La Malattia Mentale, come vissuto della persona, nell`ottica

L’Opinione
La Malattia Mentale, come vissuto della persona, nell’ottica
fenomenologica e sociologica
Mental Illness, as experienced by the individual according to a
phenomenological and sociological approach
RAFFAELE CIOFFI
Società Italiana di Psicologia Clinica e Psicoterapia, Istituto di Psicologia, Università di Urbino
RIASSUNTO. Proposta. Questo articolo tenta di chiarire come due modelli psicopatologici, la Fenomenologia e la Sociologia, interpretino la Malattia Mentale. Concettualizzazione. L’attenzione del fenomenologo è rivolta alla comprensione della Malattia Mentale come reale e diversa modalità di essere nel mondo; si studiano le esperienze interiori e i vissuti psicopatologici degli individui, mai sradicandoli dal tessuto esistenziale in cui si è prodotta questa nuova dimensione di vita. L’ottica
sociologica si colloca come capostipite della conoscenza inte – intra relazionale dell’uomo, come scienza sia antica (nata con
l’uomo stesso e prima della biologia) sia moderna perché attenta alle dinamiche del vivere. Secondo tale ottica la sofferenza
mentale è imprescindibile da una collocazione storico sociale; è nella società (fra gli stessi uomini) che si evidenzia un deficit, uno stato psicopatologico.
PAROLE CHIAVE: malattia mentale, fenomenologia, sociologia
SUMMARY. Proposal. This article tries to clarify as two psychopathologic models, Phenomenology and Psychiatric sociology, interpret Mental Illness. Conceptualisation. Phenomenology focuses on the comprehension of Mental Illness as a real
and different way of living; the internal experiences and the psychopathologic experience of the individuals are studied, never eradicating them from the reality in which this new dimension of life has been produced. A sociological approach is at the
basis of the knowledge inte – intra relational of the human being, as an old science born with the human being and before biology and a modern as it pays attention to the dynamics of life –. According to such approach mental suffering is essential
from a social historicall; position it is in the society (between men) that a deficit a psychopathologic state is underlined.
KEY WORDS: mental illness, phenomenology, sociology
INTRODUZIONE
Se si pone lo sguardo verso il passato, risulta evidente
come nel mondo contemporaneo la figura del folle sembri ridimensionata: diverse patologie psichiche (per
esempio la schizofrenia) appaiono maggiormente controllabili (compensabili) rispetto ad alcune decine di anni addietro (1).
Tale miglioramento è indubbiamente riconducibile ad
un interesse sempre più vivo per le tematiche psicopatologiche: sia dal punto di vista biologico, sia psicologico,
sia interpersonale. Il livello culturale medio, in oltre
(parlo delle società occidentali), si è notevolmente innalzato permettendo un adattamento/accomodamento adeguato e pronto ai cambiamenti e alle abitudini sociali.
Questo articolo tenta di chiarire come la malattia
mentale venga concettualizzata da due modelli psicopatologici spesso richiamati all’attenzione dell’opinione pubblica: l’ottica sociologica (nella quale affluiscono la Sociologia, la Psichiatria - Psicologia Sociale) e
l’ottica fenomenologica. La prima è alla continua ricerca delle variabili culturali che, se in contatto con
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particolari individui, possono generare situazioni disfunzionali e, in alcuni casi, anche disturbi mentali. La
seconda invece, può essere considerata come una ferrea opposizione a tutto ciò che, ai giorni d’oggi, va sotto il nome di riduzionismo classificatorio. Entrambi i
modelli hanno come riferimento delle solide basi storiche.
Ellemberger (2, 3) attribuisce sia alla Sociologia che
alla Fenomenologia delle radici filosofiche “nobili” citando Hegel, Heidegger, Husserl, Binswanger, Jaspers
(per l’approccio fenomenologico-esistenzialista) e addirittura Aristotele, Socrate e Platone (per il modello
sociologico).
Galimberti (4) definisce la Fenomenologia come una
“dottrina e metodo inaugurati da Hegel e riformulati
nel ventesimo secolo da Husserl che, attraverso una riduzione eideica, purifica i fenomeni psicologici dalle
loro caratteristiche empiriche per portarli sul piano
delle esperienze.”
