tale evento fosse imputabile esclusivamente al curatore fallimentare, che ne aveva omesso la compilazione; la S.C., in applicazione del principio di cui alla massima, ha ritenuto l'interpretazione dell'INPS "contra legem", poiché determinava il venir meno del diritto del lavoratore pur in presenza dei requisiti previsti dalla legge per la sussistenza del diritto). (Rigetta, App. Bari, 06/10/2005). - Prescrizione crediti retributivi Cass. civ. Sez. lavoro, 21 dicembre 2010, n. 25861 Gli atti interruttivi della prescrizione riconducibili alla previsione dell'art. 2943, quarto comma, cod. civ., consistono in atti recettizi, con i quali il titolare del diritto manifesta al soggetto passivo la sua volontà non equivoca, intesa alla realizzazione del diritto stesso. Essi, pertanto, possono produrre tale effetto limitatamente ai diritti ai quali corrisponde nel soggetto passivo un dovere di comportamento e non anche per i diritti potestativi, ai quali fa riscontro una situazione di mera soggezione, anziché di obbligo, nel soggetto controinteressato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, con riguardo all'azione proposta dal lavoratore subordinato per l'annullamento delle dimissioni comunicate al datore di lavoro, aveva ritenuto inidoneo ad interrompere il corso della prescrizione l'atto del difensore del dipendente volto a sollecitare una soluzione transattiva di una futura controversia). (Rigetta, Trib. Bologna, 07/03/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 28 luglio 2010, n. 17629 In tema di prescrizione dei crediti del lavoratore, il principio di cui agli artt. 2948 n.4, 2955 n. 2 e 2956 n. 1 cod. civ. (quali risultanti dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 63 del 1966), secondo il quale la prescrizione non decorre in costanza di rapporto di lavoro non assistito da stabilità reale, riguarda per espressa previsione il solo diritto alla retribuzione e non si estende al diritto del lavoratore al risarcimento del danno derivante dalla violazione degli obblighi di cui all'art. 2087 cod. civ., la cui prescrizione (decennale in caso di azione di responsabilità 33 contrattuale) decorre dal momento in cui il danno si è manifestato, anche in corso di rapporto di lavoro. (Rigetta, App. Venezia, 16/11/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 14 luglio 2010, n. 16542 L'eccezione di interruzione della prescrizione, configurandosi diversamente dall'eccezione di prescrizione come eccezione in senso lato, può essere rilevata anche d'ufficio dal giudice in qualsiasi stato e grado del processo, ma sulla base di allegazioni e di prove ritualmente acquisite o acquisibili al processo e, in ordine alle controversie assoggettate al rito del lavoro, sulla base dei poteri istruttori legittimamente esercitabili anche di ufficio ai sensi dell'art. 421, secondo comma, cod. proc. civ., dal giudice, tenuto, secondo tale norma all'accertamento della verità dei fatti rilevanti ai fini della decisione. Pertanto in presenza di un quadro probatorio che non consenta di ritenere sicuramente insussistente un fatto costitutivo od impeditivo l'esercizio di tali poteri istruttori è doveroso ove l'incertezza possa essere rimossa con opportune iniziative istruttorie sollecitate dal giudice. (Nell'affermare il principio la Corte, in una fattispecie relativa ad una richiesta di pagamento dei contributi previdenziali, ha cassato la sentenza di merito laddove questa, pure in presenza di documentati fatti interruttivi quali la presentazione di una istanza di fallimento da oltre dieci anni, di un atto di successiva diffida, nonché di pagamenti parziali effettuati dopo l'istanza di fallimento, non aveva adeguatamente motivato circa il mancato esercizio di detti poteri istruttori ufficiosi). (Cassa con rinvio, App. Brescia, 20/06/2006). *** L. Inquadramento e mansioni del lavoratore -Inquadramento Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2010, n. 20272 Nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato non si può prescindere da tre fasi successive, e cioè, dall'accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dalla individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e dal raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, con motivazione logica e adeguata, aveva escluso, sulla scorta dell'istruttoria espletata, di poter ravvisare nelle mansioni svolte dal ricorrente, inquadrato al 3° livello del CCNL del settore abbigliamento delle aziende artigiane ed addetto alla fase di stampa di disegni su foulard e sciarpe, l'elemento della particolare complessità che, unitamente a quello della variabilità, connotava l'inquadramento al 4° livello di detto CCNL, al cui riconoscimento mirava la domanda giudiziale). (Rigetta, App. Venezia, 08/09/2005). 34 Cass. civ. Sez. lavoro, 2 settembre 2010, n. 19007 Nel rapporto di lavoro pubblico privatizzato, la materia degli inquadramenti del personale contrattualizzato è stata affidata dalla legge allo speciale sistema di contrattazione collettiva del settore pubblico che può intervenire senza incontrare il limite della inderogabilità delle norme in materia di mansioni concernenti il lavoro subordinato privato. Ne consegue che le scelte della contrattazione collettiva in materia di inquadramento del personale e di corrispondenza tra le vecchie qualifiche e le nuove aree sono sottratte al sindacato giurisdizionale, ed il principio di non discriminazione di cui all'art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001 non costituisce parametro per giudicare delle eventuali differenziazioni operate in sede di contratto collettivo. (Nella specie, la S.C., nell'enunciare il principio, ha ritenuto la validità della collocazione, in sede di prima applicazione, in area C/1 degli ispettori del lavoro, già inquadrati nella soppressa VII qualifica funzionale, conformemente alle previsioni della tabella di corrispondenza contrattuale contenuta nella contrattazione collettiva integrativa che prevedeva un percorso professionale di inserimento iniziale in area C/1, ed ha escluso che su tali disposizioni dovessero prevalere quelle della contrattazione nazionale, che invece contemplavano direttamente un inquadramento in area C/2). (Cassa e decide nel merito, App. Firenze, 16/07/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 26 maggio 2010, n. 12852 Ai fini del riconoscimento del diritto alla qualifica superiore ai sensi dell'art. 2103 cod. civ., qualora la qualificazione del livello sia connessa alla classificazione in ambito aziendale dell'importanza dell'ufficio (nella specie, agenzia postale) presso il quale il lavoratore svolge le proprie mansioni, va escluso che il giudice, apprezzando autonomamente l'importanza di detto ufficio, possa anticipare gli effetti del provvedimento che lo riclassifichi, rientrando tale atto nell'ambito delle scelte organizzative e gestionali dell'imprenditore. Ove, peraltro, l'imprenditore autolimiti la propria discrezionalità, accettando di procedere alla classificazione degli uffici con il concerto delle organizzazioni sindacali, occorre fare necessario riferimento agli atti concordati, restando salva la prova della violazione dei criteri fissati dall'azienda e dalle oo.ss. per dare corso la riclassificazione. (Rigetta, App. Torino, 24/05/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 10 marzo 2010, n. 5809 Ai fini del riconoscimento della qualifica dirigenziale, è necessario e sufficiente che sia dimostrato l'espletamento di fatto delle relative mansioni, caratterizzate dalla preposizione ad uno o più servizi con ampia autonomia decisionale, e non occorre anche una formale investitura trasfusa in una procura speciale, perché richiedere anche tale requisito significherebbe subordinare il riconoscimento della qualifica ad un atto discrezionale del datore di lavoro, di per sé insindacabile, con conseguente violazione del principio della corrispondenza della qualifica alle mansioni svolte. (Rigetta, App. Perugia, 20/03/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 8 febbraio 2010, n. 2750 L'art. 6 della legge n. 190 del 1985, nell'attribuire alla contrattazione collettiva la possibilità di stabilire un periodo superiore a tre mesi per conseguire il diritto, in forza delle mansioni di fatto svolte, ad una qualifica propria della categoria dei quadri o dei 35 dirigenti, non ha condizionato tale soluzione alla circostanza che sia prevista una sola qualifica nella categoria (coincidente con la categoria stessa) ovvero ne sia prevista una pluralità, né, in quest'ultimo caso, che il dipendente rivesta già una qualifica compresa nella categoria dei quadri o dei dirigenti. Ne consegue che l'art. 38, comma 7, del c.c.n.l. del 26 novembre 1994 dei dipendenti postali, che, senza operare alcuna differenziazione in base ai livelli presenti nella medesima categoria, prevede il maggior termine di sei mesi per l'assunzione definitiva in caso di "applicazione temporanea del dipendente a mansioni proprie della categoria quadri", si interpreta nel senso che il tempo necessario per accedere ad uno qualsiasi dei due livelli previsti per la categoria dei quadri è lo stesso sia che il lavoratore appartenga all'area di base od operativa sia che rivendichi, quale quadro di secondo livello, il riconoscimento della qualifica di primo livello. (Cassa con rinvio, App. Genova, 25/01/2007). - Lo ius variandi Cass. civ. Sez. lavoro, 25 novembre 2010, n. 23926 L'impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo oggettivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro, perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività, che sia riconducibile - alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103 c.c.) o, se ciò è impossibile, a mansioni anche inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore. La validità del patto di declassamento del lavoratore presuppone l'impossibilità sopravvenuta di assegnare mansioni equivalenti alle ultime esercitate e la manifestazione, sia pure in forma tacita, della disponibilità del lavoratore ad accettarle. Cass. civ. Sez. lavoro, 5 agosto 2010, n. 18283 In tema di provvedimento del datore di lavoro a carattere ritorsivo, l'onere della prova su tale natura dell'atto grava sul lavoratore, potendo esso essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici, tali da far ritenere con sufficiente certezza l'intento di rappresaglia, il quale deve aver avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione del provvedimento illegittimo. Ne consegue che, in sede di giudizio di legittimità, il lavoratore che censuri la sentenza di merito per aver negato carattere ritorsivo al provvedimento datoriale (nella specie, mutamento di mansioni nell'ambito di quelle equivalenti previste dalla contrattazione collettiva del settore pubblico, ai sensi dell'art. 52 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), non può limitarsi a dedurre la mancata considerazione, da parte del giudice, di circostanze rilevanti in astratto ai fini della ritorsione, ma deve indicare elementi idonei ad individuare la sussistenza di un rapporto di causalità tra le circostanze pretermesse e l'asserito intento di rappresaglia. (Rigetta, App. Messina, 29/07/2005). 36 Cass. civ. Sez. lavoro, 1 febbraio 2010, n. 2280 Per lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro, la cui sostituzione da parte di altro lavoratore avente una qualifica inferiore non attribuisce a quest'ultimo il diritto alla promozione, ai sensi dell'art. 2103 cod. civ., deve intendersi soltanto quello che non sia presente in azienda a causa di una delle ipotesi di sospensione legale o convenzionale del rapporto di lavoro, e non anche quello destinato, per scelta organizzativa del datore di lavoro, a lavorare fuori dell'azienda o in altra unità o altro reparto, o, ancora, inviato a partecipare ad un corso di formazione. (Nella specie, la S.C. ha cassato, con rinvio, la sentenza di merito che aveva escluso il diritto alla promozione automatica di un dipendente il quale aveva sostituito un lavoratore inviato in missione in altra sede, che doveva, quindi, reputarsi non assente dal lavoro, ma solo dall'unità produttiva). (Cassa con rinvio, App. L'Aquila, 28/12/2005). - Le mansioni equivalenti, superiori e promiscue Cass. civ. Sez. lavoro, 18 marzo 2011, n. 6303 In caso di mansioni promiscue, ove la contrattazione collettiva non preveda una regola specifica per l'individuazione della categoria di appartenenza del lavoratore, la prevalenza - a questo fine - non va determinata sulla base di una mera contrapposizione quantitativa delle mansioni svolte, bensì tenendo conto, in base alla reciproca analisi qualitativa, della mansione maggiormente significativa sul piano professionale, purché non espletata in via sporadica od occasionale. Cass. civ. Sez. lavoro, 18 febbraio 2011, n. 3968 Il lavoratore che abbia scelto di contestare, dinanzi al Giudice, un presunto demansionamento, non può, successivamente, acconsentire all'espletamento di mansioni inferiori al fine di evitare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Le ragioni legittimanti un siffatto recesso datoriale devono, invero, sussistere, e conseguentemente essere verificate, alla data del licenziamento e non possono, per questo, essere integrate da fatti o manifestazioni di volontà successivamente intervenuti. Trib. L'Aquila, 15 febbraio 2011 L'art. 2103 c.c. prevede il diritto alla promozione automatica del lavoratore che abbia svolto mansioni superiori alla qualifica cui il medesimo appartiene per un periodo superiore a tre mesi, sempre che l'esercizio delle suddette mansioni sia stato effettivo, pieno e continuativo. In tal senso, deve accertarsi se l'assegnazione del lavoratore a mansioni superiori abbia implicato anche l'assunzione della relativa responsabilità e l'autonomia propria della qualifica rivendicata. Trib. L'Aquila Sez. lavoro, 26 gennaio 2011 37 Al fine di individuare la categoria in cui il lavoratore avrebbe dovuto essere inquadrato, onde stabilire la spettanza o meno dei diritti conseguenti lo svolgimento delle mansioni superiori, occorre dapprima accertare le mansioni concretamente svolte dal lavoratore, poi individuare le qualifiche ed i gradi previsti dal relativo contratto collettivo di categoria ed infine raffrontare i risultati delle due indagini ed individuare la categoria in cui deve essere inserito il lavoratore in base alle mansioni dal medesimo svolte. Trib. Milano Sez. lavoro, 24 gennaio 2011 Il divieto di variazioni "in peius" opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori. Nell'effettuare tale comparazione non è sufficiente ancorarsi in astratto al livello di categoria ma occorrerà accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l'accrescimento delle sue capacità professionali ed a condizione che risulti tutelato il patrimonio professionale del lavoratore nel senso che la nuova collocazione gli consenta di utilizzare ed anzi di arricchire il patrimonio professionale acquisito in una prospettiva dinamica di valorizzazione del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze. Trib. Cassino Sez. lavoro, 10 gennaio 2011 Non ogni modifica quantitativa delle mansioni, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale, incombendo, invece, sul giudice il compito di accertare, di volta in volta, se l'effettuata sottrazione di mansioni sia tale da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore o una sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite ed un conseguenziale impoverimento della sua professionalità. Trib. Milano Sez. lavoro, 25 ottobre 2010 II divieto di variazioni "in peius" opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, per la cui comparazione è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l'accrescimento delle sue capacita professionali. Trib. Perugia Sez. lavoro, 17 settembre 2010 Al fine del riconoscimento del diritto a differenze retributive, il lavoratore che affermi di svolgere o di aver svolto mansioni corrispondenti ad una qualifica superiore, ha l'onere di dedurre e dimostrare quali siano tali mansioni e per quanto tempo siano state da lui esercitate, nonché le disposizioni che legittimano la sua richiesta e la coincidenza fra le proprie mansioni e quelle caratterizzanti, secondo le medesime disposizioni, la qualifica superiore reclamata. 38 Trib. Taranto Sez. lavoro, 14 luglio 2010 Stante la valenza generale dei criteri parametrici fissati dalla norma costituzionale in materia di retribuzione, il disposto dell'art. 36 Cost. non può non trovare applicazione anche nelle fattispecie in cui la pretesa del lavoratore alla retribuzione corrispondente allo svolgimento dell'attività prestata riguardi mansioni superiori corrispondenti ad una qualifica di due livelli superiori a quella di inquadramento. App. Potenza Sez. lavoro, 17 giugno 2010 Il lavoratore che agisce in giudizio per ottenere l'inquadramento in una qualifica superiore è tenuto ad allegare e provare gli elementi posti a fondamento della domanda ed, in particolare, deve indicare espressamente quali sono i profili caratterizzanti le mansioni di detta qualifica, raffrontandoli con quelli concernenti le mansioni che egli deduce di avere concretamente svolto. Stante quanto detto, nel caso di specie, dalle risultanze probatorie non solo è emerso che i ricorrenti non avevano svolto le asserite mansioni superiori tipiche degli infermieri professionali, ma che essi si erano limitati ad espletare, su prescrizione medica, i compiti propri della loro qualifica e che anche i compiti superiori erano stati svolti sotto la diretta responsabilità del medico di turno, la cui costante presenza rendeva non necessaria la presenza dell'infermiere professionale. Di talché, conformemente a quanto statuito in prime cure, è stato escluso che i ricorrenti avessero svolto compiti superiori con carattere di prevalenza, sia dal punto di vista quantitativo, per la mancanza di attività organizzativa, sia dal punto di vista qualitativo data la complessiva assunzione di responsabilità da parte del medico di turno, con la conseguenza che, da un punto di vista retributivo, nulla era a loro dovuto. Trib. Trapani Sez. lavoro, 12 maggio 2010 Il lavoratore che agisca in giudizio per ottenere l'inquadramento in una qualifica superiore ha l'onere di allegare e di provare gli elementi posti a base della domanda e, in particolare, è tenuto ad indicare esplicitamente quali siano i profili caratterizzanti le mansioni di detta qualifica, raffrontandoli altresì espressamente con quelli concernenti le mansioni che egli deduce di avere concretamente svolto. Trib. L'Aquila, 8 marzo 2010 Al fine della verifica del corretto inquadramento del lavoratore anche ex art. 2103 c.c., è necessario accertare se l'assegnazione del lavoratore a mansioni superiori abbia comportato anche l'assunzione della relativa responsabilità e l'autonomia propria della qualifica rivendicata. Trib. Bologna, 2 marzo 2010 È necessario distinguere le indennità corrisposte in considerazione delle qualità professionali intrinseche alle mansioni da quelle indennità corrisposte in ragione delle particolari modalità della prestazione lavorativa; mentre le prime, data la loro stretta attinenza alla professionalità conseguita dal lavoratore per effetto dell'espletamento di mansioni complesse o implicanti particolari cognizioni tecnico-scientifiche, non possono essere soppresse dal datore di lavoro, le seconde, se pur erogate sempre in 39 funzione di corrispettivo della prestazione lavorativa - di talché rientrano pur esse nel trattamento retributivo del lavoratore - restano escluse dalla garanzia della irriducibilità della retribuzione, in quanto vengono corrisposte solo per compensare particolari disagi o difficoltà e non possono perciò essere pretese quando vengano meno le speciali situazioni che le abbiano generate. Da ciò consegue che, una volta venute meno le suddette condizioni, viene meno anche la giustificazione sinallagmatica del compenso. Trib. Cassino Sez. lavoro, 25 febbraio 2010 Ferma restando l'irrilevanza di una mera riduzione quantitativa delle mansioni svolte in precedenza, qualora il lavoratore contesti la legittimità dello ius variandi del datore di lavoro per l'asserita derivatane dequalificazione professionale, si rivela necessario accertare la sussistenza delle esigenze aziendali tecnico-produttive poste alla base dell'eventuale modifica, mediante un giudizio di equivalenza tra le precedenti e le nuove mansioni con riferimento a quelle in concreto svolte dal dipendente, prescindendo dalle previsioni astratte del livello di categoria. In tal senso si impone, da parte del Giudice, un accertamento pluridirezionale afferente l'eventuale violazione del livello retributivo raggiunto, l'accertamento delle mansioni previste all'atto dell'assunzione e concretamente poi svolte, oltre l'esatto inquadramento delle stesse nel corrispondente livello del CCNL di categoria, la rigorosa individuazione delle nuove mansioni affidate al lavoratore, l'equivalenza o meno delle medesime a quelle precedentemente espletate, rispetto all'inquadramento astratto e formalistico di categoria secondo il CCNL, l'accertamento comparativo delle stesse in concreto (sotto il profilo della loro equivalenza o meno in relazione alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto e all'utilizzazione del patrimonio professionale acquisito nella pregressa fase del rapporto e nella precedente attività svolta) e l'applicazione del principio secondo cui il lavoratore deve essere adibito a funzioni confacenti alle proprie qualità, nell'ottica di un costante loro affidamento e di una progressiva evoluzione delle stesse. (L'istruttoria svolta nella fattispecie ha consentito di accertare l'illegittimità del mutamento di mansioni subito dal dipendente, in quanto contrario al disposto di cui all'art. 2103 c.c. nonché ai canoni generali di buona fede e correttezza nello svolgimento del rapporto di lavoro, non risultando provato da parte della società convenuta che il declassamento subito dal lavoratore sia stato sorretto da idonee motivazioni, quali l'eventuale riorganizzazione del settore in cui ha operato il ricorrente in seguito alla cessione del ramo di azienda). Cass. civ. Sez. lavoro, 26 gennaio 2010, n. 1575 In tema di assegnazione al lavoratore di mansioni diverse da quelle di assunzione, l'equivalenza o meno delle mansioni deve essere valutata dal giudice anche nel caso in cui le mansioni di provenienza non siano state affidate ad altro dipendente, ma si siano esaurite, con la conseguenza che anche in tale evenienza può aversi demansionamento, in violazione dell'art. 2103 cod. civ., ove le nuove mansioni affidate al lavoratore siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore. (Cassa con rinvio, App. Trento, 10/01/2006). 40 Trib. Cassino, 14 gennaio 2010 L'attribuzione al lavoratore di una determinata qualifica in relazione all'esercizio di fatto di mansioni superiori non presuppone l'adozione da parte del datore di lavoro di un provvedimento formale: è sufficiente che risulti manifesta una volontà in tal senso. Il giudice chiamato a verificare l'applicabilità dell'art. 2103 c.c., è tenuto a compiere un accertamento in fatto delle attività concretamente espletate dal lavoratore ed astrattamente inquadrabili nella qualifica superiore. In particolare la giurisprudenza ha affermato che l'applicabilità dell'art. 2103 c.c., presuppone un'assegnazione alle mansioni superiori piena: la stessa deve, cioè, aver comportato l'assunzione della responsabilità e l'esercizio dell'autonomia e dell'iniziativa proprie della corrispondente qualifica rivendicata dal prestatore di lavoro, coerentemente con le mansioni contrattualmente previste in via esemplificativa nelle declaratorie dei singoli inquadramenti. Dunque il giudice è chiamato a raffrontare le mansioni in concreto svolte dal lavoratore con le declaratorie contrattuali e successivamente, sulla base di tale raffronto, a verificare l'effettività delle mansioni svolte. - Il danno da demansionamento Cass. civ. Sez. Unite Sent., 22 febbraio 2010, n. 4063 Il danno derivante dal demansionamento del lavoratore deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo, peraltro, preminente rilievo la prova per presunzioni. Perciò, dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) si può, attraverso un prudente apprezzamento, risalire coerentemente al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, sulle quali si fonda il ragionamento presuntivo e la valutazione delle prove. Il danno non patrimoniale da demansionamento, inoltre, è configurabile ogni qualvolta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, diritti oggetto di tutela costituzionale, quale quello allo svolgimento delle mansioni di assunzione o successivamente acquisite: questi diritti, non essendo regolati ex ante da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal Giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento (con l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà discriminare i meri pregiudizi concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili - dai danni che vanno risarciti. Cass. civ. Sez. lavoro, 17 settembre 2010, n. 19785 In tema di demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. Inoltre mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma 41 oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni. Ne discende che il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all'art. 2697 c.c.. Cass. civ. Sez. lavoro, 14 aprile 2011, n. 8527 Il lavoratore adibito a nuove mansioni ha diritto al risarcimento del danno morale qualora non abbia ricevuto alcuna formazione stante il disagio dovuto all'evidente ed incolpevole imperizia e con conseguente pregiudizio per la dignità personale e per il prestigio professionale, tutelati dall'art. 35 Cost., comma 1. Cass. civ. Sez. V, 19 marzo 2010, n. 6754 Le somme corrisposte per le perdite effettivamente subite dal lavoratore (c.d. danno emergente), che abbiano quindi una funzione di reintegrazione patrimoniale, non vanno assoggettate a tassazione ai fini Irpef. In particolare, non sono imponibili le somme percepite dal lavoratore a titolo di risarcimento del danno da demansionamento. Viceversa, concorrono alla formazione del reddito delle persone fisiche quegli indennizzi che hanno la funzione di reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione dei redditi. *** M. Potere direttivo e modificazione del luogo di lavoro Cass. civ. Sez. lavoro, 23 novembre 2010, n. 23675 In materia di trasferimento collettivo dei dipendenti postali, operato sulla base di una procedura concordata in sede sindacale con formazione di graduatorie redatte in forza di criteri predeterminati, è onere del datore di lavoro provare il rispetto delle regole stabilite per la formazione delle graduatorie, essendo questo condizione della legittimità del mutamento di sede lavorativa del dipendente. (Rigetta, App. Torino, 31/07/2006). 