Nozioni elementari di fotometria

Giacomo Torzo
NOZIONI ELEMENTARI DI FOTOMETRIA
Nozioni elementari di fotometria
Giacomo Torzo
ICIS-CNR, INFM-PD e Dipartimento di Fisica – Università di Padova
Quando si vogliono studiare quantitativamente fenomeni fisici che hanno a che
fare con la luce,nella didattica sperimentale, si cerca spesso di trovare modi per
ottenere risultati significativi che non dipendano in modo cruciale da parametri
fotometrici (tipo illuminamento, intensità luminosa, o densità spettrale), e quindi
la fotometria risulta un settore raramente toccato nei curricola..
Questo atteggiamento in fondo è corretto dal punto di vista di chi punta a
trasferire agli studenti conoscenze e metodi di indagine in Fisica che privilegiano
fortemente l’aspetto teorico e/o una impostazione per grandi concetti fondanti
(leggi di conservazione, statistiche, simmetrie, dualismo, relatività…), punto di
vista probabilmente maggioritario tra gli insegnanti di fisica, sia nella scuola
secondaria che nelle Università.
Tuttavia in tempi di drammatico calo di interesse tra i giovani per le scienze, ed in
particolare per la Fisica, vale forse la pena di puntare un po’ l’attenzione anche
su possibili interessanti approcci sperimentali che stuzzicano un interesse
specifico per la tecnologia (anche se disgiunta da analisi di sistemi fondamentali
e concettualmente più importanti), approcci che favoriscano un certo
inquinamento della Fisica Pura da parte di conoscenze disciplinari
tradizionalmente più coltivate da ingegneri o da biologi.
Questa attenzione per certi aspetti tecnici, in cui necessariamente si inciampa
quando si allestisce una qualsiasi esperienza di laboratorio, è importante anche
se ci si vuole avvalere dei nuovi metodi sperimentali che sfruttano le tecnologie
informatiche. Si intende qui il laboratorio con acquisizione dati in tempo reale
(RTL) che usa una strumentazione universale composta di computer-interfacciasensori.
Si è iniziato citando esperimenti di ottica. Per usare RTL in ottica si devono
impiegare sensori di luce, e i sensori di luce, in misura assai maggiore che altri
sensori (di forza, di temperatura, di distanza, di tensione o corrente elettrica…)
richiedono specifiche competenze tecniche per essere usati in modo appropriato.
E lo studio delle caratteristiche di sensori e del loro corretto utilizzo può essere
un modo efficace, divertente e naturale per affrontare percorsi interdisciplinari,
che in altro modo potrebbero risultare artificiosi e forzati.
Qui prenderemo in esame solo le caratteristiche generali dei sensori di luce (le
specifiche di singoli sensori possono essere facilmente reperite dai distributori
commerciali o in internet), e le conoscenze che sono indispensabili per usarli in
laboratorio didattico.
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Vedremo che nel fare questo dovremo occuparci anche di biologia, e non solo di
fisica !
Un sensore di luce è un dispositivo che viene usato per rivelare e misurare un
flusso luminoso (fornendo un segnale elettrico ad esso correlato). Va innanzitutto
definito allora cosa si intende con il termine flusso luminoso.
Una definizione di flusso luminoso è “energia trasportata da onde
elettromagnetiche la cui lunghezza d’onda sia compresa tra 10 nm (ultravioletto)
e 1 mm (infrarosso)”. Fotoni con lunghezza d’onda inferiore a 10nm non vengono
considerati “luce” , si tratta di raggi X o raggi γ , mentre fotoni con lunghezza
d’onda maggiore di 1mm vengono considerati onde radio. In altri termini solo le
onde elettromagnetiche in questo intervallo di lunghezze d’onda (o
alternativamente con energia compresa tra 100 eV e1 µeV) sono considerati
“luce”(figura 1).
Tuttavia il flusso luminoso non si misura con le stesse unità con cui si misura il
flusso di energia raggiante. E questo per motivi strettamente biologici, non fisici.