Giddens (5) colloca l’ottica sociologica come capostipite della conoscenza inte – intra relazionale dell’uomo, come scienza sia antica (nata con l’uomo stesso e prima della biologia) sia moderna perché attenta
alle dinamiche del vivere.
Brown (6) sostiene, infine, che qualsiasi manifestazione dell’agire e del sentire umano (e la sofferenza mentale ne è un esempio) non possa prescindere dall’analisi delle dinamiche di gruppo, sia inteso come nucleo ristretto sia come popolazione, dove esso si sviluppa.
APPROCCIO FENOMENOLOGICO
L’approccio esistenziale/fenomenologico alla Malattia Mentale è fondato, dal punto di vista filosofico, sugli scritti di numerosi esistenzialisti come Binswanger,
Buber, Husserl, Jaspers, Kierkegaard, Heidegger. Tale
prospettiva trae le sue origini storiche da un filone
concettuale in contrasto con la concezione positivistica, che tratta la psiche come un oggetto passivo o meccanico. In Heidegger, per esempio, “il tema della coscienza è inserito nell’appartenenza al mondo con il
concetto di essere - nel - mondo. Il campo dell’analisi
esistenziale è quindi l’essere - nel - mondo poiché esso
rappresenta un fenomeno unitario in cui soggetto - oggetto ed Io – mondo si integrano e si corrispondono in
uno sviluppo dinamico” (7).
Proprio per questa sua caratteristica che, in un certo
qual modo la differenzia notevolmente dagli altri modelli psicopatologici, la Fenomenologia va oltre la conoscenza delle esperienze vissute dal malato, proponendo “una percezione sovrasensoriale o categoriale,
una visione delle essenze che si rivolge agli aspetti es-
senziali dei fenomeni psicopatologici e della persona
che egli esprime” (8).
Questo riferimento è indispensabile per la concettualizzazione delle manifestazioni psichiche. Comprendere, in questo senso, significa afferrare l’essenza
della persona sul piano dell’esistenza, riferirsi costantemente al fondo ontologico dell’essere umano.
Oggetto d’interesse non è il singolo Io (inteso come
persona), bensì il rapporto Io – Mondo, come l’Io stesso si progetta nell’ambiente in cui vive, e come si rivela esprimendo questo progetto. L’incontro con l’altro –
significativo diviene tematica di primo piano nell’epistemologia fenomenologica. Se la via comune da percorrere è una sorta di sinergia con il simile (altro – significativo) che percepisce le mie stesse emozioni come valide percezioni dell’Io, allora la Malattia Mentale, fenomeno prettamente umano, non può essere che
il fallimento di questo progetto esistenziale e, contemporaneamente, delle possibilità di coesistenza. È ovvio
che un tale approccio psicopatologico ha avuto una
eco notevole sia in Psichiatria che in Psicologia (9).
In questa direzione non si può ottenere una netta demarcazione tra patologia e salute: entrambe le dimensioni, invece, si collocano lungo un continuum nel quale sono attuate le diverse modalità di vivere le esperienze soggettive.
Jaspers (10) tenta di differenziare le scienze della natura da quelle dello spirito. Le prime si fondano su teorie generali, forniscono una base unitaria all’interpretazione degli eventi, le seconde, invece, non basandosi
su teorie unitarie regolate da concezioni sperimentali e
scientifiche, poggiano le loro basi solo su costrutti soggettivi, dal momento che l’essere psichico non è riconducibile ad una generalizzazione semplicistica.
In questo senso, l’uso della teoria, senza considerare
una premessa del genere, è portato a svolgere una funzione distorsiva dei fatti, rappresentandone pregiudizialmente i reperti empirici attraverso schemi interpretativi predeterminati e ristretti.
Alla Psicopatologia va assegnato un limite epistemologico: il singolo individuo è non - spiegabile soltanto
con i mezzi classici della Psicologia, dal momento che
è impossibile contenere l’inesauribile significato della
totalità dell’essere umano (dell’esserci – nel – mondo)
in un castello teorico ristretto (10).