42 Cass. civ. Sez. lavoro, 23 novembre 2010, n. 23766 La reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente illegittimamente licenziato in un luogo diverso da quello originario costituisce inadempienza contrattuale e comporta, pertanto, la conseguente nullità del provvedimento di trasferimento, giustificando il rifiuto del dipendente di assumere servizio nella sede diversa. - Il trasferimento Cass. civ. Sez. lavoro, 19 novembre 2010, n. 23493 La violazione della norma imperativa contenuta nell'art. 2103 cod. civ. e la nullità del provvedimento datoriale di trasferimento del lavoratore ad un'altra unità produttiva implicano che la conseguente condanna all'adempimento dell'obbligazione in forma specifica, per sua natura non coercibile, assume nella sostanza natura dichiarativa delle obbligazioni e dei diritti derivanti dal rapporto dedotto in causa, con conseguente obbligo del datore di lavoro al ripristino della precedente situazione lavorativa in base alle regole del contratto di lavoro, senza che ostino, a tal fine, le successive vicende estintive dell'obbligo, rilevanti solo agli effetti del risarcimento del danno. (Rigetta, App. Bari, 18/07/2006) Cass. civ. Sez. lavoro, 18 maggio 2010, n. 12097 La nozione di trasferimento del lavoratore, che comporta il mutamento definitivo del luogo geografico di esecuzione della prestazione, ai sensi dell'art. 2103, primo comma (ultima parte), cod. civ., e alla stregua delle disposizioni collettive applicabili nella specie (artt. 37 e 74 CCNL per i dipendenti postali), non è configurabile quando lo spostamento venga attuato nell'ambito della medesima unità produttiva, salvo i casi in cui l'unità produttiva comprenda uffici notevolmente distanti tra loro (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto configurabile il trasferimento di un dipendente dell'Ente Poste presso una sede situata in un comune diverso, situato a circa trenta chilometri dall'ufficio di provenienza). (Rigetta, App. Cagliari, 14/11/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 17 maggio 2010, n. 11984 In tema di mutamento della sede di lavoro del lavoratore, sebbene il provvedimento di trasferimento non sia soggetto ad alcun onere di forma e non debba necessariamente contenere l'indicazione dei motivi, né il datore di lavoro abbia l'obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, il datore di lavoro ha l'onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e, se può integrare o modificare la motivazione eventualmente enunciata nel provvedimento, non può limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte, ma deve comunque provare le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il provvedimento. (Rigetta, App. Torino, 27/07/2005). 43 Cass. civ. Sez. lavoro, 26 marzo 2010, n. 7350 In tema di trasferimento nullo, il lavoratore, ove non abbia assolto l'onere probatorio in ordine al danno, patrimoniale o non patrimoniale, cagionato dal trasferimento illegittimo, non può richiedere un risarcimento corrispondente all'indennità di trasferta per il periodo in cui il trasferimento ha avuto esecuzione, attesa la disomogeneità tra gli istituti del trasferimento e della trasferta, e restando esclusa la conversione del negozio, ai sensi dell'art. 1424 cod. civ., in difetto della prova che il datore di lavoro, se fosse stato consapevole della nullità del trasferimento, avrebbe disposto la trasferta. (Cassa e decide nel merito, App. Venezia, 15/03/2006) Cass. civ. Sez. lavoro, 24 marzo 2010, n. 7045 Il trasferimento del lavoratore ad una sede di lavoro diversa da quella dove prestava precedentemente servizio, pur potendo essere previsto come sanzione disciplinare dalla contrattazione collettiva, la quale è abilitata a individuare sanzioni diverse da quelle tipiche previste dall'art. 7 della legge n. 300 del 1970, non assume tale natura ove il datore di lavoro si limiti ad esercitare lo "ius variandi" riconosciutogli dall'art. 2103 cod. civ., allegando la sussistenza di un giustificato motivo tecnico, organizzativo e produttivo per il mantenimento del luogo di lavoro (nella specie, la soppressione dell'attività presso il luogo di origine ed il suo accentramento nella nuova sede), e non è pertanto assoggettato alle garanzie previste dai commi terzo e quarto dell'art. 7 e dalla contrattazione collettiva, le quali devono invece assistere il successivo licenziamento intimato al lavoratore per la sua protratta assenza dalla nuova sede di servizio, configurandosi tale provvedimento come sanzione disciplinare, in quanto il predetto comportamento costituisce una tipica inadempienza degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro. (Cassa con rinvio, App. Venezia, 07/11/2005). - La trasferta Cass. civ. Sez. lavoro, 5 agosto 2010, n. 18269 La disposizione di cui all'art. 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153, che esclude dalla base imponibile ai fini contributivi le somme corrisposte al lavoratore a titolo di indennità di trasferta in cifra fissa limitatamente al 50 per cento del loro ammontare, pone una presunzione legale di coesistenza in pari misura nella suddetta indennità di una parte remunerativa e una parte restitutoria. Affinché tale presunzione possa operare, è necessario, peraltro, che siano preventivamente accertate l'effettiva natura dell'emolumento e la compresenza in esso di entrambe le componenti, compresenza che deve escludersi per il compenso attribuito a titolo di rimborso di spese non documentabili, effettuato a "piè di lista" sulla base delle spese sostenute nella trasferta dal lavoratore per le sue ordinarie esigenze di vita. (Nella fattispecie la natura meramente retributiva dell'importo corrisposto era confermata anche dalla variabilità dell'ammontare correlata alla professionalità, tipo di lavoro e responsabilità dei singoli dipendenti). (Rigetta, App. Genova, 07/02/2006). 44 Cass. civ. Sez. lavoro, 25 marzo 2010, n. 7197 In tema di lavoro, per viaggio comandato, la cui metà del tempo impiegato si computa come lavoro effettivo, si deve intendere ogni trasferimento inevitabile per l'organizzazione dei turni derivante da disposizione aziendale, effettuato sia con mezzo gratuito di servizio sia con proprio mezzo di trasporto con onere di spesa a carico del lavoratore. Cass. civ. Sez. lavoro, 17 febbraio 2010, n. 3684 Nell'indennità di trasferta prevista in favore del lavoratore che si trasferisce in un luogo di lavoro diverso da quello abituale possono ravvisarsi due componenti, quella risarcitoria e quella residuale retributiva, la cui rispettiva determinazione quantitativa (rilevante nella specie al fine di stabilirne la computabilità per il calcolo dell'indennità di anzianità e del trattamento di fine rapporto), discende dalla interpretazione delle specifiche pattuizioni contrattuali, essendo quindi devoluta al giudice di merito. (Nella specie, la S.C. ha cassato, con rinvio, la sentenza della corte territoriale che, nell'escludere l'indennità di trasferta dal computo dell'indennità di anzianità e del T.F.R. sul rilievo della sua natura risarcitoria, aveva omesso di accertare se in essa fosse presente, e in quale percentuale, anche una componente retributiva, tanto più che la stessa indennità risultava essere connessa all'impossibilità per i lavoratori operanti fuori dalla cinta daziaria del Comune di Roma di usufruire del servizio di mensa aziendale). (Cassa con rinvio, Trib. Roma, 30/05/2005). - Il distacco Cass. civ. Sez. lavoro, 25 novembre 2010, n. 23933 Il "comando" o "distacco" di un lavoratore disposto dal datore di lavoro presso altro soggetto, destinatario delle prestazioni lavorative, è configurabile quando sussista oltre all'interesse del datore di lavoro a che il lavoratore presti la propria opera presso il soggetto distaccatario, anche la temporaneità del distacco, che non richiede una predeterminazione della durata, più o meno lunga, ma solo la coincidenza della durata stessa con l'interesse del datore di lavoro allo svolgimento da parte del proprio dipendente della sua opera a favore di un terzo, e che permanga in capo al datore di lavoro distaccante, il potere direttivo, eventualmente delegabile al distaccatario, e quello di determinare la cessazione del distacco. (Rigetta, App. Milano, 24/11/2006) Cass. civ. Sez. V, 7 settembre 2010, n. 19129 Nel caso dell'operazione di distacco di personale, la somma corrisposta dal soggetto che beneficia del lavoro del personale distaccato all'impresa distaccante è suscettibile di essere considerata imponibile ai fini dell'Iva nella misura dell'eccedenza rispetto all'importo necessario al rimborso del costo del personale sostenuto dal distaccante. 45 Cass. civ. Sez. lavoro, 11 gennaio 2010, n. 215 In caso di distacco del dipendente presso altra organizzazione aziendale, il datore di lavoro distaccante, in capo al quale permane la titolarità del rapporto di lavoro, è responsabile, ai sensi dell'art. 2049 cod. civ., dei fatti illeciti commessi dal dipendente distaccato, atteso che il distacco presuppone uno specifico interesse del datore di lavoro all'esecuzione della prestazione presso il terzo, con conseguente permanenza della responsabilità, secondo il principio del rischio di impresa, per i fatti illeciti derivati dallo svolgimento della prestazione stessa. (Rigetta, App. Venezia, 14/02/2006). *** N. Salute e sicurezza sul lavoro - L’art. 2087 c.c. e le prestazioni di sicurezza Cass. civ. Sez. lavoro, 23 settembre 2010, n. 20142 L'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per infortunio sul lavoro o malattia professionale opera esclusivamente nei limiti posti dall'art. 10 del d.P.R. n.1124 del 1965 e per i soli eventi coperti dall'assicurazione obbligatoria, mentre qualora eventi lesivi eccedenti tale copertura abbiano comunque a verificarsi in pregiudizio del lavoratore e siano casualmente ricollegabili alla nocività dell'ambiente di lavoro, viene in rilievo l'art. 2087 cod. civ., che come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l'integrità fisica del lavoratore assicurato. Anche tale responsabilità datoriale non è, peraltro, configurabile ove il nesso causale tra l'uso di una sostanza e la patologia professionale non fosse configurabile allo stato delle conoscenze scientifiche dell'epoca, sicché non poteva essere prospettata l'adozione di adeguate misure precauzionali. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno proposta dagli eredi di un lavoratore, già addetto alla lavorazione dell'amianto, deceduto per mesotelioma ed esposti al rischio tra il 1953 ed il 1962, ritenendo congruamente motivato il giudizio secondo il quale il rispetto delle limitate prescrizioni cautelative praticabili all'epoca dello svolgimento dell'attività lavorativa, non avrebbe impedito l'insorgere del mesotelioma in quanto malattia dose-dipendente). (Rigetta, App. Trieste, 18/02/2006). 46 Cass. civ. Sez. III, 10 settembre 2010, n. 19280 Le norme in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, hanno lo scopo di tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili a sua imperizia, negligenza ed imprudenza. Sicché, il datore di lavoro è da ritenere responsabile dell'infortunio in tutti i casi in cui ometta di adottare le idonee misure protettive, o di vigilare affinché vengano osservate, mentre l'eventuale concorso di colpa del lavoratore non ha di per sé solo alcun effetto esimente. Esso può comportare l'esonero totale dell'imprenditore da responsabilità solo quando si tratti di comportamento abnorme, inopinabile ed esorbitante in relazione alle mansioni svolte, al procedimento lavorativo "tipico" al quale è addetto ed alle direttive ricevute. Cass. civ. Sez. lavoro, 5 agosto 2010, n. 18278 Il potere organizzativo del datore di lavoro comprende senz'altro la predisposizione di regole finalizzate ad una migliore coesistenza delle diverse realtà operanti all'interno dei luoghi di lavoro e ad evitare conflittualità ma non può tradursi in condotte pregiudizievoli dell'integrità fisica e morale dei prestatori d'opera in quanto nell'equo bilanciamento dell'esigenza di funzionalità dell'impresa e di tutela delle condizioni di lavoro e del lavoratore, il legislatore ha chiaramente privilegiato, con l'art. 41 Cost., ripreso dall'art. 2087 cod. civ., i diritti fondamentali dei lavoratori. (Principio applicato in una fattispecie, caratterizzata dal fatto che, nell'unico ambiente di lavoro, destinato allo stiro industriale, era stato installato un paravento divisorio che creava un spazio angusto e poco illuminato per le dipendenti "conflittuali", determinando una situazione di aggravio materiale delle condizioni di lavoro a causa delle esalazioni di vapore a getto continuo, e psicologica per la condizione ingiustificata di isolamento). (Rigetta, App. Bologna, 31/07/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 28 luglio 2010, n. 17649 Lo sforzo fisico del lavoratore può determinare una patologia riconducibile all'infarto occorso allo stesso qualora si verifichi un'azione rapida e intensa tale da determinare una lesione del lavoratore medesimo. A tal fine è necessario per il risarcimento del danno la dimostrazione del nesso causale tra l'attività lavorativa svolta e l'evento lesivo (nella specie la Cassazione ha rigettato la richiesta di risarcimento del danno della moglie di un fattorino deceduto per infarto sul rilievo che il semplice stress e affaticamento quotidiano del lavoro svolto dal marito non può essere l'unico elemento per dimostrarne la nocività). Cass. civ. Sez. lavoro, 27 luglio 2010, n. 17547 In tema di qualificazione della domanda giudiziale, ove il lavoratore chieda il risarcimento del danno derivante dalla lesione del diritto all'integrità personale, non rileva, ai fini della configurazione di un'azione di natura contrattuale, il mero richiamo dell'art. 2087 cod. civ. o delle altre disposizioni legislative strumentali alla protezione delle condizioni di lavoro, occorrendo, invece, la specifica deduzione di un comportamento inadempiente del datore di lavoro, dal quale, secondo la prospettazione attorea, sia derivato il danno lamentato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, in base ad un apprezzamento di fatto 47 congruamente motivato, aveva ravvisato nella domanda del lavoratore un'azione di responsabilità extracontrattuale, soggetta alla prescrizione quinquennale, reputando del tutto generiche le deduzioni sulla violazione dell'art. 2087 cod. civ. e delle norme infortunistiche, operate tramite i meri riferimenti al mancato uso del casco protettivo ed alle modalità dell'infortunio patito dal lavoratore, in quanto inidonei a configurare una specifica imputazione di responsabilità in capo al datore di lavoro di comportamenti negligenti nella predisposizione del procedimento lavorativo tipico e nel controllo della idoneità degli strumenti di lavoro e della sorveglianza degli interventi a rischio). (Rigetta, App. Messina, 25/11/2005). Cass. pen. Sez. IV, 9 luglio 2010, n. 42465 È titolare di una posizione di garanzia nei confronti del lavoratore il proprietario (committente) che affida lavori edili in economia ad un lavoratore autonomo di non verificata professionalità, ed in assenza di qualsiasi apprestamento di presidi anticaduta, pur a fronte di lavorazioni in quota superiore a metri due. (La Corte ha precisato che l'unitaria tutela del diritto alla salute, indivisibilmente operata dagli artt. 32 Cost., 2087 cod. civ. e 1, comma primo, legge n. 833 del 1978, impone l'utilizzazione dei parametri di sicurezza espressamente stabiliti per i lavoratori subordinati nell'impresa, anche per ogni altro tipo di lavoro). (Rigetta, App. Lecce, 30/05/2008). Cass. civ. Sez. lavoro, 5 maggio 2010, n. 10834 In tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, l'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni occorsi al lavoratore infortunato e la limitazione dell'azione risarcitoria di quest'ultimo al cosiddetto danno differenziale, nel caso di esclusione di detto esonero per la presenza di responsabilità di rilievo penale (a norma dell'art. 10 d.P.R. n. 1124 del 1965 e delle inerenti pronunce della Corte costituzionale), riguarda solo le componenti del danno coperte dall'assicurazione obbligatoria, la cui individuazione è mutata nel corso degli anni. Ne consegue che per le fattispecie sottratte, "ratione temporis", all'applicazione dell'art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 la suddetta limitazione riguarda solo il danno patrimoniale collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica, e non si applica al danno non patrimoniale (ivi compreso quello alla salute o biologico) e morale per i quali continua a trovare applicazione la disciplina antecedente al d.lgs. n. 38 del 2000 che escludeva la copertura assicurativa obbligatoria. (Rigetta, App. Napoli, 23/08/2005) Cass. civ. Sez. lavoro, 26 marzo 2010, n. 7382 Va confermata la statuizione con cui la corte di merito ha ritenuto inoperante la copertura assicurativa vantata in forza di una polizza stipulata per coprire la responsabilità civile della società verso i propri dipendenti per infortuni sul lavoro derivanti da fatti commessi dall'assicurato o da suoi dipendenti, qualora risulti incontestabilmente dimostrato, e non adeguatamente contestato in sede di legittimità, il comportamento doloso dell'amministratore unico della società responsabile (nella specie, l'amministratore era stato consapevole dei comportamenti aggressivi e vessatori tenuti nei confronti di un dipendente e aveva tollerato e assecondato detti 48 comportamenti senza far nulla per farli cessare, così accettando consapevolmente il rischio che da essi potessero derivare conseguenze dannose). Cass. civ. Sez. lavoro, 8 febbraio 2010, n. 2736 In caso di infortunio, la responsabilità dell'azienda, conseguente alla violazione dell'art. 2087 c.c. per inosservanza delle misure di sicurezza sul lavoro, nei confronti dell'Inail che agisce in via di regresso ha natura contrattuale. L'Inail, quindi, deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa e del danno, nonché il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro, per escludere la propria responsabilità, deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile, e cioè di aver adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno, e che gli esiti dannosi sono stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile. Cass. pen. Sez. IV, 5 febbraio 2010, n. 30897 In caso di decesso del lavoratore, cagionato da violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro, il datore di lavoro ha il diritto di recuperare, in forma di risarcimento, da chi l'abbia causato, le somme corrisposte ai superstiti a titolo di indennità sostitutiva di preavviso a norma dell'art. 2118, comma terzo, cod. civ., somme non dovute ove la morte non si fosse verificata e quindi causalmente radicate in quell'evento e nelle responsabilità di chi lo abbia determinato. (Annulla in parte senza rinvio, App. Bologna, 14 novembre 2008). - Infortunio in itinere Cass. civ. Sez. lavoro, 24 settembre 2010, n. 20221 In materia di infortuni sul lavoro, l'art. 12 del D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, che ha espressamente ricompreso nell'assicurazione obbligatoria la fattispecie dell'infortunio "in itinere", inserendola nell'ambito della nozione di occasione di lavoro di cui all'art. 2 del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, esprime dei criteri normativi (come quelli di "interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate", che delimitano l'operatività della garanzia assicurativa) utilizzabili per decidere anche controversie relative a fatti antecedenti alla sua entrata in vigore. La valutazione in concreto di tali aspetti non può limitarsi alla semplice osservazione che il tragitto prescelto dal dipendente risulti essere il "più breve" per raggiungere il posto di lavoro, dovendosi invece verificare che lo stesso risulti conforme al diverso criterio della "normalità" della percorrenza dell'indicato itinerario tra casa e lavoro, secondo i principi già enunciati dalla giurisprudenza e attualmente codificati nell'art. 12 del D.Lgs. n. 38 del 2000, che riconoscono la copertura assicurativa qualora il comportamento del lavoratore non sia motivato da ragioni del tutto personali, al di fuori dell'attività lavorativa. 49 Cass. civ. Sez. lavoro, 21 settembre 2010, n. 19937 Ai fini dell'indennizzabilità dell'infortunio in itinere, occorre procedere in primo luogo alla valutazione dell'elemento topografico e cioè di quello che si presenta come il percorso più breve dalla abitazione alla sede di lavoro, e verificare successivamente se le eventuali deviazioni compiute dall'assicurato abbiano comportato, rispetto al percorso normale, minori intoppi e attraversamenti urbani (la S.C. ha confermato la sentenza del giudice di rinvio che aveva negato l'indennizzabilità dell'infortunio occorso ad un medico convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale in quanto il luogo del sinistro si trovava fuori rotta rispetto all'itinerario che il sanitario avrebbe dovuto seguire per raggiungere la sede di lavoro). Cass. civ. Sez. lavoro, 29 luglio 2010, n. 17752 In materia di indennizzabilità dell'infortunio "in itinere" occorso al lavoratore che utilizzi il mezzo di trasporto privato, non possono farsi rientrare nel rischio coperto dalle garanzie previste dalla normativa sugli infortuni sul lavoro situazioni che senza rivestire carattere di necessità - perché volte a conciliare in un'ottica di bilanciamento di interessi le esigenze del lavoro con quelle familiari proprie del lavoratore rispondano, invece, ad aspettative che, seppure legittime per accreditare condotte di vita quotidiana improntate a maggiore comodità o a minori disagi, non assumono uno spessore sociale tale da giustificare un intervento a carattere solidaristico a carico della collettività (nel caso di specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso l'indennizzabilità dell'infortunio occorso ad un lavoratore mentre si recava al lavoro alla guida del proprio ciclomotore nonostante la disponibilità di mezzi di trasporto pubblico aventi orari compatibili con le sue esigenze di vita e di lavoro). Cass. civ. Sez. lavoro, 27 aprile 2010, n. 10028 L'infortunio "in itinere" comporta il suo verificarsi nella pubblica strada e, comunque, non in luoghi identificabili in quelli di esclusiva proprietà del lavoratore assicurato o in quelli di proprietà comune, quali le scale ed i cortili condominiali, il portone di casa o i viali di complessi residenziali con le relative componenti strutturali. Cass. civ. Sez. lavoro, 26 marzo 2010, n. 7373 Non è riconosciuto l'infortunio "in itinere" al dipendente che per uscire dall'azienda usa un percorso alternativo alla via ordinaria, passando per locali non idonei. - Il mobbing Cass. pen. Sez. VI, 22 settembre 2010, n. 685 Nel nostro codice penale, nonostante una delibera del Consiglio d'Europa del 2000, che vincolava tutti gli Stati membri a dotarsi di una normativa corrispondente, non v'è traccia di una specifica figura incriminatrice per contrastare la pratica persecutoria definita mobbing. Pertanto, sulla base del diritto positivo e dei dati fattuali acquisiti 50 nella fattispecie, la via penale non appare praticabile, mentre è certamente percorribile la strada del procedimento civile. Cass. pen. Sez. VI, 22 settembre 2010, n. 685 Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetta "mobbing") possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere dal capo squadra nei confronti di un operaio). (Rigetta, Gip Trib. Torino, 01/10/2009). Cass. civ. Sez. lavoro, 29 marzo 2010, n. 7524 Va riconosciuto il risarcimento del danno da perdita di “chance” al dipendente che non ha fatto carriera a causa del cattivo rapporto che aveva con il suo superiore. La perdita di opportunità per effetto di un comportamento del datore di lavoro volto ad ostacolare la promozione del lavoratore, produce dei danni che vanno risarciti, e ciò anche in ragione del fatto che, se è vero che la promozione di un dipendente è “discrezionale”, comunque il datore di lavoro deve agire secondo buona fede e correttezza nella procedura di selezione dei dipendenti da promuovere. Cass. civ. Sez. lavoro, 26 marzo 2010, n. 7382 Per "mobbing" deve intendersi una condotta del datore di lavoro nei confronti del dipendente in violazione degli obblighi di cui all'art. 2087 c.c. e consistente in reiterati e prolungati comportamenti ostili, di intenzionale discriminazione e persecuzione psicologica, con mortificazione ed emarginazione del lavoratore, correttamente individuati dal giudice di merito in continui insulti e rimproveri con umiliazione e ridicolizzazione davanti ai colleghi di lavoro, e nella frequente adibizione a lavori più gravosi rispetto a quelli svolti in precedenza. Cass. civ. Sez. III, 2 febbraio 2010, n. 2352 In una fattispecie di rapporto gerarchico professionale, quale è quello che ricorre tra il primario di un reparto ospedaliero di chirurgia pediatrica e l'aiuto anziano, rapporto che integra un contratto sociale, costituisce un fatto colposo configurante illecito civile continuato ed aggravato dal persistere della volontà punitiva e di atti diretti all'emarginazione del professionista, la condotta del primario che, nell'esercizio formale dei poteri di controllo e di vigilanza del reparto, estrometta di fatto l'aiuto anziano da ogni attività proficua di collaborazione, impedendogli l'esercizio delle mansioni cui era addetto. Tale condotta altamente lesiva è soggettivamente imputabile al primario, come soggetto agente, ed esprime l'elemento soggettivo della colpa in senso lato, essendo intenzionalmente preordinata alla distruzione