Avvocati di Famiglia n. 4 2013 - Osservatorio nazionale sul diritto di

ISSN 2039-6503
OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
n. 4 - ottobre-dicembre 2013
Anno VI - n. 4 - ottobre-dicembre 2013 - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% - DCB Roma
Avvocatidifamiglia
L’Osservatorio associazione forense specialistica
Diritto all'anonimato della partoriente
e corte costituzionale
Mantenimento e spese straordinarie
La verità imposta ai coniugi nel processo
di separazione
Avvocatidifamiglia
OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
LA PROFESSIONE FORENSE NEL DIRITTO DI FAMIGLIA IN ITALIA
Avvocati di famiglia
Periodico dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
Nuova serie, anno VI, n. 4 - ottobre-dicembre 2013
Autorizzazione del tribunale di Roma n. 98 del 4 marzo 1996
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Redazione
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SOMMARIO
Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
Sommario
Editoriale
La scuola di formazione e di aggiornamento
per avvocati dell’Osservatorio nazionale
sul diritto di famiglia 2
(Gianfranco Dosi)
Approfondimenti
Lo status di figlio 64
(Germana Bertoli)
La successione dei figli nati fuori dal matrimonio
dopo la legge 219/2012 71
(Bianca Santoro e Antonella Molica)
Studi e ricerche
Modalità di determinazione e versamento
dell’assegno di mantenimento e delle spese
straordinarie per il coniuge e per i figli.
Confronto giurisprudenziale e prassi
sul diritto di famiglia 4
(Riccardo Leonetti)
Le nuove ipotesi di indegnità a succedere
tra le poche luci e le tante ombre allungate
dal nuovo art. 448 bis c.c. sul principio
di equiparazione degli status di filiazione 24
(Giuseppe Palazzolo)
Dibattito
Nota critica alla verità imposta ai coniugi
sotto sanzione penale nei procedimenti
per separazione 34
(Claudio Cecchella)
Corte Costituzionale
La Corte Costituzionale rimedita l’anteriore
indirizzo sulla rigida irreversibilità dell’opzione
materna per l’anonimato di genitura 38
(C. Cost., 22 novembre 2013 n. 278)
(Giancarlo Savi)
In libreria
La riforma della filiazione, 1° quaderno
della Scuola di formazione dell’Osservatorio
sul diritto di famiglia 81
(Mauro Paladini e Claudio Cecchella)
La Famiglia Composita. Un’indagine sistematica
sulla famiglia ricomposta: i neo coniugi
o conviventi i figli nati da precedenti relazioni
e i loro rapporti 81
(Dario Buzzelli)
Il divorzio collaborativo 82
(Olga Anastasi)
Le carte storiche dei diritti. Raccolta di Carte,
Dichiarazioni e Costituzioni con note esplicative 83
(Alarico Mariani Marini e Umberto Vincenti)
Formulario del matrimonio canonico 83
(Mauro Agosto Rosaria Capozzi)
Dossier
La Convenzione di Istanbul adottata dal Consiglio
d’Europa l’11 maggio 2011 sulla prevenzione
e il contrasto alla violenza alle donne
e alla violenza domestica (ratificata dall’Italia
con le legge 27 giugno 2013, n. 77) 39
Giurisprudenza
La destinazione degli assegni familiari
nella separazione coniugale 58
(Cass. civ. Sez. I, 23 maggio 2013, n. 12770)
Il punto di vista (Giancarlo Savi) 59
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 1
EDITORIALE
GIANFRANCO DOSI
LA SCUOLA DI FORMAZIONE E DI AGGIORNAMENTO
PER AVVOCATI DELL’OSSERVATORIO NAZIONALE
SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
Il Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 13 dicembre 2013 ha deliberato l’iscrizione dell’Osservatorio Nazionale sul Diritto di Famiglia nell’elenco delle associazioni forensi specialistiche maggiormente
rappresentative.
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EDITORIALE
La scuola centrale di formazione e di aggiornamento dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia costituita il 21 maggio 2011 - promuove un corso biennale rivolto ad avvocati iscritti all’associazione con il
seguente programma:
I PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO DI FAMIGLIA E IL RUOLO DELL’AVVOCATO
Roma - Via Cavour 50
Programma del primo anno
I.
Venerdì 21 febbraio (ore 15-19)
Sabato 22 febbraio 2014 (ore 9-13)
Il processo camerale nel diritto di famiglia
II.
Venerdì 28 marzo 2014 (ore 15-19)
Sabato 29 marzo 2014 (ore 9-13)
L’affidamento dei figli
III.
Venerdì 23 maggio (ore 15-19)
Sabato 24 maggio 2014 (ore 9-13)
Il processo di separazione e divorzio
IV.
Venerdì 27 giugno 2014 (ore 15-19)
Sabato 28 giugno 2014 (ore 9-13)
L’esecuzione e l’attuazione dei provvedimenti
Venerdì 26 settembre 2014 (ore 15-19)
Sabato 27 settembre 2014 (ore 9-13)
Le obbligazioni di mantenimento
Venerdì 24 ottobre (ore 15-19)
Sabato 25 ottobre 2014 (ore 9-13)
La filiazione
VII.
Venerdì 21 novembre (ore 15-19)
Sabato 22 novembre 2014 (ore 9-13)
Trasferimenti e attribuzioni patrimoniali
VIII.
Venerdì 12 dicembre (ore 15-19)
Sabato 13 dicembre 2014 (ore 9-13)
La mediazione familiare
V.
