Dal sogno alla lettura vera

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1
Dal sogno alla lettura vera: il superamento della dimensione
della volontà nel pensiero di Simone Weil
“La violenza del tempo lacera l’anima; attraverso la lacerazione entra
l’eternità. Sottrarsi al tempo, peccato”.1 La dimensione temporale è il
limite che l’uomo non può superare senza servirsi di immaginarie
elevazioni e senza rimare quindi vittima dell’illusione e del sogno. Il
tempo però, è anche l’origine della schiavitù umana: “è la
preoccupazione più profonda e più tragica degli esseri umani – annota
la Weil -; si può persino dire, l’unica veramente tragica. Tutte le
tragedie immaginabili si riducono a una sola e unica tragedia: il
trascorrere del tempo”2. Se da una parte l’uomo è perpetuamente teso
all’eternità e quindi al superamento del tempo, dall’altra l’unica
dimensione nella quale questo superamento può avvenire, è proprio
quella temporale; “non c’è niente in noi – afferma la Weil – che non
protesti contro il corso del tempo e tuttavia tutto, in noi, è sottomesso
al tempo”3.
La pensatrice francese propone riflessioni analoghe per quanto
riguarda la dimensione della volontà. Gli atti volontari sono in sé
neutri, se non cattivi4; quello che li fa essere buoni è l’orientamento, il
desiderio diretto verso l’incondizionato. “Tutto ciò che ci procuriamo
con la nostra volontà e i nostri sforzi, - afferma la pensatrice francese e tutto ciò che le circostanze esterne accordano o rifiutano secondo il
1
S. WEIL, Quaderni I, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1982, p. 237.
S. WEIL, Lezioni di filosofia, a cura di M. C. Sala, Adelphi, Milano 1999, p.234.
3
Ivi.
4
Cfr. S. WEIL, Quaderni IV, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1993, p. 180.
2
2
capriccio della sorte è assolutamente privo di valore. Può essere
cattivo o indifferente, ma giammai buono”5. La dimensione della
volontà è quella nella quale è possibile avere coscienza di ciò che è
errato, involontario, quindi della necessità, del tempo come limite
oltre il quale l’uomo non può spingersi; ma la verità non può essere
raggiunta a questo livello. A questo proposito, afferma la Weil,
“l’umiltà acquista un significato differente da quello ordinario; essa
diventa una virtù intellettuale”6; il pensare di cogliere la verità con le
proprie forze è dunque prima di tutto un errore intellettuale, infatti “la
volontà coglie e non è colta”7. “Bisogna accettare completamente la
morte – annota la pensatrice francese- come annientamento”, e con
San Paolo aggiunge “se siamo morti con Cristo, crediamo che
vivremo anche con lui”8, perché rinunciando a tutto il bene esistente,
sensibile, immaginario o concepibile, preferendo piuttosto niente,
l’uomo apre vuoti nei quali gli è possibile attendere, come dono, la
Grazia. Considerare la morte come annientamento significa, per la
Weil, giungere a concepire che la virtù è la coscienza dei propri errori
e che la dimensione della volontà è propedeutica a quella della verità.
Il superamento della dimensione della volontà si presenta, dunque,
come la strada per giungere alla vera lettura, attingibile solo
dall’uomo che, come il vero artista, spingendosi oltre la dimensione
della volontà, ha rinunciato ad esistere. “L’artista –afferma infatti la
Weil- fa silenzio in se stesso e le potenze dell’anima accorrono, ma
l’artista scarta l’ispirazione; è in questo istante di sospensione che egli
crea; e questo istante non dura mai abbastanza”9.
5
Ivi.
S. WEIL, Lezioni di filosofia, cit., p. 243.
7
Ivi.
8
S. WEIL, Quaderni IV, cit., p. 189; le parole di S. Paolo citate dalla Weil, sono tratte
da Romani, VI, 13.
9
S. WEIL, Lezioni di filosofia, cit., p. 245.
6
3
1. L’attenzione
Leggiamo nei Quaderni: “Non essere che un intermediario tra la
terra incolta ed il campo lavorato, tra i dati del problema e la
soluzione, tra la pagina bianca e la poesia, tra lo sventurato che ha
fame e lo sventurato saziato”10. E ancora: “Io sono tutto. Ma questo
io è Dio, e non è un io. Il male produce la distinzione, impedisce
che Dio sia equivalente a tutto. La mia miseria fa sì che io sia io. La
miseria dell’uomo fa sì che in un certo senso, Dio sia io (cioè una
persona)...Un teorema matematico nuovo; un bel verso; riflessi di
questa grande verità. Io sono assente da tutto ciò che è vero, o
bello, o bene”11.Secondo la Weil S. Francesco sapeva questo: la sua
povertà “era il desiderio di gioire puramente della creazione. <<Di
questo nutriti mediante il distacco>>”12. Come riuscire ad eliminare
la dimensione materiale? Come si opera il processo di distacco
dalle cose e dall'io? Quale è la lettura vera del reale?
Compare nei Quaderni, l’ammonimento “non pensare all’orso
bianco”13. L’immagine rappresenta un’ossessione dalla quale
Simone Weil intende mettersi al riparo. Nel catalogo dei peccati
essa appare provocata dal divieto interiore e fa parte della seconda
specie di peccati: “scatola aperta, orso bianco, peccato originale,
ecc. Appartiene all’ordine dell’ossessione; attrazione causata da un
10
S. WEIL, Quaderni I, cit., p. 372.
Ivi, p. 372.
12
Ivi, p. 96.
13
Ivi, p. 224.
11
4
divieto, anche se ci si è proibiti qualcosa noi stessi”
14
. L’orso
bianco è l’attenzione rivolta al divieto, per poter essere sconfitta
deve essere rivolta contro se stessa. Osserva in proposito C. Calò:
“L’orso bianco non può essere scacciato, ma va addomesticato per
scatenarlo contro la parte più bassa di sé”15.
A causa della sua finitezza l’uomo è sottoposto a un esercizio
continuo: lo sforzo di vedere le cose come
“supremo
insegnamento”16. Esso è il ripetersi del distacco dal modo umano di
vedere le cose, che si attua come uno strappo doloroso nell’anima.
Questo sforzo è l’attenzione: l’atteggiamento necessario per la
lettura vera del reale. “Non pensare all’orso bianco. Qualsiasi
pensiero che si impone, che ritorna… può servire da orso bianco –
se è un pensiero che si vuole scacciare, invece di pensarlo più
completamente. Così i dolori, le umiliazioni, le ferite dell’amor
proprio, le ferite del sentimento, tutte le sofferenze vane [proprio]
per la loro vanità, possono servire da orso bianco […]. Le
ossessioni sono
necessarie per essere scacciate (c’è un punto
ottimale) per questo si crea un ossessione dicendo: <<non pensare
all’orso bianco>>… Non c’è pericolo di restare senza orsi bianchi,
ed essi si equivalgono tutti. Lo strappo doloroso nell’anima che
cessa di pensare a qualcosa è il modello del bene”17.
Il continuo sforzo di attenzione, dunque, costituisce il modo per
conseguire il distacco dalle cose naturali, per fare emergere il vero,
il bello, il bene. A questo proposito, Simone Weil considera
l’immoralità della stessa sostanza della letteratura mediocre, che è
tale perché si edifica sulla finzione. Nella realtà, infatti, regna la
14
Ivi, p. 269.
C. CALO’, Simone Weil L’attenzione. Il passaggio dalla monotonia dell’apparenza
alla meraviglia dell’essere,
Città Nuova, Roma 1996, p. 24.
