I FILOSOFIA ANTICA Arcesilao si presentò come il prosecutore della confutazione socratica, abbandonando però la dichiarazione di ignoranza iniziale e concedendo maggiore libertà dialettica all'interlocutore. Il suo metodo non consistette tanto nel portare l'avversario ad autocontraddirsi (reductio ad absurdum), come faceva Socrate, quanto nell'opporgli ragioni contrarie di uguale peso (disputatio in utram partem), tali da costringerlo a sospendere il giudizio. Egli fondava la sua filosofia del dubbio sul principio dell'isosthenia, ossia dell'uguale forza dei contrari (equivalenza dei discorsi). Arcesilao non negava l'esistenza di rappresentazioni conformi al loro oggetto ma contestava la capacità dell'anima di riconoscerle con assoluta certezza (non esiste infatti rappresentazione che, pur apparendo vera, non possa essere falsa). Una volta dimostrato che nessuna rappresentazione porta in sé la garanzia della sua verità, egli poteva affermare che in ogni occasione la sospensione del giudizio costituisce il solo atteggiamento conforme alla saggezza. La sospensione del giudizio mirava per lui a reinstaurare in modo radicale l'atteggiamento di ricerca e di prudenza filosofica che egli riteneva abolito dal dogmatismo stoico. La sua critica della rappresentazione catalettica degli stoici recuperava nella sua ispirazione il rifiuto platonico di nutrire una completa fiducia nei sensi sui cui dati la ragione deve fondare il suo funzionamento. Egli rimproverava loro, inoltre, di affermare che si dà il proprio assenso a una sensazione, mentre esso viene dato propriamente a una proposizione (l'assenso non può emergere infatti dalla rappresentazione stessa in quanto esso risulta dal giudizio). Quanto alla dottrina zenoniana dell'assenso, Arcesilao criticava l’anteposizione di questo all'apprensione e dunque all'atto conoscitivo vero e proprio (con il risultato di assentire a ciò che ancora non si conosce e quindi eventualmente al falso). L'assenso non può essere un criterio di verità, nemmeno se è l’assenso del saggio. La tesi dell'infallibilità del saggio ha così per Zenone e per Arcesilao implicazioni diverse, fondandosi per il primo sull'esistenza di rappresentazioni mentali formatesi in seguito alle impressioni provocate sui sensi dalla presenza di un oggetto in modo talmente chiaro ed evidente che la nostra ragione è indotta ad assentirvi, la cui evidenza fa sì che possano essere ritenute vere, mentre per il secondo sulla sospensione del giudizio (se non esiste apprensione, le cose non sono apprensibili e saggio è colui che sospende il giudizio). La dottrina del «ragionevole» (eulogon) si opponeva all'etica stoica nel mostrare che, per raggiungere la felicità, non è necessaria la sapienza infallibile del saggio stoico, perché è sufficiente la più naturale capacità del saggio accademico di compiere consapevolmente azioni che hanno buon fine (per agire non è necessario formulare un giudizio, e quindi concedere l'assenso, ma sono sufficienti la rappresentazione e l'istinto, ossia l'impulso suscitato dalla rappresentazione di qualcosa di conforme alla nostra natura). Vivere in conformità della natura significava per Zenone vivere secondo la propria componente razionale, mentre per Arcesilao seguire gli impulsi percepiti come naturali, che a posteriori si dimostrano ragionevoli perché coronati da successo. Intento di Carneade era dimostrare che non esiste alcun criterio di verità (su ogni tesi si può argomentare pro e contro sostenendo posizioni opposte). V'è inoltre da chiedersi per lui in rapporto ad una rappresentazione apprensiva (catalettica) e perciò vera: cosa la distingue da un'altra che non lo è? (argomento del sorite del megarico Eubulide di Mileto, tendente a rendere indeterminato da un punto di vista quantitativo il confine tra gli opposti, ad esempio un grano e un mucchio, un calvo e uno che non lo è). L'obiezione da muovere agli Stoici, secondo i quali la rappresentazione è rivelatrice nello stesso tempo dell'oggetto che la suscita e dello stato del soggetto, è di dire che in quanto mentale essa è qualcosa di interno al soggetto stesso da cui all'oggetto rimane escluso. Perché sia possibile seguire una rappresentazione senza giudicarla vera occorre che essa sia giudicata quanto meno persuasiva. Ciò impone la distinzione tra quanto è momentaneamente oscuro e quanto è inapprensibile per natura (se nulla dunque può essere appreso con certezza, non tutto invece è completamente oscuro). Esistono, infatti, rappresentazioni di cui non si può dire con certezza che sono vere ma di cui si può ammettere che sono persuasive (pitanà). Il sembrare vero di ciò che si presenta non fa venire meno il carattere soggettivo del verosimile, rimanendo in piedi l'opposizione tra verità e falsità delle rappresentazioni e il loro apparire tali al soggetto che le rappresenta. Esistono in ultimo vari gradi di persuasività (verosimiglianza) delle rappresentazioni, determinati dalla situazione favorevole o meno delle circostanze e dal maggiore o minor tempo di ponderazione a disposizione (rappresentazioni, oltre che verosimili, non smentite dai fatti e oggetto di esame dettagliato). Enesidemo tenne a tracciare una distinzione tra la posizione di Pirrone e quella degli Accademici, da lui accusati di autocontraddirsi per il fatto di fare affermazioni e negazioni categoriche e insieme di sostenere l’inapprensibilità delle cose. A differenza loro, il seguace di Pirrone sa di non poter apprendere nulla con certezza, e anche riguardo a questo sapere la sua posizione si distingue per il fatto di non pronunciarsi né in senso affermativo né in senso negativo, perché niente può essere affermato o negato in modo definitivo (egli è consapevole del problema posto da una forma di dogmatismo negativo). Scopo della riflessione sembra essere dunque quello di porre fine alle ansie di sapere dei dogmatici – scopo che, una volta conseguito, comporta il venir meno della necessità dello stesso esercizio della filosofia. In tal senso, il pirronismo si presenta come una terapia contro la malattia del dogmatismo, rispetto alla quale esso vale da purgante che viene eliminato insieme a ciò di cui riesce a liberare. Il tema dei limiti delle facoltà conoscitive umane viene affrontato ricorrendo a degli schemi di ragionamento (tropi), i quali mostrano che non è possibile pronunciarsi in modo definitivo sulle cose dal momento che essi ci appaiono in modo diverso (dieci tropi riguardanti il soggetto, l’oggetto e la relazione tra i due; ad essi Agrippa aggiungerà in seguito altri cinque, tra cui il regresso all’infinito della prova, l’introduzione indebita di ipotesi indimostrate, e il circolo vizioso). Se il disaccordo e la relatività delle sensazioni ci consentono di dire e parlare solo di come un oggetto appare ai sensi di ognuno in un dato momento e in una data condizione, l’inconsistenza delle astrazioni concettuali utilizzate dai dogmatici mostrano un indebito passaggio dal piano concettuale a quello ontologico (le cause, ad esempio, in quanto relative ad un effetto, esistono come tali solo a livello mentale, dato che nessuna cosa può realmente “produrne” un’altra: l’esistenza della prima non implica l’esistenza della seconda). È negata così la possibilità della scienza come conoscenza delle cause. Le conclusioni di Enesidemo si fondano sulla convinzione che mentre le sensazioni sono reali perché sono reali gli oggetti che le suscitano, i contenuti del pensiero non hanno esistenza reale perché sono astrazioni immateriali (i pensieri non sono infatti che relazioni instaurate tra le sensazioni). L’evidenza sensibile rappresenta nondimeno una guida per la vita quotidiana, laddove il sommo bene è posto nell’imperturbabilità che il sapiente raggiunge nella sospensione di ogni assenso. Sesto Empirico ha equiparato in maniera problematica il pirronismo a una filosofia e a una ricerca continua, in opposizione con l’idea che l’esito del pirronismo sia l’uscita dalla filosofia. Come già Enesidemo, anche Sesto Empirico riferiva al pirronismo il termine agogè (orientamento di pensiero) e non quello di airesis (scuola, setta filosofica). L’uso nuovo del termine “scettico” per pirroniano indica che quest’ultimo si distingue dal dogmatico per l’atteggiamento di ricerca continua (lo scettico in quanto zetetico, efettico e aporetico è aperto alla ricerca, mantiene la sospensione dell’assenso e non prende posizione né in un senso né nell’altro di fronte a soluzioni reciprocamente incompatibili che si fronteggiano presentandosi come parimenti solide). A quello scettico egli opponeva l’atteggiamento dogmatico di chi assente a cose non evidenti, oscure sia ai sensi che all’intelletto. Lo scettico si attiene a ciò che appare, rilevando la contrapposizione tra il fenomeno e la realtà o natura oggettiva delle cose, indipendente dal soggetto che le percepisce. Non si può sapere, infatti, se e in quale misura i sensi diano accesso al mondo esterno perché essi rivelano solo l’impressione soggettiva (le sensazioni non sono in alcun modo rivelative della realtà esterna come intendeva invece Enesidemo). Nemmeno le affermazioni del tipo: le cose non sono più questo che quello, le cose sono indeterminate, non sono apprensibili, sono asserzioni riguardanti la realtà delle cose, in quanto sono la registrazione delle semplici impressioni soggettive provocate dall’equipollenza dei diversi modi di apparire delle cose. Come per Enesidemo, anche per Sesto Empirico la vita guidata dalle apparenze si conforma al rispetto delle regole di vita, senza che ciò stabilisca una relazione necessaria tra la sospensione dell’assenso e l’atarassia. II FILOSOFIA DEL MEDIOEVO Agostino (354-430), che ha accolto all’inizio le posizioni scettiche in funzione antimanichea, ha contestato in seguito nel Contra academicos che questi possiedono la sapienza per il fatto di rinnegare l’assenso ad essa (qual è la sapienza di coloro che affermano che il sapiente non sa nulla?). Quello descritto dagli Accademici è dunque un sapiente che la ragione con contempla: è più duro, infatti, che il sapiente non sappia la sapienza del fatto che l’uomo non possa raggiungerla, così come è più incredibile che il sapiente non approvi la sapienza del fatto che egli non sappia la medesima. La questione da cui egli muove nello scritto è quella della felicità, la quale ha la sua premessa nell’assunto che vivere felicemente è il vivere secondo quella che è la parte migliore dell’uomo, la ragione. Chiedendo se si possa vivere felicemente soltanto cercando la verità senza trovarla, la risposta di Agostino è che certamente erra chi non vive secondo ragione, mentre non erra chi ritiene che la verità sia in assoluto da cercare. Non solo, erra sia chi segue una via falsa sia chi non segue quella vera (come mostra l’esempio dei due viandanti). Le obiezioni che egli muove agli Accademici riguardano da un lato le sensazioni – le quali possono essere difformi quanto al contenuto ma non quanto al loro essere tali, possono dare informazioni sbagliate sul mondo che presuppongono tuttavia una relazione con il medesimo, e infine sono sottoposte a determinate condizioni che non possono inficiate dal richiamo a condizioni anomale – dall’altro le verità matematiche, che non possono essere messe in discussione perché indipendenti dalla loro apprensione. Nel De vita beata ritorna sulla questione della felicità, assumendo che ottenere ciò che si vuole non è condizione sufficiente di essa poiché occorre che l’oggetto del volere sia sempre disponibile al volere stesso, definendosi come qualcosa di permanente, non legato alla fortuna. Felice è solo chi possiede Dio in quanto lo ha trovato. Da ciò consegue che gli Accademici non possono che infelici in quanto cercano continuamente la verità senza trovarla, né possono essere ritenuti sapienti, considerato che il sapiente è felice per definizione. La felicità consiste propriamente nel raggiungere per mezzo della verità la misura suprema, ossia l’equilibrio in cui consiste la sapienza. Per Agostino (Soliloquia) il sapere non è opposto al credere ma si colloca all’interno della credenza quale conoscenza specifica e ben distinta di ciò che è già oggetto di fede. Non solo dunque la fides è cosa ben diversa dalla credulitas come pure dalla opinio, ma è un tipo di conoscenza più ampio della scientia: 1) perché dà impulso ed è di guida al sapere, sorreggendo la ragione, arrecando alla mente una sanità altrimenti difficile da ottenere, facendole guardare con attenzione l’oggetto che dovrà essere successivamente conosciuto in modo evidente, nonché mantenendo fermo l’assenso contro i dubbi e le incertezze provenienti dai sensi e dalle passioni; 2) perché il sapere si riflette nel credere ma il credere è preliminare al sapere (nisi credideritis non intelligetis) La questione è allora: perché vi è bisogno di sapere e non ci si accontenta di credere? La risposta è: per il desiderio di apprendere con la ragione le verità ultime dalle quali dipende tutta l’esistenza umana, la conoscenza di Dio e dell’anima; e ancora, per il fatto stesso di possedere alcune verità indubitabili (quelle della matematica), in quanto è per il fatto di sapere qualcosa in modo indubitabile che si vuol sapere nello stesso modo tutto il resto. La conoscenza della verità rappresenta così l’unica via per arrivare a conoscere Dio e l’anima. Per questo, v’è bisogno di dimostrare l’esistenza di una verità assoluta, sia cogliendo l’evidenza del cogito (il comprendere umano presuppone tanto l’esistere di ciò che è puramente inerte, come le pietre, quanto il vivere degli animali), sia seguendo un ragionamento volto a dimostrare che la verità è condizione di ogni giudizio. Agostino ha stabilito in proposito una differenza tra il vero e la verità, la quale permane anche quando questo scompare. Niente può essere vero se la verità non esiste. Anzi, essa esisterebbe anche se per ipotesi finisse il mondo, perché in tal caso resterebbe paradossalmente vero che il mondo è finito. La verità pertanto non può venire a mancare perché, se anche ciò fosse, sarebbe vero che essa è venuta a mancare (al pari della verità che non può perire, l’anima in cui essa alberga è immortale). Vi sono delle definizioni di vero da considerare problematiche: 1) quella di vero come ciò che appare così come è (il che porta a concludere che il vero non esiste per se stesso); 2) quella di vero come ciò che è (il che porta a concludere che, a rigore, il falso non esiste). La strada per giungere alla definizione di vero può essere quella che analizza il concetto di falso come ciò che si presenta o cerca di essere ciò che non è. E questo, perché, se qualcosa è vero perché non è falso, allora vero è ciò che realizza la somiglianza perfetta con la verità. La verità è quella che fa vedere ciò che è, in quanto legge di simmetria, di armonia, di proporzione delle parti, che trova il suo fondamento nell’Uno: quello stesso cui si riferisce ogni giudizio, vuoi estetico (perché l’unità è il criterio della bellezza), vuoi conoscitivo (perché vero è ciò che realizza l’Uno), vuoi ontologico (perché l’Uno è il principio dell’essere), vuoi infine morale (perché l’errore e il vizio sono l’allontanamento volontario dall’Uno). Per questo motivo la verità è la legge sopra la nostra mente, immutabile a differenza di questa, superiore a colui che giudica (allo stesso modo che questi è superiore a ciò di cui giudica): ciò a cui tendono coloro che ragionano, i quali appunto vi tendono in quanto riconoscono di non essere ciò che essa è, pur sapendo che essa dimora nell’uomo interiore. Se la verità rimane nascosta all’uomo è solo perché egli non conosce il modo di cercarla, un modo che va preso anzitutto dall’autorità divina, la quale esige la fede e prepara l’uomo alla ragione (questo significa che la vera religione non può essere raggiunta senza la fede, che permette di apprendere ciò che in seguito si riesce a comprendere, anche in conseguenza di una struttura di vita e di pensiero rinnovata). Così, se questa