Lombardo e Pedone (7) ritengono che con la Psicopatologia di Jaspers si assista ad una evoluzione della
Fenomenologia e ad una sua ammissione in un ambito
clinico: le ipotesi esplicative sul funzionamento psicologico e sull’attività coscienziale, nate dalla riflessione filosofica, vengono operativizzate sul piano dell’intervento. Lo studio della coscienza si identifica con lo studio dell’attività mentale: la coscienza rappresenta la
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consapevolezza di se stessi e del mondo fenomenico. Il
processo che consente di svincolarsi dalla coscienza attuale per riflettere su se stessi è definito autocoscienza,
fondamento della continuità esistenziale dell’individuo
che diventa artefice del proprio essere – nel – mondo.
L’attenzione del fenomenologo è rivolta alla comprensione della Malattia Mentale come reale e diversa
modalità di essere nel mondo; si studiano le esperienze interiori ed i vissuti psicopatologici degli individui,
mai sradicandoli dal tessuto esistenziale in cui si è prodotta questa nuova dimensione di vita. Norma e malattia non sono soltanto delle classificazioni per distanziare il fisiologico dal patologico, possono invece essere considerate come due modalità diverse di esistere.
Si recupera la dimensione relazionale del rapporto con
il malato, con colui che turba perché agisce secondo canoni diversi dalla consuetudine.
Se consideriamo valide queste riflessioni, i fenomeni
morbosi, siano essi di natura psichica o somatica (o
meglio ancora psico – somatica), non corrispondono
più alla malattia che si cela dietro una semiotica manifesta, non sono sempre la reale motivazione di certi
quadri sindromici, né tanto meno, possono giustificare
dei precisi sintomi per alcuni disordini, differenziandoli da altri, propri di diverse patologie.
La Malattia Mentale conserva sempre un quid indefinito, nascosto, misterioso, caratterizzato soltanto da
un continuo e personale, storico esserci – nel – mondo
di ogni singolo Io.
Binswanger muove una severa critica alla Psichiatria
dell’ottocento e al suo naturalismo schematico; tenta di
spostare l’attenzione, rimanendo nel campo dell’esistenzialismo, dal concetto di uomo come attuale evolversi a quello d’individuo antropoanalitico. In modo
particolare, egli “critica l’impostazione positivistica della teoria freudiana che implicherebbe una visione di
uomo che egli definisce di homo natura, cioè di uomo
visto come macchina e ridotto alla sua naturalità” (11).
Si rivendica all’uomo quella che è ritenuta essere la
sua spiritualità, non riconducibile necessariamente a
determinanti biologiche o neuro - fisiologiche, ed in
base a queste premesse si costruisce una nuova impostazione psichiatrica detta Antropoanalisi. Scopo di tale approccio sarebbe quello di liberare il malato di
mente dalla costrizione in cui il positivismo l’ha ridotto mediante la rivalutazione di una presunta storia della vita interiore. Lo psicopatologo avrebbe il compito
di mettersi in ascolto, libero da qualsiasi costrizione
teorica (e perciò riduttiva), tentando di rendere comprensibile, non interpretare né tanto meno analizzare,
i vissuti del malato ed il suo progetto di vita.
Binswanger, quindi, “propone un vero e proprio dualismo tra aspetto filosofico, spiritualità, vissuti da un la-
to e aspetto scientifico, corporeità, funzioni biologiche
dall’altro. I due aspetti sono separati da una linea di demarcazione che non permette in nessun modo all’uno
d’interagire con l’altro: spirito e corpo costituiscono il
malato di mente, ma lo psichiatra filosofo ascolta i vissuti e non interviene su di essi e lo psichiatra organicista studia il cervello e cerca di ripristinarne un buon
funzionamento mediante metodi corporei” (11).
Attualmente, comunque, la Fenomenologia viene intesa come lo studio degli eventi sia psichici che somatici senza aggiunte di cause che riguardino la spiegazione di cause o funzioni. Per come viene applicata in
Psicopatologia, la Fenomenologia implica l’osservazione e la classificazione degli eventi psichici abnormi,
delle esperienze interiori del paziente e dei comportamenti che ne conseguono. Si fa, quindi, un tentativo di
osservare e comprendere gli eventi psichici in modo
tale che l’osservatore possa, per quanto possibile, conoscere in cosa consista l’esperienza del paziente.
