1 1. Freud e le origini della psicoanalisi 2. L`opera di Freud e la

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1. Freud e le origini della psicoanalisi
2. L’opera di Freud e la situazione attuale della psicologia
3. La psicoanalisi nella cultura moderna
1. Freud e le origini della psicoanalisi
Sono trascorsi cento anni dalla nascita di Sigmund Freud, di colui che con
la invenzione di quell’insieme di metodi, e con la enunciazione di quel
complesso di dottrine, che vanno sotto il nome di psicoanalisi, doveva
radicalmente rivoluzionare la moderna psicologia e psichiatria e suscitare nel
mondo della cultura tante polemiche e contrasti.
Sigmund Freud nacque infatti il 6 Maggio 1856 a Freiberg in Moravia. Egli
si trasferì ancora bambino con la famiglia a Vienna, e visse colà tutta la sua
lunga ed operosa vita. Solo nel 1938, ormai vecchio e famoso, fu costretto,
dopo l’annessione dell’Austria alla Germania, ad emigrare a Londra per
sfuggire alle persecuzioni razziste, e a Londra morì l’anno successivo.
La vita di Freud si identifica con lo sviluppo della psicoanalisi. Questa
dottrina è infatti in tutti i suoi elementi essenziali opera esclusivamente sua, ed
egli fu per gran tempo un pensatore isolato. Solo verso il 1910 si raccolsero
attorno a lui altri studiosi e collaboratori, che finirono col dare origine ad un più
vasto movimento di indagini, comprendente oggi diverse migliaia di
psicoanalisti, raggruppati nelle Società psicoanalitiche dei vari paesi, tutte
federate nella International Psychoanalytical Association.
La identificazione della vita di Freud con lo sviluppo della psicoanalisi
risulta evidente quando si esaminino: l’autobiografia che Freud stesso ha
scritto nel 1925 e le varie esposizioni storielle che egli in vari tempi ha fatto
della evoluzione della psicoanalisi. Non vi è alcuna sostanziale differenza fra la
materia dell’uno e degli altri scritti, ed egli avrebbe potuto invertirne i titoli
senza provocare disorientamenti nei lettori.
Così anche noi possiamo, per esporre l’origine della psicoanalisi,
cominciare a parlare della vita di Freud.
Laureatosi in medicina, si dedicò in principio a studi puramente teorici di
fisiologia ed anatomia del sistema nervoso. Alcuni suoi lavori in tali campi
ebbero allora una certa risonanza. Egli stesso ricordò sempre volentieri di
essere stato fra i primi a sperimentare le proprietà anestesiche di un alcaloide
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tratto dalla coca, la cocaina, e di averne per primo proposto l’impiego nella
piccola chirurgia e in ispecie nell’oculistica. Costretto per motivi economici ad
abbandonare i puri studi teorici per dedicarsi alla professione medica, si volse
alla neuropsichiatria.
Fra gli ammalati che si presentavano al suo gabinetto di consultazione,
abbondavano individui affetti da quelle forme che oggi si denominano
psiconevrosi. Sono, queste, malattie strane. Si presentano con disturbi molto
vari, che in parte interessano soltanto la sfera psichica (ossessioni, impulsi
coatti, stati fobici, attacchi d’angoscia) in parte riguardano invece funzioni
organiche (anestesie, parestesie, paralisi, vomiti, inibizioni sessuali e d’altro
genere, ecc.). Ma hanno in comune questo carattere: l’esame obbiettivo del
malato non consente la determinazione di alcuna alterazione organica, cosicché
il medico, specialmente quello d’altri tempi, era incline a considerare tali
malattie come puramente apparenti. Disturbi o malattie funzionali venivano
dette, appunto perché apparivano alterazioni delle funzioni, senza un
corrispondente substrato organico.
Si propendeva allora a curare tali malattie mediante l’ipnosi, che era in
quegli anni (circa dal 1880 al 1890) venuta di moda soprattutto per gli studi
compiuti a Parigi da Charcot e dalla sua scuola.
L’impiego della ipnosi si fondava su questo concetto: Questi ammalati - si
diceva – sono in realtà sani, perché sano è il loro organismo. Essi sono
ammalati soltanto perché credono di esserlo. Se si riesce a persuaderli che non
lo sono, che in realtà possono muovere quegli arti che sembrano paralizzati,
che non hanno motivo di temere quelle situazioni che provocano in loro
attacchi fobici, che la loro sensibilità è effettivamente integra, essi dovrebbero
anche guarire. Poiché tuttavia i normali metodi di persuasione (già tante volte
tentati inutilmente dagli stessi malati per vincere da se stessi i loro disturbi)
erano del tutto inefficaci, si poteva cercare di sostituire alla persuasione la
suggestione ipnotica. Ed effettivamente si ottenevano talora, con procedimenti
di questo genere, buoni risultati: il paralitico si alzava e riusciva a camminare,
il vomito incoercibile passava, le situazioni provocatrici degli attacchi
d’angoscia potevano essere affrontate senza timore.
Per studiare meglio questi metodi, Freud si recò nel 1885, con una borsa
di studio, a Parigi e fu per un certo periodo di tempo allievo di Charcot.
Là egli apprese alcuni concetti assai importanti, che gli dovevano più tardi
essere molto utili per lo sviluppo delle sue dottrine.
Anzi tutto un gruppo, fra i più importanti e allora fra i più frequenti, di
questi disturbi, compreso sotto la nozione di isterismo o di isteria, e che la
medicina del tempo riteneva si verificasse solo nelle donne (per cui sembrava
dovesse essere in qualche modo connesso con le funzioni specificamente
femminili) risultava invece una malattia comune tanto alle donne quanto (se
pur più raramente) agli uomini. Inoltre questi disturbi, che venivano dunque
curati con l’ipnosi, apparivano dovuti a meccanismi analoghi a quelli messi in
azione dall’ipnosi stessa. Difatti era possibile con la ipnosi provocare in un
individuo sano le stesse manifestazioni (ad esempio anestesie o paralisi) che
gli ammalati presentavano spontaneamente. Ed era possibile, sempre con la
ipnosi, far scomparire quelle manifestazioni una volta provocate.
L’ipnosi dunque poteva servire non soltanto come strumento terapeutico,
ma anche come modello dei processi che negli ammalati producevano
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spontaneamente i loro disturbi: come se cioè – secondo l’espressione di
Charcot – l’isteria fosse una ipnosi spontanea, e l’ipnosi un’isteria artificiale.
La cosa era molto importante, poiché – dato che l’ipnosi agisce soltanto
per via psichica – anche queste malattie apparivano, in modo certo, come
dovute a processi o meccanismi esclusivamente psichici. Da allora infatti tutti
questi disturbi vennero denominati psicogeni, ossia di origine soltanto psichica.
Rientrato a Vienna, Freud si mise a divulgare nell’ambiente medico
(incontrandovi notevole scetticismo), le idee di Charcot, e ad applicare nella
pratica professionale i procedimenti appresi.
Tuttavia vi erano alcuni inconvenienti. Con alcuni soggetti l’ipnosi non si
produceva affatto, oppure si produceva in forme leggere che non risultavano
sufficientemente
efficaci.
Inoltre
accadeva
che
alcuni
ammalati,
apparentemente guariti col procedimento ipnotico, ricadessero poco tempo
dopo negli stessi disturbi, oppure che ai disturbi eliminati se ne sostituissero
altri analoghi.
Pensando che ciò potesse essere dovuto ad un difetto personale di tecnica,
Freud si recò nel 1889 per un breve periodo a Nancy, dove i procedimenti della
ipnosi e della suggestione venivano praticati e studiati da un’altra scuola,
quella di Bernheim e di Liébault, allora in aspra polemica con Charcot. Ma
dovette constatare che gli stessi inconvenienti si verificavano anche nell’attività
terapeutica di questi altri medici. Il difetto non dipendeva dunque dalla inabilità
dell’operatore, ma dalle intrinseche caratteristiche del metodo stesso.
Fu in seguito a queste delusioni che Freud, rientrato a Vienna, e avuta
notizia da un collega viennese, il dottor Breuer, di un caso di grave isteria da
lui curato, e nel quale si erano prodotti, all’inizio in modo spontaneo, certi
fenomeni che poi favoriti dal medico avevano condotto alla guarigione, si
dedicò, in collaborazione a Breuer, allo studio di questo caso per trarne un
metodo di cura da poter utilizzare anche con altri ammalati.
L’ammalata di Breuer, nel corso della malattia, prima durante certi stati
oniroidi spontanei, e poi durante gli stati ipnotici in lei provocati da Breuer,
aveva comunicato tutto un insieme di pensieri e di ricordi, che erano in stretta
connessione con i suoi disturbi: questi ultimi risultarono una forma, strana e
deformata, di espressione di certe situazioni emotive connesse ai fatti oggetto
di quei pensieri e ricordi. Le rievocazioni di questi fatti (che nel normale stato
vigile erano del tutto dimenticati) e la libera estrinsecazione delle reazioni
emotive connesse aveva portato ad una normalizzazione della ammalata e ad
una scomparsa dei suoi disturbi.
Su questa base Breuer e Freud vollero costruire un metodo terapeutico da
impiegare sistematicamente. Metodo che utilizzava ancora l’ipnosi, non più
però per inibire direttamente i sintomi morbosi, cioè per proibirli, per ordinare
che scomparissero, ma in modo del tutto opposto: per invitare invece il malato
a superare le sue amnesie circa i fatti personali che si riteneva stessero
all’origine dei disturbi, e per consentire attraverso una liquidazione delle
cariche emotive connesse a quei fatti, una liberazione del malato. Il metodo fu
detto appunto catartico, e cioè liberatore.
Il metodo trovava un appoggio teoretico nelle idee che giusto in quel
tempo (1889) venivano enunciate da un grande psicologo e psichiatra
francese, Pierre Janet. Questi aveva potuto stabilire che in determinati soggetti
(proprio negli individui predisposti all’isteria) può verificarsi una specie di
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distacco di determinati nuclei mentali (o complessi di idee) dalla coscienza
propriamente detta. Questi nuclei mentali, così staccati dalla coscienza, non
rimarrebbero per questo annullati, ma potrebbero continuare ad agire come
elementi inconsci: producendo appunto quelle strane manifestazioni che sono i
sintomi isterici. Anche alcuni rari casi di personalità alternante, particolarmente
studiati da Janet, e cioè casi di individui che conducono una sorta di doppia
vita che si alterna nel tempo, così da essere proprio due persone distinte di cui
l’una non sa nulla dell’altra, e quindi con un distinto ed opposto corredo di
ricordi di tendenze e tratti caratterologici, costituivano una prova diretta e
tangibile di questa possibilità di un distacco di dati nuclei dalla comune
personalità cosciente. Nei casi di personalità alternante, i nuclei distaccati si
organizzerebbero in una personalità seconda (che nel tempo si alternerebbe
con quella principale); nei più comuni casi di isteria, questi nuclei staccati
resterebbero invece per così dire disorganizzati: e invaderebbero di tratto in
tratto l’unica personalità cosciente, producendovi le strane manifestazioni
isteriche.
Questa concezione di Janet ben si accordava con le idee di Breuer e Freud:
restava tuttavia da interpretare il perché della scissione della personalità, e
cioè il perché del distacco di dati elementi dalla coscienza. Su questo punto
Breuer e Freud non furono d’accordo, e Freud continuò da solo le sue indagini.
Secondo Freud un tale distacco si compiva perché questi nuclei che
divenivano inconsci, erano in qualche modo – in quanto dolorosi, o
incompatibili con le tendenze generali del soggetto – rifiutate dalla coscienza, e
questo per una specie di automatica difesa della stessa personalità cosciente.
Freud chiamò per questo l’isteria e le altre psiconevrosi, nevrosi da difesa.