conduce all’intelligenza e alla conoscenza, la fede precede in ordine di tempo il sapere perché all’inizio siamo presi dalle cose temporali e siamo distolti da quelle eterne. La via più salutare è quella di divenire anzitutto capaci di comprendere la verità, ponendo fede a ciò che è stato stabilito da Dio, e dunque ammettendo qualcosa che si sa di non sapere e di non poter sapere, almeno per il momento. Come, in generale, la fede richiede di accogliere la testimonianza di un altro che si pone per questo come auctoritas, così, nell’ambito religioso, essa comporta il rimando alla sauberissima auctoritas costituita dalla Sapienza di Dio incarnatasi in un uomo (questa è poi l’unica e universale strada della vera religione e della salvezza di ogni uomo, dato che credere in Cristo significa accogliere la definitiva trasformazione della natura umana che il Dio fattosi uomo ha operato e continua ad operare). La fede, massimamente richiesta dalla religione cristiana perché “in essa non si presenta un oggetto che si vede”, è utile infine per vivere, indispensabile com’è per riconoscere le relazioni parentali e per fondare quelle di amicizia, nonché per dare l’assenso a quella molteplice serie di cose che si presentano nella vita come probabili: ed è saggio possederla perché toglie dall’ignoranza e dall’incertezza e istrada alla conoscenza. Rapporto tra fede e sapere in alcuni dei maggiori filosofi del Medioevo. Agostino (354-430): fede e ragione si trovano in una prospettiva di convergenza, in quanto la verità non è fine a se stessa ma la si ricerca per avere quella felicità che solo la vera religione può conseguire. In sintesi, non solo la fede sostenuta dalla comprensione è al termine della ricerca pur essendone la condizione in quanto sorretta dall’autorità, ma la ricerca impegna tutto l’uomo e non il solo intelletto, perché la verità cui si tende è nello stesso tempo la via e la vita. Nella verità l’uomo si rigenera. Giovanni Scoto Eriugena (810-877?): esiste un accordo intrinseco tra ragione e fede, tra la verità cui giunge la ricerca libera e la verità rivelata all’uomo dall’autorità della Sacra Scrittura. Se è vero che l’autorità di quest’ultima è indispensabile alla ragione, in quanto la nostra ragione è una ragione istruita dalla rivelazione, bisogna però riconoscere che la dignità maggiore e la priorità di natura spettano alla ragione, in quanto la ragione è nata all’inizio dei tempi insieme con la natura e l’autorità dopo. Da un lato la religione non s’identifica con l’autorità ma con la ricerca, dall’altro l’autorità della Chiesa segna i limiti dell’interpretazione razionale. Anselmo (1033-1109): la fede è il presupposto della ricerca (credo ut intelligam), la quale assegna alla ragione il compito di tradurre la certezza della fede in evidenza razionale. Di conseguenza, se non si può intendere nulla senza la fede, questa da sola non basta in quanto ha bisogno di conferma da parte della ragione. Tra ragione e fede non può esservi vero contrasto perché entrambe sono illuminate dalla luce divina (il che non significa però che le ragioni più alte dei misteri possano essere rischiarati). Abelardo (1079-1142): bisogna affidarsi all’autorità solo finché la ragione rimane nascosta, ma essa diventa inutile quando la ragione ha modo si accertare da sé la verità. La ragione tuttavia non è misura sufficiente per intendere le cose divine (ad es. il mistero della Trinità), rispetto alle quali non resta che proporre una soluzione verosimile e non contraria alla fede (il che non significa che non si debba raggiungere e difendere la fede con la ragione). Una fede cieca, prestata con leggerezza, non ha alcuna stabilità ed è incauta e priva di discernimento (è almeno da discutere se bisogna prestare fede). Non si può credere davvero se non ciò che si intende: anche la verità rivelata non è verità per l’uomo se questi non fa appello alla sua razionalità (con ciò non egli non intende screditare l’autorità o sottomettere la fede alla ragione, ma invoca la dialettica per definire le questioni controverse della Sacra Scrittura). Bonaventura da Bagnoregio (1217-1274): la certezza relativa alle verità di fede va distinta dalla certezza delle verità. Rispetto alle verità religiose, la fede è più certa della scienza (il suo oggetto, Dio, è il primum cognitum per l’uomo, nella cui mente è innata una qualche nozione o idea di Dio, che, seppure perfezionabile attraverso la riflessione, è sufficiente per affermare la sua necessaria esistenza), mentre rispetto alle altre verità la fede possiede una certezza di adesione maggiore della scienza, la quale ha dal canto suo una certezza di speculazione maggiore della fede (dunque, la scienza può eliminare il dubbio, ma è la fede a far aderire il credente alla verità). Se sforzo precipuo dell’uomo deve essere il ritorno a Dio, esso non può compiersi solo mediante la conoscenza filosofica in quanto comporta la riduzione di tutte le scienze alla teologia: sotto le apparenze del sapere profano si cela infatti un sapere più profondo cui bisogna ricondursi per vedere nelle cose sensibili un’immagine di quella vera realtà che è il Dio biblico. Alberto Magno (1206-1207-1280): il dominio della filosofia va separato da quello della teologia, da cui il sapere filosofico e scientifico è autonomo. Le dottrine teologiche non coincidono nei loro principi con quelle filosofiche in quanto queste procedono per ragioni e sillogismi, mentre quelle si fondano sulla fede. Il dominio della filosofia, ristretto a quello della dimostrazione necessaria, ammette al di là di sé un dominio che deriva la sua validità dall’assenso alla verità rivelata. Ciò non esclude la possibilità di una teologia razionale, che egli pratica elaborando le prove dell’esistenza di Dio a partire dall’esperienza sensibile, mediante il principio di causa. Tommaso d’Aquino (1225-1273): all’uomo, che ha come suo fine ultimo Dio (eccedente la comprensione della ragione), non basta la sola ricerca filosofica fondata sulla ragione; egli abbisogna della sua istruzione attraverso la rivelazione divina. La ragione non può dimostrare ciò che è di pertinenza della fede ma può servire ad essa, dimostrandone i preamboli, chiarendone le verità mediante similitudini e controbattendo le obiezioni ad essa. Per suo conto, la ragione può elevarsi a Dio, ma solo partendo dalle cose sensibili, dall’effetto per risalire alla causa prima (il riconoscimento dell’esistenza di Dio non conduce però alla conoscenza della sua essenza, i cui misteri costituiscono quegli articoli di fede che la ragione può sì difendere ma non dimostrare). L’assenso implicito nella fede, simile per la sua fermezza a quello implicito nella scienza, è diverso nel suo movente in quanto non è prodotto dall’oggetto ma da una scelta volontaria che inclina l’uomo. Alla teologia va riconosciuto carattere di scienza, che le compete in virtù del principio di subalternazione: i ragionamenti del teologo hanno le loro premesse nella rivelazione, premesse che, pur non essendo evidenti all’intelletto del credente, risultano evidenti alla mente di Dio che le ha rivelate. In tal modo, la teologia è scienza subalterna alla scienza divina, in quanto ha per oggetto il rivelabile e possiede un’unità intrinseca che le deriva dal suo stesso oggetto: Dio come principio e fine dell’universo. La filosofia poi gode di una propria autonomia, garantita dalla struttura della mente umana, capace di giungere alla verità per volontà del creatore. Teologia e filosofia sono pertanto due vie d’accesso all’unica verità, trovando un punto d’incontro nella teologia razionale. Duns Scoto (1266-1274-1308): esiste un contrasto tra la verità razionale della metafisica, che è propria della ragione umana e quindi valida per tutti gli uomini, e la verità della fede, alla quale la ragione può essere solo attratta e che ha una certezza solo per i credenti. Tutto ciò che trascende i limiti della ragione umana non è scienza ma azione e conoscenza pratica, concernente i fini cui l’uomo deve tendere, i mezzi per raggiungerli e le norme da seguire. Non c’è connessione tra il fine sopranaturale dell’uomo e la natura umana quale ci è dato cogliere; si tratta di un fine che Dio ha voluto liberamente assegnare all’uomo e che non può essere dimostrato come proprio della sua natura. Da ciò scaturisce la separazione tra il teorico e il pratico: l’uno, dominio della necessità e quindi della dimostrazione razionale, l’altro, dominio della libertà, sottratto a ogni dimostrazione, e perciò della fede. La teologia 1) non può dirsi una scienza in senso proprio, in virtù del suo carattere pratico, di tipo educativo (suo scopo, infatti, è di persuadere ad agire per la propria salvezza); 2) merita una considerazione a sé, in quanto non subordinata a nessuna altra scienza, così come non ne subordina a sé nessuna. Ockham (1280-1348-1349): se il fondamento d’ogni conoscenza è da porre nell’esperienza, occorre allora rigettare al di fuori d’ogni conoscenza possibile tutto ciò che trascende i limiti dell’esperienza stessa. Ciò posto, la fede religiosa potrebbe essere dimostrata solo se si avesse una conoscenza intuitiva di Dio e della realtà soprannaturale, il che è però impossibile all’uomo. I miracoli e la predicazione possono produrre la fede ma non anche la conoscenza evidente delle sue verità, le quali, come non sono evidenti per se stesse (come lo sono i principi della dimostrazione) così non sono nemmeno probabili perché possono apparire false a coloro che si servono della ragione naturale. Sul piano teologico, il principio di verificazione empirica trova riscontro nel continuo richiamo al testo rivelato, che garantisce la teologia da ogni eccesso di razionalità astratta. Giovanni da Salisbury (1110-1180): il richiamo alla setta degli accademici non ha significato per lui la professione di un completo scetticismo, in quanto dubitare di tutto sarebbe un’assurdità (non c’è niente di più ridicolo che essere incerti di tutto e tuttavia pretendersi filosofi). Non solo gli animali danno prova di una certa intelligenza, ma l’uomo è più intelligente dell’animale, sicché è falso ritenere che non siamo capaci di conoscere niente. Noi possiamo attingere delle conoscenze sicure a tre differenti fonti: i sensi (del resto, colui che non avesse un minimo di fiducia nei suoi sensi sarebbe inferiore agli animali), la ragione (in caso contrario, colui che non credesse in alcun modo alla sua ragione e dubitasse di tutto arriverebbe a non sapere più neanche se dubita) e la fede (colui che rifiutasse di acconsentire alla conoscenza oscura ma certa della fede ricuserebbe il fondamento e il punto di partenza di ogni sapienza). Bisogna tuttavia confessare che la modestia degli accademici è nella maggior parte dei casi l’esempio più saggio che possiamo imitare, ossia quello di accontentarsi di arrivare alla probabilità. I filosofi hanno confidato in maniera eccessiva nelle forze della ragione, sicché bisogna dubitare di tutti gli argomenti di cui né i sensi, né la ragione, né la fede ci danno una sicurezza incontestabile. Il tipo di problema insolubile è quello degli universali, rispetto al quale si può dire come ne veniamo a conoscenza (per astrazione) ma non cercare il modo della loro esistenza. Guglielmo di Ockham (1300?-1349-1350): occorre riconoscere valido un solo genere di dimostrazione, quella immediatamente evidente (provare una dimostrazione consiste nel mostrare la sua evidenza immediata o derivata di necessità da una proposizione immediatamente evidente). Se si vuole una proposizione che ci garantisca contemporaneamente la sua verità e la realtà di ciò che afferma, occorre che essa abbia un’evidenza immediata, di tipo intuitivo, posto che la conoscenza intuitiva è la sola che verte sull’esistenza e fa raggiungere i fatti. La conoscenza intuitiva è da associare alla conoscenza sperimentale che ci permette di formulare in seguito, con una generalizzazione della conoscenza particolare, quelle proposizioni universali che sono i principi dell’arte e della scienza. L’universale non ha nessuna specie di esistenza fuori dal pensiero (in qualunque modo si pretenda di concepire un universale realizzato nelle cose si arriva alla medesima assurdità di non capire come possa esso possa essersi moltiplicato restando nello stesso tempo uno). Non è possibile ritrovare con il pensiero, nelle cose, una natura comune reale, unica e medesima sotto le sue determinazioni individuali (le ecceità di Duns Scoto). Le proposizioni che nelle loro relazioni intessono il sapere si compongono di termini, i quali possono entrare in proposizioni oggetto di scienza solo in quanto hanno un significato nel rappresentare sia altre parole (es. “uomo” è una parola), sia delle cose (es. l’uomo corre), sia dei concetti (es. l’uomo è un animale). Mentre i termini che designano i concetti significano degli oggetti conosciuti in maniera confusa, quelli che designano le cose significano gli oggetti conosciuti in maniera distinta. L’esperienza non ci insegna peraltro nulla delle cosiddette specie, riportandosi sempre ad un’intuizione sensibile che lascia nell’intelletto una traccia del suo passaggio divenendo immagine (in presenza di cose simili si formano immagini comuni, la cui universalità si riduce a questa comunanza e perciò si genera nel pensiero sotto l’azione delle cose individuali). Roberto di Holkot (-1349): poiché il mistero della Trinità è inconciliabile con le esigenze della logica, bisogna dedurne l’esistenza di un’altra logica, propria della teologia e sconosciuta ai filosofi. Aristotele, infatti, in quanto scopritore del principio di contraddizione, non ha capito che lo stesso può essere contemporaneamente uno e tre. Questo non significa che la teologia rinunci alla ragione o alla logica, ma che essa adotta una logica della fede, a suo modo razionale, benché i suoi principi siano differenti in quanto valida su di un piano di intelligibilità superiore a quello della ragione filosofica. Nicola d’Autrecourt (133-1350): non v’è da ammettere che un solo ordine di conoscenze assolutamente certe, quelle che sono immediatamente evidenti attraverso la constatazione sperimentale o per l’affermazione dell’identità di una cosa con se stessa. Il principio di contraddizione è il principio primo al quale vanno riportate le conoscenze (dal fatto che una cosa è non se ne può dedurre con è evidenza che ne esiste un’altra). Di qui risulta che il legame che unisce la causa all’effetto non è né necessario né evidente: esso non è analitico, in quanto il rapporto causale può esserci dato solo nell’esperienza, la quale è l’unica ad autorizzarci a fare delle affermazioni di causa. Può esserci conoscenza diretta della causalità, ma essa dura quanto l’esperienza sensibile per la quale noi constatiamo la coesistenza della causa e dell’effetto. Una volta acquisita la constatazione sperimentale, resta la semplice probabilità che si riproducano in futuro gli stessi effetti a parità di condizioni (il valore delle inferenze logiche è pertanto meramente presuntivo). Ciò vale anche per la sostanza, in rapporto alla quale si può dire che un accidente è in una sostanza ogni volta che è dato nell’esperienza contemporaneamente ad essa. Ponendo la conoscenza intuitiva, ossia l’esperienza immediata, all’origine di ogni nostra certezza, viene garantito un numero minimo di conoscenze che nessun dubbio può mai scuotere (lo sperimentalismo diviene così rifugio contro lo scetticismo). III FILOSOFIA MODERNA Sanchez (1552-1623) prende avvio nel suo Quod nihil scitur (1581) da una critica intellettuale dell’aristotelismo, sostenendo che, posto che le scienze si basano su definizioni, queste sono tutte esclusivamente nominalistiche, non contenendo altro che nomi imposti arbitrariamente e capricciosamente alle cose, privi dunque di rapporto con le cose stesse e, oltre a ciò, soggetti a mutamento. Se poi si ritiene che i nomi assegnati ad un oggetto non mutano di significato, questo prova solo la loro superfluità e incapacità di spiegare