La ragione è che l’occhio umano non solo è sensibile soltanto ad una parte dei
fotoni che chiamiamo luce, ma ha anche una sensibilità che è fortemente
modulata in tale piccolo intervallo di “luce visibile”.
fig. 1 Spettro radiazione elettromagnetica
Di fatto l’uomo non solo è cieco per quasi tutta la “luce” di cui abbiamo appena
parlato (l’intervallo in cui è in grado di percepire fotoni è assai più ristretto: da 0.4
a 0.7µm) ma, anche per la poca luce che riesce a vedere, ha delle simpatie.
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Queste simpatie dipendono dalla singola persona, anche se indagini statistiche
mostrano che è ragionevole assumere che la gra nde maggioranza degli esseri
umani, indipendentemente da colore , età e fede politica, abbia una sensibilità
alle diverse lunghezze d’onda descrivibile approssimativamente dalle curve
riportate in figura 2.
Fig. 2. Risposta spettrale della retina umana per visione scotopica e fotopica
La curva per la visione scotopica (sensibilità in condizioni di penombra) è
principalmente dovuta ai recettori detti bastoncelli, e quella fotopica (in condizioni
di grande illuminamento) invece include i recettori detti coni. 1
La curva di sensibilità fotopica è stata adottata in fotometria come sensibilità
spettrale della retina umana, ovvero come funzione risposta media del sensore di
luce di cui è dotato l’occhio.
Di conseguenza il flusso luminoso che noi associamo a un fascio di luce
monocromatica centrata nel vicino o lontano infrarosso o nel vicino o lontano
ultravioletto è rigorosamente nullo, per quanto intensa sia l’energia che esso
trasporta .
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I bastoncelli sono recettori della retina che sono molto sensibili alla quantità di luce, ma poco
sensibili al colore (risposta poco piccata in λ), mentre i coni sono recettori meno sensibili che
però consentono di distinguere i vari colori.
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La fotometria è la disciplina che studia l’energia luminosa e che si occupa quindi
dell’energia raggiante tenendo conto della sensibilità della retina, mentre la
radiometria si occupa di tutta l’energia raggiante, anche di quella invisibile.
Il flusso di energia raggiante, definito come energia (emessa, ricevuta o
trasportata) p er unità di tempo si misura quindi in watt.
Per il flusso di energia luminosa è ovviamente necessaria una diversa unità di
misura, e per questa si è adottato il lumen.
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Alcune definizioni
Nel definire la quantità di luce si deve distinguere tra l’energia luminosa emessa
da una sorgente (intensità) e il flusso di luce che attraversa una data sezione (o
che raggiunge una data superficie)
Per la luce totale emessa da una sorgente si usa come unità di misura una
sorgente standard: la candela. Come sia esatta mente definita questa sorgente
standard lo vedremo dopo.
Naturalmente tanto più ci si allontana da una sorgente (puntiforme) tanto minore
è la luce che ci raggiunge: quindi è importante, nel confronto tra diverse
illuminazioni, stabilire anche una unità di misura per il flusso di luce, ovvero la
potenza che attraversa l’unità di superficie.
Il lumen, unità di flusso
Dato che la risposta spettrale della retina ha un massimo a λ=540 nm, si è
convenuto che il flusso luminoso (Φ) di una radiazione monocromatica di questa
lunghezza d’onda, emessa da una sorgente della potenza di 1 watt, sia Φ=683
lumen (simbolo: lm).
Per una uguale potenza emessa da sorgenti monocromatiche di lunghezza
d’onda inferiore o superiore a 540 nm il flusso viene definito in proporzione alla
risposta spettrale della retina (ad esempio 410 lumen a 600 nm, o 0 lumen a 200
nm).
La candela, unità di intensità
Il flusso luminoso è sempre prodotto da una sorgente. Una sorgente emette
quasi sempre in direzioni diverse, e spesso in modo uniforme in tutte le direzioni
(fa eccezione la luce laser che ha piccolissima divergenza). Una sorgente che
emette in modo rigorosamente uniforme in ogni direzione è detta sorgente
puntiforme.