Per riportare alla coscienza gli elementi che ne erano distaccati, e così
liquidare la situazione (nel senso stesso del metodo catartico), bisognava
superare le difese del soggetto. Freud all’inizio continuò a servirsi dell’ipnosi;
ma in base alla constatazione che qualche volta l’ipnosi non riusciva efficace, e
che in linea generale essa creava fra il medico e il malato un rapporto che
poteva essere dannoso ai fini di una completa normalizzazione del malato, finì
con l’abbandonarne l’uso e col sostituirvi un altro metodo: il cosiddetto metodo
delle associazioni libere.
Se, anziché collocare l’ammalato in ipnosi, lo si lascia libero e sveglio, ma
si provoca in lui un’atmosfera di fiducia e di distensione, e lo si invita a parlare
comunicando tutto ciò che gli passa per il capo, senza esercitare alcuna forma
di controllo, di scelta e di autocritica su ciò che gli si presenta alla mente, e se
si stabilisce fra medico e malato un rapporto di confidenza e simpatia, pur
restando il medico sempre un po’ distaccato, è assai facile che il malato
spontaneamente comunichi tutto un insieme di materiale (ricordi, pensieri,
impressioni) che in forma diretta o indiretta, più rapida o più lenta, appare
connesso al materiale patogeno, e cioè a quegli elementi che essendo rimasti
staccati dalla personalità cosciente, sono direttamente responsabili dei disturbi.
Naturalmente, nella realtà concreta, le cose sono molto più complicate e
difficili di quanto possa apparire da questa semplice enunciazione. Le difese,
che hanno provocato all’inizio della malattia quel processo per cui alcuni
elementi sono divenuti inconsci, continuano ad agire. E solo poco alla volta
esse si attenuano e lasciano ritornare alla coscienza gli elementi che ne erano
stati scacciati. E inoltre l’ammalato va cautamente aiutato nel superamento di
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queste difese, o resistenze, come tecnicamente sono state chiamate. Ma il
metodo, quando si sappia usarlo, dà i suoi frutti.
Fondamentalmente esso consiste dunque in una progressiva riannessione
alla coscienza di elementi che, in seguito ad un processo di automatica difesa,
ne erano stati espulsi. Una volta effettuata questa riannessione, quegli
elementi cessano di agire automaticamente producendo i sintomi morbosi, ma
sono invece soggetti alla normale elaborazione di tutto ciò che si svolge nella
nostra coscienza. Non esistono infatti sul piano della coscienza problemi
irrisolvibili, conflitti non componibili. Solo ciò che si è sottratto alla coscienza
può agire in senso patogenetico, e produrre quelle manifestazioni abnormi e
per se stesse incomprensibili che sono i sintomi nevrotici.
Per perfezionare il metodo bisognava però risolvere una molteplicità di
problemi: questi riguardavano in parte la tecnica da utilizzare, in parte la
struttura stessa della personalità umana (quale risultava dalla applicazione di
questa tecnica esplorativa, e che d’altronde giustificava lo stesso metodo
esplorativo), e in fine la stessa natura e origine delle forze e tendenze agenti
nella personalità umana e le leggi psicologiche secondo le quali si svolge la loro
azione.
La psicoanalisi, così come Freud è venuto elaborandola – sulla base di un
materiale di osservazione sempre più vasto, e tratto non soltanto dagli
ammalati curati, ma anche da tante altre disparatissime fonti – è appunto tutto
questo. E cioè insieme: una tecnica esplorativa degli strati più profondi e
nascosti della personalità umana (con compiti anche terapeutici, ma non
terapeutici soltanto); una dottrina teorica relativa alla struttura psicologica di
quella personalità; e una sistematica descrizione dei contenuti della vita
psichica e delle loro leggi, non limitata (secondo quelli che erano gli
orientamenti della psicologia tradizionale) alla coscienza, ma estesa anche alle
parti inconsce di quella personalità.
La concezione di uno psichismo inconscio urtava tuttavia contro obbiezioni,
mosse da psicologi e da filosofi. Dicevano, questi, che la caratteristica di ciò
che è psichico, e il suo elemento distintivo rispetto a ciò che psichico non è ma
soltanto materiale, è costituito appunto dalla coscienza. Come è possibile allora
parlare di uno psichismo inconscio? Sarebbe come dire una coscienza senza
coscienza, e dunque qualche cosa di contraddittorio.
Tuttavia l’obbiezione è facilmente superabile in base alla constatazione dei
fatti. Gli stessi fenomeni che si ottengono con l’ipnosi ci danno una tangibile
prova sperimentale della esistenza di processi psichici inconsci. Se ad un
soggetto in ipnosi si ordina ad esempio di eseguire una data azione un certo
tempo dopo il risveglio, e se insieme si invita il soggetto a dimenticare
quest’ordine, accade (per lo più) che il soggetto risvegliato non ricordi nulla di
quanto gli è stato detto, e che ciò nonostante egli, alla scadenza fissata,
esegua quella azione: con l’impressione di farla spontaneamente e per motivi
che egli si costruisce lì per lì, in modo più o meno logico, e che a lui sembrano i
motivi reali della sua condotta. Dunque il proposito, o l’impulso a quell’azione,
inserito nello psichismo del soggetto artificialmente con l’ipnosi, funziona e
produce l’effetto, pur rimanendo inconscio. Anzi: condizione perché l’azione
venga eseguita è proprio l’amnesia del compito che è stato suggerito in ipnosi.
Non ci sarebbe a rigore bisogno di questi cosiddetti compiti postipnotici per
provare l’esistenza di elementi psichici inconsci. Basterebbe infatti por mente a
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tutto l’insieme dei nostri comuni ricordi: i quali indubbiamente esistono in
qualche modo in noi anche quando non li abbiamo attualmente presenti, e che
normalmente possono essere resi in noi coscienti a mano a mano che di essi
abbiamo bisogno.
Ma vi è una diversità in queste due maniere di essere inconsci. L’insieme
dei comuni ricordi è soltanto momentaneamente inconscio, e può senza
eccessivi ostacoli farsi cosciente in qualsiasi occasione; mentre invece i compiti
postipnotici sono inconsci perché una forza particolare (nel caso specifico
l’invito dato in ipnosi a dimenticare) li mantiene tali, e possono divenire
coscienti solo superando un determinato ostacolo (ad esempio mediante un
nuovo compito ipnotico che annulli quell’invito a dimenticare).
Questa differenza è importante per classificare tutto il complesso degli
elementi che costituiscono la nostra vita psichica. In base ad essa, Freud ha
distinto dal sistema della coscienza: il sistema del preconscio (comprendente
gli elementi attualmente latenti ma suscettibili di divenire coscienti senza
difficoltà) e il sistema dell’inconscio propriamente detto (comprendente invece
gli elementi stabilmente inconsci e suscettibili di divenire coscienti solo
mediante un superamento delle forze che li escludono dalla coscienza).
Gli elementi psichici responsabili dei sintomi nevrotici appartengono
all’inconscio propriamente detto; e il processo che li rende inconsci e che
impedisce il loro ingresso alla coscienza, è stato chiamato da Freud processo
della rimozione.
La vita psichica appare pertanto costituita da queste tre province o
sistemi: Coscienza, Preconscio e Inconscio.
Per spiegare però come si producano i processi della rimozione, è
necessario considerare l’apparato psichico, e cioè la personalità umana, anche
da un altro punto di vista.
Vi è in questo apparato un nucleo principale che è organizzato e che è
nella sua massima parte cosciente; esso è ciò che noi avvertiamo come nostro
io; e Freud appunto lo ha chiamato l’Io. E vi è tutto un insieme di elementi che
premono sull’Io, ma che agiscono come se fossero indipendenti da esso. Anche
il linguaggio comune riconosce l’esistenza di questi elementi indipendenti,
quando ad esempio diciamo: “L’ira mi ha sopraffatto”, oppure: “Ho sentito
dentro di me qualche cosa che mi ha costretto ad agire così e così”. Per
mettere in rilievo il carattere impersonale di questi elementi, che agiscono in
noi e su di noi, Freud li ha indicati, nel loro insieme, col termine Es (che è il
pronome neutro impiegato nella lingua tedesca per i verbi impersonali).
L’Es è la grande riserva degli impulsi irrazionali ed istintivi che premono
sulla e nella personalità umana; esso è direttamente collegato alle fonti
organiche di quegli impulsi istintivi. E l’Io, quando l’apparato psichico funziona
normalmente, controlla tali impulsi, e li soddisfa nella misura del possibile,
tenendo conto delle limitazioni imposte dalla realtà obbiettiva.
Ma nel rendersi in tal modo esecutore delle esigenze espresse dall’Es, l’Io
deve anche tener conto di un’altra istanza che agisce all’interno dell’apparato
psichico. È, questa, una istanza normativa, da cui provengono imperativi e
soprattutto proibizioni. Essa comprende in parte quella che suol dirsi la
coscienza morale, ma ha funzioni molto più vaste. Freud la denomina il Super
Io.
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In tal modo le istanze psichiche risultano costituite dall’Io, dall’Es e dal
Super Io.
Questa tripartizione dell’essere umano può apparire strana, ed in
contraddizione con la abituale concezione della personalità come qualche cosa
di unitario. Ma va notato che, soltanto ammettendo una tale pluralità di istanze
agenti con una relativa autonomia in noi stessi (allo stesso modo come
agiscono con una relativa autonomia i vari organi del nostro corpo), è possibile
spiegare l’esistenza di conflitti interiori. Se l’apparato psichico dovesse essere
monoliticamente unitario, non sarebbe mai concepibile alcun conflitto interiore.
E del resto anche il principio di una pluralità di anime distinte, quale si trova
nella antica concezione di Platone (un’anima appetitiva, un’anima passionale
ed un’anima razionale) traeva la sua giustificazione dalla necessità di spiegare i
conflitti e i contrasti fra il senso, la passione e la ragione dell’uomo, e di
concepire dunque la personalità umana, pur nella sua armonia unitaria, come
passibile di interne contrapposizioni e contraddizioni.
La distinzione nei tre sistemi – coscienza, preconscio e inconscio – e quella
delle tre istanze – Io, Es e Super Io – non hanno nulla a che vedere l’una con
l’altra, dato che esse rispondono ad esigenze diverse. L’Io comprende elementi
che appartengono al sistema della coscienza e del preconscio; mentre l’Es è
essenzialmente tutto inconscio, e soltanto riesce a farsi rappresentare nella
coscienza con determinate immagini e sensazioni. Quanto al Super Io, esso è
in parte cosciente (come coscienza morale), ma in gran parte inconscio. Da
esso deriva la stessa rimozione che, sotto forma di difesa dall’Es, mantiene
inconsci molti impulsi da quello provenienti. Da un punto di vista genetico l’Io
stesso deriva dall’Es: è cioè quella parte dell’Es che, nel corso dello sviluppo
della personalità individuale, al diretto contatto della realtà esterna (contatto
assicurato dall’apparato sensorio-percettivo) si è venuta organizzando in forma
coerente e cosciente. Il Super Io è invece una formazione che si costituisce per
un processo di interiorizzazione (che la psicoanalisi ha potuto ben individuare e
studiare) di tutte quelle istanze normative le quali in origine – sotto forma di
educazione familiare, scolastica e sociale (in ampio senso intese) – hanno agito
dall’esterno sulla personalità del bambino e poi dell’adulto. Perciò Freud ha
detto che esso è fondamentalmente l’erede dei genitori, anche se è suscettibile
di modificarsi ed arricchirsi, nel corso della vita individuale, per la consecutiva
azione di molte altre successive autorità.
Nell’individuo normale l’Io riesce abbastanza bene a padroneggiare la
situazione. E fornisce, agendo sulla realtà, parziali soddisfazioni all’Es, senza
violare in forma clamorosa gli imperativi e le proibizioni che provengono dal
Super Io. Ma se da un lato le esigenze dell’Es sono eccessive, o se il Super Io è
troppo debole, o invece troppo rigoroso e poco duttile, allora queste soluzioni
pacifiche non sono più possibili. Può in tal caso accadere che l’Es abbia il
sopravvento e travolga un Super Io troppo debole, e l’Io è condotto allora a
comportamenti asociali o proibiti: il soggetto diventa un delinquente, oppure
qualche volta un perverso. Oppure può accadere che il Super Io troppo rigido
provochi la rimozione, o altri processi di difesa; le istanze dell’Es divenute
inconsce si manifestano allora con dei sintomi nevrotici: questi appaiono come
surrogati di appagamento di quelle istanze dell’Es (e insieme come punizioni
del Super Io), surrogati che in realtà lasciano insoddisfatti tanto l’Es quanto il
Super Io. L’angoscia, che accompagna per lo più tutti i sintomi nevrotici, è
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l’espressione della paura che si produce nell’Io di fronte alle pressioni dell’Es
avvertite come pericolose, e di fronte alle proibizioni del Super Io sentite come
minacciose.