l’essenza del medesimo. Diversamente, se si assume che i nomi significano qualcosa di diverso dall’oggetto, si viene a negare qualsiasi corrispondenza tra loro (essi non nominano l’oggetto). Anche la nozione aristotelica di scienza come «disposizione acquisita mediante dimostrazione» presta il fianco alla critica, considerato che i particolari che si cerca di spiegare con questa scienza sono più chiari delle idee astratte con cui si intende chiarirli (si comprende meglio un particolare come Socrate che una realtà come quella indicata dall’espressione “animale razionale”). Quanto al metodo dimostrativo adottato dalla scienza aristotelica, è da dire per Sanchez che il metodo sillogistico, lungi dal produrre informazioni nuove, implica un circolo vizioso (per dimostrare infatti che Socrate è mortale, ci si fonda sulle due premesse che tutti gli uomini sono mortali e che Socrate è un uomo). Di conseguenza, è un metodo inutile e artificiale che non ha nulla da spartire con l’acquisizione del sapere. Se da un lato la scienza non può essere certezza acquisita per il tramite di definizioni, dall’altro essa non può essere nemmeno studio delle cause, in quanto questo porta inevitabilmente a un regresso all’infinito. Vera scienza si raggiunge solo con la perfetta conoscenza di una cosa, apprensione immediata e intuitiva delle qualità reali di un oggetto; per questo essa si occupa dei particolari, ognuno da comprendere individualmente (le generalizzazioni vanno oltre questo livello di conoscenza scientifica, introducendo astrazioni). In verità, gli esseri umani sono incapaci di pervenire alla certezza, dal momento che non solo la natura degli oggetti ma anche quella dell’uomo è tale da impedire la piena conoscenza degli oggetti individualmente considerati. Se per un verso, quindi, le cose non possono venire conosciute individualmente per il fatto di essere tutte legate tra loro, ma, ciò che è peggio, per il loro mutare continuo senza conseguire uno stato finale o completo, per l’altro le nostre idee dipendono dai sensi, e delle cose i sensi percepiscono solo gli aspetti superficiali, gli accidenti, non la sostanza (le imperfezioni e i limiti che Dio ha ritenuto opportuno lasciarci sono tali da impedire ai nostri sensi e alle nostre facoltà di raggiungere la conoscenza vera). L’uomo non può andare al di là di una conoscenza limitata e imperfetta di alcune delle cose che rientrano nella sua esperienza, sempre che faccia uso dell’osservazione e del giudizio (il fatto è però che pochi uomini di scienza fanno esperienza, così come pochi uomini sanno giudicare). In generale, la conclusione negativa di Sanchez, lungi dall’essere una riedizione dello scetticismo pirroniano e della sospensione del giudizio sulla possibilità della conoscenza, è in buona parte una riedizione del più compiuto dogmatismo negativo degli accademici. Michel de Montaigne (1533-1592) sembra essere l’autore che ha maggiormente risentito del nuovo influsso di Sesto empirico, tanto che il suo pirronismo ha contribuito a creare la crisi pirroniana dei primi decenni del Seicento. Egli si è reso pienamente conto della sua rilevanza per i dibattiti religiosi del tempo. Nella riscoperta della Grecia e di Roma e nella scoperta ed esplorazione del nuovo mondo egli ha colto un significato vitale per la storia degli uomini, ravvisandovi la prova della relatività delle conquiste intellettuali, culturali e sociali degli uomini. Tema dominante dell’Apologia di Raymond Sebond, contenuta nei suoi Saggi, è rappresentata dalla difesa di quella nuova forma di fideismo che va sotto il nome di pirronismo cattolico. Delle due obiezioni alla tesi di Sebond che tutti gli articoli della religione cristiana possono essere dimostrati dalla religione naturale – ossia che: 1) la religione deve fondarsi sulla fede e non sulla ragione, e 2) le ragioni da lui proposte non erano corrette né convincenti – la prima spinse Montaigne a svolgere il suo tema fideistico, e la seconda ad avanzare il suo scetticismo. Nonostante la religione si basi solo sulla fede che ci è data dalla grazia divina, non c’è nulla di male nell’usare la ragione a sostegno della fede (fa parte della debolezza della religione il fatto di poggiare su fattori umani come il costume e la collocazione geografica). La funzione sussidiaria della ragione va posta però dopo l’accettazione di Dio attraverso la fede. L’affermazione di un atteggiamento scettico nei confronti delle pretese intellettuali dell’uomo mira a colpire la presunzione di pensare di poter comprendere il cosmo anche senza l’aiuto della luce divina (le glorie del regno animale vengono contrapposte alla vanità, alla stupidità e all’immoralità del mondo umano). L’attacco scettico di Montaigne, mirante a coltivare l’ignoranza (opposta alla presunta saggezza) e a spingere alla fede, ripropone in forma accentuata l’anti-intellettualismo dell’Elogio della follia di Erasmo. Egli richiama quello che sarebbe diventato il passo scritturale preferito dei “nouveau pyrroniens”: la declamazione di S. Paolo nel primo capitolo della prima Lettera ai Corinzi (Distruggerò la sapienza dei sapienti, annienterò l’intelligenza dei dotti”). Montaigne tiene a distinguere il pirronismo dal dogmatismo negativo dello scetticismo accademico: i pirroniani dubitano di ogni proposizione e sospendono il giudizio su ogni proposizioni, anche su quella che afferma che tutto è dubbio. L’atteggiamento pirroniano consente di vivere secondo la natura e il costume, mostrandosi come la conquista umana più alta e compatibile con la religione (non solo, non avendo nessuna opinione positiva, lo scettico non può avere opinioni sbagliate sulla religione, ma accettando le leggi e i costumi della comunità a cui appartiene, egli aderisce al cattolicesimo difendendola dalla Riforma). Se gli stessi pirroniani corrono però il rischio di perdersi asserendo qualcosa di positivo in contrasto con i loro dubbi, ciò si deve al carattere assertivo del nostro linguaggio. Non solo l’appello all’esperienza dei sensi è tenuto a mostrare che cosa si sperimenta e insieme a provare la realtà di ciò che si pensa di sperimentare (perché il funzionamento dei sensi è ingannevole), ma il richiamo alla facoltà razionale impone di stabilire preventivamente la sua essenza (la sola via atta a consentirci di conoscere noi stessi è invero la rivelazione di Dio, così come è la grazia divina a consentirci un contatto con la realtà). Né vale affermare che alcuni giudizi sono più probabili di altri, perché il dissenso è generale, sia nella storia di ciascuno che tra noi e gli altri (anche questo deve spingere al conservatorismo pirroniano). L’Apologia tratta delle tre forme di crisi scettica destinate a turbare gli intellettuali del primo Seicento: teologica, conoscitiva e scientifica. In primo luogo lo scetticismo appare la sola difesa possibile della regula fidei cattolica, posto che l’impossibilità di stabilire con mezzi razionali quale sia il criterio valido impone di restare nel dubbio e di accettare l’autorità della tradizione. In secondo luogo esso è il risultato della riscoperta della grande varietà di punti di vista dei pensatori antichi seguita all’Umanesimo, nonché della scoperta del Mondo Nuovo. In terzo luogo esso è il frutto maturo della revisione della revisione del modello aristotelico di scienza come un insieme di verità certe concernenti il mondo. Lo scetticismo nelle dispute religiose tra riformatori e controriformatori. Attraverso la disputa sulla natura e sul valore della conoscenza religiosa le posizioni scettiche dell’antichità si affacciano nel pensiero del tardo Rinascimento. Nelle dispute di tipo teologico torna infatti il problema della individuazione di un criterio di verità che, in riferimento alla conoscenza della natura, ha innescato la crisi pirroniana del primo Seicento. Se per riconoscere la vera fede occorre un criterio, come si riconosce il vero criterio? La volontà di difendere il cattolicesimo apre la strada ad un atteggiamento scettico. L’esempio è dato da Erasmo che avanza l’idea dell’opportunità di una difesa scettica della chiesa (il disprezzo per le imprese intellettuali si sposa nell’Elogio della follia con la difesa di una pietà cristiana semplice e non teologica). La Scrittura non è così trasparente come Lutero vuole e anzi certi passi sono troppo oscuri perché gli esseri umani possano penetrarne il significato (per convincersene, basta pensare alle interminabili dispute dei teologi). Lutero: un cristiano non può essere scettico, in quanto deve essere certo di ciò che afferma (essere cristiani vuol dire affermare certe verità a motivo del fatto che la propria coscienza ne è completamente convinta). Secondo la sua regula fidei è vero ciò che la coscienza è costretta a credere alla lettura della Scrittura. Posto che la regula fidei dei riformatori sembra identificarsi con la certezza soggettiva, si comprende perché, a dispetto dell’enfasi con cui Lutero criticò lo scetticismo di Erasmo, l’affermazione che i riformatori non erano altro che scettici travestiti divenne un motivo ricorrente dei controriformatori. Qual è il criterio atto a distinguere la fede vera da quella falsa? Non appena si ammette, come fanno i riformatori che la chiesa può sbagliare, non si può evitare la disperazione scettica, perché nessuno può identificare il messaggio o il significato della Scrittura sulla base della sola Scrittura (la Riforma non può offrirci che le dubbie opinioni di Lutero, Calvino e di Zwingli). Il metodo di François Veron (La victorieuse methode pour combattere tous les ministres: par la seule Bible, 1621) consiste in proposito nel mettere in luce che: a) i calvinisti non avevano nessuna ragione per presentare le proprie tesi come articoli di fede; b) l’applicazione sistematica di una serie di obiezioni scettiche alla regula fidei dei riformatori non poteva che farli approdare ad un completo pirronismo. Non che le facoltà razionali siano dubbie, ma esse non possono fungere da fondamento o da sostegno della fede. Inoltre, per poter elevare a regola della Scrittura la persuasione interiore occorre esser certi che essa sia causata dallo Spirito Santo e non sia un prodotto dell’immaginazione. La Bibbia non enuncia peraltro nessun canone interpretativo e nessuna regola logica; sicché la tesi che le verità della religione debbano fondarsi su procedure logiche è priva di ogni garanzia. Lo scetticismo invocato da Veron non si rivolge contro i sensi o la ragione ma contro il loro uso nelle questioni religiose (i criteri di conoscenza adottati dai riformatori non si addicono alle questioni di fede, ma non per questo sono necessariamente dubbi in altri campi e per altri scopi). Per quanto i protestanti protestassero che l’approccio scettico proposto da Veron poteva applicarsi anche al suo inventore con i medesimi risultati, i cattolici non risultavano invero danneggiati dal bombardamento scettico poiché la loro posizione era fondata sulla fede accertata e indiscussa nella tradizione cattolica (la sicurezza e la salvezza sono da cercare nella rinuncia ad ogni teoria). Anche per la figura di maggior spicco tra i “libertini eruditi”, François de la Mothe Le Vayer, lo scetticismo radicale presenta il vantaggio, oltre che di minare l’orgoglio e la fiducia in sé dei dogmatici, di essere la posizione più vicina al vero cristianesimo (il perfetto pirroniano è colui che, sbarazzandosi di tutti gli errori, è pronto ad accogliere la parola di Dio; diversamente egli causerebbe da sé la propria rovina). In realtà lo scetticismo radicale è una strada a doppio senso da cui si può uscire sia in direzione della ragionevolezza dell’Illuminismo che in direzione della fede cieca del fideista. Accanto agli scettici umanisti vi furono anche pensatori di orientamento scettico che presentarono il loro punto di vista nell’ottica del pensiero scientifico. Tra questi è da annoverare Pierre Gassendi (Exercitatines paradoxiae adversus Aristoteleos, 1624), per il quale il tentativo di scoprire le verità scientifiche alla maniera di Aristotele è destinato al fallimento perché principi e definizioni possono essere derivati solo dall’esperienza da cui proviene ogni informazione (anche il ragionamento sillogistico non fa guadagnare conoscenza in quanto presume il ricorso a tale fonte, posto che le sue premesse sono vere solo se abbiamo appreso empiricamente la verità della conclusione). Con Sesto Empirico Gassendi ripete: non possiamo dire come le cose sono in se stesse ma solo come ci appaiono (la distinzione da lui operata tra qualità apparenti e qualità reali è una delle prime formulazioni della distinzione tra qualità primarie e secondarie nella filosofia dell’età moderna). La sua argomentazione non era volta tuttavia a mettere in discussione la verità divina, accettata in un’ottica fideistica, né le informazioni del senso comune, rivolgendosi contro ogni tentativo di costruire una scienza necessaria della natura che trascenda le apparenze e le spieghi nei termini di cause non evidenti, e negando l’esistenza di concetti innati in base ai quali il sapere possa essere costruito su basi razionali (tanto l’essenza profonda della natura è conosciuta solo da Dio, quanto gli universali sono nozioni astratte, costruite dagli uomini per comodità linguistica, e perciò prive di ogni validità ontologica). Sviluppando poi la teoria atomistica di Epicureo sotto forma di ipotesi i di modello meccanicistico atto a spiegare le apparenze e a predire i fenomeni futuri, Gassendi (Syntagma philosophicum, 1658) tentò di mitigare il suo iniziale pirronismo fino a modificarlo in una sorta di “scetticismo costruttivo”, portato a dubitare esclusivamente della possibilità di fornire ragioni necessarie e sufficienti delle nostre conoscenze e credenze (le idee chiare e distinte dell’intelletto non ci fanno attingere conoscenze vere). L’ammissione della possibilità di verità convincenti e probabili sulle apparenze fondate sulla conoscenza empirica ha rappresentato dunque un modo di affrontare la crisi scettica in sintonia con l’affermarsi della prospettiva scientifica. Secondo Mersenne (La vérité des sciences contre les sceptiques ou pyrrhoniens, 1625), anche ammesso che non sia possibile refutare le tesi degli scettici, nondimeno si può avere un tipo di conoscenza al riparo dal dubbio e adeguato ai bisogni della vita (naturalmente non si tratta della conoscenza concernente la reale natura delle cose di cui andavano alla ricerca i filosofi dogmatici, ma delle informazioni concernenti le apparenze, di ipotesi e predizioni sui legami tra gli eventi e sul corso futuro dell’esperienza). Non a caso nel testo de La vérité si affrontano le posizioni di un alchimista, di uno scettico e di un filosofo cristiano, per dimostrare che le difficoltà sollevate dal pirroniano (per il quale le essenze vere delle cose non possono essere oggetto di conoscenza, da limitare perciò agli effetti e non alle cause ultime e alla natura profonda della realtà) non dimostrano che non è possibile conoscere nulla, in quanto le conoscenze, seppure limitate agli effetti, hanno un valore di tipo pragmatico (è vero, infatti, che possiamo conoscere qualcosa riguardo alle apparenze, e che tali conoscenze sono adeguate alle necessità della vita). Non solo non è dato dubitare di tutto, perché ciò porterebbe all’infelicità, ma v’è la possibilità di dare risposta a determinate questioni ricorrendo a mezzi di misurazione. Oltre a ciò, esistono conoscenze autoevidenti che possono essere usate come massime su cui costruire il sapere scientifico, impedendo che la spiegazione cada in un regresso all’infinito (basta impiegare correttamente le nostre facoltà, usando i sensi, le regole, gli strumenti, per vedere che le conoscenze hanno un sufficiente grado di affidabilità e che la loro utilità non dipende dalla scoperta dei fondamenti di tutte le certezze); il che non giustifica la possibilità di giungere ad una fondazione metafisica della fisica, alla maniera di Cartesio, perché la scienza deve limitarsi