VI.
Le modalità di partecipazione e di iscrizione verranno comunicate ai soci dell’Osservatorio
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 3
STUDI E RICERCHE
MODALITÀ
DI DETERMINAZIONE
E VERSAMENTO
DELL’ASSEGNO
DI MANTENIMENTO
E DELLE SPESE
STRAORDINARIE PER
IL CONIUGE E PER I FIGLI.
CONFRONTO
GIURISPRUDENZIALE
E PRASSI SUL DIRITTO
DI FAMIGLIA
DOTT. RICCARDO LEONETTI
GIUDICE DEL TRIBUNALE DI TRANI
MODALITÀ DI DETERMINAZIONE E VERSAMENTO
DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO E DELLE SPESE
STRAORDINARIE PER IL CONIUGE E PER I FIGLI1
Premessa.
Dei due profili - personale e patrimoniale - in cui
è dato scomporre il regime convenzionale o giudiziale della separazione personale o del divorzio tra
i coniugi, quello solitamente oggetto di maggiore attenzione, anche da parte dei mezzi di informazione
di massa, è senz’altro il profilo dei rapporti personali, più direttamente involgente diritti di rilievo costituzionale, in particolar modo in presenza di prole
minore di età.
Tuttavia da qualche tempo, anche per via della negativa situazione economica in cui versa il Paese, l’attenzione si va sempre più concentrando sugli aspetti
economici della crisi coniugale, oggetto di continui
interventi della Suprema Corte e quotidiano terreno
di confronto nelle aule dei Tribunali di tutta Italia.
Le molteplici e variegate conseguenze della crisi
economica, infatti, non soltanto costituiscono circostanze sopravvenute che i coniugi obbligati al mantenimento pretendono di far valere al fine di ottenere una riduzione del loro impegno economico in
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favore dei beneficiari, ma possono incidere anche
sotto altri connessi profili: si pensi, ad esempio, alla
delicata questione del contemperamento - in un
contesto caratterizzato da disoccupazione endemica
da un lato e forme di lavoro precario e sottopagato
dall’altro - tra l’interesse del figlio maggiorenne ad
essere mantenuto dai genitori sino al raggiungimento dell’indipendenza economica, e il contrapposto interesse di questi ultimi (spesso a loro volta in
difficoltà economica ovvero impegnati a mantenere
la nuova famiglia costituita dopo la crisi coniugale),
a non essere gravati dal dovere di assistenza materiale in favore di soggetti ormai dotati di capacità lavorativa, talora addirittura più dei genitori da cui
vorrebbero continuare ad essere mantenuti.
Le principali e più dibattute questioni in tema di
determinazione e versamento dell’assegno di mantenimento costituiranno, appunto, l’oggetto della
presente relazione, che si sforzerà di tenere fede all’approccio suggerito dal titolo dell’incontro, ossia
quello strettamente pratico-operativo, attraverso la
ricognizione delle pratiche giudiziali e degli orientamenti della giurisprudenza in materia.
1. L’ASSEGNO ALLA PROLE MINORE D’ETÀ
1.1 Generalità.
Con riferimento ai rapporti tra genitori e figli, la
riforma del 2006 (L.8.2.06 n. 54) ha introdotto, per i
profili economici come per quelli personali, una
specifica disciplina, che ha trovato collocazione all’interno delle disposizioni codicistiche in materia
di separazione, ma che è applicabile, per espressa
previsione dell’art.4 co.2 della legge di riforma, anche in sede di divorzio, con susseguente implicita
abrogazione delle disposizioni in materia già contenute nella L.898/70.
Con specifico riguardo alla prole minorenne, la particolare intensità dell’esigenza di protezione di tale
categoria di soggetti deboli determina l’applicabilità,
anche in punto di disciplina dei rapporti economici,
di regole caratterizzate dalla presenza di penetranti
poteri officiosi del giudicante, sul presupposto dell’inopportunità di una scelta che lasci la materia al
dominio di principi tipicamente privatistici.
Tipica espressione di questo approccio è l’inapplicabilità, al mantenimento della prole minorenne,
del principio della domanda, potendo il giudice prevedere l’obbligo di mantenimento a prescindere da
ogni iniziativa di parte2.
Altro importante profilo pubblicistico in materia è
l’ampliamento dei poteri istruttori esercitabili d’ufficio dal giudicante. Il fulcro di tali poteri è rinvenibile nell’art.155 sexies cc, a mente del quale il giudice, prima di adottare i provvedimenti di cui all’art.155 cc, può disporre, anche d’ufficio, mezzi di
prova (procedendo altresì all’ascolto del minore se
dodicenne o infradodicenne capace di discernimento). È dubbio se tale potere officioso soggiaccia
STUDI E RICERCHE
ai generali limiti temporali previsti in via generale
dall’art.183 co.7 cpc; dubbio che ad avviso di chi
scrive va sciolto nel senso dell’inoperatività di ogni
termine preclusivo (salvo il rispetto del contraddittorio), considerati da un lato la superiore esigenza
di tutela della prole, dall’altro l’immanenza, in materia, del principio tempus regit actum.