Quando, con la tecnica esplorativa della psicoanalisi, si cerca di mettere in
chiaro queste situazioni e questi conflitti, che si svolgono nel nevrotico a sua
insaputa, si giunge sistematicamente a determinati strani risultati.
Uno di questi è che gli attuali conflitti producenti la nevrosi sono sempre la
riproduzione di conflitti che già nel passato, ed in particolare nell’infanzia,
talora nella primissima infanzia, sì erano prodotti.
L’altro è che le tendenze dell’Es, prementi sull’Io e responsabili di questa
errata soluzione che è la nevrosi, sono essenzialmente tendenze di carattere
sessuale. Si può dare di ciò una interpretazione teorica, tenendo conto che di
tutte le tendenze istintive, quelle maggiormente colpite da interdizioni,
limitazioni e proibizioni (di cui il Super Io si fa portatore) sono, almeno nel
mondo della nostra civiltà, proprio le tendenze sessuali. Ma indipendentemente da qualsiasi interpretazione teorica – questa base sessuale
delle nevrosi è un dato di fatto. Freud e la psicoanalisi sono stati costretti ad
accettarlo, perché la esplorazione analitica conduceva monotonamente e
sistematicamente a questa conclusione.
Da ciò è derivata la necessità per la psicoanalisi di studiare lo sviluppo
degli istinti sessuali. Da un tale studio è risultato che la sessualità, anziché
sorgere, come per lo più si ritiene, ad un certo momento nella vita dell’uomo,
in coincidenza con una determinata maturità organica, e cioè con la pubertà, è
qualche cosa di assai più complesso: che comincia a manifestarsi fin
dall’infanzia con aspetti molto diversi da quelli che essa ha nell’adulto normale,
e che soltanto a poco a poco, attraverso varie fasi, viene faticosamente
organizzandosi ed assumendo i suoi aspetti definitivi. La maggior parte dei
conflitti, che poi agiscono nei disturbi nevrotici, si producono nel corso di
questa evoluzione dell’istinto sessuale.
Molti equivoci nella valutazione della psicoanalisi sono sorti proprio
dall’importanza che essa ha dato ai fenomeni sessuali. Va tuttavia notato che il
concetto di sessualità figura nella psicoanalisi in un senso molto più ampio di
quello che corrisponde al concetto comune. Cioè molti comportamenti,
atteggiamenti, impulsi ed impressioni che il pensiero corrente ritiene estranei
alla sessualità propriamente detta, sono invece interpretati dalla psicoanalisi
come elementi parziali, preparatori e surrogativi dell’istinto sessuale. Ma la
psicoanalisi è stata costretta ad adottare questo punto di vista, in base a
quell’analisi della evoluzione dell’essere umano, che essa ha dovuto compiere
per rendersi conto di quei meccanismi, aventi dunque origine nell’infanzia, che
producono i sintomi nevrotici.
Con ciò non si deve intendere che le condizioni attuali della vita del
nevrotico siano indifferenti per le sue manifestazioni morbose. Spesso sono
episodi recenti ed attuali della sua vita che fanno scoppiare la nevrosi; ma
questo accade: o perché queste situazioni attuali hanno riattivato o acutizzato
conflitti che già si erano prodotti nella infanzia del soggetto, o perché il
soggetto, in base alle complicazioni determinatesi nel corso del suo sviluppo
infantile, è divenuto incapace ad affrontare o a superare senza danno le
situazioni più recenti.
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L’azione terapeutica che la psicoanalisi si propone di compiere, e che
all’inizio pareva consistere semplicemente nel rendere coscienti conflitti fino
allora rimasti inconsci, si rivela, alla luce degli sviluppi presi dalla dottrina
psicoanalitica, molto più complessa. Si tratta – sia pur attraverso un’opera
esplorativa dell’inconscio – di por rimedio ai difetti, agli inceppi ed alle
regressioni determinatesi nel corso dello sviluppo della personalità; per questo
è necessario risalire alle difficoltà incontrate in tale sviluppo durante l’infanzia,
e per questo un trattamento psicoanalitico è sempre una terapia assai lunga,
che richiede qualche volta vari anni.
La psicoanalisi funziona come una azione rieducativa, e tende a rendere il
malato più capace di affrontare i compiti della vita e a superarne le difficoltà;
essa cerca di rendere più armonica, di fronte alle situazioni della realtà
obbiettiva, la reciproca azione di quelle varie istanze che sono state precisate
come l’Io, l’Es e il Super Io, e di portare in tal modo il soggetto a rinunciare a
quel malriuscito tentativo di fuga di fronte alla realtà, in cui la nevrosi consiste.
Tutto questo può venir compiuto chiarendo costantemente al soggetto in
base alle risultanze dell’analisi – fondata soprattutto sul metodo delle
associazioni libere, ma con il soccorso anche di una molteplicità di tecniche
ausiliarie – il significato reale dei suoi comportamenti: il significato dei suoi
sintomi, ma anche quello della sua condotta generale.
Acquista anzi, ad un certo momento, nel corso del trattamento, una
importanza particolare l’insieme degli atteggiamenti che il paziente assume
verso la persona dello psicoanalista. Si verifica infatti nei rapporti fra paziente
ed analista uno strano fenomeno (effetto della posizione di dipendenza nella
quale il paziente viene a trovarsi e del ruolo protettivo che egli tende ad
attribuire allo psicoanalista): il paziente, anziché ricordare semplicemente
situazioni del proprio passato, e rievocare cioè dall’inconscio tali situazioni,
incomincia a riprodurle attivamente, come in una specie di pantomima,
facendone oggetto la persona dello psicoanalista. Sviluppa cioè nei suoi
confronti sentimenti e propositi, lo fa oggetto di fantasie, tenta di stabilire con
lui relazioni del tutto estranee al puro rapporto di cura, e che appaiono perciò
completamente assurde e ingiustificate; esse possono appunto spiegarsi
soltanto come riproduzioni di situazioni già vissute dal soggetto rispetto ad
altre persone (ad esempio i propri familiari) nel corso di un passato che in
genere risale all’infanzia: riproduzioni nelle quali lo psicoanalista funziona,
all’insaputa del paziente, da manichino che di volta in volta viene rivestito di
questi panni altrui.
Si dice allora che, in base al rapporto affettivo creato dall’analisi, o
transfert analitico, il soggetto agisce in luogo di ricordare.
L’analisi di questo agire analitico (che lo psicoanalista non deve ostacolare,
ma neppure fraintendere e considerar genuino prestandosi al comportamento
del paziente) consente, più di qualsiasi altro mezzo, di risollevare nel soggetto
il ricordo e la consapevolezza di questi elementi del suo passato.
È chiaro che, perché quest’opera sia efficace, non è sufficiente che
l’analista stesso interpreti le comunicazioni e i comportamenti del paziente, e
gli esponga poi i risultati delle sue interpretazioni; è invece necessario che
proprio il paziente – sotto la guida dell’analista – riesca a vivere concretamente
le connessioni esistenti fra il materiale che egli porta nell’analisi e le situazioni
personali, remote e inconsce che ne stanno alla base.
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Ma l’analista stesso deve saper vedere in questo materiale. E perché egli
sia in grado di farlo non debbono funzionare in lui delle rimozioni personali.
Non è possibile infatti vedere negli altri ciò che non si è capaci di vedere in se
stessi; e le rimozioni personali funzionano da scotomi, e cioè da parziali forme
di cecità, per la realtà della vita interiore altrui.
Le difficoltà nello sviluppo della personalità umana sono sufficientemente
uniformi; pertanto i casi degli altri non ci sono mai totalmente estranei. E vi è
perciò sempre il pericolo che lo psicoanalista, nel corso della propria vita
individuale sia passato attraverso situazioni molto analoghe a quelle dei propri
pazienti, e che – magari in misura parziale – esistano quindi in lui, e continuino
ad agire, se egli non è già riuscito ad eliminarle, analoghe rimozioni.
Proprio per questo chi intraprende sopra altri trattamenti psicoanalitici,
deve essere stato egli stesso preventivamente sottoposto ad un trattamento
psicoanalitico personale; e questo anche se l’aspirante psicoanalista non è –
come è sperabile che non sia – egli stesso un nevrotico. Parziali rimozioni, e
quindi parziali meccanismi nevrotici, agiscono infatti in tutti, anche in coloro
che, sul piano pratico, debbono essere considerati assolutamente normali,
perché quei meccanismi non producono in loro disturbi e non provocano
particolari limitazioni.
Un trattamento psicoanalitico precauzionale di questo genere è detto
psicanalisi didattica. E ad essa ormai si sottopongono tutti quei medici che
intendono dedicarsi all’esercizio terapeutico della psicoanalisi.
2. L’opera di Freud e la situazione attuale della psicologia
Freud non ha creato soltanto un metodo di cura per determinate malattie
nervose, ma ha anche elaborato una particolare dottrina psicologica. Qual è la
posizione di questa dottrina, della psicoanalisi dunque, nel complesso della
moderna psicologia?
Qualcuno ha sostenuto e sostiene che la psicoanalisi va considerata un
capitolo particolare della psicologia; altri invece che essa è tutta la psicologia:
tutta la psicologia sviluppata da un nuovo punto di vista, col quale ogni
precedente dottrina psicologica sarebbe stata superata.
Le cose sono meno semplici, e per rendersene conto è necessario
prendere in esame i caratteri che hanno avuto le moderne ricerche
psicologiche, da quando, verso la fine del secolo scorso esse hanno acquistato
autonomia ed hanno cercato di costituirsi in un corpo scientifico indipendente.
La psicologia ha stentato a divenire una scienza esatta; essa ha cercato di
farlo, e soltanto da poco tempo, tentando di introdurre (al modo stesso delle
altre scienze della natura) il metodo sperimentale nella indagine della vita
interiore. Ma la realtà psichica è una realtà sui generis, che si presta ad una
applicazione dei comuni procedimenti sperimentali solo mediante una serie di
accorgimenti e di adattamenti i quali presentano notevoli difficoltà.
Tutta l’opera dei pionieri della psicologia, fioriti nella seconda metà del
secolo scorso, è stata caratterizzata dai tentativi di elaborare tali accorgimenti
e adattamenti, e di risolvere quindi soprattutto problemi di tecnica e di
metodo.
È così spesso accaduto che studiosi geniali, dopo aver elaborato un punto
di vista metodologico generale, si siano sforzati di costruire, mediante la sua
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applicazione condotta fino alle estreme conseguenze, una sistemazione
integrale della realtà psicologica.
Sono sorte in tal modo varie scuole, ciascuna delle quali spesso si è
sviluppata in forma indipendente, fingendo quasi di ignorare ciò che altri
venivano compiendo, o utilizzando i risultati altrui soltanto nella misura in cui
potevano venir incorporati nella propria costruzione.
Così vi sono state scuole che, ritenendo poco obbiettiva e quindi poco
attendibile la utilizzazione delle testimonianze che i singoli uomini possono
dare di quanto accade nella intimità di loro stessi, hanno sostenuto che la
psicologia dovesse costruirsi soltanto sulla base della considerazione degli
aspetti esteriori (da tutti osservabili e controllabili) del comportamento umano.
Sono, queste, le cosiddette psicologie obbiettivistiche, di cui è un esempio la
dottrina di Pavlov dei riflessi condizionati, considerata tutt’ora nella Unione
Sovietica come l’unica forma seria di psicologia.
