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la Biblioteca di via Senato
mensile, anno vi
Milano
n.2 – febbraio 2014
BIBLIOFILIA
Un industriale,
un mecenate
di giancarlo petrella
NOVECENTO
Gli interventisti
e la I Guerra
Mondiale
marco cimmino
SPECIALE EMO
Andrea Emo
o della filosofia
futura
di giovanni sessa
e sandro giovannini
NOVECENTO
Il risotto alla
milanese di Carlo
Emilio Gadda
di massimo gatta
L’ALTRO SCAFFALE
Bisanzio, la notte
e la musica
di ogni tempo
di alberto cesare ambesi
Si ringraziano le Aziende che sostengono questa Rivista con la loro comunicazione
la Biblioteca di via Senato – Milano
MENSILE DI BIBLIOFILIA – ANNO VI – N.2/48 – MILANO, FEBBRAIO 2014
Sommario
6 Bibliofilia
UN INDUSTRIALE,
UN MECENATE
di Giancarlo Petrella
14 Speciale Emo
ANDREA EMO
O DELLA FILOSOFIA FUTURA
di Giovanni Sessa
e Sandro Giovannini
54 BvS: Fondo Novecento
GLI INTERVENTISTI
E LA I GUERRA MONDIALE
di Marco Cimmino
58 BvS: Fondo Letteratura ’900
IL RISOTTO ALLA MILANESE
DI CARLO EMILIO GADDA
di Massimo Gatta
25 Speciale Emo
MASSIMO DONÀ:
«DIO È NULLA, IL MONDO È»
di Giovanni Sessa
63 L’Altro Scaffale
BISANZIO, LA NOTTE
E LA MUSICA
DI OGNI TEMPO
di Alberto Cesare Ambesi
28 Speciale Emo
ROMANO GASPAROTTI:
«DIO CREA MORENDO»
di Giovanni Sessa
66 Filosofia delle parole e delle cose
IL LIMITE ASSOLUTO
E LA MANCANZA RELATIVA
di Daniele Gigli
33 IN SEDICESIMO – Le rubriche
LE MOSTRE – IL RICORDO
a cura di Luca Pietro Nicoletti
e Gianfranco de Turris
70 BvS: il ristoro del buon lettore
I GRANDI PIATTI DI MA.RI.NA
di Gianluca Montinaro
50 Punture di penna
CONSIGLI INTELLETTUALI
PER IL VERO
MAÎTRE À PENSER
di Luigi Mascheroni
72 HANNO COLLABORATO
A QUESTO NUMERO
Fondazione Biblioteca di via Senato
Biblioteca di via Senato – Mostre
Biblioteca di via Senato – Edizioni
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Marcello Dell’Utri
- Mostra del Libro Antico
- Salone del Libro Usato
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Editoriale
C
ento anni dall’attentato di Sarajevo,
nel quale veniva assassinato
l’arciduca Francesco Ferdinando
d’Asburgo. Cent’anni quindi dallo scoppio
della I Guerra Mondiale, evento, e chiave
di volte, essenziale all’interpretazione
del «Secolo breve». Il conflitto, che attraversò
tutta l’Europa, prendendo forma in una
snervante e sanguinosa guerra di trincea,
segnò da una parte la fine degli Imperi,
dall’altra avviò quella «guerra civile
europea» (secondo una nota definizione
di Ernst Nolte) fra i “rottami” del mondo
borghese ottocentesco e le masse operaio
agitate dagli echi di rivoluzione, che solo
si sarebbe conclusa con la caduta di Berlino
nel maggio del 1945.
Prende il via da questo numero della
rivista una serie di articoli dedicati a questi
avvenimenti (il dibattito fra interventisti
e non interventisti; l’impresa fiumana
di d’Annunzio, lo scontro ideologico fra
conservatori, fascisti, socialisti e comunisti)
ispirati anche dai tanti volumi, pubblicazioni
e riviste di quegli anni che la Biblioteca
di via Senato conserva nel suo patrimonio.
Postillando, a distanza di tanto tempo,
si può ormai dire - senza paura di esprimere
un pensiero “anticonformista” - come l’evento
della I Guerra (ancora messo in falsa luce
dalla storiografia di sinistra) fu ciò che più
contribuì a creare il nostro sentimento
nazionale, in un’Italia ancora troppo giovane
e con tante questioni aperte (il Meridione,
i rapporti con la Chiesa, le masse operaie).
Gianluca Montinaro
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
7
Bibliofilia
UN INDUSTRIALE,
UN MECENATE
Giacinto Ubaldo Lanfranchi, capitano d’impresa e bibliofilo
GIANCARLO PETRELLA
«M
ultos in vinculis
tenes, qui si
forsan erumperent et loqui possent ad iudicium
te privati carceris evocarent».
Nel De remediis Petrarca se la
prende con la categoria, evidentemente già all’epoca assai diffusa, di quei gretti bibliofili gelosi
della propria collezione al punto
da tenere quasi in catene i libri
«quibus multi egeant studiosi».
A questa schiera non si può certo
dire appartenesse Giacinto
Ubaldo Lanfranchi da Palazzolo
sull’Oglio (1889-1971), capitano
d’impresa tenace e rigoroso per
decenni alla guida, assieme ai fratelli, della Lanfranchi, leader mondiale nel settore dei bottoni e
poi delle chiusure lampo per intenderci, coinvolto
in prima persona nella cosa pubblica e in numerose
associazioni di tipo assistenziale, ma con la vocazione, autentica e illuminata, per la cultura e il collezionismo, non soltanto librario.1 Un industriale
mecenate d’altri tempi. Bisogna cominciare dalla
Sopra: Erasmo, Enchiridion dalla lingua latina nella volgare
tradotto, Brescia, Ludovico Britannici, 1531: frontespizio.
Accanto: Antonio Meli, Libro della vita contemplativa,
Brescia, I.A. Morandi, 1527
fine della storia per rendersene
conto. Palazzolo è una cittadina
della provincia bresciana, ai più
giustamente poco nota, eppure
per chi si occupi di storia del libro
del Rinascimento non è infrequente imbattersi nella segnalazione di un’edizione di estrema
rarità conservata, appunto, presso la Biblioteca Civica oggi dedicata al suo illustre benefattore.
Bisogna infatti sapere che il lavoro in ditta non esauriva le energie
del Lanfranchi. L’amore per i libri, coltivato fin dalla giovane
età, era l’altra faccia dell’imprenditore. Vi si dedicò per tutta la vita, con notevole investimento di tempo e risorse finanziarie, allestendo una superba collezione che alla fine raggiunse la cifra assai ragguardevole di circa
7000 volumi, oltre a un piccolo nucleo di una ventina di manoscritti. L’attenzione maggiore va, inevitabilmente, alla porzione più antica: 277 incunaboli e quasi cinquecento esemplari del XVI secolo.2
Fino al 1966 la collezione era ubicata a palazzo Tasso, residenza privata del Lanfranchi; poi fu temporaneamente allocata presso il Municipio di Palazzolo. Nel frattempo l’imprenditore-bibliofilo già
pensava a una possibile destinazione pubblica per
preservarla dalla dispersione ed evitarle quel triste
8
destino di frammentazione sul mercato antiquario
toccato in sorte ad altre simili collezioni (alludo a
esempio all’altrettanto preziosa raccolta del ferrarese Bonfiglioli che né la città di Ferrara né l’Italia
seppero a suo tempo salvaguardare di cui spero presto di potermi occupare). Si fece avanti la Biblioteca
Angelo Mai di Bergamo, che avrebbe così potuto
incrementare un fondo antico già di inestimabile
valore. Alla fine, caritate patriae, prevalsero i legami
con la cittadina d’origine e il Lanfranchi scelse di
destinare la propria raccolta ai suoi concittadini.
Quali erano stati gli interessi e i propositi che avevano guidato negli anni la politica degli acquisti?
L’ispirazione, ancora una volta, venne dalla sua terra. Se Palazzolo aveva dato i natali ai Bertani, meglio noti col nome umanisticamente atteggiato di
Britannici, una delle più rinomate dinastie di tipografi, editori e umanisti, attiva a Brescia dagli anni
Settanta del XV secolo alla metà del Seicento,3
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
spettava ora al palazzolese Lanfranchi cercare e accostare ogni tessera di questa secolare storia di humanae litterae e tipografia. Né la ricerca poteva restare chiusa nell’angusto recinto di Palazzolo, dal
momento che i Britannici avevano esercitato la loro
arte a Brescia e finito con l’esportare i loro prodotti
(esattamente come l’imprenditore) in tutta Europa. Il fondo Lanfranchi è pertanto una delle fonti
oggi insostituibili soprattutto per lo studio della
stampa bresciana del Rinascimento. Bastino un po’
di cifre, certificate da Ennio Sandal, massimo studioso dei Britannici, in limine al catalogo del fondo
antico compilato qualche anno fa da Rosa Zilioli
Faden: 41 edizioni quattrocentesche sottoscritte da
Angelo e Iacopo Britannici (oltre il 55% della loro
produzione incunabolistica); 52 edizioni cinquecentesche, pari al 18% della produzione bresciana
della prima metà del Cinquecento, con un tasso di
rappresentatività persino superiore alla British Li-
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
brary.
Giacinto Ubaldo riuscì persino a realizzare il
sogno di ogni bibliofilo, vale a dire mettere le mani
su alcuni pezzi unici, a cominciare dal Breviarium
romanum sottoscritto Brescia, Iacobus Britannicus
de Pallazolo, 7 dicembre 1489 («Jacobus Britanicus
de pallazzolo … in nobilissima atque amoenissima
civitate Brixie labente anno 1489 die septimo Decembris») della cui esistenza addirittura non si aveva alcuna notizia.4 L’esemplare, pur mutilo di alcune carte interne, conserva legatura coeva in pergamena, marginalia manoscritti coevi, ma non offre
alcun segno che confessi particolari sulla sua storia
antecedente. Il Lanfranchi poteva inoltre vantare
di possedere l’unico esemplare noto anche per una
decina di edizioni del Cinquecento, tra cui le Regulae grammaticales del Perotti nell’edizione Brescia,
Ludovico Britannici, 1551;5 addirittura tre edizioni
della diffusa grammatica latina di Donato con i Distica Catonis, uno dei più usuali manualetti scolastici
«perquam commodus pueris ingredientibus ad prima grammatices rudimenta» (rispettivamente Brescia, Ludovico Britannici, 1527 e 1548; Brescia,
Damiano Turlino, 1541);6 La legenda divota del romito di Bernardo Giambullari sine anno (ma «in
Bressa per Lodouico Britannico e li fratelli»);7 la
godibilissima Opera amorosa che insegna a componer
lettere e a rispondere a persone d’amor ferite over in
amor viventi di Giovanni Antonio Tagliente (Brescia, Damiano e Iacopo Filippo Turlino, 1535), vero e proprio antesignano dell’ottocentesco prontuario di lettere d’amore noto col titolo di ‘segretario galante’;8 o ancora l’Opera nuova nella quale si
contiene … una stanza sopra la distruttione di Gierusalem et il nome de tutte le famose città licenziata a Brescia nel 1546 da Damiano Turlino per un misterioso Giovan Pelegrino detto el Spagnoletto, forse un
cantimbanco di passaggio in città.9 Anche se la qualifica di raro, soprattutto se assegnata da un libraio
antiquario, finisce con l’inquietare parecchio i collezionisti (spesso a dire il vero a ragione), è possibile attribuire la patente di rarità anche ad altre edi-
9
Nella pagina accanto: Antonio Meli, Libro della vita
contemplativa, Brescia, I.A. Morandi, 1527. Sopra
dall’alto:Scriptores astronomici, Venezia, Aldo Manuzio,
1499: colophon; colophon dell’edizione di Firmicus
Maternus contenuta in apertura della raccolta degli
Scriptores astronomici, Venezia, Aldo Manuzio, 1499;
Erasmo, Enchiridion dalla lingua latina nella volgare
tradotto, Brescia, Ludovico Britannici, 1531: colophon
10
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
Sopra da sinistra: silografie raffiguranti i segni della Vergine e dei Gemelli dall’edizione degli Astronomicon libri di
Manilius negli Scriptores astronomici, Venezia, Aldo Manuzio, 1499; marca tipografica con le iniziali di Angelo Britannici
zioni ottenute a suo tempo dal Lanfranchi. L’edizione incunabola della Bibbia latina stampata a Norimberga da Anton Koberger nel 1482 è nota in Italia solo tramite altre tre copie, due delle quali della
Biblioteca Vaticana.10 Alcune note manoscritte attestano che il volume, ancora con legatura monastica originale in pelle di scrofa con impressioni a secco (tipica dell’area tedesca), appartenne a inizio
Seicento a un Sebastianus Hueber e fu poi donata
da questi (forse per lascito testamentario) alla biblioteca del convento dei Cappuccini di Schlanders
(Bolzano): «Loci Capucinorum Schlanders ex dono Sebastiani Hueber capellani ad Sanctum Spiritum Schlanders». Dell’edizione giuridica Bartolus
de Saxoferrato, Super prima parte Infortiati sottoscritta a Venezia il 9 febbraio 1471 da Vindelino da
Spira, titolare della prima tipografia attiva in Laguna, addirittura non si conosce in Italia che l’esemplare già Lanfranchi.11 Come per l’edizione incunabola s. Ambrosius, De officiis, Paris, Guy Marchant,
14 gennaio 1494 che confessa un pedigree di tutto ri-
spetto: prima di giungere all’imprenditore di Palazzolo, come suggerisce il timbro al frontespizio,
faceva infatti parte della superba collezione poi dispersa (qualche frammento ancora occasionalmente riemerge sul mercato antiquario) di Walter
Ashburner (1864-1936), bibliofilo e co-fondatore
del British Institute di Firenze.12 Accerto che il
Lanfranchi riuscì a mettere le mani su qualche altro lacerto della collezione ashburneriana. Ben
nove incunaboli rivelano l’inconfondibile timbro
con stemma e dicitura «Walter Ashburner Firenze»: tra questi l’edizione illustrata della Commedia
con commento di Cristoforo Landino stampata a
Venezia da Matteo Codecà nel 1493; gli affascinanti Commentaria super opera diversorum auctorum de antiquitatibus loquentium dell’enigmatico
frate domenicano Annio da Viterbo nella princeps
Roma, Eucarius Silber, 1498; l’edizione dei Trionfi di Petrarca Venezia, Pietro di Piasi, 1490; un
sontuoso e ingombrante Graduale con testo e musica edito a Venezia da Johann Emerich per Lu-
12
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
Dante Alighieri, Commedia con commento di Cristoforo Landino, Venezia, Matteo Codecà, 1493: silografia a piena
pagina e incipit del I canto dell’Inferno
cantonio Giunta (1499-1500), sino alla bellissima
edizione degli Scriptores astronomici licenziata da
Aldo Manuzio nel 1499.13 Ma tornando al tema
della rarità, sul fronte delle edizioni cinquecentesche, segnalo qui almeno i Proverbi di Antonio
Cornazzano nell’edizione «per Ludovico Britanico, 1530 del mese di Luio» di cui non si conosce
che una seconda copia presso la Biblioteca della
Fondazione Ugo Da Como di Lonato del Garda,
che a sua volta custodisce lo strepitoso scrigno librario (oltre 400 incunaboli!) appartenuto al se-
natore bibliofilo Ugo Da Como (1869-1941).14
Anche della prima edizione dell’Enchiridion di
Erasmo tradotto in volgare (Brescia, Ludovico
Britannici, 1531) e delle Heroides ovidiane ancora
Brescia, Ludovico Britannico, 1538 non si conoscono che pochissime altre copie in biblioteche
italiane.15
A questo punto bisogna far parlare i libri, alcuni dei quali custodiscono note di possesso anche di altissimo lignaggio in grado di spalancare
improvvisi squarci su uomini e libri del Rinasci-
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
mento. Qualche ghiotto assaggio: il Lattanzio Venezia, G. da Colonia e J. Manthen, 1478 appartenne a Benedetto Capilupi (1461-1518), stimato
segretario di Isabella d’Este, che vi vergò di proprio pugno la nota «Benedicti Capilupi codex».16
Lo Stazio Venezia, B. Zani, 1494 era il libro di testo di un tale Eusebio da Vespolate che nel 1503
seguiva a Milano presso le Scuole Palatine il corso
tenuto dal celebre Aulo Giano Parrasio proprio
sulle Silvae di Stazio come informa, a distanza di
oltre cinquecento anni, l’annotazione «Finis expositionum ac emendationum Silvarum Statii Papinii quas publice professus est Ianus Parrhasius
lector in millesimo quingentesimo tertio et finivit
septimo mensis augusti eumque ego Eusebius de
Vespolatis audivi».17 Di quel corso rimangono
inoltre i diligenti appunti presi da Eusebio lungo i
margini del volume, dai quali si apprende che un
NOTE
1
Un breve profilo in apertura del recente Uomini di lettere e uomini di libri. I
Britannico di Palazzolo (1469-1650). Saggio storico di Ennio Sandal, Annali tipografici di Rosa Zilioli Faden, presentazione di
Giuseppe Frasso, Firenze, Olschki, 2012, pp.
7-8.
2
Catalogo del fondo Lanfranchi della
Biblioteca Civica di Palazzolo sull’Oglio, a
cura di Rosa Zilioli Faden, I, Gli incunaboli e
i manoscritti, Milano, Regione Lombardia,
1996; II, Le cinquecentine, Milano, Regione
Lomabrdia, 2001.
3
ANGELO BRUMANA, Per i Britannico, «Italia medioevale e umanistica», XLVIII, 2007,
pp. 113-218; SIMONE SIGNAROLI, Maestri e tipografi a Brescia (1471-1519). L’impresa
editoriale dei Britannici fra istituzioni civili
e cultura umanistica nell’Occidente della
Serenissima, Travagliato-Brescia, Edizioni
Torre d’Ercole, 2009; Uomini di lettere e uo-
13
altro dei testi necessari per seguire il corso era l’edizione dell’Achilleide di Stazio col commento di
Giovanni Britannico. La Pharsalia di Lucano nell’edizione Brescia, Iacopo Britannici, 1486 proviene direttamente dalla biblioteca personale di
un celebre umanista, il veneziano Raffaele Regio
(c. 1440-1520), come accerta la nota di possesso
alla prima carta «Raphaelis Regis et amicorum».18
L’opera fu attentamente meditata, a giudicare dai
fitti notabilia in latino e greco stipati lungo i margini. Si scova persino qualche isolata lettrice: l’edizione lionese 1556 del Furioso appartenne alla
riserva personale della sorella di Napoleone, la
principessa Elisa Bonaparte Baciocchi, mentre il
Libro della vita contemplativa di Antonio Meli
(Brescia, I.A. Morandi, 1527), assai più umilmente, era «a uso delle sore de S. Clara de Crema per
legere alla mensa comune».19
mini di libri. I Britannico di Palazzolo (14691650). Saggio storico di Ennio Sandal, Annali tipografici di Rosa Zilioli Faden, presentazione di Giuseppe Frasso, Firenze,
Olschki, 2012.
4
Catalogo del fondo Lanfranchi, I, Incunaboli e manoscritti, n° 54 (ISTC
ib01112920).
5
EDIT16 CNCE 58360; Catalogo del fondo Lanfranchi, II, Le cinquecentine, n° 297.
6
Catalogo del fondo Lanfranchi, II, Le
cinquecentine, n° 146-148.
7
Catalogo del fondo Lanfranchi, II, Le
cinquecentine, n° 172.
8
Catalogo del fondo Lanfranchi, II, Le
cinquecentine, n° 369.
9
Catalogo del fondo Lanfranchi, II, Le
cinquecentine, n° 295.
10
ISTC ib00575000; Catalogo del fondo
Lanfranchi, I, Incunaboli e manoscritti, n°
41.
11
ISTC ib00231000; Catalogo del fondo
Lanfranchi, I, Incunaboli e manoscritti, n°
30.
12
ISTC ia00561300; Catalogo del fondo Lanfranchi, I, Incunaboli e manoscritti,
n° 6.
13
ISTC id00034000; ia00748000;
ip00386000; ig00332000; if00191000.
Catalogo del fondo Lanfranchi, I, Incunaboli e manoscritti, n° 4, 10; 169; 102; 191.
14
EDIT16 CNCE 1528. Catalogo del fondo Lanfranchi, II, Le cinquecentine, n° 128.
15
EDIT16 CNCE 57726; 23248. Catalogo
del fondo Lanfranchi, II, Le cinquecentine,
n° 153, 280.
16
Catalogo del fondo Lanfranchi, I, Incunaboli e manoscritti, n° 128.
17
Catalogo del fondo Lanfranchi, I, Incunaboli e manoscritti, n° 196.