Viene detta intensità luminosa (I) il flusso luminoso per unità di angolo solido,
ovvero I=dΦ/dΩ ?
, e l’unità di misura è la candela (simbolo: cd).
Il campione standard era all’inizio una candela in cera, ma ovviamente la sua
riproducibilità non era buona. Così si cercò una definizione più precisa,
specificando che la misura del flusso luminoso doveva essere fatta in direzione
orizzontale ed usando una candela di dimensioni definite, e che bruciasse con
velocità definita.
Ma anche questo standard non era soddisfacente. Nel 1909 i laboratori di Stati
Uniti, Francia, e Inghilterra decisero di adottare la candela internazionale
costituita da lampade elettriche a filamento di carbone.
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Anche la stabilità di questo nuovo standard si dimostrò presto poco affidabile e si
decise di passare ad una definizione completamente diversa: nel 1933 venne
adottata come unità il flusso luminoso emesso da un corpo nero alla temperatura
di solidificazione del platino (2046 C) attraverso un foro di superficie di 1.667
mm2 . Questa definizione venne ratificata nel 1948 dalla IX Conferenza Generale
Pesi e Misure che decise anche il simbolo per la candela (cd), una delle 7 unità
fondamentali del sistema SI (m, kg, s, K, A, mol, cd) da cui tutte le altre possono
essere ricavate.
Nel 1979, infine, per le difficoltà legate alla realizzazi one di un corpo nero e per i
vantaggi offerti dalla moderna tecnologia nelle misure di irraggiamento e di
lunghezza d’onda , la XVI CGPM adottò la seguente definizione:
una candela è l’intensità luminosa, di una sorgente che emetta, in una data
direzione, radiazione monocromatica di frequenza 540 x 10 12 hertz e con un
irraggiamento di 1/683 watt per steradiante.
Questo ridefinisce il lumen come il flusso luminoso per unità di angolo solido
emesso da una sorgente con intensità di 1 cd, in modo consistente con la
definizione sopra riportata.
Il flusso luminoso totale emesso da 1 candela è quindi 4π lm.
Altre grandezze importanti in fotometria sono la brillanza L, l’illuminamento E, e
l’efficienza luminosa η .
Unità di brillanza
Si definisce brillanza L (o luminanza o luminosità) di una superficie estesa
l’intensità luminosa emessa per unità di superficie L=I/A.
L’unità di misura in MKS è il nit (simbolo nt = cd/m 2 )
Nel sistema CGS l’unità è invece detta stilb (simbolo sb= cd/cm 2 = 104 nt)
Brillanza di comuni sorgenti (cd/m2 )
Sole
Filamento incandescente a 2700 C
Carta bianca in luce solare piena
2 109
1 107
2 104
Lampada fluorescente
Candela
Luna :
Carta bianca in luce lunare piena
6 103
5 103
3 103
3 10-2
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Livelli fisiologici per la pupilla
Soglia minima
Soglia dei Coni
Saturazione
bastoncelli
Possibile
danneggiamento
(cd/m 2 )
10-6
10-3
dei 102
108
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Unità di illum inamento
Se si pone uno schermo a distanza r da una sorgente puntiforme di 1 cd , ogni
porzione A della superficie dello schermo sarà illuminata con un flusso pari a
4πΩ = 4π A /r2 , ovviamente decrescente con il quadrato della distanza.
Il flusso luminoso per unità di superficie è detto illuminamento (E) e si misura in
lux (simbolo lx= lm/m 2) nel sistema MKS e phot (simbolo ph= lm/cm2) nel
sistema CGS.
Se il flusso luminoso per unità di superficie è riferito ad una superficie emittente
invece che ad una superficie illuminata esso viene misurato nelle stesse unità
ma viene detto luminosità.
