CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
UFFICIO DEL MASSIMARIO E DEL RUOLO
Relazione tematica: L’OGGETTO
SPECIFICITA’ DEI MOTIVI
DELL’APPELLO
Rel. 111
ED
IL
REQUISITO
DELLA
Roma, 18 settembre 2006
Oggetto: IMPUGNAZIONI CIVILI – APPELLO – DOMANDE –
EFFETTO DEVOLUTIVO – Funzione e delimitazione.
IMPUGNAZIONI CIVILI – APPELLO – CITAZIONE IN APPELLO –
MOTIVI – SPECIFICITA’ – Definizione - Inosservanza – Conseguenze.
SOMMARIO:
1.- Brevi profili introduttivi sull’appello.
2.- La ricostruzione della natura giuridica dell’appello e l’individuazione del
suo oggetto: la posizione della giurisprudenza e la sua contrapposizione alla
dottrina prevalente.
3.- Il requisito della specificità dei motivi dell’atto di appello e le relative
conseguenze
derivanti
dalla
sua
inosservanza:
l’evoluzione
giurisprudenziale e le variegate elaborazioni dottrinali.
4.- Conclusioni.
*****************
1.- Brevi profili introduttivi sull’appello.
Nella sistematica del regime delle impugnazioni prefigurata dall’attuale codice di
rito civile l’appello1 si qualifica come il primo e più ampio mezzo appartenente alla
1
E’ inutile evidenziare che la letteratura giuridica sull’appello è vastissima: tra i principali autori che si sono
occupati, in generale, di tale istituto vanno ricordati, a titolo meramente esemplificativo, tra i tanti: D’ONOFRIO,
Appello (dir. proc .civ.), in Novissimo Dig. it., I, Torino, 1957, 725 e segg.; VELLANI, Appello (dir. proc. civ.), in
Enciclopedia del diritto, II, Milano, 1958, 719 (con relativa appendice di aggiornamento a cura di SASSANI, in
Aggiorn. EdD, vol. III, 1999, 178 e segg.); CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili, Padova, 1973, 582 e segg.;
LUISO, Appello nel diritto processuale civile, in Dig. Disc. Priv., sez. civ., I, Torino, 1987, 360 e segg.;
CHIARLONI, Appello (Diritto processuale civile),in Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 1988; FAZZALARI,
Il processo ordinario di cognizione. 2 Impugnazioni, Torino, 1990, 23 e segg.; PROTO PISANI, Note sulla struttura
categoria delle impugnazioni ordinarie e ad esso è assegnata la funzione di assicurare –
quantomeno tendenzialmente – la garanzia piena della tutela delle posizioni soggettive
delle parti, mediante l’attuazione del principio del “doppio grado di giudizio”2. In
sostanza, l’appello è inquadrato dall’ordinamento come il mezzo ordinario di
impugnazione avverso la sentenza di primo grado, diretto, nella sua funzione
essenziale, a provocare un riesame della causa nel merito, non limitato
necessariamente al controllo di vizi specifici3. La sua principale caratteristica è
costituita dal c.d. “effetto devolutivo” (secondo il noto principio del tantum devolutum
quantum appellatum) che si realizza nel passaggio della cognizione della causa dal giudice
di primo grado al giudice superiore, ancorché nei limiti del gravame o dei gravami
proposti dalle parti.
L’individuazione dell’ambito dell’appello è da ritenersi incisivamente condizionata
– nella ricostruzione della struttura funzionale che si è voluta conferire a questo
mezzo di impugnazione nella disciplina codicistica attuale, come ridisegnata dalla legge
novellatrice n. 353 del 26 novembre 1990 (in relazione, soprattutto, al nuovo disposto
dell’art. 345 cod. proc. civ.) – dalla scelta legislativa di aver voluto prevedere il radicale
divieto non solo di nuove domande, ma anche di nuove eccezioni, oltre a sancire
l’ammissibilità molto limitata di nuovi mezzi di prova4, ragion per cui – in relazione
alla nota contrapposizione che si rinviene nel dibattito dottrinale storicamente
sviluppatosi - non si prospetta audace la tendenza a privilegiare la ricostruzione della
funzione del mezzo di impugnazione in questione non come novum iudicium ma come
revisio prioris instantiae5, definizione quest’ultima che è stata, peraltro, fatta propria dalla
dell’appello civile e sui suoi riflessi sulla cassazione, in Foro it., I, 107 e segg., nonché Appunti sull’appello civile
(alla stregua della L. 353/90), in Foro it., 1994, IV, 193 e segg.; VALITUTTI-DE STEFANO, Le impugnazioni nel
processo ordinario, vol. 2, Padova, 1996, 3 e segg.; CONVERSO, Il processo di appello dinanzi alla Corte
d’appello, in Giur. it., 1999, 661 e segg.; TARZIA, Lineamenti del processo civile di cognizione, II ed., Milano,
2002, 295 e segg.; MANDRIOLI, Diritto processuale civile – II – Il processo di cognizione, XVIII ed., Torino,
2006, 441 e segg.; con riferimento alla disciplina del codice previgente v., per tutti, MORTARA, Appello civile, in
Digesto it., 1890, III, 2, 380 e segg., e CALAMANDREI, Appello civile, in Enc. it., Roma, 1929, III, 729 e segg.,
ora in Opere giuridiche,VIII, 441 e segg.
2
In quest’ottica si afferma che l’espressione “grado” implica la configurazione di un’ulteriore cognizione della
controversia destinata a sfociare in una pronuncia sostitutiva di quella adottata in prima istanza, nel mentre
l’espletamento di un diverso mezzo di impugnazione ordinario (come, ad es., il regolamento di competenza)
determina l’apertura di una “fase” ulteriore del processo. Diversamente, ancora, le impugnazioni straordinarie danno
vita addirittura ad un nuovo e diverso procedimento che viene ad instaurarsi in seguito al passaggio in giudicato
della sentenza gravata.
3
In questo senso l’appello viene incasellato, dalla dottrina assolutamente prevalente ed in contrapposizione ai
cosiddetti mezzi “a critica vincolata”, nell’ambito dei mezzi di impugnazione “a critica libera” (essendone
riconosciuta la sua esercitabilità per far valere, oltre che errori e vizi, anche la semplice ingiustizia del
provvedimento impugnato). Anzi, alcuni orientamenti scientifici più recenti – sulla scia delle catalogazioni compiute
dal CERINO CANOVA, in op. cit., 94 – hanno inteso rilevare che l’appello è il solo mezzo di impugnazione
proponibile anche indipendentemente dalla circostanza che si lamenti un vizio del provvedimento gravato, essendo
formulabile anche da chi lamenti la sola sua ingiustizia, senza che, peraltro, ciò impedisca che con l’appello si
possano, a maggior ragione, far valere anche gli eventuali vizi: v., da ultimo, per tale precisazione, MANDRIOLI,
Diritto processuale civile, II, cit., 403.
4
Ricondotta all’emergenza di una loro effettiva indispensabilità in funzione della decisione della causa ovvero
all’impossibilità della loro allegazione nel giudizio di primo grado per causa non imputabile alle parti interessate.
5
V., in proposito, ad es., TARZIA, op. cit., il quale, pur asserendo che trattasi di formule a cui non può attribuirsi un
valore assoluto, chiarisce che la linea di fondo della scelta legislativa appare certamente orientata verso la
qualificazione di tale mezzo come revisio prioris instantiae; in tal senso v., altresì, DE CRISTOFARO,
Inammissibilità, appello senza motivi ed ampiezza dell’effetto devolutivo, in Corr. giur., 2000, spec. 760-761. Va
sottolineato che - come ricorda BONSIGNORI, L’effetto devolutivo dell’appello, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1974,
2
giurisprudenza, anche nella sua più recente elaborazione6, tanto da potersi ritenere
come dato ormai in essa consolidato.
In raffronto alla disciplina precedente, con la novella del 1990, all’appello non è
più riconducibile l’effetto sospensivo (automatico) dell’esecuzione della sentenza
impugnata, il quale, cioè, non consegue alla pendenza del termine per l’appello né alla
sua proposizione, ma può derivare soltanto da un provvedimento dello stesso giudice
di appello nella sussistenza delle condizioni previste nell’art. 283 cod. proc. civ.7 e nel
rispetto del procedimento enucleato nel successivo art. 351. Anche la stessa
complessiva struttura procedimentale del giudizio di appello risulta sensibilmente
modificata per effetto dell’anzidetta novella, poiché, accanto alla previsione della fase
introduttiva modellata sulla falsariga di quella stabilita per il giudizio di primo grado e
alla rinnovata disciplina dell’appello incidentale, risalta soprattutto l’eliminazione della
figura dell’istruttore con la conseguente evidenziazione della rigorosa collegialità di
questo grado di giudizio, salvo che, a seguito della riforma ordinamentale indotta dal
decreto legislativo n. 51 del 1998 (istitutivo del c.d. “giudice unico in primo grado”),
per le ipotesi dell’attribuzione al tribunale in composizione monocratica dell’appello
avverso le sentenze del giudice di pace.
La dottrina ha, perciò, sottolineato che, con riferimento ai postulati dell’oralità
(nella tradizione teorica considerata dal legislatore del 1990), permangono, in questo
grado di giudizio, i connotati dell’identità del giudice per tutto il corso del processo e,
almeno tendenzialmente, della concentrazione dell’evoluzione processuale; può
mancare (e, nella prassi processuale, manca quasi sempre), tuttavia, il contatto
immediato tra il giudice e le parti (in ragione della facoltatività della comparizione
personale delle stesse e della discrezionalità rimessa allo stesso giudice di ordinarne
l’audizione, in dipendenza di un’effettiva opportunità in proposito) e difetta – almeno
1327, nota 3 – la matrice della distinzione tra novum iudicium e revisio prioris instantiae, di per sé estranea alla
moderna sistematica, deve essere rinvenuta nel diritto comune germanico, ed in particolare nel “Novum recessum
imperii” del 1654, ove venivano disciplinati due tipi di appello, a seconda che fosse stata proposta un’appellatio
generalis oppure no, poiché in caso di appello generale ne conseguiva un procedimento di revisio, mentre
nell’ipotesi contraria, formulati i motivi di gravame, si potevano addurre fatti nuovi, onde la configurazione di un
“secondo” primo grado (novum iudicium).
6
V., per tutte, Cass., SS.UU. civili, 29 gennaio 2000, n. 16/SU, in Corr. giur., 2000, 750 e segg., con nota cit. di DE
CRISTOFARO e in Foro it., 2000, I, 1606 e segg., con note di BALENA, BARONE e PROTO PISANI, e, da
ultimo, soprattutto nell’ampia motivazione, Cass., SS.UU. civili, 23 dicembre 2005, n. 28498 (Pres.-est. Carbone),
in Corr. giur., 2006, 1083 e segg., con nota di PARISI; in Dir. e Giust., 2006, n. 6, 10 e segg., con nota di GARUFI,
e in Foro it., 2006, I, 1453 e segg., con nota di BALENA-ORIANI-PROTO PISANI-RASCIO. In quest’ultima
sentenza, in particolare, si evidenzia come l’appello non rappresenta più, come nel sistema del codice di rito del
1865 (laddove “l’appellazione” si configurava, in effetti, come un gravame diretto a provocare, anche senza alcuna e
concreta indicazione dei capi impugnati, la “prosecuzione” del giudizio di primo grado), pur permanendo la sua
funzione sostitutiva quanto alle statuizioni decisorie su diritti impugnati, il “mezzo” per “passare da uno all’altro
esame della causa”, su tali statuizioni, onde, con il relativo atto introduttivo, la parte legittimata non può limitarsi, al
fine di ottenerne la riforma, ad una denuncia generica dell’ingiustizia dei capi appellati della sentenza di primo
grado, ma deve puntualizzarli all’interno dei capi di sentenza destinati ad essere confermati o riformati, ma
“comunque” sostituiti dalla sentenza di appello che non è impugnazione rescindente come il ricorso per cassazione
(l’avvicinamento alla struttura del quale è solo parziale); e tale puntualizzazione ulteriore avviene appunto nella
denunzia di specifici “vizi” di ingiustizia o nullità della sentenza impugnata.