18
Catalogo del fondo Lanfranchi, I, Incunaboli e manoscritti, n° 135.
19
Catalogo del fondo Lanfranchi, II, Le
cinquecentine, n° 29, 256.
14
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
SPECIALE EMO
ANDREA EMO O DELLA
FILOSOFIA FUTURA
Appunti critici tra ermeneutica e filosofia dell’espressione
GIOVANNI SESSA
A
bbia preliminare conmediatamente folgorato dall’etezza il lettore di queste
thos che si rilevava dalla scrittura
brevi note, delle motidel filosofo. Quello che l’amica
vazioni che le hanno determinadi penna della sua vita, Cristina
te. I nostri appunti critici sulla
Campo, chiamò il tratto delfilosofia di Andrea Emo, vogliol’imperdonabilità1. Esso fa si che
Emo possa essere definito, utino semplicemente essere una
lizzando l’espressione coniata
spiegazione sintetica e a posteda Cacciari, non semplicemente
riori delle ragioni profonde che
inattuale, ma addirittura uomo
ci hanno indotto ad occuparci di
postumo: «L’uomo postumo non
questo straordinario personagè soltanto l’uomo che sopravvigio e del suo pensare estremo. Il
ve alla fine del Soggetto. E’ annostro interesse per il filosofo
che l’uomo che inizia l’ascolto
ed aristocratico patavino-veneziano, dura da anni: più precisa- Alberto Savinio (1891-1952), Ritratto di dell’Abgrund».2 In cosa è da individuarsi l’imperdonabilità del
mente da quando la sua opera ha Andrea Emo (1941), collezione privata
filosofo veneto? In un tratto ariavuto la sua seconda nascita,
quella pubblica, grazie all’intercessione di Massi- stocratico ineliminabile, che egli ha ereditato dal
mo Cacciari e alla cura editoriale di Massimo Do- lignaggio degli Emo e dei Capodilista, gentes che,
nà e Romano Gasparotti. Nel 1989, infatti, per i non casualmente, ricoprirono ruoli di primo piatipi della Marsilio di Venezia, vide la luce la prima no nella Serenissima: il protendersi alla continua
antologia degli scritti del filosofo, Il dio negativo. ricerca della perfezione e della bellezza3. E’ esatScritti teoretici 1925-1981. Fino ad allora la testi- tamente quanto Emo fece per tutta la vita, nel simonianza del pensare scrivendo, di cui Emo stesso lenzio della sua biblioteca, nella convinzione, ben
dice nei 398 quaderni per computisteria che, con espressa da Carlo Michelstaedter: «Qui io vivo
certosina pazienza compilò nel corso di un’intera una vita che non si può vivere, ma nasce una granvita, era, con sorte tipicamente novecentesca e de opera».4 Un’opera la cui pubblicazione è ancopessoana, rimasta chiusa in un baule della avita ra in fieri, anche se il sagace lavoro dei curatori ha
villa Emo di Rivella, nei pressi di Padova. Impe- prodotto ormai molti volumi, come il lettore può
gnato nella prima lettura dei testi emiani, fui im- constare dal box bibliografico che accompagna
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
questo pezzo. La produzione emiana è segnata,
nel profondo, da un’intuizione fondamentale che,
ossessivamente, viene riproposta e scandagliata in
ogni aforisma ed utilizzata quale strumento ermeneutico nei diversi ambiti dello scibile umano,
dalla teoresi pura alla teologia, dall’arte alla politica. Quale è questa intuizione?
Così, semplicemente, la presenta Gasparotti, uno degli esegeti più accorti delle pagine del filosofo: «Se è vero che non si può non pensare l’Origine… essa necessariamente va pensata come lo
stesso negarsi in quanto tale… l’originario ed immediato auto negarsi».5 Emo costringe gli studiosi, alla luce di questo suo pensiero di fondo, a ridisegnare la mappatura teoretica della filosofia italiana ed europea del Novecento. Infatti, ponen-
15
dosi oltre lo schema contrappositivo-escludente,
proprio dell’intera logica occidentale centrata sul
principio d’identità, scavalca la stessa valenza della grundfrage heideggeriana. La domanda: “Perché l’essere e non il nulla”, dalla quale secondo il
filosofo svevo sarebbe dovuta ripartire l’originaria interrogazione ontologica dell’Occidente, è
nella prospettiva emiana fuorviante e mal posta,
in quanto l’essere è il nulla. Quello che si presenta
nelle pagine dell’aristocratico veneto è davvero
un recupero in toto del senso originario, etimologico, della filo-sofia, da intendersi come il sapere
che più di ogni altro pone l’uomo, animale non
solo parlante e politico, ma fondamentalmente
erotico, nell’apertura interrogante6. Filo-sofare allude all’esperire un tentativo di riconnessione con
l’Origine, con il Principio, muovendo dalla presenza, dalla determinazione, dall’atto, dalla sua
16
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
lacerazione e distinzione. Ciò rende meramente
simbolico, nella sua aporeticità, nella sua inconcludenza socratica, il tentativo della riconnessione
stessa. Chimera e Fenice, metafore mitiche di questo tentativo, hanno comunque un valore in sé.
Rappresentano il significato implicito del percorso ex-sistenziale di conoscenza e corrispondono
alla Realtà stessa, portano con sé, al medesimo
tempo, supremazia e maledizione. In questo senso,
un grande antecedente di Emo è Hölderlin che,
nella lirica Come un giorno di festa, scrisse, riferendosi al Sacro, all’Originario: «…prossimo, ma
difficile a cogliersi». Sacra è la vivente immediatezza che, in quanto tale, resta inaccessibile e conserva la propria natura infinitamente sfuggente.
Alla luce di tale assunto, Emo sostenne che la sua
scrittura segreta avrebbe avuto un senso solo qualora si fosse trasformata in fuoco eracliteo, capace
di far luce e di aderire alla metamorfosi vita-morte-vita, se il fuoco del suo pensiero fosse divenuto
un unicum con l’oscurità sovra luminosa del Principio, talmente ridondante da rendere ciechi. Egli
colse pienamente nella scrittura la duplicità e la
costitutiva ambiguità che la caratterizzano. In essa, involucro sensibile, affiora l’indicibile, il nondetto, il testo esoterico. Essa si fa, allora, atto liberatorio, necessità vitale per il filo-sofo, pharmakon, scrittura transitiva che non “sosta” mai, non
trova pace e assolutezza positiva. Al contempo essa, il più delle volte, induce false certezze, si pre-
LA VITA. Andrea Emo, brevi note biografiche
acque a Battaglia Terme il 14
ottobre 1901. Fu il primo di
tre figli, assieme a Gabriele e
Maria. Questa, ancora bambina, contrasse una forma di meningite che la
condusse a prematura morte.
Suo padre, Angelo Emo Capodilista, discendeva da un’antica casata
patrizia veneziana-patavina, sua madre Emilia Barracco, apparteneva ad
una altrettanto nobile famiglia calabro-napoletana.
La madre morì nel 1905 a causa di
una polmonite. Gli Emo Capodilista
appartenevano all’aristocrazia della
Serenissima, la loro importanza trova
riscontro anche nella letteratura italiana. Di Angelo Emo, Capitano generale della Repubblica di San Marco,
vissuto nella seconda metà del ‘700, fa
menzione Ippolito Nievo, in Le Confessioni di un italiano.
Gli Emo trascorrevano il periodo
N
estivo nella villa di Battaglia Terme, e
quello invernale a Roma. Qui Andrea
frequentò il liceo Torquato Tasso e, nel
1918, si iscrisse alla facoltà di Filosofia
dove seguì, con ammirazione, le lezioni di Giovanni Gentile, che dette una
prima significativa impronta alla sua
formazione.
Chiamato a prestare servizio militare di leva, dopo il congedo decise
non proseguire più con gli studi universitari, avendo ormai individuato un
proprio percorso di ricerca.
Aderì al fascismo partecipando alla Marcia su Padova, ma soprattutto
dette avvio al suo esercizio quotidiano
di scrittura, ritirandosi nella ricca biblioteca, che aggiornò fino agli ultimi
giorni della sua vita. Poliglotta, leggeva in diverse lingue. Nel 1938 si sposò
con Giuseppina Pignatelli dei principi
di Monteroduni che gli donò la gioia di
due figlie, Marina ed Emilia. Fu amico
di Benedetto Gentile, Ugo Spirito, Alberto Arbasino, Enrico Castelli di Zubiena. Conobbe e fu in contatto epistolare anche con la scrittrice Cristina
Campo, che molto stimava. Schivo e riservato, visse appartato, intento ai
suoi studi. Nel 1953 si candidò alla Camera dei Deputati nelle liste del MSI:
risultò il primo dei non eletti in Veneto.
Lettore e studioso appassionato di
teologia, filosofa e letterature, scrisse i
suoi aforismi su 398 quaderni per
computisteria, che solo dopo la morte,
avvenuta a Roma l’11 dicembre 1983,
per intercessione dell’amico musicista
Ernesto Rubin de Cervin, furono proposti in lettura a Massimo Cacciari.
Questi immediatamente comprese l’importanza del lavoro di Emo e
dette incarico a Massimo Donà e Romano Gasparotti di curarne la pubblicazione. Il lavoro di pubblicazione degli inediti è ancora in corso.
18
senta con i tratti del non interrogabile, del definitivo, incoraggia false forme di idolatria verso il
“già detto” e copre il ri-presentarsi della domanda
abissale. Diviene intransitiva, rettorica, non testimonia più il fuoco del pensiero e della vita, le loro
infinite metamorfosi. Ecco, Emo è rimasto sempre fedele alla transitività dello scrivere, fedele al
pensare scrivendo quale autentico esercizio teoretico, fedele al Nulla-Essere. Per questo, in vita, non
ha mai voluto pubblicare alcunché di suo. La filosofia emiana è, innanzi tutto, una filosofia dell’interpretazione, modello di ermeneutica in senso
pareysoniano, che ha inevitabilmente in sé, come
portato veritativo, la riscoperta del Tragico. Del
resto, l’unica via d’accesso possibile al vero è la libertà: «Il pensiero ermeneutico, nel momento in
cui si richiama a un’ontologia della libertà, è strettamente connesso con il pensiero tragico… porre
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
la libertà al centro del reale… significa supporre
sempre un fondamento che si nega come fondamento e puntare sull’inseparabilità di positività e
negazione».7 E’ questo contesto speculativo che
ci rende edotti di come il pensiero di Emo anticipi
ciò che Giorgio Colli ha qualificato con il termine
di filosofia dell’espressione.8
L’atto-presenza-determinazione, il qui, l’apollineo, manifesta ed esprime lo sfondo originario, il Principio indeterminato. La contaminazione del positivo col negativo è, in Emo, equivalente all’equilibrio di dionisiaco e apollineo, equilibrio eternamente in fieri. Il filosofo, sotto il profilo storico, realizzò un percorso a ritroso, che lo
condusse, come ammise, da Hegel a Plotino.
Lungo questo itinerario incontrò e si confrontò
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
19
con l’attualismo di Gentile, con il suo tentativo di
riforma della dialettica hegeliana. La cosa storicamente era inevitabile, in quanto l’attualismo fu
l’unico serio tentativo di effettiva creazione di una
cultura della Nazione, che la generazione post bellica (prima guerra mondiale) incontrò sulla sua
strada. Ma Emo non rimase a lungo irretito dalla
malia teoretica del Maestro di Castelvetrano. Infatti, ben presto, recuperò il tema schellinghiano
del Subjekt, alla luce del quale l’Origine si presenta essenzialmente con i tratti della negazione di
ogni determinazione, è nulla di ente, ni-ente appunto9. L’esperienza speculativa emiana è segnata
in termini transattualistici.
La revisione della dialettica gentiliana, nella
quale il veneziano spese il meglio della sua vita di
studioso, implicò la ripresa di temi e suggestioni
propri della Romantik, meglio di quel Romanticismo fiorito ad Heidelberg con le produzioni di
Görres, Bachofen, Creuzer, alle quali non fu
estraneo lo stesso Schelling, il cui portato maggiore si è mostrato nella tesi della vigenza del mito, dell’originario nel tempo e nella storia, mentre
dall’altro si poneva in termini oppositivi rispetto
agli esiti soggettivistici e di filosofia della storia
dell’idealismo jenese.
Gli stimoli che si irradiarono da tale milieu,
trovarono un’intensa e partecipata accoglienza
intellettuale nei Cosmici Monacensi e in Stefan
George e il suo Circolo. Per altri aspetti, nel transattualismo emiano trova il suo momento apicale
un movimento di pensiero tutto italiano, che ha
avuto, a partire da Leopardi, uno sviluppo lineare
nelle esperienze di Michelstaedter, Tilgher, Rensi, Martinetti e Julius Evola, autore impegnato nel
superamento del gentilianesimo. Pensatori molto
diversi, certo. Alcuni tra loro rappresentano, e ciò
li accomuna, sotto il profilo filosofico-politico, il
momento scettico dell’ideologia italiana10. Emo
era fermamente convinto che solo il cristianesi-
mo, in Occidente, si fosse fatto latore di una concezione teologica fondata sulla contaminazione
di essere e nulla. Il suo cristianesimo non-cattolico è un cristianesimo tragico, un cristianesimo del
“dio che muore e risorge”, che libera dalla stessa
idea e dalla stessa necessità della salvezza. Una visione del mondo che, in contrapposizione alla rigidità del monoteismo ebraico, recuperava i misteri e gli antichi culti agrari. Il suo percorso è
connotato da una sorta di dionisismo gnosico,
non meramente naturalistico, che emerge in particolare nella significativa lettura di Giordano
Bruno e del Rinascimento.
Su questo terreno incrociò, negli anni Venti,
il pensiero originale, radicale e anti-guelfo di Julius Evola. Questi era impegnato a definire l’idealismo magico in termini di filosofia della pratica e
della Libertà-Potenza, una via atta a superare lo
20
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
scacco gnoseologico dell’attualismo. I loro, furono tentativi di costruire filosofie del divino e dell’ordine, capaci di portarsi oltre la linea del nichilismo, attraverso la riscoperta della meraviglia classica. In Emo la filosofia, in questo bisogno di corrispondere eroticamente al Principio, fa della
poiesis umana il luogo del darsi del Vero. Ma Emo
non elaborò mai un’estetica in senso proprio, anzi
il suo messaggio è anti-estetico. Fu tra i primi a
demistificare ogni idolatria dell’oggetto artistico
e ogni superstizione del concetto artistico, negando qualsiasi ruolo di rilievo alla critica d’arte, totalmente assoggettata alle logiche mercantili, la
quale si dedica non all’arte in opera, ma alla mera
dimensione cosale ed escrementale della produ-
zione. L’ergon dell’arte non sta mai tutto nell’oggetto, ma è futuribile, ad-veniente, è pulsione ed
eros che, come l’autentico pensiero religioso e la
filosofia pura, ci salva dal desiderio della salvezza,
dai sordi e sordidi richiami della brama di vivere.
Emo fu pensatore autentico che si confrontò, in modo serrato e drammatico, con il proprio
tempo. Attento ai fenomeni politici e ai mutamenti epocali vissuti dall’Europa del Novecento,
aderì al fascismo. Il suo è un caso di impoliticità
manniana, fondata su un antimodernismo che ha
al proprio centro una concezione sferica della
temporalità, e che pertanto non si riduce mai ad
atteggiamenti sic et simpliciter contro-rivoluzionari. Non filosofò, per usare un’espressione di Gó-
I LIBRI. Scritti di Andrea Emo editi postumi
• Il Dio negativo. Scritti teoretici
•
•
•
1925/1981, a cura di M. Donà e
R. Gasparotti, prefazione di M.
Cacciari, Marsilio, Venezia 1989;
tradotto in lingua tedesca con il
titolo Metamorphose des Nichts.
Philosophische Fragmente
1925/1981, a cura di C. von
Wolzogen, Zürich 1997.
Le voci delle Muse. Scritti sulla
religione e sull’arte 1918/1981, a
cura di M. Donà e R. Gasparotti,
prefazione di M. Cacciari,
Marsilio, Venezia 1992.
Supremazia e maledizione. Diario
filosofico 1973, a cura di M.
Donà e R. Gasparotti, Raffaello
Cortina editore, Milano 1998.
Il monoteismo democratico.
Religione, politica e filosofia nei
quaderni del 1953, a cura di L.
Sanò, prefazione di M. Donà,
Bruno Mondadori, Milano 2003.
• Quaderni di metafisica,
•
•
•
•
1927/1981, a cura di M. Donà e
R. Gasparotti, prefazione di M.
Cacciari, Bompiani, Milano 2006.
Qui anche, Prisca contaminatio
(Selezione di frammenti inediti a
cura di M. Donà), pp. 1549/1544.
Aforismi per vivere. Tutte le
parole non dette si ricordano di
noi, a cura di R. Toffolo,
postfazione di M. Donà, con foto
della famiglia Emo, Mimesis,
Milano 2007.
La voce incomparabile del silenzio.
Dai taccuini, a cura di M. Donà e
R. Toffolo, Gallucci, 2013.
Una inesplicabile necessità, a
cura di M. Donà, “Anfione Zeto”,
2/3, 1989, pp. 199/203.
Cette chanson d’amour qui
toujours recommence, a cura di
M. Donà, “Paradosso”, 5, 1993,
pp. 53/92.
• Arte e bellezza…“ecce mysterium”,
•
•
•
•
•
a cura di M. Donà, “Qnst. Il
giornale degli artisti”, 1, 1992, p. 3.
In principio era il Verbo, poi venne
la conversazione, a cura di R.
Gasparotti, “Itinerari filosofici”,
6/7, 1993, pp. 149/159.
La Chiesa è cortigiana della storia,
“la Repubblica” (“Mercurio” n. 20),
22 Luglio 1989, pp. 14/15.
Dio è morto con i conforti
religiosi (Una lettera invita a
Ennio Flaiano il 18 Luglio 1970);
“la Repubblica” (“Mercurio”, n.
20), 22 Luglio 1989, pp. 14/15.
Tre lettere di Andrea Emo a
Cristina Campo, a cura di G.
Fozzer, “Città di vita”, 55 (2000),
n. 2, Marzo/Aprile, pp. 207/218.
Andrea Emo: Lettere a Cristina
Campo 1972/1976, a cura di G.
Fozzer, “In forma di parole”, n. 3.
2001.
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
Villa Emo, nei pressi di Fanzolo, a Vedelago (Treviso)
mez Dávila, semplicemente al fine di costruire un
“ricovero saldo” contro l’inclemenza, esistenziale
e spirituale, del tempo presente.
Come Evola, seppe leggere da vero profeta i
limiti intrinseci del sistema politico delle democrazie borghesi che si affermò al termine del secondo conflitto mondiale, così come di ogni altra
espressione politica della modernità. Comprese il
carattere epi-demico, in senso etimologico, delle
democrazie liberali che oggi ha assunto il volto
transnazionale, concertativo ed espropriatore di
libertà, partecipazione e tradizioni del Nuovo Regime, la governance. Le sue pagine politiche sono
un invito pressante a lasciarsi alle spalle le insufficienti categorie dicotomiche del politico, quelle
di destra e sinistra, ritenute inadeguate a spiegare
la realtà attuale. Le culture che hanno dominato
la seconda metà del Novecento si dibattono in
una crisi irreversibile, a causa dell’incapacità di
interpretare il contemporaneo, in questa situazione versano le diverse famiglie liberali, quelle
socialdemocratiche, il neo marxismo ed il pensiero cattolico. In considerazione di ciò le pagine di
Emo possono suggerire, a quanti non abbiano an-
21
cora perso la speranza di una vita altra ed alta, vie
inusitate. A cominciare dal richiamo all’Europa,
Terra del Tramonto, esperita dal filosofo quale laboratorio inesauribile ed inesausto di patrimonio
ideale. Quella emiana è, pertanto, filosofia futura,
in quanto il suo guardare l’Immemoriale ritornare dell’Origine nel simile della presenza, delle determinazioni, la apre e la impone al domani. La
nostra è al medesimo tempo, una constatazione
filologica e un auspicio.11
INTORNO ALLO STUDIO DI EMO
di Sandro Giovannini
I
l lavoro interpretativo di Sessa su Emo è di
grande importanza filosofica. Infatti organicamente ci possiamo affacciare, con consapevolezza di molte delle poste in gioco, sull’universo complesso del pensatore veneto, di cui si sta
compiendo, dagli anni ‘80 fino ad ora l’imponente
e magnifica opera postuma di pubblicazione progressiva degli autografi, a cura di Donà e Gasparotti. Il lavoro critico che accompagna i testi fino
ad ora pubblicati è un esempio di come seriamente si possa trattare un complesso pensiero che è
assimilabile, per ampiezza insondabile e profon-
22
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
dità sconcertante, al lascito pessoano, richiamando suggestivamente alcune grandiose anomalie,
pur nella differenza profonda di testo e contesto.