In concreto il giudicante, nell’esercizio dei suoi
poteri istruttori, potrà, al fine di ricostruire la situazione economica del’obbligato: assumere prove testimoniali; esaminare le dichiarazioni reddituali e
gli altri documenti (la cui mancata produzione ex
art.5 co.9 L. divorzio costituisce argomento sfavorevole di prova ai sensi e per gli effetti dell’art.116 cpc);
interrogare liberamente i coniugi; ordinare ai coniugi o a terzi esibizioni documentali (estratti conto,
visure immobiliari, estratti conto, contratti di lavoro
e di locazione, contratti di finanziamento, fatture,
fotografie, bilanci ecc.); disporre informative presso
terzi (banche, enti previdenziali, uffici del registro)
ex art. 213 c.p.c.; disporre indagini mediante di Finanza3; disporre CTU; avvalersi di presunzioni, che
in materia hanno grande rilevanza, specialmente in
contesti sociali e territoriali in cui i redditi non dichiarati (c.d. “in nero”) sono la regola4.
1.2 Rapporto tra mantenimento diretto ed assegno
perequativo.
La disciplina dei provvedimenti economici da assumere, riguardo ai figli minorenni, nei giudizi di separazione (e di divorzio) è tutta contenuta nei
commi 2 e 4 dell’art.155 cc..
Tale disposizione afferma che spetta al giudice
stabilire non soltanto la misura, ma anche il modo
in cui ciascun genitore deve contribuire al mantenimento della prole; che, salvi accordi liberamente
sottoscritti dalle parti, ciascun genitore vi provvede
in misura proporzionale al proprio reddito; e che,
ove necessario al fine di realizzare il principio di
proporzionalità, il giudice stabilisce un assegno periodico, determinato sulla base di cinque criteri: 1)
esigenze attuali del figlio; 2) tenore di vita da lui
avuto durante la convivenza matrimoniale; 3)
tempi di permanenza dello stesso presso ciascun
genitore; 4) risorse economiche di ciascun genitore;
5) valenza economica dei compiti domestici di ciascun genitore5.
Tra breve verrà approfondito ciascuno dei suddetti
criteri. Prima, però, occorre evidenziare il punto critico della disciplina sopra descritta, costituito dal
rapporto tra il mantenimento diretto e l’assegno determinato a titolo di contributo al mantenimento.
In proposito, dopo l’avvento nel 2006 dell’affidamento condiviso come modalità elettiva di affidamento della prole (in quanto maggiormente funzionale alla realizzazione del diritto indisponibile della
prole alla c.d. bigenitorialità, ossia ad essere educato
e curato da entrambi i genitori attraverso una loro
frequentazione equilibrata sul piano qualitativo e/o
quantitativo), si sarebbe portati a pensare che la modalità normale ed esaustiva di assolvimento dell’obbligo di mantenimento dei figli sia divenuta
quella del mantenimento in via diretta degli stessi
da parte di ciascun coniuge.
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 5
STUDI E RICERCHE
Così, tuttavia, non è: non soltanto perché continua a ribadire nei suoi più recenti arresti6 che il giudicante conserva, anche in regime di affidamento
condiviso, un’ampia discrezionalità circa la misura
e il modo di contribuzione al mantenimento da
parte di entrambi (tanto da poter ritenere irrilevante
il fatto che per un certo tempo il figlio stia presso il
genitore non collocatario, dando esclusivo rilievo
agli altri criteri7); ma anche e soprattutto perché la
previsione del mantenimento diretto come forma
esclusiva di mantenimento, con esclusione di ogni
forma perequazione economica, postula due circostanze entrambe di rara verificazione: un’assoluta
equivalenza dei redditi e delle sostanze dei coniugi;
e, soprattutto, una sostanziale equivalenza dei
tempi di permanenza della prole presso ciascun genitore.
Sotto quest’ultimo aspetto, invece, nella prassi si
suole cumulare alla previsione dell’affidamento
condiviso un regime di collocazione (eufemisticamente qualificato come “prevalente”) marcatamente squilibrato in favore di uno soltanto dei genitori, di regola la madre, regime cui segue una disciplina del diritto di visita del genitore non collocatario sovente consistente in una frequentazione
limitata a pochi giorni e poche ore settimanali, ad
alcuni giorni alternati nelle feste canoniche, e ad
una o due settimane nel periodo estivo.
È chiaro che un simile assetto dei tempi di frequentazione finisce per influire in maniera decisiva
anche sulla regolamentazione dei rapporti econo6 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
mici: nel senso che il genitore non collocatario, gravato da oneri minimi di mantenimento diretto dei
figli pur affidati anche a lui, finisce per dovere compensare lo squilibrio in moneta sonante, in base al
criterio sopra indicato dei “tempi di permanenza”,
ed avuto riguardo agli altri criteri di determinazione
e, in particolare, del criterio proporzionale-reddituale (Cass. 23411/09).
In altre parole, a causa del concreto atteggiarsi
dell’affidamento condiviso ciò che è regola (il mantenimento diretto, salva integrazione per tenere
conto della diversità di reddito) finisce per diventare
eccezione, e comporta una monetizzazione, spesso
neppure voluta, del gap di frequentazione della
prole da parte dei due coniugi.
È bene intendersi: la sperequazione dei ruoli trova
numerose ed oggettive giustificazioni: l’esigenza che
i figli siano radicati presso una sola abitazione ed abbiano un unico centro d’interessi; la necessità, in
caso di figli piccoli, di rispettare la loro fisiologica esigenza di vicinanza alla madre. Ma, nei non rari casi
in cui tali esigenze non sussistano o comunque non
siano avvertite come stringenti da entrambi i coniugi
(si pensi al caso di figli ormai adolescenti che abbiano ormai metabolizzato la situazione di conflitto
tra i loro genitori), il coniuge penalizzato, di solito il
padre, tende ad invocare un riequilibrio dei tempi di
frequentazione della prole, in modo da attenuare i
propri obblighi perequativi, anche nel sospetto che
l’altro coniuge possa utilizzare impropriamente il
danaro ricevuto per i bisogni dei figli8.
