danzamovimentoterapia e psicologia clinica: un

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Vincenzo Bellia, Jenna Colombo
DANZAMOVIMENTOTERAPIA E PSICOLOGIA CLINICA:
UN’INTERVISTA
Il testo di quest’intervista a Vincenzo Bellia, effettuata per iniziativa e a cura di Jenna Colombo
(nel contesto della ricerca confluita nella sua tesi di laurea magistrale in psicologia clinica), ci
sembra in questo momento di particolare attualità. A sei mesi di distanza dall’approvazione parlamentare della legge 4 del 2013, che disciplina le professioni non regolamentate in ordini o collegi,
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il dibattito che fa da cornice ai processi di normazione di alcune professioni in particolare è quanto
mai acceso e partecipato, e talora inevitabilmente assai meno lucido e spassionato.
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Negli ultimi vent’anni è stato pressoché sterminato il numero di tesi di laurea aventi per oggetto la
Danzamovimentoterapia (Dmt) e le arti terapie: in Psicologia, Scienza dell’Educazione, Tecnica
della Riabilitazione Psichiatrica, Scienze sociali, ma anche Medicina, Scienze Motorie, DAMS e
altre facoltà ancora. Un siffatto interesse, trasversale a campi disciplinari così eterogenei (per intenderci anche di area sanitaria, oltre che educativa, artistica, socio-antropologica), la dice lunga su
quanto le arti terapie si collochino in un’area epistemica e operativa di confine.
L’area della salute, come più volte sottolineato negli ultimi decenni dai documenti ufficiali della
WHO (World Health Organization), è più ampia dell’ambito sanitario. La salute, che non si riduce
ad assenza di malattia, è una condizione dinamica di benessere che riguarda la pluralità delle dimensioni dell’esistenza personale e sociale; una condizione prodotta e mantenuta con il concorso
di una pluralità di attori e di competenze, afferenti a campi disciplinari eterogenei: sanitario, sociale, economico, ambientale, culturale, antropologico, educativo, artistico…
Su alcune condizioni di disagio psicopatologico e/o della convivenza sociale, poi, è possibile intervenire con successo solo mediante programmi multimodali dei quali è d’obbligo che facciano parte
attori e competenze anche di ambito extra-sanitario. Nuocerebbe assai alla salute della comunità (e
in particolare di alcuni suoi componenti) se la miopia di una logica corporativa e lobbistica risolvesse il rapporto tra le professioni all’insegna della separatezza e dell’esclusione, invece che nella
prospettiva della sinergia e dell’interconnessione.
La comunità professionale e intellettuale psicologica, non certo tenera sulle invasioni di campo, ha
sempre mostrato nei confronti delle arti terapie un interesse autentico, equilibrato e… ricambiato,
visto che molti elementi del sapere psicologico stanno alla base della formazione nelle arti terapie
e che gli arti terapeuti non si sognano nemmeno lontanamente di fare psicoterapie “di sponda”. Su
una base di chiarezza teoretica e professionale, la ricerca di ponti e sinergie non minaccia nessuno.
Ci auguriamo che questa breve intervista possa contribuire a chiarire il nostro cammino in tal senso.
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Secondo la sua esperienza qual è l'utilità di integrare il lavoro della danzamovimentoterapia
(Dmt) con la terapia psicologica tradizionale?
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La Dmt incontra le persone al livello sensomotorio di organizzazione dell’esperienza psichica e
relazionale. È un livello accessibile anche con persone con caratteristiche e problematiche assai
diverse: dalla disorganizzazione psicotica, al ritardo mentale, al fundus alexitimico di tanta patologia psicosomatica, ai disturbi della condotta… sono tutte condizioni nelle quali le capacità simboliche e l’interazione verbale vengono in diversa misura compromesse. La Dmt, e più in generale un
approccio che vede protagonista il corpo in azione, permette di raggiungere la persona e i suoi processi (psichici) di organizzazione dell’esperienza a un livello pre-simbolico. L’integrazione con la
psicoterapia consente poi di mettere in opera un programma di cura in cui la Dmt svolge una funzione di facilitazione, di sinergia, di amplificazione e di velocizzazione degli effetti terapeutici. Ritengo però che sia necessario operare in setting distinti e articolati, evitando di “pasticciare” nello
stesso setting elementi di Dmt e di psicoterapia.