Altre scuole, assumendo come elemento distintivo della scientificità, la
misurabilità dei fenomeni, hanno dato impulso ai metodi quantitativi,
giungendo a considerare ogni singolo individuo come un essere caratterizzato
dal valore numerico che in lui assumono alcuni fattori o attitudini elementari.
Altre scuole ancora hanno considerato come carattere peculiare dei
fenomeni psichici un particolare rapporto degli elementi al tutto di cui fan
parte: per cui non il tutto deriverebbe, dipenderebbe, o sarebbe costituito dagli
elementi, ma gli elementi sarebbero funzione del tutto. La scuola della Gestalt,
o della forma, sviluppando sistematicamente questo concetto, e ad esso
adattando tutta la metodologia della ricerca, ha costruito anch’essa una intera
psicologia.
La stessa cosa vale per altri indirizzi, ognuno dei quali si è dunque
presentato come la psicologia senz’altro; ed ha, se non del tutto ignorato,
considerato con un certo disprezzo gli indirizzi altrui, ponendone in rilievo i
difetti o le contraddizioni.
Anche Freud ha fatto su per giù così; ed anche la psicoanalisi, sviluppatasi
in base ad un suo punto di vista metodologico particolare, ha talora assunto
analoghi atteggiamenti.
Se le psicologie obbiettivistiche – per il fatto di considerare inessenziale e
trascurabile quello che accade dentro, e scientificamente rilevabili soltanto gli
aspetti esterni del comportamento – possono essere qualificate come
psicologie della facciata, la psicoanalisi può essere detta invece psicologia del
sottosuolo: in quanto assume, come essenziale nella vita psichica, e
importante per comprenderne il significato e stabilirne le leggi, ciò che sta
sotto: nelle profondità nascoste dell’inconscio.
Freud costruì il suo metodo non per un capriccio o per una improvvisa
illuminazione; ma perché vi fu spinto da quei problemi pratici (la cura delle
psiconevrosi) che egli si era proposto di risolvere.
I sintomi nevrotici appaiono, superficialmente ed esteriormente, come
stramberie prive di senso, o come anomalie non giustificate e incidentali. In
base al metodo esplorativo (e insieme terapeutico) che Freud veniva
elaborando ed applicando, egli riusciva però a collegarli a certe situazioni del
passato dimenticato e a certi conflitti interiori ignoti al soggetto perché
inconsci.
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Attraverso questi collegamenti i sintomi nevrotici perdevano il loro
primitivo carattere assurdo, per divenire invece qualche cosa di sensato e di
significativo, esprimente una specifica intenzione.
L’attacco d’angoscia, producentesi senza un apparente motivo in date
situazioni banali della vita, si rivelava una paura riguardante un pericolo in
certo modo effettivo: anche se questo pericolo era costituito dalla pressione
interna di qualche inconscio impulso istintivo, oppure da una qualche
interdizione, pure inconscia, proveniente da quella particolare istanza che
Freud denominò il Super Io.
Gli strani e scomposti movimenti e contrazioni che si verificano nel corso
di un accesso isterico epilettiforme, si rivelava l’esecuzione pantomimica di un
comportamento preciso e sensato: ad esempio la rappresentazione (sia pur
sommaria, approssimativa e grossolana) dei movimenti compiuti da una donna
che partorisce.
La serie di atti assurdi che compongono un cerimoniale ossessivo, e che il
malato è assolutamente costretto ad eseguire in un modo stereotipato prima di
andare a letto, si rivelava come una serie di atti magici, ognuno dei quali ha
tuttavia un esatto significato ed una esatta finalità, e con i quali il soggetto
(inconsciamente e naturalmente in modo inadeguato) intende premunirsi da
determinati più o meno immaginari pericoli.
Il vomito isterico incoercibile, verificantesi senza che vi fosse alcuna causa
organica, si rivelava un atto di rifiuto (trasferito dal campo puramente
spirituale al campo fisico) e con il quale il soggetto esprime la sua negazione
ad esempio di fronte ad un pensiero di tentazione che, sempre nel suo
inconscio, continua a presentarsi.
La interpretazione dei sintomi nevrotici, quale viene compiuta con i metodi
della psicoanalisi, consiste dunque in definitiva nella determinazione di un
significato e di una intenzione, in quanto ne è apparentemente privo.
Il principio metodologico generale che poteva esser tratto da questa
impostazione della terapia psicoanalitica è il seguente: nella vita psichica nulla
vi è di insensato e di incidentale. Tutto ha un significato e tutto è motivato. Se
il significato e l’intenzione di qualche prodotto dell’attività psichica non
appaiono chiaramente ad un primo esame, bisogna ricercare questo significato
e questa intenzione, non più alla superficie della coscienza, ma per così dire in
un’altra dimensione, e cioè nei profondi strati inconsci dell’apparato psichico.
L’acquisizione di questa dimensione ulteriore, la considerazione di questo
sottosuolo psichico che è costituito dal mondo inconscio (e che si rivela da un
punto di vista quantitativo molto più ampio ed esteso del mondo della
coscienza) può veramente fornire una spiegazione razionale e scientifica della
coscienza.
La posizione delle altre psicologie, delle psicologie di superficie, è analoga
a quella di chi volesse ad esempio spiegare i fenomeni del mare limitandosi a
considerarne lo strato superiore e rifiutandosi di esplorare, o addirittura
negando la esistenza della gran massa acquea sottomarina. Egli potrebbe
constatare ad esempio l’apparire in superficie di certe correnti: ma esse gli
sembrerebbero fatti strani e incidentali, non avendo egli la possibilità di
metterli in relazione con i fenomeni termici e di pressione o di altra natura
coinvolgenti tutto il complessivo volume delle acque marine.
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Va notato che anche la tecnica delle associazioni libere, che rappresenta il
principale strumento esplorativo della psicoanalisi, si fonda sullo stesso
principio metodologico, e cioè sul concetto che nella vita psichica nulla vi è di
casuale e di insensato.
Quando si chiede ad un paziente di comunicare tutto quello che gli viene in
mente – senza riserve, senza autocritiche, senza scelte – il soggetto ha
l’impressione di parlare a vanvera, e che la presentazione dei vari elementi che
egli espone sia del tutto incidentale: “Mi è venuto in mente così, per caso”,
dice egli, “ma non ha importanza”. Se il materiale di idee e di ricordi in tal
modo prodotto fosse effettivamente un caotico materiale incidentale, esso
evidentemente non potrebbe servire a nulla. Serve invece, perché quelle
associazioni che si dicono libere non sono affatto libere: sono decorsi di
pensieri guidati, ed in ispecie guidati (anche se all’insaputa del soggetto) dalle
situazioni inconsce attive in lui e responsabili dei suoi disturbi; come anche
dalla impostazione generale che verso la cura ha il soggetto: il quale ha
intrapreso il trattamento psicoanalitico, non per gioco, ma perché vive stati di
sofferenza, perché è bisognoso di aiuto, e perché ha l’impressione di trovare
tale aiuto nella persona dello psicoanalista.
Le comunicazioni che il paziente fa nelle sue associazioni libere sono
dunque (a saperle intendere) un discorso sensato e logico, che proviene dalle
profondità dell’inconscio, e col quale l’inconscio stesso per così dire comunica
allo psicoanalista tutto quello che gli vuol comunicare.
Le associazioni libere servono quale strumento di interpretazione del
comportamento (in ispecie del comportamento nevrotico) del paziente, ma
anche esse richiedono per loro conto di venir interpretate. Cioè anche di fronte
ai ricordi, ai pensieri, alle immagini, che improvvisamente si presentano alla
mente del paziente, lo psicoanalista si domanda: Perché proprio in questo
momento ricorda la tal cosa? Perché ora mi dice questo? Perché proprio questa
immagine è stata suscitata? Qualche volta l’elemento che si presenta è proprio
un frammento di inconscio che affiora alla coscienza e che spiega tutta una
serie di cose. Ma tante altre volte le associazioni non sono che un nuovo
materiale anch’esso da interpretare, che viene ad aggiungersi ai sintomi del
paziente e a tutto il suo comportamento; lo psicoanalista, provocandolo, non fa
dunque che moltiplicare il numero degli elementi che richiedono di trovare una
sistemazione in una interpretazione globale.
Chi dal di fuori assiste all’opera di interpretazione compiuta dallo
psicoanalista può avere l’impressione che ci sia molta arbitrarietà nel suo modo
di procedere. Ed è certo che la parola interpretare è, in sede scientifica (lo
riconosceva anche Freud in un suo scritto) una gran brutta parola.
In realtà questa opera di interpretazione non è tanto arbitraria, come un
profano si potrebbe immaginare.
Essa assomiglia a ciò che si fa quando si vuol risolvere un rebus. Ci si deve
affidare ad una certa fantasia congiunta ad una certa esperienza personale. Ma
vi sono controlli che impediscono che la fantasia si converta in arbitrio. I vari
elementi del rebus, una volta interpretati devono dare una frase sensata, e le
singole interpretazioni delle varie parti si controllano per così dire l’una con
l’altra: in definitiva tutto deve andare a posto; ed una eventuale erronea
interpretazione di un solo elemento butta tutto a catafascio, perché non
concorda e non ingrana con la interpretazione del resto.
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Dunque tutte quelle produzioni psichiche in cui, in qualche modo
interviene l’inconscio sono semplicemente dei crittogrammi: insensati e assurdi
all’apparenza, ma pienamente significativi quando siano risolti. E la risoluzione
avviene con un procedimento di interpretazione convergente: tale che ogni
interpretazione parziale è giustificata dal fatto che è suffragata dalle altre
interpretazioni parziali e insieme concorre a suffragare quelle.
Si sa che quando uno si mette a risolvere un rebus, oppure a decifrare un
documento in una lingua ignota, tutto sta a incominciare. Se si riesce a fare
prime supposizioni, queste poi servono di base per procedere nei tentativi
ulteriori. E si sa pure che molto è questione di pratica. Chi è solito a
interpretare tutti i rebus che si trovano nelle ultime pagine delle varie riviste
settimanali, diventa uno specialista: ed alla prima occhiata riesce a risolvere
ogni rebus che gli venga sottoposto. Chi invece non si diletta a queste cose
può rimaner per delle mezz’ore di fronte a un facile rebus senza capirne nulla.
Vi è, nel modo con cui un rebus è costruito, una tecnica; ed è importante
impadronirsi e impratichirsi di questa.
Altrettanto accade nel lavoro psicoanalitico: vi è una tecnica nel modo col
quale l’inconscio si esprime. E lo psicoanalista è uno che di questa tecnica si è
impadronito, e che arriva quindi con facilità ad interpretare questo particolare
linguaggio.
Si capisce perciò come Freud, iniziato questo suo lavoro di interpretazione
dei sintomi nevrotici, sia stato indotto ad andare in caccia di tutte quelle altre
produzioni psichiche, apparentemente incidentali, casuali, irrazionali ed
insensate, alle quali il suo metodo interpretativo poteva essere applicato.
E questo per un duplice scopo: da un lato per estendere il materiale che
gli poteva servire a capire gli ammalati e gli elementi patogeni in essi agenti (e
dunque al servizio di fini terapeutici), ma dall’altro anche per i puri compiti di
una nuova ricerca psicologica.
Fra le produzioni casuali ed apparentemente irrazionali dell’attività
psichica, a cui il metodo poteva essere applicato, si presentarono molto presto
i sogni.
I sogni degli uomini sono tipici prodotti spontanei inintenzionali; e da
tempo immemorabile essi sono stati considerati dei messaggi, formulati in
termini e con un linguaggio arcano che richiedeva di essere interpretato, e
provenienti da fonti misteriose (gli Dei, i santi, le anime dei trapassati); e
come messaggi, bisognosi di una interpretazione, li ha considerati pure Freud,
anche se provenienti non dal di fuori, ma da una provincia autonoma sì, ma
interiore alla personalità umana.
Freud fu pertanto il primo psicologo che riuscì a capire il meccanismo del
sogno, la sua funzione e i suoi significati. Gli fu questo abbastanza facile,
perché le forme di espressione (il tipo di linguaggio) del sogno, risultò essere
del tutto simile alle forme con le quali le forze agenti all’interno della umana
persona si esprimono nei sintomi nevrotici.