Fig. 3 Relazione tra intensità (cd), flusso (lm), illuminamento (lux)
Luminosità del cielo (lux)
Cielo sereno a mezzogiorno
Cielo nuvoloso a mezzogiorno
Cielo sereno notturno con luna piena
Cielo sereno notturno senza luna
105
103
10-1
10-3
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Efficienza luminosa
Il raccordo tra unità radiometriche e unità fotometriche è definito dall’efficienza
luminosa η (in lumen/watt), come frazione della potenza raggiante che cade nel
visibile.
In altre parole il flusso luminoso è pari a energia raggiante (watt) × 683 (lm/watt)
×η.
Il fattore 683 (lm/watt) dipende dalla sensibilità della retina a λ= 540 nm, il picco
della curva della sensibilità scotopica. L’efficienza luminosa vale 1 a tale
lunghezza d’onda.
Una corrispondenza tra la potenza elettrica nominale di alcune lampade a
filamento incandescente (e di una a fluorescenza) e il flusso luminoso emesso è
fornito in tabella.
Potenza elettrica (watt)
25
40
60
75
100
200
40 (fluorescenza)
Flusso luminoso
(lumen)
260
440
840
1100
1700
4000
2600
Efficienza η
10.4
11
14
15
17
20
65
Fig. 4 Efficienza luminosa per alcune lampade
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La prima cosa che si può osservare è che non vi è corrispondenza lineare tra le
due grandezze (l’efficienza cresce con la potenza elettrica, e quindi si risparmia
energia se si usa una sola lampada di potenza doppia al posto di due di uguale
potenza), e la seconda è che le lampade a fluorescenza hanno efficienza
maggiore che le lampade a incandescenza.
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Il corpo nero
Il corpo nero è un oggetto ideale che assorbe tutta l’energia raggiante che riceve
(qualsiasi lunghezza d’onda e direzione di incidenza) e che emette in modo
uniforme in tutte le direzioni. Una discreta approssimazione di corpo nero è la
polvere di carbone (nerofumo) che riflette circa il 2% della radiazione incidente.
Ma spesso si approssima ad un corpo nero una qualsiasi sorgente di radiazione
costituita da un oggetto caldo.
La termodinamica dimostra che un perfetto assorbitore come il corpo nero
dev’essere anche un perfetto emettitore (emissività ε=1), e che la distribuzione in
lunghezza d’onda dei fotoni emessi è universale, dipendendo solo dalla
temperatura e non dalla struttura del corpo nero.
Fig. 5a : Spettro di corpo nero a temperature alte
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Fig. 5b : Spettro di corpo nero a temperature intermedie
Fig. 5c : Spettro di corpo nero a temperature basse
L’integrale sotteso dalla curva cresce con la quarta potenza della temperatura
assoluta (passando da 300K a 3000 K la potenza emessa su tutto lo spettro
cresce di un fattore 10000). Ovvero un oggetto a temperatura ambiente irradia
un decimillesimo circa della potenza emessa da una lampada ad incandescenza,
il cui filamento raggiunge circa 2700.
La lunghezza d’onda a cui si ha il massimo di emissione decresce con la
temperatura (Legge di Wien : λ p=2898/T in µm/K). Lo si nota facilmente nel
filamento di una lampada ad incandescenza: quando si cresce la corrente di
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alimentazione la luce emessa passa dal rosso al giallo, al bianco …, ovvero λ
cala al crescere di T.
Emissività ε:
L’emissività è il rapporto tra il flusso raggiante di un oggetto e quella di un corpo
nero alla stessa temperatura (un riflettore perfetto ha ε = 0). E’ un parametro che
dipende dalla temperatura e dalla lunghezza d’onda. Tuttavia nelle applicazioni
pratiche si usa un singolo valore (che media su varie λ e T).
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I sensori ottici
I sensori di luce, dovendo misurare flusso luminoso, dovrebbero essere tarati in
lumen o (dato che ovviamente devono integrare sulla loro superficie sensibile) in
lux (flusso per unità di superficie).
Ma nelle specifiche dei sensori commerciali la sensibilità è di solito data in
A/(watt m 2), ovvero in unità di flusso di energia per unità di superficie.