alla descrizione dei fenomeni. Cartesio (1596-1650): le nostre rappresentazioni si fondano su nozioni originarie (ad es. quella di verità), quali modalità fondamentali del rappresentare che il nostro spirito possiede in forza della sua basilare costituzione. Queste nozioni ci sono chiare in maniera intuitiva (ad es. l’essere del pensiero nel cogito ci è dato in una conoscenza chiara e intuitiva). Le nozioni originarie sono in primo luogo percepite intuitivamente dalla facoltà conoscitiva e in secondo luogo elaborate concettualmente, ossia concepite (oltre che forme del pensiero, esse sono forme del rappresentare). Le nozioni originarie “materiali” sono nozioni dell’essere e delle sue proprietà; in tale tipo di nozioni originarie vanno distinte quelle che rappresentano determinazioni fondamentali (essere, pensiero, estensione) e quelle che possono essere intese come determinazioni ulteriori di queste sostanze (ad es. l’intelletto e la volontà a proposito del pensiero). Pensiero ed estensione non possono a loro volta essere attributi ad una sostanza superiore (Dio). Possiamo spiegare le nozioni primarie, gli attributi o i modi, soltanto come determinazioni ulteriori di nozioni superiori. Nelle nozioni originarie “formali” sono invece da comprendere rappresentazioni di rapporti mediante cui sono date relazioni tra le cose (i “vincula” che esprimono tali relazioni sono soltanto nel pensiero nel senso che essi non sono sostanze). Compresa tra le nozioni originarie “metafisiche”, insieme alla verità e all’ordine, la perfezione intende la completezza dell’essere da attribuire a Dio in quanto sostanza infinita comprendente ogni perfezione. Tra le nozioni originarie, due si distinguono per il fatto di rendere immediatamente evidente l’essere: la cogitatio nell’atto del cogito e Dio, il verum-perfectum, mediante l’idea di lui (l’idea di Dio rivela il suo essere come idea originaria, non come concetto riflessivo secondario, rinviando a qualcosa che può essere riconosciuto solo a partire da se stesso). Delle tre sostanze ammesse da Cartesio: pensiero, estensione e Dio, quest’ultima si distingue dunque dalle altre due perché il suo essere viene colto mediante una nozione originaria “metafisica”. Essa è accessibile al nostro conoscere solo attraverso la coscienza, nel senso che mediante l’idea di Dio abbiamo accesso all’essere di Dio. Tra le nozioni originarie, il pensiero ha la prerogativa dell’assoluta immediatezza, manifestandosi anzitutto in una percezione (introspezione, intellezione), a partire dalla quale il concetto del cogitare viene svolto nelle sue determinazioni essenziali attraverso operazioni dell’intelletto. Tutto quanto non è cogito è mediato dalle idee del pensiero (quest’assoluta precedenza del pensiero rispetto ad ogni conoscenza di un’altra cosa conferisce al cogitare una precisa priorità e una dignità primaria in quanto nozione primaria). La semplice intuizione mi dà il mio essere come cogitans (se cerco, infatti, di negare che il mio pensare è, devo constatare che nel negare già sempre lo attuo), di cui posso percepire immediatamente anche i modi nei differenti atti del pensare (dubitare, comprendere, volere, immaginare, sentire ecc.). Il nostro conoscere scopre anche deficienze della cogitatio, il cui essere è assicurato soltanto dall’atto del cogito e non una volta per tutte (di qui anche l’impossibilità di stabilire una continuità tra l’atto presente e l’essere futuro), e non dà garanzie in rapporto alla corrispondenza delle rappresentazioni con la realtà esterna (le cose sono come le concepiamo?). In ultimo, essa ci conduce alla conoscenza di Dio senza farci comprendere come egli sia (la sua potenza ci è incomprensibile). L’idea di Dio, in quanto idea, non può venire considerata come principiata in maniera sufficiente dal cogito in quanto primo principio. Con il verbo cogitare Cartesio non esprime soltanto il pensiero contrapposto all’estensione, ma designa un’azione del pensare che prende le mosse da una fondamentale insicurezza e che accade per produrre qualcosa di sicuro e costante (ciò risulta riconoscibile dal fatto che il pensiero non viene solo determinato dai modi dell’intelletto e della volontà, ma viene suddiviso in cognitio, dubium e ignorantia). Nell’originario affermarsi del cogito non si vede ancora chiaramente dove sicuramente sappiamo qualcosa e che cosa esso sia. Per questo, nel pensiero che seriamente inizia è all’opera il dubbio universale. Nel suo iniziare il pensiero non è solo insicuro rispetto a ciò che esso pensa ma è insicuro anche rispetto al suo proprio modo del pensare. (In quanto il dubbio è nel cogito veramente tale, è esame della verità o della non verità di ciò che si dubita.) È solo l’idea della verità come corrispondenza conosciuta di una rappresentazione con il suo oggetto a conferire al pensiero il suo proprio carattere di ricerca della verità (la sua idea è da anteporre al “vero” che viene predicato in rapporto a qualcosa). L'idea di Dio è un momento che rende possibile il cogito in quanto tale, il cui tratto essenziale è di essere orientato intenzionalmente alla perfetta verità e alla perfetta bontà (là dove il cogito è pensato come ciò che è nella sua sostanza spirituale, lì è insieme pensato Dio come principiatore). L'idea di Dio non può essere intesa come qualcosa di principiato del cogito, dato che quest'ultimo non può essere la ragion sufficiente dell'esserci in se stesso di questa idea. Bisogna pensare il cogito come necessariamente principiato da Dio, in quanto ciò che per essenza desidera, dubita, domanda, ossia ciò che è infirme, può avere una natura siffatta solo in rapporto a un essere perfectum e firmum, ovvero a un vero conoscere e a una vera volontà buona. Del resto, se il cogito non soltanto è tale ma si comprende come tale, ogni cogitare non è necessariamente in relazione alla verità in quanto tale (solo a partire dalla verità esso può cogliersi come difettibile e instabile, quale ente che non è e né si conosce come il perfetto). Da ciò consegue che il cogito non risulta essere un principio supremo, dato che non è principio della sua esistenza (la conoscenza della sua difettività è condizione di possibilità dell’idea della sovrana indipendenza di Dio, la cui potenza ci è incomprensibile) In quanto viene riconosciuto nell’autoafferrarsi del cogito come ciò assolutamente rende possibile il cogito stesso, orientandolo alla domanda della verità, Dio non è una rappresentazione escogitata in modo arbitrario o comparsa soltanto a posteriori, dal momento poi che lo spirito finito non può essere la ragione sufficiente della sua idea in lui. Cartesio ha applicato il metodo del dubbio sistematico all'intero edificio della conoscenza umana allo scopo di scoprire un fondamento certo per tutto il sapere (tale metodo prende avvio sotto forma di applicazione sistematica dei dubbi di Montaigne e Charron). La regola seguita è di tenere per vero solo ciò che presenta il carattere dell'evidenza, evitando ogni precipitazione di giudizio così come un atteggiamento prevenuto, e accogliendo nel proprio giudizio solo ciò che si presenta in modo chiaro e distinto. I livelli di dubbio sono molto più numerosi e profondi di quelli semplici e blandi introdotti finora dagli scettici (i quali investono la veracità della comune esperienza sensoriale e la stessa realtà del mondo), dovendosi ammettere anche la possibilità che le nostre stesse facoltà siano ingannevoli (ipotesi del demone). In tal caso, la scrupolosità d'analisi con cui sono vagliate le conoscenze non basta, in quanto sono gli stessi strumenti di conoscenza ad essere fuorviati. Mentre nelle Regole per la guida dell'intelligenza (1628), in un momento in cui Cartesio non aveva ancora concepito il progetto di misurarsi con la crise pyrrhonienne, matematica e geometria offrivano un punto saldo contro ogni falsità e incertezza, successivamente anche queste sono investite del dubbio quando alla critica della conoscenza si sostituisce la critica dei mezzi della conoscenza. La differenza tra la procedura degli scettici e quella di Cartesio consiste nell'obiettivo dell'applicazione del metodo e nel suo sbocco: mentre i primi dubitano solo per ostinazione, egli esercita il dubbio per raggiungere la certezza. Suo intento è di individuare nella mente stessa le verità fondamentali e indubitabili, i fondamenti della conoscenza umana, nascosti da pregiudizi e opinioni. Il fatto stesso di spingere lo scetticismo fino al limite fa incontrare una verità che non si può mettere in discussione in nessun modo (il dubbio costringe infatti la persona a riconoscere la consapevolezza di sé, a rendersi conto di dubitare o di pensare, e di essere qui, nell'esistenza). Tuttavia, la sola certezza acquisita dal metodo del dubbio non è una premessa; essa è semplicemente un fondamento del discorso razionale cui possano derivare la verità delle conoscenze riguardanti la natura delle cose. Solo se si conosce una verità si può procedere alla costruzione di una teoria della verità. Il cogito è tale verità, perché ci colpisce a tal punto con la sua chiarezza e distinzione da impedirci di dubitarne (con chiarezza va intesa la proprietà di ciò che è presente e manifesto a una mente attenta, mentre con distinzione la chiarezza che distingue questa consapevolezza da tutte le altre). L'idea è che, una volta in possesso di un criterio di verità, si possono cogliere con esso le premesse di un sistema metafisico di conoscenze vere che a sua volta dà fondamento a un sistema fisico di conoscenze vere. L'assioma che la realtà oggettiva delle nostre idee esige una causa in cui sia contenuta la stessa realtà, non oggettivamente ma formalmente o eminentemente, costituisce il primo ponte cruciale dalle verità della mente alle verità concernenti cose che vanno al di là delle nostre dee, ossia dalla consapevolezza soggettiva di una verità concernente le nostre idee alla conoscenza della realtà. L'idea di Dio esige una causa che abbia, formalmente o eminentemente, almeno le stesse sue proprietà; questo significa che la causa, come oggetto reale indipendente, ha almeno le stesse caratteristiche dell'idea (in tal senso, le perfezioni contenute nell'idea di Dio devono essere nello stesso tempo perfezioni di Dio). La divinità onnipotente deve diventare il fondamento ultimo e la garanzia definitiva della nostra certezza, perché se la certezza interiore sulle nostre idee ci convince dell'esistenza oggettiva di un Dio da cui siamo totalmente dipendenti per il nostro essere e per il nostro conoscere, occorre poi che tale certezza sia giustificata oggettivamente da Dio (in modo da essere in rapporto con il mondo reale). La possibilità che Dio abbia tratti demoniaci è esclusa in virtù delle stesse caratteristiche dell'idea chiara e distinta che gli uomini ne hanno. Poiché Dio, loro creatore, non può ingannare, e la facoltà di cui li ha dotati fa giudicare vero tutto ciò che essi concepiscono in maniera chiara e distinta, allora la loro facoltà di giudicare è garantita. G. Berkeley (1685-1753): la direzione principale della sua indagine, di cui è premessa la critica del concetto di percezione, si annuncia nel problema formulato nel Saggio di una nuova teoria della visione (1709), ossia quello della distanza che non è un oggetto dell’impressione sensoriale. Se con percezione intendiamo unicamente il contenuto isolato di un’impressione, allora risulta che essa non può darci testimonianza dell’oggetto nella sua interezza. La realtà oggettiva sorge di fronte a noi solo in virtù di un’interpretazione dei segni sensibili (attraverso la connessione tra le diverse classi di impressioni sensibili e la considerazione della loro dipendenza reciproca avviene il primo passo nella costruzione della realtà). In tal senso, l’indagine di Berkeley ha per riferimento il principio fissato da Cartesio nella Diottrica (1637) secondo cui a vedere non è propriamente l’occhio ma lo spirito. Nel Trattato sui principi della conoscenza umana (1710) Berkeley ha distinto la sua prospettiva rigorosamente psicologica dagli altri metodi con cui la fisica e la fisiologia affrontano il problema della percezione, in quanto nel processo di associazione la coscienza non è dominata da leggi razionali ma è guidata dall’esercizio e dalla consuetudine (la connessione tra i diversi contenuti non è dedotta ma “suggerita”). Il contenuto della coscienza non si esaurisce comunque nei dati particolari dell’impressione sensibile della rappresentazione, ma sorge attraverso la loro reciproca connessione (ad attribuire valore di realtà ad un complesso rappresentativo non è il rapporto con un mondo di sostanze materiali ma la costanza e la compiutezza che mostra il gruppo di sensazioni corrispondente a tale complesso). Nessuna delle differenti sfere di impressioni sensoriali può vantare una preminenza rispetto alle altre, quando si consideri il problema dell’oggettività (solo nella loro totalità esse possono realizzare il vero concetto di oggetto). La separazione tra qualità primarie e secondarie è solo un’astrazione metodologica che non può essere elevata al grado di una realtà metafisica (se le qualità secondarie sono idee, oggetti mentali, con esse sono inestricabilmente connesse quelle primarie, anch’esse idee). Quanto a tale realtà, se la si concepisce come sostanza, si fa fatica ad ammettere accanto a questa degli attributi distinguibili da essa e senza i quali dovrebbe essere pensata la sostanzialità della sostanza (il senso degli attributi è pertanto il significato dei termini che indicano una certa sostanza). La rappresentazione in quanto tale è e rimane individuale: la sua universalità nel concetto non comporta un accrescimento di contenuto, bensì una nuova qualità particolare che essa acquista attraverso la considerazione dello spirito. Ad essere negata così non è la teoria dei concetti generali secondo cui vi sono concetti di carattere universale composti dalle proprietà essenziali degli oggetti di cui il concetto è concetto, ma quella dell’astrazione che pone un’idea come distinta dalle idee particolari (la generalità è da intendere come una funzione relazionale delle idee in cui un’idea, sempre particolare, viene posta a rappresentare le altre dopo che si è spostato l’attenzione dalla sua particolarità). Se non va negata l’esistenza delle cose sensibili, va chiarito tuttavia il concetto di esistenza, una volta messo in primo piano la stabilità e connessione regolare dei contenuti rappresentativi, così da riporre la garanzia della realtà non già nella materia dell’impressione sensibile ma nella connessione necessaria che tale materia acquista nella considerazione scientifica, giusta l’impossibilità di pensare a qualcosa di esistente indipendentemente da una mente che la percepisca. Se problema centrale del sapere è il superamento dello scetticismo, termine costante di paragone non può che essere la certezza immediata del senso comune, non scalfita da dubbi né dal senso di disfatta tipico di chi abbandona le sicurezze del buon senso per indagare i fondamenti e la verità della realtà. Lungi dal confortare nella conoscenza, la filosofia ne risulta l’unico ostacolo, sollevando difficoltà laddove la conoscenza umana si dimostra comunemente in grado di accedere alla realtà. La difesa delle posizioni della religione passa attraverso la critica della nozione di sostanza materiale (per definizione inattingibile) cui hanno fatto ricorso tutti quei filosofi che hanno operato nella direzione di una progressiva laicizzazione della concezione del mondo. La contraddittoria presupposizione di un qualcosa di esterno alla mente che, pur opposto e dissimile alle impressioni sensibili, e quindi alle idee, ne garantisca l’oggettività presentandole come copie di modelli differenti, porta allo scetticismo (questo ha la sua base nella duplicazione di piani per cui l’esperienza è la copia di una realtà esterna all’esperienza stessa e da questa indipendente). Se tutta la realtà trova il suo essere nell’essere percepita, se