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CAPITOLO TERZO
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TEORIE SULLA DISTRIBUZIONE DEL POTERE
NELLA SOCIETÀ
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Sommario: 1. Teoria delle élite. - 2. Teoria pluralista. - 3. Teorie sul totalitarismo e
sull’autoritarismo. - 4. Regimi democratici. - 5. Conclusioni: eletisti, pluralisti e marxisti.
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1. TEORIA DELLE ÉLITE
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Una «élite» è comunemente intesa essere un gruppo con funzioni di
comando e di direzione sul contesto sociale, per via di privilegio, o di capacità, o di entrambi i fattori. La cosiddetta teoria delle élite si occupa della
distribuzione del potere nella società, a partire dalla distinzione tra governati e governanti. La base della teoria elitista si può sintetizzare così: in qualsiasi contesto sociale e in qualsiasi sistema politico, le decisioni fondamentali vengono prese sempre da una minoranza.
La teoria delle élite si caratterizza per il suo tendenziale antimarxismo, e
anche per un radicale antidemocraticismo, in quanto i teorici elitisti, primi fra
tutti Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, confutano le teorie marxiane sulla lotta di classe e sostengono l’estrema relatività delle teorie democratiche, nonché la loro debolezza. La divisione fondamentale di tutte le società, sostengono, è quella fra le due classi dei governanti, la meno numerosa, e dei governati, la maggioranza delle persone: quest’ultima è sempre diretta dalla prima,
legalmente o arbitrariamente, pacificamente o violentemente, mentre la prima fornisce i mezzi di sussistenza e la vitalità necessaria al sistema politico.
Ogni società è dunque diretta da un gruppo dominante coeso, dotato di
consapevolezza della propria esistenza e di fini comuni e condivisi. Questa
teoria ha dalla sua parte la capacità di essere applicabile universalmente e
storicamente.
I teorici elitisti si possono suddividere, secondo Parry, in quattro gruppi
principali, a seconda dell’impostazione e dell’approccio:
— Mosca (1966), Michels (1911), Kornhauser (1959): approccio organizzativo;
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— Pareto (1916): approccio psicologico;
— Burnham: approccio economico;
— Wright Mills (1956): approccio istituzionale.
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A) Impostazione organizzativa
Mosca e Michels sostengono che l’esistenza di una élite e la sua posizione dominante sull’intera società poggino le proprie basi sulla sua capacità organizzativa, cosicché nella società «ogni individuo si trova solo davanti
alla totalità della minoranza organizzata» (Mosca, 1966): la minoranza, proprio perché organizzata, domina la maggioranza, scarsamente o per niente
organizzata. A sua volta il gruppo dominante comprende, solitamente, due
livelli di leadership: un livello superiore, cioè un gruppo ristretto di soggetti
che prendono le decisioni politiche fondamentali, e un livello inferiore, cioè
un gruppo più ampio, che funge anche da fonte di reclutamento, con funzioni di leadership secondarie. In generale l’élite viene considerata da questi
autori identica alla classe di Governo.
L’autorità è dunque la misura del rapporto di dominio tra la minoranza
organizzata e il resto della società. Il rapporto di autorità che intercorre tra
l’élite e la maggioranza della società si muove secondo due direzioni, le
quali costituiscono, secondo Mosca, due idealtipi nel senso weberiano del
termine, cioè delle variabili le quali nelle situazioni concrete si riscontrano
quasi sempre combinate: il principio autocratico (l’autorità fluisce in un
movimento dall’alto verso il basso, dall’élite verso le masse), e il principio
liberale (il movimento opposto, per cui l’autorità fluisce dalle masse verso
l’élite). Una stessa duplice dinamica vale per quanto riguarda il reclutamento dell’élite: qui abbiamo la dinamica aristocratica (il movimento di
reclutamento è confinato all’interno dell’élite, dal livello inferiore a quello
superiore), e quella democratica (il movimento fluisce dalla maggioranza,
dalle masse, verso la minoranza organizzata). Nelle situazioni reali, però, si
dà in genere, come si è detto, un misto di questi idealtipi: ad es. negli USA
si ha un potere esecutivo (il Presidente), risultato delle elezioni, che corrisponde al movimento del principio liberale, mentre viceversa i membri del
gabinetto dell’esecutivo corrispondono al movimento del principio autocratico, in quanto nominati dallo stesso presidente. In una società di tipo autocratico, al contrario, può darsi, ad es., un criterio di reclutamento dei membri della burocrazia in base al merito, rispondente quindi a un movimento di
tipo democratico.
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La possibilità di un ricambio di tipo più radicale, che superi il movimento dal livello inferiore a quello superiore dell’élite, è ammessa da Mosca nel caso in cui la maggioranza
scontenta riesca a rovesciare il gruppo dominante, il che avrebbe come conseguenza il
formarsi di una nuova minoranza organizzata, all’interno della maggioranza, con funzioni
di Governo. Mosca era antidemocratico: riteneva infatti che le funzioni di leadership in
una società dovessero essere appannaggio di una classe dominante di Governo, la quale
ha la prerogativa di manipolare l’intera società nel proprio interesse, e manifestava anche
una certa avversione al sistema elettorale a suffragio universale, anche se ammetteva l’ineluttabilità alla tendenza storica all’allargamento del suffragio. Successivamente, ammise
che i sistemi di governo rappresentativo e le autorità di tipo liberali fossero più adeguate al
controllo degli interessi generali che le élite devono garantire.
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L’opera di Michels concentra la sua attenzione soprattutto sui partiti
politici. Studiando l’organizzazione, ad es., dei partiti socialisti europei all’inizio del XX secolo, e in particolare quella del Partito socialdemocratico
tedesco, egli elabora la cosiddetta legge ferrea dell’oligarchia, cioè la legge dell’autoriproduzione del dominio da parte di poche persone in un gruppo più ampio, per cui il potere reale viene sempre esercitato da una minoranza anche in contesti, quali quelli dei partiti, in cui nominalmente sarebbe
la massa degli iscritti a dover controllare le leadership e le dinamiche di
reclutamento.
Michels teorizza dunque l’importanza dell’organizzazione, quale elemento fondamentale che caratterizza la complessità delle attività umane,
nonché il suo nesso indissolubile con l’esistenza di una leadership, vale a
dire di un’oligarchia con funzione di comando e di dominio. Gli stessi partiti politici di massa contemporanei si configurano come macchine per conquistare e conservare il potere, controllate da leadership (dirigenti di partito, funzionari, rappresentanza parlamentare) che possiedono un innegabile
vantaggio rispetto ai semplici militanti. Il fattore psicologico — per cui alla
consapevolezza del proprio potere da parte delle leadership corrisponde
generalmente una tendenziale ignoranza politica da parte della massa della
popolazione, che, pur essendo maggioranza, tiene spesso un atteggiamento
apatico e rivolto naturalmente agli interessi individuali e particolari — non
fa che aumentare il vantaggio dei gruppi dominanti a tutti i livelli nei confronti della maggioranza disorganizzata. Si tratta di idee che verranno riprese e sviluppate da Kornhauser (1959), il quale analizza come nelle società
di massa la maggioranza, la non-élite, si rende in qualche modo disponibile
a essere manipolata.