della dignità personale e dell'immagine professionale e delle stesse possibilità di lavoro in ambito professionale, con lesione immediata e diretta dei diritti inviolabili del 51 lavoratore professionista tutelati sia dalla Costituzione italiana (articoli 1, 3, comma 2, 4 e 35, comma 1, Cost.) sia dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (articoli 1 e 15, comma 1). Così stabilita ed accertata in tutti i suoi elementi, soggettivi ed oggettivi, la fattispecie da sussumere sotto la norma primaria che regola il fatto illecito (art. 2043 c.c.), il giudice del rinvio dovrà procedere alla congrua liquidazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali consequenziali, rispettando il principio del risarcimento integrale (Cassazione, Sez. Un., n. 26972/2008), evitando di compiere duplicazioni e considerando, ai fini della liquidazione congrua, la gravità dell'offesa (rilevante nel caso di specie) e la serietà del pregiudizio. Quanto al ristoro dei danni patrimoniali dovrà essere considerato il regime professionale vigente all'epoca dei fatti, e comunque la perdita delle "chances" economiche e di clientela in relazione alla distruzione dell'immagine nella comunità scientifica e nel mercato libero delle prestazioni professionali per la perdita di affidabilità scientifica e curativa. *** O. La Malattia Cass. civ. Sez. lavoro, 18 novembre 2010, n. 23299 La norma di cui all'art. 20, comma 1, del d.l. n. 112 del 2008, conv. in legge n. 133 del 2008 - che esclude l'obbligo di versamento dei contributi da parte del datore, che abbia corrisposto per legge o per contratto collettivo, anche di diritto comune, il trattamento economico di malattia, con conseguente esonero dell'Istituto nazionale della previdenza sociale dall'erogazione della predetta indennità, prevedendo tuttavia che restano acquisite alla gestione e conservano la loro efficacia le contribuzioni comunque versate per i periodi anteriori alla data del 1° gennaio 2009 - ha portata retroattiva quanto all'obbligo datoriale, mentre non si applica alle contribuzioni già versate, che restano irripetibili, per effetto della seconda parte della norma la quale, in quanto espressione della discrezionalità di cui gode il legislatore, nella conformazione dell'obbligazione contributiva, è stata ritenuta costituzionalmente legittima dalla Corte cost. con la sentenza n. 48 del 2010. (Rigetta, App. Venezia, 24/07/2008). Cass. civ. Sez. lavoro, 21 giugno 2010, n. 14910 La sospensione dell'obbligo di rendere la prestazione in capo al dipendente richiede, in caso di malattia, il tempestivo invio della certificazione sanitaria e il rispetto degli obblighi di collaborazione previsti dal contratto collettivo che regolamenta il rapporto tra le parti; in caso di grave violazione dei suddetti obblighi, il datore di lavoro è legittimato al licenziamento. Cass. civ. Sez. lavoro, 31 maggio 2010, n. 13256 Nell'ipotesi in cui il datore di lavoro si trovi nell'impossibilità di ricevere la prestazione lavorativa per causa a lui non imputabile (nella specie, per l'adesione ad uno sciopero da parte della stragrande maggioranza del personale dipendente e la 52 conseguente inutilizzabilità del personale residuo non scioperante), il diritto alla retribuzione non viene meno per quei lavoratori il cui rapporto di lavoro sia già sospeso per malattia ai sensi dell'art. 2110 cod. civ., atteso che la speciale disciplina dettata per ragioni di carattere sociale dall'art. 2110 cod. civ. investe in via esclusiva il rapporto tra datore di lavoro e singolo lavoratore, e su di essa non possono pertanto incidere le ragioni che, nel medesimo periodo di sospensione del rapporto, rendano impossibile la prestazione di altri dipendenti in servizio, senza che, peraltro, possa in tal modo configurarsi una violazione del principio di parità di trattamento, posto che detto principio non può essere validamente invocato al fine di eliminare un regime differenziale voluto a tutela di particolari condizioni già ritenute meritevoli di un trattamento privilegiato. (Rigetta, App. Campobasso, 30/06/2006). Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 9 marzo 2010, n. 5718 L'assenza del lavoratore in malattia alla visita domiciliare di controllo, per non essere sanzionata dalla perdita del trattamento economico di malattia ai sensi dell'art. 5, comma 14, del D.L. n. 463 del 1983, convertito nella legge n. 638 del 1983, può essere giustificata oltre che dal caso di forza maggiore, da ogni situazione, che, sebbene non insuperabile e nemmeno tale da determinare, ove non osservata, la lesione di beni primari, abbia reso indifferibile altrove la presenza personale dell'assicurato, come l'esigenza di solidarietà e di vicinanza familiare, consistita, nel caso concreto, nell'assistenza del lavoratore alla propria madre, ricoverata in un centro specialistico di riabilitazione e priva di altro sostegno morale, in quanto divorziata e senza altri familiari. Tale esigenza è, infatti, senza dubbio, meritevole di tutela nell'ambito dei rapporti etico-sociali garantiti e tutelati dalla Costituzione di talchè non può essere sanzionato tale lavoratore che ha dato, comunque, prova del fatto che il suo allontanamento dal domicilio durante le fasce di reperibilità era dipeso dalla necessità di recarsi nel centro predetto, in coincidenza con l'orario delle visite dei familiari, non riuscendo poi a rientrare al proprio domicilio nelle fasce di reperibilità a causa di un blocco del traffico stradale. *** P. L’appalto Cass. civ. Sez. V, 17 dicembre 2010, n. 25602 Nelle prestazioni di appalto la società appaltatrice deve emettere fattura al momento della verifica del lavoro appaltato, in quanto si applica il principio, in tema di imposte sui redditi, secondo cui, con riferimento ai contratti di appalto, concorrono alla formazione del reddito d'impresa, in un periodo determinato, esclusivamente i ricavi per i corrispettivi dei lavori ultimati, ovverosia di quelli in ordine ai quali sia intervenuta l'accettazione del committente, derivante dalla positiva esecuzione del collaudo o conseguente all'espressione, per "facta concludentia", di una volontà incompatibile con la mancata accettazione 53 Cass. civ. Sez. lavoro, 19 novembre 2010, n. 23489 L'azione diretta proposta dal dipendente dell'appaltatore contro il committente per conseguire quanto gli è dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l'appaltatore al momento della proposizione della domanda, è prevista dall'art. 1676 cod. civ. con riferimento al solo credito maturato dal lavoratore in forza dell'attività svolta per l'esecuzione dell'opera o la prestazione del servizio oggetto dell'appalto, e non anche con riferimento ad ulteriori crediti, pur relativi allo stesso rapporto di lavoro. (Rigetta, App. Roma, 05/04/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 19 novembre 2010, n. 23490 In tema di appalti di opere e servizi di cui all'art. 3 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, la garanzia ivi prevista, in favore dei dipendenti dell'appaltatore, di poter fruire - con obbligazione solidalmente gravante sul committente e sull'appaltatore - di un trattamento minimo inderogabile retributivo e normativo non inferiore a quello spettante ai dipendenti dell'impresa committente, ricomprende anche la possibilità di disporre di un servizio di mensa, quale trattamento di carattere normativo ancorché se ne debba escludere il carattere retributivo in forza dell'espressa indicazione di cui all'art. 6 del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359. (Rigetta, App. Roma, 07/08/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 19 marzo 2010, n. 6726 In tema di interposizione vietata nelle prestazioni di lavoro, l'utilizzazione da parte dell'appaltatore di beni immateriali della produzione (cosiddetto "know how") assume rilievo quale fattore distinto dalla manodopera solamente ove le conoscenze di quest'ultima - alla luce della definizione contenuta nel regolamento CE 772/2004, che all'art. 1, lett. i) definisce il "know how" come un patrimonio di conoscenze e di pratiche di uso non comune, non brevettate, derivanti da esperienze e prove costituiscano un "quid pluris" rispetto alla mera capacità professionale dei lavoratori impiegati. (Nella specie, relativa ad un rapporto tra una cooperativa di servizi e una rete televisiva con prestazioni, da parte dei soci, di operatore di messa in onda, di ripresa e di regista, la S.C., in applicazione dell'anzidetto principio, ha ritenuto sussistente la fattispecie di intermediazione vietata, attesa l'assenza di competenze e conoscenze in capo ai lavoratori superiori a quelle proprie dell'attività svolta). (Rigetta, App. Torino, 30/05/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 17 febbraio 2010, n. 3681 Il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro (art. 1 legge 23 ottobre 1960, n. 1369), in riferimento agli appalti "endoaziendali", caratterizzati dall'affidamento ad un appaltatore esterno di tutte le attività, ancorché strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, opera tutte le volte in cui l'appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all'appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo. Tale divieto si applica anche agli appalti concessi dalle Ferrovie dello 54 Stato successivamente all'entrata in vigore della legge 17 maggio 1985, n. 210, senza incontrare limiti nella disciplina dettata dall'art. 2, primo comma, lett. i) (speciale e posteriore rispetto all'art. 1 della legge n. 1369 del 1960), la quale, pur conferendo ampio rilievo alle finalità di economicità ed efficienza dell'organizzazione delle Ferrovie ed alle conseguenti esigenze di elasticità e flessibilità nella dislocazione dei servizi e del personale, non ha, tuttavia, inteso consentire all'Ente Ferrovie dello Stato più di quanto non fosse consentito all'imprenditore privato in tema di appalti di mano d'opera. (Rigetta, App. Firenze, 12/10/2006). *** Q. Cessione d’azienda e diritti del lavoratore Cass. civ. Sez. lavoro, 15 ottobre 2010, n. 21278 L'art. 2112, cod. civ., nel testo modificato dall'art. 47, legge 29 dicembre 1990, n. 428, che ha recepito la direttiva comunitaria 77/187/CE (successivamente modificato dall'art. 1, d.lgs.2 febbraio 2001, n. 18, in applicazione del canone dell'interpretazione adeguatrice della norma di diritto nazionale alla norma di diritto comunitario ed in considerazione dell'orientamento espresso dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee con le sentenze 20 novembre 2003, C- 340-01, 25 gennaio 2001, C-172/99, 26 settembre 2000, C-175/99 e 14 settembre 2000, C-343/98, deve ritenersi applicabile anche nei casi in cui il trasferimento dell'azienda non derivi dall'esistenza di un contratto tra cedente e cessionario ma sia riconducibile ad un atto autoritativo della P.A., con conseguente diritto dei dipendenti dell'impresa cedente alla continuazione del rapporto di lavoro subordinato con l'impresa subentrante, purché si accerti l'esistenza di una cessione di elementi materiali significativi tra le due imprese (Nella specie, la S.C. ha rigettato il ricorso avverso la sentenza di merito che aveva ritenuto applicabile l'art. 2112 cod. civ. ai dipendenti di una società concessionaria di trasporto i quali, fallita la società datrice di lavoro, avevano costituito una cooperativa avente ad oggetto lo svolgimento del medesimo servizio ed erano poi passati sostanzialmente senza soluzione di continuità, dopo essere stati messi in mobilità dalle cooperative alle dipendenze di una nuova società, continuando a svolgere le stesse mansioni, tanto da maturare il diritto, loro riconosciuto dalla Corte territoriale, all'inquadramento nel 5° livello del CCNL a seguito del compimento di "sedici anni di guida effettiva"). (Rigetta, App. Venezia, 19/05/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 2 settembre 2010, n. 19000 In caso di fusione per incorporazione di una società in un'altra ai sensi dell'art. 2501 e 2504 bis cod. civ., sussiste il diritto alla reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, già dipendente della società incorporata, nella società incorporante quando per effetto dell'incorporazione l'intera impresa o una ramo di essa venga trasferita ad altro soggetto (cessionario) conservando la propria identità in conformità alle condizioni previste dalla normativa comunitaria (direttiva n. 77/187/CE e successive modifiche e integrazioni) determinandosi in tale ipotesi il trasferimento di azienda ai sensi dell'art. 2112 cod. civ.. (Cassa con rinvio, App. L'Aquila, 30/01/2008) 55 Cass. civ. Sez. lavoro, 12 aprile 2010, n. 8641 In tema di trasferimento d'azienda, l'effetto estintivo del licenziamento illegittimo intimato in epoca anteriore al trasferimento medesimo, in quanto meramente precario e destinato ad essere travolto dalla sentenza di annullamento, comporta che il rapporto di lavoro ripristinato tra le parti originarie si trasferisce, ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., in capo al cessionario, dovendosi escludere che osti a tale soluzione l'applicazione della direttiva 77/187/CE, la quale prevede - secondo l'interpretazione offerta dalla Corte di giustizia CE (cfr. sentenze 12 marzo 1998, C-319/94, 11 luglio 1985, C-105/84, e 7 febbraio 1985, C-19/83) - che i lavoratori licenziati in contrasto con la direttiva debbono essere considerati dipendenti alla data del trasferimento, senza pregiudizio per la facoltà degli Stati membri di applicare o di introdurre disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli ai lavoratori. (Nella specie, la S.C., in applicazione del principio di cui alla massima, ha ritenuto che, a seguito dell'annullamento del licenziamento, sussisteva la legittimazione passiva anche del cessionario per le richieste del lavoratore relative al ripristino del rapporto di lavoro, escludendo la necessità di una pronuncia pregiudiziale della Corte di Giustizia). (Cassa con rinvio, App. Messina, 29/07/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 12 aprile 2010, n. 8641 Il subentro del cessionario nei rapporti di lavoro dei dipendenti dell'azienda ceduta, come disciplinato dall'art. 2112 c.c., deve essere escluso solo nel caso in cui detti rapporti si siano risolti legittimamente e, quindi, definitivamente, in epoca anteriore al trasferimento stesso, diversamente, infatti, il rapporto di lavoro, apparentemente interrotto, prosegue "ope legis" con il cessionario e, quindi, il lavoratore conserva tutti i diritti derivanti dal rapporto medesimo nei confronti del "nuovo" datore di lavoro. In particolare, ribadito che i rapporti di lavoro, quali rapporti giuridici, non si esuriscono in via di mero fatto ma occorre, al fine di ritenerli davvero estinti, che si realizzino precisi accadimenti giuridicamente rilevanti, l'effetto estintivo del licenziamento annullabile è, in tale quadro, totalmente precario, in quanto potenzialmente soggetto a pronuncia di annullamento, con la conseguenza che, in caso di cessione di azienda, il rapporto si ripristina non tra le parti originarie ma tra il lavoratore ed il cessionario. Nelle controversie inerenti la legittimità del licenziamento impartito al lavoratore dell'azienda ceduta sussiste, quindi, in base ai principi appena enunciati, la legittimazione passiva dell'azienda cessionaria (ovvero dell'azienda subentrata dopo che il licenziamento medesimo è stato inflitto). Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2010, n. 8262 Costituisce trasferimento d'azienda ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., anche in base al testo precedente le modificazioni introdotte dall'art. 1 del d.lgs. n. 18 del 2001, qualsiasi operazione che comporti il mutamento della titolarità di un'attività economica qualora l'entità oggetto del trasferimento conservi, successivamente allo stesso, la propria identità, da accertarsi in base al complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano la specifica operazione (tra cui, il tipo d'impresa, la cessione o meno di elementi materiali, la riassunzione o meno del personale, il trasferimento della clientela, il grado di analogia tra le attività esercitate). Né osta, alla configurabilità del trasferimento, la mancanza di un fine di lucro, purché sussista 56 un'organizzazione di mezzi produttivi idonei a fornire un prodotto o un servizio obiettivamente caratterizzati ed economicamente valutabili quanto meno sotto il profilo dei mezzi di produzione e delle prestazioni lavorative necessari per il loro conseguimento, dovendosi ritenere irrilevante, alla luce della giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte di giustizia CE, sentenza 26 settembre 2000, C-175/99, Mayeur e con riferimento a vicende diverse dal trasferimento d'impresa, sentenza 16 ottobre 2003, Commissione c. Italia, C-32/02) che, ai fini dell'applicabilità della direttiva CE 77/187, l'attività sia esercitata non a fini di lucro e nell'interesse pubblico. (Cassa con rinvio, App. Roma, 03/10/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 29 marzo 2010, n. 7517 Nel caso di trasferimento di azienda la regola di cui all'art. 2558 cod. civ. dell'automatico subentro del cessionario in tutti i rapporti contrattuali a prestazioni corrispettive non aventi carattere personale si applica soltanto ai cosiddetti "contratti di azienda" (aventi ad oggetto il godimento di beni aziendali non appartenenti all'imprenditore e da lui acquisiti per lo svolgimento della attività imprenditoriale) e ai cosiddetti "contratti di impresa" (non aventi ad oggetto diretto beni aziendali, ma attinenti alla organizzazione dell'impresa stessa, come i contratti di somministrazione con i fornitori, i contratti di assicurazione, i contratti di appalto e simili), sempreché non siano soggetti a specifica diversa disciplina, come i contratti di lavoro, di consorzio e di edizione, rispettivamente regolati dagli artt. 2112 cod. civ., 2610 cod. civ. e 132 della legge 22 aprile 1941, n. 633. (Rigetta, App. Roma, 06/06/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 11 marzo 2010, n. 5882 L'incorporazione di una società in un'altra è assimilabile al trasferimento d'azienda di cui all'art. 2112 cod. civ., con la conseguente applicazione del principio statuito dalla citata norma secondo il quale ai lavoratori che passano alle dipendenze dell'impresa incorporante si applica il contratto collettivo che regolava il rapporto di lavoro presso l'azienda cedente solamente nel caso in cui l'impresa cessionaria non applichi alcun contratto collettivo, mentre, in caso contrario, la contrattazione collettiva dell'impresa cedente è sostituita immediatamente ed in tutto da quella applicata nell'impresa cessionaria anche se più sfavorevole. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale che aveva ritenuto applicabile ai dipendenti della società incorporata il premio di rendimento previsto dal contratto integrativo aziendale della società bancaria incorporante, benché inferiore rispetto a quello previsto dal contratto integrativo aziendale della banca incorporata). (Cassa con rinvio, App. Catania, 05/08/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 11 marzo 2010, n. 5882 L'uso aziendale, quale fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo del datore di lavoro, agisce sul piano dei rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, sostituendo alle clausole contrattuali e a quelle collettive in vigore quelle più favorevoli dell'uso aziendale, a norma dell'art. 2077, secondo comma, cod. civ. Ne consegue che il diritto riconosciuto dall'uso aziendale non sopravvive al mutamento della contrattazione collettiva conseguente al trasferimento di azienda, posto che operando come una contrattazione integrativa 57 aziendale subisce la stessa sorte dei contratti collettivi applicati dal precedente datore di lavoro e non è più applicabile presso la società cessionaria dotata di propria contrattazione integrativa. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte territoriale che aveva riconosciuto ai dipendenti di una banca incorporata in altro istituto di credito il diritto al superminimo, erogato dalla società incorporata da lungo tempo, ritenendo erroneamente che tale condotta avesse determinato l'esistenza di un uso aziendale e l'inserimento del diritto nel contratto individuale di lavoro). (Cassa con rinvio, App. Catania, 05/08/2006) *** R. Il potere disciplinare del datore di lavoro - Contestazione e vincoli procedurali Cass. civ. Sez. lavoro, 13 dicembre 2010, n. 25136 Lo svolgimento di un'attività lavorativa altamente qualificata può far alterare anche il concetto di immediatezza della contestazione nel licenziamento disciplinare. Infatti, qualora si renda necessario una verifica specifica ed approfondita delle prestazioni svolte da un dato dipendente, aumenta anche il tempo a disposizione dell'azienda per procedere alla formulazione della contestazione. Cons. Stato Sez. IV, 27 novembre 2010, n. 8289 In termini generali (che valgono per l'impiego privato e per quello pubblico) l'esistenza di uno stato di incapacità naturale del lavoratore, tale da impedirgli di rendere le giustificazioni nel termine previsto dalla legge per rispondere agli addebiti contestati, comporta la necessaria posticipazione del termine di scadenza, risultando altresì violata, nel caso di irrogazione del provvedimento disciplinare prima di tale momento, la garanzia procedimentale dell'audizione. Tale principio non può essere inteso in modo da disconoscere che è onere del dipendente che contesti la legittimità della sanzione, per non aver potuto esercitare il proprio diritto di difesa a causa di una minorata capacità di intendere e di volere in detto intervallo, dimostrare di essersi trovato, nella pendenza del termine, in stato di incapacità naturale. Il comportamento del datore di lavoro che, in assenza di prova di un effettivo impedimento del lavoratore, non abbia acconsentito alla richiesta di una proroga del termine per l'audizione, non concreta una violazione dei principi di correttezza e buona fede, alla stregua dei quali deve essere valutato l'esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro (Riforma della sentenza del T.a.r. Campania - Napoli, sez. IV, n. 502/2004). Cass. civ. Sez. lavoro, 25 novembre 2010, n. 23924 In tema di licenziamento disciplinare, la preventiva contestazione dell'addebito al lavoratore incolpato deve riguardare, a pena di nullità del licenziamento stesso, anche la recidiva (o comunque i precedenti disciplinari che la integrano), ove questa 58 rappresenti elemento costitutivo della mancanza addebitata. (Rigetta, App. Torino, 09/01/2007). Cass. civ. Sez. lavoro, 18 novembre 2010, n. 23304 L'art. 7 della legge n. 300 del 1970 non prevede, nell'ambito del procedimento disciplinare, l'obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione di addebiti di natura disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, restando salva la possibilità per il lavoratore medesimo di ottenere, nel corso del giudizio ordinario di impugnazione del licenziamento irrogato all'esito del procedimento suddetto, l'ordine di esibizione della documentazione stessa. Il datore di lavoro è tenuto, tuttavia, ad offrire in consultazione all'incolpato i documenti aziendali solo in quanto e nei limiti in cui l'esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell'addebito idonea a permettere alla controparte un'adeguata difesa; ne consegue che, in tale ultima ipotesi, il lavoratore che lamenti la violazione di tale obbligo ha l'onere di specificare i documenti la cui messa a disposizione sarebbe stata necessaria al predetto fine. (Rigetta, App. Salerno, 24/07/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 17 novembre 2010, n. 23223 In tema di procedimento disciplinare, il riferimento a fatti oggetto di un procedimento penale è sufficiente ad integrare una valida contestazione dell'addebito disciplinare, dovendosi ritenere che, con tale richiamo, sia rispettato il diritto di difesa dell'incolpato, il quale è posto in grado di svolgere, anche in sede disciplinare, le più opportune difese. (Rigetta, App. Roma, 26/03/2008). Cass. civ. Sez. lavoro, 11 novembre 2010, n. 22900 Il datore di lavoro, al fine di rispettare il principio di immediatezza della contestazione disciplinare, posto a garanzia del diritto di difesa del dipendente, deve procedere alla suddetta contestazione in un tempo congruo rispetto al momento in cui i fatti addebitati si sono verificati anche nell'ipotesi in cui il medesimo dipendente sia sottoposto ad un procedimento penale. In tale situazione, infatti, il datore di lavoro, dopo aver contestato gli addebiti, potrà eventualmente sospendere il procedimento disciplinare, riservandosi di irrogare la relativa sanzione all'esito del giudizio, tenuto conto che, in presenza di un'indagine penale, il carattere immediato dell'irrogazione della sanzione disciplinare deve essere inteso in senso elastico. Cass. civ., Sez. lav., 08 marzo 2010, n. 5546. Nel licenziamento per giusta causa, il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti sia molto laborioso e richieda uno spazio temporale maggiore, e non potendo, nel caso in cui il licenziamento sia motivato dall’abuso di uno strumento di lavoro, ritorcersi a danno del datore di lavoro l’affidamento riposto nella correttezza del dipendente, o equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell’illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell’azienda a prescindere 59 dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente; in ogni caso, la valutazione della tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato (nella specie, la suprema corte ha confermato la sentenza impugnata, che, in riferimento al licenziamento di un dipendente di un’azienda telefonica determinato dall’uso scorretto del telefono cellulare di servizio, consistito nell’invio di decine di migliaia di «sms», aveva escluso l’intempestività della contestazione, intervenuta a pochi mesi di distanza dall’inizio delle necessarie verifiche, le quali avevano richiesto l’esame di complessi tabulati e prospetti, al fine di distinguere il traffico telefonico di servizio da quello illecito). Cass. civ. Sez. lavoro, 26 ottobre 2010, n. 21899 L'art. 7 della legge n. 300 del 1970 sancisce a carico del datore di lavoro l'obbligo, prima