APPORTI ALL'APPROCCIO POSITIVO NELLA PSICOTERAPIA DELLA TERZA ETA': UNA NUOVA VISUALE (Dr.ssa Flavia Albani, Psicologa-Psicoterapeuta-Gerontologa, Ottobre 2012) Monitor on Psychology è una delle riviste edite dall'A.P.A. (American Psychological Association), regolarmente inviata ai Membri associati. Il numero 8 del Settembre 2012 (pp 30-33), riporta un articolo-intervista al neuroscienziato Dr. Richard J. Davidson: “Changing our brains, changing ourselves”. Traduzione letterale: Cambiare i nostri cervelli, cambiare noi stessi. Davidson è professore di psicologia e psichiatria presso l'Università di Wisconsin-Madison e Direttore del Laboratorio di Neuroscienza Affettiva, da molti anni svolge ricerche sugli effetti delle emozioni sul cervello e sostiene che comprendere la neurobiologia dell'emozione può aiutare tutti noi a sviluppare il giusto “stile emozionale” per migliorare le nostre vite. L'intervista1 presenta l'ultimo impegno del Laboratorio di Neuroscienza Affettiva. Nel mese di Marzo 2012 è uscita l'edizione di The emotional Life of Your Brain. Gli Autori, Richard J. Davidson e la scrittrice scientifica Sharon Begley spiegano come la chimica del nostro cervello influenzi il mostro modo di pensare, sentire e vivere – e come si possa cambiare il proprio “stile emozionale”. In generale, molti neuroscienziati da tempo hanno dimostrato che il pensiero e le emozioni viaggiano su circuiti separati del nostro cervello. Tuttavia, studi recentissimi, utilizzando tecniche di neuroimmagine, hanno sfidato le convenzionali nozioni sul ruolo del cervello nelle emozioni. Davidson, in particolare, ha identificato distinti stili emozionali, e la loro connessione a specifici percorsi neurali. Collocare la base dell'emozione in parte nella sede della “ragione”, comporta che la persona ha una maggiore capacità di cambiare rispetto a quanto si pensasse in passato. In questo nuovo lavoro Davidson e Beglay sostengono che noi possiamo “ri-apprendere”, “rieducare”, “migliorare” la nostra funzione cerebrale, in modo tale di diventare più “resilienti”, meno negativi e, significativamente, felici. Ma su questo argomento ci ritorneremo. Infatti, il mio intervento consisterà di quattro punti: 1) Un approccio alla psicoterapia basato sui modelli, un “ponte” concettuale alla psicologia positiva? Riassume l'esito della lettura di un testo che molto ha contribuito alla mia formazione come psicologa e psicoterapeuta. 2) Un nuovo approccio: la psicologia positiva e la psicoterapia positiva. Gli studi di Martin E.P. Seligman, di Daniel Goleman e di Richard J. Davidson. Ripercorre brevemente la nascita della “psicologia positiva” e degli studi di laboratorio delle neuroscienze che hanno contribuito ad avvalorarne l'applicazione preventiva e l'ulteriore passo applicativo della “psicologia positiva” al disagio e alla psicopatologia. 3) Invecchiamento, longevità e qualità di vita. Alcune informazioni su recenti studi sull'invecchiamento, sulla longevità e la qualità di vita: il concetto di riserva cognitiva e di arricchimento cognitivo. 4) L'esperienza con gli Anziani della Casa Albergo. Un esempio di applicazione della psicologia e psicoterapia positiva. Si tratta di una esperienza di volontariato settimanale con alcuni anziani di una Casa Albergo. 1 - Un approccio alla psicoterapia basato sui modelli: un “ponte” concettuale alla psicologia positiva? Verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso (sembra parlare di chissà quanto tempo fa, ma si tratta di tornare indietro di una ventina d'anni), ebbi l'opportunità di poter leggere un volume in lingua inglese, che ritenni veramente interessante per attuare una “buona” pratica individuale alla psicoterapia. Non mi risulta che sia stato tradotto in lingua italiana. Il testo era scritto da: Frederic M. Levine e da Evelyn Sandeen, il titolo: Conceptualization in Psychotherapy: The Models Approach - edito nel 1985 da Lawrence Erlbaum Associates, Hillsdale, NJ. Il Dr. Frederic Levine era professore di Psicologia Clinica e Direttore del Centro di Psicologia della Stony Brook – State University of New York. Questo libro, come sottolineavano gli Autori nella Prefazione, scaturiva dalla insoddisfazione del modo in cui lo psicoterapeuta e i ricercatori clinici pensavano e scrivevano sui problemi clinici. Selezionare un trattamento per un paziente risultava insufficiente quando si volevano evidenziare la gran quantità di informazioni sulle tecniche di trattamento. A quel tempo il processo di concettualizzazione in psicoterapia non era ancora stato discusso in modo adeguato. Le difficoltà emergevano sia dalle diverse Scuole di Psicoterapia (“We are exposed to a wide variety of approaches to treatment with each claiming superiority over the other”), sia dalle categorie diagnostiche di intervento 1 http://www.apa.org/monitor/2012/09/brains.aspx Changing our brains, changing ourselves: Neuroscientist Richard Davidson believes that understanding the neurobiology of emotion can help all of us develop the right “emotional style” to improve our lives. By Lea Winerman Monitor Staff - September 2012, Vol 43, No. 8 1 (a quel tempo si trattava del DSM III – ora si discute sul prossima edizione del DSM V). Gli Autori si proponevano di fornire un modello concettuale di intervento, che riconoscesse invece l'ampia varietà di influenze biologiche e psicologiche sul comportamento umano, che dovevano essere tenute presente nell'approccio psicoterapeutico. Riporto qui di seguito il primo dei casi presentati nel volume, che illustra con chiarezza l'intento degli Autori, rispetto al possibile nuovo modello concettuale di approccio alla persona con un disagio. A 42-year-old married female client enters the therapist's office and describes herself as having a "phobia of leaving the house". She states that she has had various fears since shortly after she was married 20 years ago, but that these feelings of anxiety surrounding leaving her home have become so intense that she has rarely left the house in the last 3 years. How does the therapist go about determining the appropriate treatment for this client? Certainly most therapists would agree that further informationgathering about the woman's situation is necessary. But how does one go about assessment in a systematic manner so that the information obtained can lead to treatment decisions? In the current stage of the development of psychotherapy, the crucial work of selecting a treatment for a particular client is, unfortunately, frequently based on a combination of one of two factors: the diagnostic category into which the client's symptoms fall, and the theoretical predilections of the therapist. Thus, many therapists would diagnose this woman's problems as “agoraphobia”, and, depending on their theoretical affiliation, they would select a treatment popularly acknowledged (within their affiliation group) to be effective with “agoraphobia”. Quale poteva essere l'approccio terapeutico migliore? Ecco ciò che gli Autori scrivevano: Therapeutic approaches The therapist trained in the Freudian psychoanalytic approach may see the woman as suffering from an unconscious conflict about sexuality; since sexual impulses may emerge by being exposed to the outside world, she reduces her anxiety by avoiding going outside. The analytic therapist would select intensive psychoanalysis to make this woman aware of her currently unconscious motivations as the therapy of choice. If the therapist is a medically-oriented psychiatrist, the physical components of the anxiety as well as the woman's suitability for medication will be thoroughly assessed, and the treatment of choice will probably center on medication to combat the anxiety keeping her in the house. To those therapists trained in a Pavlovian classical conditioning approach, the woman is assumed to have had an anxiety-provoking experience out of the house. This has caused her to become conditioned to not only the specific stimuli associated with her trauma, but through stimulus generalization, to other situations occuring outside of the house. Such a therapist would recommend a counterconditioning procedure such as systematic desensitization or in vivo desensitization to treat this problem. The therapist with a Skinnerian-operant approach to therapy may look for the reinforcers that keep this woman in the house. She may hate shopping and her phobia then would serve to help her avoid this unpleasant task; she may have a jealous husband who questions her in great detail after each trip out of the house in an aversive and punishing manner; or in combination with the Pavlovian explanation, she may be reinforced by the anxiety reduction that takes place