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Sia Michels sia Kornhauser considerano comunque la manipolazione
della maggioranza della società da parte dell’élite dominante la condizione
normale di ogni contesto sociale contemporaneo.
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B) Impostazione psicologica
Le teorie di Pareto, contemporaneo di Mosca, si concentrano di più
sugli aspetti psicologici e antropologici del potere. Egli ritiene che gli esseri
umani non agiscono in realtà secondo logica, ma giustificano logicamente
le proprie azioni servendosi di valori e ideologie che sono come delle derivazioni (così le chiama), e che a loro volta producono stati mentali e istinti,
chiamati residui, i quali costituiscono la reale base delle azioni umane. I
residui, secondo Pareto, sono di due tipi:
— istinti di combinazione: hanno a che vedere soprattutto con l’uso delle
idee e dell’immaginazione. Gli individui che agiscono sulla base di questo tipo di impulsi costituiscono una tipologia di personalità dominante
che Pareto chiama «volpi», intelligenti, creative, pazienti, tendenzialmente manipolatrici, inclini al compromesso e capaci di gradualità e di
perseveranza nelle azioni;
— persistenza degli aggregati: hanno a che vedere con gli aspetti che esaltano la continuità del comportamento e la stabilità. Sono propri di personalità agenti che Pareto definisce «leoni», inclini alla risolutezza, allo
scontro, all’impazienza, all’ordine e all’inflessibilità.
Si tratta di una classificazione delle personalità dominanti che compongono le élite, la quale richiama evidentemente alcuni luoghi del Principe di
Machiavelli, opera in cui il principe ideale viene definito proprio come un
misto delle caratteristiche del leone e della volpe, cioè una combinazione
tra aspetti di saggezza e aspetti di sregolatezza. Anche per Pareto la composizione del’élite ideale è una commistione di volpi e leoni, ma Pareto riscontra anche come ciò si concretizzi raramente nella realtà, mentre invece
avviene di fatto un continuo cambiamento dell’equilibrio fra i due tipi, cioè
si verifica ciò che Pareto chiama una circolazione delle élite, in un processo continuo in cui le volpi sostituiscono i leoni gradualmente, e i leoni rimpiazzano le volpi, viceversa, di solito in maniera improvvisa.
Così, la caduta delle élite e delle personalità che le compongono si verifica, secondo Pareto, per lo più a causa dei limiti e dei difetti intrinseci di
queste: l’eccessiva tendenza manipolatrice e al compromesso per le volpi, e
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la tendenza accentratrice e la durezza per quanto riguarda i leoni. Generalmente, la riproduzione e il reclutamento dei gruppi dominanti avviene o per
evoluzione, o per rivoluzione. Come per Mosca, anche secondo Pareto le
élite si compongono di due livelli: uno superiore, ovvero le élite di Governo, che determinano direttamente o indirettamente le decisioni politiche, e
una inferiore, o élite non governanti, con funzioni di leadership nella società, ma in secondo piano rispetto alle decisioni politiche fondamentali. In
questo modo la nozione di élite o gruppo dominante assume in Pareto un
significato che abbraccia una parte più ampia della società rispetto alle concezioni di Mosca e di Michels, avvicinandosi a quello che comunemente si
intende per élite sociale. È importante sottolineare però che Pareto sostiene
come le élite non siano originate dalle forze economiche e sociali (Marx),
ma dalle caratteristiche e dalle qualità umane dei membri che le compongono, cioè dalle capacità individuali e dagli istinti. Il punto di vista di Pareto
è, dunque, radicalmente individualistico: le élite sono composte da individui che agiscono in quanto tali, spesso senza la capacità di prevedere il
risultato delle proprie azioni e di quelle altrui, e nemmeno accomunati da
fini condivisi e coerenti.
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C) Impostazione economica
Come Marx, anche James Burnham afferma l’idea che chi controlla i
mezzi di produzione possiede anche il potere reale, ma ritiene che, diversamente dal periodo della rivoluzione industriale, il controllo dei mezzi di
produzione non appartenga più alla classe dei capitalisti, ma sia invece detenuto da una élite di tipo nuovo, che comprende i soggetti che hanno competenze manageriali, i tecnici, i dirigenti della burocrazia. Così lo Stato stesso
è di fatto subordinato alle esigenze di questa élite manageriale, e le società
industriali contemporanee diventano gradualmente sempre più centralizzate e subordinate al controllo da parte delle strutture burocratiche. In ciò
Burnham vede un’analogia, se non una convergenza, tra le società capitalistiche e i regimi del socialismo reale come l’URSS, società controllate dallo
Stato che egli definisce come «società amministrate».
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D) Impostazione istituzionale
Questo tipo di approccio, sostenuto da C. Wright Mills, si concentra
soprattutto sulla società degli Stati Uniti e sull’élite americana. Negli USA
si ha un potere che Wright Mills definisce istituzionalizzato, in quanto l’éli-
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te è profondamente radicata nelle strutture della società. In generale si tratta
di un complesso industriale-politico-militare, composto da gruppi dominanti dotati di una certa dinamicità, che si spostano e si sovrappongono. In
questa struttura complessa, i soggetti più importanti costituiscono la vera e
propria élite del potere: individui che si trovano «in posizioni tali da poter
trascendere l’ambiente dell’uomo comune; le loro decisioni hanno conseguenze più vaste […]. Stanno a capo delle alte gerarchie e delle organizzazioni della società moderna (1956)».
Dunque, al livello supremo, abbiamo una struttura dominante unita da
obiettivi consapevoli, anche di tipo cospirativo, o da valori comuni e condivisi, il cui potere ha il suo fondamento non su fattori economici come la
classe sociale, la ricchezza, o individuali, come le capacità ecc., bensì deriva esclusivamente dalla sua stessa posizione.
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E) Sviluppi delle teorie elitiste
Una verifica delle teorie elitiste riguarda l’indagine sulla selezione dei
membri che compongono le élites e la riproduzione di tali gruppi dominanti, vale a dire:
— Quali tipi di persone vengono scelte ad occupare posizioni dominanti
nella società?
— Come questi soggetti vengono selezionati?