Secondo Sims (12), la Psicopatologia Fenomenologica è lo studio sistematico di esperienze, cognizioni e
comportamenti abnormi. La Psicopatologia Descrittiva evita spiegazioni teoriche per questi eventi psichici:
descrive e classifica le esperienze psichiche abnormi
quali esse sono riferite dal paziente e sono osservabili
dal suo comportamento.
La Psicopatologia Descrittiva, quindi, implica sia
aspetti soggettivi (Fenomenologia), sia aspetti oggettivi (descrizione dei comportamenti). Proprio perché il
compito della Fenomenologia è tracciare un profilo
del sentire umano grazie soprattutto alle capacità empatiche dell’osservatore, il modello fenomenologico va
al di là della fredda classificazione libresca per ricavare insegnamento dall’esperienza del / con il paziente.
È da questo inter - scambio continuo che originano i
concetti salute/malattia, normalità/anormalità, norma/
devianza. Concetti che, per loro natura, sono di difficile interpretazione e che, spesso, richiedono una capacità d’andare oltre il dato oggettivo (il comportamento) per tentare di mettere in evidenza il progetto storico, singolare per ogni individuo, dell’esserci – nel –
mondo sia come persona sana che, parimenti, come disturbata da una Sofferenza Mentale.
La medicina clinica fa una distinzione chiara fra segni e sintomi. Il paziente si lamenta di sintomi; i segni
fisici sono, invece evidenziati dall’esame obiettivo.
Questa distinzione non viene di solito fatta nel caso dei
fenomeni relativi al disagio mentale. La descrizione, da
parte del paziente, di un fenomeno mentale anormale
è chiamata di solito un sintomo sia che egli si lamenti
in prima persona, sia che stia semplicemente descrivendo la sua esperienza mentale che potrebbe apparire patologica ad un osservatore.
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Il sintomo, quindi, nell’ottica esistenzialista, potrebbe essere considerato sia un elemento di “lamentela”
che un elemento di pura descrizione fenomenologica
che può anche non essere oggetto di disturbo. Il sintomo al di fuori della realtà soggettiva di chi lo vive non
ha alcun peso effettivo. Gli stati allucinatori e deliranti, per esempio, frutto di una elaborazione psichica di
quel dato individuo, acquistano valenza soltanto se
considerati come privata ed irripetibile manifestazione
dell’individuo stesso.
Per questo motivo è importante cercare di trovare
il significato soggettivo per il paziente e “non solo
contentarsi del fatto che si tratti di una risposta anormale” (12).
Il modello clinico della Psicopatologia Fenomenologica è appropriato se si è alla ricerca del significato di
un vissuto in un determinato momento. In questo senso, è esaminata l’esperienza soggettiva del paziente e
se ne estrae un quadro di ciò che significano per lui
quella percezione, quella precisa sensazione, quell’evento in un preciso momento della sua vita. Non viene
fatto alcun commento, alcuna analisi o interpretazione
su come l’evento si è generato, tanto meno vengono
formulate delle prognosi a riguardo. Il significato è, invece, semplicemente ricavato come descrizione di
quello che il paziente sta sperimentando e di ciò che
questo ora significa per lui.
Sembra ormai chiaro che, in un modello di psicopatologia Fenomenologica, sia impossibile formulare una
definizione univoca dei concetti di Malattia/Salute
Mentale. In effetti, la pratica clinica, che quotidianamente gli operatori del settore vivono, spesso mette in
risalto quanto sia limitante qualsiasi tentativo di classificazione chiusa.
Una diagnosi isolata dal vissuto del paziente, pur essendo di valido aiuto, è contemporaneamente un atto
di violenza che si riverbera ai danni del singolo individuo: più sintomi ricorrenti per un certo periodo, se capitano sotto l’occhio vigile dello psichiatra, smettono di essere una reale forma comunicativa, racchiudendosi in una generica definizione/concettualizzazione di Malattia Mentale. La Fenomenologia rifiuta
questa sclerotizzazione clinica, proponendo l’analisi
del vissuto soggettivo in antitesi al riduzionismo classificatorio.