di emettere qualsiasi provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore, di contestargli l'addebito e di sentirlo a difesa. Una corretta interpretazione di siffatta norma, invero, porta ad affermare che la disposizione dell'audizione de qua si renda obbligatoria per il datore di lavoro, pena l'illegittimità del provvedimento comminato, solo ove il lavoratore ne abbia formulato espressa istanza. Incombe, pertanto, sul dipendente che, sottoposto a procedimento disciplinare, avverta l'esigenza di essere ascoltato in merito dal datore di lavoro, di formulare apposita richiesta in tal senso (il cui mancato riscontro, quindi, inficia la legittimità del provvedimento comunque irrogato). A tutela dell'affidamento del datore di lavoro circa la legittimità del provvedimento sanzionatorio comminato senza la preventiva audizione del lavoratore (specialmente nell'ipotesi di licenziamento), risulta necessario, peraltro, che la richiesta da questi formulata sia esplicita ed univoca, laddove insufficiente e quindi, irrilevante, deve essere considerata l'istanza che si caratterizzi come generica o, peggio, come ipotetica ed eventuale. Cass. civ. Sez. lavoro, 26 ottobre 2010, n. 21912 L'operatività del principio d'immutabilità della contestazione dell'addebito al lavoratore licenziato non preclude le modificazioni dei fatti contestati che non si configurino come elementi integrativi di una fattispecie di illecito disciplinare diversa e più grave di quella contestata ma che, riguardando circostanze prive di valore identificativo della stessa fattispecie, non precludano la difesa del lavoratore sulla base delle conoscenze acquisite e degli elementi a discolpa apprestati a seguito della contestazione dell'addebito. (Nella specie, la S.C., rigettando il ricorso del lavoratore licenziato, ha ritenuto corrette le valutazioni della Corte territoriale in relazione all'avvenuta osservanza del principio di immutabilità da parte del datore di lavoro che aveva contestato al ricorrente "atteggiamenti di insofferenza e di sfida nei confronti dei superiori e dei colleghi" oltre che "lentezza e negligenza" nel lavoro adempiuto "al di sotto di ogni standard quantitativo accettabile"). (Rigetta, App. Bologna, 10/11/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 1 luglio 2010, n. 15649 In tema di licenziamento per giusta causa, l'immediatezza della comunicazione del provvedimento espulsivo rispetto al momento della mancanza addotta a sua 60 giustificazione, ovvero rispetto a quello della contestazione, si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore; peraltro, il requisito della immediatezza deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustifichi o meno il ritardo. (Nella specie, relativa ad una asserita falsificazione della sottoscrizione di una ricevuta di lettera raccomandata, la S.C. ha confermato la sentenza che aveva dichiarato l'illegittimità della sanzione disciplinare irrogata dopo due anni dalla conoscenza dei fatti, ritenendo irrilevante il rinvio a giudizio del lavoratore per i medesimi fatti). (Rigetta, App. Bari, 17/07/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 26 marzo 2010, n. 7410 In tema di licenziamento disciplinare, ove sussista un rilevante intervallo temporale tra i fatti contestati e l'esercizio del potere disciplinare, la tempestività di tale esercizio deve essere valutata in relazione al tempo necessario per acquisire conoscenza della riferibilità del fatto, nelle sue linee essenziali, al lavoratore medesimo, la cui prova è a carico del datore di lavoro, senza che possa assumere autonomo ed autosufficiente rilievo la denunzia dei fatti in sede penale o la pendenza stessa del procedimento penale, considerata l'autonomia tra i due procedimenti, l'inapplicabilità, al procedimento disciplinare, del principio di non colpevolezza, stabilito dall'art. 27 Cost. soltanto in relazione al potere punitivo pubblico, e la circostanza che l'eventuale accertamento dell'irrilevanza penale del fatto non determina di per sé l'assenza di analogo disvalore in sede disciplinare. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che, con riferimento ad un dipendente postale, aveva ritenuto violato il principio della immediatezza della contestazione, avvenuta a distanza di diversi anni dai fatti, ritenendo che il tempo trascorso fosse oggettivamente eccessivo e tale da ledere il diritto di difesa del dipendente, ed evidenziando che il datore di lavoro aveva comunque avuto adeguata cognizione dei fatti fin dagli accertamenti ispettivi). (Rigetta, App. Potenza, 12/10/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 17 marzo 2010, n. 6437 Il licenziamento motivato da una condotta colposa o comunque manchevole del lavoratore, indipendentemente anche dalla sua inclusione o meno tra le misure disciplinari della specifica disciplina del rapporto, deve essere considerato di natura disciplinare e, quindi, deve essere assoggettato alle garanzie dettate in favore del lavoratore dal secondo e terzo comma dell'art. 7 della L. n. 300/1970 circa la contestazione dell'addebito ed il diritto di difesa. 61 Cass. civ. Sez. lavoro, 12 marzo 2010, n. 6091 Il principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, il quale vieta di infliggere un licenziamento sulla base di fatti diversi da quelli contestati, non può ritenersi violato qualora, contestati atti idonei ad integrare un'astratta previsione legale, il datore di lavoro alleghi, nel corso del procedimento disciplinare, circostanze confermative o ulteriori prove, in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che, in riferimento al licenziamento di un impiegato pubblico per aver svolto continuativamente attività libero-professionale senza autorizzazione, aveva escluso l'intervenuto mutamento dell'incolpazione di parte del datore di lavoro, che dopo aver contestato l'illecito disciplinare attraverso il generico richiamo del divieto normativo, aveva allegato, nel corso del procedimento, la partecipazione del lavoratore ad una società professionale, lo svolgimento di attività di coordinamento e progettazione di lavori e la denuncia di redditi di lavoro autonomo per un triennio). (Rigetta, App. Firenze, 12/04/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 11 marzo 2010, n. 5864 In tema di procedimento disciplinare a carico del lavoratore, le garanzie apprestare dall'art. 7 della legge n. 300 del 1970 per consentire all'incolpato di esporre le proprie difese in relazione al comportamento addebitatogli non comportano per il datore di lavoro un dovere autonomo di convocazione del dipendente per l'audizione orale, ma solo un obbligo correlato alla richiesta del lavoratore di essere sentito di persona, sicchè le discolpe fornite dall'incolpato per iscritto consumano il suo diritto di difesa solo quando dalla dichiarazione scritta emerga la rinuncia ad essere sentito o quando la richiesta appaia, sulla base delle circostanze del caso, ambigua o priva di univocità: al di fuori di tali ipotesi, un sindacato del datore di lavoro in ordine all'effettiva idoneità difensiva della richiesta di audizione orale non può ritenersi consentito neppure alla stregua dell'obbligo delle parti di conformare la propria condotta a buona fede e lealtà contrattuale, il quale può assumere rilievo ai fini della valutazione in ordine all'ambiguità della richiesta, ma non consente di dare ingresso ad una valutazione di compatibilità della facoltà di audizione esercitata dal lavoratore incolpato alla luce delle difese già svolte e della sua idoneità ad utilmente integrare queste ultime. (Rigetta, App. Roma, 11/07/2008). *** - Proporzionalità della sanzione Cass. civ. Sez. lavoro, 13 dicembre 2010, n. 25144 Giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la 62 valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, ovvero a far sussistere la proporzionalità tra infrazione e sanzione, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Pertanto, l'operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell'applicare le clausole generali come quella di cui all'art. 2119 o all'art. 2106 cod. civ., che dettano tipiche "norme elastiche", non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell'applicazione della clausola generale, poiché l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall'ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la fattispecie si colloca. (Rigetta, App. Lecce, 18/06/2007). Cass. civ. Sez. lavoro, 26 luglio 2010, n. 17514 In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza. Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro. (Nella specie la S.C. ha ritenuto adeguatamente motivata la sentenza della Corte territoriale che aveva respinto il ricorso di un dipendente licenziato da un istituto di credito il quale aveva consentito ad un cliente, benché in assenza di fondi, l'apertura di un conto corrente al fine di realizzare operazioni speculative di "trading" con conseguente elevato rischio per il capitale dell'istituto medesimo). (Rigetta, App. Napoli, 06/06/2006). Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 29 marzo 2010, n. 7518 Il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione del licenziamento individuale per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto ed a tutte le circostanze del caso. In tal senso, l’inadempimento del lavoratore, qualora provato dal datore di lavoro, ex art. 5 legge n. 604 del 1966, deve essere valutato avuto riguardo al criterio della non scarsa importanza di cui all’art. 1455 c.c., con la conseguenza che la irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata nella sola ipotesi in cui sia notevole l’inadempimento del prestatore alle obbligazioni contrattuali, ovvero addirittura tale da non consentire la 63 prosecuzione, neppure temporanea del rapporto. Ciò rilevato, l’esito favorevole di un giudizio avente ad oggetto l’impugnazione di un licenziamento disciplinare che si assume ingiustificato, è determinato dalla esclusione dell’inadempimento imputato al lavoratore, ovvero da un inadempimento tale da non giustificare, per la usa gravità, la sanzione disciplinare. (Nella fattispecie la condotta del lavoratore concretantesi nell’impedire ai colleghi di fare ingresso in azienda in occasione di agitazioni aziendali non è stato ritenuto tale da giustificare la irrogazione del licenziamento). Cass. civ. Sez. lavoro, 22 marzo 2010, n. 6848 In tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all'illecito commesso rimesso al giudice di merito - si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto, e l'inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 cod. civ., sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della Corte territoriale che aveva ritenuto ingiustificato il licenziamento disciplinare irrogato ad un lavoratore per aver usato un'auto aziendale a fini privati - coinvolta in un incidente stradale in cui decedeva il guidatore, e lo stesso lavoratore licenziato riportava gravi lesioni - in considerazione del fatto che l'autovettura aziendale era stata prelevata da altro lavoratore, delle condizioni di lavoro particolarmente disagiate in cui si era trovato ad operare e dell'assenza di precedenti violazioni). (Rigetta, App. Torino, 12/12/2005 *** S. I licenziamenti individuali - Varie Cass. civ. Sez. VI, 14 dicembre 2010, n. 25246 I provvedimenti d'urgenza emessi ai sensi dell'art. 700 cod. proc. civ. hanno di norma il carattere dell'atipicità, dovendo essere adottati, secondo le circostanze, allo scopo di assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione di merito, ma non devono per ciò solo anticipare il prevedibile contenuto della medesima; ne consegue che il provvedimento d'urgenza con cui si ordina la reintegrazione nel posto di lavoro di un lavoratore il cui licenziamento appaia illegittimo non ha necessariamente contenuto ed efficacia analoghi a quelli di un ordine di reintegrazione emesso, ai sensi dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970, con la sentenza di merito, non ricomprendendo il provvedimento cautelare l'accertamento dell'obbligo datoriale del pagamento della retribuzione maturata nel periodo dalla data del licenziamento a quella della reintegrazione, ed essendo conseguentemente inidoneo a fondare la domanda di tali 64 retribuzioni richieste dal lavoratore in sede monitoria. (Rigetta, App. Potenza, 25/09/2009). Cass. civ. Sez. VI, 14 dicembre 2010, n. 25249 Ai fini della operatività della tutela reale contro i licenziamenti individuali illegittimi, il computo dei dipendenti va accertato sulla base del criterio della normale occupazione, da riferirsi al periodo di tempo antecedente al licenziamento e non anche a quello successivo; nel caso in cui poi la variabilità del livello occupazionale sia strutturalmente connessa al carattere dell'attività produttiva, come nella specie quella stagionale, che richiede normalmente il ricorso al contratto a termine o al parttime verticale, il riferimento al criterio medio-statistico della normale occupazione trova conferma nella specifica disciplina del part-time e, per l'individuazione dell'arco di tempo in cui calcolare tale media, il periodo temporale utilizzabile più appropriato è quello riferito all'anno. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore da una società che gestiva un'impresa stagionale, ma rigettato la domanda di reintegrazione nel posto di lavoro, essendo stato accertato che nell'anno antecedente il licenziamento la media annuale dei lavoratori occupati era stata di non oltre quindici dipendenti). (Rigetta, App. Brescia, 23/10/2009). Cass. civ. Sez. lavoro, 1 dicembre 2010, n. 24350 La disposizione dell'art. 18, quinto comma, legge n. 300 del 1970, stabilita per le sentenze che dispongono la reintegrazione, deve intendersi analogicamente estesa anche ai provvedimenti cautelari di eguale contenuto, non rilevando in senso contrario, la circostanza che ad essi non sia seguito il giudizio di merito; ne consegue che, nell'ipotesi in cui il lavoratore, licenziato e successivamente reintegrato con provvedimento d'urgenza, non riprenda il lavoro nel termine di trenta giorni dal ricevimento dell'invito in tal senso rivoltogli dal datore di lavoro (ovvero nel diverso termine indicato nel suddetto provvedimento), il rapporto deve ritenersi risolto, con preclusione dell'esercizio di opzione per l'indennità sostitutiva. (Nella specie, la lavoratrice - che all'esito del provvedimento cautelare di reintegra non aveva ripreso servizio, rendendosi così destinataria di una sanzione disciplinare per l'ingiustificata assenza - aveva esercitato la detta opzione all'esito della sentenza di merito che aveva poi riconosciuto le sue ragioni; la S.C., nell'affermare il principio su esteso, ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto tempestiva l'opzione esercitata dalla lavoratrice comunque nel termine di 30 giorni dall'invito a riprendere l'attività lavorativa rivoltale dopo il rigetto del reclamo in sede cautelare, e quando la causa era stata già decisa nel merito, sicchè il titolo per l'esercizio del diritto di opzione era costituito non più dall'ordinanza cautelare ma dal dispositivo della sentenza e il licenziamento era intervenuto nel corso dello "spatium deliberandi" riconosciuto alla lavoratrice per decidere se dare corso alla reintegra ovvero optare per l'indennità sostitutiva). (Rigetta, App. Firenze, 17/02/2007). Cass. civ. Sez. lavoro, 1 dicembre 2010, n. 24361 Rende legittimo il licenziamento per scarso rendimento l'atteggiamento negligente del lavoratore, protratto nel tempo e non modificato a seguito dei richiami dei superiori, il 65 quale violi in modo incontestato la clausola di rendimento relativa all'attività lavorativa espletata, nonostante la qualità di rendimento e la capacità professionale dimostrate in precedenza. Cass. civ. Sez. lavoro, 1 dicembre 2010, n. 24361 È legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia risultata provata una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente - ed a lui imputabile - in conseguenza dell'enorme sproporzione fra gli obbiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferiti ad una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione. Cass. civ. Sez. lavoro, 30 novembre 2010, n. 24242 La sentenza che, dichiarando l'illegittimità del licenziamento, condanni il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore le mensilità di retribuzione, secondo i criteri di cui all'art. 2121 cod. civ., per il periodo compreso fra la data del licenziamento stesso e quella dell'effettiva reintegra, va parificata, quando non sia indicativa di un importo determinato o determinabile in base a semplice calcolo aritmetico, ad una pronuncia di condanna generica, con conseguente eventuale necessità di un ulteriore giudizio per la liquidazione del "quantum", quando insorga successivamente controversia in ordine alla individuazione della retribuzione globale di fatto assunta dal quarto comma dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970 quale parametro del risarcimento. (Rigetta, App. Catania, 08/06/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 4 novembre 2010, n. 22443 Alla stregua di una interpretazione letterale e logico-sistematica dell'art. 2118 cod. civ., nel contratto di lavoro a tempo indeterminato il preavviso non ha efficacia reale che comporta, in mancanza di accordo tra le parti circa la cessazione immediata del rapporto, il diritto alla prosecuzione del rapporto stesso e di tutte le connesse obbligazioni fino alla scadenza del termine - ma efficacia obbligatoria. Ne consegue che, nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l'unico obbligo della parte recedente di corrispondere l'indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti, a meno che la parte recedente, nell'esercizio di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l'efficacia sino al termine del periodo di preavviso. (Nella specie la S.C., rilevato che il datore di lavoro aveva licenziato il lavoratore per giustificato motivo, individuandolo nell'abolizione della qualifica rivestita dal lavoratore, per poi convertirlo, due mesi dopo, in licenziamento per giusta causa, asserendo l'esistenza di gravi inadempimenti, ha dichiarato il secondo licenziamento privo di efficacia, in quanto intervenuto nell'ambito di un rapporto già estinto). (Rigetta, App. Venezia, 12/01/2006). 66 Cass. civ. Sez. lavoro, 15 luglio 2010, n. 16579 In tema di licenziamento, trova applicazione la legge italiana allorquando, dalle risultanze probatorie, emerga chiaramente, come accaduto nel caso concreto, che il contratto di lavoro è stato concluso in Italia, benché la sede di lavoro fosse situata in un Paese estero presso una filiale della società - datrice di lavoro che aveva ottenuto, in base alla normativa interna italiana, l'autorizzazione per l'assunzione all'estero del lavoratore. Tali circostanze, infatti, insieme al fatto che entrambe le parti contrattuali fossero italiane (nella specie il prestatore di lavoro aveva nazionalità italiana, con normale residenza in Italia così come la società, datrice di lavoro, aveva sede in Italia, sì da essere disciplinata dal diritto italiano) e che la lettera di licenziamento fosse stata sottoscrittta dalla società-datrice di lavoro italiana, senza che in essa si facesse riferimento alla predetta filiale estera o che fosse specificato che si agiva in qualità di mandataria di quest'ultima, confermano la correttezza dell'applicazione della legge italiana alla fattispecie in oggetto, con il conseguente rigetto del motivo di gravame sollevato al riguardo. Cass. civ. Sez. lavoro, 13 luglio 2010, n. 16421 In tema di licenziamento, conformemente al disposto di cui all'art. 2, legge n. 604 del 1966 (come modificato dall'art. 2, legge n. 108 del 1990), il lavoratore ha la possibilità di richiedere al datore di lavoro di specificare le ragioni poste a fondamento del proprio licenziamento, qualora le stesse non siano state espressamente indicate nel relativo atto di intimazione. Tale richiesta non può, però, considerarsi implicita nell'atto con cui il lavoratore impugna il licenziamento, atteso che la ratio dell'impugnazione è quella di contestare in ogni caso il licenziamento, a prescindere dalla mancata motivazione e non può, conseguentemente, ritenersi idonea a determinare, pur contenendo la richiesta dei motivi, l'onere in capo al datore di lavoro di precisarli. Ne deriva che, come accaduto nel caso di specie, laddove il lavoratore impugni il licenziamento, senza effettuare una separata e preventiva richiesta dei motivi posti alla base dello stesso, il datore di lavoro non è tenuto a specificarli, potendolo fare direttamente in sede giudiziale, senza che ciò comporti né integrazione né modificazione di quanto già espresso nell'atto di intimazione del licenziamento. Cass. civ. Sez. lavoro, 11 giugno 2010, n. 14083 In materia di procedimento disciplinare, qualora una norma di legge affidi ad un organo collegiale l'inflizione di una sanzione disciplinare ed imponga il segreto del voto, la violazione di quest'obbligo produce l'invalidità della deliberazione e non la semplice sua irregolarità, in quanto la legittimità sostanziale della sanzione è connessa anche alla tutela dell'interesse del lavoratore incolpato al corretto svolgimento del procedimento disciplinare e, in particolare, alla neutralità dei giudicanti, liberi da pressioni esterne o da semplici condizionamenti psicologici. (Nella specie, relativa a procedimento disciplinare nei confronti di dipendente di una I.P.A.B., nel regime precedente il riordino di cui al d.lgs. n. 207 del 2001, la S.C. ha ritenuto applicabile il principio, di carattere imperativo, di cui all'art. 48 del r.d. 5 febbraio 1891 n. 99 secondo il quale le votazioni hanno sempre luogo a voti segreti quando si tratti di questioni concernenti persone, desumendo dall'inosservanza delle anzidette modalità di voto la nullità del licenziamento, ed ha cassato la sentenza 67 impugnata che, invece, aveva ravvisato una mera irregolarità, priva di incidenza sulla validità del recesso). (Cassa con rinvio, App. Trieste, 12/10/2005) Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 29 marzo 2010, n. 7531 L'istituto del preavviso contemplato dall'art. 2118 c.c., non trova applicazione, salvo diversa disposizione legale o contrattuale, allorquando l'esecuzione della prestazione di lavoro dedotta in contratto sia divenuta totalmente ed assolutamente impossibile, come è accaduto nel caso di specie, in cui il ricorrente, quale pilota di aeromobile, essendo stato dichiarato inidoneo permanentemente al volo in esito ad un giudizio medico-legale, potrebbe rendere una diversa prestazione di lavoro nell'ambito del personale di terra soltanto in esecuzione di un contratto di lavoro diverso. In similari ipotesi, infatti, si deve escludere che, nel caso di inidoneità permanente al volo, che è l'unica prestazione lavorativa dedotta nel contratto dei piloti, configurando ciò una causa di risoluzione del rapporto, il datore di lavoro possieda uno ius variandi che gli consenta di inserire il pilota nell'ambito del personale di terra senza che ciò implichi una novazione del contratto stesso. Cass. civ. Sez. Unite, 14 aprile 2010, n. 8830 L'impugnazione del licenziamento ai sensi dell'art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, formulata mediante dichiarazione spedita al datore di lavoro con missiva raccomandata a mezzo del servizio postale, deve intendersi tempestivamente effettuata allorché la spedizione avvenga entro sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento o dei relativi motivi, anche se la dichiarazione medesima sia ricevuta dal datore di lavoro oltre detto termine, atteso che - in base ai principi generali in tema di decadenza, enunciati dalla giurisprudenza di legittimità e affermati, con riferimento alla notificazione degli atti processuali, dalla Corte costituzionale - l'effetto di impedimento della decadenza si collega, di regola, al compimento, da parte del soggetto onerato, dell'attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione demandato ad un servizio - idoneo a garantire un adeguato affidamento - sottratto alla sua ingerenza, non rilevando, in contrario, che, alla stregua del predetto art. 6, al lavoratore sia rimessa la scelta fra più forme di comunicazione, la quale, valendo a bilanciare la previsione di un termine breve di decadenza in relazione al diritto del prestatore a conservare il posto di lavoro e a mantenere un'esistenza libera e dignitosa (artt. 4 e 36 Cost.), concorre a mantenere un equo e ragionevole bilanciamento degli interessi coinvolti. (Cassa con rinvio, App. Palermo, 08/09/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 24 marzo 2010, n. 7044 La scrittura con la quale sia intimato il licenziamento può ritenersi valida, ai sensi dell'art. 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604, anche quando non venga sottoscritta dal datore di lavoro o da un suo rappresentante, ma contenga, nell'intestazione ed in calce, la denominazione dell'impresa e del suo titolare, sia trasmessa mediante raccomandata e tempestivamente impugnata dal lavoratore con riferimento al contenuto e non alla forma. (Rigetta, App. Roma, 14/10/2005). 