Rispetto alla prima domanda, esaminando il background socio-economico di coloro che detengono posizioni di potere, ovvero le élite parlamentari (alti dirigenti politici e dell’amministrazione dello Stato, uomini di partito e funzionari di organizzazioni in qualche modo influenti sull’esercizio
del potere), si può riscontrare che generalmente essi provengono dagli strati
più alti della società, sia a livello di reddito sia a livello di istruzione, anche
se si può dire che in generale i membri delle élites non sono rappresentativi
della particolare configurazione socio-economica da cui provengono, perché costituiscono uno status a sé.
Un’eccezione a queste osservazioni è costituita dai regimi del socialismo reale, dove lo Stato aveva in qualche modo assicurato una rappresentanza ai lavoratori e ai contadini, e anche alle donne, seppur in maniera
minore; anche qui, però, le élite rimanevano sostanzialmente non rappresentative delle classi e dei ceti da cui provenivano. Riguardo alla seconda
domanda, alcune risposte ce le fornisce Michels, con le sue teorie sulla ca-
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pacità di autoriproduzione delle élites nelle proprie posizioni di potere. Se è
vero che gli incarichi politici sono molto spesso elettivi, e che in molti casi
l’elettorato ha la facoltà di scegliere fra due o più candidati, bisogna riscontrare che però la facoltà di selezionare a monte le candidature appartiene
sovente a delle oligarchie, secondo la definizione di Michels, cioè a dei
piccoli gruppi di leaders politici di partito, e che le differenze fra i candidati
per quanto riguarda la loro posizione socio-economica sono minime.
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È da menzionare la ricerca empirica svolta da Folyd Hunter su: Community Power Structure: A Study of Decision-makers (1953). Questo tipo di approccio è definito percettivo o
reputazionale. Si tratta di un sondaggio svolto nella città statunitense di Atlanta, chiedendo a un campione selezionato di cittadini chi realmente, secondo loro, prendesse le decisioni fondamentali, all’interno di un elenco composto da notabili locali (leaders cittadini, esponenti della camera di commercio, editori di giornali ecc.). Il risultato dell’inchiesta portò
Hunter alla conclusione che Atlanta era controllata e dominata da un’élite degli affari. È
chiaro però che questo tipo di approccio, che si basa di fatto sulle percezioni, sulle impressioni e sulle opinioni, non risolve il problema dello scarto tra impressioni soggettive e
realtà oggettiva, così come quello della distinzione tra potere potenziale e potere effettivo.
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L’impostazione teorica direttamente contrapposta a quella elitista è costituita dal cosiddetto approccio decisionale, ovvero la corrente più importante di quella che viene definita la teoria pluralista, il cui maggiore esponente è Robert A. Dahl.
2. TEORIA PLURALISTA
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I teorici pluralisti contestano le teorie delle élite concentrando la loro
critica sulla stessa definizione di élite; essi hanno cercato di stabilire, prendendo in esame una casistica di decisioni politiche già avvenute, se le élites
siano veramente responsabili dei risultati dei processi decisionali.
Viene così esaminata criticamente la stessa categoria di élite, intesa come
gruppo dominante e determinante dei processi decisionali, ovvero essi contestano che:
— l’élite si identifichi effettivamente con un gruppo ben definito;
— le decisioni prese dai gruppi dominanti trovino, almeno in certi casi,
opposizione da parte di ipotetici altri gruppi potenzialmente esistenti;
— le decisioni prese dall’élite prevalgano sempre.
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Robert A. Dahl, in Chi detiene il potere? (1961), compie un esame
statistico dei processi decisionali in una città statunitense (New Haven), a
proposito di tre specifici temi (il riassetto urbano, l’istruzione pubblica e la
nomina delle cariche politiche locali) in un periodo di tempo definito. Egli
giunge così alla conclusione che su queste tre questioni i processi decisionali erano determinati da tre gruppi chiusi ma distinti: secondo Dahl non
esiste perciò un singolo gruppo dominante che detiene il potere, ma esiste
invece una pluralità di interessi, i quali operano per influenzare le decisioni in misura ineguale fra loro, a seconda soprattutto della disponibilità di
risorse. In questo modo, Dahl traccia un quadro che si configura piuttosto
come un sistema di competizione reciproca di élites, operando, nel caso
specifico, una distinzione tra tre gruppi:
a) i «notabili economici»;
b) i detentori delle cariche politiche;
c) i «notabili sociali».
Un tale sistema viene così definito un «Governo di molti», ovvero una
poliarchia: le strutture politiche dello Stato garantiscono una sorta di contrattazione e di competizione tra i vari interessi organizzati, sulla base del
consenso (quasi totale, a parte piccole minoranze) da parte della società alle
sue strutture politiche. Abbiamo dunque un quadro sociale costituito da una
pluralità di interessi particolari minoritari, in continua competizione fra loro,
nel quale nessun gruppo che costituisce un interesse particolare è destinato
a prevalere, ovvero a diventare maggioritario.
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Questa è anche l’opinione di Nelson Posby (1963): l’esercizio del potere è svolto in genere
da una poliarchia, in cui coloro che hanno la responsabilità dei processi decisionali tengono
conto, almeno formalmente, di tutti gli interessi e prestano ascolto a tutti i punti di vista.
Così, le teorie pluraliste ci offrono il concetto di gruppo di pressione, o gruppo di interesse, ovvero un gruppo organizzato che influenza le decisioni politiche per tutto ciò che
riguarda i propri interessi e le proprie posizioni di potere. In tal modo, le società vengono
viste come composte da molteplici interessi organizzati, i più forti dei quali possiedono una
capacità di pressione sui governi. Già nel 1908 una visione del genere veniva tracciata da
Arthur F. Bentley, nella sua opera Il processo di Governo (1908). Negli anni Cinquanta,
poi, la nozione di gruppo di interesse è stata teorizzata da David Truman, in The Governmental Process (1951). Secondo i pluralisti, un interesse esistente in una società cerca
sempre di organizzare la propria rappresentanza. In questo modo, essi hanno dato il via alle
odierne ricerche in campo politico sui gruppi di pressione, inaugurando le teorie contemporanee su quella che viene definita la tesi della fine delle ideologie, secondo la quale nelle
società liberal-democratiche sarebbe presente una sorta di accordo generale fra tutte le
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parti sociali e tutti gli interessi sulle mete da perseguire, mentre il disaccordo esisterebbe
soltanto sui mezzi di realizzazione. Questa visione ha come modello di riferimento senz’altro la società e il sistema politico americano tra gli anni Cinquanta e Sessanta, mentre
maggiori difficoltà essa incontra nell’essere applicata ad altri sistemi politici. Ad ogni modo,
le teorie pluraliste costituiscono la principale alternativa ai modelli elitisti, se naturalmente
si lascia da parte il marxismo.
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Le maggiori critiche ai pluralisti vertono sul fatto che tutti questi studi
non hanno la capacità di essere generalizzabili, perché potrebbero riguardare soltanto dei casi atipici, cioè appunto delle piccole città, non estendibili nemmeno ai governi locali degli USA, e tantomeno a livello nazionale.