16
S. WEIL, Quaderni III, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1985, p. 67.
15
5
necessità e fuggendola, cioè uscendo dal tempo, l’uomo mostra di
preferire la menzogna divenendo immorale. Al contrario della
letteratura mediocre, quella autentica offre, in forma di finzione,
l’equivalente della realtà: lo spessore della vita che l’uomo
quotidianamente ha di fronte e non riesce a cogliere perché vittima
dell’illusione18. Per questo, annota la Weil, “il teatro deve rendere
sensibile la necessità esteriore ed interiore. Sulla scena, la lenta
maturazione di un atto, con l’universo intorno –poi l’atto
precipitato nel vuoto”19. Il compito delle opere d’arte e della
letteratura è proprio quello di orientare verso il bene e di far
cogliere il nesso che lega vero, bello, bene, dove il bello emerge
come mito del bene e quindi ad esso propedeutico. La
contemplazione delle opere degli artisti è fonte inesauribile di una
ispirazione che può legittimamente orientare. Per chi la sa ricevere,
questa ispirazione può far crescere ali contro la gravità. Il compito
dell’artista non può che essere, dunque, quello di liberare
dall’immaginazione e di spingere ad esercitare l’attenzione.
Ogni attività, se effetto di attenzione e quindi di dispendio di
energia, deve permettere di cogliere l’atman, l’anima, di ogni
cosa. Per questo l’energia implicata dall’attenzione consiste
nel potere di arrestarsi: “che ogni attività abbia al centro dei
momenti di arresto”20. Arrestarsi come è evidente, non
significa per l’uomo estraniarsi dal mondo in cui vive, ma
cogliervi il nesso che lega necessario e bene. Attraverso gli
attimi di arresto si consuma il processo di distacco, come uno
17
S. WEIL, Quaderni I, cit., p. 278.
Cfr. D. CANCIANI, Tra sventura e bellezza, riflessione religiosa e mistica in Simone
Weil, ed. Lavoro, Roma 1998, p. 70.
19
S. WEIL, Appunti per Venezia Salva, in Venezia salva, tr. C. Campo, Adelphi,
Milano 1987; Poesie, Le lettere, Firenze, 1993, p. 29.
20
S. WEIL, Quaderni I, cit., p. 333.
18
6
strappo doloroso dell’anima, che apre alla vera lettura del
reale. Si torna così al nucleo centrale del pensiero della Weil:
quanto differiscano “l’essenza del necessario e quella del
bene”21.
Il distacco, vale a dire la rinuncia dell’uomo al potere
sull’universo, potere peraltro solo apparente, esige, secondo la
Weil l’accettazione del reale così come è veramente, liberato da ciò
che costituisce apparenza, immaginazione, illusione. Perché tale
esito si dispieghi occorre uno sforzo continuo di separazione dal
tempo, quale forza che “strappa l’apparire dall’essere e l’essere
dall’apparire, con violenza”22. “L’eternità entra nel tempo tramite
gli istanti”23. L’uomo deve amare Dio negli istanti rinunciando ad
esistere. L’esistenza è una lacerazione di Dio, per amore.
La preoccupazione dell’uomo deve essere, quella di rivolgersi verso
Dio con un continuo sforzo di attenzione: ciò significa rimanere
costantemente pronti all’azione o alla non –azione, perché disposti
a fare la volontà di Dio. Scrive in proposito la Weil: “Dobbiamo
fare solo ciò cui siamo costretti da una obbligazione vera e
propria”24. Questo è l’atteggiamento che l’uomo deve avere
prendendo a modello il pittore o il poeta: “un vero pittore è a forza
di attenzione, ciò che egli guarda. Nel frattempo la sua mano che
termina in un pennello si muove”25. Lo sforzo di attenzione
conduce perciò ad essere come il poeta che ha rinunciato ad
esistere e che traduce qualcosa di estraneo alla sua volontà; il vero
S. WEIL, Discesa di Dio, in La Grecia e le intuizioni precristiane, tr. M.H. Pieracci –
C. Campo, Rusconi, Borla, Torino 1967, p. 180.
22
S. WEIL, Quaderni II, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1985 155.
23
S. WEIL, Quaderni II, cit., p. 186.
24
Ivi, p. 106.
25
S. WEIL, Quaderni IV, cit., p. 396.
21
7
poeta è, infatti, quello che sa “scrivere come un traduttore, e agire
nello stesso modo”26.
2. Attenzione e immaginazione
Nel tempo si svela la fragilità dell’apparire e dal tempo ci si può
aprire all’essere eterno che vi è nascosto. “Il tempo -infattimanifesta di non essere l’eternità”27. Il rivelarsi all’uomo della
condizione di finitezza può avvenire solo attraverso la Grazia:
“mistero grande quanto l’incarnazione”28. Essa costituisce il
“movimento discendente come condizione di un movimento
ascendente”29. La medesima cosa, dice Simone Weil, deve valere
nell’anima: “movimento discendente come condizione preliminare
di un movimento ascendente. Abbassatevi e sarete elevati.”30 Tale
abbassamento è, da una parte distacco dall’immaginazione,
dall’altra, l’unica strada per giungere alla lettura vera.
Nella prefazione a Venezia Salva è annotato che: “Quelli che
sognano di notte si destano al mattino per scoprire la vanità dei loro
sogni. Ma i sognatori del giorno sono uomini pericolosi, capaci di
recitare ad occhi aperti il loro sogno fino a renderlo possibile” 31. È
questo il tema che segna le vicende di Venezia Salva, tragedia che
26
S. WEIL, Quaderni II, cit., p. 134.
Ivi, p. 155.
28
Ivi, p.142.
29
Ivi, p.143.
30
Ivi, p.143.
31
S. WEIL, Venezia Slava, cit. p.11.
27
8
Simone Weil cominciò a scrivere nel 1940 e che è rimasta
incompiuta. La Venezia che l’autrice francese ci presenta è una
città perfetta, che sta per essere piombata nel sogno orrendo della
forza. Un uomo attento, all’improvviso, in un istante, la vede nella
sua bellezza e la salva. Questo personaggio, protagonista
dell’opera, è Jaffier, il congiurato che tradisce i compagni e salva la
città: è il giusto che blocca la corsa del male. Egli fa dell’attenzione
un’arma per opporsi al sogno, all’immaginazione come forza che
“lavora continuamente a chiudere tutte le fessure dove la grazia
potrebbe passare”32. La giusta lettura del reale, perciò, consiste
nell’accogliere allo stesso modo gioie e dolori, nel non volere, in
virtù dell’attenzione, che qualche cosa sia diversamente da come è.
Annota in proposito la Weil: “quel che conta in una vita umana non
sono gli eventi che vi dominano il corso degli anni – o dei mesi – e
nemmeno dei giorni. È il modo con il quale ogni minuto si connette
al minuto seguente e quel che a ognuno costa nel cuore, nell’anima
– e al di sopra di tutto nell’esercizio della facoltà di attenzione –
compiere minuto per minuto quella connessione”33.