essa consiste e si esaurisce nelle idee nelle menti che le percepiscono, allora la nostra conoscenza è in grado di coglierla in quanto essa coincide con i contenuti della mente. L’affermazione del primo principio (esse est percepi) quale risolutore di tutta la realtà nell’ordine delle idee, nel loro essere esclusivamente realtà percettive, mette in luce un secondo ordine di realtà: quello dei percettori, degli spiriti (le menti). Le idee, il cui carattere è passivo, rimandano infatti ad una sostanza eminentemente attiva che le supporta e le giustifica: la sostanza pensante, il cui carattere e quello dell’attività (del pensiero, della percezione, della volizione). Ciò significa che solo gli spiriti, ossia le menti, le anime, se stessi, sono sostanze nel senso scolastico del termine come ciò che sussiste per sé. Il primo principio non si limita però a spazzare via il concetto di sostanza materiale, ma fornisce una nuova prova dell’esistenza di Dio, fondata sulla sua manifestazione tramite l’insieme ordinato e coerente delle idee che costituiscono la nostra esperienza quotidiana del mondo (da questo punto di vista, si fa delle idee, degli oggetti delle percezione sensibile, i segni dell’esistenza divina). Questo si spiega perché le idee sono le cose reali e pur dipendendo da una mente non dipendono dalla nostra mente ma da quella di Dio, il quale percepisce costantemente la totalità della realtà, come un percepire che è produzione di idee. La conoscenza umana è sottomessa alla funzione di momento necessario ad una fondazione della fede, posto che anche la ricerca delle leggi naturali finisce per apparire come la ricerca della regolarità dei segni della manifestazione di Dio giustificata dalla sua bontà (la produzione di idee da parte di Dio non avviene in base a un arbitrio privo di regole, ma è organizzata al fine di garantire tale ordine e regolarità secondo metodi che si riflettono nelle leggi di natura). In verità, è da dire però che non potremmo intendere né leggere i segni offertici dalle impressioni particolari e non potremmo raccoglierli in un testo unitario, se sin dal principio non fossimo sicuri che essi nascondono in sé un significato (il postulato razionale di un’intima uniformità del processo naturale rimanda ancora all’intuizione religiosa dell’attività divina come garanzia dell’intima connessione razionale dei fenomeni). Hume (1711-1776): la generalità non è una caratteristica psicologica che possa essere posseduta immediatamente o acquistata da un contenuto rappresentativo nel corso dell’esperienza, ma spetta unicamente alla parola che, nella sua indeterminatezza, non può comprendere in sé e riprodurre tutti i tratti particolari dell’immagine della percezione. Con quest’ultimo termine Hume ha inteso ogni contenuto psichico, distinguendo poi le percezioni in impressioni, quali passioni e immagini immediatamente presenti alla mente, e idee, quali copie illanguidite delle impressioni (questa differenza fondata sulla vivacità e sulla forza è posta al riparo dal mutare degli stati del soggetto, permanendo anche quando l’uso della mente è offuscato dalla malattia o impedito dalla pazzia). La percezione non è una semplice rappresentazione di oggetti, bensì una vera e propria manifestazione di significato che implica come condizione del suo stesso svelarsi l’impegno del soggetto quale attivo teatro d’esperienza. Se si vogliono comprendere i meccanismi di formazione e articolazione dei concetti, occorre riconoscere che essi sono guidati da un’abitudine di natura linguistica. Anche se, da un lato sembra che le idee traggano il loro valore universale da una certa generalizzazione di natura linguistica; dall’altro è affermato che il vero significato di una parola risiede nell’idea a cui viene abitualmente riferita, la quale ha come radice ultima l’impressione che essa rispecchia con minore vivacità. Hume condivide il nominalismo di Berkeley: anche per lui l’idea astratta non è altro che un’idea particolare assunta come rappresentativa di un insieme di individui tra loro somiglianti. Esistono quindi solo idee particolari assunte per abitudine come segni di altre idee particolari ad esse simili (il nome adoperato per riunirle risveglia in noi nient’altro che l’abitudine di considerarle assieme e quindi l’una o l’altra, a seconda dell’occasione). Lavorando sulla somiglianza tra le idee, la mente umana è in grado di costruire artificialmente sistemi di idee complesse (questa composizione delle idee da parte della mente non conosce quasi limiti slanciandosi verso mondi fantastici). Se la conoscenza è un insieme di percezioni che si distinguono tra loro in impressioni e idee sulla base sia della loro successione nella mente sia della loro differente forza e vivacità, è l’immaginazione ad avere in essa un ruolo centrale come capacità associativa nella vita della mente. Ciò non giustifica la convinzione che la mente percepisca direttamente le cose stesse o le sostanze, siano esse concepite come corporee o come spirituali, o ancora le connessioni reali tra le cose. Alla memoria, cui spetta poi riprodurre le relazioni e le successioni di impressioni e idee, bisogna aggiungere infatti l’immaginazione che può associare le idee più o meno liberamente, componendole e componendole, fino a produrre quelle idee complesse i cui nessi presentano indubbiamente ordine e regolarità senza più rispecchiare l’ordine che le impressioni avevano al loro presentarsi alla mente (questa associazione e connessione di idee si regola in base ai principi della somiglianza, della contiguità nel tempo e nello spazio e della causalità). Tra le idee complesse va menzionata quella di sostanza, con la quale i filosofi hanno inteso un’entità fittizia dietro la quale si nasconde un puro nome col quale si designa un aggregato di idee semplici (ma analoga ipostatizzazione può essere scorta in relazione allo spazio e al tempo, erroneamente intese come entità distinte dalle singole esperienze spazio-temporali). Posto che le possibili relazioni possono riguardare le relazioni tra le idee e le relazioni con l’esperienza, va detto che solo alle prime spetta una certezza apodittica (quella delle verità matematiche, la cui negazione implica contraddizione), mentre alle seconde va attribuita una conoscenza soltanto probabile, non dipendendo esse dal principio di contraddizione (perché il contrario di un fatto è sempre possibile). Con ciò è stabilita una gerarchia di tipi di verità o di certezza, in quanto alle verità «evidenti», indubitabili, della matematica, sono da ritenere inferiori quelle «provate», derivanti da constate connessioni causali, e quelle «probabili», il cui grado di certezza è ancora minore. La relazione causale su cui si fondano tutti i ragionamenti che riguardano realtà o fatti si fondano è pertanto del secondo tipo, in quanto non possiede a priori validità (non può essere conosciuta per via puramente razionale) né è dotata di necessità logica (causa ed effetto sono due fatti interamente diversi, ognuno dei quali non ha nulla che richiami necessariamente l’altro) ma è ricavata esclusivamente dall’esperienza, assumendo carattere di necessità in virtù di un processo inferenziale della mente che, in virtù dell’abitudine, concepisce la successione di due fenomeni nei termini di una concatenazione stretta (anche il motivo dell’uniformità della natura è viziato dall’abitudine a veder seguire determinati fenomeni da altri; questa esperienza riguarda però sempre il passato e mai il futuro). Il fondamento di tale relazione non può essere che psicologico, nel dar luogo ad una credenza formatasi appunto per il ripetersi costante di casi simili, la quale è alla base delle azioni e del comportamento umano e pertanto non può essere rimossa anche dopo essere divenuti consapevoli della sua infondatezza. La sua necessità è quindi puramente soggettiva e va cercata in una disposizione della natura umana: l’abitudine; la quale, com’è ovvio, spiega perché noi crediamo alla necessità delle legami causali, ma non giustifica anche questa necessità. Hume ha fatto oggetto di riflessione anche l’idea dell’esistenza e della permanenza degli oggetti esterni e della sostanza pensante, mostrando in quest’ultimo caso come sia impossibile avere percezione di sé indipendentemente da un contenuto mentale (questo ha ripetuto a suo modo Kant con l’affermare che il soggetto conoscente e non solo l’oggetto dell’esperienza è fenomeno). L’esperienza dell’io va ridotto pertanto al flusso del proprio percepire, al cui interno i rapporti di somiglianza e causalità determinano il legame tra le diverse percezioni. Anche in questo caso, lo scetticismo teorico che è al fondo di queste riflessioni – quello per cui la credenza nell’esistenza della realtà esterna è ingiustificabile, perché la sola realtà di cui siamo certi è costituita dalle percezioni – non è spinto al punto da modificare l’atteggiamento pratico del vivere quotidiano, dal momento che le credenze del senso comune hanno una legittimazione extrateorica che le pone al riparo dall’assalto dello scetticismo radicale. Non intendendo annullare la differenza tra finzione e credenza, Hume ha concepito quest’ultima come un sentimento naturale decritto come «una concezione più vivace, intensa e potente di quella che accompagna le pure funzioni dell’immaginazione, concezione che sorge da una congiunzione abituale del suo oggetto con qualcosa di presente alla memoria e ai sensi». In quanto “filosofo della natura umana”, quella a cui si riallaccia ogni scienza, dalla matematica alla religione, Hume ha rivolto la sua attenzione al sentimento e all’istinto ancor più che alla ragione, alla quale spetta semmai di chiarire ciò che comunemente si accetta e si crede, mostrando come verità ritenute oggettive perché fondate sulla natura stessa delle cose sono in realtà soggettive in quanto dettate appunto dall’istinto e dall’abitudine. Seppure guidata dalla ragione, anche l’attività del filosofo non fa che seguire l’istinto: quello di indagare i principi su cui si fondano le credenze e che informa il comportamento degli uomini (e questo significa in definitiva che la stessa filosofia ha la sua legittimazione nella natura umana). Hume ha esteso infine la sua riflessione al campo della religione, evidenziando l’impossibilità di sostenere razionalmente con argomenti a priori (attraverso la deduzione dell’esistenza dalla semplice analisi del concetto) o con argomenti a posteriori (attraversa la risalita dall’esistenza del mondo, constatabile empiricamente, a quella del suo artefice) la credenza nell’esistenza di Dio (Dialoghi sulla religione naturale, 1779 postumi), e denunciando così le pretese della ragione che, lungi dal farci raggiungere maggiori certezze, ci portano a conclusioni di totale scetticismo. Come nel Trattato sulla natura umana (1739-1740), così anche qui l’obiettivo polemico di Hume non è la fede, ma la pretesa della ragione di superare i limiti dell’esperienza e dei poteri conoscitivi connessi a questa, nel tentativo di dare una fondazione sul piano della conoscenza a ciò che può essere esclusivamente oggetto di fede. Questa rimane anche per lui l’unico fondamento sicuro delle religioni, dal momento che le argomentazioni che pretendono di trovare un fondamento razionale non resistono all’analisi critica che ne dimostra l’insostenibilità (perché ad es. all’argomento a posteriori del «progetto», presente nella teologia scolastica (Tommaso d’Aquino) e che pure si presenta fondato sull’esperienza quotidiana, può essere opposta l’obiezione della necessaria proporzione fra le cause e gli effetti, la quale riduce la validità di tale argomento alle sole cose umane; sicché, se lo si estende alle cose divine, è perché si è caduti nell’antropomorfismo). Nessun tipo di ragionamento teologico può risultare pertanto un sicuro fondamento delle credenze religiose, perché in tale materia la ragione non ci dà né l’evidenza con l’argomento a priori né la prova con quello a posteriori, ma ci dà solo la probabilità, e su questa non si può fondare la religione, giacché alla probabilità è connesso lo scetticismo (probabilità e scetticismo che appaiono a questo punto elementi di maggior saggezza che non le erronee pretese di evidenza e di prova). Ponendosi in ultimo il problema delle origini della religione nella natura umana, Hume ha respinto anzitutto l’ipotesi che essa sia il risultato dell’operare di un istinto primario della medesima. La sua Storia naturale della religione (1757) ha dunque lo scopo di rispondere alla domanda relativa al tipo di istinti o principi secondari della natura umana dai quali essa ha avuto origine, nel presupposto che la risposta sia da ricercare nell’esperienza storica dell’umanità. Kant (1724-1804) Critica della ragion pura (II edizione, 1787) – Dottrina trascendentale del metodo: Intorno all’impossibilità di un appagamento scettico della ragion pura in conflitto con se stessa La coscienza della propria ignoranza, laddove questa non è necessaria ma contingente, è motivo di risveglio delle ricerche. L’ignoranza è di due tipi: ignoranza delle cose e ignoranza della determinazione e dei limiti e della conoscenza. In quanto accidentale, l’ignoranza spinge nel primo caso ad indagare dogmaticamente le cose e nel secondo caso ad indagare criticamente i limiti della conoscenza possibile in base a principi a priori. Il fatto che la nostra sia una ignoranza assolutamente necessaria, esonerandomi da ogni ulteriore indagine, è determinabile criticamente e non empiricamente (attraverso l’osservazione), ponendo in questione le fonti della conoscenza umana. La conoscenza della nostra ignoranza, resa possibile dalla stessa critica, è essa stessa scienza. Si chiama censura della ragione un procedimento come quello di Hume, consistente nel sottoporre ad esame i prodotti della ragione e tesa a porre in dubbio qualsiasi uso trascendente dei principi. Nel campo della ragion pura il primo passo è dogmatico, mentre il secondo è scettico e mostra la cautela di un giudizio scaltrito dall’esperienza. Ad esso deve seguire un passo ulteriore, conveniente ad un giudizio che abbia il suo fondamento in massime sicure e di provata universalità, e consistente nell’esame della ragione stessa e non più dei solo fatti della medesima, in tutta la sua capacità e idoneità in ordine alle conoscenze pure a priori (il che equivale alla critica della ragione). Mediante questa critica si forniscono le prove fondate su principi, oltre che dei precisi confini della ragione (e non semplicemente di alcuni termini), della nostra ignoranza rispetto a tutte le possibili questioni di un certo tipo (e non solo rispetto a questioni limitate). Lo scetticismo rappresenta un momento transitorio e non un punto d’arrivo per la ragione umana, quello in cui essa giunge a riflettere sulle posizioni dogmatiche. Queste come quelle scettiche non offrono una residenza stabile alla ragione, rintracciabile soltanto in una totale certezza così della conoscenza degli oggetti come della conoscenza dei limiti nei quali è chiusa la medesima. Lo scettico è pertanto il precettore che guida il ragionatore dogmatico verso una sana critica dell’intelletto e della stessa ragione, e il suo metodo, non soddisfacente in se stesso, si risolve in una specie di esercizio preliminare per risvegliare la cautela della ragione e segnalarle quei mezzi sicuri che la possono garantire nei suoi legittimi possessi. Nessun appello alla nostra impotenza dà il diritto di respingere i problemi postici dalla ragione, come se la loro soluzione stesse realmente nella natura delle cose, perché solo la ragione suscita dal suo seno questi problemi e tocca dunque ad essa dar conto della loro validità o della loro parvenza dialettica. L’errore di Hume è stato quello di concludere dalla contingenza della nostra determinazione secondo la legge (quella che ci porta a inferire nell’esperienza da un fenomeno qualcosa che lo ha determinato) la contingenza della legge stessa, senza comprendere che il principio della