Giovanni Sessa ora, con questa monografia, (La
meraviglia del Nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo,
Milano, Bietti, 2014) fa il punto sul contesto storico-filosofico e lancia coraggiosamente alcune
chiare ipotesi interpretative: il transattualismo, la
NOTE
1
Cfr. C. Campo, Gli imperdonabili,
Adelphi, Milano 1987.
2
Cfr. M. Cacciari, Dallo Steinohf. Prospettive viennesi del primo Novecento,
Adelphi, Milano 1980, p. 17.
3
Su questo tema, così C. Campo: «E’
un carattere aristocratico, anzi è in sé la
suprema aristocrazia. Della natura, della
specie, dell’idea…Offeso oggi tutto questo, anzi rinnegato, distrutto, irritrovabile
e pure presente sempre, come la spina avvelenata sotto l’unghia, l’uomo ha dovuto
convertirlo in oggetto di orrore sacro».
Op. cit., p. 76.
4
Questo motto fu scritto dal filosofo
compresenza Cristo/Dioniso, la vigenza dell’origine che lo avvicina a Evola, la centralità come pulsione e come azzardo del momento estetico e non
certo come produzione mercantile surrogatoria e nevrotizzata nell’era ineliminabile del tragico, il
tempo sferico del semprepossibile, l’antimodernismo non come astrazione ideologica ma come anti/disorganicità che si attua nel presente eterno e la
goriziano a margine di un suo disegno a
lapis, che ritraeva la soffitta dell’amico
Nino Paternolli. Qui, con il padrone di casa
e con l’altro protagonista del Dialogo della salute, Enrico Mreule, Michelstaedter
era solito ritirarsi per studiare, scrivere e
discutere con i due amici del pensiero di
Schopenhauer e dei tragici greci. Cfr. C.
Michelstaedter, Dialogo della salute,
Adelphi, Milano 1988, a cura di S. Campailla.
5
Cfr. R. Gasparotti, Note sul pensiero
di A. Emo, in A. Emo, Quaderni di Metafisica, Bompiani, Milano 2006, p. 1388.
6
Per l’interpretazione dell’uomo come animale erotico rinviamo a R. Gaspa-
rotti, Filosofia dell’eros. L’uomo, l’animale
erotico, Bollati Boringhieri, Torino 2007,
ma anche a J. Evola, Metafisica del sesso,
Edizioni Mediterranee, Roma 1994, con
un saggio introduttivo di F. Antonini, a
cura di G. de Turris.
7
Cfr. L. Pareyson, Pensiero ermeneutico e pensiero tragico, in Aa. Vv., Dove va la
filosofia italiana?, Laterza, Roma-Bari
1986, p. 137.
8
E’ bene ricordare che Massimo Cacciari, finora, è stato l’unico esegeta che
abbia tentato di compiere un passo oltre
l’espressione di Colli nel suo studio Della
cosa ultima, Adelphi, Milano 2004. Il problema dell’espressione è gnoseologico,
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
concezione di un’attiva distanza rammemorante
che è spirituale ed intellettuale assieme, in questo
Tempo ed in questa Patria.
Queste determinazioni appena indicate sono
solo poi tracce perseguibili di una complessità
originaria - oltreché originale - che rimanda ad
una sorta di rottura epistemologica con tutto il
pensiero del negativo nel momento stesso in cui
affronta vertiginosamente l’esser fuori dalla negazione logica ma essere nell’affermazione costante
della negazione stessa, (basti leggere le considerazioni di Donà nell’intervista di Sessa a proposito
del concetto di tempo in Emo, o l’icastica risposta
di Gasparotti alla terza domanda di Sessa, per avvicinarsi a comprenderlo). Tutte tesi ove l’arké
non è solo, appunto, “complessità originaria” - e
già sarebbe avvicinarsi oltre misura - ma il luogo
che non è più e non è ancora, perché è nel suo sempiterno ricercabile e transitabile nulla in essere, ovvero la chimera utopica che può dimorare in noi
autenticamente come traccia, orma, prova, del
vacuo in destino e non com’illusione evasionista e ci
legato alla rappresentazione: «…rappresentare è sempre un rievocare…il rievocare accenna a qualcosa che sta prima della
mediazione rappresentativa operata dal
conoscere: a un im-mediato…ma l’immediato non è mai sostanza…nei termini
della determinatezza dell’ente…La rappresentazione non può perciò definire
l’immediato che presuppone come proprio
fondamento,
ma
soltanto
esprimerlo». Ivi, p. 449. Proseguire nell’esegesi dell’espressione è uno dei compiti
ineludibili cui Emo ci rinvia. Cfr. G. Colli,
Filosofia dell’espressione, Adelphi, Milano 1969, e G. Colli, Apollineo e dionisiaco,
Adelphi, Milano 2010.
9
23
costruisce - con una sorta di sorridente levitas metafisica - (l’impossibile in atto), a cui corrisponde
uno spaurente avvitamento, la potenzialità di più
che viri nella finalità gloriosa. Ma su tutto si ripete
follemente e genialmente il vero e proprio sciogliersi (nella lettura sopra citata) del sedicente nodo o principio di non contraddizione, non tagliato
quindi, ma sciolto nel suo darsi ed affermare la differenza in uno con l’autonegarsi, in una visione
del tutto dialetticamente tradizionale anche se filosoficamente eterodossa, e sempre oltre un nihilismo di maniera, anche se sulla linea dell’ineliminabile consapevolezza ciclica.
Conoscendo il lavoro di Sessa su Emo esprimiamo ora, nella collana opuscoli/pagillari della
Heliopolis edizioni un’edizione pregiata in tiratura
limitata, nell’ormai storica serie del paraeditoriale
Heliopolis, che tratta “VII punti” o plessi da me
scelti dal libro maggiore di Sessa, risolvendosi in un
omaggio puntuale, in un dialogo amicale ed in una
segnalazione formale e contenutistica…12
Con la filosofia di Emo esce definitivamente di scena un luogo comune della
storiografia filosofica post-bellica del
nostro paese, alla luce della quale l’attualismo avrebbe significativamente contribuito a rendere, sotto il profilo culturale,
“provinciale” l’Italia, a chiuderla alle vive
voci del pensiero europeo. E’vero esattamente il contrario, come il “caso” Emo dimostra: nell’attualismo erano presenti
tematiche e prospettive, che la filosofia
europea scoprirà molto più tardi.
10
Cfr. M. Veneziani, La Rivoluzione
conservatrice in Italia. Dalla nascita dell’ideologia italiana alla fine del berlusconismo, Sugarco, Milano 2012.
11
Data la complessità del pensiero
emiano, le considerazioni rapsodiche che
abbiamo presentato non possono avere
che carattere di “appunti”. Per la presentazione organica del suo pensiero e la contestualizzazione storica del personaggio,
ci permettiamo di rinviare al nostro, G.
Sessa, La meraviglia del Nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo, Bietti, Milano 2014,
prefazione di R. Gasparotti, che contiene
in Appendice un Quaderno emiano del
1951.
12
Sandro Giovannini, Nel presente
eterno, la felicità delle cose… VII Note al
testo di Giovanni Sessa su Emo, Pesaro,
Heliopolis edizioni, 2014.
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febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
25
SPECIALE EMO
MASSIMO DONÀ: «DIO
È NULLA, IL MONDO È»
Il pensiero di Andrea Emo oltre le filosofie della verità
GIOVANNI SESSA
rof. Donà, da anni lei lavora sui Quaderni di Andrea Emo come curatore, prefatore ed esegeta. È da
poco nelle librerie una nuova
raccolta di aforismi emiani, da
lei curata assieme a R. Toffolo
(A. Emo, La voce incomparabile
del silenzio, Gallucci, Roma
2013). A più riprese, nei suoi
scritti tematici sul pensiero
emiano ha sostenuto che il filosofo veneto, con la sua idea
di negatività, ha messo in discussione i concetti di verità e
di apparire così come sono stati tematizzati nella tradizione
speculativa occidentale, ponendosi sia oltre il modello di
verità di provenienza parmenidea, sia oltre quello di provenienza eraclitea. Può sinteticamente introdurci a questa
specifica e qualificante tematica della filosofia di Emo?
Sicuramente, quella disegnata da Andrea Emo, nei molti
anni della sua tenace, caparbia e
talvolta addirittura ossessiva, riflessione metafisico-ontologica,
è una prospettiva che, pur riconoscendosi erede di una formidabile e prestigiosa tradizione
speculativa, riesce a farsi promotrice di un progetto davvero originale, che, sin da subito, chiama
in causa – come Lei ha detto bene
– un’idea di “negatività” sicuramente non riconducibile alla tradizione della cosiddetta, sia pur
nobile, teologia apofatica. Per
Emo, cioè, il “negativo” di Dio
ha ben poco a che fare con il semplice riconoscimento del fatto
P
Massimo Donà insegna Metafisica
e Ontologia dell’arte presso la
Facoltà di Filosofia dell’Università
Vita-Salute San Raffaele di
Milano. È curatore, con Romano
Gasparotti, dell’opera postuma di
Andrea Emo. Fra i suoi libri si
ricordano: Le forme del fare, con
Massimo Cacciari e Romano
Gasparotti (Liguori, Napoli
1987); Sull’assoluto. Per una
reinterpretazione dell’idealismo
hegeliano (Einaudi, Torino 1992);
Aporia del fondamento (La Città
del Sole, Napoli 2000); Aporie
platoniche. Saggio sul ‘Parmenide’
(Città Nuova, Roma 2003);
Filosofia del vino (Bompiani,
Milano 2003); Magia e filosofia
(Bompiani, Milano 2004);
L’aporia del fondamento (Mimesis,
Milano 2008); Filosofia dell’errore.
Le forme dell’inciampo (Bompiani,
Milano 2012); Misterio grande.
Filosofia di G. Leopardi (Bompiani,
Milano 2013)
26
Caravaggio (1571-1610), Sant’Agostino,
collezione privata
che, di Lui, nulla saremmo autorizzati a dire “in positivo”… in ragione di una finitezza e di una imperfezione che ci renderebbero costitutivamente incapaci di aver a che fare con la sua assolutezza. Per il filosofo veneto, infatti, il “negativo” di Dio non solo
si dice in ogni espressione evidentemente finita dell’esperienza, ma vi si dice perfettamente proprio in
quanto la sua assoluta negatività è tale da torcersi, ab
origine e in primis, su se medesima; facendo di Dio
un nulla che è tale in primis nei propri confronti. Insomma, Dio è nulla, perciò il mondo è. È proprio a
partire da un tale assunto che il nostro filosofo cerca
in tutti i modi di riconoscere gli effetti di questa
paradossale nullificazione in ogni “modalità” dell’esistere. Nessun “nichilismo” di maniera viene
dunque evocato dal poderoso pensiero emiano;
perché “nulla” sono per lui non tanto i valori e le
idee della metafisica, o le forme del positivo, quanto
piuttosto il nulla medesimo. D’altronde, Emo ha
capito alla perfezione come già nel principio di non
contraddizione tematizzato da Aristotele sia custodita la condizione di possibilità del suo destinale e im-
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
mediato naufragio; perché, se l’essere può determinarsi solo distinguendosi dal nulla, allora va anche
riconosciuto che è proprio in quanto altro dall’essere, che il nulla non riesce a stare nella propria nullità. Perché il nulla, in ogni caso, “è”. Da cui l’originario negarsi dell’essere medesimo. Che non è,
neppure esso, mai tale (ossia, ‘essere’), ma si presenta sempre e solamente nelle infinite determinatezze
di cui è fatto il mondo; che “sono”, proprio perché il
nulla si autonega (si nullifica, infatti, proprio essendo). Le cose, i valori, il positivo… che appaiono, sono dunque tutte mirabili espressioni di un nulla
che, proprio nullificandosi, costringerebbe l’essere
a negarsi… e a farsi sempre “altro” da un altro. Ossia, a “determinarsi”. Insomma, secondo Emo non
è affatto vero che le cose “siano” in quanto non contraddittoriamente altre dal Nulla. Per lui, infatti,
esse sono tutte vere e proprie, nonché immediate,
espressioni del suo (del Nulla) stesso originario negarsi. Per questo, agli occhi del filosofo veneto non
si può dire né che l’essere “sarebbe” in ragione del
non essere del nulla (come avrebbe voluto Parmenide) - stante che, come abbiamo appena visto, è
proprio in ragione dell’essere del nulla, che il nulla
si nullifica in quanto nulla, e l’essere, anche, si nega,
- e neppure (come avrebbe voluto invece il discorso
eracliteo) che il nulla e l’essere si contrapporrebbero tenendo ben nascosta la propria originaria identità (comunque riconoscibile, secondo Eraclito,
ascoltando il logos) -, se non altro perché quell’identità appare tutta, di là da qualsivoglia equivoco, nel
semplice non riuscire ad opporsi da parte degli assolutamente opposti… e dunque, innanzitutto,
dell’essere e del nulla.
La filosofia di Emo recupera al Novecento
filosofico europeo, nel suo superamento dell’attualismo di provenienza, quello che lei ha
definito l’altro pensiero della negazione (M. Donà, Sulla negazione, Bompiani, Milano 2004).
Vale a dire una filosofia centrata concettualmente sul negativo, ma che non rinuncia a pen-
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
sare e a dire l’Infinito. Quali i referenti e gli antecedenti di questo aspetto particolare della filosofia emiana?
I referenti del pensiero emiano sono molti e
anche esplicitamente dichiarati dal nostro. Potremmo cominciare a citare Giordano Bruno, e potremmo continuare riferendoci ad un grande Padre
della Chiesa come Agostino. Già per Agostino, infatti, ad apparire, nelle cose presenti, in quelle passate e in quelle future, è sempre il medesimo “presente”; ossia ciò che dice il non essere ancora del futuro e il non essere più del passato. Stante che il passato
e il futuro altro non sono che figure di quella “negatività” che si esprime appunto nell’immediato, o
meglio originario, negarsi dell’uno e dell’altro in
quanto determinazioni di una evidentemente intrascendibile presenza – che poi è quella che, sola,
del passato può dirci e mostrarci che non è più, e del
futuro, che non è ancora. Ma potremmo anche citare il suo amato Shakespeare; e lo Jago che ci dice,
apertis verbis, di “non essere quello che è” (I’m not
what I am). Per Emo, comunque, ad emergere, in
queste figure e nelle prospettive ad esse connesse,
non è affatto l’illusorietà del mondo presente. Ma
piuttosto la sua costitutiva e stupefacente “ambivalenza”; il suo trionfo e il suo naufragio, in-uno; la sua
divinità e la sua mortalità. Quanto può esserci cioè
restituito solo da una messa in scena che sappia essere insieme tragica e comica. Perciò, ai suoi occhi,
la morte non ci attende, ma ci accompagna in ogni
istante della vita. Perciò, così come la vita vive della
propria continua morte, anche la morte muore in
una vita che, sola, sembra poterla rendere davvero
pregnante e in qualche modo esperibile. Perciò il
“suo” secolo è il Barocco; e i riferimenti alle sue fantasmagoriche espressioni, tanto letterarie quanto,
più in generale, artistiche, si sprecano. Un altro imprescindibile riferimento del suo densissimo orizzonte speculativo è poi costituito dal pensiero hegeliano, prima ancora che da quello del suo maestro
Gentile. Nella ‘dialettica’ del filosofo tedesco, infatti, Emo riconosce, già operante, un principio che
27
Il filosofo greco Parmenide, in una vignetta acquerellata
del XVI secolo
egli si impegna a portare ancora più a fondo; sì da liberarlo dalle incrostazioni che ancora impedivano
ad Hegel di affidare al “negativo” un ruolo non più
semplicemente ancillare rispetto ad una già da sempre risolta ‘eternità’. Perciò in Emo non si sarebbe
giunti a fare, del movimento e del divenire, delle
semplici figure o espressioni dell’eterno, quanto,
piuttosto, si sarebbe messo a tema il valore costitutivamente “imaginale” dell’eterno medesimo – esso, sì, valevole appunto come simulacro di qualcosa
che, in verità, sarebbe già da sempre altro da quel
che è. E perciò mai pacificato ‘con se stesso’. Insomma, se da Platone il tempo veniva inteso come
mera parvenza dell’eternità, e dunque del sempre
uguale a sé, da Emo è piuttosto l’identico “con cui
abbiamo sempre a che fare” a venire riconsegnato
alla costitutiva inquietudine caratterizzante la “differenza” – una “differenza”, dunque, non più riconducibile alla potenza armonizzatrice dell’identico.
Altri riferimenti essenziali della mai esausta ricerca
emiana sono poi i grandi miti greci, e soprattutto la
sovrumana vicenda della morte di Gesù.
28
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
SPECIALE EMO
ROMANO GASPAROTTI:
«DIO CREA MORENDO»
Logos ed Eros nella filosofia di Andrea Emo
GIOVANNI SESSA
P
rof. Gasparotti lei è,
con Massimo Donà, curatore dell’Opera di
Andrea Emo. Peraltro, nel
2013, ricorrendo il trentennale della scomparsa del filosofo e aristocratico veneto,
sono stati pubblicati nuovi
inediti del pensatore. Vanno
ora, inoltre, in libreria, due
studi sul filosofo, impreziositi
da sue prefazioni (G. Sessa,
La Meraviglia del Nulla. Vita e
filosofia di Andrea Emo, Bietti,
Milano 2014, con in Appendice il Quaderno n. 122 e Nel
presente eterno, la felicità delle
cose… VII Note di S. Giovannini al testo di G. Sessa su Emo,
Heliopolis, Pesaro 2014). Come è noto, la speculazione
emiana muove da una revisione critica dell’attualismo di
Gentile. Al riguardo, lei ha
sostenuto che Emo coglie
l’attualismo: “…come la più
compiuta liberazione dell’idealismo da ogni residuo di
idea di fondamento, da ogni
positività della figura moder-
na del soggetto”. Può spiegare, in sintesi, la potenza teoretica e la rilevanza speculativa del superamento emiano
del gentilianesimo?
Quella dei rapporti tra il
pensiero di Andrea Emo e la filosofia attualistica di Giovanni
Gentile è una questione aperta e
dibattuta. Già tra i primissimi
esegeti del testo emiano, si va da
chi sostiene che la sua riflessione
Romano Gasparotti insegna
Fenomenologia dell’immagine
presso l’Accademia delle Belle
Arti di Brera e Ontologia
fondamentale presso la Facoltà
di Filosofia dell’Università VitaSalute San Raffaele di Milano.
Ha pubblicato numerosi libri e
articoli di carattere filosofico ed
estetico, sulla filosofia antica,
sulla filosofia della politica. Fra
essi si segnalano: Le forme del
fare, con M. Cacciari e M. Donà
(Liguori, Napoli 1987);
Movimento e sostanza. Saggio sulla
teologia platonico-aritotelica
(Guerini, Milano,1995);
Aristotele: La natura. Lettura della
“Fisica” (Colonna, Milano, 1995);
I miti della globalizzazione. “Guerra
preventiva” e logica delle immunità
(Dedalo, Bari, 2003); Filosofia
dell’Eros. L’uomo, l’animale erotico
(Bollati Boringhieri, Torino,
2007); L’inganno di Proteo. La
filosofia come arte delle Muse
(Moretti & Vitali, Bergamo,
2010).
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
si sia sviluppata interamente nell’alveo dell’attualismo gentiliano, a chi, invece, ritiene che, dell’attualismo gentiliano, Emo abbia mantenuto solo il
lessico fondamentale, declinandolo all’interno di
una filosofia del tutto originale. L’idea che mi sono
fatto io è che a partire dall’impostazione gentiliana, secondo la quale l’atto è un “farsi” perennemente all’opera e ogni teoria è sempre una pratica
da sperimentare, Andrea Emo mette all’opera,
non già semplicemente teorizza, un’originale
prassi di pensiero quale intrascendibile “fede” (secondo un’accezione prossima al senso luterano
del credere, ma non a quello cattolico). Una fede
nell’infinita potenza del dio negativo, del dio che
crea continuamente morendo. Non si tratta,
quindi, né di un “superamento”, né di un “oltrepassamento” (Überwindung) della filosofia di
Gentile, bensì semmai di un suo “inveramento”
tutto giocato sul versante, potremmo dire, pratico-teologico e non onto-teo-logico. Ricordo che
la fede, per Emo, è quella “forza misteriosa che materialmente ci fa stare in piedi e in equilibrio” (1948),
la quale consiste nel “credere nella possibilità di creare mediante la rinuncia” (1938), ovvero passando
attraverso la necessaria mediazione del nulla.