Il modo
dell’attenzione consente di vedere ogni parte dell’universo
collegata alle altre secondo rapporti di somiglianza. Questo esito
risalta ancor più se posto in relazione alla riflessioni intorno alla
creazione ed alla decreazione. La pensatrice vede la creazione
come una rinuncia da parte di Dio, non intesa però come un ritirarsi
per liberare uno spazio destinato al mondo ed all’uomo. La
dimensione della rinuncia è importante per comprendere il rapporto
tra tempo ed eternità. Attorno ad essa si gioca la possibilità per
l’uomo di passare dalla apparenza alla realtà delle cose, dalla
32
33
S. WEIL, L’ombra e la grazia, tr. F. Fortini, Rusconi, Milano 1985, p. 30.
S. WEIL, Diario di fabbrica, in La condizione operaia, SE, Milano 1994, p.105.
9
immaginazione alla contemplazione. L’essenza del necessario e
quella del bene vanno lette nella correlazione tra la rinuncia da
parte dell’uomo e quella da parte di Dio. Quest’ultima è il
fondamento della prima. “La creazione - annota la Weil - è un atto
d’amore ed è perpetua. In ogni istante, la nostra esistenza è amore
di Dio per noi. Ma Dio può amare solo se stesso. Il suo amore per
noi è amore per se stesso attraverso di noi. Così Egli, che ci dà
l’essere, ama in noi il consenso a non esistere. Perpetuamente egli
mendica da noi l’esistenza che ci dà. Ce la dà per chiedercela in
elemosina”.34 Tutto ciò che è distacco, distanza, difficoltà, tutto ciò
che provoca dolore è un segno dell’amore di Dio: “è Dio che per
amore si ritira da noi perché ci sia possibile amarlo”35.
In seguito della creazione, intesa come un atto d’amore di Dio, è
possibile vedere ogni parte dell’universo collegata alle altre
secondo rapporti di somiglianza. La creazione, infatti, è la ragione
dell’esistenza di tale rete di nessi analogici. Per questo la Weil
afferma “Un simile atto non si esaurisce, una volta che la materia
ha preso consistenza d’essere, ma permane immutato lungo tutto
l’arco infinito dell’eternità”36. L’universo non è qualcosa di inerte
ma è animato dall’amore divino che spinge tutti gli elementi
cosmici a congiungersi vicendevolmente: questa è l’armonia dei
contrari. “Le correlazioni dei contrari – afferma Simone Weil –
sono come una scala. Ciascuna ci eleva a un piano superiore in cui
abita il rapporto che unisce i contrari. Finché giungiamo a un luogo
in cui dobbiamo pensare insieme i contrari, ma non possiamo
accedere al piano in cui essi sono legati. È l’ultimo gradino della
scala. Là, non possiamo più salire, dobbiamo fissare lo sguardo,
34
35
S. WEIL, L’ombra e la grazia, cit. p.44.
Ivi.
10
attendere e amare. E Dio discende”37. L’analogia è spiegata come
una identità tra due rapporti, in questo senso è il contrario della
somiglianza: è una via ascendente, in quanto “ci fa arrampicare su
quel tessuto connettivo costituito dalla trama delle relazioni del
logos che si spande tra noi e Dio”38. Si può accedere solo a quelle
analogie che si presentano allo sguardo attento, sotto forma di
ispirazione, a partire dal particolare: “Non si può riflettere che sul
particolare (Descartes), mentre l’oggetto della riflessione è per
essenza l’universale. Si ignora come i Greci abbiano risolto questa
difficoltà. I moderni l’hanno risolta con segni rappresentanti ciò che
è comune a più cose. La mia soluzione […]: l’analogia”39.
Il luogo nel quale l’universo si presenta nella sua interezza, a
partire da ogni determinazione particolare, alla condizione
esclusiva dell’attesa, è l’istante. Nell’attesa, e quindi nell’istante,
“l’attenzione si sostanzia come durata […] In essa si ricerca una
mediazione stabile tra tempo ed eternità […] essa è dunque
tensione, anche se non attiva ma recettiva”40 ed ha quindi valore
ontologico. Al contrario dell’attenzione il sogno, lungi dall’essere
apertura alla vera lettura del reale, è invece fonte di immaginarie
elevazioni, capaci solo di sradicare, quindi di far vivere nel regno
delle illusioni. “Fra tutte le forme attuali assunte dalla malattia dello
sradicamento, quella dello sradicamento della cultura è una delle
più allarmanti. La prima conseguenza di questa malattia è… che
essendo state troncate tutte le relazioni ogni cosa viene considerata
come fine a se stessa. Lo sradicamento genera l’idolatria”41.
36
M. ZANI, Invito al pensiero di Simone Weil, Mursia, Milano, 1994, p.176.
S. WEIL, Quaderni III, cit., p. 83.
38
C. CALO’, cit., p. 122.
39
S. WEIL, Quaderni I, cit., p. 200.
40
C. CALO’, cit., p. 94.
41
S. WEIL, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso la creatura
umana, tr. F. Fortini, SE, Milano 1990 p. 70.
37
11
Nella civiltà moderna l’immaginazione ha preso il posto
dell’attenzione proprio perché è una civiltà sradicata. È per questo
che negli scritti della pensatrice francese è valorizzato il
radicamento greco, considerato il solo capace di riorientare verso la
lettura vera del reale, verso l’acquisizione della via analogica, la
sola che permetta di concepire un sapere capace di ripensare il
mondo sempre daccapo, in una filosofia concepita come
trasformazione dell’essere. La civiltà ricercata dalla Weil è dunque
quella in cui la dimensione religiosa sia capace di illuminare ogni
aspetto dell’esistenza, al contrario di quanto la modernità abbia
progettato e realizzato. Non può esservi per questo alcun dualismo
fra religione e mentalità scientifica. Il primato del contemplativo
proposto da Platone è un correttivo del primato dell’utile.
Se nell’epoca presente la geometria viene presentata “agli studenti
liceali come qualcosa che non ha la minima relazione col mondo”42,
nei Greci – osserva la Weil - è “la prima delle profezie”43.
“La scienza pura è una contemplazione dell’ordine del mondo come
necessità… è a causa della loro fede –fede ispirata dall’amore del
Cristo- che i Greci hanno avuto quella fame di certezza che ha fatto
loro inventare la dimostrazione geometrica”44. Quello che conta è
l’esercizio continuo dell’attenzione, capace di connettere un minuto
a quello seguente e addirittura di legare misteriosamente tempo ed
eternità, necessità e trascendenza. Proprio a questo riguardo, nello
scritto Riflessioni sull’utilità degli studi scolastici, al fine
dell’amore di Dio, la Weil annota: “la qualità dell’attenzione è
strettamente collegata alla qualità della preghiera”45 e aggiunge
42
Ivi, p. 70.
S. WEIL, Quaderni I, cit., p.410.
44
Ivi, p. 401.
45
S. WEIL, Riflessioni sull’utilità degli studi scolastici, al fine dell’amore di Dio, in
Attesa di Dio, tr. O. Nemi, Rusconi, Milano 1972, p. 69.
43
12
“Oggi sembra che lo si ignori, ma lo scopo reale e l’interesse quasi
unico degli studi è quello di formare la facoltà dell’attenzione. […].
Se si ricerca con vera attenzione la soluzione di un problema di
geometria, e se dopo un’ora si è sempre allo stesso punto di
partenza, ogni minuto di quest’ora costituisce un progresso in
un’altra dimensione, più misteriosa”46. Esercitando il modo dell’
attenzione, come il giusto modo per pervenire alla vera lettura del
reale, è possibile per la Weil trovare nel tempo un legame con
l’eterno.