STUDI E RICERCHE
1.3 Criteri legali di determinazione dell’assegno.
Deve comunque prendersi atto del fatto che ad
oggi, nella pratica giudiziaria, il mantenimento diretto non è praticamente mai considerato una modalità esclusiva di contributo al mantenimento della
prole, sostituendosi o comunque affiancandosi a
tale modalità la previsione di un assegno perequativo a carico del soggetto non collocatario9; assegno
il diritto al quale è soggetto alla prescrizione quinquennale di cui all’art. 2948 c.c. decorrente dalla scadenza di ciascun rateo mensile10, e che ha natura sostanzialmente alimentare, ciò valendo ad escludere
la compensazione (artt.1246 n. 5 cc e 445 cc), con
conseguente inefficacia di eventuali autoriduzioni
dell’assegno da parte dell’obbligato per tenere conto
di propri controcrediti11.
Al fine di quantificare la misura dell’assegno di
mantenimento, il principale criterio è costituito
dalle risorse economiche di ciascun coniuge.
In proposito, è importante sottolineare che l’obbligo di contribuzione va stabilito autonomamente
con riguardo al rapporto tra ciascun genitore e la
prole, senza possibilità di valutazione comparativa
tra i due coniugi.
Ciò comporta anzitutto che, se un coniuge ha
maggiori possibilità economiche rispetto all’altro,
non basta che contribuisca al mantenimento della
prole paritariamente rispetto all’altro, trovando l’obbligo da cui è gravato il limite piuttosto nelle sue
possibilità economiche, secondo il principio generale espresso dall’art.148 c.c.; né esiste, secondo
l’opinione prevalente (solidamente basata sull’inequivoca formula della legge), una misura massima
di tale assegno, che va dunque tarato sulle possibilità economiche dell’obbligato, quali esse siano,
senza che se ne possa disporre la riduzione sul rilievo, pur ragionevole, che un simile assegno sarebbe diseducativo perché troppo elevato12.
Ne consegue inoltre, con riguardo al coniuge con
minori possibilità economiche, che il fatto che l’altro
abbia maggiori risorse giova al figlio beneficiario, ma
non vale certo a sollevare il genitore meno dotato dall’obbligo di contribuire anch’egli al mantenimento del
figlio, in proporzione ovviamente alle sue risorse13.
In quest’ottica di completa indifferenza alla situazione dell’altro coniuge, si comprende perché la
giurisprudenza abbia sempre considerato irrilevanti,
ai fini della determinazione degli obblighi di un coniuge verso la prole, tutte le vicende che comportino un risparmio di spesa per l’altro coniuge affidatario (ess.: casa data in comodato da parente14;
convivenza more uxorio con un compagno che
provveda al mantenimento del figlio15).
Per motivi eguali e contrari, sono invece considerate rilevanti, in linea di principio, le circostanze e
situazioni che incidano, in senso negativo o positivo,
sulla situazione economica del coniuge obbligato. Si
è pertanto affermata la rilevanza del sopravvenuto
obbligo di mantenimento di un figlio naturale concepito dall’obbligato fuori dal matrimonio16; così
come si è chiarito che la circostanza dell’ assegnazione al coniuge affidatario della casa familiare in
proprietà, esclusiva o comune, all’altro coniuge, incide senz’altro sulla determinazione dell’obbligo di
quest’ultimo, in particolare risultando equo ridurre
l’assegno di un importo corrispondente al valore locativo della quota di immobile di proprietà dell’obbligato non assegnatario, sul presupposto che la dazione in godimento costituisce modalità di (parziale)
adempimento dell’obbligo di mantenimento17.
Quanto al concreto contenuto da assegnare al criterio in esame, la S.C. ha sempre adottato un’interpretazione estensiva, in quanto ha ritenuto, nonostante il richiamo al solo “reddito” contenuto nell’incipit del comma 4 dell’art.155 cc, che rilevino a tal fine
non soltanto i redditi (in un’ampia accezione, comprensiva di tutti i flussi reddituali18 derivanti da lavoro autonomo o subordinato o da trattamenti previdenziali), ma anche il lavoro casalingo svolto dal coniuge a beneficio dei figli (d’altra parte espressamente ritenuto suscettibile di valutazione economica
dal n.5 della disposizione), le “sostanze” e ogni altra
utilità. In quest’ampia accezione, rilevano dunque: il
valore intrinseco degli immobili in proprietà, anche
se improduttivi, purchè suscettibili di essere impiegati direttamente o convertiti19; le quote di partecipazione sociale; gli utili derivanti dall’investimento
di capitali; il capitale derivante dalla vendita di beni20;
le rendite Inail21; i proventi di qualsiasi natura22.
La S.C. ha inoltre chiarito che il parametro di riferimento è costituito non soltanto dai redditi e
dalle sostanze dell’obbligato, ma anche dall’astratta
capacità lavorativa del medesimo, tenuto a metterla
a frutto al fine di reperire mezzi di sostentamento
non solo per sé ma anche per i propri figli minori23.