Per essere introdotti nell’universo emiano è necessario far riferimento alla diffidenza
del pensatore veneto nei confronti della scrittura. Infatti, l’atto dello scrivere, corre sempre il rischio di trasformarsi in immagine intransitiva, positiva, autoreferenziale. Eppure,
se si dovesse ridurre ad una definizione l’esercizio di pensiero al quale si è sottoposto Emo,
per un’intera vita, potremmo usare, con un
certo grado di veridicità, l’espressione pensare
scrivendo. Peraltro, il filosofo ebbe come Blanchot ben chiara la presenza, in ogni scritto, di
due testi: uno esplicito e l’altro segreto. Può
aiutarci ad entrare più analiticamente in questo tipo di problematica?
Come lei ha giustamente ricordato, ogni
29
opera di scrittura si esplica nell’intima tensione tra
due inseparabili dimensioni, il testo “in chiaro” e
la sua dimensione nascosta. A questo proposito, se
Aristotele aveva sostenuto che i segni scritti sono
immagine di ciò che “è nella voce”, Platone, come
ha rilevato anche Derrida, aveva presentato il discorso orale come ripercussione di una inattingibile archi-scrittura al di qua della voce sensibile, a
prescindere dai misteriosi movimenti della quale
nessuna voce potrebbe mai risuonare e nessuna
scrittura potrebbe fissare e articolare i suoi segni
significanti, per quanto quest’ultima non sia affatto l’esteriorizzazione dell’irriproducibile archiécriture. La scrittura apparente non può che agire
quale “comunicazione del comunicabile”, come
disse W. Benjamin, ossia quale trasmissione e
pubblicizzazione di significati attraverso i suoi segni e, in ciò, può giungere ad obliare e occultare
30
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
volle pubblicare mai nulla, ma la sua quotidiana
pratica di filosofo quale uomo della fede non avrebbe mai potuto esimerlo dal cimentarsi con la scrittura, irresistibilmente attratto dall’abissale profondità delle sue pieghe, in una sorta di ossessiva coazione a ripetere, onde corrispondere ai richiami
chimerici della sua danza nascosta. “Io ho passato la
vita inseguendo le Chimere e me ne congratulo” scrisse
di sé Andrea Emo nel 1973 …
all’estremo il suo segreto ipo-dis-corso inesteso,
privo di segni e senza tempo. Ma non sino al punto
di cancellarlo, perché lo presuppone. Perciò, se da
un lato, il discorso manifesto non potrebbe comunicare pubblicamente i suoi messaggi, se non si fosse già attivata la misteriosa danza dell’invisibile archiscrittura, dall’altro, ogni ricercante ad-tendere
verso il mistero di quella danza nascosta non può
che mettersi in atto attraverso l’opera delle parole e
della scrittura esteriore. Con la differenza che mentre verba volant, solo la scrittura può garantire stabilità e continuità all’esercizio di questa ricerca. Sicché scrivendo è possibile tenere aperta la domanda
sull’invisibile, nella fede che la scrittura esteriore
possa essere, alla lettera, ri-velazione dei segreti ritmi di quella kata-fisica danza, che, prendendo in
prestito le parole del musicologo e mitologo M.
Schneider “ fa vibrare il Nulla e, propagandosi, crea lo
spazio”. Insomma, per non restare prigioniero nella
gabbia della comunicazione pubblica, A. Emo non
Mi pare che la sua esegesi del pensiero di
Emo sia connotata da due acquisizioni “forti”,
l’una di carattere teoretico e l’altra di carattere storico-filosofico. Partiamo dalla prima. A
suo dire, la filosofia di Emo pur essendo centrata su una problematizzazione del Nulla,
non è, sic et simpliciter, nichilista. Ce ne spiega
la ragione di fondo?
A questa domanda si potrebbe risponde lapidariamente. Emo non è nichilista per il semplice
fatto che, per il suo pensiero, il nulla non è ciò che
si oppone originariamente all’essere, il nulla non è
la negazione - nel senso onto-logico classico - dell’essere, ma ‘nulla’ non è che il nome della presenza di tutto ciò che si fa presente. Il nulla è l’esserci
di ogni essente, in quanto si fa presente nel suo apparire-sparente. Al di fuori e a prescindere da ogni
negazione logica. Perciò se, per nichilismo, si intende la sostituzione di ciò che è con il nulla, oppure l’identificazione degli assolutamente non
identificabili - perché incontrovertibilmente opposti ab origine - ovvero dell’essente e del niente, la
filosofia di Emo non è affatto nichilista.
Per quanto attiene al secondo punto fermo della sua esegesi di Emo, è necessario ricordare che per lei la scoperta di questa filosofia: «impone di ridisegnare il paesaggio non
solo della filosofia italiana del ‘900, ma anche
di quella europea». Può fornirci le motivazioni della centralità del pensiero emiano nel panorama europeo e della sua straordinaria at-
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
31
Paolo Veronese, Platone, 1560 circa, Venezia, Biblioteca
Nazionale Marciana
tualità-inattuale, anche in riferimento al particolare antimodernismo politico di Emo?
Emo, in tutto il corso della sua pratica filosofica, dal 1918 al 1981, dialogò ininterrottamente non
solo con i classici, ma anche con i contemporanei, di
modo che il suo pensar scrivendo si intreccia e interagisce con le riflessioni dei principali autori novecenteschi (filosofi e non), per quanto la fitta rete di
tali relazioni attenda ancora di essere analiticamente approfondita dagli storici. Sulla presunta “inattualità” di Emo, io non insisterei; l’inattualità è stata
una sorta di mito e di feticcio, per un certo periodo,
all’interno di certi ambienti culturali, mentre la filosofia di Emo, per quanto, anzi, proprio perché
mirante ad inabissarsi nel senza-fondo dell’origine,
è un pensare al presente nel presente. Piuttosto parlerei di antimodernismo politico, come lei opportunamente suggerisce. Sin dalla seconda metà degli anni
‘60, Emo denunciava i rischi esiziali di un’unificazione dell’Europa appiattita sul piano economicofinanziario e, nel contempo, non vedeva affatto come alternativa credibile un’Europa fondata sui Valori, dal momento che, per Emo, i valori non sono
altro che universali astrattamente affermativi - i
quali si sono separati dal nulla, ossia dalla sola possibilità che avrebbero per rendersi presenti e attuali capaci solo di alimentare superstiziose forme di idolatrico fondamentalismo. L’unica salvezza di Europa è vista nella fede nel risorgere della sua originaria
vocazione occidentale, ovvero di essere “terra del
tramonto”. Una proposta che, evidentemente, la
cultura e la ratio tecno-politica dominante non sarebbero mai disposte ad accettare!
Per finire, l’argomento che probabilmente
Le sta più a cuore. Il ruolo che Emo attribuisce
alla creazione artistica intesa quale icona del
Nulla può rappresentare, a Suo parere, un
esempio di ri-scoperta della destinazione e del-
la vocazione musaica della filosofia? In altri termini, il ripresentarsi di un sapere in grado di ricongiungere Logos ed Eros, momenti di una
inesausta ricerca umana, il cui destino aporetico e archetipico lei ha individuato in Proteo?
Sì, questo è uno dei temi che più mi stanno a
cuore. Per dirla in breve, se, per Emo, atto indica un
“farsi” perennemente all’opera e la filosofia una
prassi, la barriera che ha separato la filosofia dalle altre manifestazioni delle Muse è stata abbattuta, purché le stesse arti siano intese quali prassi pensanti o
“pensiero somigliante” (come diceva il pittore Magritte) all’opera, al di là dell’ipostatizzazione dei loro prodotti. Se l’arte dà luogo al rendersi visibile di
immagini influenti, la potenza iconoclastica - che,
per Emo, è insita in ogni immagine in quanto tale rende ogni opera operata essenzialmente autonegativa e perciò tale da non poter essere identificata né
alla determinatezza dei significati ad essa attribuibili, né alla mera datità dei suoi oggetti.
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
33
inSEDICESIMO
LE MOSTRE – IL RICORDO
LA MOSTRA/1
GIORGIO CASTELFRANCO
NELL’ITALIA DEL FASCISMO
Una mostra a Firenze
a cura di luca pietro nicoletti
ata dalla collaborazione tra la
Regione Toscana e il Centro di
Studi sul Rinascimento
Italiano dell’Università di Harvard di
Villa I Tatti di Firenze, la mostra è
dedicata alla figura di Giorgio
Castelfranco (1896-1978), storico
dell’arte, autore di importanti studi su
artisti del Rinascimento come
Donatello e Leonardo, nonché critico
d’arte contemporanea, noto
soprattutto per gli stretti rapporti
culturali con Giorgio De Chirico e
Alberto Savinio. La mostra, curata da
Emanuele Greco e Francesca
Guarducci, presenta il fondo
N
GIORGIO CASTELFRANCO
DA LEONARDO A DE CHIRICO.
LE CARTE DI UN INTELLETTUALE
EBREO NELL’ITALIA DEL FASCISMO
a cura di Emanuele Greco
e Francesca Guarducci
FIRENZE,
MUSEO CASA RODOLFO SIVIERO,
LUNGARNO SERRISTORI 1, FIRENZE
25 gennaio - 31 marzo 2014
www.museocasasiviero.it
archivistico dello studioso, composto
prevalentemente da carte autografe,
lettere e fotografie, che è stato
recentemente inventariato dagli stessi
curatori della mostra. Il fondo è
depositato presso la Biblioteca
Berenson di Villa I Tatti, dove il 27
gennaio si inaugurerà la seconda
sezione della mostra, dedicata
all’interesse di Castelfranco per l’opera
di Leonardo da Vinci, curata da Ilaria
Della Monica.
La scelta delle due sedi espositive
non è casuale; entrambe sono legate
alla figura di Castelfranco. In
particolare l’attuale Museo Casa
CASTELFRANCO
E LEONARDO DA VINCI
a cura di Ilaria Della Monica
THE HARVARD UNIVERSITY
CENTER FOR ITALIAN
RENAISSANCE STUDIES VILLA I TATTI
VIA DI VINCIGLIATA 6, FIRENZE
27 gennaio - 31 marzo 2014
itatti.harvard.edu
G. De Chirico, Le Muse Inquietanti, 1916-18
(già collezione Castelfranco), particolare
Siviero, lasciato in eredità con i suoi
arredi e la sua raccolta d’arte alla
Regione Toscana da Siviero, è stato per
lungo tempo l’abitazione dei
Castelfranco. Proprio in questa casa,
infatti, Giorgio Castelfranco ha ospitato
ripetutamente, tra gli anni Venti e
Trenta, Giorgio De Chirico e Alberto
Savinio, dei quali oltre che amico fu
anche critico, collezionista, mecenate e
promotore. Nell’abitazione era
conservata una straordinaria raccolta
di dipinti dei due artisti, e specialmente
di Giorgio De Chirico, dispersa in
seguito all’introduzione delle leggi
razziali. Alle pareti di casa Castelfranco
erano presenti soprattutto opere
dipinte da De Chirico tra il 1919 e la
prima metà degli anni Venti – quando
il pittore “ritorna al mestiere”
riscoprendo la lezione dei maestri
34
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
Sopra da sinistra: G. De Chirico, Ritratto di
Giorgio e Matilde Castelfranco, 1924 (già
collezione Castelfranco) e Autoritratto con
busto di Mercurio, 1923 (già collezione
Castelfranco). A destra: G. Castelfranco, La
Pittura Moderna, 1934
antichi –, come l’Autoritratto con busto
di Minerva (1919), Rocce romane
(1921), Cocomeri e corazze (1922),
Autoritratto con busto di Mercurio
(1923), Villa romana con cavalieri
(1923), Ritratto di Alfredo Casella
(1924). Nella collezione Castelfranco,
però, era presente anche uno dei più
importanti dipinti metafisici di De
Chirico, ovvero Le Muse Inquietanti
(1916-18). La vicenda della famiglia
Castelfranco, di origine ebraica, è
emblematica del dramma delle leggi
razziali e pertanto la mostra si inserisce
nel programma delle manifestazioni del
“Giorno della Memoria”. Sebbene
nessun membro della famiglia abbia
perso la vita durante le persecuzioni, la
legislazione introdotta nel ‘38 colpì
duramente i Castelfranco. Giorgio,
allora direttore dei Musei di Palazzo
Pitti, già allontanato da Firenze in
occasione della visita di Hitler, fu
licenziato nel febbraio del 1939. Per
sopravvivere e per mettere in salvo la
famiglia facendola emigrare negli Stati
Uniti, fu costretto a vendere, tra il 1939
e il 1941, la sua importante raccolta
d’arte alle gallerie Barbaroux e Il
Milione. La mostra permette di
conoscere meglio alcuni aspetti della
vita di Giorgio Castelfranco, come per
esempio i suoi rapporti con Giorgio De
Chirico e Alberto Savinio, la sua
collezione di opere d’arte disposte nelle
stanze dell’abitazione, fino alla
dispersione della raccolta in seguito
alle leggi razziali. (Emanuele Greco)
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
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LA MOSTRA/2
IL MONDO DI IRENE BRIN A ROMA
Fra arte, giornalismo e mondanità
Accademia Costume e Moda
di Roma ospiterà, dal 26
gennaio al 21 febbraio, la
mostra documentaria “Il mondo di
Irene Brin”, curata da Claudia Palma,
Direttore dell’Archivio bioiconografico
e Fondi storici della Galleria nazionale
d’arte moderna. In calce, l’invito
scaricabile in pdf.
L’esposizione, organizzata in
occasione della Settimana dell’Alta
Moda di Roma, vuole ricordare Irene
Brin, scrittrice, giornalista di costume,
ripercorrendone la vita, il lavoro e gli
interessi attraverso fotografie,
documenti, opere d’arte, vestiti e
accessori provenienti dai fondi
archivistici della Galleria nazionale
d’arte moderna e dall’Associazione
Irene Brin di Sasso di Bordighera.
Figura poliedrica e dalle mille
sfaccettature, scrittrice, gallerista
insieme al marito Gaspero del Corso, è
stata anche Rome editor per la rivista
americana Harper’s Bazaar. Attenta ai
cambiamenti dell’Italia post bellica,
ha raccontato nei suoi numerosissimi
articoli i mutamenti di costume di un
L’
IL MONDO DI IRENE BRIN
a cura di Claudia Palma
ROMA,
ACCADEMIA COSTUME & MODA
VIA DELLA RONDINELLA 2
26 gennaio – 21 febbraio 2014
paese “affascinato” dal modello
americano.
Saranno esposte fotografie che
ritraggono Irene e i familiari, alcune di
autori quali Avedon e Leslie Gill;
fotografie dei vernissage, in cui gli
artisti posano accanto alle proprie
opere negli spazi espositivi della
Galleria L’Obelisco, fondata da Irene e
Sopra: Alberto Burri tra le sue opere il
giorno dell’inaugurazione della sua personale
“Neri e Muffe” alla Galleria L’Obelisco, Roma,
3 gennaio 1952, Fotografie proprietà della
GNAM. Sotto: Irene Brin e Gaspero del
Corso nella Galleria L’Obelisco, Roma, 1946
36
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
Sopra da sinistra: L’attrice Maggi McNellis
indossa l’estroso cappello “Midnight In Venice”
della Collezione autunno-inverno “Romance In
Venice-1953” di John P. John Fotografia,
proprietà della GNAM; l’attrice Irene Dunn
indossa un abito da gran sera di Casa Fontana,
Roma, anni Cinquanta. Fotografia, proprietà
della GNAM. Accanto: Irene Brin e Gaspero
del Corso all’inaugurazione della prima mostra
italiana di Alexander Calder a L’Obelisco Roma,
14 marzo 1956. Fotografia, proprietà della
GNAM
Gaspero del Corso nel 1946, prima
galleria ad aprire a Roma nel secondo
dopoguerra e promotrice del
Surrealismo, dell’Informale, dell’Op e
di artisti internazionali quali Calder e
Rauschenberg. Una parte del
materiale fotografico e documentario
sarà dedicato al rapporto di Irene con
la Moda. Diverse fotografie,
ritraggono attrici americane e italiane
che indossano vestiti e accessori
prodotti dalle case di moda italiane, di
cui la Brin fu sostenitrice all’estero:
Fontana, Carosa, Simonetta, Gattinoni,
Fabiani, Capucci, Lancetti.
Con questa mostra si vuole
sottolineare la capacità di Irene di far
dialogare il proprio interesse per
l’arte con la moda e viceversa:
saranno presenti le illustrazioni di
Brunetta Mateldi, le immagini di
moda il cui set è la stessa Galleria
L’Obelisco, la dama optical di Filippo
Panseca accanto alla fotografia di un
cappotto bianco e nero di Capucci.
Oltre al vestito Fabiani di Irene Brin,
verrà esposto quello realizzato su
disegno di Giacomo Balla, artista
prediletto dai coniugi del Corso,
presentato già durante la serie di
mostre che L’Obelisco gli dedicò
nell’intero anno 1968.
38
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
LA MOSTRA/3
CARLO SARACENI A ROMA
Un caravaggesco “sofisticato”
i direbbe che la mostra di
Palazzo Venezia punti a restituire
un’immagine inaspettata di
Carlo Saraceni, mettendone in luce una
radice classicheggiante, un po’
manierista, diversa, tutto sommato, dal
pittore restituito da Roberto Longhi. È
questa, almeno, l’impressione un po’
sorprendente che si ha di fronte alla
riproduzione su manifesti e catalogo
del piccolo rame con Venere e Marte
della collezione Thyssen-Bornemiza: un
quadretto di una stesura smagliante,
quasi porcellanosa, che difficilmente
farebbe pensare a un pittore
caravaggesco, se non per alcuni
dettagli, come nei panni freschi di
bucato, ricchi di pieghe e di ombre, con
cui si intrattiene il putto di spalle in
primo piano, nella parte bassa del
S
Sopra: Carlo Saraceni, San Francesco d’Assisi
riceve le stimmate, Lanzo Torinese, Chiesa di
San Pietro, olio su tela, cm 328 x 176
Sotto: Carlo Saraceni, Venere e Marte,
Madrid, Carmen Thyssen - Bornemisza
Collection, on loan Thyssen – Bornemisza
Museum, Olio su rame, cm 39,5 x 55
CARLO SARACENI
1579-1620. UN VENEZIANO
TRA ROMA E L’EUROPA
A cura di Maria Giulia Aurigemma
ROMA, PALAZZO DI VENEZIA
29 novembre 2013
2 marzo 2014
dipinto. La mostra mette in luce infatti
una doppia “anima” del pittore
veneziano trapiantato a Roma sotto il
pontificato di Clemente VII
Aldobrandini: un pittore classico di
quadri profani, e un pittore
caravaggesco, di lume intenso ma di
smaltato nitore, per le grandi pale
sacre.
Eppure i due piani interagiscono fra
loro più del previsto. Nel piccolo
Seppellimento di Icaro di Capodimonte,
un altro rame del 1605-1608, si troverà
infatti un prelievo evidente dal noto
Seppellimento di Cristo di Caravaggio
oggi ai Musei Vaticani. E allo stesso
modo, nella Caduta di Icaro della
medesima serie, il corpo del giovane in
caduta libera ripropone uno scorcio
analogo a quello del putto bendato di
Giovanni Baglione nel Marte che
punisce Cupido, qui trasformato in un
avvitamento del corpo su se stesso.
Ma Saraceni viene anche chiamato
a sostituire una tela di Caravaggio,
quando a questi viene rifiutata la
famosa Morte della Vergine. E la sua
tela ha anche un grande successo,
tanto da venire replicata in più versioni,
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
su tele più piccole o su rame, per il
collezionismo privato. È tipico infatti
del “saraceniana methodus” rimeditare
su proprie opere, replicare le soluzioni
compositive più richieste o reinventare
su piccoli rami grandi scene che aveva
già realizzato in affresco. Anche da
questo ci si rende cotno della prensilità
ad ampio raggio di questo pittore, che
attinge a modello cinquecenteschi
veneziani, ma non solo.
Non si può tuttavia che rimanere
commossi, ancora una volta, rivedendo
il San Bennone che ritrova le chiavi
della città di Meissen nelle interiora di
un pesce, anche se in mostra è certo
attenuata quella impressione di stupore
che se ne riceve vedendolo apparire in
Santa Maria dell’anima. Il Caravaggio
più vicino a un quadro del genere è
quello della prima Conversione di San
Paolo: il più netto e smagliante di
materie e di riflessi di luce, che si
ritrova nella lucentezza e mobilità di
modellato della fronte lucida e perlata
di San Bennone, sulle gote piene e un
po’ stanche, ma di soda compattezza.