Il tempo è il “campo di battaglia” nel quale l’uomo rischia di cadere
vittima se non fa attenzione al reale senso delle cose. Se prevale
l’immaginazione: “Noi siamo abbandonati nel tempo [e] Dio non è
nel tempo”47. Questo vale anche per la giustizia: “perché la
giustizia divina possa essere per gli uomini un modello da imitare,
non basta che sia incarnata in un uomo”
48
. Allo stesso tempo è
però necessario che in quest’uomo la giustizia sia manifesta. La
deve quindi vedere “senza prestigio, nuda, spogliata di tutto il
fulgore che [le] dà la fama”49. Deve essere cioè una giustizia privata
dell’apparenza. “Se non appare, se nessuno sa che il giusto perfetto
è giusto, come potrebbe questi servire da modello? […] La sua
presenza è inutile se il contatto con lei ci manca”50. Qui la Weil
presenta una situazione contraddittoria: il modello perfetto di
giustizia non può apparire e però, l’uomo non può avere altro
rapporto con quel modello che attraverso un contatto con qualcosa
che appare. “Noi non abbiamo accesso che alle apparenze e le
apparenze sono prestigio, appartengono al regno della forza.
Ivi, p. 69 – 70.
S. WEIL, Quaderni IV, cit., p. 176 –177.
48
S. WEIL, Discesa di Dio, in La Grecia e le intuizioni precristiane, cit., p.179.
49
Ivi,179.
50
Ivi, p.179.
46
47
13
L’apparenza della giustizia è un mezzo per procurarsi certi
vantaggi, e la si ottiene con certi procedimenti. Essa fa parte degli
ingranaggi della necessità. C’è una distanza infinita fra l’essenza
del necessario e quella del bene”51. L’uomo non può, uscire dal
tempo senza l’intervento della Grazia, farlo significherebbe essere
un sognatore del giorno, quindi estremamente pericoloso. La
pensatrice francese considera tutti i peccati come “tentativi per
sfuggire al tempo. La virtù consiste nel subire il tempo, nel premere
il tempo nel proprio cuore fino a stritolare il cuore. Allora si è
nell’eterno”52.
Dal momento che l’uomo si trova nel regno della necessità, al
mondo sensibile può appartenere solo l’apparenza della giustizia e
mai la giustizia reale. Tentare di fuggire alla realtà delle cose
significa vivere nell’immaginazione: il sogno è proprio questa fuga
dal tempo, quindi dalla realtà, tentata dall’uomo con immaginarie
elevazioni. Gli uomini che vivono di sensazioni, secondo Simone
Weil, sono destinati a cadere vittima di una tristezza profonda, nella
quale non resta che lo stordimento nella menzogna miserevole a se
stessi. In questo senso l’autrice francese oppone al sogno, inteso
come fuga dal tempo, l’attenzione vista come tensione- a, quale
giusto modo di vedere le cose. Con il continuo sforzo di attenzione,
è possibile per l’uomo orientarsi nel tempo verso l’eterno,
cogliendo il misterioso nesso che lega necessità e trascendenza:
“c’è una distanza infinita fra l’essenza del necessario e quella del
bene”53. Tempo ed eternità, necessità e bene, sono due mondi in
apparenza privi di rapporto; ma in realtà profondamente legati: “noi
–annota la Weil- siamo abbandonati nel tempo. Dio non è nel
51
52
Ivi, p.179 – 180.
S. WEIL, Quaderni IV, cit., p. 129.
14
tempo”54. La soluzione di queste contraddizioni radicali non può
essere, per la pensatrice francese, che soprannaturale. Questa
soluzione però è reale solo per le anime possedute dalla luce della
Grazia. A questo proposito viene proposta l’immagine platonica
delle anime che, uscite dalla caverna, disposte in condizione di
attesa, si lasciano prendere dalla luce di Dio. Per i privi del dono
della
Grazia
la
contraddizione
rimane
insolubile
ed
il
riconoscimento della giustizia reale è per questi impossibile,
proprio perché priva di apparenza. “Durante i giorni in cui Cristo
fu, come vaticinava Platone55
–annota la Weil-, interamente
spogliato di ogni apparenza di giustizia, i suoi stessi amici non
hanno più avuto la completa coscienza che egli era perfettamente
giusto. Altrimenti avrebbero potuto dormire mentre egli soffriva,
fuggire, rinnegarlo?”56
53
S. WEIL, Discesa di Dio, in La Grecia e le intuizioni precristiane, cit., p. 180.
S. WEIL, Quaderni IV, cit., p.176 –177.
55
Nei saggi Dio in Platone e Discesa di Dio, la Weil individua nel filosofo
dell’Accademia, da lei interpretato come mistico, l’anticipatore del messaggio
cristiano. In particolare la pensatrice sottolinea come il filosofo greco abbia rilevato
l’incompatibilità fra apparenza e realtà che obbliga la giustizia perfetta ad apparire
quaggiù sotto la forma di un criminale condannato. “Platone –dice la Weil-, giungendo
fino a supporre che il giusto perfetto non è riconosciuto come giusto neppure dagli dei,
presagisce la parola più trafiggente che ci sia nel Vangelo: <<Dio mio perché mi hai
abbandonato?>>. La ragione che Platone dà della sofferenza del giusto è differente da
quella di riscatto, di sostituzione del castigo che appare nel cristianesimo […] Ma c’è
un rapporto fra le due idee. Causa il capovolgimento umano operato dal peccato
originale, c’è questa incompatibilità fra l’apparenza e la realtà che obbliga la giustizia
perfetta ad apparire quaggiù sotto forma di un criminale condannato” (in S. WEIL,La
Grecia e le intuizioni precristiane, cit., p.180). Per questo, quando il Cristo fu spogliato
di ogni apparenza di giustizia, i suoi stessi amici non hanno avuto la completa
coscienza che egli era perfettamente giusto. Per lo stesso motivo, la Weil rileva che
“Non ci rappresentiamo più assolutamente il Cristo morente come un criminale di
diritto comune […] Oggi il Cristo glorioso vela per noi quello che fu fatto maledizione;
e così noi rischiamo di onorare sotto il suo nome l’apparenza e non la realtà della
giustizia” (Ibid.). L’autrice francese considera il Convito, uno dei testi in cui emerge
con più forza l’incompatibilità tra apparenza e realtà. La Weil individua nei passi di
Convito, 210d, 211a-c, 212a-b le tappe che conducono l’anima dalla considerazione
della bellezza fisica alla contemplazione della bellezza in sé: “questi testi mostrano
quanto si ingannano coloro che considerano le idee di Platone come astrazioni
solidificate. Si parla qui di un matrimonio spirituale col bello, matrimonio grazie al
quale l’anima partorisce veramente delle virtù”(Ivi, p. 183).
56
S. WEIL, Discesa di Dio, in La Grecia e le intuizioni precristiane, cit., p.180.
54
15
L’attenzione si presenta come un lavoro su se stessi, volto ad
eliminare tutto ciò che è di ostacolo alla giusta lettura delle cose,
fino a giungere a coglierle nella loro essenzialità: “le cose sono ciò
che sono: supremo insegnamento”57. In una lettera scritta ad una
sua allieva, scrive: “la realtà della vita non è la sensazione; è
l’attività, intendo l’attività sia nel pensiero sia nell’azione. Coloro
che vivono di sensazioni non sono, materialmente o moralmente,
altro che parassiti rispetto agli uomini lavoratori e creatori, i quali
soltanto sono uomini. Aggiungo che questi ultimi, pur non
ricercando le sensazioni, ne ricevono tuttavia di molto più vive e
profonde, di meno artificiali e più vere di coloro che le ricercano. In
definitiva la ricerca della sensazione implica un egoismo che, per
quanto mi concerne, mi fa orrore […]si vive in mezzo a fantasmi.
Si sogna, piuttosto di vivere”58.
3. Creazione e decreazione
La contraddizione radicale dell’uomo posto nel tempo è di essere
preda delle apparenze ma rivolto all’eterno.