7
Come da ultimo sostituito per effetto dell’art. 2, comma primo, lett. q), legge 28 dicembre 2005, n. 263, come
modificato dall’art. 39 quater, comma secondo, d.l. 30 dicembre 2005, n. 273, convertito, con modif. nella legge 23
febbraio 2006, n. 51, a decorrere dal 1° marzo 2006.
3
in via ordinaria (e facendo salve le eventualità eccezionali dell’ammissione di nuovi
mezzi istruttori) – il rapporto diretto tra il giudice e la prova.
La conseguenza che ne discende è che, nel giudizio di appello ordinario (come, del
resto, nel processo del lavoro), nel nuovo quadro normativo, risulta particolarmente
accentuato il carattere (già essenzialmente presente nel regime anteriore alla riforma
del 1990) della funzione di mero controllo sul giudizio di primo grado, che viene a
svolgersi essenzialmente “sulle carte” e senza una nuova istruttoria, ancorché questo
controllo sia destinato comunque a condurre ad una nuova pronuncia, che prende il
posto di quella impugnata8: l’appello, perciò, continua a conservare il suo effetto
sostitutivo della decisione di primo grado, restando eccezionali le ipotesi (di cui agli
artt. 353 e 354 cod. proc .civ.) – invero qualificate come tassative dalla giurisprudenza
e rispondenti all’esigenza di garantire il basilare principio del “doppio grado di
giudizio” – di rimessione della causa al giudice di prima istanza.
2.- La ricostruzione della natura giuridica dell’appello e l’individuazione del
suo oggetto: la posizione della giurisprudenza e la sua contrapposizione alla
dottrina prevalente.
Proseguendo nell’analisi conseguente alla riportata premessa introduttiva, bisogna
evidenziare che – secondo gli orientamenti scientifici prevalenti contrari
all’inquadramento dell’appello come revisio prioris instantiae – in relazione alla natura di
gravame che caratterizza l’appello, ed in dipendenza del fatto che esso introduce un
riesame non della sentenza di primo grado, ma (pur se nei limiti della domanda di
appello) della stessa controversia già conosciuta in primo grado, l’oggetto del giudizio
di appello sarebbe, ancorché nell’ambito dei contorni delimitati dall’atto di
impugnazione, quello stesso dell’intera causa già decisa in primo grado ed in tali
termini dovrebbe essere inquadrato l’effetto devolutivo dell’appello9. In particolare, è
stato affermato10 che l’appello – specie quello per motivi di merito – continua ad
essere, malgrado le sue sopravvenute evoluzioni, espressione dello schema teorico del
gravame e non degli atti di impugnazione, onde l’oggetto del relativo giudizio si
identifica con il rapporto controverso in primo grado devoluto al giudice superiore
8
V., in proposito, TARZIA, op. cit., 296.
Cfr., tra gli aderenti a tale indirizzo, ATTARDI, Note sull’effetto devolutivo dell’appello, in Giuri t.,, 1961, IV, 145
e segg.; CERINO CANOVA, op. cit., 582 e segg.; MONTELEONE, Diritto processuale civile, Padova, 2002, 583585 e 615 e segg.; BALENA, Elementi di diritto processuale civile, II, 2, Le impugnazioni, Bari, 2004, 82 e segg.;
CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenza, Padova, 2004, 63 e segg. nonché 71 e segg.; MANDRIOLI, op. cit.,
444 e segg.
10
BALENA-ORIANI-PROTO PISANI-RASCIO, Oggetto del giudizio di appello e riparto degli oneri probatori:
una recente (e non accettabile) pronuncia delle sezioni unite, in nota a Cass., SS.UU., 23 dicembre 2005, n. 28498,
in Foro it., 2006, cit., spec. 1438, i quali, a sostegno della loro impostazione, richiamano vari elementi indiziari
ricollegabili alla disciplina della citazione di appello (rimandando l’art. 342 cod. proc. civ. anche alle “indicazioni
prescritte dall’art. 163”), alla mancanza di una regolamentazione complessiva della decisione di appello (invece
prevista con riguardo al ricorso per cassazione) e al “saldo” orientamento giurisprudenziale (racchiuso recentemente
in Cass. 7 marzo 2003, n. 3424, in Foro it., 2003, I, 3080 e segg., con nota di TRABACE), per il quale – al di fuori
delle ipotesi di rimessione al giudice di primo grado – non è ammissibile, per difetto di interesse, l’appello che si
fondi unicamente su vizi di nullità del giudizio di primo grado, senza invocare anche una diversa decisione sul
merito della controversia, proprio perché l’appello è diretto “non alla mera eliminazione di un atto illegittimo, ma
alla rinnovazione del giudizio di merito”.
9
4
attraverso i motivi specifici11 (imposti dall’art. 342 cod. proc. civ.), i quali non sono
(rectius: non sarebbero) l’oggetto di questo giudizio, ma solo il mezzo mediante il quale
si individuano le parti del rapporto sostanziale controverso in primo grado devolute al
giudice superiore, nonché le questioni (in fatto e in diritto) attraverso il cui riesame il
giudice di appello potrà e dovrà conoscere ex novo del rapporto sostanziale.
Tuttavia, per contro, si osserva – da parte di altri indirizzi teorici12, in tendenziale
sintonia con la giurisprudenza uniforme13 - che, pur volendo concepirsi l’appello come
un gravame sostitutivo, l’oggetto del cui giudizio sarebbe non la sentenza impugnata
ma la situazione sostanziale oggetto del processo, è, tuttavia, indiscutibile che il
rapporto giuridico sostanziale, che si voglia identificare come l’oggetto principale
dell’appello, entra nel secondo giudizio attraverso il filtro della pronuncia di primo
grado, la quale non può essere considerata tamquam non esset. Ed è per questo che il
giudice di appello non può concentrarsi direttamente sulla concreta situazione
sostanziale ma deve avere come necessario parametro di riferimento la sentenza
impugnata e ciò in dipendenza dello svolgimento della “funzione stessa
dell’impugnazione che è pensata soprattutto per un progressivo affinamento della
decisione”14: questa impostazione – ad avviso degli orientamenti scientifici
sostanzialmente conformi all’indirizzo della giurisprudenza – si armonizza, del resto,
con il ruolo centrale che il giudizio di primo grado svolge nell’attuale sistema
processuale che ha voluto, invece, demandare all’appello una funzione di controllo
che altrimenti andrebbe dispersa15.
Secondo un attento ed analitico settore della dottrina16 il giudizio di appello deve,
perciò, essere descritto in termini di revisio prioris instantiae (anziché di novum iudicium),
dal momento che in esso la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni
dedotte dall’appellante (o dall’appellato in qualità di appellante incidentale) attraverso
la prospettazione – e, quindi, la deduzione – di specifiche censure, senza che al giudice
di secondo grado possa ritenersi assegnato il compito di “ripetere” il giudizio di primo
grado, rinnovando la cognizione dell’intero materiale di causa e pervenendo ad una
nuova decisione che involga “tutti” i punti già dibattuti in prima istanza. In altri
11
Sulla nozione dei quali, in uno alle relative problematiche ulteriori collegate, si ritornerà nel paragrafo successivo.
Di recente, MANCUSO, I motivi specifici dell’atto di appello, in Giust. civ., 2006, I, 877 e segg., spec. 884, in
nota a Cass. , sez. lav., 7 giugno 2005, n. 11781.
13
V., oltre alle citate sentenze delle sezioni unite, ex multis, le sentenze delle sezioni semplici n. 6066 del 1995, n.
10493 del 1999, n. 9867 del 2000, n. 11935 del 2002, n. 15558 del 2005 e n. 24817 del 2005.
14
L’acuta osservazione è del ROMANO, in Profili applicativi e dogmatici dei motivi specifici di impugnazione nel
giudizio d’appello civile, edito in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2000, 1246, il quale pone in luce come tale affinamento
sia assai meglio garantito, in linea di principio, dal giudice che si misura criticamente con la decisone precedente,
che non da quello che si concentri direttamente sulla realtà giuridica sostanziale. In proposito non va dimenticato la
perspicace espressione del CALAMANDREI (in Appello civile, cit., 729 e segg.) secondo cui il giudice d’appello
ha una minore possibilità di errore poiché “può giovarsi dell’insegnamento del primo grado e valutarne
oggettivamente i risultati”, di modo che “il giudice d’appello giudica bene non tanto benché, quanto perché il primo
giudice ha giudicato male: anche l’errore è infatti una tappa verso la verità”.
15
MANCUSO, in op. ult. cit., rileva, altresì, che depongono in senso favorevole all’orientamento propugnato dalla
giurisprudenza per la configurazione dell’appello come revisio prioris instantiae, anche due principi essenziali
caratterizzanti del nostro ordinamento, ovvero il principio dispositivo – secondo il quale è rimessa alle parti la
determinazione dell’oggetto del giudizio – e quello di economia processuale, che sicuramente si conforma meglio a
detto inquadramento.
16
In special modo, DE CRISTOFARO, op. cit., 761 e segg., e POLI, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie,
Padova, 2002, spec. 448 e segg.
12
5
termini, l’appello è strutturato come un mezzo di impugnazione a critica sì libera
(poiché non è individuata nell’ordinamento una predeterminazione legislativa delle
“tipologie” di censure ammesse avverso la sentenza di primo grado), ma comunque a
cognizione vincolata dagli specifici motivi di impugnazione avanzati, poiché la libertà
di critica si “concretizza”, al momento della proposizione dell’appello, nelle doglianze
espressamente svolte, che delimitano le possibilità cognitorie e decisorie nel processo
di seconda istanza, il cui esito persegue, in ogni caso, un effetto sostitutivo della
pronuncia gravata. La richiamata cognizione limitata va, dunque, intesa nel senso che
il giudice di secondo grado non può condurre il suo esame su punti definiti in prima
istanza e non oggetto di censura (e, perciò, idonei a passare in giudicato)17. In
quest’ottica, la stessa dottrina afferma che il giudizio di impugnazione in generale – e
quello d’appello, in particolare – ha un duplice oggetto: un “oggetto diretto”,
coincidente con la sentenza impugnata, di cui si chiede (comunque) l’eliminazione, ed
un “oggetto indiretto” che si riconduce alla situazione giuridica sostanziale, in ordine
alla quale si chiede la dichiarazione (della produzione) di un effetto giuridico diverso
da quello determinato dalla sentenza impugnata18.
Nell’inquadramento conseguente alla sua nuova conformazione assunta in seguito
alla riforma del 199019 (che ha previsto anche la sostanziale soppressione del possibile
ius novorum, limitato, ai sensi del novellato art. 345 cod. proc. civ., alle eccezioni
rilevabili anche d’ufficio ed ai mezzi di prova indispensabili per la decisione, o che la
parte non abbia potuto proporre in primo grado per causa ad essa non imputabile,
nonché al giuramento decisorio), appare sotteso che il legislatore20 abbia voluto
impedire che il giudizio di appello si risolva in una sorta di valvola di sicurezza per le
parti sprovvedute o negligenti, alle quali, perciò, bisognava precludere l’espletamento
di tutte le difese che non hanno saputo o potuto esprimere in prime cure. D’altra
parte21, occorre considerare e valorizzare che la soluzione prescelta dal legislatore del
17
Ferma, però, restando la sua libertà di rilevare, affrontare e decidere questioni “nuove e differenti”, anche
d’ufficio ed al di là di eventuali iniziative di parte, rispetto a quelle concretamente oggetto del primo grado (ad es.
perché ivi rimaste assorbite ovvero a seguito della – ove ancora possibile – introduzione di nova) e ciò perché al
giudice di appello è – e continua ad essere – richiesta una nuova decisione sul merito della controversia: in questi
esatti termini v., ancora, DE CRISTOFARO, op. cit., 761.