by avoiding a situation that had previously been associated with anxiety. Thus the preferred treatment of a Skinnerian therapist would be a contingency-management program in which the woman was rewarded for going out of the house while not rewarded for remaining inside. A cognitive therapist would be selectively interested in the woman's dysfunctional cognitions which maintain her fear and avoidance, and would treat her by attempting to change these cognitions to more functional ones. Therefore, a cognitive restructuring program would be instituted with this client. On the other hand, the therapist with a social perspective may ask about the conditions outside of the house; this woman may live in a highcrime area. She may be at real physical risk by leaving the house since her neighborhood is replete with incidents of mugging and rape. This therapist then concentrates on concrete strategies the woman could use to increase her safety. An eclectic therapist may choose some sort of treatment "package" for agoraphobia, including elements of most or all of the above mentioned treatments. Frequently this choice is made by searching the therapy literature for "agoraphobia treatments" and picking one with the greatest researched effectiveness. However, the therapy literature says very little about the type of person who will benefit most from a particular treatment, so this choice would be made independently of specific client characteristics other than symptomatology. This case shows that there is not a single treatment for agoraphobia, since in psychopathology, unlike medicine, accurate diagnosis does not dictate treatment. In fact, we have seen cases of people 2 who fit the diagnostic category of agoraphobia who have met each of the descriptions given above, and responded to the appropriate treatment. It is the role of the therapist to carefully assess the facts surrounding the specific case, and make a conceptualization of what psychological process is producing the symptomatic behavior. Only after an accurate conceptualization has been made can a treatment be effectively selected for an individual. The important question of how to conceptualize in terms that will lead to treatment decisions has been largely ignored. This book is an attempt to guide therapists in the essential task of conceptualization in psychotherapy. (….) This book is a guide to conceptualizing clients' problems in the terms of established psychological principles. Its purpose is to help the therapist go beyond treatment by diagnosis or treatment by ideological predilection and instead, conceptualize cases in a manner which will generate effective points of intervention. Lessi con attenzione le duecento pagine del volume. L'esito di questa attenta lettura furono sei pagine formato tabella, dattiloscritte in carattere di piccola dimensione, che intitolai “Approccio alla Psicoterapia basato sui modelli (Sistema di valutazione che tiene conto della molteplicità delle influenze che vengono esercitate sul comportamento umano), da: Frederic M. Levine; Evelyn Sandeen - State University of New York at Stony Brook”, che mi furono molto utili nel migliorare l'approccio terapeutico al paziente (All. 1).. I modelli funzionali studiati erano i seguenti: 1) Modello biologico 2) Modello del deficit di capacità 3) Modello rispondente 4) Modello operante 5) Modello cognitivo 6) Modello del contesto o controllo sociale. L'assessment poneva la domanda, per esempio: il modello biologico risponde al problema? e si suggerivano diverse possibilità di risposta, e via via la messa in atto di un altro dei sei modelli di approccio proposti o, in mancanza di una risposta positiva da parte del paziente alla terapia, la ricerca di un modello alternativo, ricorrendo a chiare domande di valutazione e obiettivi terapeutici. Vorrei precisare che, con il termine assessment si intende generalmente l’ampia valutazione che lo psicologo clinico e/o lo psicoterapeuta, conduce sul soggetto e sui suoi problemi personali. Si tratta cioè di comprendere ed interpretare i fenomeni comportamentali nella prospettiva della ricostruzione storica delle fasi che hanno condotto alla loro stabilizzazione e alla loro espressione attuale. E' importante distinguere il termine assessment da quello di diagnosi. Diagnosi indica l’insieme dei metodi e delle tecniche attraverso i quali si riconduce un fenomeno complesso (come, per esempio, l’insieme dei sintomi riferiti da un paziente) all’interno di un sistema di classificazione noto, che consenta di prendere decisioni in merito al fenomeno in oggetto (per esempio, quale terapia utilizzare per trattare o guarire il paziente). Il sistema di classificazione più diffuso per catalogare diverse forme di psicopatologia è attualmente il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, 4a ed., DSM-IV-TR (Diagnostic & Statistical Manual of Mental Disorders, Fourth Edition, Text Revision)”. Assessment e diagnosi non sono quindi la stessa cosa, ma in campo clinico l’assessment viene condotto, di solito, per stabilire i meccanismi di funzionamento del paziente ed emettere una diagnosi. Dal punto di vista della teoria della psicoterapia l’assessment viene concepita come la fase che precede l’intervento terapeutico. Possiamo distinguere due momenti nel processo di assessment: la fase iniziale delle prime sedute, che può essere dedicata alla raccolta dei dati necessari per costruire una prima ipotesi sulle caratteristiche del sistema conoscitivo del paziente, e una seconda fase – che dura per tutto il processo terapeutico – in cui lo psicoterapeuta effettua una continua verifica della propria comprensione e delle proprie costruzioni professionali per orientare e ri-orientare le proprie scelte strategiche e tattiche di conduzione della relazione. Nella fase di assessment, terapeuta e paziente stabiliscono anche quella che tecnicamente viene definita alleanza terapeutica, la quale ha ricadute sulla probabilità tanto di condurre un buon assessment, quanto che l’intervento terapeutico vada a buon fine. Nel 1992, gli stessi Autori, si ponevano il problema della possibilità di utilizzare informazioni nomotetiche (in cui i fenomeni vengono studiati secondo regolarità e cercando solo gli elementi generali) per rispondere a quesiti idiografici (in cui i fenomeni sono studiati secondo individualità, cercando solo elementi specifici) nell’ambito di contesti clinici e psicoterapeutici. (F.M. Levine, E. Sandeen, C.M. Murphy, The therapist’s dilemma: Using nomothetic information to answer idiographic questions, Psychotherapy: Theory, Research, Practice, Training, 1992, 29, 410-415). L’assessment, quindi, è un processo a più fasi, che dura il tempo della terapia e che, in contesti clinici, può essere 3 condotto per diagnosticare un disturbo o problema, concettualizzare un caso, programmare un trattamento, monitorarlo e valutarlo Esso “si configura come un vero e proprio processo ipotetico-deduttivo che consente di formulare per ogni singolo paziente programmi terapeutici sufficientemente flessibili da soddisfare la miriade di problemi e ostacoli che si incontrano comunemente durante un trattamento psicologico” [R. Sartori, L’assessment come fase della psicoterapia: un esempio in ambito cognitivo-comportamentale tra approccio idiografico (clinico) e approccio nomotetico (psicometrico), 2010]. 2 - Un nuovo approccio: la psicologia positiva e la psicoterapia positiva. Gli studi di Martin E.P. Seligman, di Daniel Goleman e di Richard J. Davidson. Fin dall'inizio, la psicologia si è occupata prevalentemente di comprendere, analizzare e classificare i comportamenti atipici e patologici degli individui. Obiettivo principale era quello di costruire una psicologia in grado di capire, trattare, curare e condurre i pazienti da uno stato mentale negativo ad uno normale, neutro; oppure, come spiega lo psicologo Martin E.P. Seligman, Professore di Psicologia e Direttore del Positive Psychology Center all'Università della Pennsylvania2 : “Da meno cinque a zero”, dalla nevrosi all'infelicità comune. Da tempo la psicologia ha iniziato a studiare ciò che rende la mente felice, notando che un'attitudine mentale positiva può avere un impatto benefico su molte malattie o addirittura scongiurarle. In ambito psicologico, lo studio del benessere soggettivo ha dato origine al vasto movimento della Psicologia Positiva (Delle Fave A., 2007), le cui attività si sono sviluppate a partire da due prospettive di base: • la prima, definita edonica studia la dimensione del piacere, inteso come benessere prettamente personale e legato a sensazioni ed emozioni positive; • la seconda, detta eudaimonica – studia i fattori che favoriscono lo sviluppo e la realizzazione delle potenzialità individuali e dell'autentica natura umana secondo il concetto aristotelico di eudaimonia (una vita compiuta, in cui le capacità proprie di ciascuna persona trovano, nei diversi contesti e in armonia con essi, espressione e maturazione). Seligman è considerato il fondatore della “psicologia positiva”. Nel 1990 pubblica il libro: Learning Optimism, “Imparare l’ottimismo”. E' questo il libro che pone le basi di quella che poi diventerà la psicologia positiva. Seligman è stato anche Presidente della Divisione di Psicologia Clinica dell'Associazione Americana di Psicologia (APA). “Ho scoperto che la mia professione funzionava solo a metà”, spiega Seligman, “Non è sufficiente eliminare condizioni debilitanti ed arrivare a zero. Abbiamo bisogno di chiederci: quali sono le condizioni che permettono la fioritura mentale di un essere umano? Come andiamo da zero a più cinque?”