Dice la Weil in proposito: “il passato e l’avvenire ostacolano
l’effetto salutare della sventura fornendo un campo illimitato ad
immaginarie elevazioni. Per questo la rinuncia al passato ed
57
58
S. WEIL, Quaderni III, cit., p. 67.
S. WEIL, Piccola cara…lettere alle allieve, Marietti, Genova 1998, p. 54.
16
all’avvenire è la prima delle rinunce”59. Proprio la rinuncia al
tempo60 è richiesta all’uomo per rispondere all’atto d’amore di Dio
che, con la creazione, rinuncia ad essere tutto. L’attenzione, intesa
come sforzo, come tensione - a…, è un processo di distacco , di
sospetto circa la consistenza del reale, così come dell’io: essa è un
continuo
superare
ostacoli:
l’apparenza,
l’immaginazione,
l’illusione, l’idolatria: “La forza è naturalmente in basso, verso il
basso, gravità. L’apparenza è in basso”61. La forza è il luogo della
massima lontananza dalla decreazione: è la “regione ontologica,
dove la presenza di Dio è espressa dalla sua perfetta assenza” 62. È
proprio questo il luogo dove è più difficile trovare un equilibrio e
proprio per questo è qui che è richiesto il massimo di sforzo, di
attenzione.
Ad imitazione della rinuncia da parte di Dio che, con la creazione
“rinuncia - in un certo senso – a essere tutto… […] Noi dobbiamo
rinunciare a essere qualcosa. È per noi l’unico bene”63. È evidente
che la rinuncia di Dio, non è altro che il modo di esibire la propria
identità da parte di Dio: “Dio vuole essere, non perché è lui, ma
perché è il Bene. Il padre fa essere il figlio per amore, perché il
figlio è il Bene. Il figlio non vuole essere per amore, perché solo il
Padre è il Bene. Per il Padre, Dio è il figlio. Per il Figlio, Dio è il
Padre. Ambedue hanno ragione, e si tratta di un’unica verità. Così
essi sono due Persone e un solo Dio. Il Padre è creazione
dell’essere, il Figlio è rinuncia all’essere; questa duplice pulsione è
un atto unico che è Amore o Spirito”.64 Immagine dello stesso
movimento, dove è necessario non – essere per essere, è, da parte
L’ombra e la grazia, p.32.
Una rinuncia che, come abbiamo visto, può realizzarsi solo nel tempo.
61
S. WEIL, Quaderni I, cit., p. 368.
62
C. Calò, cit., p. 26.
63
S. WEIL, Quaderni II, cit., p.98.
59
60
17
dell’uomo la necessità di rinunciare ad esistere. “Finché viviamo
c’è in noi desiderio, [e] questo stesso desiderio è la pienezza del
bene se gli impediamo di dirigersi da qualche parte, di subordinarsi
ad un oggetto che è bene solo in piccola parte”65. Poiché “lo
scambio d’amore tra il Padre ed il figlio passa attraverso la
creazione”, all’uomo spetta di acconsentire a questo passaggio.
Anzi, proprio quel limite, la rinuncia da parte di Dio , diviene per
l’uomo la condizione di conoscenza e di accesso alla verità stessa di
Dio e perciò anche di sé: questo atto di rinuncia da parte dell’uomo
è, appunto, la decreazione. Poiché la creazione è una abdicazione
volontaria da parte di Dio, ad imitazione di tale movimento di
rinuncia
“<<noi
abbiamo
un
po’
di
potere.
Abdicando,
acconsentiamo a tutto, diventiamo onnipotenti. Perché allora non
può accadere alcunché che non abbia il nostro consenso>>. È
questa la verità della fede –afferma G. Trabucco- e se, in un senso,
<<Dio ha abdicato alla sua onnipotenza divina e si è svuotato>>,
anche noi mediante il consenso, <<abdicando alla nostra piccola
potenza umana diventiamo, nel vuoto, simili a Dio>>” 66. Quindi,
come abbiamo già detto, il tabù che, in riferimento al tema
dell’orso bianco, rappresenta il limite che fa da intermediario tra
tempo ed eternità, è la condizione stessa di conoscenza e di accesso
alla verità. Se per l’atto creativo l’uomo si ritrova lontano da Dio,
con l’atto decreativo può giungere a conoscere la verità. La
decreazione è un cambio di rotta da parte dell’uomo: “rinunciare ad
esistere. Ritornare dal movimento retto a quello circolare”67.
64
S. WEIL, Quaderni IV, cit., p.123.
S. WEIL, Quaderni III, cit., p.190.
66
G. TRABUCCO, Poetica soprannaturale. Coscienza della verità in Simone Weil,
Glossa, Milano 1997, p. 182.
67
S. WEIL, Quaderni III, cit., p.190.
65
18
La rinuncia da parte dell’uomo è, quindi, qualcosa di attivo, anche
se non è una rinuncia reale al dominio della materia e delle anime,
poiché non possiede quel potere, ma solo l’immagine di esso.
Scrive Simone Weil: “Come Dio, pur stando fuori dell’universo, ne
è ad un tempo il vero centro, così ogni uomo immagina di occupare
il centro del creato…”68. “Noi siamo nella irrealtà, nel sogno.
Rinunciare alla nostra illusione di essere situati al centro, significa
aprire gli occhi alla realtà, all’eternità, vedere la vera luce, sentire il
vero silenzio”69.
“Riconoscere che tutti i punti del mondo sono altrettanti centri allo
stesso titolo e che il vero centro sta fuori del mondo, significa
acconsentire al fatto che la necessità domina sulla materia e che la
libera scelta sta al centro stesso di ogni anima. Questo consenso è
amore”.70 Il rinunciare ad esistere per far sì che Dio sia, è amore
perché significa accettare l’altro da sé. È nell’altro, infatti, che
l’uomo percepisce l’esistenza di molteplici punti di vista
nell’universo, di altre prospettive. Accettare e amare l’altro
significa rinunciare all’apparenza del suo
potere sul mondo e
quindi acconsentire a che Dio sia. Rinunciando ad esistere, l’uomo
annienta il potere della immaginazione che compensa, aprendo
così, nell’inesistenza del proprio io, vuoti che lasciano spazio
all’intervento della Grazia: è questa la fine della dimensione della
volontà. Dice Simone Weil: ”L’amore di sé è l’unico amore; ma
solamente Dio può amarsi. Per questo non c’è per noi altro amore
che pregare Dio d’amarsi attraverso noi”71. Acconsentendo a non
esistere si creano vuoti, nei quali l’uomo può avvicinarsi a Dio:
Forme dell’amore implicito di Dio, in Attesa di Dio, cit., p.124.
Ivi, p.125.
70
Ivi, p.126.
71
S. WEIL, Quaderni II, cit., p.98.
68
69
19
abdicando alla propria apparenza di potenza ogni uomo può
avvicinarsi all’onnipotenza divina.
In una delle sue riflessioni attorno all’immagine platonica della
caverna la Weil scrive: “L’irrealtà delle cose, che Platone dipinge
così fortemente nella metafora della caverna, non si riferisce alle
cose come tali; le cose come tali hanno la pienezza della realtà,
poiché esistono. Si tratta delle cose come oggetto d’amore. In
questa qualità sono ombre di marionette”.72
Gli ostacoli che impediscono una vera lettura del reale sono stati
ricondotti, per quanto detto fin qui, all’apparenza. A questo
proposito C. Calò73 rileva come l’immaginazione, specialmente nei
primi scritti weiliani, rappresenti un ostacolo al processo
d’attenzione, ma sia allo stesso tempo inevitabile. L’inevitabilità
discende dalla funzione privilegiata del rapporto “io – mondo”.