permanenza è, al pari degli altri (tra cui quello di causalità), un principio che anticipa l’esperienza stessa. Inoltre Hume non si è reso conto della differenza tra le richieste dell’intelletto, fornite di fondamento, e le presunzioni dialettiche della ragione. Progressi della metafisica (postumo 1804) Per avere un metro utile a cogliere ciò che negli ultimi tempi si è verificato nella metafisica occorre considerare quel che in essa si è fatto da sempre, mettendo poi a confronto entrambi i risultati con ciò che in essa avrebbe dovuto essere fatto in quanto scienza. Si può tuttavia considerare come un avanzamento il ponderato e intenzionale ritorno sui propri passi seguendo le massime del modo di pensare, anche se come un avanzare negativo, perché tale è da considerare quello che ci consente di eliminare errori (il suo beneficio è quello di non continuare a errare per una falsa strada una volta accortisi dell’errore, ma di tornare indietro sul luogo di partenza per orientarsi). I primi e più antichi passi nella metafisica non furono semplicemente arrischiati ma compiuti con la massima sicurezza senza eseguire preventivamente accurate indagini sulla possibilità della conoscenza a priori. Il secondo passo della metafisica, antico quasi quanto il primo, fu invece un regresso che sarebbe stato vantaggioso per la metafisica se si fosse limitato a tornare al punto di partenza per intraprendere di nuovo il cammino nella direzione giusta, anziché per fermarvisi con la risoluzione di non tentare più alcun passo. La motivazione data a questo regresso è stato il fallimento di tutti i tentativi compiuti in metafisica di progredire mediante la ragione dalla conoscenza sensibile a quella del soprasensibile. L’estensione della dottrina del dubbio anche ai principi della conoscenza del sensibile e alla stessa esperienza da parte degli scettici è consistita forse in un invito ai dogmatici a dimostrare quei principi a priori sui quali poggia la possibilità stessa dell’esperienza. Il terzo e più recente passo compiuto dalla metafisica, quello che deve decidere del suo destino, è dato dalla stessa critica della ragion pura in merito al suo potere di estendere a priori la conoscenza umana in generale, riguardo sia al sensibile che al soprasensibile. Per mezzo di tale critica del potere della ragione la metafisica è posta in una condizione di stabilità, senza aver più bisogno in avvenire di essere ampliata o ristretta. L’ordine cronologico in cui sono collocati il dogmatismo, lo scetticismo e il criticismo trova fondamento nella natura della facoltà conoscitiva dell’uomo. Critica della ragion pura (I edizione, 1781) – Quarto paralogismo della psicologia trascendentale (della idealità o del rapporto esterno) Ciò di cui si può inferire l’esistenza solo come causa di percezioni date ha un’esistenza dubbia – tutti i fenomeni esterni sono tali che la loro esistenza non è percepita immediatamente ma è inferita come causa di percezioni date – l’esistenza di tutti gli oggetti esterni è incerta (idealità dei fenomeni esterni). Critica del quarto paralogismo Solo la nostra esistenza può essere è suscettibile di semplice percezione, non già l’esistenza di un oggetto reale fuori di me che deve essere pensata in aggiunta alla percezione come sua causa esterna. Non mi è possibile percepire immediatamente le cose esterne, mentre posso desumerne l’esistenza dalla mia percezione interna (supposto che questa sia un effetto che la sua causa prossima in qualcosa di esterno). Ma l’esistenza di siffatti oggetti, in quanto inferita, è esposta si rischi di tutte le inferenze, a differenza dell’oggetto interno (io stesso) che è percepito in maniera immediata (come lo è il cogito per Cartesio). Idealista non è chi nega l’esistenza degli oggetti esterni dei sensi, ma chi non ammette che la loro esistenza venga conosciuta mediante una percezione immediata, traendo la conclusione che nessuna esperienza è in grado di garantirci la realtà di tali oggetti. Esistono due forme di idealismo: quello trascendentale e quello empirico. Per idealismo trascendentale di tutti i fenomeni va intesa la concezione secondo cui tutti i fenomeni sono semplici rappresentazioni e non cose in sé. Ad esso si contrappone un realismo trascendentale che vede nei fenomeni esterni cose in sé, esistenti indipendentemente da noi e dalla nostra sensibilità (questo realismo trascendentale è quello che in seguito si presenta come idealismo empirico che trae da quella premessa la conseguenza che le rappresentazioni dei sensi sono insufficienti a rendere certa la realtà dei loro oggetti). L’idealista trascendentale può essere invece un realista empirico in quanto ammette l’esistenza della materia, ma la intende in forma di rappresentazioni esterne che derivano il loro essere tali dal riferimento delle percezioni allo spazio (di cui abbiamo l’intuizione pura) e non ad oggetti esterni. Le cose esterne esistono dunque per lui allo stesso modo che esisto io stesso, sulla base dell’immediata testimonianza della mia autocoscienza, seppure con la differenza che la rappresentazione di me stesso quale soggetto pensante si riferisce esclusivamente al senso interno (tempo), mentre quelle rappresentazioni si riferiscono altresì al senso esterno (spazio). Infine, tanto gli oggetti esterni quanto quello del senso interno non sono altro che rappresentazioni, la cui percezione immediata (coscienza) offre ad un tempo una prova sufficiente della loro realtà. Una volta che si sono considerati gli oggetti come cose in sé, diviene assolutamente impossibile comprendere in qual modo ci sia dato giungere alla conoscenza della loro realtà fuori di noi, visto che non è possibile sentire fuori di noi ma solo in noi e che l’intera autocoscienza non ci fornisce che nostre determinazioni. L’idealista scettico, quello che pone in dubbio l’esistenza della materia (ma non la nega in modo preventivo, come fa invece l’idealista dogmatico) perché la ritiene indimostrabile, ci costringe a ricorrere all’estremo rimedio rappresentato dall’ammissione dell’idealità di tutti i fenomeni qual è introdotta nell’Estetica trascendentale. L’oggetto trascendentale che funge da fondamento dei fenomeni esterni, al pari di quello che sta a fondamento dell’intuizione interna, non è in se stesso una materia come neppure l’altro è un essere pensante, ma semplicemente un fondamento a noi ignoto dei fenomeni. Prolegomeni ad ogni futura metafisica (1783) – § 13 Osservazione II L’idealismo consiste nell’affermazione che vi sono unicamente esseri pensanti, mentre le altre cose che noi crediamo di percepire sarebbero solo rappresentazioni negli esseri pensanti alle quali non corrisponderebbe nessun oggetto esistente fuori di essi. Diversamente l’idealismo trascendentale afferma: le cose ci sono date come oggetti dei nostri sensi, esistenti fuori di noi, seppure non sappiamo nulla di ciò che esse siano in sé (ciò che noi conosciamo sono soltanto i fenomeni, cioè le rappresentazioni che esse producono in noi affettando i sensi). La parola “corpo” significa soltanto il fenomeno di quell’oggetto che a noi è sconosciuto ma che non per questo è meno reale. Oltre alle qualità come calore, colore, sapore, ecc., sono da annoverate tra i semplici fenomeni anche le rimanenti qualità dei corpi che si dicono primarie (estensione, luogo, spazio e tutto ciò che vi è annesso: impenetrabilità, materialità, forma, ecc.). Quanto poco può dirsi idealista colui che vuol far valere il colore non come una qualità che inerisce all’oggetto in sé ma soltanto come modificazione inerente al senso della vista, tanto poco può dirsi idealista la dottrina secondo cui tutte le proprietà che costituiscono l’intuizione di un corpo appartengono soltanto al fenomeno., dal momento che non viene eliminata l’esistenza della cosa che appare (come nel vero idealismo), ma soltanto si mostra che non è possibile conoscerla come è in sé attraverso i sensi. Critica della ragion pura – Dottrina trascendentale degli elementi: Confutazione dell’idealismo L’idealismo (quello materiale) è la teoria che considera l’esistenza degli oggetti nello spazio fuori di noi come dubbia e indimostrabile o come falsa e impossibile. Il primo caso definisce l’idealismo problematico di Cartesio, il quale ha ritenuto indubitabile solo un’asserzione empirica (io sono); mentre il secondo è l’idealismo dogmatico di Berkeley, il quale ha ritenuto che lo spazio, assieme a tutte le cose cui esso inerisce come condizione inseparabile sia alcunché di impossibile in se stesso. Se circa le cose esterne noi siamo in possesso di un’esperienza e non di una semplice immaginazione, va dimostrato che la nostra stessa esperienza interna, posta da Cartesio al riparo da ogni dubbio, non è possibile che presupponendo un’esperienza esterna. Teorema: la semplice coscienza, ma empiricamente determinata, della mia propria esistenza prova l’esistenza degli oggetti nello spazio fuori di me. Dimostrazione: se nella coscienza della mia esistenza mi colgo come determinato nel tempo e se ogni determinazione temporale presuppone alcunché di permanente nella percezione, allora la percezione di questo permanente non è possibile se non in base alla semplice rappresentazione di una cosa fuori di me. Non solo quindi la determinazione della mia esistenza nel tempo presuppone l’esistenza di cose reali da me percepite come fuori di me, ma la coscienza della mia propria esistenza è nel contempo immediata coscienza dell’esistenza di altre cose fuori di me. Da questa dimostrazione risulta chiaro come il gioco fatto dall’idealismo nel supporre che l’unica esperienza immediata sia quella interna si ritorca ai suoi danni. Diversamente, è da ammettere che l’esperienza esterna è propriamente immediata, e che solo per suo mezzo è possibile non già la conoscenza della nostra esistenza ma la sua determinazione nel tempo ossia l’esperienza interna. Hegel (1770-1831) Rapporto dello scetticismo con la filosofia (1802): non si riscontrano differenze tra i vari sistemi filosofici, come affermava Schulze per contestare che la filosofia possa mai raggiungere la stabilita di una scienza, ma solo tra filosofia e antifilosofia (quando sono veri sistemi filosofici a contrastare tra loro, esiste sempre accordo nei principi). L’incapacità dello scetticismo di comprendere ciò si spiega con l’incapacità di avere un’idea adeguata della filosofia e del razionale, entrambi concepiti come rinchiusi nella sfera empirica della certezza innegabile dei fatti della coscienza. A differenza dello scetticismo antico, che rappresenta l’iniziale gradino verso la filosofia perché, opponendo finito a finito e finito ad infinito, mostra la finitezza nel finito, quello moderno è semplicemente dogmatico perché, ponendo alla base del razionale i fatti della coscienza, attribuisce una certezza immediata al finito. Il Parmenide di Platone è esempio di uno scetticismo genuino, per il fatto di negare la verità del conoscere secondo i concetti astratti dell’intelletto e di porsi esso stesso come il lato negativo della conoscenza dell’Assoluto (anche per Schelling il sapere negativo dello scetticismo, per elevarsi a scetticismo «scientifico», deve coincidere con la «intuizione positiva dell’Assoluto»). L’impostazione scettica di quel dialogo è vista come un’introduzione alla platonica unità dei contrari, realizzata attraverso la comunanza dei generi supremi dell’essere e del non essere. Lo scetticismo quale compare in forma esplicita nel Parmenide può essere rinvenuto in forma implicita in ogni genuino sistema filosofico, qualora in qualsiasi proposizione esprimente una conoscenza di ragione sono isolati i concetti contenutivi e si considera il modo in cui sono collegati, mostrando come questi concetti siano nel contempo anche “tolti”, ossia uniti nella loro contraddizione. Il principio di contraddizione ha per la ragione scarsa verità, anche dal punto di vista formale, dal momento che ogni proposizione di ragione deve contenere una trasgressione di esso riguardo ai concetti. Schulze non ha compreso come, oltre al dogmatismo e allo scetticismo, esista ancora la filosofia come terzo termine (questo schema tripartito deve correggere quello introdotto da Sesto Empirico che divideva i filosofi in dogmatici, accademici e scettici, fautori di un atteggiamento di apertura alla ricerca). Ad ogni modo, nella ricerca della massima coerenza lo scetticismo antico diventava inevitabilmente incoerente, posto che la pura negatività o soggettività o è nulla annullandosi nel suo estremo (dato che un estremo non mantenersi senza il suo opposto) o deve diventare sommamente oggettiva. Nell’operare una scissione del razionale, opponendo pensiero ed essere mantenuti nella loro contrapposizione, lo scetticismo moderno ha reso assoluto l’intelletto. Secondo questo scetticismo la capacità conoscitiva umana, in quanto fornita solo di concetti, non può uscire ad incontrare le cose che sono dall’esterno. La convinzione che le posizioni scettiche siano solo un passaggio obbligato verso la ragione concepita come autocoscienza speculativa diviene più avanti operante, in alcuni punti nodali della Fenomenologia dello spirito (1807), dove all’inizio le tappe della dialettica della coscienza sensibile descritte e il superamento delle aporie della medesima devono soddisfare l’esigenza di stabilire che la coscienza apprende gli oggetti come in sé identici con lei così da ritrovare se stessa nel divenire autocoscienza. Lo scetticismo compare propriamente nella sezione sull’autocoscienza, come “figura” situata tra l’autocoscienza stoica, i cui la libertà del pensiero è meramente astratta, e la figura della «coscienza infelice» che, nella propria infelicità, porta a consapevolezza la scissione totale cui giunge appunto lo scetticismo. Lo sviluppo va dunque dallo stoicismo, in cui si manifesta un concetto ancora astratto dell’autocoscienza libera, alla coscienza infelice attraverso la coscienza scettica quale esperienza del movimento dialettico che ora avviene come opera della coscienza stessa. Fra l’autocoscienza storica e la coscienza scettica corre lo stesso rapporto che corre fra il signore e il servo, laddove il primo è solo il concetto dell’autocoscienza indipendente mentre il secondo ne era l’attuazione effettiva. Tanto lo stoico innalza l’autocoscienza al pensiero nel concepire l’uomo veramente libero come al di sopra di tutte le accidentalità e le determinazioni della vita (allo stesso modo in cui il signore affermava la sua indipendenza senza riuscire ad attuarla all’interno della vita), quanto lo scettico penetra in tutte le determinazioni dell’esperienza, ne mostra il nulla e le dissolve nell’autocoscienza (così come il lavoro del servo riusciva a penetrare la sostanza della vita per darle l’impronta dell’io). Per questo, nello scetticismo la forma non è più la semplice positività assoluta del pensiero ma la sua negatività onnipotente («lo scetticismo è la realizzazione di ciò di cui lo stoicismo è soltanto il concetto: è l’esperienza effettuale di ciò che è la libertà del pensiero» in quanto «essa è in sé il negativo e deve così presentarsi»). In tal senso lo scetticismo rappresenta un momento dell’autocoscienza alla quale «non già accade che, senza saper come, le si dilegui ciò che essa ha di vero e di reale», proprio perché, «nella certezza della sua libertà, lascia dileguare questa alterità che si pone come reale». La coscienza si procura da sé così la certezza incrollabile della propria libertà, facendo sì che nulla sussista all’infuori della autocertezza assoluta, ma questo significa da una prospettiva più alta che l’infinità dell’autocoscienza si rivela anzitutto nel suo operare nullificante. Lo scetticismo come tale non si è ancora innalzato alla coscienza di se stesso, restando legato al piacere di distruggere e concependo l’operazione dialettica nella sua pura negatività. Connettendo la certezza di se stessa alla negazione di ciò che è altro, la coscienza scettica finisce tuttavia per palesarsi nella sua