Come rispondono le persone quando gli viene proposta una forma di terapia di questo tipo,
così differente da come siamo abituati a pensare il sostegno psicologico?
Quali persone? Adulti, bambini o adolescenti? Psicotici, isterici o ossessivi? Intellettuali o soggetti
con bassi livelli di istruzione? Occidentali “DOC” o persone di diversa etnia e cultura? Artisti o
ragionieri? Donne o uomini? Credo che la cultura del corpo e della cura dei destinatari sia un elemento discriminante, e che stia al danzaterapeuta formulare un dispositivo operativo idoneo a facilitare l’accesso all’esperienza, in rapporto alle caratteristiche culturali, psicopatologiche, di genere
etc. dei partecipanti.
Quanto è importante la valorizzazione del corpo per consentire il cambiamento e l'uscita dal
sintomo?
Noi non abbiamo un corpo, noi siamo il nostro corpo! Nel corpo alberga il malessere, la nostra vita
è la vita del corpo che siamo, il corpo è il terreno della nostra esperienza emotiva e relazionale. A
volte l’approccio psicologico indulge a una concezione disincarnata dell’esistenza; la Dmt (e l’approccio arti terapeutico più in generale) può aiutarci a ricondurre l’esperienza e il processo terapeutico nel corpo. In realtà, in molte gravi condizioni psicopatologiche una clinica disincarnata risulta
debole o inefficace.
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È possibile sfruttare il sintomo per stabilire il tipo di danzamovimentoterapia più adatto alle
specificità del singolo individuo?
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In Dmt mi convince poco una teoria della tecnica clinica costruita in funzione della nosografia tradizionale, che è strutturata in rapporto a una fenomenologia psicopatologica sviluppata in buona
parte sul terreno del linguaggio verbale. Ritengo che la scelta del tipo di Dmt da proporre (cioè, del
setting da strutturare) sia solo in parte in funzione dei sintomi; per il resto contano molto le autonomie di base dei partecipanti, l’organizzazione psicomotoria, l’affinità soggettiva per il linguaggio
del corpo e della danza…. Può sembrare aspecifico, ma credo che il primo criterio per costruire un
gruppo non debba essere fatto su una base sindromica, bensì sul “vederli bene a danzare insieme”.
Poi ci sono altri elementi: la libera motivazione di ciascun soggetto innanzitutto, la richiesta istituzionale, che spesso porta a strutturare gruppi monosintomatici…
Se per “tipo di Dmt” intendiamo invece uno dei cinque o sei modelli a cui fanno riferimento le undici scuole italiane, a mio parere è vero che, ad esempio, la Dmt-ER® (DanzaMovimentoTerapia
Espressivo-Relazionale) è molto adatta al lavoro con problematiche psichiatriche o alla promozione delle competenze socio-relazionali, o che il Metodo Fux abbia molte frecce al suo arco per operare con i disabili sensoriali… Va da sé che ogni approccio sia particolarmente mirato ai contesti
applicativi in cui si è sviluppato. Penso però che ogni metodologia debba disporre di una convincente teoria della tecnica, in grado di strutturare di volta in volta il dispositivo adatto alle caratteristiche degli utenti e agli obiettivi del lavoro.
Qual è il rapporto diretto tra il suono del tamburo magico e le pulsazioni del cuore dell'individuo?
Premetto doverosamente per l’ignaro lettore che tamburo magico è la denominazione di una specifica tecnica di Dmt-ERÒ, basata sull’attivazione ritmica, sull’interruzione degli schemi abituali e
spesso rigidi di organizzazione dinamico-posturale e sulla stimolazione immaginativa, a metà strada tra immaginazione guidata e immaginazione attiva. Il «Tamburo magico», che prende spunto
dalla tecnica delle positions fantastiques di Herns Duplan, è un richiamo all’immaginario che ha la
potenza del cuore stesso dell’individuo.