OTTICA SOCIOLOGICA
La Malattia Mentale è contraddistinta dalla sofferenza, sempre penosa e spesso devastante: sofferenza
che, contestualmente, fa soffrire anche coloro che sono
vicini al paziente. (13)
Il modello sociologico della Malattia Mentale origina dall’interazione di più discipline, fra cui: la Psichiatria e la Psicologia sociale, la Sociologia, l’Etnologia,
l’Epidemiologia e l’Antropologia. I dati provenienti
da questi indirizzi culturali indicano una certa concentrazione della casistica di alcuni stati psicopatologici in aree sociali definite povere. Tuttavia, anche se
una discreta influenza sociale nella genesi delle malattie psichiatriche non si può negare, il reale fattore
con - causale è tuttora in discussione e, a dire il vero,
molti degli aspetti teorici di quest’ottica sono alquanto deboli.
Generalmente si correla lo stato di disagio socio economico con una maggior probabilità ad andare incontro a disfunzioni psicopatologiche. Viene spesso valorizzata la “deriva sociale: lo spostamento della famiglia con predisposizione, vulnerabilità, fragilità, ecc.
verso le aree più degradate” (14).
Queste osservazioni portano a ritenere che la reale
causa di un’accentuata probabilità a contrarre Malattie Mentali non dovrebbe essere, sul piano eziologico,
la povertà economica di per sè, quanto piuttosto il disadattamento, l’anomia.
Con la pratica clinica, la Psichiatria e la Psicologia
hanno un unico scopo: ridurre la sofferenza che deriva
dai disturbi mentali o, ancora meglio, tentare di ridimensionare i disturbi mentali stessi. In particolare, “il
programma di lavoro in Psichiatria sociale è rivolto a
quelle esperienze interpersonali che possono influenzare la Salute Mentale degli individui (15).
La concezione che sta alla base del modello sociologico postula l’esistenza di relazioni tra dinamiche individuali e quelle di sistemi più ampi.
L’uomo cioè, “è influenzato nel suo funzionamento
dalla famiglia, dalle altre figure significative della sua
vita, dalle istituzioni, così come dalle condizioni sociali e culturali. A loro volta, lo sviluppo dell’individuo, le
sue dinamiche psichiche e la struttura del suo ruolo influenzano questi sistemi. Individuo e società quindi si
influenzano reciprocamente, anche attraverso differenti dinamiche e leggi operative” (16).
Per permettere, in ogni caso, una definizione del disagio mentale, l’ottica sociologica ha dovuto definire
per prima il concetto di norma.
Generalmente si è soliti definire la “norma sociale”
con tre parametri complementari: valore, reale, empirico - statistica. Per quel che riguarda la prima tipologia, occorre dire che: “tale criterio non può che essere
apodittico e ampiamente legato alle gerarchie personali di valore dell’esaminatore” (14).
A questo dovrebbe essere aggiunta la complicazione
derivante dal considerare la norma dal punto di vista
collettivo e, quindi, soggetta a profonde modifiche di
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valore secondo le condizioni culturali, dei momenti
storici, delle ristrutturazioni sociali.
Per il concetto di norma reale, cioè quello relativo all’adempimento, più o meno ottimale, da parte dell’uomo delle funzioni a lui proprie nel campo della famiglia, del lavoro, della vita di relazione, ecc., si corre
ugualmente il rischio di collegare il concetto stesso di
norma all’adattamento speculare dell’uomo con la società in cui si trova a vivere. In questo caso, l’eventuale conformismo socio - culturale, verrebbe assunto come attributo normativo della sanità mentale (17).
Infine, il concetto statistico di norma dipende in parte dalle critiche intrinseche al metodo statistico stesso
(opinabilità della scelta del campione, improprietà di
definizione del punto di riferimento, ecc.) ma soprattutto dalla difficoltà di valutare in termini matematici
ciò che è espressione delle infinite possibilità dell’essere umano.