18
V. POLI, op. cit., 448. Il DE CRISTOFARO, in op. ult. cit., sulla scorta della riportata premessa, chiarisce che
l’appello si configura, in definitiva, come un’impugnazione avente congiuntamente e cumulativamente ad oggetto la
sentenza gravata – e, quindi, strutturata in senso cassatorio – per quanto attiene alle questioni già affrontate nel
precedente grado di giudizio, ed inoltre il merito della controversia, su cui il giudice di secondo grado (fatti salvi i
casi eccezionali previsti dagli artt. 353 e 354 cod. proc. civ.) è sempre chiamato a rendere una nuova decisione. Lo
stesso autore puntualizza che nell’appello “a cognizione limitata” si ha, pertanto, il cumulo tra un’azione di
impugnativa – che deve essere esercitata, onde l’obbligo di enunciazione dei motivi, per evitare la “stabilizzazione”
della sentenza impugnata e consentire la devoluzione – e la riproposizione della domanda. Tale cumulo – secondo
detto autore – si giustifica, per un verso (quello cassatorio), poiché la riforma delle statuizioni contenute nella
pronuncia gravata è possibile solo previo riscontro della fondatezza delle censure avanzate dalle parti; per l’altro
verso (quello sostitutivo), alla luce delle esigenze di economia processuale, che impongono di valorizzare la
struttura “aperta” del secondo grado di giudizio (modellata, ex art. 359 cod. proc. civ., su quella del giudizio di
prima istanza) affinché questo pervenga ad una nuova pronuncia sulla controversia, e non subordinano, pertanto,
simile “accesso” alla decisione del merito ad un preventivo momento rescindente.
19
Che, come evidenziato, ha inteso rivalutare al massimo il giudizio prima istanza, producendo un effetto di
responsabilizzazione delle parti nella gestione delle loro risorse definitive: cfr., in tal senso, la Relazione dei sen.
Acone e Lipari al testo della riforma approvato dal Senato, in Foro it., 1990, V, 424.
20
V., a questo proposito, la citata Relazione al Senato.
21
Come osserva altro filone dottrinale: cfr. VALITUTTI-DE STEFANO, op. cit., 11 e segg.
6
1990 appare perfettamente in linea con quella, già da tempo (fin dal 1973, con
l’entrata in vigore della legge n. 533), adottata per il rito del lavoro (cfr. l’art. 437 cod.
proc. civ.).
In effetti, dunque, mediante il complesso delle innovazioni introdotte dalla legge
novellatrice n. 353 del 1990, il giudizio di appello si profila attualmente strutturato
come un mezzo per ovviare ad errori del giudicante in prima istanza, più che ad
imperizie o negligenze dei contendenti, ragion per cui tale mezzo è venuto ad
assumere i caratteri di una revisio prioris instantiae, ossia di un’impugnativa avverso la
sentenza, piuttosto che di rimedio introduttivo di un giudizio sul rapporto
controverso22.
D’altro canto23 si conformavano in questo modo sia la struttura che la funzione
derivanti dall’originaria formulazione del codice di rito anteriormente alla novella del
1950. Invero, il legislatore del 1940 aveva prefigurato l’appello come un’impugnazione
“limitata”, ovvero come un mezzo diretto esclusivamente ad elidere eventuali errori o
vizi della sentenza gravata, con la correlata previsione che le nuove eccezioni ed i
nuovi mezzi di prova potessero avere ingresso nel secondo giudizio soltanto per
“gravi motivi accertati dal giudice”.
Viceversa, la legge 14 luglio 1950, n. 581, ebbe ad introdurre lo ius novorum (in
conformità alla corrispondente abolizione, per il primo grado, della limitazione della
facoltà di proporre nuove eccezioni, produrre nuovi documenti e chiedere nuove
prove, dopo la prima udienza di trattazione), riconoscendo, pertanto, al giudice di
appello una cognizione “piena”, non dissimile da quella del giudice di prima istanza,
tanto da consentirgli – nei limiti delle domande avanzate in primo grado – di
accogliere ed utilizzare anche l’eventuale nuovo materiale di cognizione apportato.
La novella del 1990 ha, tuttavia, ripristinato l’originaria conformazione del
giudizio di appello, in coerenza con il regime delle preclusioni imposte all’attività
difensiva delle parti in primo grado (come, oltretutto, confermato anche in virtù delle
modifiche del 1995 e del più recente intervento normativo incidente sull’art. 183 cod.
proc. civ., come riformulato24 per effetto degli ultimi interventi normativi del 2005 e
2006) ed alla maggiore e più attiva partecipazione del giudice alla formazione della
materia del contendere, voluta dal legislatore.
Nell’evidenziata evoluzione del giudizio di appello indotta dai riportati passaggi
normativi è, pertanto, intravedibile una indubbia tendenza – recepita dalla costante
giurisprudenza - della sua struttura ad essere qualificata come revisio prioris instantiae,
accentuata dalla non automaticità dell’effetto devolutivo (siccome condizionato dalla
specificità dei motivi che devono sorreggere l’atto di appello), dalle limitazioni
all’effetto sostitutivo e dall’utilizzazione dell’appello medesimo come mezzo per far
22
E’ importante notare che in tal senso si era espressa la stessa Relazione al Senato su quella che sarebbe stata poi la
legge novellatrice n. 353 del 1990; in senso conforme cfr. anche FAZZALARI, Il processo ordinario di cognizione,
cit., 127.
23
Come esaurientemente evidenziato nella richiamata sentenza della sezioni unite n. 28498 del 2005.
24
Ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. c-ter, del d.l. 14 marzo 2005, convertito, con modificazioni, nella legge 14
maggio 2005, n. 80, come modificato dall’art. 8, comma 1, del d.l. 30 giugno 2005, n. 115, convertito, con
modificazioni, nella legge 17 agosto 2005, n. 168, e, successivamente, dall’art. 1, comma 1, lett. a), nn. 1),2) e 3),
legge 28 dicembre 2005, n. 263, e dall’art. 39 quater, comma 1, del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273, convertito, con
modificazioni, nella legge 23 febbraio, n. 51, a decorrere dal 1° marzo 2006.
7
valere le nullità del procedimento e della sentenza di primo grado25 (alla stregua del
disposto di cui all’art. 161 cod. proc. civ.).
3.- Il requisito della specificità dei motivi dell’atto di appello e le relative
conseguenze derivanti dalla sua inosservanza: l’evoluzione giurisprudenziale e
le variegate elaborazioni dottrinali.
Strettamente connesso alla questione della ricostruzione della natura giuridica
dell’appello e, soprattutto, dell’individuazione del suo oggetto, si presenta il problema
riconducibile all’imposizione, a carico dell’appellante (principale od incidentale che
esso sia) dell’onere – desumibile dal disposto di cui all’art. 342, comma primo, cod.
proc. civ. - di supportare la proposizione del relativo atto di appello (che, con
riferimento al giudizio ordinario di cognizione, assume la forma della citazione,
diversamente dal rito del lavoro, ove deve rivestire la forma del ricorso) con la
deduzione dei “motivi specifici” dell’impugnazione (non richiesti, invece, nel codice
del 1865), che si devono accompagnare all’esposizione sommaria dei fatti di causa
nonché alle indicazioni prescritte nell’art. 163 del codice di rito26.
Sono stati molto dibattuti, in dottrina e in giurisprudenza, gli aspetti relativi
all’individuazione del nucleo essenziale idoneo a consentire il raggiungimento del
livello di specificità dei motivi dell’appello e delle conseguenze derivanti dalla
violazione di questo onere sul piano processuale, in mancanza di un’esplicita
previsione di qualsiasi conseguenza sanzionatoria in merito.
Per contro, si prospetta piuttosto univoca, sul versante teorico, la funzione a cui è
demandata l’assolvimento di questo onere per l’appellante. In proposito, si osserva
che l’atto di appello delimita, ex parte dell’appellante, l’ambito della cognizione del
giudice del gravame, rispetto a quello del giudice di primo grado: sia perché – ai sensi
dell’art. 329, comma secondo, cod. proc. civ. – “l’impugnazione parziale importa
acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate”, sia perché “le domande e le eccezioni non
accolte” – secondo l‘opinione ravvisata come preferibile dalla predominante dottrina27,
in quanto assorbite dall’accoglimento di domande od eccezioni con esse incompatibili
– “nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono
rinunciate” (art. 346 cod. proc. civ.). Orbene, se queste sono le conseguenze implicate
dall’appello parziale e dall’omessa riproposizione di precedenti domande, i motivi
specifici concorrono ad adempiere a questa duplice funzione impeditiva e, perciò,
soprattutto ad evitare la formazione del giudicato interno, per acquiescenza parziale,
25
V., sul punto, ancora VALITUTTI-DE STEFANO, op. cit., 12.
L’atto di appello deve, quindi, contenere (oltre ad una sommaria esposizione dei fatti, identificabile in una
sintetica narrazione delle circostanze anteriori all’inizio del giudizio di primo grado e allo svolgimento del processo,
con indicazione della sentenza appellata unitamente ad una, almeno succinta, esposizione delle statuizioni adottate
dal primo giudice), la determinazione della cosa oggetto della domanda, ai sensi dell’art. 163, n. 3; l’esposizione dei
fatti e degli elementi costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni, ai sensi dell’art. 163, n. 4; i
motivi specifici dell’impugnazione. ANDRIOLI, in Diritto processuale civile, Napoli, 1979, 816-817, peraltro,
rileva che, dal raffronto tra l’art. 163 n. 4 e l’art. 342, si ricava il convincimento che le due discipline non si pongano
in rapporto di contrapposizione, bensì di parziale compenetrazione, potendosi ritenere che “quel che negli atti
introduttivi di primo grado è l’oggetto della domanda è, nell’atto di appello, l’oggetto della impugnazione”.
27
V., per tutti, TARZIA, op. cit., 301.
26
8
sulle singole parti della sentenza in senso tecnico28: l’indicazione dei motivi secondo
un sufficiente grado di specificità rappresenta, perciò, una condizione di efficacia del
potere di impugnazione29.
Ritornando al problema della determinazione del concetto di “motivi specifici”, la
correlazione degli stessi con il provvedimento impugnato induce a sottolineare che la
loro indicazione, più che perseguire finalità meramente giustificative delle censure
mosse, vale piuttosto ad individuare un requisito essenziale dell’atto di appello,
consistente nell’esatta determinazione della materia del contendere del giudizio di
impugnazione. In altri termini, la specifica esposizione dei motivi assolve alla
fondamentale funzione di individuare l’ambito e i limiti dell’effetto devolutivo – in
conformità del famoso brocardo del tantum devolutum quantum appellatum – poiché,
come già anticipato, attraverso l’indicazione delle parti della sentenza oggetto della
domanda di appello viene, conseguentemente, individuata la parte della contesa
rimessa al giudice di secondo grado. L’effetto devolutivo, pertanto, implica che, anche
in ipotesi di impugnazione della sentenza nel suo complesso, è necessario precisare –
in ordine a tutti i capi della decisione gravata – le ragioni delle doglianze avanzate, in
connessione con i presunti errori commessi dal giudicante.
La prescrizione di specificità appare, dunque strettamente correlata
all’assolvimento della funzione del motivo, che intanto può raggiungere il suo scopo
in quanto sia formulato in termini specifici tali da permettere l’esatta individuazione
dell’error o, comunque, della violazione che si assume viziare la sentenza30.