68 Cass. civ. Sez. lavoro, 10 marzo 2010, n. 5804 Il lavoratore decaduto dall'impugnativa del licenziamento illegittimo può esperire l'azione risarcitoria generale, previa allegazione dei relativi presupposti, diversi da quelli previsti dalla normativa sui licenziamenti e tali da configurare l'atto di recesso come idoneo a determinare un danno risarcibile, ma non può ottenere, neppure per equivalente, il risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute a causa del licenziamento, essendogli ciò precluso dalla maturata decadenza. (Rigetta, App. Torino, 20/04/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 23 febbraio 2010, n. 4375 In tema di controllo del lavoratore, le garanzie procedurali imposte dall'art. 4, secondo comma, della legge n. 300 del 1970 (espressamente richiamato anche dall'art. 114 del d.lgs. n. 196 del 2003 e non modificato dall'art. 4 della legge n. 547 del 1993, che ha introdotto il reato di cui all'art. 615-ter cod. pen.) per l'installazione di impianti ed apparecchiature di controllo richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, trovano applicazione anche ai controlli c.d. difensivi, ovverosia a quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando tali comportamenti riguardino l'esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela dei beni estranei al rapporto stesso, dovendo escludersi che l'insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti possa assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto correttamente motivata la sentenza impugnata, la quale aveva negato l'utilizzabilità a fini disciplinari dei dati acquisiti mediante programmi informatici che consentono il monitoraggio della posta elettronica e degli accessi Internet dei dipendenti, sul presupposto che gli stessi consentono al datore di lavoro di controllare a distanza ed in via continuativa l'attività lavorativa durante la prestazione, e di accertare se la stessa sia svolta in termini di diligenza e corretto adempimento). (Rigetta, App. Milano, 30/09/2005). Cass. civ. Sez. V Ord., 25 gennaio 2010, n. 1349 L'indennità prevista dal contratto collettivo dei dirigenti di aziende industriali per l'ipotesi di licenziamento ingiustificato o di recesso per giusta causa è assoggettata a tassazione separata e a ritenuta d'acconto. Secondo la disciplina dettata dagli artt. 6 e 16 del T.u.i.r. - D.P.R. n. 917/1986 (ora artt. 6 e 17), infatti, tutte le indennità conseguite dal lavoratore a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, e quindi tutte le indennità aventi causa o che traggano comunque origine dal rapporto di lavoro, comprese le indennità per la risoluzione del rapporto per illegittimo comportamento del datore di lavoro, costituiscono redditi da lavoro dipendente. È comunque onere del contribuente dimostrare che l'indennità si riferisce (in tutto o in parte) a voci di risarcimento puro, esenti da tassazione, e non è sufficiente che sia precisato che essa ha carattere risarcitorio, perché costituisce risarcimento anche il ristoro di emolumenti non percepiti, tassabili ai sensi dell'art. 6, comma 2, del T.u.i.r.. Tali somme, percepite dal lavoratore a titolo di transazione della controversia avente ad oggetto il 69 risarcimento del danno per illegittimo licenziamento, sono imponibili ai sensi degli artt. 6, comma 2, e 48 del T.u.i.r. (ora art. 51) e soggette a tassazione separata ai sensi dell'art. 16 (ora art. 17), comma 1, lett. i), del medesimo Testo Unico. - Giusta causa e giustificato motivo Cass. civ. Sez. lavoro, 21 gennaio 2011, n. 1459 Ai fini della valutazione della legittimità del licenziamento, è necessario accertare se, in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso fra le parti, ed alla qualità ed al grado di fiducia che il rapporto comporta, la specifica mancanza risulti oggettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore ripone nel proprio dipendente, senza che possa assumere rilievo l'assenza o la modesta entità del danno patrimoniale subito dal datore. Sul piano probatorio, poi, se all'integrazione dei fatti giuridicamente legittimanti il licenziamento è necessario il dolo, l'onere datoriale di provare la sussistenza dei fatti si estende alla prova del dolo, e pertanto, ai fini della legittimità del licenziamento, la prova della sussistenza del fatto nella sua mera materialità è insufficiente. Cass. civ. Sez. lavoro, 13 dicembre 2010, n. 25144 Giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, ovvero a far sussistere la proporzionalità tra infrazione e sanzione, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Pertanto, l'operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell'applicare le clausole generali come quella di cui all'art. 2119 o all'art. 2106 cod. civ., che dettano tipiche "norme elastiche", non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell'applicazione della clausola generale, poiché l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall'ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la fattispecie si colloca. (Rigetta, App. Lecce, 18/06/2007). 70 Cass. civ. Sez. lavoro, 17 dicembre 2010, n. 25587 La diversa valutazione in ordine alla minor gravità della condotta addebitata al dipendente legittima il giudice a operare la conversione del licenziamento originariamente intimato per giusta causa in giustificato motivo con preavviso. Cass. civ. Sez. lavoro, 25 novembre 2010, n. 23926 L'impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo oggettivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro, perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività, che sia riconducibile - alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103 c.c.) o, se ciò è impossibile, a mansioni anche inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore. Cass. civ. Sez. lavoro, 16 novembre 2010, n. 23132 È illegittimo, perché sproporzionato, il licenziamento per giusta causa irrogato al lavoratore il quale abbia rivolto per telefono ingiurie e volgarità ad un azionista di riferimento di una società controllata dalla datrice di lavoro, che sia stato percepito dal lavoratore come soggetto estraneo all'organizzazione lavorativa e, quindi, all'assetto gerarchico della società datrice di lavoro. Cass. civ. Sez. lavoro, 15 luglio 2010, n. 16579 Ove il datore di lavoro, a giustificazione del licenziamento, adduca, con valutazione rientrante nell'esercizio della libertà di iniziativa economica non sindacabile in sede giudiziaria, la necessità di sopprimere un posto di lavoro, incombe sul medesimo datore di lavoro l'onere di provare l'impossibilità di assegnare il lavoratore licenziato ad altro posto, con riguardo alla sua capacità professionale ed alle caratteristiche dell'intera azienda. Cass. civ. Sez. lavoro, 30 aprile 2010, n. 10538 In virtù del principio di immodificabilità del motivo del licenziamento è precluso al datore di lavoro, il quale intimi un licenziamento per giustificato motivo oggettivo (mancanza di lavoro) invocare in giudizio una giusta causa, tra l'altro senza dedurre in quale sede e con quali modalità essa sia stata contestata al lavoratore. Cass. civ. Sez. lavoro, 23 aprile 2010, n. 9700 L'inidoneità sopravvenuta allo svolgimento delle mansioni contrattualmente previste integra un giustificato motivo oggettivo di licenziamento ex art. 3 legge n. 604/1966 da parte del datore di lavoro, sul quale ricade l'onere di dimostrare l'impossibilità di una diversa, ma pur sempre apprezzabile, collocazione del lavoratore nell'attuale ambito aziendale, senza che tuttavia questo si traduca in un obbligo di modifica della struttura organizzativa. 71 Cass. civ., Sez. lav., Sent. 12 aprile 2010, n. 8641. In tema di licenziamento per giusta causa, la condotta del lavoratore deve essere valutata nel suo contenuto obiettivo, con specifico riferimento alla natura e alla qualità del rapporto, al particolare vincolo di fiducia che esso implica per la posizione rivestita nel suo ambito dal prestatore di lavoro, al grado di affidamento richiesto per le mansioni ricoperte, nonché nella sua portata soggettiva in relazione alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi che l’hanno determinato e alla intensità dell’elemento volitivo, che deve essere riferito anche all’ambito della relazione lavorativa e non solo ai profili meramente interiori (nella specie, relativa al licenziamento di un dipendente bancario, il quale, falsificando la firma della propria fidanzata sul presupposto del consenso di quest’ultima, aveva effettuato un prelievo indebito da un conto bancario, la suprema corte, in accoglimento del ricorso, ha annullato la decisione di merito che non solo aveva omesso ogni considerazione sui profili oggettivi, ossia sul ruolo ricoperto dal dipendente e sul correlato grado di affidamento richiesto dalla specifica posizione lavorativa ricoperta, ma anche sul piano soggettivo aveva preso in considerazione esclusivamente il profilo interno relativo alla relazione extralavorativa del lavoratore, del tutto ignorando l’aspetto prognostico del giudizio da formulare sulla potenziale futura compromissione dell’idoneità dello stesso all’esatto adempimento delle obbligazioni con la banca). Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2010, n. 8237 In tema di giustificato motivo di licenziamento relativamente ai necessari profili di congruità ed opportunità che caratterizzano tale disciplina, la scelta imprenditoriale che abbia avuto come conseguenza la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il dipendente sottoposto a licenziamento non è sindacabile a condizione che risulti oggettivo e non pretestuoso il riassetto organizzativo della compagine lavorativa che ha determinato la scelta di licenziare detto dipendente. Cass. civ., Sez. lav., 29 marzo 2010, n. 7518. In tema di licenziamento per giusta causa, la mancanza del lavoratore deve essere tanto grave da giustificare l’irrogazione della sanzione espulsiva e, pertanto, il comportamento del prestatore va valutato non solo nel suo contenuto oggettivo - con riguardo alla natura e alla qualità del rapporto, al vincolo che esso comporta e al grado di affidamento richiesto dalle mansioni espletate - ma anche nella sua portata soggettiva, con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stato posto in essere, ai modi, agli effetti e all’intensità dell’elemento psicologico dell’agente; ne consegue che la condotta del lavoratore, il quale, in occasione di uno sciopero, abbia cercato di impedire l’accesso ai locali dell’azienda da parte di un altro lavoratore, strattonandolo e facendolo arretrare, senza, tuttavia, giungere al compimento di atti di violenza fisica o di percosse, pur costituendo un illecito non integra i requisiti di gravità idonei a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro e a giustificare l’irrogazione della massima sanzione, tanto più ove rilevi, sotto il profilo intenzionale, lo stato di elevata tensione delle relazioni sindacali al momento dei fatti, nonché, quanto all’apparato sanzionatorio stabilito dal c.c.n.l. applicabile (nella specie, l’art. 25 c.c.n.l. dei metalmeccanici), la previsione del licenziamento per infrazioni connotate da superiori livelli di gravità, quali la rissa in azienda ovvero il danneggiamento volontario del materiale aziendale. 72 Cass. civ. Sez. lavoro, 29 marzo 2010, n. 7531 In linea generale, il licenziamento per sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle mansioni cui è adibito il lavoratore, viene ricondotto all'ipotesi del giustificato motivo oggettivo (con diritto al preavviso) proprio perché non si può escludere l'impiego del dipendente in mansioni diverse. Tuttavia, con riguardo allo speciale rapporto di lavoro dei piloti, deve escludersi l'indicata evenienza per il caso di inidoneità permanente al volo, che è l'unica prestazione lavorativa dedotta in questo particolare contratto di lavoro. Non è configurabile, infatti, per il datore di lavoro, uno "ius variandi" che consenta di inserire il pilota nell'ambito del personale di terra senza che si produca una novazione del contratto. Cass. civ. Sez. lavoro, 26 marzo 2010, n. 7381 In materia di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo determinati da ragioni inerenti all'attività produttiva, il datore di lavoro ha l'onere di provare, con riferimento alla capacità professionale del lavoratore ed alla organizzazione aziendale esistente all'epoca del licenziamento, anche attraverso fatti positivi, tali da determinare presunzioni semplici (come il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo periodo non vi siano state nuove assunzioni nella stessa qualifica del lavoratore licenziato), l'impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva, giustificandosi il recesso solo come "extrema ratio". (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza della corte territoriale che, con riferimento ad azienda di grandi dimensioni, aveva ritenuto non assolto dal datore di lavoro l'onere probatorio, sul rilievo delle numerose assunzioni nell'anno seguente a quello del licenziamento, di personale con la medesima qualifica del lavoratore licenziato, e dell'elevato livello di istruzione di questo, che ne consentiva l'utilizzazione in settori diversi da quello in cui era stato precedentemente addetto). (Rigetta, App. Roma, 21/08/2006). Cass. civ., Sez. lav., 08 marzo 2010, n. 5546. Ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, qualora risulti accertato che l’inadempimento del lavoratore è tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, è irrilevante che analoga inadempienza, commessa da altro dipendente, sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro; solo l’identità delle situazioni potrebbe, infatti, privare il provvedimento espulsivo della sua base giustificativa, non potendo porsi a carico del datore di lavoro l’onere di fornire, per ciascun licenziamento, la motivazione del provvedimento adottato, comparata a quelle assunte in fattispecie analoghe. Cass. civ. Sez. lavoro, 8 marzo 2010, n. 5548 In tema di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, anche una condotta colposa del dipendente, benché non indicativa di un'aperta ribellione alla disciplina dell'impresa, può rivelare una violazione dei doveri di cautela e di attenzione idonea a ledere il rapporto fiduciario, soprattutto qualora il datore di lavoro abbia affidato al lavoratore l'uso e la custodia di beni patrimoniali di rilevante valore. (Nella specie la 73 S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto sorretto da giustificato motivo soggettivo il licenziamento di un autista addetto ai trasporti eccezionali che, nel condurre un autoarticolato della società di cui era dipendente, si era distratto dalla guida e, non avvedendosi di un blocco del traffico, non era riuscito a conservare il controllo del veicolo ed era finito fuori strada, nel tentativo di effettuare una manovra di emergenza). (Cassa con rinvio, App. Roma, 27/10/2003) Cass. civ. Sez. lavoro, 5 marzo 2010, n. 5403 In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo del lavoratore distaccato presso un terzo, gli elementi costitutivi del giustificato motivo oggettivo devono essere verificati con riferimento all'ambito aziendale del datore di lavoro distaccante, sul quale ricade anche l'onere di provare, con riguardo all'organizzazione aziendale esistente all'epoca del licenziamento, l'impossibilità di adibire utilmente il lavoratore e mansioni diverse da quelle che prima svolgeva, con la conseguenza che non è sufficiente ad integrare il giustificato motivo oggettivo di licenziamento la mera cessazione dell'interesse al distacco o la soppressione del posto presso il terzo distaccato. (Cassa con rinvio, App. Venezia, 21/10/2005) - Superamento del periodo di comporto Cass. civ. Sez. lavoro, 21 dicembre 2010, n. 25863 È corretta l'interpretazione del giudice del merito secondo cui la clausola del contratto collettivo nazionale di lavoro, nella parte in cui prevede che, superato il periodo di comporto di 12 mesi, su richiesta del lavoratore, impossibilitato a riprendere servizio, potrà essere concessa un'aspettativa, gli attribuisce il diritto o, quanto meno, un interesse qualificato a un ulteriore periodo di sospensione del rapporto. Cass. civ. Sez. lavoro, 25 novembre 2010, n. 23920 Il licenziamento per superamento del periodo di comporto è assimilabile non al licenziamento disciplinare, ma a quello per giustificato motivo oggettivo. Ne consegue che il datore di lavoro, non ha l'onere di indicare le singole giornate di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive come la determinazione del numero totale delle assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l'onere, nell'eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato. (Rigetta, App. Catania, 04/08/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 13 luglio 2010, n. 16421 Con riferimento al licenziamento che trovi giustificazione nelle assenze per malattia del lavoratore, si applicano le regole dettate dall'art. 2 della legge n. 604/1966 (modificato dall'art. 2 della legge n. 108 del 1990) sulla forma dell'atto e la comunicazione dei motivi del recesso, poiché nessuna norma speciale è al riguardo dettata dall'art. 2110 cod. civ. Conseguentemente, qualora l'atto di intimazione del licenziamento non precisi le assenze in base alle quali sia ritenuto superato il periodo 74 di conservazione del posto di lavoro, il lavoratore - il quale, particolarmente nel caso di comporto per sommatoria, ha l'esigenza di poter opporre propri specifici rilievi - ha la facoltà di chiedere al datore di lavoro di specificare tale aspetto fattuale delle ragioni del licenziamento, e, nel caso di non ottemperanza con le modalità di legge a tale richiesta, di dette assenze non può tenersi conto ai fini della verifica del superamento del periodo di comporto; ove, invece, il lavoratore abbia direttamente impugnato il licenziamento, il datore di lavoro può precisare in giudizio i motivi di esso ed i fatti che hanno determinato il superamento del periodo di comporto, non essendo ravvisabile in ciò una integrazione o modificazione della motivazione del recesso. (Rigetta, App. Roma, 06/12/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 11 maggio 2010, n. 11342 Risulta incompatibile con la volontà di recedere dal contratto il comportamento del datore di lavoro di accettare il rientro al lavoro del dipendente, al superamento del periodo di comporto per sommatoria, senza l'adozione nei confronti di questo di alcun provvedimento, ingenerando così l'affidamento dell'interessato sulla tolleranza delle numerose assenze per ripetuti eventi morbosi. Cass. civ. Sez. lavoro, 28 gennaio 2010, n. 1861 La fattispecie di recesso del datore di lavoro, per l'ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), è soggetta alle regole dettate dall'art. 2110 cod. civ., che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali. Ne consegue che il datore di lavoro, da un lato, non può recedere dal rapporto prima del superamento del limite di tollerabilità dell'assenza (cosiddetto periodo di comporto), il quale è predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa, e, dall'altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo nè della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, nè della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse. (Cassa con rinvio, App. Palermo, 13/02/2006). - Licenziamento del dirigente Cass. civ. Sez. lavoro, 13 dicembre 2010, n. 25145 La disciplina limitativa del potere di licenziamento di cui alle leggi 15 n. 604 del 1966 e n. 300 del 1970 non è applicabile, ai sensi dell'art. 10 della legge n. 604 del 1966, ai dirigenti convenzionali, quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile, sia che si tratti di dirigenti apicali, che di dirigenti medi o minori, ad eccezione degli pseudo-dirigenti, vale a dire di coloro i cui compiti non sono in alcun modo riconducibili alla declaratoria contrattuale del dirigente. Ne consegue che, ai fini dell'eventuale riconoscimento dell'indennità 75 supplementare prevista per la categoria dei dirigenti, occorre fare riferimento alla nozione contrattuale di giustificatezza che si discosta, sia nel piano soggettivo che su quello oggettivo, da quello di giustificato motivo ex art. 3, legge n. 604 del 1966, e di giusta causa ex art. 2119 cod. civ., trovando la sua ragione d'essere, da un lato, nel rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro in ragione delle mansioni affidate - suscettibile di essere leso anche da mera inadeguatezza rispetto ad aspettative riconoscibili "ex ante" o da importante deviazione dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro, ovvero da comportamento extralavorativo incidente sull'immagine aziendale a causa della posizione rivestita - e, dall'altro, nello stesso sviluppo delle strategie di impresa che rendano nel tempo non pienamente adeguata la concreta posizione assegnata al dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell'azienda. (Cassa con rinvio, App. Sassari, 15/09/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 1 dicembre 2010, n. 24340 In tema di licenziamento di dirigente di azienda bancaria, non trovano applicazione né la disciplina di cui agli artt. 4 e 24 della legge 23 luglio 2001, n. 223, né la tutela in materia di licenziamento individuale, bensì le disposizioni del CCNL del 1 dicembre 2000, che all'art. 26 richiama espressamente il D.M. n. 158 del 2000 il quale, all'art. 7, prevede, quanto agli assegni straordinari per il sostegno del reddito ed i versamenti contributivi correlati ai processi di ristrutturazione o per le situazioni di crisi, la salvezza delle norme di legge e del contratto collettivo e, all'art. 29, prevede l'attribuzione al dirigente ingiustificatamente licenziato di una indennità supplementare, proporzionata all'anzianità, norma quella da ultimo richiamata, applicabile anche al caso di recesso per asserite ragioni oggettive di riorganizzazione aziendale. (Rigetta, App. Milano, 28/07/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 22 ottobre 2010, n. 21748 Per stabilire se sia giustificato il licenziamento di un dirigente intimato per ragioni di ristrutturazione aziendale, non è dirimente la circostanza che le mansioni da questi precedentemente svolte vengano affidate ad altro dirigente in aggiunta a quelle sue proprie, in quanto quel che rileva è che presso l'azienda non esista più una posizione lavorativa esattamente sovrapponibile a quella del lavoratore licenziato. (Cassa con rinvio, App. Torino, 10/05/2006) Cass. civ. Sez. lavoro, 2 settembre 2010, n. 18998 In tema di licenziamento disciplinare, il lavoratore che abbia subito tale licenziamento, quale dirigente, per poter fruire del più favorevole regime restrittivo del licenziamento, deve provare che al formale inquadramento dirigenziale riconosciutogli dalla società datrice di lavoro non corrispondeva un'attribuzione effettiva di mansioni e poteri propri di un dirigente, ovvero che le mansioni effettivamente svolte non corrispondevano a quelle previste per la categoria dirigenziale. In tal senso, nel caso di specie, a dispetto di quanto asserito dal ricorrente, non si è ravvisata alcuna violazione nè falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. in ordine all'appartenenza dello stesso alla categoria dei dirigenti, atteso che quest'ultimo, in violazione all'onere probatorio su di esso ricadente, non ha dimostrato che le mansioni effettivamente svolte non corrispondevano a quelle di un dirigente. 