. Seligman coinvolse un sostanzioso numero di colleghi ad esplorare la regione a nord dello zero, per scoprire cosa fa sentire le persone soddisfatte della propria vita e significativamente felici. La salute mentale, pensò, “dovrebbe essere più che una mancanza di malattie mentali. La mente e lo spirito integro di una persona dovrebbero essere simili ad un corpo fisico vibrante e muscoloso”. Seligman concentrò, quindi, i suoi studi sull'ottimismo, una caratteristica associata ad una buona salute fisica, a minori depressioni e malattie mentali in genere, ad una vita più lunga ed ovviamente, ad una maggiore felicità nella vita. La logica che muoveva Seligman è molto semplice: come la psicologia ha capito le cause che rendono infelici le persone e le aiuta ad essere meno infelici, probabilmente è possibile capire che cosa rende felici le persone felici e studiare delle tecniche e dei comportamenti per rendere felici le persone normali. Probabilmente è possibile consentire all’umanità di ri-trovare un vero benessere psicologico che sia veramente appagante e duraturo. Nel 2002, dopo anni di studi e di ricerche nelle quali coinvolse specialisti di neuroscienze e scienze cognitive e comportamentali, Martin Seligman pubblica “Authentic Happiness: Using the New Positive Psychology to Realize Your Potential for Lasting Fulfillment” che in italiano uscirà con il titolo “La Costruzione della Felicità – Cos’è l’ottimismo, perché può migliorare la vita” un vero e proprio manuale per ri-trovare la felicità. Il Prof. Seligman, sulla base degli studi e delle ricerche sulle emozioni positive, ha elaborato la seguente equazione: H (Happiness) = S (Set range) + C + V3 Ossia il livello permanente di felicità di ogni persona (H) è dato dalla somma della propria quota fissa (S) [è quella geneticamente data che ci predispone al buon umore], delle circostanze esterne (C) della propria vita [foriere di malumore o di buonumore] e dei fattori (V) che dipendono dal proprio controllo volontario E' prevista l'uscita in lingua italiana, nell'Ottobre 2012, di un nuovo volume dal titolo: “Fai fiorire la tua vita”. In 2 http://www.ppc.sas.upenn.edu/bio.htm E' il sito del Positive Psychology Center all'Università della Pennsylvania. 3http://www.vitamine.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=186:la-psicologiapositiva&catid=11:psicologia&Itemid=23 4 questo libro Seligman presenta un concetto di benessere innovativo e dinamico, valido per il singolo, ma anche per ogni tipo di gruppo e per la società nel suo insieme. Attraverso esercizi e semplici test mirati ad aiutare i lettori a scoprire e prendere consapevolezza delle proprie attitudini e con l’ausilio di esperienze reali, Seligman propone un’innovativa esposizione di quel pensiero positivo che l’ha reso noto in tutto il mondo e che ruota intorno all’ottimismo, alla felicità e al benessere; si tratta di una nuova visione delle straordinarie possibilità insite nella natura umana, a livello individuale come collettivo, ma anche dei suoi limiti e delle sue debolezze, attraverso un'analisi fondata su situazioni e casi che ognuno di noi incontra nella propria vita e che intende rivoluzionare molti dei risultati acquisiti dalla scienza psicologica. Vorrei brevemente ricordare anche gli studi condotti da Daniel Goleman, psicologo cognitivista, Professore di Psicologia all'Università di Harvard, il quale ha contribuito a sviluppare un atteggiamento culturale più rispettoso e favorevole alle emozioni. Fino ad alcuni decenni fa le emozioni erano culturalmente considerate materiale di scarto o fattori di disturbo rispetto al funzionamento delle attività “superiori” della mente connesse all’intelletto e non già un oggetto meritevole di riflessione e di attenzione. “Emotional Intelligence” del 1995, può essere considerato la pietra miliare degli studi di Daniel Goleman. In “Intelligenza Emotiva” veniva dimostrata la sua teoria rivoluzionaria, che ha cambiato il nostro modo di pensare all'intelligenza, ed ha permesso di divulgare, non solo nell’ambiente accademico, l’importanza delle emozioni e la necessità di collegare le emozioni con la parola e con il pensiero. Le emozioni sono componenti fondamentali dell’esistenza individuale e collettiva, risorse da conoscere ed utilizzare per un miglior rendimento nella vita sociale, relazionale, affettiva, scolastica e sociale. Per Goleman non soltanto occorre impegnarsi a collegare l’intelligenza alle emozioni, ma - di più - occorre cominciare a considerare le emozioni stesse come intelligenti, capaci di registrare informazioni di grande importanza, informazioni di cui è indispensabile tener conto, che è indispensabile registrare ed elaborare. Attraverso l’intelligenza emotiva tutti i sentimenti del soggetto vengono ad acquistare importanza e significato: si può sviluppare un atteggiamento mentale e culturale, in base a cui nelle istituzioni sociali (dalla famiglia alla scuola, dalle istituzioni sanitarie all’industria) vale la pena attivare e sviluppare negli individui, non solo competenze cognitive e tecniche, ma anche competenze emotive e relazionali. Laddove in un gruppo si creino condizioni di rispetto reciproco, è fondamentale dare cittadinanza e legittimare tutte le emozioni, insegnando ai soggetti a riconoscerle, esprimerle e rispettarle reciprocamente negli altri. Prima di Autori come Howard Gardner (psicologo della Harvard School of Education) e come Goleman, la Psicologia scientifica concentrava i suoi studi su un tipo d’intelligenza limitata, quella rappresentata dal quoziente d’intelligenza tradizionale (Q.I.), in base al quale le persone possono venire classificate in intelligenti e non intelligenti, in base ad un dato genetico immodificabile dall’esperienza. L’intelligenza emotiva, al contrario dell’intelligenza misurata con il Q.I., si può apprendere, perfezionare ed insegnare. Può essere l’oggetto di un impegno generalizzato di sensibilizzazione e di formazione rivolto a tutti i ruoli sociali e professionali, specie quelli connessi a funzioni di aiuto, di cura, di tutela, di educazione, di assistenza. L’intelligenza basata sul Q.I. rischiava di essere stigmatizzante, e sicuramente si limitava a classificare gli individui in modo statico. L’intelligenza emotiva apre una prospettiva dinamica e trasformativa, in quanto, consente di governare le emozioni e guidarle nelle direzioni più opportune; spinge alla ricerca di benefici duraturi piuttosto che al soddisfacimento degli appetiti più immediati; si può apprendere, perfezionare e insegnare ai bambini, rimuovendo alla radice le cause di molti e gravi squilibri caratteriali. Nel 1995 Goleman aveva definito il concetto di intelligenza emotiva come “la capacità di motivare se stessi, di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, di modulare i propri stati d'animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, di essere empatici e di sperare”. Nel Capitolo 6: Intelligenza emotiva: una capacità fondamentale, descriveva il “potere del pensiero positivo”, della “capacità di sperare” e dell'ottimismo come grande fattore motivante: “(...) Nel perseguire i propri obiettivi, le persone capaci di sperare sono meno soggette alla depressione, meno ansiose e soffrono meno sul piano emotivo. (…) Essere ottimista, come pure essere inclini alla speranza significa nutrire forti aspettative che, in generale, gli eventi della vita volgeranno al meglio nonostante i fallimenti e le frustrazioni (…), purché … si tratti di un ottimismo realistico; un ottimismo troppo ingenuo può essere disastroso”. All'interno del movimento della Psicologia Positiva, incontriamo anche gli studi svolti dallo psicologo e neuroscienziato Richard J. Davidson. Secondo il Prof. Davidson, le emozioni e i pensieri ad