La giurisprudenza, nel corso della sua evoluzione, è pervenuta – proprio
rimarcando l’essenzialità di questo requisito e le conseguenze che dalla sua omissione
o carenza derivano (di cui si discorrerà in seguito) – alla conclusione che il motivo può
definirsi specifico – e qualificarsi, perciò, tale – quando alle argomentazioni svolte
nella sentenza vengano contrapposte quelle dell’impugnante volte ad incrinare il
fondamento logico-giuridico delle prime31. Così inquadrato, tale criterio viene ritenuto
soddisfatto dalla giurisprudenza – nel senso che l’argomentazione svolta
nell’impugnazione incrina il fondamento logico-giuridico dell’argomentazione
contenuta nella motivazione della sentenza impugnata – quando, in base ad un
28
V., ad es., sul punto Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 1999, n. 464 (in Foro it., 2000, I, 218 e segg., con nota di
RASCIO, Ancora sui motivi d’appello: il requisito della specificità e le conseguenze della violazione dell’art. 342
c.p.c. nella giurisprudenza della Suprema Corte), secondo la quale l’appello privo di motivi, perché consistente
nella semplice richiesta di riforma della sentenza impugnata senza specificazioni o indicazioni di alcuna specie, non
determina l’integrale devoluzione della controversia al giudice del gravame, non consentendo neppure di individuare
l’ambito del riesame richiesto, oltre il quale operano la decadenza di cui all’art. 346 cod. proc. civ. e la formazione
del giudicato ex art. 329 stesso codice.
29
Cfr., in proposito, POLI, op. cit., 450.
30
V., in dottrina, in tali termini, ancora POLI, op. cit., 470, il quale richiama – evidenziandone la chiarezza - anche
il punto di vista di altra pregressa dottrina ( PROVINCIALI), ad avviso della quale “specifico significa riferito alla
specie dell’errore che con l’impugnazione si vuole denunciare: vale a dire alla violazione della norma giuridica o
all’errore di fatto precisi e determinati su cui l’impugnazione si fonda, in relazione ai poteri del giudice circa
l’accertamento del fatto e l’applicazione del diritto”.
31
Gli orientamenti scientifici recenti più analitici (v., sempre, POLI, op. cit., 473) evidenziano che il criterio
riportato è di carattere empirico e descrittivo, servendo in realtà piuttosto a stabilire quando accanto al motivo
sussista effettivamente l’argomentazione, e dunque solo di riflesso se il motivo indicato consente l’individuazione
precisa della violazione denunciata.
9
giudizio ex ante, l’eventuale fondatezza dell’argomentazione priverebbe di base logica
la sentenza impugnata32.
Risulta, a questo punto, del tutto opportuno riportare un rapido excursus delle
principali massime della giurisprudenza di legittimità sviluppatasi sull’argomento:
- ai fini della validità dell’appello non è sufficiente che l’atto di gravame consenta di individuare
le statuizioni concretamente impugnate e i limiti dell’impugnazione, ma è altresì necessario, pur
quando la sentenza di primo grado sia stata censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali
si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità, da correlare, peraltro, con la
motivazione della sentenza impugnata, con la conseguenza che, se da un lato, il grado di specificità dei
motivi non può essere stabilito in via generale ed assoluta, dall’altro lato, esso esige pur sempre che alle
argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad
incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime (Cass., sezioni unite, 20 settembre 1993, n.
9628);
- la cognizione del giudice nel giudizio di appello – che non è “novum iudicium” con effetto
devolutivo generale – resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso l’enunciazione
di specifici motivi; la specificità dei motivi esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza
impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico
delle prime, non essendo le statuizioni della sentenza separabili dalle argomentazioni che le
sorreggono, di modo che alla parte volitiva dell’appello deve sempre accompagnarsi una parte
argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice (Cass., sez. I, 30 maggio
1995, n. 6066);
- nell’atto di appello alla parte volitiva deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa che
confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, onde non è sufficiente che l’appello individui le
statuizioni concretamente impugnate, ma è necessario pur quando la sentenza impugnata sia stata
censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con
sufficiente grado di specificità, da correlare pertanto con la motivazione della sentenza impugnata
(Cass., sez. III, 15 aprile 1998, n. 3805; nello stesso senso, v. Cass., sez. III, 26 giugno
1998, n. 6335);
- l’onere della specificazione dei motivi d’appello ai sensi dell’art. 342 cod. proc. civ. ha la
duplice funzione di delimitare l’ambito della cognizione del giudice d’appello e di consentire il puntuale
esame delle critiche mosse alla sentenza impugnata, ed è assolto solo se l’atto di appello contiene
articolate ragioni di doglianza su punti specifici della sentenza di primo grado; pertanto, e poiché il
giudizio di appello ha natura di “revisio prioris instantiae” alla stregua dei motivi di gravame e non
consente la mera richiesta di un “iudicium novum”, non è sufficiente, in relazione ad un autonomo
capo della sentenza, il generico rinvio alle difese svolte in primo grado (Cass., sez. I, 24 settembre
1999, n. 10493);
- nel giudizio di appello, che ha natura di “revisio prioris instantiae”, la cognizione del giudice
resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso specifici motivi con necessità di
esposizione delle argomentazioni svolte in contrapposizione con quelle contenute nella sentenza
impugnata; ne deriva che il requisito della specificità dei motivi di appello, pur non richiedendo
l’impiego di formule sacramentali, esige un’esposizione chiara ed univoca delle doglianze e delle
domande rivolte al giudice del gravame (Cass., sez. II, 27 luglio 2000, n. 9867);
32
Aderisce in dottrina a questa impostazione anche CONVERSO, Il processo di appello, cit., 667.
10
- il requisito della specificità dei motivi dell’appello postula che alle argomentazioni della
sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante finalizzante ad inficiare il
fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza scindibili dalle
argomentazioni che la sorreggono; è, quindi, indispensabile che l’atto di appello contenga sempre tutte
le argomentazioni volte a confutare le ragioni poste dal primo giudice a fondamento della propria
decisione senza la possibilità di rinviare l’esposizione delle argomentazioni ad un momento successivo
del giudizio o addirittura alla comparsa conclusionale, essendo l’atto di appello quello che fissa i limiti
della controversia in sede di gravame ed esaurisce il diritto potestativo dell’impugnazione…(Cass.,
sez. II, 30 luglio 2001, n. 10401);
- la disposizione dell’art. 342 cod. proc. civ., che richiede la specificità dei motivi di appello,
implica solo la necessità che la manifestazione volitiva dell’appellante consenta di individuare con
chiarezza le statuizioni investite dal gravame e le specifiche critiche indirizzate alla motivazione che le
sostiene e non anche che siano adoperate formule o seguiti schemi particolari nella esposizione dei
motivi e delle domande dell’atto di appello, che è affidata alla capacità espressiva del difensore (Cass.,
sez. III, 19 maggio 2003, n. 7769);
- con i motivi di appello, la parte deve rivolgere alla sentenza impugnata censure puntuali e
specifiche, al cui esame resta delimitato l’ambito della cognizione in sede di gravame, senza possibilità
di ampliamenti successivi, e ciò anche nel caso in cui la sentenza di primo grado sia stata censurata
nella sua interezza, essendo onere dell’appellante contrapporre le proprie argomentazioni a quelle
svolte nella sentenza al fine di incrinare il fondamento logico-giuridico di queste… (Cass., sez. lav.,
21 gennaio 2004, n. 967);
- l’art. 342 cod. proc. civ., nella parte in cui prescrive la specificità dei motivi dell’appello,
comporta altresì, laddove tali motivi siano argomentati mediante il richiamo alla documentazione
prodotta, l’indicazione puntuale e non generica dei documenti ai quali è affidato il gravame, con la
compiuta illustrazione delle ragioni, illegittimamente trascurate dal primo giudice, per le quali il
contenuto di essi giustifica la tesi sostenuta dall’appellante (Cass., sez. I, 20 ottobre 2005, n.
20287);
- l’onere di specificazione dei motivi di appello previsto dall’art. 342 cod. proc. civ. assolve alla
duplice funzione sia di delimitare l’ambito di esame concesso al giudice di secondo grado, in conformità
del principio “tantum devolutum quantum appellatum”, sia di consentire la puntuale e ragionata
valutazione delle critiche mosse alla decisione impugnata; pertanto, tale onere può ritenersi soddisfatto
solo quando l’atto di appello esprime articolate ragioni di doglianza su punti specifici della sentenza
di primo grado, non essendo, perciò, sufficiente il generico rinvio alle difese svolte in primo grado
(Cass., sez. III, 16 dicembre 2005, n. 27727);
- in tema di processo di appello, in ossequio al principio del “tantum devolutum quantum
appellatum di cui all’art. 342 cod. proc. civ., il quale importa non solo la delimitazione del campo del
riesame della sentenza impugnata ma anche l’identificazione, attraverso il contenuto e la portata delle
censure, dei punti investiti dall’impugnazione e delle ragioni per le quali si invoca la riforma delle
decisioni, i motivi debbono essere tutti specificati nell’atto di appello (con cui si consuma il diritto di
impugnazione), sicché restano precluse nel corso dell’ulteriore attività processuale sia la precisazione di
censure esposte nell’atto di appello in modo generico, che la possibilità di ampliamenti successivi delle
censure originariamente dedotte (Cass., sez. III, 24 marzo 2006, n. 6630).
Alla luce dei complessivi principi che si desumono dalle richiamate statuizioni
giurisprudenziali si evince chiaramente che i motivi di appello, per poter essere
considerati specifici, devono tradursi in precise contestazioni incentrate sulle
11
argomentazioni motivazionali della sentenza gravata, in modo da consentire – come
già anticipato e rilevato pure da un rilevante indirizzo dottrinale33- di individuare con
precisione la violazione della legge del provvedimento denunciata, chiarendosi, a tal
proposito, che può dirsi raggiunto lo scopo quando l’argomentazione dedotta, se
fondata, priverebbe di base logica la motivazione della parte di sentenza impugnata.
Una volta chiariti i termini del dibattito relativo all’enucleazione del concetto di
“motivi specifici”, è giunto il momento di soffermare l’attenzione sull’individuazione
delle conseguenze che derivano sul piano processuale – in difetto di un’espressa
previsione normativa al riguardo - dal mancato rispetto dell’assolvimento dell’inerente
onere incombente in capo all’appellante.
Anche a questo riguardo gli orientamenti profilatisi in dottrina sono risultati
piuttosto contrastanti, risentendo inevitabilmente della corrispondente concezione
sulla natura e l’oggetto dell’appello e contrapponendosi, in gran parte, agli indirizzi
giurisprudenziali che hanno, a loro volta, conosciuto, in relazione a questo precipuo
aspetto, un’evoluzione che, prendendo origine da una posizione di un certo tipo –
culminata nella sentenza delle sezioni unite n. 4991 del 198734, propugnante la tesi
della nullità dell’atto di appello – è pervenuta, con la successiva sentenza delle stesse
sezioni unite n. 16/SU35 del 2000, in virtù di un ragionato e motivato revirement, a
sostenere la configurabilità, nella prospettata ipotesi processuale patologica, di un caso
di inammissibilità dell’appello, insuscettibile, perciò, di ogni forma di sanatoria.