La stessa qualità che si ritrova nel
Martirio di San Lamberto, sempre di
Saraceni e proveniente dalla stessa
chiesa, che gli è posto accanto, anche
se qui i volti più scavati e rugosi
sembrano squagliarsi come cera
scaldata sotto il pennello. Ma rimane
bellissima quella esattezza metallica,
tipica di Saraceni, dei panneggi colorati.
La mostra, infine, avanza una
novità storiografica, proponendo
l’attribuzione al Saraceni della
Negazione di San Pietro su cui Longhi,
nel 1939, aveva ricostruito il gruppo
stilistico di un anonimo pittore che
ribattezzò “Pensionante del Saraceni”. In
39
Carlo Saraceni, Transito della Vergine, New York, Collezione Richard L. Feigen, olio su rame
questa tela, tuttavia, trovo alcune idee,
come il pieno controluce del volto di
San Pietro, e la pittura mi sembra più
spessa, il chiaroscuro più ruvido
rispetto al Saraceni: un gran bel quadro
in ogni caso, ma bello proprio per un
modo più rustico rispetto al sofisticato
Saraceni restituito dalla mostra, pur nel
gran ventaglio di modi che si squaderna
nel suo catalogo. Attribuirgli anche
un’espressione più calda, come questa,
mi pare però un po’ troppo.
40
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
LA MOSTRA/4
LA LUCE DEL “PICTOR URBIS”
Antoniazzo Romano a Palazzo Barberini
ntonio detto Antoniazzo
romano, […] dei migliori
che fussero allora in
Roma», è la definizione di questo
pittore, la cui fortuna nelle moderne
sintesi di storia dell’arte non
corrisponde, a torto, al ruolo da questi
ricoperto nella Roma di metà
Quattrocento (1435 circa-1508). Pur
senza essersi mai mosso dall’Urbe,
infatti, egli ha avuto una delle botteghe
più attive e più contese del suo tempo,
«A
ANTONIAZZO ROMANO
“PICTOR URBIS”
a cura di Anna Cavallaro
ROMA, PALAZZO BARBERINI
1 novembre 2013
2 marzo 2014
con committenze di prestigio, dal conte
onorato Caetani all’incarico di
realizzare, nel 1464, gli apparati per
l’elezione di papa Paolo II. È il momento
Subiaco, chiesa di San Francesco, Madonna con il Bambino e i santi Francesco e Antonio,
trittico, 158x63 (tavola centrale), 142x41 (laterali)
di esordio per lui, in un rapido
movimento che lo avvicina ai modi del
linearismo fiorentino, che rimarranno
costanti, ma che lo conduce ben oltre.
Già nel Trittico di Fondi, infatti, la luce
tersa dà volume alle figure con
sfumato lieve ma preciso, graduato ma
esatto, e sostenuto da disegno di linea.
Ma la linea fiorentina, pure persistente,
è interpretata con un bagno di luce
delicato, ma con più intelligenza
rispetto alle “bambole” di Perugino, con
cui pure fu in contatto. Antoniazzo non
lascia mai Roma, ma questo non gli
impedisce di aggiornarsi sulle novità
che da tuta Italia arrivano nella città
papalina, da Benozzo Gozzoli a Piero
della Francesca e Ghirlandaio. A questo,
poi, si devono aggiungere le
collaborazioni documentate con
Melozzo da Forlì, Piermatteo d’Amelia e
il già ricordato Perugino. Vengono da
qui le sue Madonne col Bambino gentili
e devote, e da cui si arriva alla
straordinaria Pala di Montefalco,
dipinta in origine per la cappella del
cardinale portoghese Giorgio Costa in
Santa Maria del Popolo a Roma: qui
Antoniazzo ha raggiunto una misura
soave e solenne. È il momento di
maggior contatto con Melozzo.
Visitando la bella mostra romana, è
possibile chiarire i modi di lavoro del
pittore e della sua bottega. Si possono
anzi riconoscere dei modi fisionomici
ricorrenti. Per le figure maschili, un viso
triangolare dai lineamente marcati da
un piano d’ombra dalla mascella alla
guancia e limitato da zigomi
pronunciati, e una corona di capelli
tonsurati a delimitare la fronte (come
nel San Vincenzo Ferrer del Museo di
Santa Sabina a Roma o in varie versioni
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
41
Sotto: Rieti, Museo Civico, Antoniazzo
Romano, San Francesco, tavola, 173x61,5
A destra: Civita Castellana, Episcopio,
Antoniazzo Romano, Natività, tavola, 130x79
di San Francesco). Oppure una barba
folta e lunga che pare trascinare in
basso gli zigomi, fronte ampia e
tondeggiante, una pronunciata calvizie
e un trattamento volumetrico sferico
avanzato (come il San Girolamo della
camera di Santa Caterina). I modi
fiorentini, però, tornano ciclicamente a
farsi sentire, come nella Natività con
San Lorenzo e Sant’Andrea di Palazzo
Barberini: la capanna in rovina sembra
una visione assonometrica di quella di
Ghirlandaio per la cappella di Palazzo
Medici-Riccardi. È una componente
costante, anche se reinterpretata con
un misto di levità e nervosi scatti di
movimento, come dei guizzi, e una luce
meridiana. Una maniera che avrebbe
fatto scuola: stava nascendo un asse di
scambi, tutto centroitaliano, verso Rieti
e verso l’Abruzzo.
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febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
43
IL RICORDO
Oreste del Buono. Un’intellettuale scomodo
e una ricorrenza (stranamente) dimenticata
di gianfranco de turris
anto ricordato al momento della
sua scomparsa, il 30 settembre
2003 a poco più di 80 anni, con
un profluvio di articoli elogiativi ma
sostanzialmente tutti uguali, quanto
semi ignorato un decennio dopo:
l’anniversario della morte di Oreste del
Buono, OdB, è stata pressoché
dimenticato. Destino comune a
moltissimi, ma sorprende che un nome
del mainstream italiano, ancorché del
tutto eterodosso e certe volte al limite
dell’anarchia, abbia subito la sorte di
tanti altri. Ovviamente Linus, il mensile
che diresse in due occasioni, gli ha
dedicato un numero speciale a
settembre, e per fortuna in qualche
intervento sono finalmente emerse un
po’ delle caratteristiche che rendevano
del Buono un unicum nella cultura del
T
Belpaese, lui quel Mezzo Toscano (così
si definiva autoironicamente, quasi
come Amintore Fanfani, a causa del
suo essere “diversamente alto”, come
oggi i buontemponi del politicamente
corretto amerebbero dire) umorale e
imprevedibile. In realtà, la definizione
che più gli si attaglia la diede dieci anni
fa Giovanni Raboni, il compianto poeta
e francesista, che lo qualificò sul
«Corriere della Sera», “Jekyll e Hyde”, il
capolavoro che fra l’altro del Buono
aveva tradotto da par suo.
In che senso? Non tanto nel senso
letterario cui faceva riferimento Raboni,
quanto piuttosto di una personalità che
ne celava altre insospettate al
conformismo generale e di
conseguenza non tutte ben viste
dell’establishment da lui frequentato
sin dopo la guerra, e che oggi si tende
volentieri a dimenticare. Intendendo
queste molteplici personalità non
soltanto con riferimento al loro
variegato esprimersi: fu autore di molti
romanzi e racconti, traduttore dal
francese e dall’inglese, critico poliedrico
(letterario, cinematografico, sportivo,
televisivo, di fumetti, di pubblicità),
esperto di narrativa popolare (giallo,
fantascienza, western), giornalista di
molteplici e importanti testate,
direttore di riviste e collane, famoso (e
orgoglioso) dall’aver dato dozzine di
dimissioni pur di tutelare la propria
autonomia e le proprie idee (si vantava
di essersi dimesso un centinaio di volte,
se ricordo bene). Ma OdB era così
bravo, aveva idee così originali, era un
vero talent scout, che non aveva
problemi a farsi sempre accettare e a
prendere decisioni o posizioni che,
nonostante il loro essere
controcorrente, riusciva a far accogliere
proprio per il suo none e la sua fama.
Cosa che ad altri sulla sua stessa
sponda (non parliamo se su sponde
opposte!) non sarebbe mai riuscita. Ma
Oreste de Buono (1923-2003)
44
forse,è stato notato sul citato fascicolo
di «Linus», proprio questa sua
indipendenza, questa sua nonorganicità, rimane nella memoria
dell’establishment conformista e alla
fine si paga: i suoi libri non più
ristampati, il ricordo messo da parte.
Nonostante, si deve dire, la sua sia
stata una attività multiforme,
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
incessante, quasi frenetica,
contemporaneamente su vari fronti,
che del Buono poteva permettersi in
quanto ha sempre sofferto di insonnia,
o forse aveva un fisico cui erano
necessarie pochissime ore di sonno
senza risentirne: quattro ore,
addirittura solo due ricorda la figlia
Nicoletta…
Peccato quindi che alcuni risvolti
del carattere e delle idee di OdB
nessuno li abbia messi nella dovuta
evidenza, non li abbia approfonditi a
dovere. Forse soltanto perché (non
voglio essere cattivo) non si
conoscevano bene, o magari perché li si
è voluti rimuovere. Certe caratteristiche
di del Buono sono state solo sfiorate,
accennate, sorvolate , un po’ meno
oggi.
Vero, OdB poteva essere proprio un
Jekyll & Hyde, ma nel senso più
profondo di carattere, idee, modo di
pensare e comportarsi. Per parlare di
lui, però, sono costretto a parlare anche
di me e del rapporto intermittente ma
profondo che ho avuto con OdB cui
devo una esperienza che ancora
rammento con piacere e soddisfazione,
anche se negli annali ufficiali del
ricordo è come se non fosse mai
esistita. Forse la sopravvaluto e non fu
che poca cosa, forse mi sembra
significativa soltanto perché ne ero
partecipe e invece fu una banalità se
vista con gli occhi degli altri. Non
saprei.
Il nostro primo contatto fu
telefonico nel 1980: allora ero
disoccupato, dato che il quotidiano di
cui ero redattore aveva chiuso i
battenti, e collaboravo a diverse
pubblicazioni, fra esse «Prospettive nel
mondo» di Giampaolo Cresci per cui mi
occupavo delle novità editoriali.
Un’inchiesta mi condusse a lui, e a
quanto pare mi trovò simpatico
probabilmente per i miei vari ed
eterodossi interessi, coincidenti anche
con i suoi, al punto da invitarmi poi a
scrivere su «Linus» alcuni articoli in
replica ad altri apparsi su quelle pagine
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
che uscirono nell’aprile e luglio 1981
firmati con Sebastiano Fusco. Perché
m’invitò? In realtà vari anni prima
avevo già pubblicato sul mensile alcuni
articoli-interviste con J.C. Forest e
Jacovitti, ma non fu per questo.
Esplicitamente perché esponessi un
punto di vista “diverso” ai lettori della
rivista che in genere erano “di sinistra”.
Una specie di provocazione gestita. Un
punto di vista non certamente politico,
ma culturale e d’interpretazione
culturale, in modo da allargare loro gli
orizzonti con riferimenti ad autori e
metodi di analisi spesso tabù. Così
avvenne e così scrissi senza alcuna
censura da parte sua né da parte di chi
lo sostituì (Fulvia Serra) dopo le
dimissioni di del Buono quando
scoppiò lo scandalo P2 che coinvolse
Angelo Rizzoli. Sulle pagine di «Linus» e
su quelle di «Alter» potei dire sino alla
fine del 1983 cose che anche oggi (e
forse soprattutto oggi: quale rivista “di
sinistra” si comporterebbe più così?
nemmeno lo stesso «Linus». Si vede che
trent’anni sono passati inutilmente…)
possono sembrare incredibili. Ma forse,
azzardo, allargai veramente certi
orizzonti manichei. Non senza proteste
da parte di qualche lettore e qualche
collaboratore della testata, come si può
leggere nel libretto dal titolo
provocatorio in cui ho riunito quella
mia bella esperienza (Camerata Linus,
Settimo Sigillo, 1986). Che forse riuscii
a raggiungere quello scopo lo
testimonia a contrario un
allarmatissimo intervento del prof.
Alessandro Portelli, un americanista,
che in un convegno svoltosi in quel di
Cuneo dedicato a “Nuova Destra e
cultura reazionaria negli Anni Ottanta”
(novembre 1982), affermò in sostanza
che il sottoscritto stava traviando gli
ingenui e sprovveduti lettori del
mensile... Un onore dal mio punto di
vista,che non mi sarei mai aspettato…
(ed ecco perché intitolai il libretto di cui
sopra in quel modo).
Questo il Jekyll-Hyde-OdB, quello
vero e tuttora rimosso: nonostante
fosse un “uomo di sinistra” dare spazio
alle idee diverse, purché serie e
motivate, per un confronto utile a tutti,
senza anatemi, ostracismi preconcetti e
urla scomposte (è la prassi
attuale).Questa la mia impressione
all’epoca, e mi fa piacere vederla
confermata in un bel ricordo del padre,
scritto con penna capace e una certa
ironia, dalla figlia Nicoletta sul citato
fascicolo di Linus, ma ripresa dal un
volume dedicato nel 2010 alla narrativa
1945-1965 di OdB che l’editore Isbn ha
intitolato L’antimeridiano in chiara
polemica con chi dedica i prestigiosi
Meridiani ad autori assai meno
significativi e degni del nonJulius Evola (1898-1974)
45
conformista Oreste del Buono, là dove
afferma: «Era un suo punto d’orgoglio
voltairiano interessarsi di chi e a chi la
pensasse diversamente, dargli uno
spazio per esprimersi, aiutarlo quando
era in difficoltà. L’ha fatto con
Guareschi, con Brancher, con Jacovitti e
chissà con quanti altri ci cui non so».
Uno di questi sconosciuti è il
sottoscritto, anche se credo che più che
uno spirito seguace del famoso detto
attribuito a Voltaire, in OdB ci fossero
due componenti: quella del toscano
sino in fondo e quindi “bastian
contrario” rispetto all’andazzo generale
della intellighenzia italiana, e quello
delle sue radici giovanili mai
dimenticate o rinnegate, quel suo
essere, come si dirà poi,
“fasciocomunista”.
Nonostante avessi criticato
aspramente «Linus» per i suoi
atteggiamenti politici ed anche censori
verso fumetti non allineati in una serie
di articoli apparsi su «L’Italiano» negli anni Settanta (ora riuniti in La dittatura
occulta, Sveva, 1997), accettai la sua
proposta proprio in quanto mi
consentiva di dire quel che pensavo
liberamente in un ambiente nuovo. I
tempi erano un po’ cambiati rispetto
agli anni della “contestazione”. Come
del resto sono assai cambiati quelli di
oggi rispetto agli anni Ottanta.
La conoscenza con OdB divenne
anche diretta per alcuni miei viaggi a
Milano, dove a casa sua in Via
Maggiolini 2 si parlò di molte cose oltre
che dei suoi mille acciacchi, delle sue
abitudini mattutine che lo portavo a
comprare per primo i quotidiani
quando il giornalaio apriva alle 5 o a
essere il primo a fare colazione quando
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febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
i bar alzavano le saracinesche anch’essi
intorno a quell’ora. Si parlò anche della
sua giovinezza, del “mito di Teseo Tesei”
(fratello della madre, ideatore con Elios
Toschi del Siluro a Lenta Corsa, il
“maiale”, che morì a 32 anni durante
un attacco al porto maltse di La
Valletta nel 1941 meritandosi la
medaglia d’oro al valor militare) e delle
sue letture di quell’epoca. Fra esse,
appresi con stupore, pure Rivolta
contro il mondo moderno (1934) di
Julius Evola, che lui aveva apprezzato.
Questo m’indusse alcuni anni dopo,
quando ero entrato alla Rai, a
coinvolgerlo in una mia iniziativa tra
l’ingenuo e il temerario: preparai nel
1984 un servizio per il decennale della
morte del filosofo, intervistandolo
insieme a Massimo Cacciari e Stanislao
Nievo. Ma il direttore liberale della
Direzione Servizi Giornalistici per
l’Estero (quella che poi sarebbe stata
denominata Rai International) non lo
era a tal punto da farmelo mandare in
onda dopo averlo ascoltato. Non
sprecai il lavoro, trascrissi quelle tre
risposte e (ovviamente con il consenso
degli interessati) le inserii nella seconda
edizione del mio Testimonianze su
Evola (Edizioni Mediterranee, 1985).
Vale la pena riportare alcune sue
parole che faranno scandalo presso, ieri
come oggi ripeto, i sepolcri imbiancati
di destra e di sinistra: “Per quel che mi
riguarda parlare di Evola vuol dire
ricordare, ad esempio, la lettura di un
libro che per me è stato fondamentale,
un libro che mi dette da leggere
quando ero ancora ragazzo mio zio
Teseo Tesei e che mi aprì alla
comprensione di quello che sarebbe
avvenuto dopo. Era un libro in cui si
parlava dell’inevitabilità dei sue blocchi,
del blocco americano e del blocco
russo, e che mi ha aiutato molto a
capire le cose che sono successe poi.
Era Rivolta contro il mondo moderno. E
parlare adesso di Evola vuol dire anche
dimostrare di avere nei riguardi della
cultura un altro rispetto,
indipendentemente da quelle che
possono essere le passioni di parte”.
OdB non si vergognava certo del suo
passato come molti facevano e fanno.
Stupefacente, vero? Soprattutto
47
oggi che le “passioni di parte” nonché
la paura di parte sono diventate
nuovamente egemoni al punto da
offuscare il buon senso e la razionalità
critica. Questo forse spiega il motivo
per cui in due occasioni negli anni
Novanta - a Enzo Magrì de «il Giornale»
e a Fabio Andriola de «L’Italia
settimanale», la rivista fondata e diretta
da Marcello Veneziani, disse di
considerarsi un “fasciocomunista”
(termine che in seguito è diventato il
titolo di un picaresco romanzo di
Antonio Pennacchi, edito da Mondadori
nel 2003, proprio l’anno della morte di
OdB). Al che, sulle stesse pagine, gli
proposi di pubblicare nella collana
tascabile che dirigeva per Einaudi,
insieme le Lettere dei condannati a
morte della resistenza e le Lettere dei
caduti della RSI da leggere appaiati, per
dimostrare come eroi e amor di patria
fossero comuni e non esistessero poi
quegli angeli e quei dèmoni che la
vulgata resistenziale ancora ci presenta.
Mi disse che ci avrebbe provato. Non ci
riuscì o non volle?
Benché avesse letto ed apprezzato
48
Evola era stato comunista prima
ortodosso, poi eretico e del tutto
individualista. Negli ultimi anni,
attraverso la rubrica della “posta dei
lettori” che teneva quotidianamente su
«La Stampa» aveva assunto posizioni
via via sempre più antiberlusconiane:
che si potrebbero definire forse da
“fascista di sinistra”. Forse.
Lo sentii ovviamente diverse altre
volte, proprio come giornalista
radiofonico intervistandolo sui suoi
libri, ma anche come amico per avere
suoi pareri e commenti pubblici e
privati (ad esempio aveva una sua
personalissima idea del perché Primo
Levi si fosse suicidato nel 1987). Una
volta fu dopo l’uscita del numero di
«Linus» per il trentennale della rivista
1965-1995: tra le moltissime cose che
vi venivano ricordate la mia
collaborazione triennale ma soprattutto
il suo specifico senso con l’idea dei
racconti che lessi e selezionai per
«Alter», erano stati completamente
dimenticati. Divenuto di nuovo
direttore del mensile, disse che aveva
fatto tutto la sua “redazione femminile”.
Oggi che è direttrice una ex giovane
redattrice di allora non è che sia
cambiato molto.
Forse mi presumo troppo? Non lo
so come ho già detto, ma ritengo che
la mia idea all’epoca accettata di
pubblicare racconti fantastici dei lettori
sotto l’insegna a me carissima de “La
Biblioteca di Babele” ebbe successo, fu
apprezzata, ospitò storie curiose e
originali, promosse il fantastico italiano
su una rivista diffusissima in
contemporanea con il Premio Tolkien
dell’editore Solfanelli nato nel 1980, e
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
mi costò molta fatica, devo dire con
l’avallo e la collaborazione della
“redazione femminile” che però poi
evidentemente si stufò: lessi un
centinaio di storie e per ognuna di esse
redassi una scheda critica (mi pare 70
esatte) che poi venivano trasmesse ai
lettori/autori (fra essi il giovane Sergio
Valzania, poi direttore di Radio 2 e
Radio 3).Una cosa unica nel suo genere
e nella storia stessa della rivista che
accettò la novità. Non credo che altri
mai si sia sottoposto a questa corvée,
ma era (ed è ancora) una mia
fissazione: proporre a certe testate
specializzate cui collaboravo di ospitare
narrativa italiana “di genere” come oggi
si dice. Da quelle scientifiche a quelle
politiche a quella appunto a fumetti,
perché pensavo che solo in questo
modo, normale negli Stati Uniti,
ignorato in Italia, si potesse
promuovere questo tipo di letteratura
popolare scritta da autori nazionali
(fantascienza, fantastico, orrore). Che
sia riuscito o meno nell’intento non
tocca a me dirlo. Comunque, proseguii
l’esperienza pari pari su L’Eternauta di
Rinaldo Traini per ben sette anni (19881995) e anche qui ho raccolto quei miei
innumerevoli interventi in un libro,
Cronache del fantastico (Coniglio,
2009).