esse associate sono radicate nella struttura del nostro cervello. Nel suo libro “The Emotional Life of Your Brain” (2012)4, Davidson sostiene che la variabilità sociale ed emozionale tra gli individui abbia basi neurofisiologiche. A rinforzare questa sua teoria ci sono le più aggiornate tecniche di esplorazione del cervello. Dopo decine di anni di ricerche, Davidson ha coniato il termine “Neuroscienza 4 La lettura in lingua inglese di alcune pagine del libro è disponibile a questo link: http://books.google.it/books? id=HrWquMzPvwcC&printsec=frontcover&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false 5 Affettiva”, una disciplina che consiste nello studio dei meccanismi cerebrali alla base delle nostre emozioni. Una delle prime necessità per esplorare le nostre emozioni risiederebbe nel dare un nome ed una spiegazione ad ogni singola emozione della nostra giornata. Dovremmo saper distinguere tra “stato” emotivo, l’immediata reazione emotiva di lotta o fuga stimolata da un’esperienza, e “umore”, che sperimentiamo per lunghi tratti della giornata o per giorni interi. Davidson sostiene esista uno “stile emotivo” personale che dà una forma alle nostre vite e a come rispondiamo al mondo intorno a noi. Questo stile comprenderebbe sei dimensioni 5: 1. Resilienza: il tempo con cui recuperiamo da un evento avverso. 2. Prospettiva: quanto sappiamo sostenere un’emozione dal significato positivo. 3. Intuitività Sociale: quanto siamo avvezzi a cogliere i segnali sociali da chi ci circonda. 4. Auto consapevolezza: quanto siamo capaci a percepire i segnali fisici che esprimono le nostre emozioni. 5. Sensibilità al Contesto: quanto sappiamo regolare le nostre risposte emotive a secondo del contesto in cui ci troviamo. 6. Attenzione: quanto focalizzata e acuta è la nostra attenzione. Ciascuna dimensione è caratterizzata da una “firma”' neurale misurabile. Ebbene, è proprio la combinazione di queste sei dimensioni a caratterizzare quello che Davidson chiama lo "stile emotivo" di ciascuno : un mix che riassume l'essenza della nostra personalità e il riflesso del nostro modo di vivere e di rispondere alle esperienze positive o negative. Insomma, se siamo più intuitivi, sensibili, empatici o caparbi, la nostra mente lo rileverà. “In decenni di ricerca sulla neurobiologia delle emozioni, ho visto migliaia di persone che condividono esperienze simili rispondere in modi radicalmente diversi alla stessa esperienza. Perché una persona si riprende rapidamente da un divorzio, mentre un'altra rimane impantanata in recriminazioni o disperazione?”, si è chiesto Davidson. Proprio queste differenze l'hanno portato a interrogarsi sull'origine delle emozioni. “La risposta emersa dalla mia ricerca è che tutte queste differenze riflettono quello che io chiamo stile emotivo: una costellazione di reazioni che differiscono in natura, intensità e durata. Così come ogni persona ha un'impronta digitale unica e un volto unico, ognuno di noi ha un profilo emozionale unico”. Può “sembrare ovvio dire che ognuno di noi ha una personalità unica. Ma la personalità non si basa su precisi e identificabili meccanismi neurologici”, specifici modelli di attività neurale. Come invece accade per lo stile emotivo. Ebbene, attraverso metodologie di neuroimaging e di altro tipo, lo studioso rivendica di aver identificato le radici cerebrali dello stile emotivo e, in particolare, i sei componenti chiave, corrispondenti a precisi schemi di attività in varie aree del nostro cervello. “Nel fare queste scoperte, ho notato che lo stile emozionale nasce in parte da alcune attività localizzate in regioni coinvolte in pensiero, ragione e logica e il fatto di aver mostrato che il pensiero logico e le emozioni non sono poi così separati, ha di fatto riabilitato le emozioni stesse; per questo motivo è possibile trasformare il proprio stile emotivo” . Insomma, se ci si rende conto di avere poca intuizione sociale o di essere davvero poco sensibili al contesto, le cose si possono cambiare. Ma in che modo? “Attraverso una sistematica pratica mentale visto che ognuno dei sei elementi chiave è collegato ad una particolare attivazione di determinate aree del cervello”. Nel corso dei suoi studi Davidson ha scoperto, ad esempio, che una maggiore capacità di recupero (resilienza) - uno dei sei elementi dello stile emotivo - è caratterizzata da una più intensa attivazione del lato sinistro della corteccia prefrontale. Ebbene, ognuno dei sei elementi chiave è collegato a una particolare attivazione di determinate aree del cervello. Ma questo non vuol dire che lo stile emotivo sia fisso e immodificabile. “Il cervello ha una proprietà particolare, chiamata neuro plasticità e cioè la capacità di cambiare la sua struttura e la sua funzione in modo significativo. Ma non solo: il cervello può cambiare anche in risposta ai messaggi generati internamente e quindi ai nostri pensieri e intenzioni. Insomma si può pensare ad un allenamento per potenziare un aspetto dello stile emotivo che ci sembra più debole e quindi arrivare a modificarlo anche se non sappiamo esattamente quanto”. La conclusione è che “se il nostro stile emotivo ci rende vulnerabili agli eventi o ci trascina troppo spesso nel baratro della depressione, abbiamo la possibilità di imparare a modellarlo, modificandolo”. Davidson propone anche delle definizioni. Ad esempio un “coscienzioso” sarebbe una persona con una Intuitività Sociale ben sviluppata ed un’Attenzione altrettanto pronta, mentre un “impulsivo” avrebbe una scarsa Autoconsapevolezza ed un’Attenzione non focalizzata. I percorsi neurali che determinano le nostre emozioni sarebbero in parte genetici, quindi ereditari per una percentuale presumibilmente non superiore al 50%. Ne consegue che l’ambiente e le esperienze hanno un impatto fondamentale per il nostro approccio emozionale. La “neuroplasticità” è l’abilità del nostro cervello di modificarsi e riorganizzarsi in 5http://www.mariomaresca.com/Section/SubSection/Entry/d74a87e6-0a61-445d-813ba03890f6de64/La_vita_emozionale_del_cervello.aspx . Il libro uscirà in Italia per i tipi della Hoepli Editore. 6 funzione delle nostre esperienze e della pratica. Questo indica che, seppur abbiamo una specie di “riflesso condizionato” a comportarci secondo il nostro stile emozionale naturale, l’esercizio e la pratica possono modificare il nostro cervello e quindi i comportamenti, le emozioni e le capacità. Davidson ha riscontrato che nel nostro normale stato di coscienza abbiamo reazioni emotive più forti rispetto a quando usiamo l'autosservazione (self monitoring) o piena coscienza. Se osserviamo noi stessi come si osserva un oggetto esterno a noi, se osserviamo, cioè, come un oggetto esterno a noi le nostre emozioni, le nostre immagini mentali e gli stessi pensieri, senza giudicarli e senza identificarci con essi, tutti questi “messaggi” vengono privati della loro forza. Quando proviamo sentimenti molto disturbanti (rabbia, paura o qualsiasi tipo di pulsione) , un'onda di messaggi parte dall'amigdala (centro profondo della parte emotiva del cervello e magazzino dei ricordi emotivi) e raggiunge e travolge le aree prefrontali (centro cerebrale che viene usato per la riflessione e la decisione). Se, invece, osserviamo questi “messaggi” a lungo, intensamente, senza giudicarli e senza identificarci con essi, le aree prefrontali attenuano le “ondate” che provengono dall'amigdala, funzionando in modo simile ad una “diga” che trattiene la potenza di un fiume in piena e lasciando passare solo un rivolo innocuo. L'autosservazione rafforza questa “diga”; i circuiti neurali si rafforzano proprio come quando si ripete un esercizio per rafforzare un muscolo. Attraverso l'autosservazione è possibile attenuare le emozioni e, una volta attenuate, sostituirle con altre emozioni giudicate non disturbanti attraverso la formulazione di pensieri diversi che vengono decisi in modo intenzionale e consapevole. La piena coscienza può spostare la mente dalle emozioni autodistruttive e negative verso quelle positive: il cervello è "plastico" per tutta la vita e si trasforma se noi vogliamo. Una rilevante scoperta scientifica per certo è quella del cosiddetto “encefalo plastico”: nel cervello umano vi sono aree che rispondono unicamente al codice genetico, ma vi sono “zone plastiche”, che possono modificarsi. Le aree che vengono modificate dalle abitudini, dall'apprendimento, sono quelle frontali e le zone anteriori dell'area temporo-parietale. Se oggi Freud chiedesse qual è la sede dell'inconscio, potremmo rispondere che si trova nei lobi frontali collegati con il sistema limbico. Essi sono la sede della cognitività e dell'apprendimento, come pure della creatività e dei