Occorre ricordare che, inizialmente, la giurisprudenza36, sul tema dei motivi
specifici dell’appello, era attestata su posizioni tendenzialmente liberali, inquadrando
33
V., ancora un volta, POLI, op. cit., 474-475, il quale aggiunge, altresì, che l’onere di specificità del motivo si
atteggia allo stesso modo nei giudizi di appello e di cassazione, salvo eventualmente per quanto attiene ai profili –
del tutto indipendenti rispetto a quelli in questa sede rilevanti – della completezza e riferibilità del motivo stesso alla
sentenza impugnata, in relazione al principio della c.d. autosufficienza del ricorso di legittimità (e sempre che i
medesimi siano classificabili come profili della “specificità”). Altro indirizzo teorico (v., per tutti, DE
CRISTOFARO, op. cit., 763) sottopone a critica il rigoroso orientamento giurisprudenziale che sembra richiedere
all’appellante di formulare quasi un esaustivo “progetto” di sentenza di riforma, sostenendo, invece, che l’invalidità
dell’appello viene a configurarsi solo allorquando la mancata specificazione dei motivi non consenta di determinare
i limiti della devoluzione e di circoscrivere in tal modo l’oggetto del gravame, onde nessuna conseguenza negativa
dovrebbe ricollegarsi all’inidoneità dei motivi a consentire di individuare con precisione e puntualità le ragioni
dell’appello, ossia le motivazioni in fatto ed in diritto che sostengono la richiesta riforma della sentenza impugnata.
34
Edita in Giust. civ., 1988, I, 216, con nota di SOTGIU e ivi, 1988, I, 474 e segg., con nota di BOVE; in Giur. it.,
1988, I, 1, 1819, con nota di MONTELEONE e ivi, 1989, I, 1, 1234 e segg., con nota di GREGORIO; in Riv. dir.
proc., 1989, 602 e segg., con nota di BESSO.
35
Pubblicata, tra le altre, in Foro it., 2000, I, 1606 e segg., con note di BALENA-BARONE e PROTO PISANI; in
Giust. civ., 2000, I, 673 e segg.; in Foro pad., 2001, 1, con nota di GALIBERTI. Su questo arresto delle sezioni
unite occorre ricordare, in particolare, l’intervento nella sezione “Orientamenti” della Riv. dir. proc., 2000 (511 e
segg.) di SASSANI, Le sezioni unite della cassazione e l’inammissibilità dell’atto di appello carente di motivi
specifici.
36
Cfr., ad es., Cass. 9 agosto 1983, n. 5322; Cass. 10 gennaio 1986, n. 76; Cass. 3 dicembre 1986, n. 7158 e, in
tempi ancora più recenti, Cass. 16 maggio 1997, n. 4368. In particolare, nell’ambito del richiamato “orientamento
liberale” era possibile suddistinguere due ulteriori filoni: l’uno relativo all’ipotesi dell’appello totale e l’altro
concernente l’appello parziale, che, cioè, non investiva l’intera decisione. In ordine al primo caso si era ritenuto che
fosse meramente sufficiente manifestare la volontà di impugnare l’intera sentenza senza alcuna ulteriore
specificazione, poiché la pronuncia veniva contestata nella sua totalità; nel secondo caso, secondo un primo
indirizzo, i motivi ex art. 342 cod. proc. civ. avrebbero avuto la funzione di individuare i capi di sentenza oggetto
del gravame, intendendo per “capi” le statuizioni su singole domande; secondo altro indirizzo, la funzione
individuatrice dei “motivi” avrebbe investito non i capi della decisione ma le singole questioni di fatto e di diritto
che si intendevano sottoporre al giudice di seconda istanza, dovendosi ravvisare queste ultime come l’unità minima
impugnabile (su tali aspetti v., in dottrina, LIEBMAN, “Parte” o “capo” di sentenza, in Riv. dir. proc., 1980, 47 e
12
l’appello come un mezzo di impugnazione rivolto ad ottenere non già il controllo
della decisione di primo grado, bensì una nuova pronuncia sul diritto fatto valere con
la domanda originaria, ragion per cui l’enunciazione delle censure sarebbe stata
richiesta al solo fine di delimitare l’ambito di riesame richiesto al giudice superiore,
con una conseguente “attenuazione dell’onere di specificazione dei motivi”,
percepibile, soprattutto, nell’ipotesi dell’appellante che avesse manifestato comunque
la volontà non equivoca di impugnare integralmente la sentenza di primo grado.
Solo in una successiva fase – che ha preso le mosse dalla richiamata sentenza delle
sezioni unite n. 4991 del 6 giugno 1987 – si è andata affermando la diversa soluzione
alla stregua della quale, ai fini della validità dell’atto di appello, si richiedeva non solo
l’individuazione delle “statuizioni concretamente impugnate” e dei “limiti
dell’impugnazione”, bensì pure l’esposizione delle ragioni, dirette a confutare le
argomentazioni in fatto e in diritto che sorreggevano la decisione di primo grado,
ancorché con la precisazione che il livello di specificità dei motivi di gravame andava
commisurato a quello della motivazione della sentenza appellata37.
In particolare, con la predetta pronuncia delle sezioni unite si era inteso precisare,
in termini netti, che tra il fatto naturalisticamente inteso e le posizioni delle parti e del
giudice di appello si frapponeva la sentenza di primo grado oggetto
dell’impugnazione, la quale aveva accertato a valutato il fatto, fornendo
dell’accertamento e della valutazione la motivazione. Pertanto, la sentenza di primo
grado doveva considerarsi strutturata in una parte volitiva (la statuizione) e in una
parte argomentativa (la motivazione), le quali andavano valutate congiuntamente, nel
loro complesso, ponendosi in correlazione ciascuna statuizione decisoria con
l’accertamento e la motivazione sulle quali si fondava;
allo stesso modo,
conseguentemente e specularmente, anche la citazione di appello si sarebbe dovuta
comporre di una parte volitiva, la cui funzione era quella di individuare le parti della
sentenza che si sarebbero intese sottoporre all’esame del giudice di seconde cure, ed
una parte logico-argomentativa, che avrebbe dovuto tendere, invece, ad illustrare le
ragioni di fatto e di diritto poste a sostegno dell’impugnazione.
In definitiva, con la sentenza in questione, le sezioni unite – in un primo
significativo passaggio del percorso evolutivo che ha condotto la giurisprudenza verso
gli assestamenti attuali – pervennero alla concezione di un’interpretazione
maggiormente restrittiva, in virtù della quale i “motivi specifici” dell’atto di appello
non assolvono soltanto ad una funzione semplicemente individuatrice delle parti della
pronuncia di cui si lamenta l’ingiustizia, ma svolgono, altresì, un’ulteriore e più
pregnante funzione di specificazione delle ragioni di fatto e di diritto che si collocano
alla base dell’impugnazione, ovvero di individuazione degli errori in procedendo e in
iudicando che si assumono commessi dal giudice di prima istanza.
Una volta ridisegnata la funzione dei motivi specifici, con la stessa sentenza n.
4991 del 1987 venne affrontato anche il problema – oggetto di esame nella presente
segg.). Quel che, però, rileva è che, in nessuna delle predette ipotesi, i motivi di appello svolgevano un ruolo
esplicativo, ovvero mirato alla individuazione delle doglianze e delle censure avverso la sentenza appellata.
37
Nei medesimi termini si erano essenzialmente pronunciate, tra le altre, le successive Cass. 8 marzo 1994, n. 2247
(in Foro it., 1995, I, 595); Cass. 25 agosto 1994, n. 7505 (in Giur. it., 1995, I, 1, 566); e Cass. 7 settembre 1994, n.
7688 (in Foro it., 1995, I, 2927).
13
sede – relativo all’identificazione della sanzione, nel silenzio dell’art. 342 cod. proc.
civ., riconducibile all’atto di appello in cui i motivi del gravame non fossero stati
specificati ovvero fossero stati esplicati in modo insufficiente. La Suprema Corte, nella
sua massima espressione nomofilattica, dopo aver ripercorso i precedenti orientamenti
che avevano oscillato tra la tesi della nullità e quella dell’inammissibilità, prese
posizione a favore della prima soluzione esegetica, asserendo che “mentre l’art. 342 cod.
proc. civ. nulla dice in proposito, dal richiamo all’art. 163 e, in particolare, alla disposizione di cui al
n. 3 (oggetto del giudizio) consegue che la sanzione è quella della nullità e non dell’inammissibilità,
che nessuna norma prevede. La precisazione non è meramente terminologica, dal momento che per la
nullità, con la costituzione del convenuto appellato38, è prevista la sanatoria con la salvezza dei diritti
anteriormente quesiti”39.
Malgrado l’intervento delle sezioni unite non mancarono, però, pronunce
successive40 che non condividevano l’impostazione in termini di nullità e che, invece,
optarono per la sanzione dell’inammissibilità dell’appello, considerando il requisito dei
motivi come ulteriore ed autonomo, sul piano logico e giuridico, rispetto alle
indicazioni prescritte per ogni atto di citazione dall’art. 163 del codice di rito.
Emergendo il nuovo contrasto sull’argomento, la questione venne rimessa
nuovamente alle sezioni unite, che, con la menzionata sentenza n. 16/SU del 29
gennaio 2000, pur muovendosi nel solco delineato dalla pronuncia n. 4991 del 1987
con riguardo alle premesse sul tema in oggetto - in relazione alla qualificazione
dell’appello non come novum iudicium ma come revisio prioris instantiae, onde la
cognizione del giudice di appello si deve considerare circoscritta alle questioni dedotte
dall’appellante, attraverso l’enunciazione di specifici motivi41 da correlare alla
motivazione della sentenza impugnata42 -, giunge alla diversa soluzione
dell’inammissibilità.
In particolare, con la sentenza in questione si sostiene che l’inammissibilità non è
la sanzione per un vizio dell’atto diverso dalla nullità, ma la conseguenza di particolari
nullità dell’appello e del ricorso per cassazione, e non è comminata in ipotesi tassative
ma si verifica ogniqualvolta – essendo l’atto inidoneo al raggiungimento del suo scopo
38
E’ appena il caso di ricordare che la sentenza poneva riferimento al testo previgente dell’art. 164 cod. proc. civ.
Dai primi commentatori si osservò, tuttavia, che, con riguardo al problema in discorso, non poteva non rilevarsi
come rappresentasse un’incongruenza affermare, prima, che i motivi ex art. 342 cod. proc. civ. si identificavano con
il petitum e che il giudice non poteva portare il suo esame su parti non fatte oggetto di specifiche censure e, poi,
sostenere che la costituzione in giudizio dell’appellato, che in effetti aveva il solo scopo di instaurare validamente il
contraddittorio, sanava anche quei vizi dell’atto di appello che derivavano dalla mancanza dei motivi; in questo
modo sarebbe stato possibile al giudice pronunciare sul merito anche in presenza di un oggetto assolutamente
indeterminato: cfr., in tal senso, GREGORIO (richiamata anche dalla MANCUSO), in nota cit., edita in Giur. it.,
1989, I,1, 1240 e segg., spec. 1244.
40
V., ad es., Cass. 21 aprile 1994, n. 3809; Cass. 22 febbraio 1995, n. 2012; Cass. 29 luglio 1995, n. 8377.
41
Il cui grado di specificità non può essere stabilito, in via generale ed assoluta, una volta per tutte, ma dipende dal
grado di complessità che ha assunto la controversia in primo grado: così riporta il significato della pronuncia la
MANCUSO, in nota cit., edita in Giust. civ., 2006, I, spec. 881. Determinati orientamenti dottrinali ritengono, in
proposito, che la specificità dei motivi, più che alla complessità o meno della motivazione della sentenza impugnata,
deve essere rapportata alla “oggettiva maggiore o minore complessità che la lite ha assunto in primo grado in seguito
alle allegazioni delle parti ed alle iniziative del giudice” (v. SOTGIU, in nota cit., 217, e BESSO, in nota cit., 615).
42
Gli stessi principi si estendono anche all’appello incidentale che si differenzia da quello principale solo per la
forma ed il momento della proposizione, ma non invece per l’appello adesivo diretto ad ottenere la riforma della
sentenza impugnata per le medesime ragioni fatte valere con l’appello principale; tale aspetto rimane limitato ai capi
della sentenza investiti dall’appello principale ed ai motivi posti a sostegno dello stesso: così, ad es., Cass. 28
maggio 2004, n. 10314.