La sensibilità di un sensore generico è sempre data come rapporto tra una unità
di misura dello stimolo (grandezza che si vuole misurare) e una unità di misura
della risposta (di solito elettrica) ovvero segnale utile del sensore. Per i sensori
ottici la risposta è di solito una corrente elettrica, e quindi essa viene specificata
in ampere. Lo stimolo che noi vogliamo misurare è flusso luminoso, ma i sensori
a nostra disposizione sono dispositivi che normalmente sentono anche l’energia
raggiante che non cade nel piccolo intervallo di lunghezze d’onda che noi
chiamiamo luce.
Un buon sensore dovrebbe essere lineare, cioè con sensibilità costante 2. Ma
nella pratica, oltre che allo stimolo per cui il sensore è finalizzato, la sua risposta
dipende anche da altri parametri. Ad esempio un sensore di pressione che è
stato costruito per avere una sensibilità costante in un certo intervallo di pressioni
può essere sensibile anche alla temperatura, ovvero esibire una sensibilità che è
funzione della temperatura.
Nel caso dei sensori ottici solo pochi sono sensibili solo alla quantità di energia
trasportata dalle onde elettromagnetiche: nella maggior parte dei dispositivi
commerciali la risposta allo stimolo luminoso dipende anche dalla lunghezza
d’onda della luce.
Questo, che sembrerebbe un difetto in un sensore qualsiasi, può diventare
invece un pregio per un sensore di flusso luminoso. Per misurare correttamente
tale grandezza si deve infatti proprio modulare la risposta del sensore in modo
che “senta” solo la luce, ovvero i fotoni nell’intervallo di energie che abbiamo
sopra definito.
Un sensore ideale di flusso luminoso è infatti un dispositivo dotato di un filtro che
blocca i fotoni con energia pari a quella dei raggi X (o superiore) e i fotoni con
energia tipica delle onde radio (o inferiore), e la cui sensibilità imiti quella della
retina umana.
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Anche la sensibilità dei sensori di buona qualità è costante solo nel limitato intervallo in cui il
sensore funziona, e tende a zero al di fuori di tale intervallo, ove la risposta tende a “saturare”.
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Vari tipi di sensori ottici
I sensori ottici si possono dividere in quattro grandi categorie: 1) foto-tubi, 2) fotoresistenze, 3) foto -transistor e foto-diodi 4) termici (piroelettrici e termopile)
Fototubi
I foto-tubi sono diodi a valvola (in bulbo sotto vuoto), con un catodo di grande
superficie ricoperto di un metallo alcalino (spesso Cesio) e un anodo a filamento.
Essi sfruttano l’effetto fotoelettrico “esterno”, ovvero l’emissione di elettroni dalla
superficie metallica colpita da fotoni di energia superiore ad un valore di soglia, e
furono i primi dispositivi usati per rivelare luce, ma oggi vengono utilizzati
essenzialmente in situazioni ove sia necessario rivelare flussi luminosi molto
deboli, o in altri casi speciali, per lo più nei laboratori di ricerca.
Questo perché sono dispositivi fragili, ingombranti e costosi. Possono essere resi
molto sensibili sfruttando un effetto di “moltiplicazione” degli elettroni estratti dai
fotoni incidenti, aggiungendo una serie di elettrodi intermedi, tra anodo e catodo,
tra cui viene stabilito un elevato campo elettrico. Il campo elettrico tra ogni coppia
successiva di elettrodi fornisce agli elettroni estratti una energia sufficiente ad
estrarre altri elettroni e quindi si genera un processo a valanga che produce un
impulso di corrente (anche di milioni di elettroni per fotone) e che spiega il nome
di “foto-moltiplicatori” dato a questi dispositivi.
Fotoresistenze
Si tratta di resistenze costituite da materiale la cui resistività elettrica cala quando
viene illuminato. In questo caso si tratta di effetto fotoelettrico “interno” cioè la
produzione di coppie elettrone -lacuna da parte di fotoni con energia sopra un
valore di soglia.