sogni. Ma i lobi frontali sono modificabili dall'esperienza, così come può subire l'influenza dell'ambiente e modificarsi anche il sistema limbico - cioè gran parte di quello che, un tempo, veniva indicato come “rinencefalo” (il complesso di strutture encefaliche che occupano la parte mediale e ventrale degli emisferi, del quale l'ipotalamo è uno degli elementi centrali e che è implicato anche nel comportamento sessuale e in varie emozioni). Ogni esperienza nuova, a lungo ripetuta, ogni attività cognitiva e ogni apprendimento svolge una vera e propria azione biochimica sull'encefalo plastico e modifica le strutture biologiche cerebrali. Davidson cita il lavoro del neuro-chirurgo Benjamin W. Libet (1985) del Department of Physiology, School of Medicine, University of California, San Francisco 6 , il quale ha fatto una scoperta notevole. Monitorando l'attività elettrica del cervello durante gli interventi e parlando con il paziente, sottoposto ad anestesia locale (il cervello, isolato da tutto il resto, non ha terminazioni nervose e perciò non prova dolore), Libet gli chiedeva di compiere un movimento, per esempio, di muovere un dito. La parte del cervello, che regola il movimento indicato, iniziava sempre la sua attività ¼ di secondo prima che l'intenzione di attuare il movimento giungesse alla “consapevolezza”. Quindi l'emozione parte ¼ di secondo prima della consapevolezza e la consapevolezza arriva ¼ di secondo prima dell'azione intenzionale. Questo ultimo quarto di secondo è “cruciale”: è il momento in cui abbiamo il potere di agire o di non agire. Questo è il momento in cui la piena coscienza può inserirsi per spezzare le sequenze automatiche e inconsapevoli. La piena coscienza (autosservazione) ci fornisce una via d'accesso negli intervalli fra le emozioni e le azioni. La piena coscienza può darci il potere di non agire se per esempio, l'impulso fortissimo del “prurito”, determinato da una ferita, ci spinge a grattarci, peggiorando la nostra lesione: se non esercitiamo un self-monitoring (autosservazione), ci grattiamo automaticamente. Se, per esempio, impariamo ad osservare gli impulsi che derivano dalle nostre paure di abbandono, di insuccesso o di catastrofi, abbiamo la possibilità di non agire come loro ci indurrebbero a fare. La psicologa cognitiva Tara BennettGoleman (2001) scrive: “Aumentando l'influenza della piena coscienza, siamo in grado di notare il primissimo pensiero automatico che si nasconde dietro l'impulso di agire. Questo ci dà la libertà di interrompere in quel punto stesso la catena delle reazioni non ponderate. La piena coscienza sposta la nostra attenzione dall'immersione nelle reazioni emotive - come per esempio la rabbia - alla consapevolezza della relazione tra il nostro stato mentale e ciò che 6http://www.futureshock-online.info/pubblicati/fsk47/html/bruti.htm Abstract: Inconscious cerebral initiative and the role of conscious will in voluntary action, Behavioral and Brain Sciences - Volume8 / Issue04 / December 1985, pp 529-539, vedi http://journals.cambridge.org/action/displayAbstract;jsessionid=BCFFD4B9DC4BAC30DDCF7AD5208E9691.journals ?fromPage=online&aid=6711300 7 la mente sta percependo. Piuttosto che abbandonarci alla collera e a tutti i pensieri e i sentimenti che ne derivano, possiamo limitarci a notare che stiamo provando rabbia”. Grazie alla piena coscienza si può dare vita ad un processo molto diverso dalla rimozione o dalla semplice repressione, per esempio, della rabbia: rimozioni e repressioni non sono veramente in grado di distruggere le catene degli automatismi. Scrive, infatti, Tara Bennett-Goleman: “grazie alla piena consapevolezza […] non sopprimete la rabbia, ma nemmeno agite direttamente a partire da essa. Ora avete la libertà di dare una risposta ponderata”. Per poter dare una risposta ponderata, che cerca ciò che è realistico e naturale per il nostro essere, bisogna ridurre prima la forza delle emozioni, delle abitudini e degli automatismi (coazione a ripetere) e questo può essere fatto con la piena coscienza o self monitoring (autosservazione), oppure con tecniche ed esercizi di intervento orientati alle risorse, come ad esempio il T.R.U.S.T.® Dopo aver ridotto la forza delle passioni incontrollate e aver detto di no, bisogna cercare di diventare sempre più consapevoli dei motivi per cui l'oggetto del desiderio al quale abbiamo rinunciato è sbagliato, sempre più consapevoli della sua illusorietà, del fatto che rappresenta soltanto un soddisfacimento momentaneo, che non risolve i problemi più profondi della persona e che, alla lunga, impedisce la propria realizzazione e felicità. Solo dopo un continuo e perseverante dialogo interiore, finalizzato a dissolvere in maniera critica le illusioni e a diventare consapevoli della realtà - la rinuncia a un piacere disordinato si trasforma nella “preferenza” verso un altro piacere, un piacere ordinato che non contrasta con la verità e con la giustizia. Solo allora la rinuncia si trasforma nella scelta di un altro obiettivo e di un'altra direzione di marcia. Non fare qualcosa di negativo è soltanto la condizione indispensabile e iniziale per poter fare qualcosa di positivo. Non si può rinunciare a qualcosa senza sapere il perché, senza sapere cosa si sceglie in cambio e senza amare ciò che si sceglie: in caso contrario ciò a cui si rinuncia finisce per ossessionarci. In questo modo la persona progredisce dirigendo, regolando, mettendo in equilibrio e utilizzando costruttivamente tutte le proprie energie. Si tratta di un'opera simile a quella che l'essere umano svolge nei confronti delle forze della natura, come quando incanala verso una centrale di energia le acque torrenziali. Molti ricercatori e professionisti hanno tradotto le teorie e le conclusioni basate sulle emozioni positive, sul benessere, e sul funzionamento interpersonale (ad esempio, per quanto riguarda la gratitudine, la gentilezza, la risposta positiva, e il piacere) in tecniche cognitive e comportamentali ritenute efficaci. In genere la misura più utilizzata per valutare questi interventi riflette aspetti del benessere soggettivo e comprende il miglioramento delle valutazioni cognitive (come ad esempio la soddisfazione nella vita o la felicità), promuovendo le emozioni positive e facendo diminuire le emozioni negative (o riducendo i sintomi depressivi). Si parla, quindi di “psicoterapia positiva”. I primi studi di tipo applicativo per aumentare il benessere personale risalgono alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, quando ancora non si parlava di psicologia positiva. Michael W. Fordyce (1977, 1983), descriveva i “14 fondamentali della felicità”: 1. Essere più attivi e tenersi occupati 2. Passare più tempo socializzando 3. Essere produttivi svolgendo attività che abbiano significato 4. Organizzarsi meglio e pianificare le cose 5. Smettere di preoccuparsi 6. Ridimensionare le proprie aspettative e aspirazioni 7. Sviluppare pensieri ottimistici e positivi 8. Essere orientati sul presente 9. Lavorare a una sana personalità 10. Sviluppare una personalità socievole 11. Essere se stessi 12. Eliminare sentimenti negativi e problemi 13. Ricordarsi che i rapporti intimi sono la fonte principale di felicità 14. Considerare la felicità la priorità numero uno. In una delle prime indagini empiriche di intervento mirato ad aumentare la felicità, Fordyce (1973) aveva insegnato a degli studenti universitari a simulare i comportamenti delle persone felici. Queste abilità includevano raccomandazioni comportamentali, quali aumento dell’attività fisica e sociale e strategie cognitive, quali la riduzione delle aspettative, coltivando un orientamento completamente centrato sul presente. Questo corso aveva portato a miglioramenti significativi nella felicità rispetto ad una condizione di controllo trattata con un placebo. Nella ricerca più recente Fordyce (1983) ha messo a fuoco alcuni fattori individuali e la diffusione dei singoli interventi, tra i quali la “gratitudine” (riflettere ogni giorno su tre cose buone successe, scrivendo queste cose in un diario) e la “reminiscenza” 8 come strategie per promuovere il benessere. La reminiscenza, in particolare, simile al diario della gratitudine, incoraggia i partecipanti a guardare indietro nella propria vita e a riflettere sui momenti positivi Interventi di questo tipo conducono a molti benefici emotivi, soprattutto tra le persone anziane. Le persone che tendevano a riflettere sui momenti positivi della loro vita riferivano un aumento della capacità di godere la vita con un più alto livello di emozioni positive. Un programma che ha incoraggiato le persone a pensare per dieci minuti, due volte al giorno, per una settimana, ai momenti