Il suo libro “Interpretazione del sogno” (che è del 1900) inaugurò
l’applicazione del metodo di esplorazione psicoanalitica a produzioni non più
soltanto patologiche, ma anche normali. Da quella data la psicoanalisi ha
cessato di essere soltanto una dottrina e un metodo appartenente alla
psicologia patologica per divenire invece una dottrina e un metodo della
psicologia generale.
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L’importanza della “Interpretazione del sogno” di Freud fu enorme per lo
sviluppo delle sue dottrine e per lo sviluppo della psicologia in genere.
I sintomi nevrotici, per quanto frequenti, si riscontrano soltanto in soggetti
malati, e rappresentano un materiale relativamente esiguo. I sogni
rappresentano invece fenomeni di una grandissima estensione. La maggior
parte degli uomini sogna ed è in grado di ricordare i propri sogni. E molti
uomini producono ogni notte un certo materiale onirico. Il campo di
applicazione dei metodi interpretativi della psicoanalisi non ha dunque confini.
E lo studio dei sogni permette pertanto (molto più di quanto non permettesse
lo studio esclusivo dei sintomi nevrotici) di individuare in modo esatto, in tutti i
suoi particolari, le forme del linguaggio dell’inconscio.
I sogni si fanno in stato di sonno, e cioè in uno stato psichico particolare,
in cui viene sospesa ogni attività intenzionale ed ogni forma di controllo
consapevole.
Ma anche nel corso della vita vigile e cosciente, noi possiamo a tratti
realizzare forme di parziale sospensione nella attività intenzionale e di
controllo, e cioè in un certo modo forme di parziale sonno. Noi chiamiamo
genericamente tali stati transitori, stati di distrazione. Anche quel che si
produce in noi e da noi, quando siamo soprapensiero, o distratti, di cui non ci
sentiamo perciò direttamente responsabili, e che ha pure il carattere di cosa
incidentale e casuale, si presta ad essere interpretato: consente cioè che vi si
rintracci un significato ed un’intenzione.
Ecco perché Trend applicò la sua tecnica interpretativa agli atti mancati,
alle sbadataggini, alle dimenticanze incidentali, ai lapsus verbali ed altri.
La comune spiegazione di questi atti come dovuti ad una momentanea
assenza o sospensione dell’attenzione, è secondo Freud esatta: ma soltanto in
senso negativo. La sospensione dell’attenzione consente alle forze inconsce,
agenti in noi, di riuscire ad esprimersi; ma il carattere particolare della
sbadataggine o del lapsus non è incidentale (perché nulla di ciò che noi
produciamo lo è) ed ha invece un preciso senso e rivela una precisa intenzione.
Si tratta soltanto di trovarne la interpretazione, di risolverlo cioè, sempre come
rebus, con la tecnica abituale.
Se un individuo dimentica per caso di eseguire un’azione che egli si
proponeva di fare, vuol dire che agisce in lui in forma inconscia un’intenzione
opposta a quella che stava alla base del suo proposito: una parte di lui voleva
l’azione, ma un’altra parte non la voleva affatto.
Se un individuo commette per distrazione una gaffe offensiva verso
qualcuno, vuol dire che un impulso aggressivo era effettivamente, anche se in
forma inconscia, attivo in lui.
Queste possono naturalmente essere interpretazioni semplicistiche, e
qualche volta le situazioni sono molto più complesse. Ed anche in questi casi le
interpretazioni isolate hanno soltanto un valore ipotetico, ed a rigore
bisognerebbe inserire il lapsus, la gaffe e la dimenticanza incidentale in tutto il
complessivo comportamento del soggetto per giungere ad una valida
interpretazione.
Del resto le stesse associazioni libere sono, in qualche modo, pensieri
prodotti in stato di distrazione: e l’invito che viene dato ai pazienti ai quali si
richiede di associare liberamente, è proprio un invito a collocarsi
volontariamente in uno stato di distrazione. Anzi la difficoltà che si riscontra,
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quando si domanda ad un paziente di lasciarsi andare, di non esercitare
critiche o scelte sul materiale ideativo, di comunicare proprio tutto quel che
viene in mente, senza pensare intenzionalmente a nulla di specifico, è proprio
la difficoltà di ottenere questa volontaria distrazione.
Qualche cosa di simile ad una volontaria distrazione – e cioè ad una
rinuncia ad una ricerca intenzionale e la sua sostituzione con una aspettativa in
un certo modo passiva – si ha anche in quella che diciamo ispirazione.
L’artista, o anche semplicemente l’uomo che fantastica, si affida ad una tale
ispirazione, e ha l’impressione che, indipendentemente da lui, gli giunga (non
si sa da dove) l’immagine, o una concatenazione di immagini. Anche questa
forma di apparente libera produzione spirituale può essere messa in
connessione con le forze, i motivi e gli elementi, che si agitano nel profondo
dell’inconscio, e può venir considerata espressione di queste forze. Sogni anche
questi, se pur fatti ad occhi aperti. E la stessa tecnica dell’interpretazione dei
sogni può quindi servire pure ad interpretare le produzioni della fantasia e
dell’arte.
Il carattere obbiettivo della fantasia o della produzione artistica, come
racconto o descrizione di qualche cosa che il soggetto si limita a contemplare,
è puramente apparente. Sempre il soggetto racconta la propria storia: non
naturalmente la propria storia reale, vissuta, ma una propria storia interiore;
cosicché tutti i personaggi di un racconto fantastico, o di un romanzo, sono
sempre l’autore stesso, o aspetti, o momenti parziali dell’autore: non
dell’autore così come egli è realmente nella vita, ma come egli avrebbe voluto
o pensato di essere, se la vita, e tutte le difese che esistono in noi, non lo
avessero costretto ad essere diversamente.
Perciò queste produzioni fantastiche o artistiche permettono di ricostruire
la personalità potenziale o virtuale di un soggetto; e questo in un modo del
tutto indipendente da quella che può essere una valutazione critica di questa
produzione, e cioè una loro valutazione propriamente artistica.
Se è possibile distinguere, nel comportamento mentale e motorio di un
uomo, alcune situazioni estreme – le une, nelle quali è completamente assente
ogni controllo cosciente, come i sogni, e le altre che si realizzano invece tutte
sotto un tale controllo e che appaiono il prodotto perfetto di processi razionali
(l’esposizione ad esempio, ordinata e logica, di un ragionamento matematico)
– vi è pure un’ampia categoria intermedia di situazioni: dove non possiamo
escludere completamente l’intervento di una attività razionale, ma dove
intervengono anche altri agenti ad essa estranei, e per i quali, di volta in volta
parliamo di intuizione, di invenzione, di interne inclinazioni e via dicendo.
Anche in queste situazioni possiamo dunque individuare l’azione di quei
meccanismi e l’espressione di quelle forze inconsce che in modo specifico e
particolarmente chiaro si rendono visibili ad esempio nei sogni. Ecco quindi che
l’intera attività umana si presta ad una interpretazione analitica: il perché uno
s’innamora di una persona e non di un’altra; il perché si comporta nella vita
amorosa in un modo determinato; il perché uno sceglie una data professione, o
aderisce ad una data ideologia politica; il perché uno è fortunato nella vita e
uno è disgraziato (nella misura, almeno, per cui si dice che ciascuno è artefice
della propria fortuna).
La spiegazione della vita individuale, in tutti i suoi aspetti ed elementi, si
arricchisce di possibilità interpretative assolutamente nuove, più proficue e
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valide, in funzione dei collegamenti possibili con le forze agenti in forma
inconscia in noi.
E non soltanto la vita di ciascun singolo individuo, ma anche la vita
dell’umanità nel suo complesso: le sue credenze, i suoi miti, le sue leggende, i
suoi costumi e la evoluzione della civiltà.
Freud stesso non si è limitato ad enunciare in astratto le possibilità offerte
dal nuovo metodo, ma nella sua vastissima opera, ha affrontato una
molteplicità di questi problemi. E una numerosa schiera di psicoanalisti lo ha
seguito in questo lavoro.
Naturalmente la validità di queste costruzioni non è sempre la stessa. La
natura stessa del metodo ne indica i limiti. Il lavoro di interpretazione analitica
è un lavoro che procede – come dicemmo – in forma convergente. Là dove
questa convergenza è realizzabile, per la molteplicità degli elementi che
unitariamente vengono interpretati e per le possibilità di aumentare
indefinitamente, in modo artificiale, il materiale da sottoporre ad analisi (e il
trattamento psicoanalitico di un singolo individuo, sistematicamente condotto,
rappresenta la situazione tipica della massima convergenza degli indizi), là la
solidità del metodo è massima; mentre quando i dati son pochi, e non possono
essere a volontà moltiplicati, il valore delle interpretazioni rimane aleatorio ed
ipotetico.
Ma pure con queste limitazioni, che erano ben presenti al pensiero di
Freud, si comprende come egli avesse l’impressione di aver rinnovato la
psicologia, e come si sia affermata la tesi che la psicoanalisi sia una forma di
più completa e vera psicologia, rispetto a quelle che altri indirizzi venivano
costruendo.
Tuttavia la situazione degli studi psicologici che abbiamo descritta, e per
cui essi all’origine hanno proceduto a compartimenti stagni – ogni scuola
pretendendo per proprio conto ad una sorta di diritto di esclusività – si è negli
ultimi decenni venuta modificando.
Benché continuino naturalmente ad esservi psicologi, che per la loro
provenienza culturale appartengono ad una scuola determinata, e che si
specializzano nel maneggio delle corrispondenti tecniche di ricerca (e ciò vale
in modo particolare per gli psicoanalisti, date le difficoltà e il lungo tirocinio
richiesto dalle tecniche psicoanalitiche) si sono venute operando reciproche
influenze e si sono attenuate le rispettive diffidenze.
Per quanto riguarda la psicoanalisi, la modificazione della sua posizione nel
complesso degli studi psicologici, è dovuta in gran parte alla diffusione da essa
presa nella psicoterapia, specialmente in alcuni paesi (quelli anglosassoni), e
alla influenza determinante da essa esercitata su tutta intera la psichiatria; ma
in parte anche dall’affermarsi di alcune nuove tecniche psicologiche, che pur
essendo estranee alla psicoanalisi propriamente detta, hanno con essa in
comune il principio informatore.
Sono queste le cosiddette tecniche proiettive, ossia le tecniche fondate
sull’impiego di determinati tests; quello del Rorschach il T.A.T. (Tematic
Apperception Test), e molti altri similari.
Si tratta fondamentalmente di questo: se si presentano ad un soggetto
determinate situazioni labili o ambigue, e cioè prive di significato o dal
significato impreciso (come le macchie di colore del test di Rorschach, o le
tavole con vignette del T.A.T.) e si invita il soggetto a dire che cosa egli vede
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in queste macchie, o qual è la complessiva storia che la tavola del T.A.T. si
propone di illustrare, il soggetto, sulla base del tenue ed ambiguo elemento
presentatogli, produce un significato o una storia. Questo prodotto non è una
creazione libera della fantasia, perché è ancorato all’elemento obbiettivo
presentato al soggetto, ma è pur sempre una costruzione parzialmente
soggettiva: e l’attività del soggetto, a sua insaputa (perché egli crede di
descrivere ciò che vede e che c’è), è guidata dalle forze e impostazioni
inconsce che sono in lui attive, e che in tal modo si rivelano e risultano
determinabili attraverso le risposte del soggetto.
L’uso di questi procedimenti, a scopi esplorativi della personalità cosciente,
è assai più semplice che non l’impiego delle tecniche classiche della psicoanalisi
(le quali richiedono una assai maggiore esperienza), ed esse possono dar
l’illusione di poter essere applicate in modo quasi meccanico, anche se non
sono soverchiamente redditizie.