I materiali di questo tipo (spesso CdS , CdSe) sono detti semiconduttori ed in
essi il trasporto di carica elettrica è assistito non solo dalla migrazione di
elettroni, ma anche da “mancanze di elettroni” in siti particolari del reticolo (che
vengono dette lacune). Un altro modo di illustrare l’effetto fotoelettrico “interno” è
dire che l’energia hν associata ad un fotone incidente promuove un elettrone in
“banda di valenza” (BdV) alla “banda di conduzione” (BdC) , lasciando una
lacuna in BdV.
Le coppie elettrone-lacuna così generate aumentano la densità di portatori di
carica e quindi la conducibilità elettrica del materiale.
La differenza di energia tra il massimo della BdV e il minimo di BdC, detta energy
gap (E g) è la minima energia che un fotone può avere perché avvenga l’effetto
fotoelettrico.
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Caratteristica del sensore a fotoresistenza è che la sua prontezza è
inversamente proporzionale alla sua sensibilità. Quando le coppie sono state
generate dai fotoni assorbiti esse continuano a contribuire alla conducibilità fino a
che si ricombinano, e tanto maggiore è la vita media τ delle coppie fotoprodotte,
tanto maggiore è la sensibilità S. Conta anche il tempo di transito tt dei portatori
di carica nel dispositivo: S∝τ/tt .
Il tempo di risposta (τ) è tipicamente dell’ordine dei ms, ma può arrivare a vari
secondi. Si tratta tuttavia di un sensore molto compatto, robusto ed economico.
Le fotoresistenze vanno alimentate (ad esempio in una configurazione a partitore
resistivo in corrente continua o alternata) e il segnale prodotto è una variazione
di tensione proporzionale alla luce ed alla tensione di polarizzazione.
Fototransistor , fotodiodi (celle fotovoltaiche)
I materiali semiconduttori possono essere puri (Germanio, Silicio) o leghe (GaAs,
InAs, InP, GaP, InGaAs, GaAsP…) ed in generale appartengono ai gruppi IV, II e
VI, III e V della tavola di Mendeleiev.
Le loro proprietà possono essere modificate introducendo delle impurezze nel
reticolo cristallino (bastano pochi atomi per miliardo): si ottengono così
semiconduttori “drogati” che si dicono di tipo P o di tipo N a seconda del tipo di
impurezze.
Se si costruisce un dispositivo con due semiconduttori (P e N) adiacenti, la loro
superficie di separazione costituisce ciò che viene chiamata una giunzione PN.
Una giunzione PN si comporta elettricamente come un diodo rettificante, ovvero
esibisce conducibilità molto diversa a seconda del segno della sua
polarizzazione.
Due giunzioni PN adiacenti
ovvero una doppia giunzione PNP o NPN
costituiscono un transistor.
Ma le proprietà rettificanti della giunzione PN non sono le sole inte ressanti dal
punto di vista tecnologico: quelle che qui ci interessano sono le sue proprietà
opto-elettroniche.
In uno strato sottilissimo adiacente alla giunzione (strato di svuotamento) la
distribuzione dei portatori di carica (elettroni e lacune) cambia rispetto alla
situazione esistente nel volume del semiconduttore P o N: in esso si crea un
campo elettrico (sostenuto da un doppio strato carico e fisso nel reticolo) cui
sono soggette le coppie elettrone -lacuna che vengono prodotte al suo interno, ad
esempio per effetto di un fotone incidente 3.
Questo fenomeno si può tradurre in una foto-corrente prodotta da un flusso di
fotoni con energia superiore all’energia di soglia (hν>Eg) che possa raggiungere
lo strato di svuotamento. Si capisce quindi come si possa ottenere un sensore di
3
O anche per effetto dell’energia termica: la densità di coppie è stabilita per ogni temperatura
dall’equilibrio tra il processo di generazione termica (vibrazioni reticolari) e di ricombinazione
elettrone-lacuna (proporzionale al prodotto delle densità dei due tipi di portatori di carica)
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luce da un fotodiodo o un fototransistor: basta che la giunzione PN sia esposta
alla luce perché attraverso di essa si stabilisca una corrente elettrica
proporzionale al flusso luminoso.