La domanda mi sollecita però a spendere due parole sul ritmo, che è il fondamentale organizzatore
dell’esperienza fisica, psichica e relazionale. La fisiologia del nostro corpo è una polifonia di ritmi,
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la vita relazionale è scandita ritmicamente, a partire dal rapporto intrauterino con il cuore materno
e dal dialogo tonico. Anche la psicopatologia, per certi versi, si manifesta con disritmie nel conti26
nuum ideo-affettivo. La Dmt, operando attivamente con la dimensione ritmica, incontra l’essere
umano al livello più profondo dell’organizzazione psicomotoria. In questo senso, la disciplina
dell’Expression Primitive e alcuni indirizzi di Dmt (in particolare la Dmt-ER®, EspressivoRelazionale, e la Dmt Espressiva e Psicodinamica) sono risorse preziose per il trattamento di soggetti assai regrediti o gravemente disorganizzati.
Quanto è importante l'integrazione dei tre livelli interpersonale, individuale e transpersonale?
La Dmt-ER® è una metodologia di Dmt che fa esplicito riferimento all’elaborazione gruppoanalitica (Foulkes 1948, Napolitani 1987). In questo senso non parlerei certo di integrazione tra livelli
interpersonale, individuale e transpersonale, perché tutta l’esperienza del soggetto (Dalal 1998) è
da considerare intrinsecamente relazionale; tanto che, nell’ultima versione del mio «Diagramma di
campo» (Bellia 2007), parlo soltanto di livello transpersonale e interpersonale, distinzione utile
per lavorare, allorché ci si focalizza sulle interazioni attuali (livello interpersonale) ovvero sulla
trama relazionale che emerge in ciascuno o nel gruppo (livello transpersonale).
Sono più efficaci i gruppi misti o quelli omogenei? E quali sono le diversità intrinseche?
Gruppi misti o omogenei in rapporto a che cosa? Alla diagnosi? All’identità di genere? All’età?
Tutti i gruppi hanno un diverso grado di omogeneità e di eterogeneità, in rapporto a diversi parametri, e ciascuna delle due caratteristiche presenta vantaggi e svantaggi. In generale, l’omogeneità
ha il vantaggio di semplificare la costruzione del setting e di focalizzare il lavoro, ma rischia che i
partecipanti si rinforzino tra loro nelle modalità espressive (anche patologiche) che condividono.
L’eterogeneità, per converso, mette in scena la frammentarietà di diversità che rischiano a limite
di non comunicare, ma offre la preziosa risorsa di cambiamento costituita da modelli espressivi
differenziati a cui attingere.
Il livello più importante di omogeneità è, a mio parere, la compatibilità delle modalità di azione e
di espressione, che è la base della possibilità di immedesimazione tra i partecipanti (cioè, sono sufficientemente simili per danzare insieme). Per il resto, ritengo che l’eterogeneità sia una insostituibile potenzialità evolutiva: la Dmt-ER® si offre all’Io come «danza dell’altro».
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È possibile integrare la danzamovimentoterapia con altre forme di arti terapie per favorire
l'interdisciplinarità?
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Si, è anzi una pratica piuttosto abituale: con arte terapia, musicoterapia, psicodramma... Il vantaggio e il senso di questa interdisciplinarità risiede nel fatto che ciascun canale espressivo e ciascuna
pratica artistica permettono di raggiungere modalità diverse dell’organizzazione percettiva, espressiva e rappresentativa.
Le forme dell’integrazione dipendono dai programmi istituzionali, dalle inclinazioni di ciascun
individuo, dagli obiettivi etc. Insisto però sull’opzione metodologica di setting distinti, paralleli e
articolati: cacciare all’interno di un’ora e mezza di laboratorio un miscuglio sincretico di attività di
disegno, movimento, parole e chi più ne ha più ne metta non è integrazione, bensì l’improvvisazione di chi di solito non ha una formazione autenticamente professionale; l’esperienza che ne fanno i
partecipanti è spesso superficiale, confusa, saturante e frammentaria, tutt’altro che terapeutica, a
dispetto della pseudo-creatività di quei conduttori che considero dilettanti.