Anche
se
negli
scritti
successivi
questo
aspetto
della
immaginazione subisce un mutamento diventando il residuo
subordinabile al concetto di attenzione, rimane ugualmente l’idea di
un ostacolo che necessariamente l’uomo ha davanti e deve
superare. Si ripropone la differenza radicale tra necessario e bene.
“<<… Quanto differiscano l’essenza del necessario e quella del
bene>>74. In proposito la Weil ribadisce “Bisogna tornare sempre a
questo punto”75. La fuga dal tempo è un peccato perché comporta
di rivolgere l’attenzione verso il divieto, verso ciò che non è reale,
ma sogno, immaginazione. Essere nel tempo è l’essenza stessa
dell’uomo.
72
S. WEIL, Discesa di Dio, La Grecia e le intuizioni precristiane, cit. p. 171.
C. Calò, cit.
74
La citazione di PLATONE Repubblica, 493c, compare in Quaderni II, cit., pp.
311,327; Quaderni III, cit., pp. 34, 67, 81, 112, 121, 174, 189, 230.
75
S. WEIL, Quaderni III, cit., p.112.
73
20
Acconsentire a non - esistere allora, nella prospettiva weiliana, non
significa oltrepassare il tempo, ma accettare di essere nel tempo e
con un continuo sforzo di attenzione, cogliere l’orientamento verso
l’eterno; lasciare che l’eterno conduca fuori del tempo.
Questo significa porsi in condizione di attesa, significa essere
consapevoli del fatto che “non ci sono date che sensazioni, e
qualsiasi cosa facciamo non possiamo mai, mai pensare… altro che
sensazioni, noi leggiamo attraverso esse”76e illudersi del contrario,
significa essere vittima del sogno, dell’immaginazione che colma.
L’uomo non può che essere continuo sforzo di attenzione, come
tensione alla visione delle cose per quello che sono. Annota la Weil
nei Quaderni “ le cose sono quel che sono, supremo
insegnamento”77, ma noi le vediamo solo come ci appaiono.
L’attenzione è un tendere –a, un movimento che implica una
esistenza nel tempo, orientata all’eternità.
Le cose che per l’uomo non sono che segni, di per sé sono neutre,
prive di connotazioni positive e negative, né buone né cattive; sta
dunque all’uomo coglierne l’essenza reale. Il segno è qualcosa di
ambiguo e se l’uomo orienta male l’attenzione, nella situazione di
mancata decifrazione in cui si trova, inclina verso l’idolo. “L’idolo
–infatti- protegge dall’orrore del vuoto; in mancanza di una realtà
comprensibile ci si fabbrica una realtà fittizia, che dia almeno
l’illusione di un contatto con il reale;
ma l’idolo, simulacro di realtà, fa precipitare nell’ossessione, in
una caduta vertiginosa che allontana sempre di più il mondo”78.
76
S. WEIL, Quaderni I, cit., p. 230.
S. WEIL, Quaderni III, cit., p. 67.
78
W. TOMMASI, Simone Weil: segni, idoli e simboli, Milano 1993, p.124.
77
21
È dunque la perdita di contatto con il reale, con le cose, che
predispone i segni a diventare idoli. L’uomo vive in un mondo di
apparenze, per questo non ha una lettura immediata del reale senso
delle cose. Questo spiega perché i discepoli hanno tradito Gesù,
non avevano coscienza del fatto che Lui era il Giusto; altrimenti
“avrebbero potuto dormire mentre egli soffriva?”79
“Il mondo è un testo a più significati, e si passa da un significato a
un altro mediante un lavoro. Un lavoro cui il corpo prende sempre
parte, come quando si impara l’alfabeto di una lingua straniera, tale
alfabeto deve penetrare nella mano a forza di tracciare le lettere”80.
Attraverso questo lavoro che è un continuo sforzo di attenzione,
l’uomo giunge alla lettura vera del reale, scopre la prospetticità
della sua presenza nell’universo e si apre all’altro, rinunciando al
proprio io e riconoscendo all’estraneo un uguale diritto a dire io.
“Sapere che altri esseri umani hanno un diritto uguale al nostro a
dire <<io>>; saperlo completamente; questo è soprannaturale.
Forse quanto la credenza nell’eucarestia?
E come per l’eucarestia, l’organo di tale conoscenza è l’amore
soprannaturale. [Il razionalismo; se significa pensare che la ragione
è l’unico strumento, si è nel vero; se significa pensare che essa è
uno strumento sufficiente, è una stupidaggine]”81.
79
S. WEIL, Discesa di Dio, La Grecia e le intuizioni precristiane, cit. p. 180.
S. WEIL, Quaderni I, cit., p. 230 – 231.
81
S. WEIL, Quaderni II, cit., p. 245.
80
22
4. Lettura weiliana ed ermeneutica
Nei Quaderni Simone Weil scrive: “Questo è un tentativo per
definire una nozione, che non ha ancora ricevuto un nome
adeguato, e alla quale si potrebbe forse adattare il nome di lettura.
Nella lettura c’è un mistero, un mistero la cui contemplazione può
probabilmente aiutare non a spiegare, ma a cogliere altri misteri
nella vita degli uomini”82. È ancora più evidente che la vera lettura
del reale, nasce dall’essere consapevoli di “… quanto differiscano
l’essenza del necessario e quella del bene”83 e dal comprendere che
“bisogna tornare sempre a questo punto”84. Da questa acquisizione,
deriva la certezza che con le proprie forze all’uomo è precluso di
giungere alla verità: in questa situazione, se l’uomo rinuncia ad
esistere, si aprono dei vuoti nei quali la Grazia può passare.
G. Trabucco rileva come la Weil non abbia potuto conoscere il
movimento di pensiero che va sotto il nome di ermeneutica,
“tuttavia la questione della lettura corrisponde –nella Weilprecisamente
alla
questione
dell’ermeneutica,
o,
meglio,
coerentemente con tutto l’itinerario del suo pensiero, del principio
ermeneutico nella sua qualità ontologica radicale”.85 L’attenzione,
infatti,
rappresenta
dell’ermeneutica
proprio
poiché
dice
“la
la
dimensione
veritativa
coappartenenza
dell’atto
dell’interpretare e della manifestazione della verità, come la
82
S. WEIL, Quaderni IV, cit., p. 407.
Cfr. nota 74.
84
S. WEIL, Quaderni III, cit., p.112.
85
G. TRABUCCO, cit., p. 194.
83
23
condizione per la quale il carattere interpretativo di ciò che
conosciamo è vero”86.
La condizione umana si rivela perciò come condizione ermeneutica,
poiché essa si definisce, essendo priva di assolutezza, in un
continuo rapporto con i dati di esperienza indagandone il senso e
ricercando il significato della stessa domanda di senso.
In questo orizzonte va letto l’impegno di Paul Ricoeur volto a
risolvere il conflitto tra le interpretazioni. Il conflitto nasce dalla
pluralità che, da una parte si presenta liberante, ma dall’altra,
invece, come contrapposizione di ipotesi contraddittorie. In Ricoeur
la teoria del testo è il centro dell’ermeneutica. Il testo costituisce il
supporto per eccellenza di una comunicazione che esiste solo
attraverso la distanza; distanza propria della scrittura, come
separazione dal discorso ed allo stesso tempo memoria di esso.
La memoria non è qui solo ripetizione, ma anche ripresa
interpretante: è dialogo silenzioso che, nella situazione presente,
supera i limiti del domandare e del rispondere. Discende da qui
discende l’instaurarsi di una nuova distanza, quella tra scrittore e
lettore come rimedio alla debolezza del discorso che l’autore non
può più salvare. Occorre andare ancora oltre, in quanto l’autonomia
del testo dalla situazione e dal lettore è anche lontananza
dall’autore. Il testo è un messaggio attorno a un mondo, offerto al
lettore come testimonianza di senso e proposta di senso, è
l’orizzonte
nel
quale
comprendersi
nell’atto
stesso
del
comprendere. La distanza è l’occasione per un processo di
appropriazione.