Riassumendo, quindi, “la norma stabilisce che cosa è
corretto fare in una determinata circostanza e consente rapidamente a ciascuno di scegliere i comportamenti più appropriati, senza dispendio d’energie. Senza
norme, non esisterebbe la vita sociale” (18).
Ma nel definire il concetto di norma non si può prescindere dal definire altri due concetti: il ruolo e la devianza. Il ruolo è un complesso di aspettative collegate
ad una determinata posizione sociale, è una sorta di
anello di collegamento tra individuo e società: per definizione il “ruolo” rimanda al concetto di “norma”. La
devianza, invece, presuppone sempre un riferimento
preciso ad una determinata società: perché un comportamento deviante può essere considerato tale in
una realtà e non in un’altra.
Se si parte, quindi, dal presupposto che la Malattia
Mentale andrebbe considerata come: incapacità all’adempimento di ruoli, si possono chiarire meglio alcuni
termini, in precedenza espressi sommariamente. L’essere malato non costituisce semplicemente una condizione di vita, ma un ruolo sociale specifico e, come tale, comprende sia l’atteggiamento della persona malata, che quello degli altri con cui essa agisce, sempre in
riferimento all’insieme di norme sociali che definiscono il comportamento previsto per una persona in quel
ruolo (19).
Frighi (14), analizzando la letteratura sul tema, distingue quattro caratteristiche principali del ruolo di
malato nella nostra società. La prima caratteristica
consiste nel fatto che il malato viene esentato da alcuni dei suoi normali obblighi sociali; tali vantaggi secondari, in alcuni casi, assumono prospettive così allettanti per i pazienti, da rallentare o anche compromettere
i processi di guarigione. In secondo ruolo, la persona
malata viene esentata da un certo tipo di responsabi-
lità per il suo stato di salute: questo è quello che, nel
gergo della Psicopatologia, è definito condizione di
malattia. La terza caratteristica del ruolo di malato
consiste nel trovarsi in uno stato socialmente indesiderabile e da cui occorre uscire al più presto. La persona
malata si trova, quindi, isolata per il fatto di essere deviante e la sua condizione non esercita un richiamo sugli altri. Infine, l’aver istituito un ruolo di malato implica per l’individuo in oggetto il diritto di venire aiutato e l’obbligo di cooperare attivamente con chi è preposto alla cura della malattia stessa.
Si attua la transizione dal ruolo di persona malata a
quello di paziente che, come tutti i ruoli sociali, implica certi obblighi, specie quelli di cooperazione con il
terapeuta (non passivo). Col definire la persona portatrice di una disfunzione psichica soltanto come portatrice di un bisogno d’aiuto e di terapia, si finisce col
collocarla in una posizione di dipendenza nei riguardi
delle altre persone ritenute “sane”.
Al di là di ogni impostazione teorica, comunque, la
follia ispira un senso di imbarazzo per l’osservatore.
Il folle, colui che non è consapevole di esserlo, vive
fuori del concetto stesso di devianza; è colui che si approssima alla pazzia, invece, che, percependosi come
“strano” è terrorizzato per la perdita del proprio sé.
“L’immagine del malato psichico nella società non è
solo la risultante delle esperienze di persone che hanno avuto a che fare con malati psichici, ma anche la
conseguenza di atteggiamenti e comportamenti che caratterizzano il rapporto della Psichiatria stessa con i
propri malati” (20).
Il malato psichico è sempre stato (e continua ad esserlo) una provocazione esplicita per la razionalità e la
coscienza della società stessa. Spesso la Psichiatria sociale, aderendo alle correnti culturali predominanti in
un particolare momento storico, tende a definire l’immagine del malato mentale come l’insieme di attributi
e caratteristiche che l’uomo medio e, soprattutto, l’opinione pubblica gli attribuiscono. Anche se l’uomo medio non fa riferimento, ovviamente, ai concetti psicopatologici, se non in maniera grossolana e mediana,
spesso è assunto come punto di riferimento indispensabile!