Ne deriva che neppure lo stato di disoccupazione (a
maggior ragione se volontaria o addirittura preordinata a sottrarsi agli obblighi di mantenimento) rileva al fine della soppressione del contributo al
mantenimento, salva ovviamente l’incidenza sulla
quantificazione del contributo, ove la mancanza di
occupazione sia incolpevole; a meno che l’obbligato
riesca a superare la presunzione iuris tantum di capacità di occuparsi, dimostrando le ragioni per cui
non riesce a trovare utile impiego (es. una malattia).
Nella prassi giudiziaria, i predetti principi hanno
portato i Tribunali italiani ad individuare un assegno minimo (normalmente di importo inferiore ai €
200,00 mensili per ciascun figlio, tanto più nei casi in
cui vi siano più figli da mantenere) da porre a carico
del genitore obbligato a prescindere da ogni prova
circa la sua capacità reddituale; anche se la giurisprudenza di legittimità ha di recente ribadito che,
in conformità con il principio di assoluta discrezionalità del giudice nel determinare modo e misura
del mantenimento, ben può statuirsi che il genitore
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 7
STUDI E RICERCHE
non collocatario assolva l’obbligo di mantenimento
esclusivamente ospitando e mantenendo i figli in
occasione delle loro visite, laddove le sue condizioni
non gli permettano altro contributo24.
Altro criterio di riferimento per la determinazione
dell’assegno di mantenimento è quello delle esigenze attuali (alimentari, ma anche abitative, scolastiche, sportive, sanitarie, sociali, di assistenza morale e materiale) della prole beneficiaria.
Il fatto che il legislatore faccia espresso riferimento alle sole esigenze “attuali” dei figli porta la
maggioranza degli interpreti ad escludere la possibilità che possano considerarsi, a fini di quantificazione dell’assegno, anche le esigenze future della
prole25. Peraltro l’aumento dei bisogni del figlio, non
suscettibile di considerazione in sede di prima determinazione dell’assegno, può sempre essere portato all’attenzione del giudicante ai sensi dell’art.155 ter cc mediante istanza di modifica delle
condizioni di separazione o di divorzio; ed in tale
sede non può che presumersi, in mancanza di elementi di segno contrario, che la crescita dei figli (ed
in particolare il passaggio del minore alla fase dell’adolescenza) comporti, per via della maggiore tendenza alla socializzazione, unita all’ancora assoluta
impossibilità di procacciarsi da sé forme di autonomia economica, maggiori bisogni economici26.
Quanto infine al criterio secondo cui l’assegno
deve garantire alla prole il mantenimento del medesimo tenore di vita cui era abituato nel periodo di
convivenza con entrambi i coniugi, esso non costituisce un criterio assoluto, giacchè va contemperato
con gli altri criteri e, in particolare, con quello del
reddito dei genitori: nel senso che il tenore di vita
anteatto va sì conservato, ma nei limiti di quanto
consentito dai redditi dei coniugi, tenuto anche
conto che, con la separazione, si produce normalmente, come effetto del venir meno dell’organizzazione domestica comune, un aumento delle spese
sopportate da ciascun coniuge27.
Nei suddetti limiti, peraltro, il criterio in discorso
va parametrato alle potenzialità economiche dei genitori nel periodo di convivenza, sicchè deve tenere
conto dei prevedibili sviluppi futuri delle condizioni
economiche di ciascuno di essi28.
1.4 Gli accordi delle parti sul mantenimento della
prole.
La facoltà - sovente utilizzata dalle parti - di accordarsi sulle condizioni della loro separazione personale impone di esaminare la disciplina di tali accordi e i limiti cui essi soggiacciono.
In proposito l’art.155, mentre in tema di accordi
sui profili personali dispone che il giudice “ne
prende atto se non contrari all’interesse dei figli”, in
tema di accordi sul mantenimento dei figli minori,
al co.4, parla di “accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti”.
8 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
Non può ritenersi tuttavia, alla luce degli interessi
pubblicistici ravvisabili in materia di mantenimento
della prole, che la libertà negoziale dei coniugi sia assoluta. Così si è anzitutto escluso che la convenzione
di separazione possa spingersi al punto di porre il
mantenimento dei figli (e/o le spese straordinarie)
interamente a carico di uno dei coniugi, in modo da
liberare da ogni peso l’altro coniuge a prescindere
dalle sue condizioni economiche, rilevandosi in proposito che il diritto ad essere mantenuti da un genitore è un diritto di credito esercitato dall’altro genitore iure proprio ma nell’interesse esclusivo del figlio
beneficiario, sicchè non se può disporre, tanto meno
in contrasto con l’interesse del minore29; salvo, secondo un’opinione, il caso limite del coniuge impossibilitato alla contribuzione, nel qual caso l’esenzione si atteggerebbe come condizione sospensiva
dell’obbligo di mantenimento sino al perdurare della
situazione di impossibilità contributiva.
Analoghe ragioni portano a ritenere invalidi, per
contrasto con l’interesse della prole e con il principio di proporzionalità funzionale a tale interesse, gli
accordi volti a fissare un termine finale all’obbligazione di mantenimento del figlio, nonché quelli volti
a stabilire un versamento una tantum satisfattivo del
diritto della prole ad essere mantenuta.