Il fototransistor differisce dal fotodiodo perché la fotocorrente generata da una
giunzione viene moltiplicata per un fattore di guadagno (tipicamente 100) dalla
seconda giunzione (ciò che fa del transistor un amplificatore). Quanto si acquista
in sensibilità tuttavia lo si perde in linearità: il fotodiodo può essere molto lineare
(fotocorrente proporzionale al flusso luminoso) mentre il fototransistor non lo è
affatto.
Fig. 6 : Schema di fototransistor
La fotocorrente di una giunzione PN può essere sfruttata per convertire energia
luminosa in energia elettrica: i fotodiodi ottimizzati per questa funzione vengono
chiamati celle fotovoltaiche (o anche celle solari).
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Sensori termici (bolometri)
Vengono detti bolometri i sensori di luce che sfruttano il riscaldamento prodotto
dall’assorbimento di fotoni per generale un segnale utile (variazione di
polarizzazione dielettrica o di forza elettromotrice per effetto Seebeck).
Appartengono al pimo tipo i sensori piroelettrici, al secondo tipo le termopile.
Caratteristiche comuni sono: i) una sensibilità spettrale praticamente piatta, in un
intervallo di lunghezze d’onda limitato solo dalle caratteristiche delle finestre
ottiche di protezione utilizzate; ii) risposta solo a variazioni di illuminamento:
soggetti a illuminamento costante si portano in equilibrio termico e il segnale in
uscita si azzera.
La termopila è una versione miniaturizzata di termocoppia, costituita di numerose
coppie di giunzioni in serie, con le giunzioni di riferimento mantenute al buio e le
giunzioni di misura esposte alla luce.
Finestra
Giunzioni illuminate
Giunzioni al buio
Fig. 7 : Schema di termopila
I sensori piroelettrici sono costruiti con materiali che presentano una
polarizzazione dielettrica spontanea che varia con la temperatura (ad esempio
da un sottile strato di Tantalato di Litio con elettrodi metallici depositati sulle due
facce). Poichè il materiale è un ottimo isolante questo oggetto si può pensare
come un condensatore le cui armature hanno carica indotta dal dielettrico
polarizza to. Quando la temperatura del sensore varia anche la polarizzazione (e
la carica del condensatore) varia, producendo una debole corrente alternata
(dell’ordine di 10-12÷ 10-10 A).
Questa corrente può essere convertita in tensione mediante un amplificatore
operazionale con elevata resistenza di retroazione
(R o ˜ 2 109 Ω).
L'operazionale deve avere elevata impedenza d'ingresso in modo da assorbire
una minima frazione della corrente generata dal piroelettrico.
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Ro
A
Rp
PZT
1012 ž
B
Cp
10 pF
R
A
B
Fig. 8 : Convertitore corrente-tensione per il sensore piroelettrico
Il sensore piroelettrico è schematizzabile come un generatore di corrente con in
parallelo una capacità parassita, e una resistenza di perdita.
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Parametri che caratterizzano i fotodiodi per fotometria
Risposta spettrale S(λ)
Dipe nde dal materiale di cui è fatta la giunzione PN, dalla struttura del dispositivo, dalla eventuale
presenza di filtri (energy gap, coeff. di assorbimento, tipo di finestra): descrive la variazione della
sensibilità con la lunghezza d’onda
Fig. 9 : Risposta spettrale di alcuni fotodiodi al Silicio per il visibile e l’infrarosso
Sensibilità S (di picco)
E’ specificata in corrente prodotta (A) per unità di potenza raggiante assorbita
(W) alla lunghezza d’onda λ p ove la sensibilità è massima.
Efficienza quantistica QE (%)
Misura in % il numero di coppie generate per fotone incidente, esprimibile come
QE/100=(ID/q)/(W/hν)=S 1240/λ(? ? ?
Corrente di corto circuito IS C
La corrente che viene prodotta quando i terminali del fotodiodo sono mantenuti
allo stesso potenziale (fisicamente o per effetto di una qualche retroazione).