39
14
(che, nel caso, dell’appello, consiste nell’evitare il passaggio in giudicato della sentenza
di primo grado) – non operi un meccanismo di sanatoria; pertanto, essendo
inapplicabile all’atto di citazione di appello l’art. 164, secondo comma, cod. proc. civ.
(riferibile, nel caso sottoposto alle sezioni unite, al testo originario) per incompatibilità
(in quanto solo l’atto conforme alle prescrizioni di cui all’art. 342 cod. proc. civ. è
idoneo ad impedire la decadenza dall’impugnazione e, quindi, il passaggio in giudicato
della sentenza), l’inosservanza dell’onere di specificazione dei motivi, imposto dallo
stesso art. 342, integra una nullità che determina l’inammissibilità dell’impugnazione,
con conseguente effetto del passaggio in giudicato della sentenza impugnata, senza
possibilità di sanatoria dell’atto a seguito di costituzione dell’appellato – in qualunque
momento essa avvenga – e senza che tale effetto possa essere rimosso dalla
specificazione dei motivi avvenuta in corso di causa.
In tali termini, dunque, la Corte di legittimità, nel riportato arresto a sezioni unite,
ha ritenuto che la sanzione dell’inammissibilità sia applicabile ogniqualvolta l’atto di
appello non consenta al giudice di seconda istanza di accedere all’esame del merito
della controversia: tale conseguenza deriva, quindi, per l’atto di appello o con
riferimento al momento in cui è compiuto (quando interviene oltre i termini fissati
dalla legge), o perché contrario ad atti e comportamenti precedenti o contemporanei
alla proposizione dell’atto stesso (nel caso di acquiescenza) oppure, infine, per la sua
difformità rispetto al modello legale che lo prevede (come nell’ipotesi di omessa o
insufficiente specificità dei motivi). Il vizio, nel caso de quo, riguarda, invero,
sostanzialmente la carenza di un elemento che è specifico e caratteristico non di
qualsiasi atto introduttivo di giudizio ma dell’atto introduttivo dell’appello, il cui scopo
preciso è quello di circoscrivere l’ambito della cognizione del giudicante entro confini
ben determinati, determinandosi, in caso di violazione del rispetto di tale requisito,
l’incontrovertibilità della sentenza (inammissibilmente) impugnata.
Dopo questa pronuncia delle sezioni unite la giurisprudenza si è successivamente
assestata sulla posizione da essa scaturente, riconfermandosi – a più riprese43 - che i
motivi di appello, a norma dell’art. 342 cod. proc. civ., devono essere specifici e, cioè,
rivolgere alla sentenza impugnata censure puntuali e precise, al cui esame resta
delimitato l’ambito della cognizione in sede di gravame, senza possibilità di
ampliamenti successivi, la cui inammissibilità può e deve essere rilevata d’ufficio
(anche in sede di legittimità, con conseguente declaratoria d’ufficio del giudicato
interno formatosi sulla pronuncia di primo grado44), senza che rilevi la circostanza di
un’eventuale accettazione del contraddittorio da parte dell’appellato sia in ordine ad
un atto di appello sprovvisto ab origine di sufficienti motivi specifici che con riguardo
alle eventuali integrazioni introdotte successivamente. Recentemente45 è stato
puntualizzato che la specificità dei motivi richiesta dagli artt. 342 e 434 cod. proc. civ.
è verificabile dal giudice di legittimità direttamente, riconducendo la censura
nell’ambito degli errores in procedendo, attraverso l’interpretazione autonoma dell’atto di
appello, fermo restando che il giudizio di appello ha natura di revisio prioris instantiae e
43
Cfr., ad es., Cass. 11 giugno 2001, n. 7849; Cass. 30 luglio 2001, n. 10401; Cass. 25 luglio 2005, n. 15558; Cass.
24 marzo 2006, n. 6630.
44
V. Cass. 21 gennaio 2004, n. 967.
45
Cfr. Cass. 24 novembre 2005, n. 24817.
15
non di novum iudicium, e che la cognizione del giudice rimane circoscritta alle questioni
dedotte dall’appellante attraverso l’enunciazione di specifici motivi, sicché
l’inammissibilità del gravame derivante da tale violazione non è sanabile per effetto
dell’attività difensiva spiegata nel corso del giudizio.
I prevalenti orientamenti dottrinali si sono schierati in senso critico nei confronti
della sentenza n. 16/SU del 2000, soprattutto con riferimento all’individuazione del
tipo di conseguenza invalidante discendente dall’atto di appello carente del requisito
della specificità dei motivi e, ancor di più, della ritenuta impossibilità dell’operatività di
alcun meccanismo di sanatoria.
Il settore più tradizionale della dottrina - che attribuisce alla proposizione
dell’appello effetto devolutivo pieno – ha rilevato che, ricorrendo la predetta
eventualità, dovrebbe parlarsi di mera irregolarità sanabile senza limiti di tempo, non
trascurandosi l’importante dato secondo cui l’art. 342 cod. proc. civ. non commina
alcuna sanzione esplicita per la citazione in appello carente o insufficiente
nell’indicazione dei motivi, onde non dovrebbe essere lecito ravvisare l’applicabilità di
una sanzione più grave (riconducibile all’area dell’invalidità) nell’assenza di una
previsione specifica in tal senso46.
Altro, più consistente, filone dottrinale47 si è schierato per l’affermazione
dell’applicabilità della nullità. In special modo, da parte dei fautori di questo indirizzo,
viene sostenuto che, non essendo la sanzione dell’inammissibilità prevista dalla legge,
il vizio conseguente all’omissione dei motivi debba essere considerato non come
impeditivo dell’introduzione del giudizio, ma semmai impeditivo della pronuncia – e,
perciò, riconducibile, alla nullità – nei soli casi in cui avendo riguardo anche alla
genericità delle conclusioni, l’atto risulti inidoneo al conseguimento dello scopo,
potendo, nelle altre ipotesi, il vizio essere ricollegato ad una semplice irregolarità,
46
Secondo SASSANI, in Orientamenti della Riv. dir. proc., cit., spec. 515, “per sua natura, una difformità non
sanzionata configura mera irregolarità, a meno che proprio da tale difformità non discenda la concreta inidoneità
dell’atto a raggiungere il suo scopo (art. 156, comma 2): qui invece la nullità viene affermata a priori
indipendentemente e prima di fissare il quid inattingibile dell’atto di appello genericamente motivato, quel quid che
integrerebbe la fattispecie dell’art. 156, comma 2”. Anche RASCIO (in nota cit. a Cass. 19 gennaio 1999, n. 464, in
Foro it., 2000, I, 218 e segg., spec. 224 e 226) si mostra contrario all’applicazione della “sanzione molto più rigida”
costituita dall’inammissibilità in quanto essa richiederebbe, “considerata l’esistenza nel codice di rito di una
disciplina generale dei difetti formali degli atti processuali, l’espressa previsione di legge alla cui mancanza non può
certo sopperire l’opera dell’interprete”; pertanto, il citato autore conclude nel senso che “effettivamente risulta
preferibile la tesi che dall’omessa o insufficiente motivazione fa discendere la mera irregolarità della citazione, con
cui viene proposto il gravame; i motivi, infatti, non rientrano tra i requisiti formali “indispensabili” per lo scopo
dell’atto, questo potendosi conseguire anche per altra via, diversa dall’accoglimento delle doglianze eventualmente
mosse contro la sentenza”. Inoltre, anche SCHIAFFINO – in Omessa specificazione dei motivi nell’atto di appello:
nullità o irregolarità?, in Riv. dir. proc., 1983, 137 e segg. – parla, pur affermando che i motivi non sono l’oggetto
del riesame ma l’elemento ragionativo e giustificativo della domanda di riforma (ossia la causa petendi della
domanda stessa), di “atto giuridicamente valido, e semplicemente irregolare”: in particolare, con riferimento alle
conseguenze, evidenzia che “nel caso di irregolarità attinenti a requisiti dovuti in quanto utili, ma non necessari,
opera una semplice regolarizzazione degli stessi secondo l’art. 182, comma 1, nonché 350 c.p.c.”; pertanto, l’omessa
specificazione dei motivi configura una semplice irregolarità dell’atto introduttivo, non incidente sulla validità
processuale, essendo l’indicazione dei motivi utile soltanto affinché l’atto di impugnazione acquisti serietà di
argomentazione logico-descrittiva e non essendo tale requisito condizione per il raggiungimento dello scopo
dell’atto di appello. Per la tesi dell’irregolarità si era schierato anche FICI, Ancora sulla specificità dei motivi
d’appello, in nota a Cass. 27 giugno 1981, n. 4196, in Giust. civ., 1982, I, 190 e segg. .
47
Anche sull’onda dei principi propugnati dalla precedente sentenza delle sezioni unite n. 4991 del 1987 (cui si
erano aggiunte ulteriori pronunce, come, ad es., Cass. 8 febbraio 1996, n. 1008; Cass. 27 febbraio 1996, n. 1535;
Cass. 1° settembre 1997, n. 8343 e Cass. 27 febbraio 1998, n. 2149).
16
suscettibile di regolarizzazione ai sensi dell’art. 182, comma primo, del codice di rito48.
L’aspetto sul quale, tuttavia, questa dottrina si è dimostrata contraria all’indirizzo più
recente della giurisprudenza – al di là della perplessità circa la qualificazione
dell’inammissibilità come categoria della nullità49 - ha riguardato l’asserita insanabilità
dell’invalidità dell’atto di appello affetto dal vizio in questione, poiché – una volta
ricondotti gli effetti nell’alveo della nullità – dovrebbe risultare univocamente
applicabile l’art. 164 cod. proc. civ., in relazione ai vizi dell’atto introduttivo
concernenti l’editio actionis50. Tale norma, nella sua versione originaria, stabiliva un
meccanismo di sanatoria fondato sulla costituzione spontanea dell’appellato; nel testo
attualmente vigente, invece, prevede che il giudice conceda all’attore un termine
perentorio per rinnovare la citazione oppure, se il convenuto è costituito, un termine
per integrare la domanda, ferme restando, però, le decadenze maturate e salvi i diritti
quesiti anteriormente alla rinnovazione o all’integrazione. In ogni caso, la sanatoria
opera con efficacia ex nunc. Pertanto, in virtù del generale richiamo operato dall’art.
359 cod. proc. civ. alla disciplina per il processo di cognizione di primo grado, all’atto
di appello viziato da omessa o insufficiente indicazione dei motivi specifici sarebbe
applicabile il cit. art. 164, commi quarto e quinto, ossia esso sarebbe da considerare
allo stesso modo di una domanda giudiziale difettante degli elementi di fatto e di
diritto che ne costituiscono le ragioni: ricorrendo tale eventualità, il giudice dovrebbe
concedere all’appellante un termine perentorio per rinnovare la citazione o, qualora
l’appellato si sia già costituito, per depositare memorie integrative, consentendogli di
specificare, in tal modo, le censure proposte contro la pronuncia oggetto del gravame.
Altra più recente corrente scientifica51 – che pure può inscriversi essenzialmente in
quest’ultimo orientamento – ha cercato di offrire un quadro sistematico ricostruttivo
della disciplina dell’atto di appello carente dei motivi specifici, delineando le seguenti
argomentazioni: l’atto, munito dei requisiti afferenti alla vocativo in ius e mancante della
causa petendi dell’impugnazione, incardina il giudizio di appello, senza però
interrompere il decorso del termine per il passaggio in giudicato della sentenza,
giacché nessuna parte di questa risulta validamente impugnata. Il giudice
dell’impugnazione, rilevato il vizio: a) ove in quel momento siano decorsi i termini per
l’impugnazione e la parte non abbia provveduto nei termini a sanare la nullità
attraverso l’integrazione o la rinnovazione spontanee, dichiara l’inammissibilità
dell’impugnazione per avvenuto passaggio in giudicato della sentenza; b) ove in quel
momento siano decorsi i termini e la parte abbia preventivamente provveduto a
sanare il vizio spontaneamente, mediante l’integrazione o la rinnovazione, il vizio
perde rilevanza e la nullità non può essere dichiarata; c) ove in quel momento non
siano decorsi i termini e la parte non abbia provveduto a sanare il vizio di propria
48
In questo senso v., soprattutto, MANDRIOLI, Diritto processuale civile, II, cit., 458-459, nota 55) e, in
precedenza, VELLANI, op. cit., 718 e segg. .