Quali sono le istituzioni che l'hanno maggiormente appoggiata nel suo lavoro?
Da ex dipendente pubblico, non posso non ricordare con gratitudine quei direttori di dipartimento
di salute mentale del catanese che, con lungimiranza, hanno incoraggiato la pratica della Dmt in
psichiatria, nelle tossicodipendenze, nella formazione relazionale degli operatori socio-sanitari, già
nei primissimi anni novanta, quando in Italia non esisteva ancora neanche un’associazione di professionisti della disciplina. Allo stesso modo apprezzo l’Università della Valle d’Aosta, presso la
quale da alcuni anni intervengo con la Dmt nella formazione degli psicologi. Con l’università di
Catania ho collaborato per alcune tesi e all’interno di esperienze pilota con i pazienti della Clinica
Psichiatrica, con l’Università di Roma Tor Vergata la nostra Scuola di Arti Terapie è stata convenzionata per molti anni.
Tantissime altre ASP, scuole di ogni ordine e grado, carceri, enti locali etc. hanno aperto le porte
in questi anni al lavoro mio, di miei allievi e di tanti colleghi e colleghe. Istituzioni strategiche per
il nostro lavoro sono inoltre le associazioni professionali: per la Dmt ARTE, di cui sono presidente, e APID, di cui sono uno dei tre soci fondatori.
Ma è l’arcipelago sterminato del privato sociale (associazioni di utenti, familiari, volontari, coope-
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razione…) che si è da sempre dimostrato il più sensibile alle nostre pratiche, forse perché, pur gio28
vani e accademicamente poco paludate, risultano piuttosto convincenti nell’incontrare direttamente
i bisogni della gente.
Quali sono secondo la sua esperienza individuale i tipi di disturbi psicologici che reagiscono
in modo più costruttivo alla danzamovimentoterapia e quelli che invece faticano maggiormente ad avere dei riscontri positivi?
La Dmt non a caso è nata in psichiatria, con gruppi di cosiddetti schizofrenici, e nei laboratori con
ragazzi che mostravano quelli che oggi definiremmo disturbi della condotta o da iperattività e deficit dell’attenzione. Aggiungerei la mia positiva esperienza nel campo dei disturbi del comportamento alimentare (per quanto ci sia da operare una fondamentale distinzione tra condizioni in cui
prevale la distorsione dell’immagine corporea e altre in cui è in primo piano il disturbo del controllo degli impulsi). In generale, la Dmt è efficacemente impiegata nelle più diverse forme di disabilità.
Fatta eccezione per l’acuzie depressiva endogena o per lo stato (ipo)maniacale del disturbo bipolare, condizioni nelle quali ritengo poco opportuno l’avvio di un lavoro con la Dmt, non ho in mente
particolari controindicazioni. La Dmt risulta invece inefficace (o addirittura cagiona disagio) quando è “imposta” a soggetti che non hanno voglia di provare o non hanno inclinazione alla danza come modalità espressiva; oppure quando (sembrerebbe ovvio, ma non lo è affatto) la Dmt è proposta secondo schemi rigidi, senza un consapevole e teoricamente fondato adattamento ai casi in questione.
Quanto è importante per promuovere nell'individuo il cambiamento la riscoperta delle proprie origini attraverso le danze etniche?
Per cambiare bisogna prima sapere ed essere ciò che si è. L’identità è innanzitutto il corpo vissuto,
e, come titolavamo un convegno alcuni anni fa, «il corpo naturale non esiste»: il corpo è un palinsesto culturale, e di una cultura la danza traduce e manifesta le movenze e le sfumature. Ecco che
le cosiddette “danze etniche” possono utilmente entrare nello strumentario della Dmt, per vivificare le matrici culturali che sono il terreno delle identità individuali e collettive. Più profondamente
però, trasversalmente a tanta danza etnica, sono le strutture ritmiche della danza a rivitalizzare il
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nucleo costitutivo dell’identità e a costituire il motore dell’evoluzione e del cambiamento. È questa
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in particolare la potenzialità dell’Expression Primitive.