Che le società siano composte da vari interessi in competizione è evidente,
ma è anche chiaro che coloro che esercitano in potere, così come coloro che
esercitano un’influenza sul potere, sono sempre un’esigua minoranza. È
vero che non si tratta sempre di un’unica minoranza, ma è anche vero che
di solito la maggioranza della società accetta il sistema politico in cui essa è
rappresentata. Insomma, le teorie pluraliste presentano riscontri che, nella
maggior parte dei casi, sono non dimostrabili universalmente, così come
anche, d’altra parte, le prove fornite dalle teorie elitiste. A ben vedere, la
teoria pluralista potrebbe anche essere considerata come una sorta di variante delle teorie delle élite, con la differenza che viene prospettata una
situazione di varie élite in competizione fra loro invece del dominio di una
singola élite.
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3. TEORIE SUL TOTALITARISMO E SULL’AUTORITARISMO
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Il totalitarismo, come d’altronde il suo diretto opposto, la democrazia, si
contraddistingue per la partecipazione politica di massa, mentre invece,
come si è visto, l’elitismo considera le masse come semplicemente subordinate alle élite, e il pluralismo le concepisce come una molteplicità di interessi in competizione fra loro. Inoltre, sia il totalitarismo sia la democrazia
possono essere considerati come degli idealtipi, nel senso che non vengono
a costituire dei concetti assoluti, ma piuttosto delle tendenze.
La storia umana è stata dominata da numerosi regimi che corrispondono
alle caratteristiche del totalitarismo, nel senso della concentrazione del potere assoluto nelle mani di un individuo o di un piccolo gruppo di individui.
Già dall’antichità, la storia greca e romana comprende molti fenomeni di
questo tipo, poi si possono ricordare i monarchi dell’età medioevale in In-
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ghilterra, l’Europa del XVIII sec., definita come «l’età dell’assolutismo»,
o il periodo contemporaneo fra la prima e la seconda guerra mondiale, noto
come «l’epoca delle dittature».
Nella storia del pensiero, già Platone concepiva un Governo da parte di
re-filosofi, e Aristotele ci dà la definizione di tirannide, Hobbes concepisce
il potere assoluto di un Leviatano, Marx teorizza la dittatura del proletariato
in vista di una realizzazione umana che avrebbe il suo compimento in una
società comunista senza classi migliore di quella che l’hanno preceduta. Per
definire più esattamente la nozione di totalitarismo, si può dire che essa si
inserisce nel concetto di assolutismo, ma portandolo alle sue estreme conseguenze, in quanto un regime totalitario sottopone a controllo assoluto l’intera società; mentre invece l’onnipervasività dell’obbedienza imposta della
tirannide, dell’assolutismo e della dittatura possono essere soltanto relative,
e, soprattutto, non implicano necessariamente, cosa che invece caratterizza
il totalitarismo, l’unione dell’obbedienza sociale con qualcosa che si può
definire come fede. Esistono allora due impostazioni nella definizione di
totalitarismo.
1) Un’impostazione di tipo fenomenologica, proposta da Carl J. Friedrich (1954), vede negli Stati totalitari la presenza di molteplici caratteristiche distinte:
1. un’ideologia totalizzante;
2. un partito unico, guidato di solito da un solo uomo;
3. una situazione di terrore poliziesco;
4. il monopolio della comunicazione;
5. il monopolio degli armamenti;
6. il controllo di tutte le organizzazioni sociali ed economiche e una
centralizzazione dell’economia.
Una definizione simile, sempre di tipo fenomenologico, la dà Zbigniew
Brezinski:
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«Il totalitarismo è un sistema in cui gli strumenti tecnologicamente avanzati del potere
politico sono gestiti senza restrizioni dalla leadership centralizzata di un movimento di
élite allo scopo di attuare una totale rivoluzione sociale, ivi incluso il condizionamento
dell’uomo sulla base di certe assunzioni ideologiche arbitrarie proclamate dalla leadership,
in un’atmosfera di unanimità coattiva dell’intera popolazione (1967)».
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Secondo questi autori, dunque, ciò che definisce il totalitarismo non è
solo il grado maggiore in cui la società viene penetrata e controllata dal
potere politico, ma è anche la volontà di trasformare, attraverso tale
controllo e penetrazione, la società al fine di uniformarla con l’idealizzazione che si esprime nell’ideologia.
2) Un’impostazione cosiddetta «essenzialista», così definita in quanto mira
a definire le «essenze», ovvero gli attributi che spiegano le caratteristiche di un regime totalitario. Così, secondo Hannah Arendt l’essenza
del totalitarismo è il terrore (1951), mentre secondo Jacob L. Talmon
è l’assunzione di un’esclusiva verità in politica. È da ricordare anche la
definizione di Harry Eckstein e Davis Apter, secondo i quali il totalitarismo si caratterizza per il venir meno della distinzione tra Stato e gruppi sociali, così come tra Stato e personalità individuale. Insomma, si può
dire che ciò che contraddistingue il totalitarismo consiste in generale in
un tipo di organizzazione del sistema sociale che implica il controllo
politico in tutti gli aspetti della vita pubblica e privata degli individui.
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A) Arendt, Talmon e Adorno
Le osservazioni storico-sociali di Hanna Harendt sulle origini del totalitarismo partono dal fenomeno dell’instaurarsi del nazismo in Germania,
per estendersi però anche allo stalinismo in Unione sovietica. Essa distingue (1951) quattro fattori alla base della nascita del totalitarismo nazista in
Germania:
— la disgregazione sociale in seguito alla sconfitta della prima guerra mondiale, combinata con le fratture sociali derivanti da un rapido processo
di industrializzazione e dall’introduzione delle idee liberali in politica;
— l’estrema manipolabilità delle masse in seguito all’estensione del diritto di voto, senza che questo sia stato accompagnato da un’adeguata acculturazione politica in senso liberale;
— l’esistenza di un movimento di massa, il partito nazionalsocialista, in
cui gli individui potessero identificarsi per compensare la loro frustrazione;
— l’esistenza della popolazione ebraica, già fonte di diffusi pregiudizi
razziali all’interno della società, che ha svolto la funzione di capro espiatorio in senso ideologico, cioè come presunta concentrazione dei mali
presenti della società.
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Jacob L. Talmon collega (1952) addirittura il totalitarismo alle idee
comparse nel XVIII sec., al concetto rousseiano di volontà generale, e al
giacobinismo nella Francia della Rivoluzione. Talmon propone così un’interpretazione prevalentemente ideologica del fenomeno: il totalitarismo può
assumere forme ideologiche di destra (l’Italia fascista, la Germania nazista), come anche di sinistra (il comunismo dell’URSS, i regimi dell’Europa
dell’est, la Repubblica Popolare cinese ecc.). Per quanto riguarda la sinistra
totalitaria, Talmon la definisce come totalitarismo democratico, laddove
cioè i gruppi dirigenti presumono di interpretare e di realizzare la reale volontà democratica del popolo, come avviene per es. nella dottrina leninista
del centralismo democratico, che garantisce una discussione democratica
all’interno del Partito comunista, ma lo delega come guida esclusiva.