Così questi metodi si sono notevolmente diffusi negli ultimi decenni, come
tecniche per una diagnosi della personalità con individui normali o malati:
tanto nella pratica psichiatrica quanto in ogni forma di indagine psicologica
rivolta a differenziare i singoli individui, per quanto riguarda i loro tratti
caratterologici e le loro attitudini.
Analogamente si è molto diffusa – a fini diagnostici, ma anche per una
psicoterapia sul tipo della vecchia terapia catartica di Breuer, che si è
dimostrata particolarmente utile per alcune psiconevrosi particolari, quelle
traumatiche e di guerra – la cosiddetta narcoanalisi. Essa consiste nel collocare
il soggetto (mediante speciali barbiturici) in uno stato di subnarcosi e nel farlo
parlare in questo stato, nel quale egli non può esercitare un controllo cosciente
su ciò che dice, ed attenua anche quell’automatico controllo inconscio che si
esplica sotto forma di rimozione: per cui molti elementi (ricordi, desideri,
impulsi) che il soggetto è incapace di esprimere normalmente (perché egli
stesso non li conosce) sono rivelati in queste sue comunicazioni.
Anche questo metodo è assai meno redditizio della tecnica psicoanalitica,
ma può servire come metodo genericamente esplorativo.
È evidente ciò che queste tecniche hanno in comune con la psicoanalisi (e
che hanno derivato da essa): il principio della esistenza di un sottosuolo
psichico che esercita la sua influenza costante sulla vita della coscienza, e che
deve essere utilizzato per una interpretazione della intera fenomenologia della
vita cosciente. Questo principio è attualmente qualche cosa di stabilmente
acquisito per la psicologia, sia normale che patologica.
Si suol designare il complesso di queste tecniche di diretta derivazione
psicoanalitica come metodo clinico in psicologia; e la stessa psicoanalisi
classica rientra nel metodo clinico.
Così questo metodo viene designato – in contrapposizione al metodo
propriamente sperimentale – perché esso si giova, al modo stesso di come fa
l’esame clinico in medicina, di una molteplicità di indizi manifesti ed esterni (in
parte spontaneamente offerti, in parte provocati con vari artifici) per
ricostruire, attraverso una interpretazione, una nascosta realtà.
Lo sviluppo del metodo clinico in psicologia – accanto ai tradizionali metodi
sperimentali – ha avuto il merito di rendere l’indagine psicologica più concreta.
Non sono più le singole funzioni psichiche, i singoli processi, isolati in situazioni
di laboratorio, ad essere oggetto di indagine; ma oggetto di indagine diventa la
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intera personalità umana, quale essa si manifesta attraverso il gioco delle
molteplici forze e tendenze che in essa si agitano.
La psicologia fondata sul metodo clinico, o psicologia clinica come può
essere detta, si trova, rispetto a quella sperimentale nelle stesse condizioni in
cui si trova ad esempio la clinica medica di fronte alla patologia: mentre
quest’ultima studia analiticamente i vari processi morbosi, e cioè la malattie, la
clinica considera più propriamente il malato. C’è naturalmente connessione e
interdipendenza fra le due, ma la clinica è più individualizzata e perciò più
concreta.
Il metodo clinico non annulla la validità dei metodi sperimentali, e non
rende superflue le determinazioni esatte e quantitative che con quei metodi si
ottengono circa le singole funzioni di coscienza, ma rende indubbiamente
l’indagine psicologica più viva e più aderente a quelli che sono gli interessi che
ognuno di noi ha per la personalità umana nella sua individualità e
concretezza.
Ecco perché, anche quegli psicologi che prospettano riserve per taluni
punti di vista ed alcune determinazioni della psicoanalisi, non possono
disconoscere la grande importanza che l’opera di Freud ha avuto per lo
sviluppo della psicologia moderna: traendola – come affermò un eminente
psicologo italiano, che della psicoanalisi è pur un franco avversario, il Padre
Agostino Gemelli – da un punto morto in cui essa si era cacciata.
Indubbiamente le aspre polemiche che per il passato sono state suscitate
dalla psicoanalisi, le diffidenze da essa suscitate per determinate sue
affermazioni, il peso da essa attribuito a determinate forze e fattori psicologici
che gli uomini non riconoscono volentieri come elementi determinanti della loro
condotta, continuano ad esercitare una certa influenza, ed impediscono che la
annessione della psicoanalisi alla psicologia scientifica moderna sia così
pacifica, come da quanto ora è stato detto potrebbe apparire.
Anche in campo scientifico, come in quello politico e sociale, la evoluzione
delle posizioni è lenta; ed i contrasti del passato continuano ad influire anche
sopra situazioni già fondamentalmente modificate.
La psicologia differisce inoltre per sua natura da altri campi scientifici che
hanno per oggetto elementi ed aspetti della realtà naturale, i quali possono
essere considerati dal di fuori, con atteggiamenti del tutto obbiettivi.
Ciò che lo psicologo afferma si riferisce sempre anche a lui stesso, ed è
perciò direttamente influenzato in lui dagli elementi stessi che sono oggetto
delle sue affermazioni: lo psicologo è cioè sempre, come persona, parte in
causa in quello che è l’oggetto delle sue determinazioni e delle sue costruzioni
teoretiche.
Così accade che le stesse resistenze che nell’esercizio dell’analisi
terapeutica vengono riscontrate nei pazienti (i quali anziché essere
effettivamente dei collaboratori dell’analista, come credono e si propongono di
essere, finiscono con l’esercitare a loro insaputa un costante sabotaggio
dell’analisi) si riscontrano anche nella discussione teorica dei principi della
psicoanalisi, quale può svolgersi in sede scientifica.
E se i pazienti hanno bisogno di un lungo periodo di analisi per sormontare
le loro resistenze, logico è che anche gli psicologi abbiano avuto bisogno di un
certo tempo per sormontare le loro resistenze teoretiche.
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Questo problema delle resistenze verso la psicoanalisi in sede teoretica ci
conduce a considerare tutto un altro ordine di cose: e cioè l’insieme dei
contrasti che la psicoanalisi ha provocato per il significato che è stato attribuito
alla sua impostazione generale di fronte alla vita umana.
Secondo molti la psicoanalisi non è infatti soltanto una dottrina scientifica,
ma anche una concezione filosofica, una interpretazione generale del mondo e
della vita, oppure un particolare fenomeno culturale che va inquadrato in
quella che è la storia dei nostri tempi.
Può essere interessante, da questo punto di vista, stabilire il posto ed il
significato che compete a Freud – quale iniziatore del movimento
psicoanalitico, e quale pensatore che rimane indubbiamente la figura più
rappresentativa di questo movimento – nella cultura moderna.
A questo problema dedicheremo un’altra conversazione, con la quale
concluderemo questa nostra celebrazione del centenario di Sigmund Freud.
3. La psicoanalisi nella cultura moderna
Freud non fu, e non volle mai essere, un filosofo; ma soltanto uno
scienziato, un naturalista, un biologo. Se anche verso la fine della sua
esistenza fu indotto ad allontanarsi talora dalla analisi di singoli gruppi di
fenomeni particolari, per elevarsi alla considerazione di problemi più generali,
relativi al significato della vita e al valore della civiltà, ciò non modifica le cose.
Capita a tutti i grandi scienziati – siano essi dei matematici o dei biologi,
dei giuristi o dei medici, degli economisti o dei fisici – di tirare, quando sono
giunti al tramonto della vita, i remi in barca, per abbandonarsi ad una
contemplazione di più vasti problemi, utilizzando eventualmente il materiale da
essi raccolto nel corso della loro particolare attività scientifica per prospettare
soluzioni a carattere universale.
Ma si ha per lo più torto a giudicare l’opera loro da questa tardiva attività.
Anche per Freud, come in genere per questi altri pensatori, si tratta delle cose
meno valide che egli abbia prodotto. Ed egli stesso del resto sapeva
distinguere queste sue divagazioni speculative, il cui valore rimane ipotetico,
dalla sua opera propriamente costruttiva.
Il tentativo di caratterizzare, su un piano più generale, l’opera di Freud, e
di inquadrarla nel complesso della cultura moderna, va perciò effettuato
piuttosto prendendo in esame le valutazioni che di tale opera sono state date
dai critici e dagli oppositori.
Vorrei a tale proposito accennare ad una situazione comica in cui io mi
sono personalmente trovato.
Avendo svolto nel nostro paese una certa opera di divulgazione delle
dottrine di Freud, mi sono spesso imbattuto in obbiezioni polemiche che si
possono riassumere in questo modo: a prescindere, si dice, dalla validità
terapeutica dei metodi psicoanalitici, vi è alla base della psicoanalisi una
impostazione generale: l’eccessiva importanza attribuita – nella interpretazione
della vita spirituale e nella ricerca cioè dei moventi e delle forze agenti nella
nostra vita ulteriore – a fattori di natura materiale. La psicoanalisi sarebbe cioè
una dottrina fondamentalmente materialistica, e in quanto tale essa
risulterebbe ad esempio non integralmente accettabile da parte dei cattolici.
Quando però qualche anno fa mi capitò di visitare l’Unione Sovietica, e di
chiedere là, parlando con psichiatri e con psicologi, qual era la posizione che
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essi avevano di fronte alla psicoanalisi, mi sentii fare quest’altro discorso: “Noi
nell’Unione Sovietica abbiamo una concezione materialistica dei rapporti umani
e dei fatti della vita, e non possiamo accettare la psicoanalisi, perché essa è
una dottrina spiritualistica”.
La psicoanalisi è dunque giudicata dagli uni materialistica, dagli altri
spiritualistica. Deve esserci evidentemente un equivoco nelle parole, se è
possibile un così contrastante giudizio.
L’equivoco può essere dissipato quando si tenga presente quello che sta
dietro le parole. Gli scienziati sovietici parlando della psicoanalisi come di una
dottrina spiritualistica, intendono dire che, mentre per essi l’unica forma
corretta di psicologia è costituita dalla dottrina di Pavlov che riconduce tutti i
fenomeni della coscienza ai processi obbiettivi svolgentisi nel sistema nervoso
centrale, Freud assume invece la vita psichica come una realtà autonoma con
propri processi e proprie leggi, realtà che – nonostante le indubbie connessioni
con i fenomeni di natura materiale i quali han sede nel sistema nervoso – va
spiegata e interpretata di per sé.
Coloro invece che nell’Occidente affermano il carattere materialistico della
psicoanalisi si riferiscono al significato etico della parola materialismo, e
denunciano la tendenza che vi è nella psicoanalisi a riportare tutte le
manifestazioni della vita spirituale a un gioco di forze, psichiche sì, ma relative
all’uomo naturalisticamente inteso, e cioè al gioco meccanico dei suoi impulsi
istintivi: cosicché sembra scomparire quella spontaneità e creatività dell’uomo,
che ne costituirebbe propriamente la spiritualità.
In forma lievemente diversa questa stessa obbiezione è stata mossa alla
psicoanalisi freudiana da uno psicologo che dopo essere stato per un certo
periodo di tempo un attivo collaboratore di Freud, se ne è clamorosamente
distaccato per fondare un proprio personale indirizzo psicologico, Carlo Gustavo
Jung.
Rimprovera Jung a Freud, quello che egli chiama il carattere induttivo della
psicoanalisi. Riduzione sarebbe il processo con cui la psicoanalisi, di fronte alle
varie manifestazioni dell’attività spirituale, quale l’arte, la religione, la moralità,
la politica, così come concretamente sono esplicate dagli uomini, riconduce tali
manifestazioni a forze molto più elementari e naturali, risolvendole in queste.
Uno scrittore compone un suo romanzo, o un pittore dipinge un suo
quadro; e l’uno e l’altro ritengono di aver fissato sulla carta, o sulla tela una
certa immagine prodotto della loro intuizione e avente un certo valore artistico.