49
V. DE CRISTOFARO, op. cit., 750 e segg. .
50
V., sul punto, BALENA, Nuova pronuncia delle sezioni unite sulla specificità dei motivi di appello: punti fermi e
dubbi residui, nonché PROTO PISANI, In tema di motivi specifici di impugnazione, in nota a Cass., sezioni unite, n.
16/SU del 2000, edite in Foro it., 2000, I, 1607 e segg. . Sulla stessa linea si colloca sostanzialmente anche
BARONE, Omessa specificazione dei motivi e inammissibilità dell’appello:intervento chiarificatore delle sezioni
unite, in nota ult. cit. .
51
Riconducibile al POLI, in op. cit., 489-492.
17
iniziativa, ordina la rinnovazione o l’integrazione dell’atto entro un termine perentorio
ricompreso nel termine per impugnare previsto dalla legge; a questo punto possono
verificarsi varie eventualità: aa) se la parte impugnante ottempera nei termini, il vizio è
sanato e la nullità non può essere dichiarata; bb) se la parte non ottempera nei termini,
il giudice dichiara l’inammissibilità dell’impugnazione per avvenuto passaggio in
giudicato della sentenza o, comunque, se i termini non sono ancora decorsi, per
assoluta inidoneità dell’atto – inidoneità non sanata e non più sanabile52 - a
rappresentare esercizio del potere di impugnazione; in quest’ultima ipotesi, la
dichiarazione di inammissibilità comporta la preclusione della riproponibilità
dell’appello e la sentenza passa in giudicato al momento della scadenza del termine,
salvo il caso di proposizione di altra impugnazione ordinaria.
Secondo questa opinione dottrinale, la riferita disciplina appare come quella più
aderente al dato normativo e al nostro sistema giuridico delle invalidità degli atti,
nonché come la regolamentazione maggiormente in grado di armonizzare, con più
spiccata sensibilità, i contrapposti interessi delle parti coinvolte nel giudizio di appello.
Nel panorama dottrinale, infine, non potevano mancare le voci53 essenzialmente
adesive alla ricostruzione operata dalle sezioni unite nella sentenza n. 16/SU del 2000,
fondate sui presupposti della peculiarità del giudizio di appello, della particolare
funzione demandata al requisito della specificità dei motivi, dell’inadattabilità al caso
in questione dell’efficacia espansiva della disciplina del giudizio di primo grado ai sensi
dell’art. 359 cod. proc. civ., della valorizzazione della conseguenza della formazione
dell’incontrovertibilità del giudicato nel caso di atto introduttivo del giudizio di
appello inidoneo ad instaurare il rapporto giuridico processuale ed a consentire di
accedere all’esame del merito nei limiti del devoluto. Del resto chi54 ha perorato la tesi
dell’inammissibilità ha evidenziato che nella Proposta di riforma parziale del processo
civile55 (recepita nel disegno Vassalli, dal quale è derivata la legge di riforma n. 353 del
1990) era stato previsto proprio che l’enunciazione dei motivi dovesse essere
prescritta “a pena di inammissibilità”.
4.- Conclusioni.
Dalle complessive argomentazioni che precedono possono trarsi alcune
conclusioni che, malgrado la varietà delle impostazioni logico-giuridiche delle
molteplici opinioni dottrinali sviluppatesi sui temi esaminati, consentono di ritenere
come maggiormente fondate sugli stessi le posizioni sulle quali si è andata nel tempo
assestando la giurisprudenza.
Dopo la riforma del 1990 il giudizio di appello si è certamente evoluto verso la
struttura di una revisio prioris instantiae, avvalorata sintomaticamente – come già
ricordato - dal sopravvenuto superamento dell’automaticità dell’effetto devolutivo,
52
Sulla scorta dello stesso principio che informa la disposizione del secondo comma dell’art. 331 cod. proc. civ.
V., soprattutto, LUISO, Diritto processuale civile, Milano, 1997, 333 e segg., nonché CONVERSO, op. cit., spec.
670 e segg.; anche DE CRISTOFARO, op. cit., 754 e segg., sostiene che l’atto di appello carente di motivi specifici
sarebbe qualificabile direttamente in termini di inammissibilità, quale figura autonoma di invalidità, insuscettibile di
sanatoria, salva la riproposizione dell’atto prima della dichiarazione di inammissibilità e nel rispetto dei termini.
54
TARZIA, op. cit., 301.
55
Riportata in Giur. it., 1998, IV, 257 e segg.
53
18
dalle limitazioni all’effetto sostitutivo e dall’utilizzazione dell’appello come mezzo di
impugnazione per far valere le nullità del procedimento e della sentenza di primo
grado.
Bisogna osservare che la sola mancata prefigurazione normativa dei motivi – dalla
quale deriva l’inquadramento di questo rimedio nei mezzi di impugnazione a “critica
libera” – non appare, ormai, idonea a ricondurre questo mezzo, con riferimento al
suo oggetto, alla controversia e, quindi, al rapporto litigioso affrontato nel giudizio di
prime cure. Pur risiedendo la principale differenza tra l’appello e gli altri mezzi di
impugnazione nella circostanza della mancata previsione per esso di una precisa
delimitazione dei motivi di censura (invece ricorrente per gli altri rimedi impugnatori)
e profilandosi, perciò, indeterminato il campo delle possibili doglianze che possono
essere introdotte nel giudizio di appello, il voler riferire l’appello al rapporto
controverso può essere, sul piano teorico, prospettato solo sotto l’aspetto della
latitudine dei motivi che, originandosi da esso, la parte soccombente può far valere,
ma a condizione, però, della specifica indicazione delle ragioni di censura della
sentenza gravata56, così come prescritto dal primo comma dell’art. 342 del codice di
rito. Perciò, l’appello si correla direttamente piuttosto alla sentenza impugnata anziché
al rapporto oggetto della cognizione in primo grado, poiché è la sentenza stessa che,
invero, costituisce l’oggetto che viene a cadere sotto l’immediata percezione e
valutazione del giudicante in grado di appello. Del resto, qualsiasi mezzo di
impugnazione si caratterizza per essere, differentemente dalla domanda giudiziale,
finalizzato, in modo immediato, alla critica di un provvedimento giurisdizionale
ritenuto ingiusto od erroneo, e non già all’esigenza di contrastare un’altrui pretesa che
si ritiene infondata. Pertanto, pur non senza sottovalutare l’elemento del passaggio al
giudice superiore della cognizione della causa conosciuta dal primo giudice, appare,
però, evidente che il rapporto tra i due gradi si incentra, comunque, su una sentenza
emessa ed è, quindi, riconducibile ad un rapporto di impugnazione57. Questa
asserzione è confermata dal disposto dell’art. 339 cod. proc. civ., il quale individua
nella sentenza impugnata il provvedimento verso cui deve indirizzarsi l’appello, ed in
relazione al quale si svolge l’attività cognitiva del giudice di seconda istanza. Ciò sta a
significare che è attraverso la decisione di primo grado che la controversia viene
sottoposta all’esame del giudice di appello, nei limiti individuati dalla parte
56
Del resto sarebbe inidoneo a svolgere la funzione che gli è propria l’atto di appello che si limitasse a denunciare la
(sola) ingiustizia della sentenza di primo grado (v., ad es., Cass. 16 febbraio 1974, n. 431 e Cass. 28 marzo 1974, n.
877). Oltretutto – si osserva in dottrina (FAZZALARI, Il processo ordinario di cognizione. 2 Impugnazioni, cit.,
36) – l’ingiustizia deve comunque consistere nel vizio di uno degli elementi della sentenza impugnata.
57
V., in tali termini, SATTA-PUNZI, Diritto processuale civile, Padova, 1993, 487. Non mancano, peraltro, recenti
interventi scientifici che configurano l’appello come un’impugnazione avente congiuntamente e cumulativamente ad
oggetto la sentenza gravata e il merito della controversia su cui il giudice è sempre chiamato a rendere una nuova
decisione: in questa direzione si collocano le posizioni di DE CRISTOFARO, op. cit., 761 e POLI, op. cit., 448.
Recenti orientamenti (cfr., per tutti, MANCUSO, op. cit., spec. 889-890) collocano l’appello in una posizione, per
così dire, intermedia, ovvero in una zona di confine tra il gravame e l’impugnazione in senso stretto, perché come
un’impugnazione in senso stretto necessita di doglianze specifiche contro la pronuncia impugnata e tali da
giustificare il riesame del merito, mentre, come un mezzo di gravame, non è strutturato in modo da distinguere una
fase rescindente ed una fase rescissoria ed, anche in caso di conferma della pronuncia appellata, la sentenza che lo
definisce è sempre sostitutiva di quella di primo grado.
19
appellante58. Peraltro, nell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, si è pure
ravvisata la ragione giustificatrice della rilevata diversità di regime rispetto alle altre
impugnazioni, con riferimento all’ampiezza e all’indeterminatezza dei motivi, nella
individuata mancanza, nel giudizio di appello, di una separazione tra fase rescindente e
fase rescissoria, con la conseguenza che, una volta procedutosi al positivo riscontro
dei vizi denunciati, deve, in ogni caso, seguire (salve le eccezioni previste dalla legge:
cfr. gli artt. 353 e 354 cod. proc. civ.) l’emanazione di una nuova pronuncia che ne sia
immune e che rimane soggetta al solo controllo di legittimità mediante la possibile
proposizione del ricorso per cassazione.
In altri termini, è nella funzione dell’appello e nei poteri che al giudicante vengono
demandati dalla legge in relazione alla decisione emessa ed impugnata (in attuazione
del principio del doppio grado di giudizio) che si rinviene il vero elemento distintivo
di questo mezzo di impugnazione ordinario rispetto alle altre impugnazioni. In
definitiva, alla stregua di queste complessive riflessioni, rimane riconfermato – in
sintonia con la ormai pacifica giurisprudenza sul punto – che, in ordine al giudizio di
appello, la decisione di primo grado debba essere considerata come l’oggetto proprio
e diretto del riesame devoluto al giudice in detta sede di gravame.
Conseguentemente, continua a non convincere l’orientamento ancora propugnato
dalla dottrina predominante59, secondo cui l’appello sarebbe revisio prioris instantiae ma
solo nel senso che un giudizio già dato ne fissa i limiti, “nel senso cioè che oggetto
(normale) del giudizio di merito del giudice sono le questioni già appartenute alla
materia del contendere di primo grado, decise (o assorbite) e trasferite al secondo
giudice in virtù della espressa devoluzione compiutane ai sensi dell’art. 346 cod. proc.
civ. Ma non per questo si può dire che ad oggetto del giudizio assurgono le soluzioni
date dal primo giudice a tali questioni… Infatti, la struttura logica dell’impugnazione
impone comunque (…) che il giudizio espresso dal giudice sia sempre plenum judicium,
non potendo esso mai risolversi nel giudizio su giudizio caratterizzante le
impugnazioni a struttura critica, dove è postulata l’attribuzione al controllore di poteri
più limitati di quelli del controllato. L’acclaramento dell’errore del giudice di primo
grado non ha, in sé preso, rilevanza alcuna, non possedendo autonomia il giudizio
rescindente del secondo giudice: la sostitutività dell’impugnazione impone sempre un
novum judicium, in cui il rescissorio assorbe il rescidente”.