Se le sono state mosse delle critiche durante questi anni da parte della comunità psicologica e
psichiatrica, quali sono?
È una comunità di cui faccio parte: infatti sono psichiatra e psicoterapeuta, lo ero già da prima di
occuparmi di Dmt. In effetti, però, la comunità che riconosco come tale è la comunità sociale, che
vive nelle micro-comunità locali. La distinzione non è pretestuosa: le professioni di aiuto, a rigore,
non sono in sé comunità, bensì funzioni al servizio della comunità sociale, che cura sé stessa e chi
ne fa parte. Non amo il corporativismo autoreferenziale, che mi sembra al servizio del potere e soffoca le potenzialità di servizio. Non a caso sono co-autore di un libro che si chiama “Psicoterapia
di comunità” (Franco Angeli 2010).
Tanti anni fa nel “giro” capitava che la Dmt fosse considerata alla stregua di attività di mero intrattenimento: «far fare quattro salti ai pazienti». Ogni tanto era vero, specie quando operatori non
adeguatamente formati chiamavano la loro attività danzaterapia. Sempre tanti anni fa, alcuni psichiatri americani sostenevano che la Dmt fosse dannosa perché “scatenava i pazienti”. Ogni tanto
era vero, specie quando personaggi non adeguatamente formati operavano senza la necessaria attenzione al contenimento; va detto però che, per taluni psichiatri, che ricordano con nostalgia i
“dementi tranquilli” dei vecchi manicomi, un paziente che recupera vigore e dice la sua “sta male”.
Due obiezioni più serie. La prima è relativa alla ricerca e alla valutazione di esito, che in Dmt è
ancora piuttosto esigua, data la giovane età della disciplina e la pressoché assoluta indisponibilità
di finanziamenti.
La seconda obiezione, recentissima, è mossa dagli psicologi (anche se non direttamente agli artiterapeuti). Con l’approvazione della legge 4 del 2013 anche le nostre professioni esistono legalmente, e per alcune discipline confinanti si adombra una potenziale “invasione di campo” nel settore
psicologico-clinico. Ho fiducia che le cose saranno presto chiarissime: le artiterapie non sono psicoterapie, operano promuovendo il processo creativo e sono utilizzate in ambito clinico solo all’interno di equipe multiprofessionali con qualificata componente medico-psicologica.
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Esistono dei dati in grado di dimostrare l'efficacia di una terapia di questo tipo?
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Le valutazioni di esito sull’efficacia della Dmt e delle altre arti terapie, come dicevo, sono piuttosto frammentarie. Accanto ad alcune ricerche effettuate impiegando test e questionari, la maggior
parte delle indagini sono improntate alla ricerca empirica, e documentano significativi effetti sulle
difficoltà relazionali e sulla sintomatologia psicopatologica. Si stanno sviluppando anche protocolli metodologicamente strutturati sul vertice intersoggettivo.
Al termine delle sedute di Dmt, durante la fase di verbalizzazione, quali sono per i partecipanti gli aspetti più importanti della seduta?
Anche qui, occorrerebbe specificare a quale target di utenza ci riferiamo. Nei gruppi con una preponderanza di cosiddetti psicotici, i partecipanti parlano spesso di generale benessere e piacere,
nonché di “mente libera dai cattivi pensieri”. In gruppi di normodotati o di “normali nevrotici”
viene più spesso rilevato un effetto di rilassamento e di scioglimento delle tensioni.
Ha solitamente la possibilità di verificare se, una volta conclusasi la terapia, le persone che vi
partecipano riescono a trasferire i cambiamenti apportati nel setting terapeutico anche al
loro contesto sociale allargato?
Si, questo è quasi scontato, direi anzi che ciò avviene praticamente da subito, già nelle prime sessioni. Ciò che si sviluppa con il procedere del trattamento è l’incremento della permanenza nel
tempo degli effetti prodotti dall’esperienza.
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