Poi lo intervistai per la nuova
collana che ideò per la Baldini &
Castoldi, di suo nipote Alessandro
Dalai: la intitolò “I Nani” (ogni
riferimento alla sua altezza era
puramente casuale): parlò della sua
inesauribile curiosità per cercare di fare
cose nuove e imboccare nuove vie in
un panorama editoriale piatto. Voce
che ho poi riportato nel ricordo
radiofonico che gli ho dedicato quando
morì.
Questo era il vero del BuonoJeckyll-Hyde. E per questo mi è
particolarmente caro. Certo era
umorale, drastico e imprevedibile nelle
sue decisioni: a parte le dimissioni a
catena, è noto che decise di non far
uscire un suo romanzo di cui non era
più soddisfatto o del tutto convinto
poco prima che l’editore lo distribuisse:
pagò l’intera tiratura e la distrusse! A
volte brusco e sbrigativo, a volte
affabile e “in buona” e allora ti teneva
mezz’ora al telefono, ma non aveva
pregiudizi, sapeva apprezzare anche chi
non la pensava esattamente come lui,
purché dicesse cose per lui originali e
interessanti.
Caro OdB, sei stato un grande al di
là della statura fisica, altri ce ne
sarebbero voluti e ce ne vorrebbero
come te, soprattutto oggi che cultura,
originalità e disponibilità sono
scomparse sostituite da
menefreghismo, oscurantismo e
faziosità allo stato puro.
50
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
Punture di penna
Consigli intellettuali per
il vero Maître à penser
Ovvero: come furoreggiare nei salotti – parte quarta
LUIGI MASCHERONI
PENSIERO C’è quello de-
bole, quello breve, quello lungo,
il Va’ Pensiero, i pensieri alti, i
pensieri bassi, i pensieri impuri,
gli spensierati, i pensierosi, i benpensanti, quelli che a pensar male
si fa peccato ma ci si azzecca... E
quelli che è un peccato che pensino. E sono in tanti, ma tanti…
iconico. Il dito di Cattelan davanti alla Borsa, per esempio, è
iconico. E anche un po’ comico
in verità.
BIBLIOTECA Quella del
ESTETICA Spesso la si
scambia per etica. Ed è pericolosissimo.
ETICA Spesso la si scambia
per estetica. Ed è peggio.
AMBIZIONI Se sono degli
altri, quasi sempre non ne sono
all’altezza.
INFORMAZIONE/1 Da
pensare senza dirlo: “Ce n’è troppa”.
INFORMAZIONE/2 Da
dire senza pensarlo: “Non ce n’é
mai abbastanza”.
GIORNALI DI CARTA
Obbligatorio piangerne la lenta
ICONICO Aggettivo molto
Sopra: Luigi Mascheroni.
Nella pagina accanto: Giuseppe
De Nittis (1846-1884), Il salotto della
principessa Matilde, 1883, Musée
Joseph Denais Beaufort-en-Vallé
scomparsa. Facoltativo leggerli.
BUON GIORNALISMO
E’ quando le idee comandano
sulle parole, e non viceversa. Anche se quasi sempre avviene il
contrario.
ARTE Eccellente risorsa per
fare propaganda politica.
POLITICA Imbattibile nello strumentalizzare l’arte.
vero intellettuale si caratterizza
per i testi che deve avere (i classici
antichi, la Recherche nella traduzione di Giovanni Raboni, tutto
Sheakspeare dell’Einaudi, tutti
gli Adelphi, tutti i Sellerio di
Cammilleri…) ma soprattutto
per i testi che non deve avere. Ad
esempio: i romanzi di Volo, quelli della Mazzantini, i vecchi libri
di Biagi che non servono più (però si possono tenere quelli di
Bruno Vespa, che magari vi invita
a Porta a Porta), i Grisham, Dan
Brown e Alberto Angela, e soprattutto il culturame dozzinale
di Destra, cioè i Papini, i Longanesi, i Cecchi, i Guareschi, Del
Noce, Evola, De Felice… Tutte
cose che fanno troppo cheap. L’esatto vostro contrario.
INSTANT BOOK Di solito sono sempre delle cazzate.
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
51
TWITTER Come per la tv:
parlarne malissimo, ma abusarne.
ORIENTAMENTI Utilissimi per perdersi.
MERCATO LIBRARIO
Urlare: “I libri non sono una merce!!!”.
ZAPPING Il vero intellet-
tuale vive di zapping, abitudine
che riserva anche ai libri: una pagina qui, una là…
MULTI-TASKING Signi-
fica fare un sacco di cose, in genere tutte male.
CRITICI INUTILI Oggi si
preferiscono - a ragione, peraltro
- blogger, testimonial, tifosi, fan,
haters, acquirenti… I critici, comunque, sono sempre interessati,
invidiosi, noiosi. Attaccarli senza
pietà. Citare Gian Paolo Serino
che è stato definito (da se stesso)
il più graffiante critico italiano.
ATTENZIONE Per legge- E-BOOK/2 Non ha futuro.
re un libro non serve, e neppure
per scrivere. Più che altro la si ri- GIORNALISTI Hanno la
“PALADINI DELLA VE-
LETTORI Hanno la presunzione di essere meglio dei
giornalisti.
RITÀ” Espressione che definisce una curiosa e ancora diffusa
specie di intellettuali e artisti i
quali sommano in sé due tratti
caratteristici fondamentali: l’essere fieramente antiberlusconiani e l’essere distribuiti da Medusa
e/o pubblicati da Mondadori-Einaudi e/o nel cartellone del teatro Manzoni e/o a libro paga di
Mediaset… Una specie, purtroppo, destinata all’estinzione.
chiede per sé: “I miei libri non
hanno mai la giusta attenzione
dei media”. “Credo davvero che
il mio progetto meriti maggiore
attenzione…”. “Certi critici non
mi concedono mai attenzione…”. “Attenzione, che se mi incazzo io …”
PIAZZA Se è piena di amici,
è la democrazia. Se di nemici, indignarsi: “Anche Hitler riempiva
le piazze!”.
E-BOOK/1 E’ il futuro del
libro.
presunzione di essere letti.
SINTASSI Non preoccuparsene troppo, è soltanto un
pregiudizio borghese.
TOTEM Abbatterli, tutti.
DEMOCRAT Sinonimo di
buono, bello, giusto, moralmente esemplare. “Vorrei un mondo
più democrat!”. “Anche no”.
52
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
Pietro Longhi (1701-1785), La lezione
di Geografia, 1752, Fondazione
Querini Stampalia, Venezia
santi”, “teste d’uovo”, “La testa
più lucida della sua generazione…”, “Testori sì che era un vero intellettuale”. A volte sono
dei “testoni”, altre è soltanto
gente che “testa” qualcosa (i famosi romanzi sperimentali), altre che “tasta” qualcuno (le stagiste nei giornali o nelle case
editrici, ad esempio), altre ancora che de-testa, molto più spesso
che è de-testata. Ma soprattutto
sono delle grande “teste di…”.
AUTOIRONIA La cosa, in
assoluto, che serve di meno a un
intellettuale. L’intellettuale in
quanto tale deve prendersi sempre sul serio, anche quando
scherza.
THRILLER Inevitabilmente “mozzafiato”.
anche tu al festival…?”. “Soltanto di passaggio…”.
UMORISMO Ricordarsi,
come diceva Mark Twain, che è
la nostra salvezza. Forse l’unica.
BIBLIOFILIA Il vero intellettuale è un bibliofilo sì, ma a
modo suo. Fra la prima edizione
dei Canti Orfici di Dino Campana e l’introvabile calendario Pirelli del 1966, sceglie la prima,
ma poi sfoglia il secondo.
PASSAGGI Termine di
passaggio. “Si è sempre in un
passaggio epocale”. Ma anche
“Non ci si rende mai conto che
si è in un passaggio epocale finché questo non è avvenuto”.
Oppure: “Questo libro segna
davvero un passaggio cruciale”.
Stare attenti ai passaggi a livello,
soprattutto se si legge in macchina mentre si guida. “Ciao,
PROFESSIONALITÀ
Ormai è talmente utile da diventare superflua.
BRAY, MASSIMO “Bravo.
Ma sembra il vice-ministro di se
stesso”.
TESTA Sineddoche propria dell’intellettuale, da cui le
note espressioni: “Teste pen-
VERITÀ Concetto intercambiabile. Si veda ad esempio
la verità di una qualsiasi delle seguenti frasi: “Nel Novecento
l’individuo è finalmente libero”
o “L’individuo è definitivamente prigioniero” o “L’individuo è
prigioniero proprio perché è libero”. Applicabile anche a libri
e/o film: “E’ un’opera che racconta la grande epica nazionale”. “E’ un’opera che racconta la
piccola epopea familiare”. “E’
un’opera che racconta l’epica
dell’individuo”. “E’ un’opera
che racconta l’antiepica dell’individuo”. “Sì, ma non ho capito
che opera è?”. “Questione di
sfumature”.
SFUMATURE Irrilevanti
54
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
BvS: Fondo Novecento
Gli interventisti
e la I Guerra Mondiale
Gli intellettuali italiani e il richiamo delle armi
MARCO CIMMINO
I
l brodo di coltura da cui scaturì la Grande Guerra funzionava già da decenni,
quando le pistolettate di Gavrilo
Prinzip scatenarono il conflitto:
scaramucce coloniali1 e revanscismo2, indebolimento degli imperi sovranazionali e potenziamento dell’industria, avevano
già segnato il cammino verso la
catastrofe. Eppure, in Europa,
ben pochi avrebbero creduto nel
suicidio di una civiltà: questo è il
dato che balza per primo agli occhi. Va detto anche che, per l’Italia, una guerra europea avrebbe
avuto ben altro significato, rispetto a tutte le altre potenze
continentali: fin dalla guerra di
Crimea (1855-56), i Savoia avevano interpretato le guerre internazionali come un’occasione
per loro di incrementare il proprio dominio sulla Penisola3. La
guerra austro-prussiana (1866)
aveva permesso di aggiungere al
neonato Regno d’Italia la Venezia Euganea, nonostante gli imbarazzanti disastri di Custoza e
Lissa, così come quella franco-
Lacerba, Periodico quindicinale.
Anno I, n. 5. Firenze, 1 marzo 1913
prussiana del 1870 aveva distolto
i Francesi dalla loro caparbia difesa del Santo Padre, permettendo ai soldati di Raffaele Cadorna
di entrare a Roma da Porta Pia.
Va da sé che, alla vigilia di una
nuova guerra, inevitabilmente,
negli ambienti vicini alla Corte,
si sentisse odore di acquisizioni
territoriali. Quando venne il
momento per l’Italia di decidere
se partecipare o meno al conflitto, la guerra non era un’eventualità astratta: era già scoppiata. In
questo contesto bisogna giudicare l’assoluta specificità dei fenomeni, tutti italiani, dell’Interventismo e del Neutralismo, che
animarono la pubblicistica dei
mesi che precedettero il 24 maggio 1915. Una ricognizione nel
fondo del Novecento della Biblioteca di via Senato (che conserva molti dei periodici e delle
pubblicazioni dell’epoca) può
essere utile per comprendere il
clima culturale dell’epoca. Si deve infatti tener conto che, per
molti Italiani, quella guerra non
era la prima guerra mondiale, ma
la quarta guerra d’indipendenza.
Di qui discendono i giudizi, diversissimi tra loro, circa la necessità o meno di una nostra entrata
in guerra. D’altronde, se c’era
chi vedeva nella guerra l’ostetrica della rivoluzione, come i sindacalisti rivoluzionari di discendenza soreliana, vi era anche chi,
come, ad esempio, Enrico Corradini, già direttore del giornale
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
nazionalista Il Regno, giudicava il
conflitto un’arma straordinaria
per arginare proprio il socialismo e garantire un ritorno all’ordine pubblico, oltre che una manifestazione della “coscienza
guerresca da opporre alla coscienza pacifista”4. A ciò si aggiungano le sirene formidabili,
rappresentate da Trento e Trieste, irredente e viste quasi in un
alone mistico-mitologico da
molti intellettuali5, per capire
che il quadro, alla vigilia del
“maggio radioso” era tutt’altro
che monocromo. Già nel 1909, il
creatore del Futurismo, Filippo
Tommaso Marinetti, proclamava Trieste: “Faccia purpurea e
violenta dell’Italia, rivolta verso
il nemico (...) nostra unica polveriera!”, scagliandosi contro tutti
coloro che riteneva essere d’ostacolo al naturale espandersi
delle razze: passatisti, avveniristi
e internazionalisti. Il violentissimo e bellicoso linguaggio antiaustriaco di Marinetti lasciò il
segno, e fu il modello, insieme a
quello di Gabriele D’Annunzio,
della pubblicistica interventista.
Questo richiamo alla guerra come turbine ed accelerazione della storia, contrapposto alla staticità di una società liberale, inchiodata ai propri principi, dettati, in sostanza, dalla vigliaccheria, animò il pensiero di molti
pensatori di quegli anni, e fiorì in
gran parte sulle pagine di quelle
riviste nuove, come La Voce di
Giuseppe Prezzolini (che la Bi-
blioteca di via Senato conserva
nei suoi fondi), su cui un filosofo
del calibro di Giovanni Amendola ebbe a scrivere: “Ma gli uomini, nonostante sappiano che
dalla guerra non avranno vantaggi materiali, continuano a
prepararsi alla guerra, e c’è da
prevedere, senza esser profeti,
che si combatteranno per l’avvenire, come si son combattuti per
il passato. Ciò vuol dire che gli
uomini preferiscono i mali della
lotta, e il rischio, e il dolore, ed
anche la morte, a quello stato di
pace in cui tutta la vita fosse dominata da motivi economici e regolata saggiamente in base al
tornaconto...”6. Come si può vedere, era largamente diffuso, ne-
55
gli anni che precedettero la
guerra, un sentimento di ribellione per quelle regole di vita che
il Positivismo aveva introdotto, e
che venivano considerate come
espressione di materialità e, infine, di panciafichismo. Non a caso,
allo scoppio delle ostilità, Amendola avrebbe lasciato l’università
di Pisa, per partire volontario,
insieme a moltissimi altri intellettuali come lui. D’altra parte,
era ben chiaro a molti il fatto che
questa guerra non sarebbe stata
come tutte le altre: che avrebbe
rappresentato una cesura netta
tra il vecchio mondo nato dal
congresso di Vienna e un mondo
nuovo, misterioso e terribile, ma
anche straordinariamente affa-
Giornalisti italiani in Libia: Marinetti, Ezio Maria Gray, Enrico Corradini,
Castellini, da L’Illustrazione italiana n° 48 del 26 novembre 1911
56
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
Accanto da sinistra: Giovanni Papini
(1881-1956) e Giuseppe Prezzolini
(1882-1982). A destra: Giovanni
Amendola (1882-1926)
scinante. E non parteciparvi
avrebbe significato perdere una
grande occasione per plasmare il
futuro dell’umanità. Giuseppe
Prezzolini, scrisse su La Voce del
26 agosto 1914 (si noti la data)
parole fondamentali per comprendere questo punto: “Il mistero della generazione di un
nuovo mondo europeo si compie
(...) ed il parto avviene tra rivi
mostruosi di sangue e gemiti che
fanno fremere. (...) Ci darà la
guerra quello che molti delle nostre generazioni hanno atteso da
una rivoluzione?”. Eppure, nelle
stesse pagine, proprio Prezzolini
postula l’esistenza di un’ulteriore possibile vigliaccheria: l’entrata in guerra per comodità, in
linea con quanto abbiamo scritto
poco sopra, a proposito della
tendenza sabauda ad approfittare delle contingenze per fare il
proprio interesse. Questo rispecchia perfettamente un certo
atteggiamento incline al mer-
canteggiare, che caratterizzò
l’attività diplomatica italiana di
quei mesi, tra Intesa ed Alleanza,
in una sorta di asta sulla nostra
entrata in guerra con l’Intesa o
sulla neutralità, che avrebbe avvantaggiato gli Imperi Centrali.
Ebbene, Prezzolini rifiuta le ragioni della convenienza: “Andiamo con l’idea che è dovere andare, non con l’idea che mette conto
andare. Siamo guerrieri e non
mercanti...”. Quindi, anche all’interno dello schieramento interventista, sono necessari numerosi distinguo: da un lato potremmo collocare le ragioni della mente e dello stomaco, che vedevano nella guerra la possibilità
concreta di ottenere (anche solo
restando neutrali) consistenti
cessioni territoriali dall’AustriaUngheria.
Dall’altro, però, vi era una
fortissima tensione eroica, che
nasceva da una generazione allevata nel culto degli ideali risorgi-
mentali, ma che non aveva mai
avuto l’occasione di mettersi alla
prova. Per costoro, la Grande
Guerra divenne un palcoscenico
formidabile: un’incudine su cui
temprarsi o bruciare. D’Annunzio, tra i primi, salutò lo scoppio
delle ostilità come una liberazione. L’occasione era venuta. Finalmente, la guerra!7 Proprio
così salutò il conflitto immane
Giovanni Papini, in una pagina
de Lacerba, dell’autunno 1914:
“Finalmente è arrivato il giorno
dell’ira dopo i lunghi crepuscoli
della paura. (...) E’ finita la siesta
della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia e della pacioseria.”. Erano dunque completamente impazziti, tutti questi scrittori, che inneggiarono
entusiasticamente al massacro e
alla battaglia? In un certo senso,
sarebbe meno inquietante per
noi pensare ad una sorta di follia
collettiva: e, leggendo certe
espressioni di Papini, come
quelle sui vantaggi per l’agricoltura derivanti dalla concimazione coi cadaveri dei campi, verrebbe da pensarlo. Eppure, a
parte i paradossi e le provocazioni, dobbiamo ammettere che vi
fu, nell’amore per la guerra dei
cantori dell’intervento, soprattutto una reazione feroce e, a
volte, scomposta, ad una vita
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
senza eroismo. Crediamo che la
sciagurata frase di Bertolt Brecht
sul bisogno di eroi sia una delle
peggiori idiozie che mai letterato abbia concepito (e Dio sa se ne
hanno concepite!). Una Nazione non può vivere a lungo senza
eroi: ne ha bisogno per riconoscersi e per sentirsi viva. E gli
eroi più sacri e più disinteressati
non possono che essere i martiri
guerrieri: altrimenti, si cerca di
fabbricarsene di deteriori, e si arriva a definire eroe un calciatore o
un fotomodello. Dunque, gli interventisti arrabbiati non erano
pazzi. Semmai erano invasati: ed
è cosa affatto diversa. Nessuno si
sognerebbe di dire che Leonida
fosse matto come un cavallo:
perché lo si dovrebbe pensare di
Marinetti o di Prezzolini? A questo si aggiungano le spiegazioni
razionali, fornite dal filosofo
Giovanni Gentile, neoidealista
e, naturalmente, favorevole alla
guerra, che, in una conferenza
palermitana dell’ottobre 1914,
così si espresse a proposito della
guerra come atto assoluto: “La
guerra non è il conflitto di un
NOTE
1
Gli incidenti di Fascioda (la cosiddetta “guerra di Fascioda” 1898-1906) tra
Gran Bretagna e Francia e di Agadir (1911)
tra Francia e Germania
2
Si chiamò così lo spirito di rivincita
(“revanche”) radicatissimo in Francia dopo la sconfitta del 1870 e la perdita di Alsazia e Lorena)
certo numero di Stati. Questo è
bensì un carattere necessario,
ma uno solo dei caratteri di essa;
e non è né anche l’urto di due
tendenze o forze della politica
mondiale (...) Non è adunque,
soltanto, una crisi economica,
giuridica e politica (...) Si tratta,
si badi, come sempre, di uno
sforzo in cui tutto, il Tutto, è impegnato: di un atto assoluto. (...)
Il nostro supremo e in questo
senso il nostro unico interesse.”.