Qualificato il giudizio di appello come giudizio volto a contrastare la sentenza
impugnata invece che come iudicium novum con effetto devolutivo generale ed
illimitato, la giurisprudenza60 sviluppatasi nell’ultimo ventennio ne ha fatto
giustamente conseguire che, ai fini della validità dell’atto introduttivo di tale giudizio
(per valorizzare il suo elemento caratterizzante consistente nella necessaria
58
Già nella sentenza delle sezioni unite n. 4991 del 1987 la Corte attribuiva al giudizio di appello la funzione di
revisio prioris instantiae, escludendone di riflesso il ruolo di “secondo primo grado”, sul presupposto dell’esistenza
innegabile di una sentenza che si frapponeva fra le posizioni delle parti ed il giudice di appello, cosicché,
ontologicamemte, il concetto di impugnazione implicava “combattimento” di tale sentenza; conseguentemente, per
ottenerne la riforma diventava necessario illustrare perché la si riteneva ingiusta al fine di mostrare dove il
ragionamento che essenzialmente la sorreggeva era inaccettabile.
59
V., per tutti, SASSANI, in Orientamenti, cit., 513, al quale si riferiscono le espressioni virgolettate che seguono
nel testo.
60
V., per tutte, Cass. , sezioni unite, n. 16/SU del 2000, cit; Cass. 20 agosto 2003, n. 12218 (in Foro it.,2003, I, 3330
e segg.) e, da ultimo, Cass. 24 marzo 2006, n. 6630, cit.
20
prospettazione dei motivi specifici così come imposto dall’art. 342, comma primo,
cod. proc. civ.), occorre non solo adempiere all’individuazione delle statuizioni
concretamente impugnate e dei limiti dell’impugnazione, bensì pure all’esposizione
delle ragioni volte a confutare le argomentazioni che sorreggono la decisione
impugnata, onde – come già reiteramente evidenziato in precedenza – alla cosiddetta
parte volitiva dell’appello si deve accompagnare una corrispondente parte
argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. In questa
prospettiva, dunque, l’onere di specificazione dei motivi si concreta nella
indispensabilità che il gravame sia in grado di porre in discussione il fondamento della
pronuncia impugnata e che, a questo scopo, l’appellante delimiti l’oggetto delle
proprie censure nella scorretta soluzione di almeno una questione in rapporto causale
con la sentenza emessa all’esito del giudizio di prima istanza, ovvero nella
prospettazione di un nuovo aspetto, sempre collegato con la sentenza impugnata, che
possa essere idoneo ad invertire la conclusione decisoria adottata dal primo giudice.
Diversamente, a fronte dell’espressa volontà legislativa (emergente dal combinato
disposto degli artt. 346 e 342, primo comma, cod. proc. civ.) diretta a circoscrivere la
devoluzione in funzione dell’iniziativa della parte appellante, il gravame così
interposto non può essere ritenuto valido, perché in concreto incapace di porsi come
fonte di qualsivoglia effetto devolutivo in ordine ai poteri cognitori del giudice di
appello61.
Le sezioni unite, con la sentenza n. 16/SU del 2000, hanno individuato
nell’inammissibilità la conseguenza sanzionatoria dell’omessa o insufficiente
esposizione dei motivi specifici a sostegno dell’appello, sottolineando l’impossibilità
della verificazione di ogni meccanismo sanante, sul presupposto che i motivi –
orientati all’identificazione dei punti investiti dall’impugnazione e delle ragioni per le
quali si invoca la riforma della decisione - devono essere tutti specificati nell’atto di
appello (con cui si consuma il diritto di impugnazione), sicché restano precluse nel
corso dell’ulteriore attività processuale sia la precisazione di censure esposte nell’atto
di appello in modo generico che la possibilità di ampliamenti successivi delle
doglianze originariamente dedotte.
Anche questo approdo della Suprema Corte – avallato, senza alcuna deviazione,
da tutta la successiva giurisprudenza occupatasi della questione – appare sorretto da
un solido fondamento62.
61
In tal senso si sono schierati anche acuti orientamenti dottrinali: cfr., ad es., DE CRISTOFARO, op. cit., 756 e
CONSOLO, La rimessione in primo grado e l’appello come gravame sostitutivo (una disciplina in crisi), in Jus,
1997, 93 e segg.
62
Anche alcuni settori scientifici hanno aderito a tale soluzione, prospettandola ancor prima che si pronunciassero
per la seconda volta, nel 2000, le sezioni unite: così CONSOLO, op. ult. cit., si era schierato per l’inammissibilità
dell’appello carente dei motivi (specifici), facendo leva sul fatto che, oramai, in “una concezione strutturale
dell’appello come revisio prioris instantiae il ruolo dei motivi e la loro specificità assurge alla funzione di
individuare davvero l’oggetto della nuova pronuncia, vale a dire di circoscrivere – al modo di una apposita domanda
– il compito di sindacato rimesso al nuovo giudice nei confronti direttamente della sentenza appellata”; anche
BESSO (Note in tema di specificità dei motivi di appello, in nota a Cass., sezioni unite, 6 giugno 1987, n. 4991,
edita in Riv. dir. proc., 1989, 602 e segg., cit, spec. 622) aveva concluso per la sanzione dell’inammissibilità sia pure
facendo conseguire l’inammissibilità dalla radicale nullità dell’atto per inidoneità al raggiungimento dello scopo, ex
art. 156, comma secondo, cod. proc. civ., impostazione questa essenzialmente ripresa dalla Cassazione proprio nella
successiva sentenza delle sezioni unite n. 16/SU del 2000.
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E’ vero che – come sostenuto anche da autorevole dottrina63 - l’inammissibilità
non viene né definita dall’ordinamento positivo né ad essa è dedicata una disciplina
apposita che preveda, tra l’altro, le conseguenze che dalla stessa derivano: tuttavia, pur
non essendo un istituto previsto in generale per tutte le impugnazioni, esso è
contemplato in specifiche ipotesi relative proprio ai mezzi di impugnazione64 e la sua
operatività è correlata significativamente alla configurazione di vizi attinenti all’atto
introduttivo del processo di impugnazione, il quale dovrebbe contenere determinati
elementi e, invece, ne risulti difettante. Da questi elementi di diritto positivo discende,
perciò, che l’inammissibilità costituisce un effetto sanzionatorio operante sul piano
giuridico in relazione all’atto che instaura il rapporto giuridico processuale
impugnatorio che, in quanto tale, si prospetta come insanabile, o sanabile all’origine
ma in concreto non sanato65: da ciò deriva che essa si attaglia ai vizi che riguardano
proprio il rito dell’appello e che, perciò, è suscettibile di essere applicata allorquando la
sussistenza dei vizi medesimi impedisce al giudice superiore di accedere all’esame del
merito. Nel momento in cui si individua in queste ragioni il fondamento della
categoria dell’inammissibilità, la stessa può dirsi suscettibile di applicazione analogica
in tutti i casi in cui si riscontri l’eadem ratio, che ricorre con riferimento all’atto di
appello sprovvisto di motivi specifici (perché assolutamente omessi o inidoneamente
o insufficientemente dedotti): in quest’ottica, dunque, l’appellante, omettendo o non
specificando bastevolmente le censure avanzate avverso la sentenza di primo grado,
non offre al giudice di seconda istanza “il materiale di cognizione” su cui lo stesso
deve, poi, esercitare e concentrare i suoi poteri cognitori e decisori, onde l’atto di
appello – che pur individuando il thema decidendum non sia integrato dall’enucleazione
specifica dei motivi della discussione relativa all’impugnazione esperita66 – non
consente a detto giudice di sindacare il merito del devoluto. Appare, perciò,
consequenziale ritenere che, alla stregua della funzione che la specificità dei motivi
assolve in rapporto alla delineata struttura di un mezzo impugnatorio come l’appello e
all’effetto del passaggio in giudicato della sentenza impugnata che dalla sussistenza di
63
Cfr. LUISO, Diritto processuale civile, cit., 333.
Come nelle ipotesi di cui all’art. 331 cod. proc. civ. in tema di cause inscindibili o tra loro dipendenti o di quelle
previste negli artt. 365, 366 e nel nuovo art. 366 bis cod. proc. civ. , con riferimento al ricorso per cassazione.
65
V., sempre, LUISO, op. ult. cit. .
66
E quindi trascura di fornire al giudice “le armi” per combattere la statuizione che lo ha visto soccombere in primo
grado: cfr., ancora. LUISO, op. ult. cit. .
64
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quel vizio essenziale deriva in dipendenza dell’impossibilità di accedere alla
valutazione nel merito dell’impugnazione, appare improspettabile l’attuazione di
qualsiasi successiva condotta sanante67, essendosi con l’atto di appello (così viziato)
consumato lo stesso diritto di impugnazione, imponendo il principio della
consumazione dell’appello la necessaria concentrazione in un unico atto del suo
contenuto.
(Red. Aldo Carrato)
Il direttore
(Giovanni Canzio)
67
Parte della dottrina (cfr. MANCUSO, op. cit.,887) ha rilevato che la stessa impostazione seguita nella sentenza
delle sezioni unite n. 4991 del 1987 – propugnante la tesi della nullità sanabile – non aveva tenuto conto di un
aspetto tutt’altro che secondario, ovvero che l’art. 342 cod. proc. civ., nell’indicare il contenuto dell’atto di appello,
prevede che i “motivi specifici” si aggiungano alle indicazioni prescritte dall’art. 163 cod. proc. civ.; pertanto,
mentre la carenza delle indicazioni afferenti all’editio actionis può essere oggetto di sanatoria in virtù del
meccanismo previsto dall’art. 164 dello stesso codice di rito, non così può dirsi per la mancata indicazione dei
motivi specifici, requisito questo che è peculiare e tipico dell’atto di appello e non di qualunque atto introduttivo,
donde la configurabilità della conseguenza sanzionatoria più pertinente della inammissibilità.
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Riferimenti normativi
cod. proc. civ., artt. 342, 329, comma secondo, e 346
Riferimenti giurisprudenziali
Vedi:
198704991 rv 453610 SU
199309628 rv 483813 SU
200000016 rv 533632 SU
200528498 rv 586371 SU
200528498 rv 586372 SU
198305322 rv 430239
198307189 rv 431791
198600076 rv 443728
198603816 rv 446659
198607158 rv 449235
199402247 rv 485616
199403809 rv 486320
199502012 rv 490629
199504953 rv 492142
199506066 rv 492577
199508377 rv 493494
199700355 rv 501767
199704368 rv 504440
199707888 rv 507009
199910493 rv 530225
199912694 rv 531173
200009867 rv 538855
200107849 rv 547365
200110401 rv 548625
200210681 rv 556049
200211935 rv 556803
200300325 rv 559640
200306803 rv 562640
200307769 rv 563270
200310937 rv 564994
200312218 rv 566032
200400967 rv 569542
200405696 rv 571380
200414251 rv 575027
200511781 rv 582028
200515558 rv 583346
200520287 rv 585198
200524817 rv 585730
200527727 rv 585989
200601108 rv 586540
200606630 rv 588312
200611372 rv 589807
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Eventuale riferimento a precedenti sullo stesso argomento
- segnalazione di contrasto n. 19 del 15 febbraio 1995 – red. Spirito
- segnalazione di contrasto n. 79 del 26 luglio 1995 – red. Spirito
- relazione su contrasto n. 64 del 17 luglio 1998 – red. Bucciante
- informativa su avvenuta risoluzione di contrasto n. 19 del 22 febbraio 2000 - red. Civinini
- relazione n. 37 del 28 febbraio 2005 – red. Petitti
- relazione sullo stato della giurisprudenza n. 69 del 1° aprile 2005 – red. Carluccio
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