positivi della loro vita ha dimostrato che ciò ha portato ad un miglioramento dell’umore rispetto agli individui che dovevano pensare ad interessi o problemi della propria vita attuale. E' soprattutto Martin Seligman (2002) che esplora il connubio tra psicologia positiva e psicologia clinica, ipotizzando che i punti di forza della persona possano contrastare le sviluppo dei disturbi, senza tuttavia in questo lavoro fornire indicazioni a livello terapeutico. Soltanto in un successivo lavoro sulla “Psicoterapia Positiva” (PPT – Positive Psychotherapy), Seligman e collaboratori, presentano due studi per il trattamento della depressione: “Together, these studies suggest that treatments for depression may usefully be supplemented by exercises that explicity increase positive emotion, engagement, and meaning” (Seligman et al., 2006). La psicoterapia positiva si basa sull'ipotesi che la depressione possa essere trattata non solo riducendo i sintomi depressivi, ma anche sviluppando direttamente emozioni positive, potenzialità personali e significato. In questo lavoro di Seligman e collaboratori, la psicoterapia positiva è stata messa a confronto con un trattamento abitualmente impiegato al Centro Clinico dell'Università della Pennsylvania e con il trattamento farmacologico, mostrando risultati incoraggianti sia in setting di gruppo che individuale. In un breve articolo di Federico Colombo (2009), Presidente della Società Italiana di Psicologia Positiva, secondo Seligman (2003) la “felicità” è il risultato dell'interazione di tre componenti: a) le emozioni positive, b) l'impegno e c) il significato. La psicoterapia positiva, quindi, ha il compito di promuovere questi tre aspetti della vita. Il confronto tra psicologia positiva e psicoterapia permette, quindi, di usufruire di una vasta esperienza nel campo del cambiamento personale e di allargare i propri orizzonti e sviluppare interventi più efficaci. Tra le diverse forme di psicoterapia, l'approccio cognitivo-comportamentale condivide con la psicologia positiva sia alcuni assunti di base che diverse strategie di intervento (Colombo F., Goldwurm G.F., 2007). Nelle considerazioni conclusive, Colombo (2009) scrive: “A livello concettuale si può considerare l'esistenza di un continuum del funzionamento umano da anormale a normale e ottimale 7; ciò suggerisce l'opportunità di spiegare condizioni di patologia e di salute facendo riferimento alle stesse teorie psicologiche. A tal proposito è il modello biopsicosociale8 che rende conto meglio della complessità dell'interazione tra fattori biologici, psicologici, sociali e culturali. La psicologia positiva può aiutare a comprendere il ruolo dei punti di forza della persona e del benessere nel contrastare lo sviluppo di deficit e disturbi mentali, migliorando sia la comprensione dei meccanismi eziologici che del trattamento dei disturbi resistenti ai trattamenti”. 3 - Invecchiamento, longevità e qualità di vita: il concetto di riserva cognitiva e di arricchimento cognitivo. Nella nostra cultura la longevità viene considerata il raggiungimento di un grande obiettivo: vivere il più a lungo possibile e in salute. Ma si invecchia bene e con ancora capacità di agire quando si scelgono per tempo corretti stili di vita, quando si fa esercizio fisico e i controlli sanitari, altrimenti la longevità diventa un invecchiamento patologico, e porta con sé le malattie croniche e le disabilità conseguenti. Nell'invecchiamento, tutto il corpo subisce questo fenomeno biologico e naturale: diminuisce la funzione dei sensi quali la vista e l'udito, le ossa diventano più fragili per decalcificazione, la pelle perde tessuto elastico e si raggrinzisce, gli organi interni cominciano ad avere sempre più bisogno di cura. Anche il cervello invecchia, anche se sovente lo fa senza accorgersene e con grande signorilità, come fosse un fenomeno che non lo riguardasse. Scrive Lamberto Maffei (2011), “Ciò è proprio dovuto all'invecchiamento, che diminuendo le funzioni cerebrali limita anche quella funzione delicata, e già in condizioni normali traballante, che è l'autocritica. Un cervello invecchiato tende a giudicarsi in buona forma. Non sfugge la perdita della memoria ma stranamente questa è giudicata una funzione cerebrale di secondo livello, un inconveniente al quale si può rimediare con appunti o con frasi di routine come «Ora non ricordo, ma non è così importante...». Insomma, il cervello vecchio trova spesso se stesso soddisfacente al contrario di quello che può apparire ai suoi interlocutori più giovani che ne vedono invece l'inesorabile decadenza”. La vecchiaia, in assenza di patologie gravi, si potrebbe definire come una “fisiologia patologica” nel senso di un progressivo, prevedibile, “normale”, decadimento delle funzioni nervose. Dal punto di vista neuropsicologico, l'invecchiamento cerebrale comporta un rallentamento nei processi di apprendimento e una riduzione della velocità di esecuzione dei compiti e di risoluzione di problemi, una forte diminuzione dei tempi di reazione senza tuttavia 7 Ricordo l'assunto di Martin Seligman: “da meno 5 a zero, e da zero a più 5” (1990)!!! 8 Ricordo la novità del modello di approccio proposto da F.M. Levine e E. Sandeen (1985)!!! 9 comportare serie limitazioni funzionali, dato che il soggetto anziano riesce a compensare in modo efficace tali alterazioni. Inoltre, con l'avanzare dell'età si osservano alterazioni della memoria, in particolare in relazione all'acquisizione di nuove informazioni, mentre non si osservano quelle alterazioni tipiche della demenza quali i disturbi del linguaggio, della capacità di ragionamento astratto e delle abilità visuospaziali. Una maniera efficace di impoverire il cervello è sottoporlo a una stimolazione ripetitiva, sempre uguale o simile. “Il cervello è un personaggio che si annoia facilmente e in assenza di stimoli nuovi ed eccitanti tende a levare il piede dall'acceleratore dell'attenzione e ad abbassare il livello di attività” (Maffei L., 2011). Il cervello risponde sempre meno allo stesso stimolo: è il fenomeno dell'adattamento dei recettori, in quanto è un organo dinamico e tende a sopprimere stimoli che non presentano novità. Negli ultimi decenni sono stati fatti notevoli progressi concernenti i fattori genetici, molecolari e cellulari alla base di molte patologie nervose, ma allo stesso tempo molti esperimenti hanno dimostrato che anche le patologie su base genetica trovano un importante fattore di modulazione nell'ambiente. Tali studi si sono concentrati principalmente sulla cosiddetta “riserva cognitiva”. Riserva Cognitiva (CR) sta a indicare come l'attività mentale associata o meno all'attività motoria abbia una influenza rilevante in senso positivo sul decorso dei diversi tipi di demenza senile e in particolare sulla malattia di Alzheimer, con meccanismi neuroprotettivi e compensatori. Il concetto di riserva cognitiva (CR) è stato proposto per spiegare l'estrema variabilità che si riscontra negli individui con deterioramento cognitivo fra l'espressione dei segni clinici della demenza di Alzheimer (AD) e la presenza di cambiamenti neurodegenerativi, metabolici o genetici alla base della patologia. L'ipotesi della CR afferma che le persone con un'alta riserva cognitiva sarebbero in grado di fronteggiare meglio l'AD, ritardando la comparsa dei sintomi clinici grazie al reclutamento di reti neurali compensative. Una maggiore disponibilità di circuiti neurali “di riserva” sarebbe propria di individui ad alta riserva cognitiva, cioè persone che hanno condotto una vita ricca di esperienze e acquisizione di conoscenze. Tale riserva, sostiene il Dr. Yaakov Stern [Division Leader of the Cognitive Neuroscience Division of the Sergievsky Center, and Professor of Clinical Neuropsychology, at the College of Physicians and Surgeons of Columbia University, NewYork] (2009), consentirà ad una persona con alta CR, rispetto a una con bassa CR, di manifestare i sintomi clinici in una fase più tardiva della malattia, cioè quando la patologia sarà più avanzata. Il successivo peggioramento clinico sarà poi molto rapido. E' possibile migliorare la funzione cerebrale e il suo sviluppo o alleviarne la patologia usando stimoli ambientali? Gli effetti positivi dell'arricchimento ambientale nell'adulto diventano rilevanti, anche se presenti, non nella loro valenza assoluta, ma principalmente negli effetti di rallentare il decadimento fisiologico come nella vecchiaia o nella malattia cerebrale. Movimento e incrementata attività sociale tendono a rallentare l'invecchiamento fisiologico. Scrive Maffei (2011): “Ogni possibile intervento inteso ad arricchire il cervello della persona anziana aumentandone la stimolazione