A diverse conclusioni deve pervenirsi in ordine alla
questione della validità dei patti con cui si attribuiscano ai figli (o ci si impegni ad attribuire) diritti reali
immobiliari a soddisfacimento dell’obbligo di mantenimento. Infatti la giurisprudenza, inizialmente
orientata in senso negativo30 in considerazione del
silenzio serbato dalla legge sul punto e della natura
indisponibile del diritto al mantenimento, in tempi
più recenti ha modificato la propria posizione, ritenendo valida ed efficace, in linea di principio, un accordo volto alla liquidazione una tantum del credito a
titolo di mantenimento31; con la precisazione che un
siffatto accordo, non potendo porsi in contrasto con
il principio di proporzionalità espresso dall’art.148
cc, viene concluso con l’implicita clausola rebus sic
stantibus e, dunque, non impedisce al genitore collocatario, in caso di modifica della situazione di fatto
esistente al momento dell’accordo, di chiedere ed ottenere, in aggiunta al trasferimento immobiliare già
operato, la previsione di un assegno a titolo di contributo al mantenimento del figlio32.
Siffatti accordi, aventi natura contrattuale e causa
solutorio-compensativa33, devono avere, anche attraverso il loro recepimento nel verbale di udienza
(avente natura di atto pubblico ai sensi dell’art.126
cpc) la forma scritta prescritta dalla legge per gli accordi di separazione (l’art.155 cc parla di accordi
“sottoscritti”) e, più in generale per i trasferimenti
immobiliari.
Controverso è, peraltro, se tali accordi possano
avere direttamente effetti reali o se, invece, debbano
limitarsi a sancire l’impegno della parte ad operare
STUDI E RICERCHE
il trasferimento del diritto immobiliare attraverso un
successivo atto dotato dei requisiti di legge. A fronte
di un orientamento favorevole alla prima tesi34,
tende a consolidarsi un contrario orientamento restrittivo, giustificato anche dalla difficoltà pratica per
il giudicante, privo dei necessari mezzi organizzativi,
di procedere ai controlli formali richiesti per tale tipo
di negozi (verifica della titolarità del diritto oggetto
del trasferimento, verifica dell’esistenza della concessione edilizia o in sanatoria prevista a pena di
nullità dall’art.40 L.47/85, ecc.)35.
1.5 La decorrenza, l’adeguamento Istat, gli assegni
familiari.
L’assegno di mantenimento della prole decorre
dal momento della domanda (e quindi dal momento
del deposito del ricorso introduttivo del giudizio), e
non già dalla data del provvedimento, provvisorio o
definitivo, con cui esso viene determinato, stante il
principio generale secondo il quale il tempo occorrente per far valere il diritto non deve pregiudicare
il suo titolare, principio ribadito in tema di alimenti
dall’art. 445 c.c.36; a condizione, però, che in quel
momento già sussistessero i presupposti per la nascita del diritto, altrimenti l’assegno decorrerà dal
momento del verificarsi di essi.
Il tema della decorrenza dell’assegno di mantenimento della prole trova un elemento di complicazione nel fatto che spesso l’assegno determinato in
sentenza è diverso, in senso ampliativo o al contrario riduttivo, rispetto a quello provvisoriamente fis-
sato dal Presidente all’esito dell’udienza di comparizione dei coniugi innanzi a lui, sicchè si pone un
problema di disciplina della successione tra i due
trattamenti economici.
In proposito, se la sentenza determina una variazione in peius dell’assegno stabilito in sede presidenziale, il suddetto principio di retroattività della
statuizione giudiziale al momento della domanda va
contemperato con il carattere sostanzialmente alimentare dell’assegno di mantenimento37, e quindi
con il relativo regime di irripetibilità, impignorabilità
e non compensabilità di tali prestazioni; da ciò derivando che chi abbia già ricevuto, per ogni singolo
periodo, le maggiori prestazioni previste in sede interinale non può essere costretta a restituirle, tanto
meno se esigue e dunque verosimilmente utilizzate
per vivere38, né può vedersele opporre in compensazione; mentre il soggetto obbligato che non abbia ancora corrisposto l’assegno non è più tenuto a farlo
laddove intervenga una sentenza che fa venir meno
il relativo obbligo39, e ciò con effetto dal momento
di passaggio in giudicato della pronuncia40.
L’obbligo, da parte di chi è tenuto a versare l’assegno di mantenimento, di rivalutare il relativo importo sulla base degli indici elaborati dall’Istat, è
previsto espressamente dall’art.155 co.5 cc, come
novellato dalla riforma del 2006, e dunque opera ex
lege a prescindere da ogni previsione giudiziale o negoziale in tal senso. Trattandosi di disposizione inderogabile, il giudice o le parti non possono escludere la rivalutazione (a differenza di quanto previsto
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 9
STUDI E RICERCHE
per i rapporti tra coniugi in sede di divorzio, dove il
giudice può escludere l’aggiornamento, con provvedimento motivato, in caso di palese iniquità: art.5
co.7 L. divorzio), mentre possono scegliere parametri di rivalutazione diversi da quelli Istat (ad esempio stabilire un adeguamento proporzionato agli incrementi del reddito dell’obbligato), purchè essi non
diano risultati inferiori a quelli scaturenti dall’applicazione dell’Istat.
Quanto infine agli assegni familiari, l’art. 211
L.151/75, applicabile per analogia anche al divorzio,
prevede che il coniuge affidatario, in aggiunta all’assegno di mantenimento e al rimborso pro quota
delle spese straordinarie41, abbia anche il diritto di
percepire gli assegni familiari (o gli analoghi trattamenti per il nucleo familiare) spettanti a lui o all’altro coniuge.