Vi è poi anche una interpretazione di tipo psicologico del totalitarismo e
delle sue origini; esso viene spiegato cioè in base alle tendenze psicologiche
particolari di alcuni individui (come l’intolleranza, l’aggressività, la predisposizione alla sottomissione all’autorità ecc.), i quali, organizzati in gruppi
particolarmente attivi e disciplinati, si impadroniscono del potere. A questo
proposito, è da ricordare l’interpretazione di T.W. Adorno in La personalità autoritaria (1950). Qui si cerca di misurare proprio gli aspetti della personalità che portano a tendenze inclini all’instaurazione e all’accettazione
di contesti politico-sociali totalitari: Adorno elabora così, in questo senso,
una serie di scale, tra cui la più celebre e ricordata è la scala F, quella sul
fascismo.
Anche Erich Fromm, in Fuga dalla libertà, trova nell’alienazione degli individui nelle società contemporanee l’origine delle fughe verso contesti autoritari e totalitaristici, mentre Stanley Milgram ha tentato addirittura
di condurre esperimenti empirici per misurare le tendenze degli individui
ad obbedire all’autorità ecc.
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Tutte queste ricerche e analisi sono databili tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, nel
contesto immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, e si concentrano quindi maggiormente sul totalitarismo di tipo fascista, e in particolare sul fenomeno del nazismo in Germania, sulla personalità di Hitler ecc., mentre ancora non si ha una conoscenza
adeguata sulle caratteristiche più negative dello stalinismo in URSS; queste sono, ad esempio, le critiche principali rivolte ad Adorno. Ora, sebbene anche la Arendt concentri maggiormente l’attenzione sul totalitarismo nazista in Germania più che su quello dell’URSS,
pur non ignorandolo, Talmon in realtà prende in considerazione quasi esclusivamente quello dei regimi comunisti. Si può dire, in conclusione che si tratta di teorie le quali, prese
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singolarmente, si mostrano necessariamente parziali e non esaustive come spiegazioni di
un fenomeno che si caratterizza invece per la sua complessità (Michael Rush, 1992). Sia la
Russia prima della Rivoluzione bolscevica che la Germania di Weimar presentavano in
realtà una società in cui i disagi e le incertezze degli individui trovarono delle risposte in
qualche modo adeguate nell’avvento del regime sovietico in Russia e poi del nazismo in
Germania, e dunque, dal punto di vista della considerazione storica, risulta addirittura ovvio che le masse fossero psicologicamente predisposte e adattabili all’instaurazione di regimi totalitari. Insomma, i fattori di cui tener conto in eventi storici così importanti sono
molti, comprese quelle circostanze particolari in cui tali eventi si sono verificati.
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B) Cenni storici
Occorre allora, proprio anche per contestualizzare la nascita delle forme
storiche più importanti del totalitarismo, ricostruire molto brevemente il
contesto in cui i bolscevichi di Lenin hanno preso il potere in Russia nel
1917, nonché la successiva ascesa al potere di Hitler e dei nazisti in Germania.
— Nel febbraio del 1917 viene deposto lo zar in Russia, e i bolscevichi
entrano nel Governo provvisorio di Kerenskij. Il ritorno di Lenin dalla
Germania cambia radicalmente questa linea: l’obiettivo diviene la presa
rivoluzionaria del potere. Nell’ottobre del 1917 i bolscevichi conquistano il potere.
— In Germania, nel 1928 il partito nazionalsocialista di Hitler prende appena il 3 per cento alle elezioni nazionali, riuscendo a eleggere 12 rappresentanti al Reichstag, ma alle elezioni del luglio del 1932 prende
addirittura il 37 per cento, e diviene così il partito di maggioranza relativa, eleggendo 230 rappresentanti su 608. Nelle elezioni del 1932 rimane
il primo partito del Reichstag, pur calando a 196 seggi, anche per via
dell’estrema frammentazione partitica del Reichstag. Le difficoltà a formare un Governo portano poi, nel gennaio 1933, alla chiamata all’incarico di cancelliere di Hitler, che formò un Governo con 3 soli ministri
nazisti su 11 cariche ministeriali. Grazie al potere acquisito, Hitler e i
nazisti furono in grado di mantenere accesa la crisi politica e sociale
tedesca, e infine di indire nuove elezioni nel marzo dello stesso anno,
quando il partito nazista ottenne 288 seggi (il 44 per cento), un risultato
che garantì, grazie all’elezione di 52 nazionalisti, a Hitler la formazione
di una maggioranza assoluta al Reichstag, e dunque la presa effettiva
del potere da parte dei nazisti.
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Appare dunque cruciale, ai fini di tracciare delle linee interpretative generali sull’origine dei totalitarismi, quella che è la personalità, e soprattutto
il ruolo del leader, ma anche l’uso che viene fatto del potere una volta che è
stato conquistato. In entrambi i casi, infatti, il potere viene usato quasi immediatamente per instaurare un regime totalitario, collocando uomini di
fiducia nei posti chiave per il controllo dell’ordine pubblico, e dunque attraverso l’uso sistematico del terrore: gli oppositori vengono eliminati, i media
controllati strettamente, e l’ideologia viene integralmente diffusa nella società.
— I Paesi dell’Europa dell’Est che cadono sotto l’egemonia e il controllo
politico e militare dell’Unione Sovietica presentano una dinamica più
o meno omogenea nel processo di instaurazione dei regimi totalitari:
una volta instaurati, tali regimi agiscono rapidamente per consolidarsi e
per garantirsi un’invulnerabilità dall’interno con l’uso del terrore. Si
tratta di regimi imposti di fatto dall’URSS, e dipendenti dall’appoggio
sovietico. Gli eventi del 1989 mostrano infatti che una volta che l’Unione Sovietica arriva al suo punto di crisi, tali regimi crollano uno dopo
l’altro in un processo a catena.
— L’instaurazione della Repubblica Popolare Cinese presenta un quadro
analogo: quando Mao Tse Tung sconfigge le truppe di Chang Kai-shek,
il regime totalitario maoista si estende subito all’intero territorio cinese.
Ora, resta il problema di capire se questa categoria di totalitarismo riesca a definire pienamente e a omogeneizzare realtà molto diverse fra loro,
quali l’Italia fascista, la Germania nazista, l’URSS, la Repubblica Popolare
Cinese, tutti i regimi comunisti dell’Europa dell’Est, e poi la Corea del Nord,
Cuba, il Vietnam ecc.