È evidente come, in questo orizzonte ermeneutico, vivere e dire
vengano assunti sullo stesso piano, dove tutto si gioca sull’agire e
86
Ivi.
24
sul patire. La “via longa” proposta da Ricoeur è una strada piena di
deviazioni e possibilità di arricchimento. Ma chi è in grado di
intraprendere questa via? O meglio, chi conduce il movimento
dell’interrogazione? Qui la riflessione di Ricoeur non a caso il
punto di partenza nel rapportarsi a quella tradizione filosofica dalla
quale nessun filosofo può prescindere. Al centro del discorso viene
posto il soggetto interrogante, superamento della visione cartesiana
del Cogito che si proponeva di essere originaria e fondante. Da
questi presupposti è possibile capire lo stile riflessivo della filosofia
di Ricoeur che si presenta come un atto di ritorno su di sé, mediante
il quale un soggetto ritrova il principio capace di
unificare le
percezioni tra le quali si disperde e si dimentica come soggetto.
La filosofia appare come il compito di attardarsi sulla e nella
soggettività per coglierne i sensi. Essa è un continuo sforzo di
rinuncia alla immediatezza, l’immediatezza è il “paradiso perduto
della fenomenologia” e di lotta
contro il cogito illusorio,
servendosi delle procedure proprie della psicanalisi freudiana,
secondo il metodo proprio dell’ ermeneutica del sospetto: “Ciò che
risulta da questa avventura è un cogito ferito, un cogito che pone se
stesso, ma non si possiede, un cogito che non comprende la propria
verità originaria altrimenti che dentro e per mezzo della
ammissione dell’inadeguatezza, dell’illusione, della menzogna
della coscienza immediata”87. “Come per Spinoza, dunque, la
perdita delle illusioni della coscienza è la condizione di ogni
riappropriazione del soggetto vero”88. “<<…Quanto differiscano
l’essenza del necessario e quella del bene>>89. Bisogna tornare
87
P. RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni, Jaka book, Milano 1995, tr. It. R.
Balzarotti, F. Botturi, G. Colombo, p. 258.
88
Ivi, p. 259.
89
Cfr. nota 74.
25
sempre a questo punto”90, ripete la Weil. La filosofia è, ricerca
dell’eterno ed essa stessa, come l’arte, in un certo senso eterna91: è
una virtù, un lavoro su se stessi, una trasformazione dell’essere, che
non comporta la scoperta del nuovo92.
  93, afferma con Eschilo la Weil e spiega: “
designa a un tempo sofferenza (precisamente sofferenza fino alla
morte: egli
ha sofferto…)
e modificazione
(precisamente
trasformazione in essere immortale). La conoscenza mediante la
sofferenza, la conoscenza mediante la trasformazione”94. La
filosofia
è
dunque
sofferenza,
perché
consapevolezza
dell’irraggiungibilità della verità. L’uomo non può raggiungere la
verità con le proprie forze, la può solo ricevere come dono
desiderandola, attendendola. La sofferenza deve giungere fino alla
morte, alla morte dell’io, per aprire quei vuoti nei quali la Grazia
può passare. “Privazione del futuro, vuoto, squilibrio.
Per questo <<filosofare è imparare a morire>>”95, a perdere la
prospettiva, ad accettare l’esistenza di altri punti di vista
sull’universo; significa imparare ad amare. Per questo la filosofia è
anche trasformazione. Con la perdita della dimensione prospettica,
90
S. WEIL, Quaderni III, cit., p. 112.
Eterna, in quanto rappresenta un certo modo di concepire l’eternità, quindi
un’immagine dell’eternità stessa.
92
L’illusione di trovare nel nuovo, la verità, è l’illusione della modernità e della sua
cieca fede nel progresso: “Ciò che è migliore di noi non possiamo trovarlo nel futuro.
Il futuro è vuoto e la nostra immaginazione lo riempie. La perfezione che noi
immaginiamo è a nostra misura; è esattamente imperfetta che noi stessi” (S. WEIL,
L’ispirazione occitanica, in I Catari e la civiltà mediterranea, tr. G. Gaeta, Marietti,
Genova, 1996 p. 27). È per questo che l’autrice francese ritrova nei filosofi antichi, in
particolare nei pitagorici e in Platone, le tracce di una filosofia eterna, che non cambia
le sue verità fondamentali, mai definitivamente raggiungibili dall’uomo e che
insistentemente riporta alla contraddizione radicale: “…Quanto differiscano l’essenza
del necessario e quella del bene” (S. WEIL, Quaderni III, cit., p. 112).
93
“Mediante la sofferenza la conoscenza”; Citazione da ESCHILO, Agamennone, 177,
che la Weil ripete spesso nei Quaderni: S. WEIL, Quaderni III, cit., p. 48, 85, 101,104,
105, 119, 224, 250, 267; S. WEIL, Quaderni IV, cit., p. 135, 375, 376.
94
S. WEIL, Quaderni III, cit., p. 105.
95
S. WEIL, Quaderni I, cit., p. 386.
91
26
mediante un continuo sforzo di attenzione, l’uomo si trasforma e si
pone in condizione di attesa disponendosi a ricevere il dono della
Grazia. La morte dell’io conduce alla perdita dell’immaginaria
pretesa di potere sull’universo, significa rinunciare ad esistere per
far sì che Dio sia. La presenza di Dio nell’uomo trasforma da esseri
mortali in esseri immortali. “Modificazione (trasformazione in
esseri immortali)”96.
Come la poetica e tutta l’arte, la filosofia è eterna perché si rinnova
nel continuo tendere - a una verità altra dall’uomo, mai
definitivamente raggiungibile ma unico ed ineludibile scopo.
Secondo una prospettiva analoga va letto l’avvicinamento di
Ricoeur al tema del conatus ed il suo attardarsi97 nella soggettività
per coglierne i sensi e le sfumature, nell’attraversamento dei segni
lasciati dalle sue molteplici modalità d’espressione.
Il soggetto in questo contesto diventa questione a se stesso e non
potendo più avere pretese autofondative, è un soggetto che può
giungere ad “un sapere che è attestazione o certezza morale, grazie
al quale sappiamo di essere quegli stessi che agiscono e che
soffrono, che possono impegnarsi con una promessa, amare e
chiedere amore ad un’altra persona”98. Con Ricoeur il soggetto è
rafforzato solo dalla consapevolezza di essere lo stesso che agisce
e che soffre, quel sé che è soggetto ed oggetto della attestazione.
Quella di Ricoeur è una ontologia che con Jervolino potremmo
definire “militante e spezzata”: il soggetto è un combattente che
sopporta una ferita e la trasforma in stimolo per continuare la lotta:
96
S. WEIL, Quaderni III, cit., p. 105.
Cfr. D. JERVOLINO, Ricoeur. L’amore difficile, ed. Studium, Roma 1995, pp. 3034.
98
Ivi, p. 30.
97
27
<<mediante la sofferenza la conoscenza>> ripete in proposito, con
Eschilo, la Weil99.
Mettersi lungo la via dell’ “oriente del testo”, dove quest’ultimo,
come già visto, è il supporto per eccellenza dell’ermeneutica
ricoeuriana, significa per l’uomo eliminare la distanza: a questo
punto
si
colloca
il
circolo
ermeneutico
“spiegazione
–
comprensione”. È necessario spiegare di più per comprendere
meglio, in un orizzonte comune di pre - comprensione dove avviene
l’apertura a sé, agli altri, alle cose. Eliminare la distanza significa
raggiungere una conoscenza vera di sé, delle cose, degli altri.