Nella vigenza del nuovo principio di affidamento
condiviso, l’opinione prevalente ritiene che il riferimento all’affidatario debba ora essere inteso come
riferimento al coniuge presso cui la prole è collocata
in via prevalente, mentre di minore consenso gode
la tesi secondo cui, nel caso ordinario di affidamento condiviso, gli assegni andrebbero divisi a
metà tra i due genitori.
2. L’ASSEGNO ALLA PROLE MAGGIORE D’ETÀ
2.1. Generalità.
In pendenza del giudizio di separazione personale
(o di divorzio), i rapporti economici tra genitori e figli maggiori d’età trovano specifica disciplina nel10 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
l’art.155 quinquies cc, che prevede la possibilità di disporre in favore dei figli maggiorenni, ove non indipendenti economicamente, un assegno periodico,
da versare, salva diversa determinazione del giudicante, direttamente al beneficiario.
Un primo elemento di diversità rispetto all’assegno in favore della prole minorenne è costituito,
dunque, dal fatto che non è prevista la possibilità di
disporre il mantenimento diretto, prevedendosi soltanto quella di un contributo in danaro (coerentemente, del resto, con la mancanza, per i figli maggiori d’età, di un regime di affidamento, collocazione
e visita).
Altro più generale profilo di diversità tra i due regimi attiene, poi, alla minore presenza, nella disciplina qui in esame, di deviazioni dai principi privatistici. Esemplare è, in proposito, la questione dell’applicabilità, alle istanze di mantenimento della
prole maggiorenne non autonoma, del principio
della domanda; questione che, inizialmente risolta
in senso negativo, sul presupposto della sostanziale
assimilabilità - quanto ad esigenze protettive - delle
due categorie di figli42, sembra essere ormai stata
definitivamente decisa dalla S.C. nel senso della rigida applicazione delle preclusioni di rito per la proposizione di domande giudiziali43.
2.2. La legittimazione ad agire e il soggetto destinatario del pagamento.
Dunque, al fine di far valere il diritto della prole
maggiorenne al mantenimento, occorre un’espressa
STUDI E RICERCHE
domanda, proposta nei tempi e nei modi richiesti
dal rito vigente.
Legittimato a proporla è anzitutto lo stesso figlio
interessato, mediante intervento autonomo nell’ambito del giudizio di separazione personale o di
divorzio pendente tra i suoi genitori, sussistendo in
tal caso una connessione tra domande tale da giustificare il simultaneus processus44.
Dalla stessa formulazione dell’art.155 quinquies,
peraltro, si evince la sussistenza di una legittimazione, concorrente con la prima, del genitore convivente con l’avente diritto45; legittimazione che, dipendendo dal diritto sostanziale del figlio, cessa se
quest’ultimo interviene in giudizio per abdicare al
suo diritto46.
Il tema della legittimazione ad agire si intreccia
con altro tema, di natura sostanziale, riguardante
l’individuazione del soggetto cui deve essere materialmente corrisposto l’assegno, e regolato dall’art.155 quinquies cc, nella parte in cui dispone che
l’assegno è versato direttamente all’avente diritto,
salvo diversa determinazione del giudice, che può
quindi decidere di individuare, come destinatario
materiale del versamento, nell’interesse dell’avente
diritto, altro soggetto (il genitore con lui convivente,
ovvero il soggetto terzo già affidatario o collocatario del figlio)47.
È dunque il giudice a scegliere discrezionalmente
chi debba essere il destinatario del versamento dell’assegno, con la conseguenza che soltanto l’osservanza di quanto disposto giudizialmente sul punto
libera il debitore48, salva l’applicazione dei principi
di cui all’art. 1188 cc; e fermo restando che, se è il figlio ad avere agito, può dubitarsi che ricorrano i presupposti, anche solo di opportunità, per derogare
alla regola del versamento diretto all’avente diritto.
D’altra parte, malgrado la legge consideri eccezionale l’ipotesi di versamento a soggetto diverso dall’avente diritto, la pratica giudiziale in tanto ritiene
giustificata la previsione del pagamento diretto all’avente diritto in quanto sia dato presumere che è
il figlio stesso a sostenere direttamente le spese per
il suo mantenimento (ad esempio perché studia in
un’altra città, pur continuando ad avere un rapporto
privilegiato di coabitazione, al suo rientro, presso il
genitore ex collocatario49), in caso contrario optando
per l’opposta soluzione di individuare come destinatario del versamento altro soggetto, e cioè quasi
sempre il coniuge presso cui il figlio convive, e che
continua a sopportare i costi di mantenimento dello
stesso.
Deve peraltro osservarsi che il favor legislativo per
il pagamento diretto trova altra importante ragione
d’essere anche nell’esigenza di incoraggiare l’adempimento da parte dell’obbligato, superando il suo timore che l’assegno, ove versato nelle mani dell’altro
coniuge, possa non essere utilizzato interamente
per i bisogni della prole.
2.3. La “non indipendenza economica”.
La sintetica locuzione “non indipendenza economica”, utilizzata dal legislatore per individuare a
contrario il termine finale del diritto al mantenimento, è stata oggetto, negli ultimi tempi, di numerosissimi arresti giurisprudenziali, finendo per diventare uno dei profili maggiormente dibattuti della
materia.