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C) Il totalitarismo come idealtipo
Si possono allora isolare (Rush) alcuni elementi fondamentali caratterizzanti il concetto di totalitarismo:
— un’unica ideologia, pervasiva in tutti gli aspetti della vita politica, sociale e culturale; le arti, la storia, devono riflettere l’ideologia, e rivelare
quella verità, persino lo sport funge da icona ideologica. In breve, tutte
le espressioni di pensiero devono manifestarsi in termini ideologici;
— l’esistenza di un partito unico, o quasi totalmente dominante, portatore
dell’ideologia e profondamente compenetrato con l’apparato dello Stato tanto da averne il completo controllo;
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— le figure dei leader dominanti, ovvero il dominio di un singolo individuo sullo Stato e la società. Gli esempi sono molti: da Stalin in URSS,
Hitler in Germania, Mussolini in Italia, Mao per quanto riguarda la Repubblica Popolare Cinese, a Fidel Castro a Cuba, Ho Chi-minh in Vietnam, Tito in Yugoslavia, Kim Il-sung in Corea del Nord. La storia poi ci
mostra come il potere assoluto dei leader dominanti sia più solido nella
fase originaria dell’instaurazione del totalitarismo e del suo consolidamento, rispetto alla fase successiva: a parte il fascismo e il nazismo —
regimi dipendenti dai propri leader al punto da far sollevare il dubbio se
fossero riusciti a sopravvivere a un’eventuale successione, qualora non
fossero stati sconfitti militarmente —, si può riscontrare come i successori di Stalin in URSS, di Mao in Cina, di Hoxha in Albania, di Ho Chimin in Vietnam, hanno avuto ancora un potere stabile, grazie alla struttura dei partiti comunisti, ma non altrettanto consolidato come quello
dei leader precedenti;
— l’instaurazione e il mantenimento di un clima di terrore, ovvero la presenza costante di strutture di informatori nell’intera società, l’utilizzazione diffusa dello strumento della delazione, insomma la presenza continua di un’atmosfera di paura e di intimidazione;
— la repressione poliziesca: enormi poteri di polizia, con la funzione anche di mantenere la fedeltà all’ideologia, utilizzati con una liceità di
arbitrio che mantiene costante il clima di terrore nella società, il controllo politico capillare e spesso l’utilizzazione delle forze armate. Inoltre,
lo strumento, fondamentale per il controllo sociale, della polizia segreta;
— l’indottrinamento attraverso il controllo di tutti i mezzi di comunicazione e dei media, attraverso il controllo dell’istruzione nel sistema scolastico. In breve, il controllo generale e lo sfruttamento in senso ideologico della totalità della diffusione dell’informazione;
— una direzione centralizzata dell’economia nella direzione degli obiettivi politici del partito unico: si ricordino ad es., nel caso dei regimi
comunisti, gli obiettivi produttivi dei piani quinquennali.
Insomma, l’adozione del totalitarismo come idealtipo è generalmente
possibile e concettualmente lecita. Si può dire però che il totalitarismo, nel
suo significato, rappresenta un modello non raggiunto mai compiutamente
nella storia, nel senso assoluto di una società compiutamente totalitaria, dal
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momento che il termine totalitario designa uno stato di cose assoluto. Dunque tale categoria idealtipica presenta in realtà delle difficoltà nella sua applicazione nei casi particolari, perché appunto, a stretto rigore, non si è data
nessuna società totalitaria in senso assoluto, ma questo concetto ha invece
un suo valore per quanto riguarda la comparazione e la scala dei casi particolari dello stesso genere: ci consente, ad es., di stabilire che la Germania
nazista era una società in cui il totalitarismo era più radicato e consolidato
rispetto a quello dell’Italia fascista, così come si può riscontrare che l’Unione Sovietica di Stalin era senz’altro più totalitaria di quella post-staliniana.
Per quanto riguarda l’aspetto della socializzazione politica, anche qui
l’idealtipo del totalitarismo presenta qualche difficoltà, dal momento che la
socializzazione, in una società totalitaria, dovrebbe svolgersi completamente e con successo, mentre invece l’esperienza, ad es., dei regimi comunisti
dell’Est dimostra come ciò può verificarsi solo in apparenza, vista la velocità con cui tali regimi sono caduti.
Dal punto di vista dei valori, infine, il totalitarismo si caratterizza per
l’imposizione di un gruppo di valori ben definiti che non ammettono l’espressione di valori alternativi, e dunque indica un preciso rapporto che lega l’ideologia alla società, ma è bene ricordare appunto la natura idealtipica di questa categoria: il totalitarismo non è, perciò, esso stesso una ideologia.
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D) L’autoritarismo
Oltre ai regimi di tipo totalitario, tra i regimi non democratici molti vengono definiti regimi autoritari. Se dunque la distinzione tra totalitarismo e
autoritarismo sia in fondo sottile, netta è invece quella tra autoritarismo e
democrazia. Così infatti l’autoritarismo viene definito da Juan Linz:
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«Sistemi a pluralismo politico limitato, la cui classe politica non rende conto del proprio
operato, che non sono basati su una ideologia guida articolata, ma sono caratterizzati da
mentalità specifiche, dove non esiste una mobilitazione politica capillare e su vasta scala,
salvo in alcuni momenti del loro sviluppo, e in cui un leader, o a volte un piccolo gruppo,
esercita il potere entro limiti mal definiti sul piano formale, ma in effetti piuttosto prevedibili (1991)».
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Dunque gli elementi base individuati da Linz, che distinguerebbero l’autoritarismo dal totalitarismo, sono:
— pluralismo politico limitato;
— mentalità specifiche;
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— assenza di mobilitazione guidata;
— comando del leader o di un gruppo ristretto;
— indeterminatezza dei limiti del potere.
In realtà il limite tra regime autoritario e regime totalitario è abbastanza
sfumato e spesso di difficile individuazione: elementi di autoritarismo mischiati a un contesto totalitario erano ad es. presenti nell’Italia fascista, come
la sopravvivenza della Chiesa e della corona. Si può dire anche che non è
spesso così facile distinguere tra ideologia e mentalità specifica, o anche
stabilire una distinzione tra i gradi della mobilitazione sociale (Fisichella,
1988-2002; Pasquino, 2004). Vediamo allora che Linz opera una distinzione fra sei differenti tipi di autoritarismo:
— regimi autoritari di tipo burocratico-militare, come ad esempio quelli
caratterizzanti molti Paesi dell’America Latina nel recente passato;
— regimi autoritari a statalismo organico: rispetto al primo tipo, si caratterizzano per un maggior controllo sulla partecipazione sociale e in generale sulla mobilitazione della società, attraverso la presenza di strutture organiche, organizzazioni corporative ecc.;
— regimi autoritari di mobilitazione, caratterizzati per la fase successiva
alla conquista dell’indipendenza post-coloniale, oppure in lotta per l’indipendenza;
— regimi autoritari di dominio personale, caratterizzati per il dominio personale di un leader dittatore, di un generale ecc.: tipici di questa situazione sono ad es. diversi nuovi Stati africani;
— regimi autoritari post-totalitari, caratterizzati per una situazione in cui
rimangono in piedi certe strutture di tipo totalitario anche nella fase successiva alla caduta delle vecchie oligarchie totalitarie di potere: ad es. i
Paesi ex-comunisti dell’Europa dell’Est, la Russia post-comunista ecc.