Gentile non si limitò a descrivere l’essenza della guerra, ma affrontò, nella medesima circo-
3
Dopo gli accordi segreti di Plombières (1858), Napoleone III affiancò il Piemonte nella seconda guerra d’indipendenza
4
Parole pronunciate in un discorso a
Savona, nel dicembre 1913
5
Si tenga presente l’enorme amplificazione propagandistica del fenomeno
irredentista, che ebbe, viceversa, propor-
57
stanza, il problema cardinale per
un intellettuale di quegli anni:
“E dobbiamo noi, uomini di
pensiero e di studio, gridare
guerra o pace ai popoli, supposto
che questi possano ascoltare la
nostra voce?”.
La prima cosa che il filosofo
disse essere il dovere di un pensatore è “tacere”: porsi umilmente di fronte alla grandezza
degli avvenimenti e non unire la
propria voce al coro schiamazzante dei soloni da quattro soldi,
sempre pronti a spiegare quale
sia il bene della Patria. La seconda è accettare la necessità ineluttabile della guerra e guardare al
nemico senza odio, come ad un
fratello che condivida con noi il
compimento di un dovere supremo, cui tutti, intellettuali in testa, devono concorrere. E gli intellettuali interventisti concorsero ampiamente al compimento di questo dovere, facendo, anzi, a gara per chi raggiungesse il
fronte per primo. Insieme a loro,
paradossalmente, partirono volontari anche molti neutralisti:
ma questa è una storia diversa.
zioni piuttosto modeste, sia in Tirolo che
nella Venezia Giulia
6
2 marzo 1911, nella recensione del libro di N. Angell The great illusion
7
Je ne suis plus en terre d’exil,/je ne
suis plus l’étranger à la face blême,/je ne
suis plus le banni sans arme ni laurier.
58
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
BvS: Fondo Letteratura ’900
Il risotto alla milanese
di Carlo Emilio Gadda
Un viaggio tra petrolio, letteratura e gatti selvatici
MASSIMO GATTA
N
on t’inganni il titolo,
caro lettore e cultore
del Carloemilio nazionale; abbiamo voluto prenderci,
come suol dirsi, una certa libertà
espressiva, simbolica e centripeta
per ragionare insieme intorno ad
un piccolo classico gastronomico-letterario del nostro secondo
Novecento, con al centro appunto il Carloemilio, scrittore di universale fama e prestigio, e una sua
ricetta, o rècipe com’egli amava
indicarla, tipicamente milanese.
Ragionamento che parte da un
suo libro (tra l’altro impreziosito
da una dedica al critico Giancarlo
Vigorelli) conservato presso la
Biblioteca di via Senato, la raccolta Verso la Certosa (stampata
nel 1961 da Riccardo Ricciardi),
che contiene questa ricetta.
Ma che c’entra quindi il petrolio? sento chiedere a voce bassa da
più parti. C’entra, c’entra eccome. Petrolio non come condimento minerale ed esiziale nel suo nerume untuoso e repellente, viscido prodotto e scaturigine dell’industrializzazione più arrogante,
alimento principe di macchine,
motori e meccanismi perfetti, untume mellifluo produttore di ricchezze. No, il petrolio c’entra ma
per altre vie, altri percorsi mentali e letterari. C’entra come scaturigine, avvio, abbrivio dell’intera
gaddiana rècipe gastronomica.
Quel Petrolio, infatti, è anche immagine riflessa che filtra comunque nella nostra breve disanima;
s’insinua prepotente perché quel
Petrolio è il titolo dell’ultimo,
tragico e incompiuto libro1 che
Pier Paolo Pasolini stava scrivendo prima d’essere assassinato all’idroscalo di Ostia nel ‘75, e qui
convocato perché anch’esso scaturito dalla medesima radice industriale, da cui prese l’abbrivio la
ricetta gaddiana, che andiamo a
rievocare anche per la sua straordinaria valenza letteraria. Radice
industriale che ha un nome e cognome, Enrico Mattei e la sua
creatura: l’Eni, l’ente nazionale
idrocarburi che ebbe il grande
merito di avere aperto le sue porte
blindate a tanti scrittori, artisti e
intellettuali che per esso scrissero
e operarono a livello culturale
cercando, e riuscendovi, di coniugare le “due culture”, di cui in
quegli stessi anni aveva scritto
Snow. E nel libro di Pasolini la figura e la tragica morte di Mattei
ritorna con tutta una serie di ipotesi che il poeta andava tessendo
intorno all’ambigua figura di Cefis, sul quale si era ampiamente
documento attraverso un raro
volume di Giorgio Steimetz2, le
cui fotocopie gli erano state rega-
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
59
Da sinistra: ritratto di Carlo Emilio Gadda contenuto nel volume Verso la Certosa (Milano, Biblioteca di via Senato),
opera di Leonetta Cecchi Pieraccini; prima pagina con dedica di Carlo Emilio Gadda al critico Giancarlo Vigorelli
late dallo psicanalista Elio Fachinelli. E sento altre voci soffuse
che chiedono ancora Ma cosa c’entra Enrico Mattei, presidente dell’Eni anch’egli assassinato in circostanze misteriose, con il risotto del Carloemilio e con il libro di PPP? C’entra, c’entra eccome amico lettore,
ma abbi un poco di pazienza e cercherò di collegare i fili per tessere
una piccola storia, con al centro la
prosa barocca e succosa di umori
del grande milanese, e ai bordi i
tanti risvolti industriali che fecero da corollario a questa e ad altre
vicende letterarie.
Dunque veniamo al risotto,
che è poi il fulcro del nostro articoletto. Carlo Emilio Gadda era
notoriamente un amante di fornelli, cotture e cibi; di ingredienti
e piatti tipici, ma anche di una
sontuosa ritualità nel descrivere
tempi e modi, forme e sapori, cotture, ingredienti, tipologie, amalgamando il tutto come mantecando quello stesso riso protagonista della nostra piccola storia.
Tutto nasce nel gran teatro allestito da Enrico Mattei per dotare
l’Eni di un supporto letterario,
che fosse però anche veicolo informativo delle scelte e degli
obiettivi aziendali. Quello che in
gergo è l’house organ di una azienda lui lo volle però popolare, leggibile, destinato a tutti gli operai,
non solo ad una élite com’era ad
esempio l’house organ della Esso
Standard Oil: levigato, sontuoso,
elitario, inaccessibile alle classi
meno abbienti. Mattei, al contrario, volle un periodico che fosse
insieme elegante e popolare, accessibile e documentato, ricco e
letterario senza essere esornativo, decadente, blasé. Pensò quindi, altra sua eccellente intuizione,
di affidarne la direzione non a un
freddo dirigente, a un tecnico, ma
un poeta, a un grande poeta come
60
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
Da sinistra: copertina della raccolta di Carlo Emilio Gadda, Verso la Certosa, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi, 1961
(Milano, Biblioteca di via Senato); Incipit di Risotto Patrio. Recipe (p. 124 di Verso la Certosa); altra pagina di Risotto Patrio.
Recipe, dal volume Verso la Certosa
Attilio Bertolucci, padre dell’altrettanto noto Bernardo, regista
di Ultimo tango a Parigi. E lo stesso Attilio Bertolucci racconterà la
nascita e lo sviluppo di questo
straordinario periodico dell’Eni
il 28 gennaio del 1989 all’Archivio storico Eni.3 Il nome scelto,
“Il Gatto Selvatico”, riprendeva il
termine anglosassone “Wildcat”
che, in ambito petrolifero, indica
il pozzo esplorativo. Il periodico
dell’Eni si inseriva in un lungo e
affascinante filone di editoria
aziendale nel quale erano presenti altri importanti periodici di
analoga finalità, come “Civiltà
delle Macchine”, “Comunità”,
“Pirelli”, “La botte e il violino”,
tutte espressioni di aziende attente non solo ai bisogni industriali,
tecnologici e di marketing, ma
anche a quelli culturali: Olivetti,
Iri, Pirelli, Finmeccanica.
Lo scritto di Gadda di cui
parliamo, Risotto alla milanese,
venne infatti pubblicato sul n. 10
de “Il Gatto Selvatico” dell’ ottobre del 1959 (anno V, p. 16)4; rappresentando quasi una liturgia
linguistico-gastronomica dove
gli ingredienti, i tempi, le modalità e gli oggetti cucinieri interagiscono, rilucendo in una prosa
barocca di perfetta armonia letteraria, e offrendo al lettore uno degli esiti più alti della prosa gastronomico-narrativa del nostro Novecento, dove i libri di Gadda, come ben sottolineato da Pietro Citati, “[…] sono delle immense costruzioni, che raccontano di tutto, parlano di tutto, si estendono
da tutte le parti, sfidano ogni limite; e poi, improvvisamente, la
costruzione si interrompe, e ri-
mangono delle grandiose rovine”.5 Fortunatamente lo scritto
gaddiano è stato di recente ristampato dall’Eni in una elegante
raccolta, insieme ad altri dieci
racconti pubblicati su “Il Gatto
Selvatico”6, mentre una bella antologia di scritti della rivista, curata da Paolo Di Stefano, ha ulteriormente focalizzato l’attenzione su questa esperienza letterario-aziendale durata ben 9 anni
fino al 1964, a partire dal primo
numero del luglio del 1955.7
Gadda in molti dei suoi capolavori, da La cognizione del dolore a Quel pasticciaccio brutto de via
Merulana, dall’Adalgisa fino a Le
meraviglie d’Italia (dove venne
appunto ristampato Risotto alla
milanese), si è intrattenuto con i
cibi, le ricette8 (milanesi e romane), le preparazioni, le dosi, i pia-
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
ceri della tavola e del ventre, la liturgia insieme magica e onirica
del cucinare. Il grande Aldo Buzzi, nel capitolo Piccione ripieno di
quel capolavoro assoluto che è il
suo L’uovo alla kok9, ricordava le
continue incursioni Carloemilio
gaddiane nei mondi insieme numinosi e ctonii del cibo e della
cottura, degli ingredienti e delle
dosi. A proposito di dosi, infatti,
Buzzi riteneva che la dose di zafferano prescritta da Gadda nella
sua ricetta fosse eccessiva, e così
NOTE
1
Pier Paolo Pasolini, Petrolio, Torino,
Einaudi, 1992; ultima edizione, a cura di
Silvia De Laude e una nota filologica di Aurelio Roncaglia, Milano, Mondadori, 2008
[Oscar narrativa, 1900].
2
Giorgio Steimetz, Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente, Milano,
AMI, 1972; ristampato da Effigie, Milano
2010.
3
Attilio Bertolucci racconta “Il Gatto
Selvatico” all’Archivio storico Eni 28 gennaio 1989, ora in Inedita Energia, Roma,
Eni, 2008.
4
Cfr. Rino Pensato e Antonio Tolo, Lo
scaffale del gusto. Guida alla formazione
di una raccolta di gastronomia italiana
(1891-2011) per le biblioteche, contributi
di Tullio Gregory e Massimo Montanari,
Bologna, Editrice Compositori, 2011, p.
154, scheda n. 528; cfr. anche Viaggio in
Italia. Un ritratto del paese nei racconti
del “Gatto Selvatico” (1955-1964), prefazione di Paolo Di Stefano, Milano, BUR
Rizzoli, 2011, p. 25. La ricetta gaddiana
verrà poi ristampata nell’Agenda Vallec-
61
scriveva: “[…] due cucchiaini da
caffè per otto persone; ridotta
poi, “per stomaci timorati”, a due
cucchiaini rasi”.10 Ricordiamo infine che la ricetta del Carloemilio
è stata analizzata e paragonata alla corrispondente dell’Artusi, in
un dettagliato studio a cura del
Seminario di italiano dell’Università di Friburgo in Svizzera,
poi pubblicato nel 1975 dalla Juris Verlag di Zurigo11. In esso veniva giustamente sottolineato
che in Gadda “[…] la preparazio-
ne del risotto non è prescritta, è
narrata”, parole alle quali Aldo
Buzzi faceva seguire questo commento: “[…] lì sta la fondamentale differenza”.12 Una ricetta,
quindi, diventata un’autonoma
operetta narrativa, e di recente ricordata anche da Gianluca Montinaro a proposito della trattoria
“Fulmine” di Trescore Cremasco (CR), dove il profumo e il ricordo gaddiano aleggiano nell’aria e nelle pietanze di questo sopraffino luogo gastronomico.
chi (31 gennaio 1961), quindi nella raccolta Verso la Certosa (Milano, Ricciardi,
1961, per la quale vedi Gioia Sebastiani,
Catalogo delle edizioni di Carlo Emilio
Gadda, con un saggio di Giulio Ungarelli e
una piccola antologia “editoriale” gaddiana, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro,
1993, pp. 28-29, scheda A XVI; ultima ristampa della ricetta in Verso la Certosa, a
cura di Liliana Orlando, Milano, Adelphi,
2013) ma con il titolo Risotto patrio. Rècipe, e infine in Carlo Emilio Gadda, Le meraviglie d’Italia. Gli anni, Torino, Einaudi,
1964, ultima edizione con nota ai testi di
Liliana Orlando, Milano, Garzanti, 2003.
5
Pietro Citati, Nel pentolone magico di
Gadda, «Corriere della Sera», 31 dicembre
2012, pp. 28-29. Nell’articolo del grande
critico viene ristampato parte dello scritto
Risotto alla milanese. Cfr. anche Cristina
Battocletti, Il risotto e i marron di Gadda, «Il
Sole 24 Ore», 4 settembre 2011, p. 34.
6
Carlo Emilio Gadda, Risotto alla milanese, in Inedita Energia, Roma, Eni, 2008.
7
Cfr. Viaggio in Italia. Un ritratto del
paese nei racconti del “Gatto Selvatico”
(1955-1964), prefazione di Paolo Di Stefano, Milano, BUR Rizzoli, 2011. Scritti di
Banti, Bassani, Berto, Bevilacqua, Caproni,
Cassola, Comisso, De Angelis, Dessì, Gadda, Gatto, Ginzburg, La Capria, Manzini,
Parise, Sciascia, Soldati.
8
Cfr. Massimo Novelli, La gran fiera
magnara. Le ricette di Carlo Emilio Gadda,
Torino, Il leone verde, 2003. Il volume è
censito nell’ottimo studio di Rino Pensato
e Antonio Tolo, Lo scaffale del gusto. Guida
alla formazione di una raccolta di gastronomia italiana (1891-2011) per le biblioteche, cit., p. 132, scheda n. 452.
9
Si cita dalla nuova edizione riveduta e
ampliata, Milano, Adelphi, 2002.
10
Aldo Buzzi, Piccione ripieno, in Id.,
L’uovo alla kok, cit, p. 66, nota 3.
11
Cfr. Una dozzina di analisi di testo all’indirizzo dei docenti ticinesi del settore
medio, Zurigo, Juris Verlag, 1975, pp. 7288. Ringrazio il prof. Uberto Motta dell’Università di Friburgo, per avermi messo a
disposizione il testo.
12
Aldo Buzzi, Piccione ripieno, in Id.,
L’uovo alla kok, cit., p.66.
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
63
L’Altro Scaffale
Bisanzio, la notte
e la musica di ogni tempo
Piccole ma preziose proposte di collezionismo
ALBERTO CESARE AMBESI
U
na quindicina di giorni
addietro mi domandai:
«Volendo trovare qualche inconsueta preziosità musicale, cosa potrebbe offrire l’antiquariato librario, a un prezzo ragionevole?». Risposta forse sorprendente: «Più di quanto ci si
potrebbe attendere e da luoghi
anche non specialistici, inaspettati». A Milano, per esempio,
opera da tempo, in diversi settori
del collezionismo, “Di Mano in
Mano”. Ebbene, fra le sue offerte
più recenti, svetta una terna di
opere di diversa sostanza musicologica, ma che merita una concordante segnalazione, poiché in
grado di suscitare l’interesse, in
tutto o in parte, sia dello specialista sia del cultore degli studi umanistici ed estetici.
Per un’opera come L’Antica
Melurgia Bizantina dello Jeromonaco basiliano padre Lorenzo
Tardo (1883-1967), potrebbe
dirsi, a tutta prima, un testo di
nicchia. Molto di nicchia, tanto
più che si tratta di un volume di
402 pagine scritto con puntuale
Ludwig van Beethoven (1770 – 1827)
erudizione. Eppure, esso riflette
una polemica che ancora non si è
spenta e che potrebbe coinvolgere più di un’intelligenza, sia laicale sia religiosa. Si tratta di questo: volendo ricomporre in modo
vitale la documentazione della
civiltà musicale greco costantinopolitana, quanto valore storico si dovrà riconoscere alla tradizione orale che si è tramandata
nell’area siculo-albanese che è
tuttora praticata, qua e là, nell’al-
veo liturgico? Oppure: non sarà
piuttosto il caso di volgersi allo
studio dei coevi studi teorici, come vorrebbero molti studiosi
mitteleuropei, a cominciare dai
severi cultori della cosiddetta
“Scuola di Copenaghen”? Propendere per l’una o per l’altra soluzione non è questione di lana
caprina, giacché, nel primo caso,
assumerebbe un ruolo d’indispensabile punto di riferimento
la Scuola Melurgica della Badia
greca di Grottaferrata, fondata
da Lorenzo Tardo alla scopo, per
l’appunto, di registrare e sanzionare la validità, dottrinaria ed
estetica, di una affascinante pratica corale che ha avuto la forza di
giungere fino al nostro tempo
pressoché intatta, cioè senza rilevanti compromissioni con altre,
concomitanti esperienze musicali di genere sacro, o profano.
Qualora, invece, si cercasse di
trovare nell’antica trattatistica
bizantina la sicura interpretazione di quella civiltà musicale, indubbiamente si riuscirebbe a
sciogliere ogni dubbio a proposi-
64
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
Pellés et Mélisande, (1902), atto IV, bozzetto di scena di Eugène Ronsin
to di certe intonazioni, sia di dettaglio sia a proposito del concretarsi di talune modalità sintattiche. Ma c’è un ma che si è perpetuato fino ad oggi: il genere di ricerche ora menzionato non è riuscito a decifrare la notazione exfonetica, pur trattandosi di un genere di scrittura che si prolungò
fino al XV secolo. Lacuna per
certi versi inspiegabile, poiché la
parallela notazione paleobizantina, perpetuatasi fino al XIII secolo, bene o male, ha dovuto rivelare la propria struttura. Non resta,
allora, che riapprendere certi
studi comparativi. A partire, per
esempio, proprio dal volume
cartonato basiliano, risalente al
1938 e arricchito, nel testo, da
immagini in bianco/nero. L’esemplare offerto in vendita è integro in ogni parte, ha pagine ingiallite ed è offerto al costo, più
che ragionevole, di 300 euro.
Di nuovo 300 euro è il prezzo richiesto dalla citata libreria
milanese per un’opera musicale
di tutt’altro carattere e di più remota pubblicazione: la Partition
pour chant et piano del 1902 di Pellés et Mélisande, il dramma lirico,
in cinque atti e 13 quadri, composto da Claude Debussy (18621918) su testo del poeta e scrittore simbolista Maurice Maeterlinck (1862-1949). Perché si segnala questo spartito? Perché
edito subito dopo la prima rappresentazione dell’opera avvenuta al Théatre national de l’Opera
Comique di Parigi, il 30 aprile
1902. Si tratta, dunque, di un’autentica preziosità, sia sotto il profilo editoriale (formato antico in
4°, edizione di A.Durand & Fils
éditeurs) sia per quanto può concernere lo studio di un linguag-
gio compositivo che fu attento a
compenetrare la parola poetica e
il suono in maniera che avessero
una voce, parimenti enigmatica,
tanto i personaggi umani, quanto
gli elementi scenici, paesaggistici
e architettonici. L’esemplare posto in vendita ha 283 pagine, come previsto. E’ in buono stato,
ma ha una rilegatura scollata al
dorso e strappo alla cerniera e al
piatto anteriore. Difetti facilmente rimediabili con un’accurata opera d’incollatura, o - meglio ancora - con una robusta rilegatura.
Che dire, infine, di un’opera di 4389 pagine, risalente al
1968, opportunamente divisa in
tre volumi, e per la quale “Di Mano in Mano” richiede 200 euro?
Risposta facile: si tratta di una
realizzazione editoriale non da
poco e di certo contenente più di
un testo. Sotto il titolo di Catalogo
tematico beethoveniano vi sono infatti racchiusi il ragguardevole
schedario che ha dato origine alla
titolazione complessiva, nonché i
Quaderni di conversazione e Le Lettere del Compositore. Una terna
dunque di preziose e varie testimonianze, musicali e biografiche, difficile da trovarsi insieme,
radunate e commentate con
somma cura da Giovanni Biamonte, Georg Schuenemann, e
Emily Anderson. Editore: la ILTE di Torino. L’esemplare è in
buono stato di conservazione, ed
è posto in vendita nel cofanetto e
con la legatura originali, in carto-
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
nato grigio. Da ricordarsi che in
ognuno dei tre volumi sono presenti illustrazioni nel testo e tavole fuori testo, in bianco/nero,
anch’esse ben conservate.