è, oltre che doveroso, certamente destinato a un sicuro successo nel senso di una vera e propria terapia del declino nervoso. Quando uso la parola terapia la uso nel senso di un'autentica terapia farmacologica che invece di essere somministrata dall'esterno per pillole o iniezioni viene fatta produrre dall'interno. Infatti deve essere chiaro che la stimolazione sociale o motoria, ha effetti positivi perché causa aumento di attività cerebrale che a sua volta innesca aumento di mediatori chimici e di fattori neurotrofici e ormonali costituendo una terapia ponderata, generata fisiologicamente dallo stesso organismo. Non ci sono misteri nella biologia e se un esercizio, sia esso fisico o cognitivo, porta un beneficio è segno con grande probabilità che esso riesce a variare e a riequilibrare la biochimica del sistema nervoso. L'arricchimento nella vecchiaia, come nella malattia, è spesso una diminuzione dell'impoverimento ambientale ed è considerato in prospettiva la più efficace terapia delle patologie dell'età avanzata”. Neuroscienziato e neuropsicologo, nato in Lettonia ma trasferitosi negli Stati Uniti negli anni Settanta, Elkhonon Goldberg spiega, in How your mind can grow stronger, as your brain grows older, trad. it. (2005) Il paradosso della saggezza. Come la mente diventa più forte quando il cervello invecchia, perché la mente, invecchiando, diventa più forte. Contrariamente a quanto si credeva in precedenza, nelle prime fasi della vita l’emisfero destro è dominante. Ma nelle fasi successive perde progressivamente terreno a vantaggio del sinistro, che accumula un “archivio” sempre più ampio di strumenti efficaci per il riconoscimento di modelli sotto forma di “attrattori” neurali. Un attrattore è una rete, un gruppo di neuroni strettamente collegati con un modello di attività stabile in assenza di stimoli diretti provenienti dall’esterno. Questi modelli di attività che si autoperpetuano sono definiti «stati attrattori ». Gli stati attrattori sono possibili perché le connessioni tra i neuroni compresi nell’attrattore sono talmente forti che l’attivazione di qualunque sottoinsieme di neuroni, anche uno relativamente esiguo, è sufficiente a tenere in movimento tutta la rete neurale. Ciò significa che lo stesso attrattore sarà attivato nella sua totalità, attivando una quantità qualsiasi di suoi componenti. L’emisfero destro è di fondamentale importanza nella giovinezza, la stagione in cui si osa, in cui si naviga a vista in acque sconosciute. L’emisfero sinistro è preminente nella maturità, la stagione della saggezza, in cui si vedono cose nuove attraverso il prisma delle molte esperienze accumulate in passato. 10 Possiamo pensare che l’emisfero destro rappresenti la conoscenza cumulativa dell’organismo attraverso una sorta di media e deviazione standard - la media complessiva di tutte le esperienze precedenti - ma che perda i dettagli. L’emisfero sinistro, al contrario, sarebbe una sorta di diagramma a dispersione, un archivio di rappresentazioni relativamente specifiche, ciascuna corrispondente a una classe relativamente ristretta di situazioni simili. Supponiamo che l’organismo affronti una nuova sfida cognitiva. Se ricorda almeno una delle rappresentazioni specifiche (attrattori) contenute nell’emisfero sinistro, la sfida è riconosciuta come familiare e affrontata secondo l’esperienza già acquisita specifica per quel tipo di situazione. Ma se non c’è corrispondenza, la sfida cognitiva viene riconosciuta come autenticamente nuova. Siccome non corrisponde a nessuna conoscenza specifica a disposizione dell’individuo, il solo mezzo per affrontare la situazione è l’informazione «media» contenuta nell’emisfero destro. Così, quando invecchiamo, accumuliamo la memoria generica, che ci permette di far intervenire sempre più spesso la capacità di risolvere i problemi attraverso scorciatoie per sfuggire al lavoro mentale macchinoso richiesto dalle sfide nuove, e condensarlo nel riconoscimento di modelli. Il nostro “archivio di modelli” si arricchisce lungo tutto il corso della vita. I modelli sono immagazzinati nell’emisfero sinistro. Di conseguenza, con l’età facciamo affidamento sempre più sull’emisfero sinistro e sempre meno sul destro. Man mano che accumuliamo modelli mentali, la proporzione in cui utilizziamo i due emisferi si sposta inesorabilmente da destra a sinistra. Per secoli gli scienziati hanno pensato che le nostre funzioni mentali non facessero altro che deteriorarsi. Goldberg, al contrario, sostiene che il cervello “maturo” è in grado di integrare pensiero ed esperienza. Infatti, mentre il cervello con l’età è fisiologicamente destinato ad un organico invecchiamento, la mente grazie alla sua plasticità ha la capacità di rafforzare determinate potenzialità operative proprio con l’età; questa è l’essenza del paradosso della saggezza. Il cervello anziano usa meglio l'emotività, l'empatia e l'intuizione: “una mente attiva e adeguatamente stimolata non deve temere l'invecchiamento”. Per questo, egli propone un vero e proprio programma di “fitness cerebrale”. Queste potenzialità della mente però non si acquisiscono per caso, ma sono il frutto di esperienze ricche di continui stimoli e sfide, gestiti consapevolmente in modo da formare quella che Goldberg definisce una “armatura mentale”: “una vita mentale ricca di esperienze, che affronta le sfide mentali frequentemente e senza esserne turbata, ci ricompensa con un ricco arsenale di strumenti cognitivi i quali ci rigenerano abbondantemente man mano che invecchiamo e ci proteggono dagli effetti del declino celebrale”. La neurobiologia ci porta ad osservare, quindi, che la saggezza (intesa come la capacità di “vedere attraverso le cose”), saggezza che a seconda del contesto può essere identificata come competenza o expertise, non si acquisisce semplicemente con la maturità, bensì dipende strettamente dalla qualità e quantità della vita mentale che abbiamo sviluppato nel corso della nostra esistenza; in questo senso Goldberg giunge a definire questo tipo di competenza o expertise come “la condensazione delle attività mentali di tutta una vita”. Tutti noi abbiamo le potenzialità neurobiologiche per raggiungere la “saggezza”, ma dobbiamo consapevolmente gestire le nostre esperienze allo scopo di farlo e questa gestione dipende anche e soprattutto dalla nostra volontà e capacità di non lasciare che diventiamo vittime delle routine che sono molto gradite dal nostro “pilota automatico mentale”, ma che al tempo stesso finiscono inevitabilmente per compromettere la plasticità della nostra mente. Non vi è, quindi, un modo uniforme di invecchiare, ma esistono tante vecchiaie quanti sono i vecchi; si procede negli anni in rapporto alle esperienze vissute, a quanto si è appreso, al contesto familiare, sociale, culturale e istituzionale in cui si è inseriti, alle condizioni di salute e di autonomia. Vi sono anziani che stanno bene, si mantengono attivi e intraprendenti, affrontano la vecchiaia con fiducia, esprimono liberamente la loro creatività in varie aree e interessi della loro vita; altri soffrono sul piano psicofisico, relazionale o ambientale. “E' fondamentale superare i molti pregiudizi che ancora condizionano l'età senile ed imparare a considerare sempre più approfonditamente il mondo dei vecchi, soprattutto mediante i racconti, le memorie e il senso creativo delle loro esperienze, a volte nascoste e dimenticate, ma non per questo meno intense” (Marcello Cesa-Bianchi, 2006). Si può sempre essere creativi e continuare a imparare cose nuove, ad ogni età, compresa quella longeva. Tutti noi abbiamo bisogno di “imparare a invecchiare”. Aveni Casucci (1984, 1992) aveva coniato il termine “geragogia”, e aveva proposto di insegnare “ad invecchiare” sin dalla Scuola Materna, suggerendo corretti “stili di vita”. Se il soggetto non si è “allenato” ad invecchiare, si porrà più facilmente nella posizione reificata che il bisogno di accudimento sembra richiedergli. Se nei confronti dell'età che avanza abbiamo girato il capo verso un passato, reso ancora più desiderabile e positivo proprio per il fatto di essere “passato”, sarà molto difficile che si progredisca insieme al tempo. La capacità di prendersi cura di sé, in relazione all'invecchiamento, passa dalla consapevolezza dell'esperienza che si sta vivendo, dalla capacità di assumersi la responsabilità di contenere i propri sentimenti negativi per fare spazio anche a quelli positivi. Tenere insieme il sentimento di disagio legato alla perdita e quello gioioso legato alle scoperte possibili è un esercizio di crescita non facile ma entusiasmante. 