Ovviamente si tratta anche in questo caso di idealtipi, e l’identificare
schematicamente una situazione particolare esistente in una di queste categorie è difficile, perché spesso i casi particolari partecipano di varie tipologie di autoritarismo. Ad ogni modo, è riscontrabile un buon livello di validità in questa suddivisione, soprattutto per quanto riguarda la classificazione
della distribuzione del potere nel quadro storico contemporaneo, nel quale
diverse società, caratterizzate da un contesto totalitario o autoritario, sono
state soggette a processi di democratizzazione. Bisogna rilevare, infine, che
nel mondo contemporaneo gli Stati, almeno formalmente o nominalmente,
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democratici, oggetto del prossimo paragrafo, sono in maggioranza rispetto
a quelli caratterizzati da totalitarismo o autoritarismo (Huntington, 1993).
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4. REGIMI DEMOCRATICI
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Democrazia è un termine di non facile definizione, caratterizzabile sostanzialmente soltanto rispetto al suo termine antinomico, cioè la non democrazia. È dunque difficile tracciarne i confini precisi, considerando
anche il fatto che quasi tutti i regimi contemporanei si sono proclamati come
democratici, anche qualora non lo fossero di fatto. Si potrebbe dunque partire dalla definizione data da Abramo Lincoln del significato del termine
democrazia: «Governo del popolo, dal popolo, per il popolo». Anche questa definizione, però, rimane generica e presenta dei problemi: nelle società
democratiche di oggi, infatti, solo una minoranza di cittadini è coinvolta
regolarmente in attività politiche di Governo, e dunque il «Governo del popolo» si caratterizza di solito più per un Governo rappresentativo del popolo, col rischio che le reali esigenze del popolo siano pur sempre soltanto
interpretate dalla rappresentanza politica.
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A) Cenni storici
Le origini storiche della democrazia vanno ricercate nell’antica Grecia,
ovvero nelle città-stato del periodo classico, la polis, ma bisogna ricordare
che quelle esperienze di democrazia diretta riguardavano in realtà soltanto
una minoranza della popolazione, cioè i cittadini liberi, mentre ne erano
esclusi gli schiavi e i liberti. C’è da dire però che nel pensiero antico il
regime democratico, come governo di molti, non era visto con particolare
favore: se Platone associava la democrazia alla demagogia, una sorta di
precondizione alla possibilità della tirannide, anche Aristotele la considerava quale una specie di perversione politica, pur introducendo degli elementi che hanno alcuni tratti in comune con le moderne idee democratiche,
come per esempio la sua concezione di Governo responsabile della pòlis. È
da notare, dunque, come fino al XVIII sec. l’idea di un regime democratico,
in quanto governo della moltitudine e della folla, ha sempre assunto una
connotazione negativa, associata a una idea di irresponsabilità, poiché identificata con l’espressione incontrollata delle pulsioni e degli istinti propri
della massa incolta. Era dunque considerato temibile o visto con sospetto
che la folla, la plebe ignorante, potesse assumere responsabilità politiche.
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Persino al tempo della Rivoluzione americana tale concezione è stata mantenuta: i padri fondatori degli Stati Uniti d’America associavano la garanzia
dei diritti dei cittadini liberi (libertà di parola, di associazione, di religione,
dall’arresto arbitrario, così come la libertà di voto) all’assunzione di responsabilità. Alle origini della storia americana sono bensì riscontrabili forme interessanti di partecipazione democratica diretta dei membri delle prime comunità, come ad esempio i caucus, ovvero riunioni cittadine con poteri decisionali ed elettivi, ma mai esse hanno assunto il carattere della partecipazione universale e del voto. La democrazia effettiva, ovvero il diritto
di voto esteso a tutti (anche alle donne, e a tutti non sulla base del censo) è
dunque senz’altro una conquista recente nella storia politica occidentale.
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B) Consenso ed elezioni
Il tratto distintivo della democrazia consiste nel consenso dei governati,
nell’espressione della volontà popolare, e dunque nel controllo popolare
da parte dei governati. Nella storia del pensiero moderno tale idea del controllo popolare e di un governo eletto è stata introdotta dai teorici contrattualisti come Locke, mentre Rousseau ha espresso una concezione di democrazia diretta sul modello delle città-stato dell’antica Grecia, anche se
egli ammetteva che tale ideale fosse realizzabile soltanto in realtà sociali
piuttosto piccole e circoscritte, come per es. la Corsica. Ad ogni modo, per
Rousseau l’ideale democratico non può fondarsi realmente su un modello
rappresentativo, ma solo sulla partecipazione diretta ai processi decisionali
da parte di tutti i cittadini.
Vediamo invece che, nel mondo moderno, le forme della democrazia
che si sono affermate sono fondate sulla rappresentatività. Se dunque l’ideale democratico rimanda a un modello di partecipazione diretta di tutti i
cittadini della comunità, nella realtà storica moderna la categoria di democrazia è considerabile, data la varietà delle sue forme, soltanto in modo relativo, vale a dire comparando quelli che possono essere pensati come i differenti livelli di democrazia. Nei regimi democratici il consenso popolare si
realizza attraverso le elezioni, ma tale metodo apre a sua volta una complessità di questioni pari almeno alla differenziazione delle possibili forme di
tali regimi: ad esempio, se il diritto di voto sia esteso a tutti o meno, se le
elezioni per scegliere i rappresentanti del popolo si svolgano su base territoriale o meno, con quale frequenza esse vengano indette, con che tipo di
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sistema elettorale, se esse seguano il criterio della maggioranza relativa o di
quella assoluta ecc.