Da Torino a Firenze il passo
è lungo e breve, come suol dirsi
in casi del genere. La Libreria
Antiquaria Gonnelli, infatti, interviene spesso, nel settore musicale, con proposte in grado di suscitare interessi tanto strettamente filologici quanto inerenti
la storia teatrale, anche di là dal
melodramma, quando opportuno. Ne sono eloquente testimonianza una coppia di opere separate, all’incirca, da due secoli e
scritte con intenzioni alquanto
dissimili. La prima, pubblicata
tra il 1774 e il 1775, recita fra l’altro, nel compendio seguente alla
prefazione: «Niuno sarà mai
perfetto Compositore di Musica
senza un pieno possesso dell’Arte
di Contrappunto,siccome niuno
sarà mai perfetto Pittore senza
possesso perfetto del Disegno».
Esortazione di una sorprendente
attualità e che sarebbe conveniente proporre in tutte le scuole
d’indirizzo musicale e/o artistico, in quanto l’autorità del suo
ideatore è fuori di discussione: il
reverendo padre Giovanni Battista Martini (1706-1784), fermo
avversario del contemporaneo
“stile galante” e, come tale, geniale codificatore della tradizione polifonica barocca con diverse
partiture, sacre e profane, e con
la prima e unica edizione del ce-
leberrimo trattato che qui si segnala: Esemplare o sia saggio fondamentale pratico di contrapppunto sopra il canto fermo (…). Parte prima
(e seconda), stampato a Bologna,
alla data indicata, da Lelio dalla
Volpe “impressore dell’Istituto
delle Scienze”. Si tratta, per la
precisione, di un’opera in due tomi in-folio piccolo (mm.
290x210) contenente molti
esempi musicali nel testo, più
una tavola ripiegata nel secondo
volume, contenente una Tavola
per la modulazione che suggerirà
non poche soluzioni future ai
compositori dei tempi posteriori. Mozart compreso. La copia in
vendita presenta una legatura coeva, in piena pergamena e può
dirsi facilmente leggibile dal
principio fino all’ultima riga. Il
prezzo di vendita è stato fissato in
1500 euro.
Altri, come ovvio, completamente altri i motivi d’interesse
di un manoscritto musicale autografo, datato luglio 1963, conteINDIRIZZO E RECAPITI
LIBRERIA DI MANO IN MANO
Viale Espinasse, 99
20156 Milano
Tel. 02.33400800
www.dimanoinmano.it
GONNELLI LIBRERIA
ANTIQUARIA
Via Ricasoli, 6
50122 Firenze
Tel. 055.216835
www.gonnelli.it
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nente Quattro preludi e musiche di
scena per “Fiaccola sotto il moggio”
di Gabriele D’Annunzio, spartito
per flauto, voce e partitura d’orchestra di Adriano Lualdi (18871971), musicista molto discusso
sotto il profilo politico (era stato
deputato al parlamento dal 1929
al 1943), ma compositore non
privo di qualche merito, per
quanto irrigidito in un estremo
accademismo. Forse più nel genere operistico che nella musica
strumentale. In questo lavoro,
comunque, sembra mostrarsi
emulo talentuoso del suo maestro, Wolf- Ferrari, e non di rado
attento a cesellare pagine perfettamente adeguate al testo del Vate. Doveroso sottolineare che
questo manoscritto di 44 pagine
numerate e altre di sintesi, fu
adoperato nell’agosto 1963 a Pescara, al Teatro Gabriele D’Annunzio, in occasione della rappresentazione della Tragedia, nel
centenario della nascita del Poeta. Materialmente, l’opera presenta interessanti correzioni e
cancellature. È scritta con inchiostro nero e rosso, nonché
con matita grigia, rossa e blu.
Ogni pagina include fino a 18
pentagrammi e la conservazione
di tutti i fogli è affidata a una legatura in pelle marrone; sul piatto anteriore si trova scritta la
completa titolazione dell’opera.
Testimonianza di un certo valore, nella storia dello spettacolo in
Italia. Il prezzo: 600 euro, senz’altro equo.
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la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
Filosofia delle parole e delle cose
Il limite assoluto
e la mancanza relativa
Come amare se non da una forma?
DANIELE GIGLI
«I
am you and you are
me/ why’s that such a
mistery» (Believe, in
Are you gonna go my way, 1993).
Se lo dice persino Lenny Kravitz,
qualcosa di vero ci sarà. Nel fatto
che io sono io e tu sei tu, ma
quando ti incontro e mi incendio
tutto di me vorrebbe essere te,
annullare i confini, impastare
ogni grano di quel che io sono
con quel che tu sei. È un desiderio sacro, in cui venerazione della
cosa amata e la deificazione di sé
si rincorrono e intrecciano fino a
confondersi. Lo illustra con una
Maurizio Gallo (1963), Mnemosine, 2011, collezione privata
semplicità disarmante il Pavese
dei Dialoghi con Leucò, quando
nel punto culminante de Le muse
l’ingenuo e appassionato Esiodo
invidia alla dea Mnemosine il dono di essere ciò che si ama, semplicemente
nominandolo:
«Quando parlo con te mi è difficile resisterti. Tu hai veduto le
cose all’inizio. Tu sei l’ulivo, l’occhiata e la nube. Dici un nome, e
la cosa è per sempre» (Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, 1947).
È forse anche perciò, per
questa esperienza sempre risorgente e sempre frustrata di volerci unire all’oggetto del nostro
desiderio – di poter amare semplicemente chiamando e creare
semplicemente amando – che
sempre più noi uomini del ventunesimo secolo tendiamo a rifuggire e odiare la nostra condizione di esseri limitati. Pensiamo
un istante ai nostri giorni, all’umiliazione bruciante che avvertiamo ogni qualvolta ci scopriamo a non saper fare, a sbagliare, a
mancare, e ha voglia il poeta sa-
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la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano
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A sinistra: Mnemosine, II sec. d.C.,
Museo Archeologico di Tarragona.
A destra: Busto di Esiodo (II sec. a.
C.), Londra, British Museum;
ritratto di Cesare Pavese
cro a ricordarci come il venir meno sia connaturale all’uomo, come anzi «chi rifiuta la correzione, disprezza se stesso». Troppa
realtà per poterla accettare,
troppa realtà per l’illusoria somma di illusorie perfezioni umane
con cui al nostro mondo postprotestante piace descriversi.
Perché sempre di una descrizione si tratta, nel pensare il
nostro vivere; e mal ce ne incoglie, in questo pensarci, l’uso
bloccato e perciò confusionario
che facciamo delle parole ereditate. Per quanto possa sembrarci
una questione di sole parole, infatti, di giochi per enigmisti, si
tratta sempre, invece, di parole e
cose, di cose e carne, di carne e
sangue. Perché il limite e la mancanza non sono la stessa cosa. Né
lo sono pienamente la mancanza
e il difetto. E se io uso queste parole come intercambiabili, come
perfettamente sinonimiche, se le
uso così oggi, così domani, così il
terzo giorno, alla fine le subirò
come vuoti involucri, vuote convenzioni da riempire di caso in
caso con l’urto del sentimento.
Ma le parole, come ognuno in
fondo sa, non sono involucri appesi agli oggetti o ai concetti. Ne
sono parte.
Pensiamo al difetto, che ci
indica qualcosa di de-factum, cioè
di mancante, di non compiuto. E
si capisce allora perché ci umili
l’idea di avere dei difetti. Quando il tostapane funziona male,
infatti, non diciamo che è limitato, ma che è difettoso: non indichiamo, cioè, un normale stato
delle cose (certo che il tostapane
è limitato, ha delle dimensioni
ben precise), ma sottolineiamo,
accusandolo, qualcosa che non è
come dovrebbe essere. Com’è
diverso, invece, il concetto di limite! Se chiediamo alla storia
della parola, scopriamo che limite viene da limes, che porta cioè
addosso il senso di confine naturale, essendo a sua volta legato a
limus (obliquo). E qui ritroviamo
Lenny Kravitz e, con lui, la nostra esperienza quotidiana. Chi
siamo quando amiamo? E che
cosa amiamo? Se l’oggetto che
l’amore ci svela misteriosamente
infinito non fosse a un tempo così limitato, confinato, circoscritto, che cosa ameremmo noi?
Senza una forma finita, per chi o
per che cosa bruceremmo di passione? Lo dice Violaine a Pietro
di Craôn: «Se aveste fatto di me a
vostra voglia […] sarei io ancora
la stessa Violaine che amavate?»
(Paul Claudel, L’annuncio a Maria, 1913).
«Non quella, no, ma un’altra», risponde Pietro. Che porta
addosso il peso dei propri limiti,
del non saperla amare come vorrebbe. E che però ha da chiedersi, come noi tutti: ma senza questo limite, senza il confine e la
forma che sono, da dove potrebbe venire, verso che cosa potrebbe andare questo mio desiderio dell’oltre? Senza il meschino qui e ora che io sono, di quale
amore potrei essere soggetto?
Per quale altrove potrei bruciare di nostalgia?
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la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
BvS: il ristoro del buon lettore
I grandi piatti di Ma.Ri.Na
In viaggio per 20 mila leghe con Pino Possoni
GIANLUCA MONTINARO
«L
e grandi profondità
degli oceani ci sono
sconosciute: nessuna sonda ha mai potuto raggiungerle. Che succede in quegli abissi
remoti? Quali esseri abitano e
hanno la possibilità di sopravvivere a venticinque o a trenta chilometri sotto la superficie del mare?». Questi gli interrogativi di
Pierre Aronnax, protagonista del
celebre romanzo di Jules Verne
(pubblicato nel 1870): Ventimila
leghe sotto i mari (libro che la Biblioteca di via Senato conserva
anche nella “Scala d’Oro”). Naturalista e oceanologo, Aronnax
non immagina neppure a quali
meravigliose avventure sarebbe
andato incontro accettando l’imbarco sulla “Abraham Lincoln”. A
caccia di un inquietante mostro
marino avrebbe di lì a poco incontrato l’enigmatico Capitano Nemo e il suo sottomarino: il “Nautilus”. Al fianco di Nemo (uomo dal
vasto sapere) vive un’esperienza
straordinaria. Solcando gli oceani
sul “Nautilus” comprende finalmente il mare e i suoi abitanti. Anche a Olgiate Olona c’è un “Nautilus”; anche a Olgiate Olona c’è
un Capitano Nemo: Pino Possoni, da decenni alla guida del
Ma.Ri.Na
Piazza San Gregorio, 11
Olgiate Olona (Va)
Tel. 0331/640463
Ma.Ri.Na, sosta imperdibile per
tutti coloro che amano la cucina
di mare ad alto livello e desiderano penetrarne il significato. Una
sala raffinata e calda. E «una tavola riccamente imbadita», come
quella che Nemo offre ad Aronnax, accoglie gli ospiti. Eppoi Pino che, come Nemo, «usa senza
esitazione le parole giuste» per
narrare dei suoi piatti e del suo ristorante. Ci si deve abbandonare,
come Aronnax a Nemo, sicuri
che dalla cucina arriveranno presto «piatti squisiti, ognuno ricoperto dalla propria campana d’argento».
«Tra le vivande che ci furono servite riconobbi diverse qualità di pesci cucinati accurata-
mente», ricorda Aronnax. Così
anche al Ma.Ri.Na ove i tanti
piatti raccontano storie di mare e
di onde. Con grazia si muovono
fra il semplice e il complesso. Alfa
e omega possono essere quindi gli
scampi semicrudi serviti su sassi
bollenti al leggero aroma di menta e il polipo con trippa su passata
di ceci, con burrata e pecorino di
fossa (un tripudio di aromi e sapori che riempie la bocca). Oltre che
la sontuosa aragosta cruda con
pomodorini secchi e capperi e i
magistrali gnocchi di ricotta con
carciofi, crostacei e tartufo bianco. Ma si segnalano anche, per gli
amanti della cacciagione, succulente pietanze a base di tordi, frosoni, beccacce e fagiani.
Non si beveva vino sul
“Nautilus”. Solo acqua. Ma al
Ma.Ri.Na non è altrettanto. Davide (figlio di Pino) potrà consigliare un grande Champagne,
magari il Brut Initiale di Jacques
Selosse, complesso e dalla lunga
scia minerale. Seduti al tavolo, intenti a comprendere Nemo e il
suo mondo, si potrà anche riflettere che «rinunciare agli insopportabili obblighi della terra, che
gli uomini credono sia libertà,
non è poi così penoso».
MAL DI GOLA? PUOI PROVARE ZERINOL GOLA.
IL PRIMO IN PASTIGLIE A FARSI IN DUE.
Mal di gola? Eccomi qui. Sono Zerinol,
Zerinol Gola. Sono nato per svolgere due
azioni contemporaneamente, infatti sono il primo
in pastiglie a doppio effetto, anestetico e
antinfiammatorio: rapido addormento il dolore
e, nello stesso tempo, combatto l’infiammazione.
E da oggi puoi trovarmi anche ai nuovi aromi
limone e ribes nero. Insomma, quando hai
bisogno puoi contare pure su di me.
RAPIDO SOLLIEVO DAL MAL DI GOLA.
È un medicinale per il mal di gola a base di Ambroxol, leggere attentamente il foglio illustrativo. Autorizzazione del 18/07/2013
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la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014
HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO
ALBERTO C. AMBESI
MARCO CIMMINO
GIANFRANCO DE TURRIS
MASSIMO GATTA
SANDRO GIOVANNINI
Alberto Cesare Ambesi (1931), scrittore e saggista, ha insegnato storia
dell’arte e semiotica all’International College of
Sciences and Arts e all’Istituto Europeo del Design.
Fra le sue opere si ricordano qui: Oceanic Art (1970),
L’enigma dei Rosacroce
(1990), Atlantide e Le Società esoteriche (1994), Il
panteismo (2000), Scienze, Arti e Alchimia (riedizione ampliata e rinnovata
di un precedente saggio,
Hermatena, Riola, 2007) e
le particolari monografie
Nella luce di Mani (2007) e
Il Labirinto (2008). È stato
critico musicale del quotidiano «L’Italia» e ha collaborato alle pagine culturali de «La Stampa».
Marco Cimmino (Bergamo, 1960). Storico,
membro della Società Italiana di Storia Militare e
socio accademico del
Gruppo Italiano Scrittori di
Montagna, si occupa prevalentemente di Grande
Guerra. Collaboratore Rai,
scrive su molte testate.
Membro del comitato
scientifico del Festival Internazionale della Storia di
Gorizia, è uno dei responsabili del progetto èStoriabus. Tra i suoi saggi più recenti: La conquista dell’Adamello (2009), Da Yalta
all’11 settembre (2010) e La
conquista del Sabotino
(2012), finalista al premio
Acqui Storia 2013.
Gianfranco de Turris ha
lavorato in Rai dal 1983 al
2009, come vice-caporedattore dei servizi culturali
del Giornale Radio. Ha ideato e condotto la trasmissione di approfondimento culturale L'Argonauta, con cui
ha vinto nel 2004 il Premio
Saint-Vincent di giornalismo. Si occupa di politica
culturale da un lato e di letteratura dell'Immaginario
dall'altro, scrivendo di questi argomenti su quotidiani,
settimanali e mensili, nonché su enciclopedie e dizionari, dirigendo riviste e collane, curando l' edizione e
l'introduzione di centinaia
fra romanzi e saggi, e pubblicando una quindicina di
libri. È direttore responsabile della rivista «Antares».
Massimo Gatta (1959)
ricopre l’incarico, dal 2001,
di bibliotecario presso la Biblioteca d’Ateneo dell’Università degli Studi del Molise dove ha organizzato diverse mostre bibliografiche
dedicate a editori, editoria
aziendale e aspetti paratestuali del libro (ex libris).
Collabora alla pagina domenicale de «Il Sole 24 Ore»
e al periodico «Charta». È direttore editoriale della casa
editrice Biblohaus di Macerata specializzata in bibliografia, bibliofilia e “libri sui
libri” (books about books), e
fa parte del comitato direttivo del periodico «Cantieri».
Numerose sono le sue pubblicazioni e i suoi articoli.
Sandro Giovannini
(1947), poeta e saggista,
collabora a vari quotidiani
e riviste. Con il Centro Studi Heliopolis (costituito nel
1985) porta avanti un’esperienza d’indagine sulle
tecniche dell’antico confrontandole, in chiave
creativa, con le logiche di
ricerca contemporanea
(poesia concreta, poesia
visiva, mail-art, istallazione, performance). È stato
fondatore e redattore della
rivista «Letteratura-Tradizione». Fra le sue pubblicazioni: Atemporale (1985);
Carme si-no (1986); Il piano inclinato (1995); L’armonioso fine (2005); Poesie complete (1960-2006).
...come vacuità e destino
(2013).
LUIGI MASCHERONI
GIANCARLO PETRELLA
GIOVANNI SESSA
DANIELE GIGLI
GIANLUCA MONTINARO
Luigi Mascheroni ha
lavorato per «Il Sole24
Ore», «Il Foglio» e, dal 2001,
per «il Giornale».
Scrive soprattutto di
Cultura, Spettacoli e Costume. Ha una cattedra di
Teoria e tecnica dell’informazione culturale all’Università Cattolica di Milano.
Fra i suoi libri, il pamphlet
Manuale della cultura italiana (2010) e Scegliere i libri è un’arte. Collezionarli
una follia (2012). Sta lavorando a un saggio sui plagi
letterari e giornalistici. È
fra i fondatori del blog
“Dcult” (difendere la cultura): http://www.dcult.it/.
Dal 2011 ha un videoblog,
primo in Italia, di videorecensioni: http://blog.ilgiornale.it/mascheroni.
Giancarlo Petrella insegna discipline del libro
presso l’Università Cattolica di Milano-Brescia. Si occupa di letteratura geografico-antiquaria fra Medioevo e Rinascimento (L’officina del geografo. La Descrittione di tutta Italia di Leandro Alberti e gli studi geografico-antiquari tra Quattro e Cinquecento, 2004) e
di storia del libro a stampa
fra Quattro e Cinquecento
in numerosi articoli e monografie (fra cui l’ultimo
L’oro di Dongo ovvero per
una storia del patrimonio librario del convento dei Frati
Minori di Santa Maria del
Fiume, 2012). Collabora
con il «Giornale di Brescia» e
con la «Domenica del Sole
24 ore».
Giovanni Sessa (1957),
è docente di filosofia e storia nei licei, già assistente
presso la cattedra di Filosofia politica della facoltà di
Scienze Politiche della Sapienza di Roma e già docente a contratto di Storia delle
idee presso l’Università di
Cassino. Numerosi sono i
suoi scritti, alcuni dei quali
apparsi sulle riviste «Letteratura-Tradizione»; «Palomar» e «il Borghese». Fra i
suoi volumi si ricordano:
Trascendenza e gnosticismo inE. Voegelin, Caratteri gnostici della moderna
politica economica e sociale; Il maestro della Tradizione. Dialoghi su Julius
Evola.
Daniele Gigli (Torino,
1978) lavora nella conservazione dei beni culturali.
Studioso di T.S. Eliot, ne ha
curato alcune traduzioni,
tra cui quelle di The Hollow
Men (2010) e Ash-Wednesday, di imminente uscita.
Ha pubblicato le plaquette
Fisiognomica (2003) e Presenze (2008) e sta attualmente lavorando al libro
Fuoco unanime.
Gianluca Montinaro
(Milano, 1979) è docente a
contratto presso l’università IULM di Milano. Storico
delle idee, si interessa ai
rapporti fra pensiero politico e utopia legati alla nascita del mondo moderno. Collabora alle pagine culturali
del quotidiano «il Giornale».
Fra le sue monografie si ricordano: Lettere di Guidobaldo II della Rovere (2000);
Il carteggio di Guidobaldo II
della Rovere e Fabio Barignani (2006); L’epistolario
di Ludovico Agostini (2006);
Fra Urbino e Firenze: politica
e diplomazia nel tramonto
dei della Rovere (2009); Ludovico Agostini, lettere inedite (2012); Martin Lutero
(2013).
LUCA PIETRO NICOLETTI
Luca Pietro Nicoletti,
storico dell’arte, si interessa di arte e critica del Secondo Novecento in Italia
e in Francia. Ha pubblicato: Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un
editore italiano a Parigi
(Macerata 2013).
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