11 Le ricerche in ambito psicogerontologico e neuroscientifico, le testimonianze di molti anziani e sempre più di ultracentenari hanno contribuito in modo significativo a rivalutare l'immagine dell'anziano, a mutare quindi, in senso positivo, gli atteggiamenti nei confronti dei vecchi, a scoprire progressivamente le risorse di un'età capace di riservare sorprese. Da parte di chi si prende cura della persona anziana si tratta di mettere in atto l'approccio delle “capacità residue”. Da qui la necessità di considerare nei programmi di riabilitazione e riattivazione per l’anziano la multidimensionalità della persona e la globalità dell’approccio, necessarie ad affrontare queste problematiche. Questo perché la perdita o la carenza grave di una funzione o di un’abilità vanno a coinvolgere la sua intera personalità, affetti, motivazioni, esperienze culturali, familiari e sociali. Scrivono Melli e Antonelli (2004): “La riabilitazione geriatrica si prefigge il duplice obiettivo di limitare l’impatto di condizioni disabilitanti e di stimolare e potenziare le capacità residue, incentivando e supportando le motivazioni ed i bisogni attraverso l’intervento che si attua sull’individuo e sull’ambiente. Si configura come una approccio multidimensionale, che coinvolge il paziente, diverse figure professionali, la famiglia e l’ambiente in cui vive, per portarlo a raggiungere la migliore qualità di vita possibile sul piano funzionale, fisico, sociale ed emozionale, riducendo al massimo le restrizioni alle sue personali scelte operative”. Diverso è, invece, il modo d’intendere la riabilitazione dell’anziano demente grave, affetto da Demenza di Alzheimer, ad esempio. In questo caso, “l’obiettivo realistico dell’approccio riabilitativo del paziente demente consiste nel rallentamento della malattia piuttosto che nel ripristino della funzione lesa”. La riabilitazione con questo tipo di pazienti, così compromessi fin dalla fase intermedia della malattia, deve avere lo scopo di migliorare la qualità di vita del paziente e dei suoi familiari. Inoltre, più che di “riabilitazione”, con i pazienti affetti da demenza di Alzheimer sarebbe più corretto parlare di “riattivazione” vale a dire tutti quegli interventi di ordine fisico e psichico, rivolti non tanto ad un singolo apparato o ad una singola funzione, quanto a stimolare il paziente ad incentivare i residui interessi per tentare di ostacolare il decadimento generale della persona. 4 - L'esperienza con gli Anziani della Casa Albergo. Un esempio di applicazione della psicologia e psicoterapia positiva. Vorrei concludere il mio intervento con un esempio di applicazione della psicologia e psicoterapia positiva. Si tratta di una esperienza di volontariato settimanale con alcuni anziani di una Casa Albergo in un paese della Provincia di Bergamo, a 300 metri di altitudine, con antiche dimore e bellissimi giardini. La Casa si colloca in due antiche dimore: Villa Vimercati-Sozzi (sec. XVII) e Palazzo Vimercati-Sozzi (Sec. XVIII). E' gestita dalle Figlie della Carità Canossiane. Ospita turismo religioso (Corsi di studio, esercizi spirituali, incontri di formazione e orientamento, incontri di preghiera per gruppi autogestiti, laici, religiosi, singoli) e dà ospitalità a suore e donne anziane autosufficienti e semi-autosufficienti. E' anche una Casa per ferie (femminile). Dispone di un bellissimo giardino e un ampio parco, ben curato. Nel giardino, o nel chiostro, o nel salone con decorazioni di fine Ottocento (teatrino), vengono spesso tenuti concerti o recital lirici e teatrali . Recentemente si è svolto anche un matrimonio “misto”. L'avventura è iniziata nel mese di Ottobre del 2007. Conoscevo molto bene l'ambiente, in quanto vi avevo passato quattro anni e un'estate della mia vita: dal 1955 al 1959. Infatti, fino a pochi anni fa, aveva ospitato il Collegio femminile parificato: dalla Scuola Materna alla Scuola per Ragionieri, sia per interne che per esterni. Parlai con Madre Francesca – infermiera e direttrice della Casa Albergo e con la Madre Superiora. Accettarono con entusiasmo la mia proposta di animare e stimolare le ospiti (signore, suore anziane, anziane in vacanza...). Il gruppo poteva contare venti partecipanti, ma talvolta potevano essere due, e qualche volta anche solo una. Ma il “gruppo” è sempre stato attuato. Solo in casi eccezionali (nevicata, malattia), il lunedì veniva posticipato al martedì o completamente saltato di una settimana o anche due. L'età delle partecipanti è variabile dai 55 anni ai 104 anni. Sono ospitate due ultracentenarie (103 e 104 anni), in buona salute. Il luogo è sereno, familiare, cordiale. Il gruppo viene fatto nella sala TV, che offre l'opportunità di essere ampia, luminosa e calda nei mesi invernali, con sedie-poltroncina molto adatte ad eseguire la “ginnastica” (come viene chiamata). Obiettivo del Gruppo: migliorare il benessere soggettivo, favorire il dialogo tra le ospiti, migliorare le dinamiche 12 presenti fra le ospiti, favorirne l'arricchimento cognitivo, recuperare e/o mantenere l'attività muscolare e articolare.... Il gruppo ha la durata di due ore e comprende attività motorie, attività cognitive, attività intergenerazionali (nel periodo scolastico), momenti di approfondimento a temi. L' Attività motoria dura 30-40 minuti, e comprende esercizi su sedia: per la postura, le gambe, le spalle; tecniche del respiro, respiro cromatico, terapia con i colori. Ogni movimento e/o tecnica viene sempre spiegata prima di attivarla, rispetto al risultato che si vuole ottenere. Vengono suggerite semplici tecniche da utilizzare per addormentarsi, per abbassare lo stato d'ansia. Gli esercizi sono tutti illustrati e raccolti un un'apposita cartella a disposizione delle ospiti (su richiesta vengono fatte fotocopie per chi vuole portarle a casa al termine del soggiorno). Il resto del tempo è dedicato a: “Your Brain – Use it or Lose it”: il tuo cervello – usalo o lo perdi!, ovvero a stimoli e attività cognitiva: memoria verbale, linguaggio (esercizi per migliorare la chiarezza dell’articolazione), esercizi con la lingua, e con il retro della lingua, esercizi per la lingua e le mascelle, esercizi per l’uso delle labbra, lingua e mascelle. esercizi per la pronuncia delle consonanti finali (sillabe). Gioco dell'Eredità e Gioco “Trova le parole”; quest'ultimo esercizio è stato da me inventato e ha raggiunto un importante successo tra le signore e le suore ospitate (alcune fanno il cosiddetto compito “a casa” e mi portano il foglietto con le parole trovate, che poi completiamo tutte insieme). In alcuni casi abbiamo tratto da una parola, anche 190 parole di senso compiuto. Esempio: INFORMAZIONE: in, forma, azione, zio, irma, foro, ecc. Su richiesta delle ospiti sono stati approfonditi temi sulla neurobiologia, neuropsicologia e neuroscienza e sulla visione dei colori, con note scritte e illustrazioni. Se rimane il tempo, si attua la terapia della risata oppure si raccontano barzellette (tratte da Frate Indovino), oppure si affrontano temi e avvenimenti del giorno. C'è stata anche una signora di Milano, che declamava, al gruppo, poesie in milanese ed era bravissima a raccontare barzellette. E' stato attivato da due insegnanti della Scuola Primaria un Rapporto intergenerazionale: gli alunni incontrano le ospiti anziane, all'inizio dell'anno scolastico, per le feste di Natale, per Pasqua e alla fine dell'anno scolastico. Naturalmente vengono invitati ai festeggiamenti delle anziane ultracentenarie. In occasione di alcuni di questi festeggiamenti, il Gruppo ha preparato dei “racconti” speciali, che sono stati regalati alle insegnanti, ai bambini, e alle stesse ospiti per i propri familiari: C’ERA UNA VOLTA ……. Festa per il Centenario di Teresa Asti, 13 Marzo 2008 Racconto/favola costruita insieme alle ospiti sul tema del granoturco. UN TESORO IN VALLE SAN MARTINO? Per le festa di centenario della signora Regina e i 101 anni di Teresa, Marzo 2009 Racconto-ricerca di tipo scientifico sull'oro e i fossili della valle, corredato dalla carta geologica. L'ANIMA NELLO STAGNO di Anna Maria Rognone In occasione della festa dei 150 anni Unità d'Italia. Una favola del 1941, recuperata e re-illustrata. Concludo con una frase di Erri De Luca, tratta dal romanzo: Tre cavalli”, che vorrei condividere con voi: Speciale è solo vivere, guardarsi di sera il palmo di mano e sapere che domani torna fresco di nuovo, che il sarto della notte cuce pelle, rammenda calli, rabbercia gli strappi e sgonfia la fatica. Allegato 1: “Approccio alla psicoterapia basato su Modelli”. 13 Bibliografia Abramson L. Y., Seligman M. E. P., & Teasdale J. D., Learned helplessness in humans: Critique and reformulation. Journal of Abnormal Psychology, 1978, 87( 1), 49-74. 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