76 Cass. civ. Sez. lavoro, 22 marzo 2010, n. 6847 Il dirigente che, in conseguenza della risoluzione del rapporto con il datore di lavoro causata dal recesso ingiustificato di quest'ultimo, chieda il risarcimento del danno biologico riconducibile alla condotta datoriale, è tenuto a provare i comportamenti datoriali cui addebita, in ragione della loro gravità, la lesione del decoro e dell'integrità psico-fisica e l'elemento soggettivo della colpa grave o del dolo, non derivando gli effetti risarcitori automaticamente dall'accertata illegittimità del recesso (a cui è, invece, correlato direttamente il diritto all'indennità supplementare di preavviso), senza che possa al riguardo operare, ai sensi dell'art. 1229, comma primo, cod. civ., alcuna clausola di esclusione, in via preventiva, della responsabilità datoriale che, ove prevista, sarebbe inficiata da nullità. (Rigetta, App. Ancona, 02/10/2006). - Profili risarcitori Cass. civ. Sez. lavoro, 1 dicembre 2010, n. 24366 Nel processo del lavoro, qualora il lavoratore - in correlazione con la sospensione cautelare subita, di cui deduca l'illegittimità - abbia richiesto, in primo grado, il pagamento delle retribuzioni a titolo di risarcimento da illegittima applicazione della detta sospensione, costituisce domanda nuova per modificazione della "causa petendi", come tale inammissibile in appello, quella, avanzata per la prima volta in secondo grado, di pagamento delle retribuzioni a titolo di adempimento contrattuale, essendo il diritto alle stesse previsto da un articolo del CCNL di categoria. (Cassa senza rinvio, App. Roma, 06/11/2006). Cass. civ. Sez. III, 9 dicembre 2010, n. 24864 Poiché il danno biologico ha natura non patrimoniale, e dal momento che il danno non patrimoniale ha natura unitaria, è corretto l'operato del giudice di merito che liquidi il risarcimento del danno biologico in una somma omnicomprensiva, posto che le varie voci di danno non patrimoniale elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza (danno estetico, danno esistenziale, danno alla vita di relazione, ecc.) non costituiscono pregiudizi autonomamente risarcibili, ma possono venire in considerazione solo in sede di adeguamento del risarcimento al caso specifico, e sempre che il danneggiato abbia allegato e dimostrato che il danno biologico o morale presenti aspetti molteplici e riflessi ulteriori rispetto a quelli tipici. (Cassa con rinvio, App. Napoli, 10/11/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 17 novembre 2010, n. 23226 In tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore è onerato, pur con l'ausilio di presunzioni semplici, della prova dell'"aliunde perceptum" o dell' "aliunde percipiendum", a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall'azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l'onere di farsi 77 carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito. (Rigetta, App. Bologna, 19/01/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 2 settembre 2010, n. 19000 L'accertamento in ordine all'intervenuta cessazione totale dell'attività aziendale nel corso del giudizio instaurato al fine di ottenere la declaratoria di inefficacia del licenziamento intimato al ricorrente dalla oramai cessata impresa, oltre al risarcimento dei danni, impedisce al Giudice di disporre la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro. In ipotesi siffatte l'organo giudicante è tenuto, invero, a limitare la sua pronuncia all'eventuale accoglimento della domanda di risarcimento del danno subito dal dipendente nel periodo compreso tra la data del licenziamento e quella della sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto. In tal senso del tutto infondato si rivela nella specie il motivo di ricorso alla Corte di legittimità con il quale, verificatasi la cessazione totale dell'attività d'impresa del datore di lavoro nel corso del giudizio, il ricorrente lamenta la violazione da parte del Giudice del merito del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c. per non aver egli adottato alcuna decisione in ordine alla richiesta condanna della resistente parte datoriale alla reintegrazione del lavoratore ex art. 18 della legge n. 300 del 1970. Cass. civ. Sez. lavoro, 28 aprile 2010, n. 10164 In caso di illegittimo licenziamento del lavoratore, il risarcimento del danno spettante a norma dell'art.18 della legge n. 300 del 1970, commisurato all'importo delle retribuzioni che sarebbero maturate dalla data del licenziamento, non può essere diminuito degli importi eventualmente ricevuti a titolo di indennità di mobilità, che si sottraggono alla regola della "compensatio lucri cum danno", in quanto tali somme, percepite ad altro titolo dall'istituto previdenziale, con l'annullamento del licenziamento perdono il titolo giustificativo e devono essere restituite, a richiesta dell'ente previdenziale, con la conseguenza che non realizzano un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore. (Cassa con rinvio, App. Cagliari, 19/07/2005) Cass. civ. Sez. lavoro, 12 aprile 2010, n. 8643 Nel giudizio avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno derivante da licenziamento dichiarato illegittimo, non è ravvisabile vizio di ultrapetizione nella limitazione della condanna al risarcimento compiuta dal giudice d'appello in base alla valorizzazione di un fatto incidente sulla permanenza dell'obbligo di risarcimento, quale il richiamo in servizio del lavoratore a seguito della pronuncia di reintegrazione. La condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, ai sensi dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n.300, costituisce, infatti, una pronuncia in futuro e condizionata in particolare, alla permanenza del rapporto di lavoro e alla non riattivazione con la reintegra del lavoratore, quanto al periodo successivo alla pronuncia della sentenza, con la conseguenza che, passata in giudicato la sentenza e devoluta al giudice di appello la controversia per effetto della proposizione dell'impugnazione, anche se per motivi inerenti alla sola illegittimità del licenziamento, la cognizione del giudice di appello deve ritenersi estesa alla verifica, anche d'ufficio, circa l'esistenza e la misura del danno che concretamente matura solo 78 nel corso del giudizio di secondo grado, anche perchè con la eventuale conferma della sentenza di primo grado la pronuncia relativa al risarcimento del danno muta la sua portata diventando, per il periodo intercorrente tra le due sentenze di merito, una pronuncia concreta e non più una condanna in futuro. (Cassa e decide nel merito, App. Roma, 07/10/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 26 marzo 2010, n. 7344 In tema di risarcimento del danno a seguito di licenziamento illegittimo, va esclusa l'applicazione dell'art. 1227, secondo comma, cod. civ. in relazione alle conseguenze dannose discendenti dal tempo impiegato per la tutela giurisdizionale da parte del lavoratore - maggiore del previsto a causa di errori difensivi - dovendosi escludere che la durata del processo possa risolversi in un pregiudizio per la parte vittoriosa, tanto più che le norme processuali garantiscono al datore di lavoro una posizione paritaria rispetto alle altre parti del processo, con l'attribuzione di poteri idonei a contrastare le altrui strategie difensive o, comunque, per intervenire su errori processuali suscettibili di incidere sui tempi del giudizio. (Nella specie, il ricorrente aveva dedotto la responsabilità del lavoratore per aver instaurato il giudizio nei confronti dell'originaria società datrice di lavoro nonostante che la stessa si fosse estinta per incorporazione otto mesi prima; la S.C., nel rigettare il ricorso, dopo aver evidenziato che il lavoratore aveva con tempestività avviato il giudizio, ha rilevato che era stata la società ad omettere ogni utile attività, non avendo neppure curato di costituirsi anche solo per far constare l'eventuale nullità della notifica e il difetto di legittimazione della società intimata). (Rigetta, App. Sassari, 13/04/2006) Cass. civ. Sez. lavoro, 5 febbraio 2010, n. 2676 La decadenza dall'impugnativa del licenziamento impedisce al lavoratore di richiedere il risarcimento del danno secondo le norme codicistiche ordinarie, poiché non consente di far accertare in sede giudiziale l'illegittimità del recesso. L'azione di diritto comune può essere esercitata, anche in caso di decadenza, soltanto in via residuale per far valere profili di illegittimità del recesso che siano diversi da quelli previsti dalla normativa speciale sui licenziamenti, individuali o collettivi. *** T. I licenziamenti collettivi - Procedure di mobilità e cassa integrazione Cass. civ. Sez. lavoro, 13 dicembre 2010, n. 25139 In tema di cassa integrazione guadagni, la richiesta del lavoratore di risarcimento danni per l'illegittima sospensione a seguito di collocamento in C.i.g.s. ha ad oggetto un credito da inadempimento contrattuale, soggetto all'ordinaria prescrizione decennale. (Rigetta, App. Torino, 10/02/2006). 79 Cass. civ. Sez. lavoro, 1 dicembre 2010, n. 24343 Deve considerarsi legittimo il licenziamento collettivo di personale irrogato per ridurre il costo del lavoro, se il datore di lavoro ha individuato un solo criterio di selezione, purché certo e non discrezionale. Cass. civ. Sez. lavoro, 9 novembre 2010, n. 22760 In tema di trattamento straordinario di cassa integrazione guadagni previsto dall'articolo unico della legge n. 427 del 1980, sia nel suo testo originario che in quello parzialmente modificato dall'art. 1 del d.l. 299 del 1994 (conv., con mod., nella legge n. 451 del 1994), ed anche a prescindere dalla norma d'interpretazione autentica di cui all'art. 44, comma 6, del d.l. n. 269 del 2003 (conv. nella legge n. 326 del 2003), le mensilità aggiuntive e, in particolare, la tredicesima mensilità, sono computabili nella retribuzione costituente base di calcolo degli importi dell'integrazione salariale, nell'ambito dei limiti massimi dell'importo mensile dell'integrazione fissati dal citato articolo unico, dovendosi escludere una diversa ed ulteriore incidenza delle mensilità aggiuntive sul trattamento di integrazione salariale; tale computabilità nei limiti precisati è, coerente con l'esigenza di compensare la riduzione retributiva causata al lavoratore dipendente da sospensioni temporanee del rapporto di lavoro, attraverso una prestazione previdenziale che si riferisca unitariamente a tutto il pregiudizio maturato nel periodo di riferimento, ferma la necessità che il trattamento straordinario sia calcolato su base settimanale e che il massimale sia rapportato all'integrazione dovuta per le ore non lavorate nel mese. (Cassa e decide nel merito, App. Campobasso, 05/02/2007). Cass. civ. Sez. lavoro, 28 ottobre 2010, n. 22033 In materia di licenziamento collettivo, l'impresa che intenda cessare l'attività e licenziare tutti i dipendenti salvo un gruppo individuato in base al possesso delle competenze professionali necessarie per il compimento delle operazioni di liquidazione, deve egualmente effettuare, a pena di inefficacia del licenziamento, la comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, della legge n. 223 del 1991 con la precisazione delle modalità di attuazione del criterio di scelta e la comparazione tra tutte le professionalità del personale in servizio rispetto allo scopo perseguito, senza che assuma rilievo l'unicità del criterio adottato ancorché concordato con le organizzazioni sindacali. (Rigetta, App. Napoli, 18/12/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 28 settembre 2010, n. 20358 Il D.M. 28 aprile 2000, n. 158, recante il Regolamento relativo all'istituzione del Fondo di solidarietà per il sostegno del reddito, dell'occupazione e della riconversione e riqualificazione professionale del personale dipendente dalle imprese di credito, presso l'I.N.P.S., prevede espressamente che il lavoratore, richiedendo i benefici ivi previsti, rinunci al preavviso di licenziamento ed alla relativa indennità sostitutiva, i quali implicano la risoluzione del rapporto. La rinuncia al preavviso ed all'indennità sostitutiva è, pertanto, considerata dalla normativa richiamata come accettazione dell'anticipata risoluzione del rapporto, il che preclude un successivo ripensamento e 80 l'impugnazione del recesso. All'uopo deve, altresì, rilevarsi che trattasi di fatto di una normativa che mira ad eliminare, per quanto possibile, l'eventuale contenzioso derivante dai processi di ristrutturazione aziendale che non a caso chiama anche il datore di lavoro a partecipare finanziariamente all'erogazione dei trattamenti previsti, per cui deve fondatamente dedursi la contrarietà allo scopo legislativo della previsione che consentisse l'erogazione del beneficio mantenendo aperta la possibilità di rimettere in discussione l'ormai intervenuta conclusione del rapporto. (Nella fattispecie, pacifica la richiesta dei lavoratori ricorrenti di accedere alle prestazioni del Fondo, l'impugnata decisione di merito che ha escluso l'acquiescenza al licenziamento non è conforme a diritto in quanto non ha considerato l'effetto legale che la normativa in considerazione riconnette a tale accesso. Ne consegue la cassazione della sentenza e la conseguente decisione nel merito). Cass. civ. Sez. lavoro, 22 settembre 2010, n. 20005 Ove il datore di lavoro abbia proceduto al licenziamento di dipendenti per riduzione di personale, il lavoratore licenziato ha la precedenza nella riassunzione presso la medesima azienda, sempre che la richiesta di nuova assunzione, numerica o nominativa, presentata dal datore di lavoro, riguardi lavoratori della medesima qualifica di quello licenziato. Peraltro, in tal caso, l'azienda che ha proceduto all'assunzione non ha diritto ai benefici contributivi di legge. Cass. civ. Sez. lavoro, 23 giugno 2010, n. 15207 In caso di sospensione dell'attività lavorativa per l'attualità di una crisi aziendale implicante la possibilità di intervento della cassa integrazione guadagni, la qualificazione giuridica delle somme corrisposte a titolo di anticipazione della prestazione previdenziale è consentita solo all'esito del procedimento per l'ammissione al trattamento di integrazione salariale, e in caso di mancato accoglimento della richiesta di intervento della C.I.G., tali importi costituiscono solo una parte della retribuzione, al cui pagamento il datore di lavoro continua ad essere interamente obbligato in base alla disciplina generale delle obbligazioni e dei contratti con prestazioni corrispettive, trovandosi in una situazione di "mora credendi" rispetto ad una sospensione unilateralmente da lui disposta, in difetto del relativo potere. Conseguentemente, la persistenza dell'obbligo retributivo in capo al datore di lavoro in caso di sospensione dell'attività lavorativa non seguita da intervento della c.i.g. comporta necessariamente l'assoggettamento a contribuzione previdenziale e assicurativa delle somme che risultano corrisposte a titolo di anticipazione dell'integrazione salariale, ma sono da imputare definitivamente alla retribuzione contrattualmente dovuta.(In applicazione di tale principio la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso che dette somme potessero essere qualificate come atti di liberalità, ai sensi dell'art. 12 della legge n. 153 del 1969, per il solo fatto che fossero state oggetto di accordo transattivo). (Rigetta, App. Caltanissetta, 18/02/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 25 maggio 2010, n. 12746 L'anticipazione dell'indennità di mobilità, prevista dall'art. 7, comma quinto, della legge n. 223 del 1991 in favore dei lavoratori che ne facciano richiesta per 81 intraprendere una attività lavorativa autonoma, risponde alla "ratio" di indirizzare il più possibile il disoccupato in mobilità verso attività autonome, al fine precipuo di ridurre la pressione sul mercato del lavoro subordinato, così perdendo la sua connotazione di tipica prestazione di sicurezza sociale, e configurandosi non già come funzionale a sopperire ad uno stato di bisogno, ma come un contributo finanziario, destinato a sopperire alle spese iniziali di un'attività che il lavoratore in mobilità svolge in proprio, e che il lavoratore, in caso di rioccupazione alle altrui dipendenze entro 24 mesi dalla corresponsione delle somme, deve restituire. Ne consegue che, in ipotesi di temporanea intervenuta rioccupazione quale lavoratore subordinato durante i ventiquattro mesi successivi all'erogazione dell'anticipazione, le somme percepite dal lavoratore devono essere restituite per intero, e non solo in proporzione alla durata di tale rioccupazione. (Cassa e decide nel merito, App. Lecce, 28/03/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 10 maggio 2010, n. 11254 La comunicazione aziendale di avere una contrazione dell'attività produttiva non è sufficiente per collocare i dipendenti in Cassa integrazione. Il datore di lavoro, infatti, è tenuto a mettere il sindacato in condizione di valutare preventivamente, di concordare i criteri di scelta dei lavoratori da sospendere e di verificare la possibilità di applicare o meno la rotazione. In mancanza di tutto questo, i lavoratori colpiti dal provvedimento possono ottenere il ripristino del rapporto e il pagamento della retribuzione piena e non integrata. Cass. civ. Sez. lavoro, 30 aprile 2010, n. 10512 In tema di cassa integrazione guadagni, il datore di lavoro che abbia provveduto a favore dei lavoratori all'anticipazione di somme in misura superiore a quelle che è possibile conguagliare con i contributi dovuti all'INPS, nel periodo di riferimento ai sensi dell'art. 12 del d.lgs.lgt. n. 788 del 1945, è tenuto a richiedere il rimborso delle integrazioni corrisposte, nell'ammontare eccedente la parte conguagliata con i contributi, nel termine decadenziale di sei mesi a far data dalla fine del periodo di paga in corso alla scadenza del termine di durata della concessione, il cui decorso non è impedito dall'invio di un modello DM/10 nel quale venga indicato soltanto l'importo dei contributi da conguagliare e non l'importo complessivo delle somme anticipate ancorché il predetto modello DM/10 contenga un esplicito riferimento ai provvedimenti autorizzatori dell'intervento della cassa integrazione ordinaria in base ai quali sono state effettuate le anticipazioni salariali. (Cassa e decide nel merito, App. Lecce, 24/10/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 29 marzo 2010, n. 7519 Ai fini della sussistenza di un licenziamento collettivo e della applicabilità della relativa disciplina, il termine licenziamento va inteso in senso tecnico, non potendo ad esso parificarsi qualunque altro tipo di cessazione del rapporto determinata (anche o soltanto) da una scelta del lavoratore, come nelle ipotesi di dimissioni, risoluzioni concordate, o prepensionamenti, anche ove tali forme di cessazione del rapporto siano riconducibili alla medesima operazione di riduzione delle eccedenze della forza lavoro che giustifica il ricorso ai licenziamenti. (Rigetta, App. Napoli, 20/02/2006). 82 Cass. civ., Sez. lav., 22 marzo 2010, n. 6849. In materia di licenziamento collettivo, l’onere della prova della sussistenza dei requisiti prescritti dall’art. 24, l. n. 223 del 1991 incombe sulla parte (datore di lavoro o lavoratore) che sostenga che il licenziamento presenti i requisiti indicati dalla norma, senza che rilevi la diversa ripartizione dell’onere probatorio prevista dall’art. 5, l. n. 604 del 1966, in tema di prova della giusta causa o del giustificato motivo, attesa l’inapplicabilità della predetta normativa dai licenziamenti per riduzione di personale (art. 11 l. n. 604 cit.) (nella specie, la suprema corte ha confermato la decisione della corte territoriale che aveva escluso l’applicabilità della disciplina sulle riduzioni del personale per non aver il lavoratore assolto l’onere della prova del recesso di almeno cinque dipendenti nell’arco di centoventi giorni). Cass. civ. Sez. lavoro, 22 marzo 2010, n. 6841 Il criterio di scelta dei dipendenti da porre in cassa integrazione ed in mobilità, determinato nel rispetto delle procedure previste dagli artt. 4 e 5 della l. 23 luglio 1991, n. 223, non può essere successivamente disapplicato o modificato, travalicando gli ambiti originariamente previsti, non essendo consentito che in tale spazio temporale l'individuazione dei singoli destinatari dei provvedimenti datoriali venga lasciata all'iniziativa ed al mero potere discrezionale dell'imprenditore, in quanto ciò pregiudicherebbe l'interesse dei lavoratori ad una gestione trasparente ed affidabile della mobilità e della riduzione del personale. (Rigetta, App. Napoli, 07/02/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 19 marzo 2010, n. 6741 In tema di cassa integrazione guadagni, ai fini della decadenza del diritto al trattamento integrativo salariale è sufficiente lo svolgimento di una attività lavorativa suscettibile di produrre reddito, restando irrilevante che si tratti di attività non retributiva o che l'attività sia qualificabile come autonoma o subordinata, dovendosi ritenere che la "ratio" dell'art. 3 del d.lgs.lgt. n. 788 del 1945, applicabile "ratione temporis", sia quella di evitare l'erogazione del trattamento integrativo in concomitanza con lo svolgimento di un'attività sostitutiva di quella sospesa. (Rigetta, App. L'Aquila, 04/05/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 8 febbraio 2010, n. 2734 In tema di licenziamenti collettivi, l'art. 24 della legge n. 223 del 1991 disciplina il licenziamento collettivo per riduzione di personale in modo diverso dal licenziamento collettivo preceduto dalla mobilità (c.d. licenziamento collettivo "post mobilità") previsto dall'art. 4 della medesima legge, richiamando solo alcune delle disposizioni a quest'ultimo applicabili, con esclusione del requisito numerico previsto dall'art. 4, comma 1, della legge n. 223 cit. (cinque licenziamenti in 120 giorni per ciascuna unità produttiva). Né le disposizioni dell'art. 4 citato non richiamate espressamente dall'art. 24 cit. possono essere applicate analogicamente, a causa del carattere eccezionale della regolamentazione del licenziamento "post mobilità", il quale rende necessaria l'utilizzazione di criteri analoghi a quelli adottati per l'interpretazione dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970. (Cassa e decide nel merito, App. Firenze, 17/11/2005). 83 Cass. civ. Sez. lavoro, 8 febbraio 2010, n. 2734 All'esito della procedura di Cassa integrazione straordinaria, l'imprenditore non deve rispettare il disposto dell'art. 24 della legge n. 223/1991, ossia non è tenuto, all'atto dell'intimazione del licenziamento collettivo, a rispettare il requisito numerico dei cinque licenziamenti nell'arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell'ambito del territorio di una stessa provincia, potendo procedere al licenziamento anche di un solo dipendente. Cass. civ. Sez. lavoro, 4 febbraio 2010, n. 2616 In tema di contributo collegato alla messa in mobilità del personale, ove il datore di lavoro, nel contestare la pretesa dell'INPS a ricevere nella sua interezza detto contributo, invochi la riduzione dell'onere economico su di sé gravante, in applicazione dell'art. 5, comma 5, della legge 23 luglio 1991, n. 223 - per cui non sono dovute all'Istituto le rimanenti rate del trattamento di mobilità per quei lavoratori che abbiano rifiutato offerte di lavoro, sempre che l'impresa che li abbia collocati in mobilità non presenti assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli dell'impresa che assume ovvero risulti con quest'ultima in rapporto di collegamento o controllo (secondo quanto previsto dall'art. 8, comma 4-bis, della stessa legge n. 223 del 1991) - spetta ad esso stesso dimostrare che ricorrono le condizioni richieste dalla legge per avere diritto alla riduzione anzidetta. (Cassa con rinvio, App. Torino, 15/11/2005) *** U. Le dimissioni del lavoratore Cass. civ. Sez. lavoro, 13 dicembre 2010, n. 25138 L'atto di dimissioni, nel realizzare il diritto potestativo di recesso del lavoratore, idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro indipendentemente dalla volontà del datore di lavoro, non sopporta una condizione risolutiva, che inammissibilmente porrebbe nel nulla un effetto risolutivo già avvenuto, ma ben può contenere una condizione sospensiva, permessa dal principio generale di libertà negoziale. (Nella specie, relativa alla cessazione, per dimissioni volontarie, del rapporto lavorativo di un dirigente di una società, titolare di azioni della stessa, la S.C. ha ritenuto ammissibile l'apposizione, all'atto di dimissioni del detto dirigente, della condizione sospensiva del trasferimento ad altra società delle azioni di cui il medesimo era titolare). (Rigetta, App. Genova, 19/04/2006) Cass. civ. Sez. lavoro, 1 dicembre 2010, n. 24363 La violenza morale esercitabile dal datore di lavoro, che può determinare l'annullabilità delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, può esprimersi secondo modalità variabili e indefinite, anche non esplicite; può agire anche solo come 84 concausa, ed essere ravvisata nella minaccia dell'esercizio di un diritto, quando la relativa prospettazione sia immotivata e strumentale. (Nella specie, il datore di lavoro aveva disposto il trasferimento di un dipendente in una sede lontana dal suo luogo di residenza e il lavoratore aveva rassegnato le dimissioni al fine di evitare il trasferimento ed il connesso mutamento di mansioni, ed aveva poi impugnato in giudizio l'atto risolutivo; la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva escluso la configurabilità di una coartazione della volontà del dipendente nella determinazione di rassegnare le dimissioni, riscontrando anzi l'attribuzione al lavoratore di mensilità aggiuntive quale incentivo all'esodo). (Rigetta, App. Catanzaro, 16/01/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 11 novembre 2010, n. 22901 Nel caso in cui non sia prevista alcuna forma convenzionale per il recesso del lavoratore, un determinato comportamento da lui tenuto può essere tale da esternare esplicitamente, o da lasciar presumere (secondo il principio dell'affidamento), una sua volontà di recedere dal rapporto di lavoro, restando incensurabile in sede di legittimità il relativo accertamento del giudice di merito, ove congruamente motivato. In ogni caso nel giudizio promosso dal lavoratore al fine di impugnare un dedotto licenziamento, l'indagine circa la sussistenza di dimissioni del lavoratore deve essere rigorosa, essendo in discussione beni giuridici primari, oggetto di particolare tutela da parte dell'ordinamento, sicché occorre accertare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l'incondizionata volontà di porre fine al rapporto. (Rigetta, App. Ancona, 04/04/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 14 aprile 2010, n. 8886 In caso di dimissioni presentate dal lavoratore in stato di incapacità naturale, il diritto a riprendere il lavoro sorge con la sentenza di annullamento ai sensi dell'art. 428 cod. civ., i cui effetti retroagiscono al momento della domanda giudiziaria in applicazione del principio generale secondo cui la durata del processo non deve andare a detrimento della parte vincitrice. Ne consegue che anche il diritto alle retribuzioni maturate sorge solo dalla data della domanda giudiziale, dovendosi escludere che l'efficacia totalmente ripristinatoria dell'annullamento del negozio unilatelare risolutivo del rapporto di lavoro si estenda al diritto alla retribuzione che, salvo diversa espressa eccezione di legge, non è dovuta in mancanza dell'attività lavorativa. (Cassa e decide nel merito, App. Roma, 08/08/2005) *** V. L’attività sindacale Cass. civ. Sez. lavoro, 12 novembre 2010, n. 23038 In tema di repressione della condotta antisindacale, ai sensi dell'art. 28 della legge n. 300 del 1970, il solo esaurirsi della singola azione lesiva del datore di lavoro non può precludere l'ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo ove 85 questo, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi, risulti tuttora persistente e idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, suscettibile di determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio dell'attività sindacale. L'accertamento in ordine alla attualità della condotta antisindacale e alla permanenza dei suoi effetti costituisce un accertamento di fatto, demandato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da adeguata motivazione, immune da vizi logici o giuridici. (Rigetta, App. Catanzaro, 05/09/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 5 agosto 2010, n. 18260 In tema di rappresentanze sindacali aziendali, l'art. 19, primo comma, lett. b), della legge n. 300 del 1970 va interpretato - in linea con quanto affermato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 244 del 1996, nel senso che, a fini della individuazione delle associazioni sindacali legittimate ad ottenere la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, non è sufficiente la mera adesione formale ad un contratto negoziato da altra associazione ma è necessaria una partecipazione attiva al processo di formazione del contratto, assumendo rilievo la capacità del sindacato di imporsi al datore di lavoro come controparte contrattuale. (Fattispecie relativa al sindacato unitario lavoratori trasporti con riferimento ai contratti collettivi sottoscritti con Alitalia Airport). (Rigetta, App. Roma, 26/10/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 22 luglio 2010, n. 17217 In tema di diritto dei lavoratori a riunirsi in assemblea durante l'orario di lavoro, il limite temporale di dieci ore annue retribuite, previsto dall'art. 20, primo comma, della legge n. 300 del 1970 con salvezza delle migliori condizioni previste dalla contrattazione collettiva, va riferito alla generalità dei lavoratori dell'unità produttiva e non ai singoli lavoratori, e nella suddivisione del monte ore tra organizzazioni e rappresentanze sindacali trova applicazione il criterio della prevenzione nelle convocazioni, dovendo escludersi che l'accordo interconfederale 20 dicembre 1993 (che ha riservato sette ore annuali di assemblea retribuita alle RSU e le ulteriori tre ore ai sindacati stipulanti il c.c.n.l. applicato nell'unità produttiva) abbia attribuito il monte ore complessivo a ciascuna organizzazione sindacale. Né tale disciplina contrasta con i principi costituzionali di uguaglianza, ragionevolezza, tutela sindacale e tutela dei lavoratori, non avendo essa ad oggetto il diritto all'assemblea in sé, ma quello all'assemblea retribuita, e dovendosi giustapporre a tali principi quelli della tutela della proprietà e del diritto di impresa. (Rigetta, App. Torino, 18/04/2005). Cass. pen. Sez. V, 18 marzo 2010, n. 20722 Le prove di reato acquisite, nei confronti di un dipendente, mediante videoriprese effettuate con telecamere installate sul luogo di lavoro sono utilizzabili nel procedimento penale, non rientrandosi nella fattispecie del "controllo a distanza" dell'attività dei lavoratori, vietato, in assenza di autorizzazione sindacale o amministrativa, dagli art. 4 e 38 dello statuto dei lavoratori - legge 20 maggio 1970, n. 300 - bensì in quella dei controlli c.d. difensivi, legittimi in quanto finalizzati alla 86 tutela del patrimonio aziendale da condotte illecite esulanti lo svolgimento di attività lavorativa. Cass. civ. Sez. lavoro, 4 marzo 2010, n. 5209 Ai fini dell'accertamento della legittimazione ad agire per la repressione della condotta antisindacale, riservata agli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, è necessario il concreto riscontro di un'attività sindacale di carattere nazionale, da verificarsi con specifico riferimento al settore produttivo cui appartiene l'azienda verso la quale l'associazione intenda agire; assume rilievo la stipula di un contratto collettivo di livello nazionale ovvero ogni altro elemento indicativo in concreto di un'attività sindacale al suddetto livello e non il mero dato formale delle risultanze dello statuto dell'associazione, che di per sé è rappresentativo solo di un prefigurato obiettivo o di un'autoqualificazione del sindacato. Cass. civ. Sez. lavoro, 4 marzo 2010, n. 5209 In tema di repressione della condotta antisindacale, ai fini del riconoscimento del carattere "nazionale" dell'associazione sindacale legittimata all'azione ex art. 28 stat. lav., non assume decisivo rilievo il mero dato formale dello statuto dell'associazione (che affermi il carattere nazionale del sindacato), quanto piuttosto la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi, anche gestionali, che trovino applicazione in tutto il territorio nazionale in riferimento al settore produttivo al quale appartiene l'azienda nei confronti della quale il sindacato intenda promuovere il procedimento, e attestino un generale e diffuso collegamento del sindacato con il contesto socio-economico dell'intero paese, di cui la concreta ed effettiva organizzazione territoriale si configura quale elemento di riscontro del suo carattere nazionale piuttosto che come elemento condizionante. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte territoriale che aveva ritenuto irrilevante, nel valutare il carattere "nazionale" del sindacato ricorrente, la circostanza del mancato svolgimento di attività sindacale a livello nazionale in riferimento alla categoria dei lavoratori marittimi, attribuendo, invece, rilievo all'enunciazione del carattere nazionale nello Statuto del sindacato, S.I.N. Cobas). (Cassa con rinvio, Trib. Napoli, 04/09/2005) *** W. Rapporto previdenziale Cass. civ. Sez. lavoro, 16 dicembre 2010, n. 25460 In tema di accredito figurativo per maternità per i periodi corrispondenti all'astensione obbligatoria dal lavoro svoltisi fuori dal rapporto di lavoro, l'art. 2, comma 504, legge 24 dicembre 2007, n. 244, ha - come affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 71 del 26 febbraio 2010 - natura di interpretazione autentica dell'art. 25 87 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151. Ne consegue che detto beneficio previdenziale è attribuito, con efficacia retroattiva, anche per il periodo di vigenza del d.lgs. 16 settembre 1996, n. 564, esclusivamente a coloro che, alla data di operatività della disposizione poi oggetto di interpretazione autentica (27 aprile 2001), risultavano iscritti al fondo pensione lavoratori dipendenti e non anche a chi già fruiva di un trattamento pensionistico, dovendosi intendere la nozione di "iscritto" contenuta nell'art. 25 cit. riferibile solo ai lavoratori ancora in attività al momento della domanda di riconoscimento della contribuzione figurativa. (Rigetta, App. Firenze, 21/05/2008). Cass. civ. Sez. lavoro, 7 dicembre 2010, n. 24803 Le sanzioni civili e l'obbligazione al pagamento per gli interessi conseguenti all'omesso o tardivo versamento dei contributi previdenziali costituiscono un effetto automatico "ex lege" dell'inadempimento senza che rilevi la sussistenza o meno del diritto ad ottenere il rimborso di detti contributi ai sensi dell'art. 20 della legge3 gennaio 1981, n. 6. (Rigetta, App. Sassari, 22/02/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 1 dicembre 2010, n. 24355 Ove il lavoratore sia titolare di una posizione assicurativa presso varie gestioni dei lavoratori autonomi, ovvero presso una di queste e la gestione per i lavoratori dipendenti, il limite massimo di quaranta anni di contribuzione (pari a 2080 settimane) utilmente valutabile opera non solo nell'ambito di ciascuna delle gestioni presso cui sono versati i contributi ma anche rispetto al cumulo delle quote calcolate per ogni gestione. Tale conclusione, pur non espressamente affermata dalla legge n. 233/1990, art. 16, risponde ad una interpretazione logico- sistematica, atteso che la norma, nel prevedere il cumulo dei periodi assicurativi versati nelle diverse gestioni, riconduce il sistema pensionistico ad una concezione unitaria, caratterizzata da regole uniformi che si traducono in un cumulo contributivo effettivo e non meramente virtuale, con la liquidazione di una pensione unica e non di pensioni diverse collegate funzionalmente; né, per contro, può assumere valore ostativo la circostanza che, per uno dei trattamenti, la liquidazione sia effettuata con il sistema cosiddetto retributivo, la cui introduzione è avvenuta in contemporanea all'adozione, sia per il fondo lavoratori dipendenti che per i fondi speciali dei lavoratori autonomi, del limite massimo di anni di contribuzione, destinato ad operare, attraverso la tendenziale valorizzazione dei livelli di retribuzione degli anni più favorevoli, proprio quale limite ai benefici pensionistici conseguenti all'applicazione del sistema retributivo. Cass. civ. Sez. V, 24 novembre 2010, n. 23793 L'art. 48, comma 2, lett. a) (ora art. 51, comma 2, lett. a, primo periodo), del Tuir D.P.R. n. 917/1986, laddove dispone che non concorrono a formare reddito imponibile i contributi previdenziali ed assistenziali versati dal datore di lavoro o dal lavoratore in ottemperanza a disposizioni di legge, limita con evidenza l'esenzione ai contributi versati in dipendenza di un rapporto di lavoro, con esclusione di ogni altro tipo di contributo, a prescindere da eventuali affinità sostanziali con quelli considerati, e quindi di quelli legati a trattamenti vitalizi derivanti, non da lavoro, bensì dall'esercizio di cariche pubbliche. 88 Cass. civ. Sez. lavoro, 9 novembre 2010, n. 22739 Nella retribuzione imponibile a fini previdenziali, a norma della legge 30 aprile 1969, n. 153, nel testo vigente fino al 31 dicembre 1997 ed oggi sostituito dal d.lgs. 2 settembre 1997, n. 314, devono essere comprese tutte le erogazioni (in denaro o in natura) provenienti dal datore di lavoro, che trovino la loro giustificazione nella costanza del rapporto di lavoro, con la sola esclusione delle somme erogate per uno dei titoli tassativamente elencati nel capoverso della norma. Ne consegue che le cosiddette differenze di canone, corrisposte al lavoratore in base alla contrattazione collettiva per sollevarlo parzialmente dagli oneri della locazione dell'immobile messogli a disposizione a fini abitativi dal datore di lavoro, sono da ricomprendere nel suddetto concetto limitatamente al periodo temporale non travalicante la data del 31 dicembre 1997, mentre, per il periodo successivo, ai sensi dell'art. 6 del d.lgs. n. 314 del 1997, i contributi debbono essere corrisposti sulla differenza tra la rendita catastale, aumentata di tutte le spese inerenti al fabbricato stesso, ivi comprese le utenze non a carico dell'utilizzatore, e il canone corrisposto. (Cassa con rinvio, App. Firenze, 29/09/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 29 settembre 2010, n. 20425 In applicazione dell'art. 2, comma 1 della legge n. 29 del 1979, dettato in tema di ricongiunzione dei contributi versati in Gestioni diverse, il contribuente ha la possibilità di convogliare, ricongiungere, appunto, la contribuzione versata presso il fondo lavoratori dipendenti dell'I.N.P.S., o quella versata nelle forme esclusive, sostitutive ed esonerative, ovvero presso le Gestioni Inps dei lavoratori autonomi, in un'unica Gestione, da individuare in quella in cui risulti iscritto all'atto in cui presenta la relativa domanda ovvero in quella, diversa, che lo stesso preferisca, a condizione che vi risultino versati almeno otto anni di contributi in costanza di prestazione lavorativa. Dal tenore letterale della norma in parola si deve desumere che al lavoratore sia attribuita espressamente una facoltà di scelta, ricorrendone i presupposti (otto anni di iscrizione nella gestione diversa da quella in cui è iscritto all'attualità), in ordine alla ricongiunzione della contribuzione in una Gestione piuttosto che in un'altra. Deve pertanto ritenersi illegittimo, come nel caso specifico, il rifiuto dell'I.N.P.S. di trasferire, come legittimamente domandato dal contribuente, i contributi versati nella Gestione separata dipendenti (sua ultima gestione di appartenenza), presso la Gestione "commercianti" (una delle Gestioni di lavoratori autonomi) alla quale era stato iscritto per moltissimi anni (per quel che rileva più di otto) adducendo, come motivazione al diniego, un'interpretazione della norma citata (che illegittimamente ed immotivatamente si discosta dal dato letterale) in virtù della quale la stessa avrebbe consentito solo il trasferimento nelle Gestioni pensionistiche dei lavoratori dipendenti i contributi versati nelle altre Gestioni ma non viceversa (interpretazione che, all'evidenza, limiterebbe in maniera assolutamente ingiustificata quella facoltà di scelta, attribuita al contribuente, summenzionata). Cass. civ. Sez. lavoro, 26 luglio 2010, n. 17526 L'art. 5 del d.lgs. n. 80 del 1992, nel prevedere l'intervento del fondo di Garanzia costituito presso l'INPS per l'integrazione dei contributi omessi o insufficientemente versati dal datore di lavoro presso gli enti gestori di forme di previdenza complementare, si riferisce, in via esclusiva, alla pensione di vecchiaia che il 89 dipendente o i superstiti non siano riusciti a costituire a causa dell'inadempienza contributiva, consistendo, perciò, l'obbligo del Fondo - in coerenza con gli intenti della direttiva comunitaria n. 80 del 1987 (cfr. Corte Giust. 25 gennaio 2007, n. 278 del 2005) - nell'integrazione dei contributi nella misura necessaria per la costituzione della predetta prestazione per l'ipotesi in cui il lavoratore o i superstiti non abbiano recuperato, mediante l'insinuazione nel fallimento, la contribuzione minima richiesta. Né tale previsione comporta dubbi di illegittimità costituzionale, in relazione alla più favorevole disciplina prevista dall'art. 3 del medesimo d.lgs. per le prestazioni dell'assicurazione generale obbligatoria, poiché la limitazione della tutela trova giustificazione - nell'ambito dei diversi livelli di protezione sociale garantiti dall'art. 38 Cost. - nella finalità propria della previdenza complementare, consistente nel mantenimento del tenore di vita raggiunto durante l'occupazione lavorativa. (Cassa e decide nel merito, App. Catania, 30/12/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 22 luglio 2010, n. 17223 In tema d'interposizione nelle prestazioni di lavoro, qualora i contributi previdenziali siano stati versati da soci di una società cooperativa che si sia fittiziamente interposta nel rapporto di lavoro subordinato in realtà svolto alle dipendenze d'altro soggetto, il versamento eseguito non estingue l'obbligo contributivo dell'effettivo datore di lavoro che non può invocare ai sensi dell'art. 1180 cod. civ. l'adempimento dell'obbligo del terzo mentre i lavoratori (soci della cooperativa) hanno diritto alla ripetizione di quanto ad essi indebitamente ritenuto. (Rigetta, App. Torino, 16/11/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 10 maggio 2010, n. 11261 In tema di obbligazioni contributive nei confronti delle gestioni previdenziali ed assistenziali, l'omessa denuncia all'INPS di lavoratori, ancorché registrati nei libri paga e matricola, configura l'ipotesi di "evasione contributiva" di cui all'art. 116, comma 8, lett. B), della legge n. 388 del 2000 e non la meno grave fattispecie di "omissione contributiva" di cui alla lettera A) della medesima norma, che riguarda le sole ipotesi in cui il datore di lavoro, pur avendo provveduto a tutte le denunce e registrazioni obbligatorie, ometta il pagamento dei contributi, dovendosi ritenere che l'omessa denuncia dei lavoratori all'INPS faccia presumere l'esistenza della volontà del datore di occultare i rapporti di lavoro al fine di non versare i contributi, e gravando sul medesimo l'onere di provare la sua buona fede, che non può reputarsi assolto in ragione della mera registrazione dei lavoratori nei libri paga e matricola, che restano nell'esclusiva disponibilità del datore stesso e sono oggetto di verifica da parte dell'istituto previdenziale solo in occasione delle ispezioni. (Rigetta, App. Palermo, 09/12/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 10 maggio 2010, n. 11262 L'indennità sostitutiva di ferie non godute è assoggettabile a contribuzione previdenziale a norma dell'art. 12 della legge n. 153 del 1969, sia perché, essendo in rapporto di corrispettività con le prestazioni lavorative effettuate nel periodo di tempo che avrebbe dovuto essere dedicato al riposo, ha carattere retributivo e gode della garanzia prestata dall'art. 2126 cod. civ. a favore delle prestazioni effettuate con violazione di norme poste a tutela del lavoratore sia perché un eventuale suo 90 concorrente profilo risarcitorio - oggi pur escluso dal sopravvenuto art. 10 del d.lgs. n. 66 del 2003, , come modificato dal d.lgs. n. 213, del 2004, , in attuazione della direttiva n. 93/104/CE - non escluderebbe la riconducibilità all'ampia nozione di retribuzione imponibile delineata dal citato art. 12, costituendo essa comunque un'attribuzione patrimoniale riconosciuta a favore del lavoratore in dipendenza del rapporto di lavoro e non essendo ricompresa nella elencazione tassativa delle erogazioni escluse dalla contribuzione. (Rigetta, App. Venezia, 06/07/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 13 aprile 2010, n. 8760 L'art. 1 della legge n. 335 del 1995, di riforma del regime pensionistico a carico dell'assicurazione generale obbligatoria, nell'introdurre la determinazione della pensione secondo il sistema contributivo, ha compiutamente disciplinato il sistema di liquidazione delle pensioni ivi contemplate, prevedendo - ai commi 12 e 13 - a favore dei lavoratori che, alla data del 31 dicembre 1995, potevano far valere una anzianità contributiva, il mantenimento del sistema retributivo previgente ovvero, ove l'anzianità maturata fosse inferiore a diciotto anni, la liquidazione secondo il sistema "pro rata" e consentendo l'integrale determinazione della pensione secondo il nuovo regime solo nei casi e alle condizioni previste dal secondo periodo del successivo comma 23, come autenticamente interpretato dall'art. 2, comma 1, del d.l. n. 355 del 2001, convertito nella legge n. 417 del 2001, consistenti nell'aver "maturato un'anzianità contributiva pari o superiore a quindici anni, di cui almeno cinque nel sistema contributivo". Ne consegue che, in mancanza di tali condizioni, non è possibile, per i lavoratori che alla data di passaggio al nuovo regime avevano già maturato un'anzianità contributiva, ottenere - anche nel caso in cui siano fatti valere i soli contributi maturati successivamente al 1 gennaio 1996 - l'integrale liquidazione secondo il sistema contributivo, dovendosi escludere l'estensibilità della disciplina prevista dall'art. 1, commi 19 e 20, della medesima legge di riforma, la cui applicazione è riservata ai soli lavoratori "i cui trattamenti pensionistici sono liquidati esclusivamente secondo il sistema contributivo". Né possono ravvisarsi dubbi di costituzionalità atteso che l'elemento temporale è legittimo criterio di discrimine allorquando intervenga a delimitare le sfere di applicazione di norme nell'ambito complessivo della disciplina di una determinata materia (v. sentenza della Corte Cost. n. 77/2008). (Cassa e decide nel merito, App. Milano, 25/07/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 9 aprile 2010, n. 8451 Il pagamento dei contributi previdenziali da parte del datore di lavoro "apparente" estingue il debito con l'Inps anche nei confronti dell'imprenditore effettivo. Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2010, n. 8252 In tema di trasferimento presso l'INPS della contribuzione versata presso il Fondo elettrici, l'art. 3, comma 14, del d.lgs. n. 562 del 1996 ha previsto che, una volta cessata l'iscrizione obbligatoria o volontaria al Fondo speciale, la posizione assicurativa acquisita può essere trasferita al Fondo per i lavoratori dipendenti gestito dall'INPS nell'assicurazione generale obbligatoria (A.G.O.) soltanto a domanda degli iscritti (o dei loro superstiti) solo se non sia già intervenuta la liquidazione della pensione eventualmente spettante a carico del Fondo medesimo. Ne consegue che la 91 domanda di trasferimento nel Fondo A.G.O. per i lavoratori dipendenti ha carattere costitutivo, dovendosi ritenere, ove l'interessato non abbia esercitato la relativa opzione, che - in applicazione dell'art. 41 della legge n. 488 del 1999 che ha soppresso il Fondo speciale - continuino ad applicarsi le regole previste dalla normativa vigente ed i criteri di calcolo delle pensioni in riferimento alle anzianità maturate nel Fondo stesso. (Rigetta, App. Torino, 03/04/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 25 marzo 2010, n. 7194 In materia di contribuzione previdenziale, il richiamo operato dall'art. 1 del d.l. n. 338 del 1989, convertito nella legge n. 389 del 1989, alla retribuzione prevista dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale se superiore a quella fissata dai contratti individuali o dagli accordi aziendali, impone di assumere la contrattazione collettiva quale parametro per il calcolo dei contributi. Ne consegue che, ove il contratto individuale preveda una retribuzione meno elevata rispetto al contratto collettivo, il datore di lavoro è tenuto a pagare i contributi anche sulle differenze tra salario percepito e quello fissato dalla contrattazione collettiva di settore. (Fattispecie relativa ai contributi relativi al rapporto di lavoro delle suore impiegate in una clinica privata che, in base ad una convenzione, percepivano una retribuzione inferiore a quella prevista dalla contrattazione collettiva). (Cassa con rinvio, App. Venezia, 13/01/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 24 marzo 2010, n. 7043 L'azione od eccezione con la quale l'I.N.P.S. intenda far accertare la nullità, totale o parziale, della posizione previdenziale di un lavoratore, per inesistenza del rapporto di lavoro sottostante, è imprescrittibile, ai sensi dell'art. 1422 cod. civ., ancorché sia assoggettata a prescrizione decennale, ai sensi dell'art. 2946 cod. civ., l'azione di ripetizione dei contributi indebitamente versati. (Cassa con rinvio, App. Venezia, 31/08/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 18 marzo 2010, n. 6568 La facoltà di riscatto dei periodi di lavoro prestato all'estero senza copertura assicurativa, prevista dall'art. 51, secondo comma, della legge n. 153 del 1969, va esercitata nei modi previsti dall'art. 13 della legge n. 1338 del 1962, che, all'ultimo comma, stabilisce l'obbligo del datore di lavoro o del lavoratore di versare all'INPS la riserva matematica "calcolata in base alle tariffe che saranno determinate e variate, quando occorra, con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale". Ne consegue che la decorrenza della pensione non coincide necessariamente con il momento dell'esercizio della facoltà di riscatto, dovendosi ritenere tempestivi i contributi versati ai sensi del citato art. 13 in corrispondenza dei periodi cui si riferisce la mancanza di contribuzione, fermo restando che la costituzione della rendita presuppone il versamento, oltre alla riserva matematica, anche del capitale necessario alla copertura delle quote di pensione per il periodo compreso tra la data di decorrenza di quest'ultima e la data della domanda. (Rigetta, App. Roma, 22/11/2005). 92 Cass. civ. Sez. lavoro, 16 marzo 2010, n. 6340 La facoltà riconosciuta dall'art. 22, comma 11, del d.lgs. n. 286 del 1998 (nel testo vigente "ratione temporis"), ai lavoratori extracomunitari, che abbiano cessato l'attività lavorativa in Italia e lascino il territorio nazionale, di richiedere, nei casi in cui la materia non sia regolata da convenzioni internazionali, la liquidazione dei contributi che risultino versati in loro favore presso forme di previdenza obbligatoria maggiorati del 5 per cento annuo, compete solo nel caso in cui la cessazione dell'attività lavorativa ed il trasferimento dal territorio nazionale abbiano carattere di definitività. L'accertamento delle situazioni idonee a qualificare in tal senso il trasferimento spetta al giudice di merito, e il relativo apprezzamento, se correttamente motivato, è esente da sindacato di legittimità. (Nella specie la Corte ha cassato la sentenza impugnata che aveva respinto la domanda in quanto il lavoratore non aveva dato prova dell'autorizzazione all'ingresso ed alla residenza in altro Paese, omettendo di valorizzare la restituzione, da parte del lavoratore extracomunitario, del permesso di soggiorno al consolato italiano e del libretto di lavoro all'Inps). (Cassa e decide nel merito, App. Venezia, 19/06/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 10 marzo 2010, n. 5811 In tema di prescrizione del diritto ai contributi di previdenza e di assistenza obbligatoria, il principio secondo cui, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 3, commi 9 e 10, della legge n. 335 del 1993, che ha introdotto il nuovo regime per la prescrizione dei contributi relativi a periodi precedenti, opera, al di fuori dei casi di conservazione del precedente termine decennale, il nuovo termine di prescrizione più breve, con decorrenza dal 1° gennaio 1996, trova applicazione anche nel caso, contemplato dal comma 9, lett. a), ultima parte, dell'art. 3 cit., di denuncia da parte del lavoratore del mancato versamento dei contributi all'Istituto previdenziale, con la conseguenza che, in relazione ai contributi dovuti per anni anteriori all'entrata in vigore della legge, il termine entro il quale la denuncia dev'essere inoltrata è quello di cinque anni dal 31 dicembre 1996, potendo però detto termine essere inferiore, in applicazione della regola generale di cui all'art. 252 disp. att. cod. civ., se tale è il residuo del più lungo termine determinato secondo il regime precedente, e che il diritto alla riscossione si prescrive entro il quinquennio dalla denuncia del lavoratore. (Cassa con rinvio, App. Roma, 15/12/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 23 febbraio 2010, n. 4369 In tema di previdenza complementare, il diritto al riscatto delle quote, previsto dall'art. 10, lett. c), del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124 (in alternativa al trasferimento del capitale accumulato ad altro fondo chiuso o al trasferimento ad un fondo aperto) in favore degli iscritti a fondi preesistenti che abbiano cessato il rapporto senza maturazione del diritto a pensione in epoca successiva all'entrata in vigore della legge, non trova applicazione in riferimento a forme di previdenza integrativa basate su un sistema a ripartizione (nel senso che la misura della prestazione erogata non è calcolata in rapporto con l'insieme dei contributi versati nel tempo dal singolo lavoratore o per suo conto), non essendo nelle stesse configurabili posizioni individuali soggette a capitalizzazione, e non essendo detta disposizione inclusa tra quelle per le quali l'art. 18 del d.lgs. cit. prevede precisi termini di adeguamento nei confronti dei fondi preesistenti, ai quali è pertanto demandato il compito di 93 riorganizzarsi secondo il principio della capitalizzazione anche attraverso adeguamenti statutari, tenendo conto delle proprie caratteristiche strutturali. (Principio enunciato dalla S.C. in riferimento al Fondo di Trattamento Integrativo Aziendale del Credito Bergamasco, alimentato da versamenti annuali a carico della banca, senza previsione del versamento di contributi da parte dei dipendenti, e nel quale l'ammontare delle prestazioni integrative erogate era prestabilito con riferimento alla retribuzione percepita nel periodo conclusivo del rapporto e al trattamento pensionistico obbligatorio). (Cassa e decide nel merito, App. Brescia, 15/04/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 26 gennaio 2010, n. 1584 In tema di omissioni contributive, l'art. 24, primo comma, del d.lgs. n. 46 del 1999, nel prevedere espressamente che la riscossione dei contributi o premi dovuti agli enti previdenziali non versati dal debitore nei termini di legge ovvero di quelli dovuti a seguito di accertamento d'ufficio, ivi comprese le sanzioni e le somme aggiuntive, avviene mediante iscrizione a ruolo da effettuarsi entro i termini di decadenza previsti dall'art. 25 del citato d.lgs. n. 46, esclude l'applicabilità della procedura di cui alla legge n. 689 del 1981 e la necessità di atti prodromici per la validità della riscossione. Ne consegue che, ove sia stata proposta opposizione in sede amministrativa contro l'atto di accertamento ispettivo, l'ente previdenziale deve procedere all'iscrizione a ruolo anche se non sia intervenuta alcuna decisione in sede di gravame, senza che la mancata risposta dell'organo competente configuri un tacito accoglimento dell'opposizione o determini l'impossibilità di dare corso alla riscossione. (Rigetta, App. Trieste, 11/02/2006). *** X. Rinunce e Transazioni Cass. civ. Sez. lavoro, 10 febbraio 2011, n. 3237 Il verbale di conciliazione non può ritenersi qualificabile agli effetti di cui all'art. 411 c.p.c. nelle ipotesi in cui non risulti sottoscritto in sede sindacale, né dal rappresentante sindacale alla presenza ed in contestualità del lavoratore. In ipotesi siffatte, invero, non può attribuirsi al menzionato documento quella funzione di supporto che la legge riconosce al sindacato nella fattispecie conciliativa. Cass. civ. Sez. lavoro, 2 dicembre 2010, n. 24433 In tema di licenziamento illegittimo, il passaggio in giudicato dei decreti ingiuntivi ottenuti per il pagamento del trattamento di fine rapporto non comporta l'improponibilità della domanda di reintegra, posto che la mera accettazione della somma a titolo di trattamento di fine rapporto, ancorché non accompagnata da alcuna riserva, non può essere interpretata come tacita dichiarazione di rinuncia ai diritti derivanti dall'illegittimità del licenziamento, per assoluto difetto di concludenza. (Cassa con rinvio, App. Napoli, 20/02/2007). 