Valori tipici: (µA/100lux)
Corrente di buio ID
La piccola corrente che attraversa il fotodiodo in assenza di illuminazione.
Diventa importante solo quando si usa il diodo in polarizzazione inversa. Valori
tipici:10pA-10nA
Capacità parassita Ct
La piccola capacità dovuta agli elettrodi connessi al fotodiodo. Diventa
importante solo quando si usa una grande amplificazione. Valori tipici: 10 –100
pF
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Tempo di risposta tr
Il tempo necessario perché la fotocorrente raggiunga il 90% del valore di regime
quando l’illuminazione è una funzione a gradino. Valori tipici: µs
Massima tensione inversa V RMax
Tensione sopra la quale il dispositivo subisce danni permanenti Valori tipici: 5-50
V
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Caratteristiche tensione-corrente dei fotodiodi
La caratteristica tensione-corrente di un fotodiodo è simile a quella dei comuni
diodi raddrizzatori, con la sola differenza che la luce incidente la sposta in basso
in proporzione al flusso di fotoni.
La situazione è quella descritta in figura 9 , con 1: curva di buio, 2 illuminamento
x, 3 illuminamento 2x. I quadranti A e B rappresentano rispettivamente le
modalità di lavoro in polarizzazione inversa e diretta.
Si vede che mentre la corrente di corto circuito è proporzionale all’illuminamento,
la corrente erogata ad un carico finito (individuata dalla retta di carico
tratteggiata) non lo è.
Nel limite che il carico sia infinito (corrente nulla) la tensione sviluppata ai
terminali del diodo cresce logaritmicamente con l’illuminamento.
Fig. 9 : Caratteristica tensione corrente di fotodiodo
Alcuni circuiti amplificatori per fotodiodi
Modalità in corto circuito
Fig. 9 : Due schemi per fotodiodo in corto circuito (sensore lineare)
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Giacomo Torzo
NOZIONI ELEMENTARI DI FOTOMETRIA
Il primo schema è il più diffuso (è spesso fornito integrato nel sensore). Nel
secondo schema (utilizzabile ove l’operazionale abbia un elevato rapporto di
reiezione di modo comune CMRR), nel caso si ometta R1 e si ponga R0=R si ha
V 0=2R(ID -Ios )
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Modalità con resistenza di carico
Un circuito per l’amplificazione del segnale di tensione ai capi della resistenza di
carico di un fotodiodo può essere un non-invertente con elevata impedenza di
ingresso (e piccola corrente di polarizzazione bI ), ad esempio ottenuto da un
operazionale a FET.
Fig. 8 : Amplificatore per fotosensore non lineare
Modalità con polarizzazione inversa
Il fotodiodo può essere usato imponendo una polarizzazione inversa, cioè con il
catodo positivo rispetto all'anodo. In assenza di luce la corrente di buio che
attraversa la giunzione PN è quella dovuta solo alla generazione di coppie per
effetto termico che è molto piccola, dell’ordine di 10 pA /mm2, e cala
drasticamente a bassa temperatura. Questa configurazione è quindi adatta ad
essere usata sia come sensore di deboli flussi luminosi che per impulsi di luce
veloci, dato che la polarizzazione inversa aumenta la prontezza della risposta
I fotodiodi normali sono tuttavia relativamente lenti perché la maggior parte dei
fotoni assorbiti genera coppie di portatori fuori dallo strato di svuotamento, e le
cariche che producono segnale devono raggiungere lo strato di svuotamento per
diffusione.
Fig. 10 : Schema di fotodiodo PIN e amplificatore con polarizzazione inversa
Nei fotodiodi PIN (P-layer / Intrinsic-layer / N-layer) lo spessore dello strato di
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svuotamento, che cresce con la tensione inversa, può essere reso abbastanza
grande: ciò rende più rapida la risposta del sensore perché diminuisce la sua
capacità e perché il processo di deriva nel campo della giunzione è più rapido
delprocesso di diffusione, la velocità delle cariche nello strato di svuotamento
può raggiungere decine di Km/s.. .
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