La democrazia rappresentativa contiene poi al suo interno la possibilità
di meccanismi di controllo diretto o indiretto, di modo che la realtà delle
democrazie moderne arriva di fatto a eccedere in complessità la semplice
definizione della democrazia quale «Governo della maggioranza». Si tratta
di:
— meccanismi diretti: l’elettorato partecipa direttamente nelle decisioni
particolari, quali la scelta dei leader e la definizione dei programmi politici. Gli strumenti di tale modalità sono, ad es., per quanto riguarda la
scelta dei leader, la revoca, ovvero la possibilità che parti dell’elettorato
hanno di confermare e rieleggere i rappresentanti eletti prima che sia
compiuta la scadenza regolare dei termini elettorali, e per quanto riguarda le decisioni e i problemi politici particolari, lo strumento del referendum. In molti Stati americani sono presenti entrambi questi strumenti
diretti, così come in molti Stati europei;
— meccanismi indiretti: consenso e controllo vengono esercitati attraverso delle strutture che costituiscono delle mediazioni tra elettorato e governanti. Tali intermediari possono essere costituiti da strutture organizzate che seguono a loro volta propri criteri elettivi interni, come ad es. il
sistema giudiziario di controllo o l’assemblea legislativa, o da individui
delegati a tali funzioni, come ad es. singoli rappresentanti parlamentari,
oppure da semplici principi legislativi.
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C) Separazione dei poteri
Vediamo dunque come i modelli democratici più avanzati contengano al
loro interno, per così dire, delle dinamiche che contrastano ed equilibrano
il principio maggioritario. Ancora una volta sono gli Stati Uniti ad offrire il
modello di riferimento per quanto riguarda questi meccanismi di contrappeso anti-maggioritario, sanciti nell’atto fondativo della costituzione da parte
dei Padri fondatori.
L’elemento fondamentale di tale complessità propria dei sistemi democratici consiste nella separazione dei poteri: il potere esecutivo, il potere
legislativo e il potere giudiziario. Tale tripartizione di quello che è il potere
reale in uno Stato svolge la funzione di impedire che particolari individui o
gruppi possano arrivare a controllare la totalità del potere. La Costituzione
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americana, poi, sancisce una serie complessa di pesi e contrappesi per regolare il funzionamento di questa separazione dei poteri, quali, ad es., l’approvazione delle nomine presidenziali da parte del senato, o il diritto di veto
presidenziale sulle nomine parlamentari.
Il problema principale delle democrazie moderne come governo dei molti
è quindi, paradossalmente, quello di limitare il potere della maggioranza,
per impedire la possibilità di abusi da parte di una maggioranza permanente, stabilendo precisi confini e contrappesi al potere maggioritario, vale a
dire quello di evitare la possibilità di ciò che pensatori quali come Toqueville e J.S. Mill hanno definito come «dittatura della maggioranza» (Toqueville, 1835-1840), intendendo con questa definizione il rischio che una
maggioranza incolta possa prendere il sopravvento su una minoranza illuminata e responsabile. Si tratta di una questione cruciale nel mondo contemporaneo e nel dibattito attuale sulla democrazia; si pensi ai problemi che
sorgono da una situazione che vede il potere nelle mani di una maggioranza
stabile su base etnica o religiosa, con la possibilità quindi di discriminazioni
nei confronti delle minoranze (ad es. la situazione dell’Irlanda del Nord fra
il 1920 e il 1972, dove la maggioranza protestante-unionista ha effettivamente compiuto una serie di abusi e discriminazioni nei confronti della minoranza cattolica-nazionalista).
Nella definizione di regime democratico è dunque centrale la garanzia
del rispetto dei diritti delle minoranze e della tolleranza delle loro opinioni, ovvero il problema dell’equilibrio tra poteri della maggioranza e diritti
delle minoranze. L’altro elemento fondamentale che contraddistingue la
democrazia modernamente intesa è la tolleranza delle opinioni altrui, una
questione resa ancor più complessa dalla presenza, nelle società contemporanee, della cosiddetta opinione pubblica, cioè dalla possibilità di influenzare estensivamente, attraverso i mezzi d’informazione, l’opinione di vasti
settori della società civile.
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D) Eguaglianza e diseguaglianza
Se la democrazia tende a garantire un’eguaglianza fondamentale di diritti, primi fra tutti quelli di libertà di voto, di libertà di parola e di libertà di
associazione, tale garanzia può sempre comunque risultare astratta di fronte
a quelle che sono le condizioni materiali e reali degli individui: ciò che
infatti caratterizza molte società democratiche contemporanee è proprio
questa contraddizione tra l’eguaglianza formale dei diritti dei cittadini e la
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diseguaglianza sociale ed economica. È ovvio, infatti, che agli individui
preoccupati del soddisfacimento dei propri bisogni e alla propria sopravvivenza non bastano i diritti garantiti dalla democrazia sul piano formale.
A questo proposito, molti teorici hanno posto l’attenzione sull’esistenza
di un nesso causa-effetto che lega lo sviluppo economico alla democrazia.
In particolare Lipser (1960) afferma l’esistenza di questa relazione causale,
cercando di dimostrare che le società che maggiormente hanno soddisfatto
i bisogni materiali degli individui che ne fanno parte hanno anche sviluppato sistemi politici di tipo democratico, per quanto riguarda soprattutto i redditi, l’industrializzazione, l’urbanizzazione e l’istruzione. Da parte sua,
Rokkan sostiene che la stabilità politica dei regimi democratici deve fondarsi, prima ancora che sull’equità economica, sulla garanzia di quelle che
chiama istanze non negoziabili: la lingua, la religione e la cultura. C’è da
dire, però, che il fatto che la stabilità politica sia il fattore più importante per
lo sviluppo di sistemi democratici è tutto da dimostrare: secondo Rush (1992)
la stabilità politica si configura come una condizione necessaria ma non
sufficiente per lo sviluppo della democrazia, in quanto la sua diffusione
eccede di fatto i regimi di tipo democratico, sia dal punto di vista storico che
nell’attualità del mondo contemporaneo. Così, anche Benn e Peters (1959),
Finer (1979) e Held (1996) ritengono che gli stessi diritti politici, sociali ed
economici la cui garanzia caratterizza, almeno formalmente, le democrazie
moderne, non risultano essere elementi sufficienti a contraddistinguere i
regimi democratici.
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In conclusione possiamo dire che non è in realtà determinabile con certezza che i meccanismi democratici siano i più funzionali e i più appropriati, né per quanto riguarda la stabilità
del sistema politico, né per quanto riguarda lo sviluppo economico-sociale e la soddisfazione materiale dei suoi membri. A ben vedere, a parte gli elementi fondamentali individuati per definire che cos’è una democrazia (consenso, volontà popolare, elezioni, divisione dei poteri, tolleranza delle opinioni), essa va considerata, più che un fatto meramente
oggettivo, un sistema di valori e atteggiamenti condivisi (Rush), di modo che caratterizzare compiutamente la categoria di democrazia è un’impresa difficile, in quanto non possono non entrare necessariamente in gioco gli atteggiamenti e i punti di vista soggettivi.
5. CONCLUSIONI: ELITISTI, PLURALISTI E MARXISTI
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Ciò che accomuna le spiegazioni elitista e marxista su quella che è la
distribuzione del potere, consiste nel fatto che entrambe queste visioni ci
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