L’intento dell’ermeneutica ricoeuriana, consapevole dei limiti
costitutivi dell’esistenza, è quello di non arrendersi di fronte alla
pluralità dei simboli che gli sono dati da interpretare. Proprio in
questo ambito troviamo le radici fenomenologiche dell'ermeneutica
ed il superamento operato da Ricoeur dell’impresa di riduzione. “Il
risultato finale della fenomenologia è sfuggito al suo progetto
iniziale, ed è suo malgrado che scopre, al posto di un soggetto
idealista, chiuso nel suo sistema di significazioni, un essere vivente
che ha da sempre come orizzonte di tutti i suoi progetti, un mondo,
il mondo”100. Proprio in quanto la nascita avviene in un orizzonte
già dato, il soggetto si rapporto intenzionalmente agli enti. Il fondo
temporale rimane all’uomo necessariamente opaco, per questo
“l’esigenza husserliana dell’intuizione deve cedere di fronte al
privato
della
comprensione
mediata
dal
lavoro
dell’interpretazione”101. Questo è necessario perché la cosa non è
più in sé, ma è determinata dalla lettura storico – temporale: la
99
Cfr. nota 93.
P. RICOEUR, cit., p. 22 – 23.
101
P. RICOEUR, Sé come un altro, ed. Jaka Book, Milano 1996, tr. It. D. Iannotta, p.
19.
100
28
costituzione
ultima
rimane
il
“paradiso
perduto”
della
fenomenologia102. In questo contesto che possiamo ancora di più
capire la portata dell’ammonimento della Weil: “le cose sono quel
che sono, supremo insegnamento”103, vale a dire fonte inesauribile
di senso. Leggiamo nei Quaderni: “Illusione. Non che le cose ci
facciano credere di essere reali, perché in un certo senso lo sono.
Ma ci fanno credere di essere reali diversamente da come lo sono.
In particolare esse ci fanno credere che le une esistano in maniera
maggiore delle altre”104.
“Occorre che un idolo muoia”105, afferma Wanda Tommasi. “La
“demistificazione” è, secondo Paul Ricoeur “il rovescio di una
restaurazione dei segni del sacro”. “Se la materia obbedisce”106,
come afferma la pensatrice francese e “gli uomini sono materia, ne
discende che questi debbano obbedire come quella… Per questo la
Weil afferma che la lettura vera è la seconda lettura e che ,
conseguentemente, la prima lettura del reale deve trasformarsi nel
bastone da cieco che, per essere lo strumento sostitutivo della vista
cui la cecità fa ricorso, coglie il reale svincolato dalla corposità
prevaricatrice
della
immediatezza
e
perciò
ricondotto
all’essenzialità obbediente della propria finitudine”107.
La metafora della cecità è molto frequente negli scritti della Weil
ed è intesa quale acquisizione di occhi nuovi, “occhi senza
sguardo”108,
condizione
per
l’ingresso
nella
dimensione
contemplativa. L’uomo attento, come lo è Jaffier protagonista di
La Weil, come già detto, sottolinea l’opposizione radicale tra necessario e bene.
S. WEIL, Quaderni III, cit., p. 67.
104
S. WEIL, Quaderni I, cit., p. 278 – 279.
105
W. TOMMASI, cit., p. 173.
106
S. WEIL, Quaderni I, cit., p. 310.
107
M. MANGIABENE, Attesa e bellezza in Simone Weil, in Prospettiva persona, n. 12
aprile giugno 1995,p. 24-27.
108
S. WEIL, Vnezia salva, cit. p. 105.
102
103
29
Venezia Salva, sa cogliere il bello come realtà; questa è la vera
lettura del reale.
Infatti la contemplazione del bello con gli “occhi senza sguardo”,
porta ad invocare, desiderare, attendere il Bene. Il Bene, che solo
può darsi come dono, è la Grazia. Ammettere l’esistenza del bene
significa riconoscere l’esistenza del male, vale a dire della forza e
quindi opporvisi. Jaffier, alla vista del bello, riconosce il bene; per
questo riesce ad opporsi alla forza che si afferma attraverso
l’immaginazione ed il sogno. L’opposizione tra bene e male è la
stessa che separa verità e sogno. Al bene l’uomo non può giungere
con la volontà, può solo attendere che discenda in virtù del suo
esercitare l’attenzione. Per questo la Weil sottolinea la necessità di
fare vuoto dentro di sé e distruggere l’io, capace solo di vedere con
gli occhi dell’immaginazione, fino ad arrivare alla sua morte, per
acquisire occhi senza sguardo. Dice Jaffier al termine della
tragedia: “La morte viene a prendermi. Ora è passata la vergogna.
Ai miei occhi ormai senza sguardo, quale bellezza la città!
Senza ritorno io m’allontano dai luoghi dei viventi.
Non c’è alba dove io vado, né città”.109
Il bello si manifesta dunque agli occhi senza sguardo, capaci di
vedere oltre la dimensione della volontà. “L’universo è l’immagine
di Dio; è la presenza che Dio ha tolto da sé per attribuire le
caratteristiche della realtà materiale. L’ingresso nella dimensione
dell’<<attente>> comporta per l’uomo di riconoscere l’empietà
della configurazione individuale di fronte al mondo che, invece,
nella solitudine del proprio silenzio e nella bellezza della propria
inviolata ed inviolabile armonia, è voce ed immagine di Dio”110.
109
110
Ivi.
M. MANGIABENE, cit., p. 24-27.
30
La liberazione, obbediente e decreante, perché frutto di un atto di
umiltà da parte dell’uomo, permette alla realtà spazio - temporale di
presentarsi quale è: “solitudine, l’indifferenza di tutte le cose”111.
Questo esito coincide con la fine della dimensione della volontà:
“l’uomo ricondotto alla essenzialità obbediente della propria
finitudine”112 ed alla rinuncia ad esistere come “l’unico bene”113. Per
la pensatrice francese la verità consiste nel “sapere che siamo niente,
che l’impressione di essere qualcuno è solo un’illusione e [occorre]
spingere la sottomissione fino ad acconsentire non solo ad essere
niente, ma anche, nello stesso tempo ad essere nell’illusione” 114. Il
vero si rende manifesto agli occhi senza sguardo che concepiscono il
tempo come limite e porta alla vera lettura del reale. Queste
considerazioni permettono di tornare al nucleo centrale del pensiero
della Weil: la differenza radicale tra l’essenza del necessario e quella
del bene. È infatti impossibile per l’uomo essere trasportato oltre il
tempo a prescindere dalla dimensione temporale. Tentare di superare
il limite con immaginarie elevazioni significa essere vittime
dell’immaginazione, in questo senso la Weil afferma che occorre
acconsentire a soggiacere nell’illusione ed aggiunge “noi siamo nella
irrealtà, nel sogno. Rinunciare alla nostra illusione di essere situati al
centro, significa aprire gli occhi alla realtà, all’eternità, vedere la vera
luce, sentire il vero silenzio”115.
Dott. Massimiliano Marianelli
111
S. WEIL, Quaderni III, cit., p. 67.
M. MANGIABENE, op. cit., p. 24-27.
113
S. WEIL, Quaderni II, cit., p. 98.
114
S. WEIL, Quaderni IV, cit., p. 304.
115
S. WEIL,Forme dell’amore implicito di Dio, in Attesa di Dio, p. 125.
112
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