Nossignori. La psicoanalisi afferma che nel romanzo è espresso un oscuro
conflitto inconscio, dipendente da quella che è stata la storia personale
dell’autore, e risalente magari alla sua prima infanzia. Shakespeare credeva di
raccontare nell’Amleto le vicende del Principe di Danimarca, e racconta invece,
in termini travestiti, le difficoltà che egli stesso ha incontrato da bambino nei
suoi rapporti con suo padre e con sua madre. E così Leonardo nel comporre il
quadro della Vergine con S. Anna e il bambino, credeva di fissare sulla tela
certe figure da lui vedute nella sua immaginazione artistica, e invece
semplicemente racconta la sua storia di bastardo allevato da una madre non
sua.
E così per la religione. Gli uomini che seguono una determinata fede, ad
essa si affidano per un senso di certezza che ritengono derivi da una
illuminazione proveniente dalla Divinità stessa. E la psicoanalisi è lì pronta a
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spiegare: quel senso di certezza altro non è che la certezza ispirata nel
bambino dalla figura del proprio padre carnale: che per il bambino appunto non
può sbagliare ed è dotato di tutti quei poteri che egli stesso bambino non ha.
Quando la fiducia nel proprio padre carnale comincia nella coscienza del
bambino a vacillare, e il padre diventa agli occhi suoi un uomo come tutti,
soggetto ad errare ed esposto ai colpi della fortuna, l’originaria immagine
paterna – di cui il bambino e poi anche l’uomo fatto, per avere nelle tempeste
della vita qualche cosa di saldo e di sicuro a cui potersi appoggiare, continua
ad avere bisogno – si trasferisce in un mondo superiore, come immagine del
Padre Celeste: ancora infallibile e certo, ancora protettivo e onnipotente, al
quale si deve render conto di tutta la propria vita, ma dal quale si attende,
nelle più disperate situazioni dell’esistenza, la salvezza per sempre.
E nel campo dei giudizi morali. Noi ci indigniamo di fronte a determinati
atti, pronunciamo giudizi, esigiamo che i delitti vengano puniti, e riteniamo che
tutto ciò si svolga in noi per un superiore spirito di giustizia. Niente affatto.
Noi, che crediamo di essere persone per bene, siamo, nel torbido sottosuolo
che ognuno reca in sé, tali e quali i delinquenti che provocano la nostra
indignazione. E questa indignazione altro non è che la difesa che opponiamo a
quei nostri impulsi che ci spingerebbero a comportarci come i criminali. Perciò
non per i delinquenti stessi invochiamo la loro punizione, o perché attraverso la
pena si ristabilisca l’ordine morale e giuridico turbato, ma per un bisogno di
rassicurazione verso noi stessi.
Così pure nel campo politico. Siamo dei conservatori, e crediamo di
doverlo essere perché determinati valori sociali tradizionali debbono, per il
bene dell’umanità, essere salvaguardati. Oppure siamo dei ribelli, e crediamo
di esserlo in virtù di una esigenza di maggiore giustizia nel mondo. E, nell’un
caso, e nell’altro, giustifichiamo la nostra posizione con una serie di
considerazioni obbiettive, tratte dalla storia, dall’economia, dalla sociologia; e
citiamo dati e testimonianze.
Invece no. Siamo conservatori perché da bambini il legame affettivo verso
i nostri genitori ci ha fatto sentire insopportabili ed angoscianti gli impulsi che
in noi a tratti si sono sviluppati ad affermare in modo autonomo la nostra
personalità; oppure siamo sovversivi perché quegli stessi impulsi, a lungo
trattenuti nell’ambito dei nostri rapporti familiari, esplodono ora, trasferiti in un
campo diverso: dove la soggezione per i genitori non ha più maniera di farsi
sentire in una forma efficace.
Si comprende come questo modo di ragionare della psicoanalisi, questo
suo procedimento riduttivo – che ora naturalmente abbiamo esposto in modo
sommario, ma che la psicoanalisi mette in atto in forme assai più
particolareggiate e fornendo, per ciascun singolo individuo, tutte le pezze di
appoggio tratte dalla sua analisi personale – possa essere estremamente
perturbante ed irritante.
Sembra che tutto quello in cui gli uomini sono abituati a credere venga
distrutto, e che nella vita spirituale dell’uomo si faccia il deserto. Tutti i valori si
rivelano fittizi, semplici mascherature di qualche cosa che non possiamo in
alcun modo padroneggiare perché si svolge in noi a nostra insaputa. E si può
pensare che se il punto di vista della psicoanalisi dovesse prevalere, dovremmo
divenire degli scettici, e il mondo dovrebbe apparirci qualche cosa di assai
desolante.
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In realtà la situazione è molto meno tragica, e i cosiddetti valori spirituali
non corrono questi pericoli.
Il metodo riduttivo non è peculiare alla psicoanalisi soltanto; e si può dire
che ogni indagine scientifica, in qualunque campo esplichi la sua azione,
compie riduzioni. Ma tali riduzioni non hanno affatto il potere di distruggere
quelle realtà a cui esse vengono applicate.
Il biologo può chiedersi di fronte all’organismo umano di quali sostanze
chimiche esso sia costituito, e ci dirà: tanto di acqua, tanto di calcio, tanto di
carbonio, tanto di queste e di queste altre sostanze; e in base ai prezzi correnti
sul mercato, potrà anche stabilire in forma esatta il valore, diciamo così
commerciale, del corpo umano. Può apparirci buffo sentir valutare in questo
modo il nostro corpo, che è evidentemente per noi tutt’altro, ma questa
valutazione non sposta un gran che le cose. Il biologo ha ragione dal suo punto
di vista riduttivo, e le sue determinazioni possono anche avere – per dati scopi
– una qualche utilità, ma gli altri punti di vista, che sono poi quelli a cui noi ci
riferiamo per la condotta della nostra vita, rimangono evidentemente validi.
L’astronomo effettua anch’egli le sue riduzioni. La volta celeste, le
costellazioni, la via lattea? Effetti della proiezione sopra un’unica superficie
apparente, delle immagini luminose di corpi estremamente lontani, distribuiti
in un modo che nulla ha a che vedere con quella proiezione superficiale. Ma i
poeti (e anche gli uomini comuni) continuano a vedere il cielo a quel modo
come sempre esso è stato veduto, e il cielo stellato continua a rimanere la
gran cupola che ricopre il mondo nel silenzio della notte.
L’igienista ci dice quello che dobbiamo mangiare per mantenerci in salute,
e stabilisce per ogni singolo cibo le calorie che esso contiene: una riduzione
anche questa; che non turba tuttavia per nulla il buongustaio, il quale continua
ad andare in trattoria ad ordinarsi un buon pranzetto, consultando la lista delle
vivande e non una tabella indicativa di quelle calorie. Il fisico ci dice che i colori
altro non sono che l’effetto di una certa energia radiante sopra il nostro
apparato visivo, ed analizza e classifica le varie luci monocromatiche e le loro
combinazioni. Anche la sua è un’opera riduttiva; ma essa non influisce sopra di
lui quando esce di casa per godersi un bel tramonto od un altro spettacolo
naturale; e chiama in tal caso anch’egli rosso il rosso e giallo il giallo, e non
tanti o tanti altri micron, come fa in laboratorio quando confronta le varie luci
con la scala dello spettro.
Così è anche per quella riduzione che viene effettuata dalla psicoanalisi. Il
fatto che esistano determinati meccanismi o processi psicologici profondi, i
quali spiegano gli atteggiamenti degli uomini, e quindi anche quelle che si
indicano le sue attività spirituali, non distrugge nulla di tali attività.
E quando ben è stato spiegato che in un dato quadro o in una data
composizione poetica di un autore è visibile questo o quel suo conflitto
interiore, ciò non fa diventare brutto un quadro bello, o bello un quadro brutto;
perché il punto di vista propriamente estetico è un punto di vista differente.
E così l’uomo religioso può benissimo conciliare i propri sentimenti e le
proprie convinzioni con la interpretazione psicoanalitica, e dire a se stesso:
sarà benissimo che in tali miei sentimenti io utilizzo una certa impostazione
che ha la sua origine in determinate mie esigenze infantili, ma ciò nulla toglie
alla genuinità della mia fede ed alla verità della mia religione.
E così di seguito.
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Piuttosto si può porre un altro problema: se la interpretazione
psicoanalitica riduttiva dei prodotti della attività spirituale lascia inalterati i
nostri atteggiamenti di fronte a tali prodotti, può essa in qualche modo agire
sopra la stessa attività, in quanto attività produttrice. Cioè: quel poeta e quel
pittore, ai quali noi forniamo la nostra interpretazione analitica – in forza di
questa interpretazione, e quando essi riescano a seguirci nell’interpretazione
stessa, e ad afferrare cioè i meccanismi che hanno agito in loro – vedranno
modificare la loro attività poetica e pittorica? Cambieranno in quanto poeti e
pittori, o al caso cesseranno del tutto dal comporre versi e dal dipingere? È
chiaro che anche questa eventualità potrebbe esser considerata con
preoccupazione.
Essa non riguarda più la psicoanalisi come dottrina, ma come attività
pratica terapeutica. Ed effettivamente ci sono persone, bisognose per motivi di
salute di una cura psicoanalitica, le quali si preoccupano di queste possibili
conseguenze. Esse dicono: desidero sì guarire, e sono pronto per questo a
sottopormi ad un trattamento psicoanalitico, ma non vorrei pagare la
guarigione ad un prezzo troppo alto. Se per guarire dovessi diventare un altro,
annullare o alterare le mie capacità artistiche, o disinnamorarmi di mia moglie,
oppure perdere la fede, o ancora rinunciare alle mie convinzioni politiche, o
non poter più fare il mio mestiere di magistrato, preferisco senz’altro tenermi
le mie difficoltà e le mie sofferenze, e non farne niente.
Gli psicoanalisti si trovano abbastanza spesso con i loro pazienti di fronte a
simili domande; e sono domande piuttosto imbarazzanti, perché in verità una
garanzia che non ci saranno – come effetto della cura – mutamenti di questo
tipo, non esiste, e lo psicoanalista quindi non può, e non deve, dare alcuna
assicurazione.
Ogni importante esperienza della nostra vita è suscettibile di modificarci:
di fare apparire attitudini nuove, o di dimostrarci che attitudini che credevamo
di possedere non erano in realtà genuine ma costituivano invece qualche cosa
di surrogativo rispetto a più reali inclinazioni; e così pure di indurci ad
abbandonare determinate impostazioni intellettuali o affettive per altre. Ed è
chiaro che l’esperienza costituita dal lavoro analitico è un’esperienza assai
importante che può condurre anch’essa ad effetti di questo genere.
Non solo: ma il fatto stesso che un soggetto si preoccupi, prima ancora di
iniziare il trattamento analitico, che esso possa in lui distruggere qualche cosa,
è già un indice che l’individuo non è sicuro di sé, che egli, fin d’ora, è un altro
da quello che egli vorrebbe e si illude di essere: che le sue capacità artistiche
non sono affatto genuine, che il suo affetto per la moglie è puramente
apparente, che la sua fede religiosa o le sue convinzioni politiche sono
sovrastrutture artificiose, le quali nascondono una realtà differente, e che egli,
come magistrato, non è in grado di far bene il suo mestiere.
Il paziente in certo modo sa tutto questo (e ne ha paura), e proprio perciò
pone il suo quesito. Se non avvertisse già ora falsa la sua arte, apparente il
suo amore, artificiose le sue convinzioni e difettoso il suo comportamento
professionale, non si sognerebbe mai di presentare domande di questo genere.
Perciò quand’anche alla fine del trattamento il paziente dovesse constatare
di essere mutato, egli dovrebbe semplicemente riconoscere che egli è divenuto
ora pienamente consapevole di quello che egli già (in forma inconsapevole) era
precedentemente: per cui in definitiva è proprio rimasto se stesso, ed è ora se
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stesso in modo più genuino. Anzi ha ora maniera, conoscendosi meglio, di
padroneggiare determinati elementi della sua personalità, e di adattarli alle
esigenze della realtà.
Non è del resto detto che questa via, la via della psicoanalisi, conduca
inevitabilmente ad un annullamento delle capacità artistiche, delle impostazioni
affettive, dei convincimenti e delle attitudini professionali. Può anche accadere
tutto il contrario: e che cioè i conflitti inconsci i quali inceppano il soggetto, una
volta risolti, lascino fiorire con maggiore spontaneità quelle attività che prima
si estrinsecavano sotto il dominio di quei conflitti, e che il paziente si ritrovi
rinsaldato nelle sue stesse posizioni anteriori ed arricchito nelle sue possibilità.