Se in alcuni casi, a mio avviso, questa abitudine ha
apportato ottimi frutti, è il caso dell’omosessualità, prima ritenuta come una patologia oggi come modello di
vita peculiare, altre volte essa ha generato dei palesi
non sensi. (1)
È il caso del concetto di tendenza depressiva: in una
società occidentale iperattiva, un soggetto con questi
tratti psichici è, ovviamente, definito “malato”; in un
ambiente diverso, magari nelle campagne, lo stesso
tratto potrebbe essere vissuto come “normale”.
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La Malattia Mentale, come vissuto della persona, nell’ottica fenomenologica e sociologica
Si può sostenere, con buone ragioni, che il concetto di
normalità psichica e quello di Malattia Mentale, proprio
perché molto controversi e troppo generici, mancano di
definizioni scientifiche universalmente accettate. Non
basta, infatti, l’assenza di una malattia evidente per affermare che una persona sia mentalmente sana; inoltre,
non è sufficiente la presenza di comportamenti “strani”,
insoliti, o socialmente inaccettati, per giustificare l’etichetta di malattia psichica.
A mio avviso esisterebbero tanti tipi di normalità,
quanti sono i criteri per definirla. Di conseguenza, la
concettualizzazione stessa della Malattia Mentale perderebbe la caratteristica di universalità per modellarsi anche secondo il tessuto sociale in cui si genera. La società,
infatti, potrebbe favorire il manifestarsi di una specifica
sofferenza.
Ciò avviene in quei “contesti socioculturali che riducono fortemente l’ambito di libertà dell’individuo pretendendo un suo rigido e totale adattamento alle norme del
gruppo, soprattutto quando non è sufficiente un atto formale d’obbedienza” (17).
Ma se, come si è accennato in precedenza, la Malattia
Mentale è anche frutto della società in cui viene a svilupparsi, contemporaneamente essa assume le caratteristiche della cultura stessa che le dà la forma semantica. I
due fattori che, principalmente, contribuiscono a conferire aspetti peculiari e sfumature innumerevoli agli stati
psicopatologici nei diversi assetti culturali sono:
• l’influenza delle abitudini, dei costumi, delle credenze
e delle superstizioni proprie del gruppo etnico e culturale al quale il malato appartiene;
• l’atteggiamento del gruppo nei confronti della malattia stessa.
È nell’ambiente, quindi, che la Malattia Mentale si
problematicizza ulteriormente: l’autonomia del paziente
si scontra con la perdita o con la diminuzione delle capacità di scelta. Infatti, è “normale” non il soggetto comunque integrato nel contesto sociale, ma colui che è capace d’integrarvisi senza rinunciare alla propria individualità: adattandosi ed adattando il proprio sé con quello degli altri.
CONCLUSIONI
Esistono condizioni di crisi della struttura umana che,
se al limite, possono portare a stati psicopatologici nei
quali, oltre alle cause di natura bio - psichica, interverrebbero fattori sociali predisponenti. Tale squilibrio sociale è determinato, ordinariamente, da una situazione di
crisi, cioè di disturbato o di troppo rapido sviluppo in
rapporto alle possibilità d’adattamento dell’uomo. È in-
dispensabile, quindi, compiere un’analisi ambientale per
capire meglio i perché delle disfunzioni psichiche.
La Malattia Mentale stessa, proprio perché “mentale”,
non può prescindere da riflessioni antropologiche, fenomenologiche, sociologiche ed etnopsichiatriche; l’allucinato non è soltanto un matto, ma è quell’individuo che,
con quella sua particolare costituzione, ed in quella situazione specifica, si propone come tale. Le sue forme
linguistiche, gli atteggiamenti che promuove nelle sue
pur minime relazioni significative, l’eventuale capacità di
sentire l’altro come appartenente al suo mondo, non sono chiavi universali della semiotica psichiatrica. Il malato mentale parla, agisce, sente e tenta di relazionarsi, con
le regole dell’ambiente in cui queste sono vissute. Se,
quindi, è dalla società che originano sia la semantica che
la sintassi dell’espressione comportamentale umana, è
legittimo pretendere un riconoscimento epistemologico
valido ma non univoco di tale approccio agli stati psicopatologici.
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