duplicità, ma senza averne vera consapevolezza perché in tal caso sarebbe già lei la coscienza infelice: l’autocoscienza che è il dolore della coscienza della vita, il quale affonda nella vita e insieme la trascende. Fenomenologia dello spirito (dalla certezza sensibile alla coscienza infelice) Il sapere immediato della certezza sensibile è il sapere dell’immediato (questa certezza che sa l’essere e sa soltanto questo manifesta la verità più astratta e più povera che in quanto tale è ineffabile). Ciò che si prova senza poterlo esprimere non ha verità in quanto ci si limita a sentirlo nella sua unicità ineffabile. La sua determinazione nel «qui» e nell’«ora» è quanto di più vago, in quanto quell’essere che è immediato è esso stesso ogni essere e nessuno (l’universale più astratto). La verità della certezza sensibile è l’essere, lo spazio universale, il tempo universale, ma questi non sono dei dai immediati: sono perché qualcos’altro non è. Essi sono soltanto attraverso la negazione del loro essere-altro. Anche dal lato del soggetto questa immediatezza, che si manifesta ora nell’opinare (dove la verità è nell’oggetto in quanto io so di esso), la medesima dialettica in quanto ciò che sa il mio io si oppone a quanto sa non meno immediatamente un altro io, lasciando spazio non a questo io individuale irripetibile ma all’io universale (perché ciascuno si figura di essere un individuo irripetibile, un io immediato, ma ogni io ne dice altrettanto). In questo caso però l’universale è meno giustapposto al singolare, la cui compenetrazione è più profonda essendo la verità concreta verso cui tendiamo. Il punto di vista della percezione è quello della coscienza comune e delle varie scienze empiriche che innalzano il sensibile all’universale. Ormai non abbiamo più a che fare con un ora o un qui singoli, irripetibili e ineffabili, ma con un ora e un qui che hanno in sé la mediazione, che sono cose aventi in sé l’unità dell’universalità e insieme la molteplicità dei singoli termini. Percepire non è più fermarsi all’ineffabile della certezza sensibile ma oltrepassare tale sensibile per raggiungere l’universale della cosa (tutto è una cosa, al di là delle sue proprietà). Qui l’universale non è altro che la cosalità, un mezzo che è un insieme semplice di molti termini, ma proprio per questo una determinazione del pensiero la quale non si dà mai a sentire (la pretesa è di percepire una cosa determinata in sé e per sé). Ciò che vale per la cosa percepita vale anche per la coscienza percipiente, in quanto accade che l’anima sia percepita come un insieme di facoltà. Nella prospettiva della coscienza percipiente l’essenza è attribuita all’oggetto e la nonessenza alla coscienza stessa. Se da un lato questa cosa, uguale a se stessa e per sé una, è tale soltanto nella sua differenza assoluta da tutte le altre, dall’altro questa differenza implica una relazione con le altre cose con cui cessa il suo essere per sé. Questa dialettica, che fa passare dalla cosa uguale a sé alla relazione, dal cosalismo della percezione alla relatività dell’intelletto. L’intelletto si innalza dalla sostanza alla causa, dalla cosa alla forza, e da questa al fenomeno come manifestazione di una forza che agisce secondo un legge determinata, la quale dà la sua unità al fenomeno, pur non essendo il fenomeno stesso perché al di là di esso, quale fondamento unitario che non è nell’oggetto ma nel soggetto sesso che lo pensa. Per l’intelletto, infatti, tutto è da prima una forza, ma la forza non è altro che il concetto, il pensiero del mondo sensibile: pensiero che, manifestatesi da principio alla coscienza come il vuoto al di là di questo mondo, diviene l’interno di tale mondo in un sistema di leggi. Nel suo oggetto la coscienza raggiunge così se stessa ed è, nella sua verità, certezza di sé, autocoscienza (questa è da prima coscienza singola, negazione di ogni alterità nel suo puro rapporto a sé). Nel sapere la natura l’intelletto sa dunque se stesso; il suo sapere l’Altro è un sapere sé, un sapere il sapere: autocoscienza. In quanto dapprima appetito, ossia desiderio di possedere la natura, poi tendenza all’autoconservazione e lotta per la vita e per la morte, l’autocoscienza giunge alla sua verità solo quando trova un’altra autocoscienza vivente come lei (nella dualità delle autocoscienze viventi si mostra la duplicazione dell’autocoscienza all’interno di sé). L’indipendenza del signore e la severa educazione del servo divengono la padronanza di sé dello stoico (sempre libero quali che siano le circostanze e i casi della sorte) o l’esperienza della libertà assoluta dello scettico, il quale dissolve ogni posizione diversa da quella dell’io stesso. Infine la verità di tale libertà stoica e scettica si esprime nella coscienza infelice, sempre divisa in se stessa: coscienza dell’assoluta certezza di sé e insieme del nulla di questa certezza (la coscienza infelice è la verità di tutta questa dialettica, la sofferenza provata dalla pura soggettività che non ha più in se stessa la sua sostanza). Anche nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830, 3° ed. riv.) lo scetticismo è considerato non già in sé ma come una “figura” che esemplifica il momento dialettico grazie al quale le determinazioni finite si superano nel passare nelle determinazioni loro opposte: il momento che l’intelletto prende come in sé separato e in cui la ragione speculativa ravvisa invece la negazione come momento del movimento dialettico in cui «ogni finito è il superare se stesso» in quanto «non viene semplicemente limitato dal di fuori, ma, mediante la sua propria natura, si supera e passa mediante se stesso nel suo contrario». Da questo punto di vista, lo scetticismo non può essere considerato come quella dottrina che esalta l’elemento del dubbio, ma come quella in cui si esprime, in maniera ben più drastica, la convinzione «della nullità di ogni finito». L’esercizio del dubbio non elimina e anzi include la speranza che esso possa essere risolto fino a giungere a qualcosa di saldo e di vero, mentre l’autentico scetticismo «è l’autentica disperazione rispetto ad ogni termine fisso dell’intelletto» (da intendersi in senso filosofico e non psicologico), accompagnata da uno stato d’animo di imperturbabilità e di quiete serena. Da questo autentico scetticismo va distinto quello più recente volto a negare la verità e certezza del soprasensibile e che assume il sensibile dato nella sensazione come ciò a cui si deve attenere la conoscenza. Ciò posto, solo il pensiero finito, astrattamente intellettivo, deve temere lo scetticismo (che è incapace di contrastare), dato che la filosofia lo contiene in sé come un momento, senza fermarsi al risultato solo negativo della dialettica, come avviene nel caso dello scetticismo storico, il quale misconosce il proprio risultato per il fatto di assumerlo come semplice negazione. Sta infatti alla filosofia cogliere nel negativo, come risultato, il positivo. IV FILOSOFIA CONTEMPORANEA Peirce (1836-1914): la critica dell’intuizione deve portare a chiedersi se l’esistenza delle verità evidenti, qual era sostenuta da Cartesio, è intuita (il che significa ammettere l’esistenza di un primum assoluto, qualcosa di completamente inconoscibile che saremmo in grado di conoscere grazie a una fantomatica capacità intuitiva) o invece inferita. Non solo la psicologia esclude che si abbia mai un’autocoscienza intuitiva, ma il processo cognitivo manca di un inizio determinabile in assoluto, seppure si chiede che il sapere si fondi su un’intuizione (ogni nostra conoscenza, infatti, è sempre mediata da altre cognizioni, e l’oggetto non è un primum che sta al di fuori del pensiero semiotico, ma è un termine ideale, la cui conoscenza coincide con la rappresentazione che ne abbiamo). In breve, la conoscenza non coglie le cose come si mostrano e si presume che siano, ma procede per approssimazioni ipotetiche e sulla base di precedenti conoscenze. Quando pensiamo, abbiamo presente alla coscienza un sentimento, un’immagine o altro che funge da segno; talché ogni cosa è una manifestazione di noi stessi senza che ciò impedisca che essa sia il fenomeno di una esterna (un segno è tale per un pensiero che lo interpreta, lo è in luogo di un oggetto a cui in quel pensiero è equivalente o per qualche qualità che lo mette in relazione al suo oggetto). Ogni azione mentale ha una natura inferenziale e le percezioni non sono determinate e singolari come credono i nominalisti (la cognizione è una catena dove ogni conoscenza è sempre preceduta da un’altra e non dà luogo ad una definitiva). Non che le cose non esistono anche al di là della relazione con la mente, ma il reale consiste propriamente in ciò in cui prima o poi si risolvono le informazioni e il ragionamento, indipendentemente dagli errori dei singoli. La realtà delle cose è dunque ciò che si mostra nello stato ideale di una conoscenza completa e dipende dalla decisione finale di una comunità. Il reale non dipende dai pensieri dei singoli ma dal pensiero in generale, posto che «l’opinione su cui tutti coloro che indagano sono destinati a trovarsi d’accordo è ciò che concepiamo come verità e il reale è l’oggetto che v’è rappresentato». Il pensiero non ha altro scopo che la formazione di un’opinione che acquieti il dubbio che nasce dalla pratica della vita, laddove a spingere e alimentare la ricerca non è il dubbio teorico ma il dubbio che nasce dalla crisi di una precedente credenza nella quale il pensiero già si trova immerso. La ricerca nasce pertanto all’interno delle problematiche concrete che sorgono dentro l’agire, nella pratica (è questo, infatti, il principio che dà vita al pragmatismo: il pensiero nasce dalla pratica e finisce con la pratica). La funzione del pensiero è quella di trovare qualcosa che prima è sconosciuto a partire da ciò che è conosciuto (importante è qui il procedimento del ragionamento, ancor più del contenuto che emerge in maniera diversa a seconda del problema da affrontare). Si tratta di un processo in perenne movimento perché il contenuto dei pensieri è già frutto di precedenti pensieri ed è già sempre intessuto di credenze. In senso relativo, il fine del pensiero è di raggiungere una diversa credenza nella quale il dubbio sia rimosso e si sia di nuovo in grado di agire secondo un abito razionale. Se il pensiero trova così esito in un atto del volere, la credenza in quanto operazione mentale rimane il punto di partenza di un nuovo processo di pensiero volto a influenzare la formazione di una nuova credenza. In senso assoluto, il fine del pensiero non può che essere puramente ideale, segnalando il punto in cui le credenze finiscono per coincidere con la realtà, posto che la credenza è regola dell’agire. Il principio guida dell’analisi del ragionamento va visto quindi nell’abito, che è buono se ottiene conseguenze vere da premesse vere, e non si intende senza gli stati mentali del dubbio e della credenza, senza il passaggio dall’uno all’altra. Posto che è la credenza a sospendere il dubbio, non c’è un solo metodo per conseguirla, in quanto al metodo della tenacia di chi non vuole essere contraddetto va aggiunto quello dell’autorità, in grado di rendere stabili le opinioni degli individui senza sottrarle tuttavia all’incertezza nel confronto con altre culture, quello della ragione a priori e infine quello della scienza, la cui ipotesi rimanda a cose che agiscono sui nostri sensi secondo leggi regolari e trova conferma nell’esperienza. In particolare, se con l’induzione concludiamo che fatti simili a quelli osservati sono veri in casi non esaminati, con l’ipotesi supponiamo qualcosa di diverso da ciò che accertiamo o ci sarebbe possibile accertare direttamente, in quanto la prima è un ragionamento volto a classificare che va dai particolari alle leggi generali mentre la seconda è il ragionamento volto a spiegare che va dall’effetto alla causa. Per quanto tutti e quattro i metodi soddisfano l’esigenza dell’azione pratica, nessuno raggiunge tuttavia il fissarsi ultimo e definitivo di una credenza. La superiorità del metodo scientifico è dato dalla capacità di revisione interna e di soddisfare il dubbio da cui muove la ricerca (le sue credenze portano alla lunga a conclusioni indipendenti dal pensiero del singolo e aderenti ai fatti). In questa prospettiva, la verità non è altro che una credenza sulla quale da ultimo si troveranno d’accordo tutti i ricercatori e il cui contenuto non può che essere la realtà (la verità è l’opinione generale, nel senso scolastico del termine, un ens rationis dotato di indipendenza dal pensiero soggettivo e di effetti riscontrabili, laddove la realtà coincide con essa perché la realtà è il pensiero generale, l’insieme riscontrato degli effetti e la totalità di ciò che si può conoscere). Quine (1908-2000): l’epistemologia tradizionale è stata dominata dal programma fondazionalista cartesiano, e dunque dall’intenzione di isolare una classe di credenze certe e sufficienti per giustificare il resto delle nostre credenze. La storia dell’epistemologia mostra come questo programma sia stato fallimentare, da Cartesio in poi. Non che i fondazionalisti abbiano sbagliato a rispondere alla questione di come dovremmo conseguire le nostre credenze, semplicemente essi si sono posti la domanda sbagliata, chiedendosi a lungo come sia possibile la conoscenza e respingere i dubbi dello scettico (evitando di ricorrere a contenuti di quella stessa scienza che era messa in discussione, e fondando l’epistemologia come «filosofia prima»). Essi non hanno capito che la domanda sulla possibilità della conoscenza deve essere interpretata come una domanda sollevata dalla stessa crescita della scienza (la quale ha palesato l’erroneità delle credenze passate e la propensione all’illusione delle presenti). Nella misura in cui tale domanda (se le credenze cui perveniamolo abbiano diritto ad essere considerate vere) è nata all’interno della scienza, è alle risorse della scienza che bisogna appellarsi per darvi risposta, e ciò significa rendere l’epistemologia continua con l’impresa scientifica. Le risposte alla questione di come conseguiamo le conoscenze non solo sono rilevanti per quella di come dovremmo conseguirle ma la esauriscono (naturalizzazione dell’epistemologia). Per quanto però abbiamo ragione a ritenere che i processi di acquisizione delle credenze siano affidabili, almeno approssimativamente, vi sono buone ragioni per ritenere anche che talvolta vi sono processi che conducono sistematicamente a credenze sbagliate, per cui è necessario scegliere e raccomandare correttivi (la natura empirica dell’impresa epistemologica non può esimerci da una necessità normativa). Putnam (1926): l’epistemologia naturalizzata è inestricabilmente compromessa con l’assunzione di una sorta di realismo metafisico per il quale la scienza ci porta sempre più vicini alla «verità», e la verità consiste in una corrispondenza particolare e unica tra la teoria e i fatti. Alla posizione secondo cui il mondo consiste di una totalità determinata di oggetti indipendenti dalla mente e c’è una sola descrizione vera e completa di come è il mondo (realismo metafisico), va opposta quella per cui ogni domanda sul mondo ha senso all’interno e dal punto di vista di una teoria e ogni affermazione è “vera” nella misura in cui è giustificato accreditarla come tale in “condizioni epistemicamente accettabili” che ne garantiscono l’asseribilità (realismo interno o “teoria epistemica della verità”). Al realista metafisico, il quale adotta il punto di vista dell’«occhio di Dio» ritenendo che la verità implichi una corrispondenza, il realista interno obietta che non c’è qualcosa come il punto di vista dell’«occhio di Dio», in quanto non sarebbe per noi riconoscibile da che punto di vista verrebbero raccontate storie vere sul mondo e sulla parte che vi hanno le nostre credenze e azioni. Vi è più di una descrizione “vera” del mondo, posto che la verità risulta da una sorta di idealizzazione dell’accettabilità razionale. Non c’è, infatti, un mondo