Comunque di suo la psicoanalisi non pone nulla nella personalità del
paziente. Essa si limita a tirar fuori quello che già esiste in lui, mettendolo in
tal modo in condizioni di far meglio i conti con se stesso.
Un altro genere di obbiezioni viene mosso alla psicoanalisi dalle correnti
marxiste. Anche il marxismo è a modo suo un procedimento riduttivo, quando
afferma che i motivi ideali per i quali gli uomini combattono quelle lotte di cui è
fatta la storia, rappresentano sovrastrutture, al di sotto delle quali agiscono
molto più sostanziali realtà, e cioè i conflitti di interesse che si sviluppano in
base ai rapporti economici, condizionati a loro volta dalla evoluzione delle
forme di produzione.
Pertanto il marxismo non può rimproverare a Freud e alla psicoanalisi il
metodo riduttivo come tale; ma gli rimprovera, se mai, il tipo di riduzione da
essa compiuta, la direzione cioè nella quale la psicanalisi ricerca, al di sotto di
una più superficiale apparenza, una più profonda e valida realtà.
Siamo perciò qui di fronte ad una specie di lite fra concorrenti. Ed i
marxisti di più ortodossa osservanza sono pronti a dire che la psicoanalisi,
rivolgendo il processo riduttivo verso il ristretto campo dei conflitti psichici
inconsci svolgentisi nella singola personalità individuale, rende un favore a chi
ha interesse a mantenere occulti i contrasti che determinano e mettono in
moto la lotta di classe, e quindi si pone al servizio delle forze conservatrici
della società.
Se tuttavia si spoglia questo contrasto dal suo aspetto più direttamente
politico e lo si riconduce su un terreno propriamente scientifico, esso appare
inquadrabile in un più vasto problema che è quello dei rapporti in genere fra
psicologia e sociologia.
La psicoanalisi è una dottrina psicologica e il marxismo è una teoria
sociologica. E quantunque lo psicologo non possa scordare che l’individuo
singolo vive in un complesso sociale, e il sociologo debba tener presente che la
società è in definitiva costituita da individui, il loro punto di vista e il loro
metodo è necessariamente diverso. Cosicché l’un tipo di riduzione non esclude
l’altro.
Che in condizioni sociali diverse, mutando la somma delle esperienze
attraverso le quali passano i singoli individui, mutino anche i loro conflitti
ulteriori e in genere muti l’economia generale delle forze psichiche agenti in
ciascuno, è certo. E la psicoanalisi, anche nella sua esperienza clinica, ha
dovuto constatare che la frequenza delle varie forme nevrotiche, muta nel
passaggio dall’uno all’altro ambiente sociale: nelle varie classi ad esempio di
cui è costituita la nostra società, o nei vari paesi a differente struttura
economico-sociale, nelle varie epoche storiche.
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Ma se il contenuto della nostra vita è diverso, la forma, e cioè le leggi
psicologiche fondamentali, secondo le quali quel contenuto viene elaborato,
rimangono le stesse. Pretendere che esse debbano mutare sarebbe come
pretendere che, per il fatto che i differenti regimi alimentari espongono gli
organismi umani a differenti disturbi, mutino anche per gli individui sottoposti
a quei regimi alimentari, le leggi fisiologiche del ricambio organico.
La interpretazione psicologica è pertanto del tutto compatibile con
interpretazioni di carattere sociologico, giacché le forze agenti nella società
possono esplicare la loro azione soltanto attraverso i meccanismi psichici che
han sede nella personalità individuale, e son subordinate alle leggi che
regolano la vita inferiore dell’individuo.
Intorno alla psicoanalisi si è svolta anche un’altra polemica. Allo stesso
modo come vi è qualcuno che giudica la psicoanalisi una dottrina materialistica
ed altri che la giudicano spiritualistica, vi e chi la prospetta come una forma di
irrazionalismo e chi invece ne parla come di un prodotto di una impostazione
esageratamente razionalistica.
Irrazionalismo, perché se alla base di ogni comportamento umano, anche
di quello che ci appare dettato da considerazioni d’ordine intellettuale, stanno
invece oscuri impulsi alimentati dalla nostra natura istintiva, tutte le
motivazioni che siamo abituati a dare delle nostre azioni e dei nostri pensieri si
rivelano illusorie.
Mettersi attorno ad un tavolo e discutere, esponendo le proprie ragioni,
non sarebbe più possibile. Ciascuno potrebbe intervenire, fermando il proprio
contraddittore: Alto là! Quello che tu stai dicendo non conta nulla; è una pura
e semplice razionalizzazione secondaria, un tentativo cioè per costruire a
posteriori una impalcatura logica la quale giustifichi il tuo giudizio, il quale
invece ha tutt’altra origine ed è dovuto ad una motivazione (inconscia e
irrazionale) di altro genere, come tale non discutibile. Salvo poi ad essere
rimbeccato dall’individuo che è stato interrotto, con un discorso pressappoco
corrispondente.
Qualche volta fra psicoanalisti succede proprio così, e si può assistere a
polemiche che si svolgono su questo ritmo.
È evidentemente pericoloso mettere in forse la validità di quello strumento
che è la ragione, perché si rischia di trovare se stessi sprovvisti di qualsiasi
mezzo per far valere le proprie affermazioni in contraddittorio con gli altri.
Naturalmente queste sono esagerazioni nelle quali incappano soltanto i
neofiti della psicoanalisi. Ma anche a prescindere da queste posizioni estreme,
è pure indubbio che, nella economia generale della vita spirituale umana, la
psicoanalisi ha messo l’accento sul suo lato e sulle sue fonti irrazionali.
E allora tenuto conto di altri aspetti del pensiero moderno e della moderna
cultura, che appaiono una reazione a precedenti posizioni più nettamente
intellettualistiche, si può anche affermare che la psicoanalisi si inserisce in una
tale reazione, e ne è in un certo modo rappresentativa, proprio per questo
rilievo dato alla vita degli istinti, alla affettività, e ai fattori meno razionalmente
limpidi della attività spirituale.
Ma tutto questo ragionamento può anche essere completamente
rovesciato, per cui è altrettanto legittimo vedere nella psicoanalisi una forma di
razionalismo.
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O non abbiamo detto che il metodo psicoanalitico di interpretazione della
nostra vita si fonda sul presupposto che nulla nella umana attività è incidentale
e casuale? Che in ogni suo elemento c’è sempre un significato ed una
intenzione? Che se incespico per le scale, se perdo le chiavi di casa, se
dimentico il nome di una persona, se faccio uno scarabocchio con la matita, se
ora mi viene in mente un dato pensiero, se questa notte ho fatto un sogno
particolare, se Tizio mi è simpatico, e qualche volta anche se mi busco un
raffreddore, queste son tutte azioni e comportamenti sensati, che
corrispondono ad una precisa mia interiore intenzione?
Altro che irrazionalismo! Sembra che la psicoanalisi faccia piazza pulita del
caso, della eccezione, dello spontaneo, dell’imprevisto, e ponga l’intera nostra
vita sotto il dominio di una ragione universale. È la meccanica razionale
introdotta nel sacro tempio dello spirito!
E allora come si risolve questo dilemma che sembra irrisolvibile? E dove
dobbiamo collocare la psicoanalisi? Fra le manifestazioni di un moderno
irrazionalismo in rivolta contro lo scientificismo positivistico del passato? O
come rinnovata espressione di quello stesso scientificismo positivistico?
Il dilemma è tale solo in apparenza.
Da un punto di vista formale, e come metodo, la psicoanalisi in quanto
dottrina e metodo scientifico ha veramente carattere razionalistico: essa
applica alla vita psichica, con lo stesso rigore col quale lo applicano le altre
scienze della natura al loro oggetto specifico, il principio di causalità. E la
causalità psichica, la motivazione psicologica, è significatività ed intenzionalità.
Ma quanto a contenuto, e per ciò che quindi riguarda i fattori agenti nei
meccanismi causali dell’attività psichica, essa dà rilievo agli elementi irrazionali
dell’umana personalità.
L’edificio costruito dalla psicoanalisi è un edificio rigorosamente logico, ma
la sua logica è la logica dell’irrazionale. Ed ecco che secondo che si ponga
l’accento sull’aspetto formale della psicoanalisi, o invece sul contenuto stesso
sul quale la psicoanalisi opera, e col quale essa ricostruisce la struttura della
personalità, essa può venire legittimamente qualificata come espressione di un
estremo razionalismo o di un estremo irrazionalismo.
In una sua opera scritta in forma di dialogo, nella quale egli si proponeva
di illustrare il procedimento della psicoanalisi in quanto metodo terapeutico,
Freud mise in rilievo la difficoltà che presenta una tale illustrazione, per il fatto
che non è possibile paragonare la situazione dell’analisi ad alcuna altra
situazione più abituale e più nota: si tratta di una situazione sui generis, e per
comprenderla appieno è necessario provarla, cioè sottoporsi ad una analisi.
La stessa difficoltà si incontra a voler incasellare la psicoanalisi come
dottrina, in quegli schemi che ci sono abituali per caratterizzare le
manifestazioni del pensiero, le teorie, le posizioni spirituali ed i fenomeni
culturali. Anche da questo punto di vista la psicoanalisi sembra stare
completamente a sé.
E forse il suo carattere specifico è proprio questo. E da un tale carattere in
gran parte derivano l’interesse da essa suscitato come fenomeno culturale, e le
molte polemiche che essa ha sollevato.
Spesso però nel corso di tali polemiche si perde di vista quella che è la
base, il significato più importante, e l’origine della psicoanalisi: quella origine
dalla quale essa attinge tutta la sua validità. E cioè il suo aspetto di metodo
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terapeutico delle nevrosi, e cioè di strumento per liberare gli uomini da
determinate difficoltà, inibizioni e disturbi che, incrostandosi sopra la loro
personalità, la deformano, la inceppano e le procurano sofferenze talora assai
più intense delle sofferenze più propriamente fisiche.
Abbiamo detto: liberare.
A proposito di questa parola si potrebbe porre un altro dilemma nei
confronti della psicoanalisi. È essa una dottrina negatrice o affermatrice della
libertà umana?
Anche qui sono possibili due opposte posizioni. La sua impostazione
scientifica, fondata come dicemmo sopra una applicazione rigorosa del
principio di causalità, è necessariamente una impostazione deterministica: di
quel determinismo metodologico che costituisce il presupposto di ogni
sperimentazione e di ogni enunciazione di leggi generali causali.
Ma l’attività sua terapeutica, in quanto consiste in una annessione alla
coscienza di elementi anteriormente dislocati nell’inconscio e quindi sottratti
all’azione dell’io, e nella ricostruzione di una autonomia dell’io e della
personalità cosciente nei confronti di quella eteronomia che è data dalla
nevrosi, è una attività veramente apportatrice di libertà.
E apportatrice di libertà è la psicoanalisi anche come pura dottrina:
giacché colui che da essa è reso accorto dell’esistenza di quell’interiore mondo
sotterraneo che è in noi e delle modalità della sua azione, può assai meglio
sottrarsi a quell’azione e signoreggiarla.
Vorrei appunto concludere mettendo questo in rilievo con parole che ho
già usato in altra occasione.
“Al modo stesso come le scienze fisiche limitano la nostra dipendenza dalle
forze naturali esteriori e convertono quelle in un nostro potere, anche la
psicoanalisi fa questo per l’altro mondo a noi estraneo che invece rechiamo con
noi (l’interno paese straniero, das inneres Ausland, come dice Freud), e cioè
per le forze psichiche del nostro inconscio. Ed essa ci dà modo così di arricchire
la nostra vita e di raggiungere un più alto livello di libertà spirituale.
Di questa possibilità gli uomini del nostro tempo vanno debitori all’opera di
Sigmund Freud”.
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