94 Cass. civ. Sez. lavoro, 23 settembre 2010, n. 20146 Non è assoggettabile a contribuzione previdenziale la somma versata ad un ex dipendente nell'ambito di una transazione "novativa" con la quale sia stata definita una controversia giudiziaria. Caratteristica della transazione novativa è di essere - al pari della transazione propria - un negozio di secondo grado, ma non un negozio "ausiliario", ancorché "principale", con la conseguenza che i diritti e gli obblighi delle parti avranno, come "unica fonte" il contratto di transazione e non, come la transazione propria, il fatto causativo del rapporto originario. Ne consegue che, in base al disposto dell'art. 12 della legge n. 169 del 1963, la somma dovuta - ancorché avente natura retributiva - in esecuzione di una transazione novativa, in quanto del tutto disancorata dal preesistente, estinto rapporto di lavoro, ormai scomparso dalla "scena giuridica", non può essere computata per la determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale. Per determinare il carattere novativo o conservativo della transazione, occorre accertare se le parti, nel comporre l'originario rapporto litigioso, abbiano o meno inteso addivenire alla conclusione di un rapporto, diretto a costituire, in sostituzione di quello precedente, nuove ed autonome statuizioni. Tale accertamento è riservato al giudice di merito. Cass. civ. Sez. lavoro, 10 settembre 2010, n. 19345 Qualora tra le medesime parti processuali ci siano stati due giudizi diversi, aventi ad oggetto domande sovrapponibili conclusisi, rispettivamente, il primo con una sentenza passata in giudicato che riconosceva la meritevolezza della domanda risarcitoria formulata dal ricorrente (nella specie inerente al risarcimento dei danni patiti in virtù del licenziamento intimato) ed il secondo con una transazione con cui il medesimo dichiarava di accettare una data somma "a tacitazione e saldo di ogni sua pretesa", non è possibile mantenere in vita partite contabili che non trovino riscontri documentali nell'istruttoria di merito. Ciò vale sia per le domande ormai "coperte" dalla definizione dei due procedimenti quanto per tutte le ulteriori pretese, in quanto le stesse risulterebbero prive di ogni base documentale o motivazionale nella sentenza gravata. Cass. civ. Sez. lavoro, 2 luglio 2010, n. 15806 In materia di diritti dei lavoratori, la transazione intervenuta innanzi al giudice straniero può essere qualificata transazione giudiziale, per gli effetti di cui all'art. 410 cod. proc. civ., ove siano assicurate dinanzi all'autorità giudiziaria straniera le garanzie difensive sottese alla richiamata norma, secondo la valutazione incensurabile in sede di legittimità ove congruamente motivata - operata dal giudice di merito, cui compete anche l'interpretazione di tale transazione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito italiana che aveva definito la controversia attribuendo rilevanza ad una transazione tra lavoratore e datore di lavoro intervenuta in un giudizio tedesco, assicurando questo una tutela dei diritti delle parti analoga a quella garantita dall'ordinamento italiano). (Rigetta, App. Milano, 02/11/2006). 95 Cass. civ. Sez. II, 13 maggio 2010, n. 11632 Nella transazione c.d. "conservativa", con cui le parti si limitano a regolare il rapporto preesistente mediante reciproche concessioni, senza crearne uno nuovo (come avviene invece nel caso di transazione c.d. "novativa"), il rapporto che ne discende è comunque regolato dall'accordo transattivo e non già da quello che in precedenza vincolava le parti medesime, con la conseguenza che la successiva scoperta di inadempimenti non rilevati al momento della transazione (nella specie, relativa ad un contratto di appalto privato di lavori) può essere eventualmente fatta valere con l'impugnazione per errore dell'accordo transattivo, siccome rilevante ove abbia ad oggetto il presupposto della transazione e non già le reciproche concessioni. L'accertamento relativo alla natura ed alla portata dell'accordo transattivo integra un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se la relativa motivazione sia immune da vizi logici e giuridici. (Rigetta, App. Potenza, 22/01/2004). *** Z. Aspetti processuali Cass. civ. Sez. lavoro, 4 gennaio 2011, n. 80 Il quesito di diritto, richiesto dall'art. 366 bis cod. proc. civ. (applicabile "ratione temporis") e formulato con il ricorso, deve essere conferente rispetto alla fattispecie dedotta in giudizio e rilevante per la decisione della controversia anche nell'ipotesi in cui la parte alleghi, con memoria ex art. 378 cod. proc. civ., l'applicabilità dello "ius superveniens" ai fini della decisione del ricorso, dovendosi ritenere, in mancanza, l'inammissibilità del motivo. (Nella specie, con riguardo ad un controversia relativa alla nullità del termine apposto ad un contratto di lavoro, la parte, con la memoria ex art. 378 cod. proc. civ., aveva dedotto l'applicabilità della norma sopravvenuta di cui all'art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del 2010, con la quale il legislatore aveva disciplinato, con efficacia estesa ai procedimenti pendenti, la determinazione del risarcimento conseguente alla conversione del contratto a tempo determinato, mentre il quesito di diritto formulato con il ricorso non si riferiva all'"aliunde perceptum", era generico sulla "mora credendi" e non era pertinente rispetto alla fattispecie, risolvendosi nell'enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito). (Rigetta, App. Roma, 06/09/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 4 gennaio 2011, n. 80 L'applicazione retroattiva dell'art. 32, comma 5, della L. n. 183/2010 trova limite nel giudicato formatosi sulla domanda risarcitoria conseguente all'impugnazione del termine illegittimamente apposto al contratto di lavoro, in quanto l'impugnazione del solo capo relativo alla declaratoria di nullità del termine non impedisce la formazione del giudicato sul capo di domanda relativo al risarcimento del danno. D'altra parte, nei procedimenti dinanzi la Cassazione, tale applicazione è possibile solo se la nuova disciplina sia pertinente alle questioni oggetto di censura nel ricorso e vi sia stata la 96 formulazione di uno specifico quesito di diritto relativo alle conseguenze patrimoniali dell'accertata nullità del termine. Cass. civ. Sez. lavoro, 6 dicembre 2010, n. 24695 I fori speciali esclusivi, alternativamente concorrenti tra loro, indicati dall' art. 413, secondo e terzo comma, cod. proc. civ. per individuare il giudice territorialmente competente in una controversia individuale di lavoro subordinato, sono tre e, cioè, quello ove è sorto il rapporto, quello ove si trova l'azienda e quello della dipendenza ove il lavoratore è addetto (o prestava la sua attività lavorativa alla fine del rapporto), senza che gli ultimi due possano intendersi compendiati unitariamente in quello di svolgimento della prestazione lavorativa e senza che sia dato argomentare diversamente, nè in base al disposto della legge 11 febbraio 1992, n. 128, relativa ai rapporti di lavoro di cui all'art. 409, n. 3 cod. proc. civ., nè in base a quello dell'art. 40 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 per le controversie relative al pubblico impiego, attese le peculiarità delle situazioni ivi regolate, alla cui stregua sono altresì da escludere dubbi di illegittimità costituzionale del sistema. (Nella specie, relativa alla domanda proposta da un informatore scientifico nei confronti della società datrice di lavoro, la S.C., nel ritenere corretta la qualificazione del domicilio del lavoratore quale dipendenza aziendale operata dal giudice di merito, ha escluso che si potesse far coincidere la nozione di dipendenza aziendale con l'intero territorio di attività della società, trattandosi di criterio privo di fondamento normativo). (Regola competenza). Cass. civ. Sez. VI, 6 dicembre 2010, n. 24692 In tema di lavoro del socio di cooperativa, nel regime successivo all'entrata in vigore della legge 14 febbraio 2003, n. 30, la controversia sul licenziamento intimato in dipendenza o contestualmente all'esclusione del socio non spetta alla competenza del tribunale in funzione di giudice del lavoro, ma compete al tribunale ordinario (nella specie, con il rito societario di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, "ratione temporis" applicabile), avendo la legge richiamata valorizzato la dipendenza del rapporto di lavoro da quello societario, l'accertamento della cui legittima cessazione è pregiudiziale a quello della legittimità del licenziamento. (Rigetta, Trib. Genova, 25/11/2009). Cass. civ. Sez. lavoro, 1 dicembre 2010, n. 24339 Nel rito del lavoro - nel quale il divieto di proporre domande nuove nel corso del giudizio di primo grado è particolarmente rigoroso - non è, tuttavia, precluso alla parte che abbia già proposto, con un primo ricorso, determinate domande, di proporne ulteriori, nei confronti del medesimo convenuto, con un nuovo e separato ricorso il quale deve ritenersi completo con l'indicazione, a sostegno delle suddette ulteriori domande, di documenti già prodotti nel precedente giudizio di cui sia chiesta la riunione al secondo per ragioni di economia processuale. (Cassa con rinvio, App. Roma, 19/12/2005). 97 Cass. civ. Sez. lavoro, 30 novembre 2010, n. 24241 In caso di pluralità di domande proponibili contro la stessa parte, ai sensi dell'art. 104 cod. proc. civ., le quali restano autonome anche nell'ipotesi in cui siano decise nello stesso giudizio, il giudicato formatosi su una delle domande non si riverbera sulle residue, proponibili, ma in concreto non proposte, nel medesimo giudizio, in conformità alla regola per cui ha autorità di cosa giudicata soltanto ciò che è stato oggetto della decisione giudiziale, e, perciò, di contestazione tra le parti, nei limiti segnati dal giudizio, per come qualificato dai suoi elementi identificativi. (Nella specie, la S.C. nell'accogliere il ricorso, ha rilevato che la domanda del lavoratore di risarcimento dei danni connessi alla mancata restituzione del libretto di lavoro integrava un profilo di danno ulteriore rispetto alla richiesta di risarcimento connesso al licenziamento illegittimo che aveva formato oggetto di un precedente giudizio tra le medesime parti e, quindi, non restava preclusa dal giudicato formatosi). (Cassa con rinvio, App. Catania, 28/07/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 22 novembre 2010, n. 23625 Nelle controversie di lavoro il difetto di trascrizione della procura al difensore nella copia notificata di un ricorso in appello, è privo di rilevanza quando la prova del tempestivo conferimento della procura può desumersi dall'originale del ricorso, sottoscritto dal procuratore prima del decreto presidenziale di fissazione dell'udienza e di nomina del relatore. Pertanto, la mancanza dell'indicazione di elementi essenziali nella copia del ricorso consegnata all'appellato in sede di notifica, contenuta invece nell'originale dell'atto stesso, determina una nullità che investe non il ricorso predetto ma solo la notifica del medesimo, ove la stessa non sia autonomamente idonea a far conoscere al destinatario il contenuto dell'atto notificato che è sanata dalla costituzione in giudizio del convenuto. (Cassa con rinvio, App. Roma, 17/07/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 19 novembre 2010, n. 23495 La relazione della causa che, nei giudizi innanzi ad organi collegiali, deve precedere la discussione delle parti sia nel rito ordinario (art. 275 cod. proc. civ.) che in quello del lavoro (art. 437 cod. proc. civ.) non è prescritta a pena di nullità e la sua omissione non inficia, quindi, la validità della successiva sentenza, non essendo tale sanzione contemplata da alcuna specifica norma nè derivando la stessa dai principi fondamentali che regolano il processo civile. (Rigetta, App. Roma, 02/11/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 10 novembre 2010, n. 22872 In tema di ripetizione di indebito oggettivo, la prova dell'inesistenza della "causa debendi" (nella specie, relativa al pagamento al lavoratore di compensi non pattuiti) incombe sulla parte che propone la domanda, trattandosi di elemento costitutivo della stessa ancorchè abbia ad oggetto fatti negativi, dei quali può essere data prova mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario o anche mediante presunzioni da cui desumersi il fatto negativo. Ove, peraltro, la domanda sia stata proposta solo in via riconvenzionale di fronte alla richiesta del lavoratore diretta ad ottenere l'adeguamento annuale dell'assegno "ad personam", asseritamente stipulato con il datore di lavoro, incombe sul lavoratore provare il fatto costitutivo del credito azionato (l'esistenza di detto accordo), senza necessità di provare l'indebito 98 pagamento, dovendosi ritenere la relativa prova già acquisita al giudizio. (Rigetta, App. Venezia, 18/09/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 9 novembre 2010, n. 22743 I verbali redatti dai funzionari degli enti previdenziali e assistenziali o dell'Ispettorato del lavoro fanno piena prova dei fatti che i funzionari stessi attestino avvenuti in loro presenza, mentre, per le altre circostanze di fatto che i verbalizzanti segnalino di avere accertato, il materiale probatorio è liberamente valutabile e apprezzabile dal giudice, il quale può anche considerarlo prova sufficiente delle circostanze riferite al pubblico ufficiale, qualora il loro specifico contenuto probatorio o il concorso d'altri elementi renda superfluo l'espletamento di ulteriori mezzi istruttori. Cass. civ. Sez. lavoro, 22 ottobre 2010, n. 21760 Nel rito del lavoro, l'invocazione a sostegno della domanda di una regolamentazione di fonte pattizia non dedotta nell'atto introduttivo costituisce mutamento della "causa petendi" e implica una modifica della domanda possibile solo in primo grado e unicamente previa autorizzazione del giudice a norma dell'art. 420 cod. proc. civ., sicché la relativa deduzione fatta per la prima volta in appello deve essere dichiarata d'ufficio inammissibile dal giudice del gravame. (In applicazione del principio la Corte, confermando la sentenza di secondo grado, ha ritenuto che con riferimento al diritto alla tutela reale od obbligatoria del rapporto di lavoro subordinato, non potesse essere invocata dalla parte interessata per la prima volta in appello l'applicabilità della clausola di stabilità, prevista in sede collettiva). (Rigetta, App. Salerno, 27/02/2006). Cass. civ. Sez. Unite, 24 settembre 2010, n. 20161 Il regolamento preventivo di giurisdizione è ammissibile durante la pendenza del giudizio di opposizione al decreto conclusivo del procedimento di repressione della condotta antisindacale ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori, posto che tale decreto costituisce, fino al momento in cui venga confermato o revocato in sede di opposizione, un atto processuale provvisorio che non può contenere alcuna implicita statuizione concernente la giurisdizione, sulla quale possa formarsi il giudicato. (Regola competenza,). Cass. civ. Sez. Unite, 23 settembre 2010, n. 20075 L'art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., nella parte in cui onera il ricorrente (principale od incidentale), a pena di improcedibilità del ricorso, di depositare i contratti od accordi collettivi di diritto privato sui quali il ricorso si fonda, va interpretato nel senso che, ove il ricorrente impugni, con ricorso immediato per cassazione ai sensi dell'art. 420 bis, secondo comma, cod. proc. civ., la sentenza che abbia deciso in via pregiudiziale una questione concernente l'efficacia, la validità o l'interpretazione delle clausole di un contratto od accordo collettivo nazionale, ovvero denunci, con ricorso ordinario, la violazione o falsa applicazione di norme dei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. (nel testo sostituito dall'art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006), il deposito suddetto deve avere ad oggetto non solo l'estratto recante le singole disposizioni 99 collettive invocate nel ricorso, ma l'integrale testo del contratto od accordo collettivo di livello nazionale contenente tali disposizioni, rispondendo tale adempimento alla funzione nomofilattica assegnata alla Corte di cassazione nell'esercizio del sindacato di legittimità sull'interpretazione della contrattazione collettiva di livello nazionale. Ove, poi, la Corte ritenga di porre a fondamento della sua decisione una disposizione dell'accordo o contratto collettivo nazionale depositato dal ricorrente diversa da quelle indicate dalla parte, procedendo d'ufficio ad una interpretazione complessiva ex art. 1363 cod. civ. non riconducibile a quanto già dibattuto, trova applicazione, a garanzia dell'effettività del contraddittorio, l'art. 384, terzo comma, cod. proc. civ. (nel testo sostituito dall'art. 12 del d.lgs. n. 40 del 2006), per cui la Corte riserva la decisione, assegnando con ordinanza al P.M. e alle parti un termine non inferiore a venti giorni e non superiore a sessanta dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla questione. (Dichiara improcedibile, Trib. Torino, 02/12/2008). Cass. civ. Sez. lavoro, 2 settembre 2010, n. 18998 In materia di ripartizione dell'onere della prova, il principio secondo il quale spetta al datore di lavoro provare l'appartenenza del lavoratore alla categoria dei dirigenti non si applica ove l'accertamento della natura dirigenziale dell'attività lavorativa costituisca oggetto di specifico interesse del prestatore, dovendo trovare applicazione il principio generale che spetta a chi vuole far valere un diritto in giudizio l'onere di provare i fatti che ne costituiscono fondamento. Ne consegue che, in caso di licenziamento di dipendente formalmente inquadrato come dirigente, grava sul lavoratore, che intenda fruire del più favorevole regime limitativo dei licenziamenti previsto per i dipendenti non aventi tale qualifica, l'onere di provare la natura meramente convenzionale dell'inquadramento, e che le mansioni effettivamente svolte non corrispondevano a quelle previste o, comunque, difettavano, in concreto, delle connotazioni proprie della categoria dirigenziale. (Rigetta, App. Roma, 28/08/2008). Cass. civ. Sez. lavoro, 1 luglio 2010, n. 15653 Nelle cause soggette al rito del lavoro, l'acquisizione del testo dei contratti o accordi collettivi può aver luogo anche in appello, sia attraverso la richiesta di informazioni alle associazioni sindacali, la quale non è soggetta al divieto di cui all'art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., non costituendo un mezzo di prova, sia attraverso l'esercizio da parte del giudice del potere officioso, riconosciuto dal medesimo art. 437, secondo comma, di invitare le parti a produrre il contratto collettivo, ove non ne risulti contestata l'applicabilità al rapporto. (Rigetta, App. Catanzaro, 30/09/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 14 giugno 2010, n. 14197 Nel giudizio tra datore di lavoro ed istituti previdenziali o assistenziali avente ad oggetto il pagamento di contributi, qualora sorga contestazione sull'esistenza del rapporto di lavoro subordinato, con conseguente necessità di preliminare accertamento di detto rapporto quale presupposto dell'obbligo contributivo, la posizione che il lavoratore assume in detto giudizio determina la sua incapacità a testimoniare; tuttavia, ciò non esclude che il giudice possa, avvalendosi dei poteri 100 conferitigli dall'art. 421 cod. proc. civ., interrogarlo liberamente sui fatti di causa. (Nella specie, relativa ad un giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione per l'omesso versamento di contributi previdenziali, la S.C. ha confermato la sentenza d'appello che aveva ritenuto legittima l'audizione della lavoratrice ai sensi dell'art. 421 cod. proc. civ., rilevando altresì che la decisione in primo grado non era stata assunta soltanto in base alle dichiarazioni da parte di quest'ultima, ma che esse erano state valutate nell'insieme delle risultanze processuali). (Rigetta, App. Venezia, 06/07/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 25 maggio 2010, n. 12793 Nel rito del lavoro il ricorrente che non deposita contestualmente al ricorso i documenti dei quali intende avvalersi decade dal diritto di produrli tardivamente; tale decadenza non opera solo in due casi: a) quando la produzione tardiva dei documenti sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall'evolversi della vicenda processuale (ad es. a seguito di riconvenzionale o di intervento o di chiamata in causa di terzo); b) in considerazione dei poteri d'ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell'art. 437, comma 2, c.p.c., ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri da esercitarsi sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo (in applicazione del suesposto principio, la Corte ha escluso il diritto all'assegno di invalidità per la parte che solo in appello aveva prodotto la documentazione necessaria a comprovare la sua situazione; la produzione in appello non era giustificata né dal tempo della formazione di tali documenti, già a disposizione della parte in precedenza, né dall'evolversi della situazione processuale). Cass. civ. Sez. lavoro, 4 maggio 2010, n. 10711 Nel rito del lavoro, la facoltà di richiedere osservazioni scritte ed orali alle organizzazioni sindacali stipulanti un contratto collettivo può essere esercitata solo nel giudizio di primo grado e non anche in appello, e presuppone che la norma contrattuale presenti aspetti oscuri ed ambigui o ponga una questione interpretativa seriamente opinabile. (Rigetta, App. Trieste, 10/08/2005). Cass. civ. Sez. lavoro, 12 aprile 2010, n. 8650 Qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il "petitum" del primo. (Principio affermato dalla S.C. con riferimento all'inquadramento del datore di lavoro a fini contributivi, accertato con sentenza passata in giudicato in relazione al medesimo periodo per il quale l'INPS aveva successivamente proceduto alla riscossione dei contributi con cartella esattoriale avverso la quale era stata proposta opposizione). (Cassa con rinvio, App. Bologna, 07/03/2005). 101 Cass. civ. Sez. lavoro, 19 marzo 2010, n. 6748 È inammissibile la denuncia, con ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., come modificato dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, della violazione o falsa applicazione del contratto collettivo integrativo (nella specie collettivo integrativo di amministrazione del 3 luglio 2000), posto che detta disposizione si riferisce ai soli contratti collettivi nazionali di lavoro, mentre i contratti integrativi, attivati dalle amministrazioni sulle singole materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono, se pure parametrati al territorio nazionale in ragione dell'amministrazione interessata, hanno una dimensione di carattere decentrato rispetto al comparto, e per essi non è previsto, a differenza dei contratti collettivi nazionali, il particolare regime di pubblicità di cui all'art. 47, comma 8, del d.lgs. n. 165 del 2001. Ne consegue che l'interpretazione di tali contratti è censurabile, in sede di legittimità, soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione. (Rigetta, App. Bolzano 30/3/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 25 febbraio 2010, n. 4623 Nel giudizio avente ad oggetto il riconoscimento del diritto a fruire dei permessi previsti dall'art. 33 della legge n. 104 del 1992 in favore dei genitori di bambini portatori di handicap grave, la legittimazione passiva spetta all'INPS, riferendosi la domanda ad un provvedimento dell'ente previdenziale che si sostanzia nell'autorizzazione preventiva al datore di lavoro (o nel suo diniego) a compensare le somme eventualmente corrisposte a tale titolo con i contributi obbligatori dovuti all'INPS, a carico del quale è posto l'onere finanziario del beneficio. (Cassa e decide nel merito, App. Brescia, 22/02/2006). Cass. civ. Sez. lavoro, 28 gennaio 2010, n. 1863 Nel rito del lavoro, è corretto l'operato del giudice che, nell'ambito di una controversia promossa per accertare la natura subordinata di un rapporto di lavoro, chieda al testimone di precisare, al di fuori delle circostanze capitolate, se veniva rispettato un orario di lavoro, quali fossero le mansioni svolte dal prestatore nonché in quale posizione materiale la prestazione fosse effettuata, dovendosi ritenere che la possibilità di porre tali domande sia consentita, se non anche imposta, dall'art. 421 cod. proc. civ., e ciò tanto più ove al ricorso siano stati allegati conteggi elaborati sul presupposto dello svolgimento di determinate mansioni e orari e la controparte abbia contestato, oltre alla natura subordinata del rapporto, anche lo svolgimento di un orario a tempo pieno. (Rigetta, App. Bologna, 27/07/2005). 102