concepibile al di là dei linguaggi che usiamo per parlarne, sicché le nostre verità sono tutte «interne» ai nostri schemi concettuali (anche se permane un senso in possiamo continuare a dirci realisti, visto che le storie raccontate sono “vere”). Non vi sono cose come i «fatti», gli «stati di cose» e simili, come non vi è una sola descrizione corretta del mondo, e tanto meno vi può essere un modo neutrale di descrivere le cose o un «occhio di Dio» a noi accessibile, che le coglie indipendentemente da ogni concettualizzazione. Ciò che vi è si presenta come una varietà di punti di vista di persone reali, nel tempo, che riflettono una varietà essenziale di interessi e scopi, sottesi alle loro descrizioni e teorie. Ciò non comporta l’affermazione di una posizione relativistica, perché anzi la tesi del relativista si confuta da sé, com’è il caso dell’esempio descritto dei «cervelli in una vasca». La nostra concezione della verità presuppone quella della razionalità e questa presuppone un qualche insieme di valori. Una soddisfacente concezione della razionalità richiede un’indagine sulle precondizioni del nostro essere e il fatto che ci riconosciamo come parlanti e pensanti (in tanto ci impegniamo a credere in un qualche tipo di razionalità in quanto prendiamo sul serio il fatto che ci accade di discutere). Immaginare una forma di vita, fisicamente e logicamente possibile, in cui esseri apparentemente simili a noi non diano importanza alla discussione, non sarebbe per noi concettualmente possibile dal momento che sarebbe una finzione, non una storia vera (laddove questo criterio non definisce la corrispondenza a fatti ma l’essere accreditata da parte di un essere razionale). Davidson (1917-2003): è la possibilità che si diano errori a fornire le condizioni di un processo di comunicazione in cui una persona dotata di concetti interagisce con l’ambiente e con un’altra persona di cui osserva le reazioni venendone a sua volta osservata. Ciò definisce il “triangolo di base” parlante-interprete-mondo che pone l’oggettività del pensiero, ossia il fatto che una credenza (il cui concetto è essenziale per il pensiero stesso) può essere vera o falsa. Tanto l’oggettivo non sarebbe raggiungibile se pensassimo di partire, come gli empiristi, da un soggettivo che non lo contiene, quanto non si potrebbe parlare di una vita soggettiva se il pensiero non esercitasse fin dall’inizio il suo potere di connettersi a qualcosa nel mondo reale (questo potere non può essere compreso però in termini di corrispondenza ai fatti, realismo o riferimento). Non resta che partire dalla “apertura al mondo” che accomuna pensiero e linguaggio. Posto che tutti noi abbiamo una conoscenza diretta dei nostri stati mentali, che ognuno conosce un notevole numero di cose sul mondo esterno e che infine sa abbastanza spesso che cosa avviene nella mente di altre persone (forme di conoscenza, queste, di natura empirica, riguardanti aspetti di una medesima realtà), si pone l’esigenza di «un’immagine generale che non solo metta d’accordo i tre modi della conoscenza, ma che dia senso alle loro relazioni reciproche». Quando si parla del ruolo della conoscenza nella nostra generale immagine del mondo, il problema non è di spiegare come sia possibile la conoscenza. Persino gli scettici che negano la possibilità della conoscenza del mondo esterno devono accettare l’oggettività del pensiero, in quanto anche i loro dubbi, per avere un senso, devono essere oggettivamente veri o falsi. Il passaggio all’oggettività del pensiero ci impedisce di pensare che tutte le nostre credenze possano essere false. Ciò è infatti semplicemente impossibile, sia per il fatto che una credenza è identificata dal posto che occupa all’interno di una rete di credenze che si sostengono reciprocamente, sia in quanto le nostre credenze risultano per lo più vere perché ci vengono attribuite da interpreti che applicano standard di correttezza pubblicamente riconosciuti (il metodo dell’interpretazione radicale stabilisce in proposito che i principi di carità – principio di coerenza e di corrispondenza – investono i parlanti di uno standard intersoggettivo di correttezza). Per avere dubbi o interrogarsi sulla provenienza delle proprie credenze, occorre già sapere che cosa è una credenza; pertanto, «la domanda “Come faccio a sapere che le mie credenze sono generalmente vere?” contiene già la risposta, per il semplice fatto che le credenze sono generalmente vere per natura». Nozick (1938-2002): l’argomento del cervello in una vasca – il quale deve indurci a reputare impossibile stabilire se si è soggetti reali, con tutti i nostri attributi, o soltanto cervelli in una vasca, sulla base del fatto che la nostra esperienza è per ipotesi identica a quella del cervello in una vasca – è fondato sul cosiddetto «principio di chiusura». Esprimibile nella forma di un condizionale soggiuntivo: se una persona sapesse che p e sapesse anche che p implica q, allora saprebbe che q, questo principio presuppone che tale persona effettui l’inferenza che q. Pertanto, una persona che sa che il suo essere un cervello in una vasca implica il suo non essere nel luogo di cui ha apparente percezione, sa anche che, per contrapposizione, il suo essere in tale luogo implica il non essere un cervello in una vasca. In quanto però la persona non sa quest’ultima cosa se ne inferisce che non sa neppure la prima. Non è possibile distinguere la situazione di un cervello in una vasca da quella di un essere umano, laddove queste non siano già poste in relazione tra loro (ciò significa che la condizione di un cervello in una vasca sarebbe vissuta come normale nel caso in cui non avesse modo di confrontarsi con l’altra). Questo genere d’argomento scettico è globale in quanto mina tutte le pretese di conoscenza (o almeno quelle empiriche), poiché, se non possiamo sapere se siamo cervelli in una vasca, neppure possiamo conoscere alcuna proposizione della quale bisogna supporre che, se fosse vera, contraddirebbe la nostra condizione di cervelli in una vasca. È necessario sostituire la condizione della giustificazione con qualcosa di più vincolante che può essere così formulato: a conosce che p solo se 1) p è vero 2) a crede che p 3) se p non fosse vero, a non crederebbe che p (condizione della variazione) 4) se, in circostanze diverse, p fosse ancora vero, a crederebbe ancora che p (condizione di aderenza). Questa quarta condizione può essere anche formulata diversamente dicendo che, se p fosse vero e le cose stessero in maniera un poco diversa da come effettivamente stanno, a crederebbe ancora che p). Si ha conoscenza della proposizione p se la proposizione è vera e se la credenza è stata acquisita per mezzo di un metodo m tale che se la proposizione p non fosse vera, il metodo ci porterebbe a credere non-p, mentre se p fosse vera ci porterebbe a credere p. Esiste un’asimmetria tra l’affermazione dell’assolutista (secondo cui c’è una verità assoluta), la quale può esser abbracciata e compresa nella propria posizione dal relativista, e quella di quest’ultimo (secondo cui la verità è relativa), la quale può essere negata dall’assolutista ma non anche compresa nella sua posizione. A dispetto di quanti propongono una verità onnitemporale (una verità assoluta, vera per chiunque) ogni verità va collocata entro lo spaziotempo, presentandosi sia come «debolmente spazio-temporale» in occasione di un’affermazione che, in quanto specificata, risulta vera in una porzione di spazio-tempo, ma non in ogni dimensione spazio-temporale, sia come «fortemente spazio-temporale» in assenza di alcun punto o luogo in cui tutte le verità siano registrate e siano valide. Ciò non significa sostenere che la verità debba essere relativa in senso spazio-temporale, e tuttavia deve indurre a riflettere su quanto siano forti e impegnative le condizioni da soddisfare perché la verità sia a-temporale e non spaziale. La verità trascende il suo radicamento spazio-temporale solo quando sia registrata in ogni altra parte dello spazio-tempo («soltanto allora la verità sussiste nel proprio regno platonico»). Moore (1873-1958): il suo sforzo è stato di accreditare, contro le argomentazioni filosofiche tradizionali, le “ovvietà” (truismi) del senso comune, la cui indubbia certezza lascia nondimeno aperto il problema della loro analisi (che cosa si vuol dire quando si afferma ad es. che ciascuno di noi ha un corpo o che la Terra esisteva già prima della nostra nascita?). Nei suoi saggi più famosi (La confutazione dell’idealismo, 1903; La difesa del senso comune, 1925) egli si è proposto di attaccare le due dottrine che sentiva come antitetiche al senso comune: l’idealismo e lo scetticismo, sostenendo contro la tesi idealistica di Berkeley (esse est percipi) che si deve distinguere, nel senso del realismo, l’atto del percepire dall’oggetto percepito (benché l’atto di percepire una macchia blu dipenda dalla mente, non c’è ragione di credere che ne dipenda la macchia stessa o il suo colore). La sua “visione del mondo del senso comune” si contrappone poi ad ogni forma di scetticismo radicale, attraverso l’indicazione di un elenco di proposizioni che si sostiene di sapere con certezza essere vere (riguardanti sia l’esistenza del proprio corpo, la sua origine e continuità temporale segnata da mutamenti, il suo svolgimento terreno, la preesistenza del pianeta, sia le diverse esperienze avute nel corso della propria esistenza in conformità con le condizioni fissate nel primo gruppo di proposizioni); proposizioni che ogni essere umano può quindi confermare in quanto quel che esse significano è ciò che si intende comunemente. In quanto comportano l’esistenza degli oggetti fisici e la realtà dello spazio fisico esse sono vere, togliendo la possibilità di sostenere coerentemente una posizione incompatibile con esse. Sapere che esse abbisognano di altre proposizioni per essere provate non comporta sapere altresì quale sia la prova richiesta, e questo significa sapere che molte proposizioni sono vere senza sapere come comunemente lo sappiamo. Lo scetticismo radicale si presenta come contraddittorio, perché quando uno scettico nega che si dia qualsivoglia conoscenza, sta facendo un’asserzione sulla conoscenza umana in generale (una tale asserzione comporta infatti che lo scettico sappia ciò di cui nega l’esistenza). È da dire però che Moore presuppone proprio ciò che è in discussione, ossia la verità di un gruppo di proposizioni di cui egli si limita a dire di sapere che sono vere. La sua resta perciò una mera asserzione, non sostenuta da alcun argomento; tanto più sospetta, se si considera la sua ammissione di non conoscerne la verità direttamente ma solo sulla base di altre proposizioni che, di fatto, non sa indicare. Wittgenstein (1889-1951): diversamente da quanti sono convinti che lo scettico dice qualcosa di ragionevole eppure falso, ossia che la conoscenza e la certezza sono inattingibili, l’obiezione da muovere allo scetticismo è che tenta di dire ciò che non si può dire mostrandosi non già inconfutabile ma apertamente insensato, posto che il dubbio può sussistere solo in presenza di una domanda e la domanda solo quando si suppone che si dia risposta, così come infine la risposta «solo dove qualcosa può essere detto» (Tractatus logico-philosophicus, § 6.5.1). Nelle Ricerche filosofiche (§§ 243-275) egli ha riformulato la critica allo scetticismo, osservando che il modello cartesiano della mente e lo scetticismo che esso suggerisce incarnano una nozione di linguaggio privato, che è un tipo speciale di nonsenso. Secondo tale modello ogni essere umano è direttamente consapevole delle proprie sensazioni, come dei propri pensieri e desideri, mentre quelli degli altri vengono appresi solo indirettamente per analogia con i propri. Una concezione siffatta è incomprensibile per il fatto che non descrive un vero e proprio linguaggio, dato che questo richiede che le sue regole possano essere apprese comunemente in quanto è pubblico. Per questo l’idea che possa esistere un tale linguaggio privato non è sostenibile, come irragionevole è l’idea scettica secondo cui ognuno sarebbe rinchiuso completamente nell’ambito delle proprie idee. Questo significa che nell’ottica dello scettico, non si potrebbe mai spiegare come sia possibile la comunicazione sociale attraverso il linguaggio, quando invece lo stesso linguaggio delle sensazioni è pubblico ed è capito dagli altri. Considerato infatti che le persone comunicano fra loro su una varietà infinita di cose e che tale comunicazione ha luogo all’interno di un gioco linguistico che si manifesta come un’”attività” o una “forma di vita” (Ricerche filosofiche, § 23) a cui noi tutti prendiamo parte, il modello cartesiano appare inadeguato nell’incapacità di spiegare tutti questi diversi usi interpersonali del linguaggio, ipersemplificando come tutte le teorie le complessità della vita quotidiana. Nel suo ultimo scritto, Della certezza, si trova una confutazione ancora più generale dello scetticismo, laddove si presenta lo scettico come un dubitatore ossessivo e si mostra che quel che questi chiama “dubbio” non è in realtà un dubbio proprio perché è dubbio di tutto e senza fine. Dubitare non può essere considerato uno stato psicologico interiore, poiché il dubbio fa parte di un insieme di pratiche simili a quelle dei giochi linguistici. In questa prospettiva, il gioco del dubbio potrebbe consistere concretamente in una serie di atti come esaminare documenti, fare domande a persone, controllare dati e via dicendo. L’attività insensata che manifesta lo scettico è paragonabile a quella di chi apre ripetutamente lo stesso cassetto senza trovarvi ciò che cerca, vittima della sua incapacità di riconoscere niente come una prova (per quante prove si producano, egli continua infatti a dubitare). A differenza del dubbio ossessivo che continua a rigirarsi su se stesso (ciò che lo fa apparire privo di senso), il vero dubbio, come già aveva intuito Peirce, deve pervenire a una fine. Wittgenstein obiettava che i cosiddetti truismi di Moore sono in realtà enunciati particolari in cui si evidenzia un modo sbagliato di usare l’espressione “so” (come in “so che questa è una mano”), così da assumere come enunciati d’esperienza (enunciati conoscitivi, di tipo fattuale) una classe di asserzioni aventi una funzione grammaticale. La caratteristica dell’evidenza accordata loro da Moore dipende non da una relazione di tipo conoscitivo istituita tra un soggetto conoscente e un fatto, ma dalla funzione paradigmatica di cui tali enunciati investiti entro una forma di vita, entro il sistema delle convenzioni che risultano incorporate al mondo delle istituzioni e delle consuetudini di una comunità umana. Alla base delle giustificazioni che si possono invocare per assegnare le ragioni dell’evidenza di quegli enunciati si trova un fondamento che non è costituito a sua volta di enunciati forniti di certezza assoluta, ma è da rinvenire nella modalità dell’azione umana che sta alla base del gioco linguistico. In generale poi, usati per dire qualcosa che già tutti sanno e in merito al quale il parlante è consapevole del fatto che essi sanno, essi non possono che apparire un tipo speciale di nonsenso (come lo è affermare “quello è un cane” in compagnia di persone che hanno davanti un animale che sanno essere un cane). Perché un’asserzione abbia significato v’è bisogno che trovi contesto in una situazione in cui chi parla comunica a chi ascolta qualcosa che egli suppone che l’altro non conosca. Per questo i truismi, non dicendo niente di sensato, non valgono a confutare lo scetticismo; senza tenere conto del fatto che dire di sapere che un enunciato è vero non costituisce un metodo accettabile di provarlo (la prova esige qualcosa di più della semplice affermazione che si è convinti della sua verità), così come dire che non si può essere in errore nell’accettarlo (segno della convinzione personale) non è la stessa cosa che dire che esso non può essere falso (segno della sua verità oggettiva).