In linea generale, la S.C. nega che il raggiungimento della maggiore età, in sé considerato, sia sufficiente ad escludere o a far cessare l’obbligo dei genitori di mantenimento50, giacchè il diritto del figlio,
anche se maggiorenne, permane sino all’intervento
di una delle seguenti circostanze: a) il raggiungimento dell’indipendenza economica; b) l’avviamento ad un lavoro con serie e concrete prospettive
di indipendenza economica; c) il mancato raggiungimento dei suddetti obiettivi per colpevole inerzia
del figlio, che pure era stato posto nelle concrete
condizioni per poterli raggiungere; precisandosi, a
quest’ultimo riguardo, che non può considerarsi in
colpa il figlio che, ancorchè privo di redditi, abbia rifiutato un’occupazione non adeguata alla sua preparazione, alle sue attitudini e ai suoi interessi, almeno finchè le sue aspirazioni abbiano ragionevole
possibilità di realizzazione, e sempre che esse siano
compatibili con i bisogni della famiglia51.
Sul piano probatorio, la S.C. è costante nell’affermare che spetta all’obbligato dimostrare il raggiungimento dell’indipendenza economica o la colpevole inerzia da parte del beneficiario52. Specie con
riguardo a quest’ultima circostanza, difficilmente
suscettibile di prova diretta, particolare rilevanza ha
il ricorso alle presunzioni. In particolare nella prassi
giudiziaria, pur condividendosi l’impossibilità di fissare a priori un’età massima oltre la quale viene
meno il diritto del maggiorenne all’assegno, si suole
fare riferimento ad una soglia d’età, solitamente intorno ai trenta anni, il cui superamento fa presumere l’autonomia economica o comunque l’ingiustificata inerzia nel tentare di conseguirla, salva
prova contraria, da parte del beneficiario, del giustificato mancato raggiungimento di tale obiettivo.
In altre parole, il raggiungimento e superamento
dei trent’anni di età, la mancanza di qualsivoglia patologia invalidante e la mancata allegazione e prova
del perdurante impegno in attività di studio e di formazione professionale fanno ritenere dimostrata, in
base ad una presunzione iuris tantum suscettibile di
prova contraria, l’ingiustificata inerzia del figlio nel
tentare di raggiungere l’indipendenza economica,
attraverso la ricerca di un’occupazione di qualunque tipo, in modo da non gravare all’infinito sui genitori; mentre per converso deve riconoscersi ancora un diritto al mantenimento nei casi in cui, pur
non essendovi prova della non indipendenza economica, la giovane età del figlio sia tale da far presumere che egli, quand’anche non più impegnato
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 11
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negli studi, non abbia ancora avuto serie occasioni
lavorative53.
È pacifico in giurisprudenza, poi, che, una volta
acquisita l’autosufficienza economica, il diritto al
mantenimento viene definitivamente meno54, né
esso è suscettibile di riacquisto in caso di perdita
dell’indipendenza, in tal caso potendo soltanto configurarsi, in presenza dei relativi presupposti, un diritto agli alimenti55.
In materia, il punctum pruriens è costituito, nella
prassi, dalle situazioni, sempre più frequenti nella
situazione in cui versa attualmente il mercato del
lavoro, in cui il figlio abbia forme di retribuzione insufficienti e/o intrattenga rapporti di lavoro precario
(part-time, a termine, a progetto, di formazione, stagionale ecc). Sebbene l’eterogeneità delle suddette
situazioni imponga di valutare di volta in volta l’idoneità dell’attività svolta a rendere il figlio economicamente indipendente, può affermarsi, in linea di
principio, che nei casi di rapporto precario l’assegno,
almeno inizialmente, non va soppresso né sospeso56, ma piuttosto ridotto, salva la sua totale eliminazione (o al più la sua conversione in altra forma
di utilità, quale l’ospitalità nella casa coniugale o
l’assunzione diretta di specifici oneri) laddove il rapporto, pur formalmente precario, sia poi di fatto rimasto stabile per un lasso di tempo apprezzabile,
generalmente individuato in almeno un anno.
Le soluzioni adottate dalla giurisprudenza in
punto di prova della raggiunta indipendenza economica sono comunque improntate alla massima
cautela, al fine di evitare pericolosi vuoti di tutela.
Così la circostanza che il maggiorenne viva stabilmente in altro luogo per ragioni di studio o di formazione non è ritenuta decisiva, di per sé, al fine di
escludere il suo diritto al mantenimento, purchè egli
conservi un rapporto privilegiato di coabitazione
con il genitore ex collocatario, nel senso che egli, al
ritorno in città, dimori abitualmente presso l’abitazione di quest’ultimo.
Del pari il matrimonio del figlio maggiorenne, se
normalmente comporta il venir meno di ogni obbligo di mantenimento da parte della famiglia d’origine, non vale a dimostrare la raggiunta indipendenza economica nel caso in cui alla celebrazione
delle nozze non sia seguita la costituzione di una
nuova entità familiare autonoma e finanziariamente indipendente, per essere anche il coniuge
non autosufficiente sul piano economico57.
3. LE SPESE STRAORDINARIE
Le “spese straordinarie” sono definibili in negativo
rispetto all’assegno di mantenimento: si tratta infatti di quelle spese che, per definizione, non sono
prevedibili a priori nell’an e nel quantum, ma soltanto al momento in cui l’esborso è effettivamente
sostenuto; con la conseguenza che il loro importo
non può essere inglobato ex ante nella misura del12 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
l’assegno di mantenimento (a pena di determinare,
in modo del tutto aleatorio, ingiusti vantaggi o svantaggi per l’obbligato, a seconda della causale verificazione dei presupposti di tali spese, con pregiudizio per la prole, oltre che violazione dei principi di
proporzionalità ed adeguatezza del contributo58),
ma fa piuttosto sorgere in capo al genitore non collocatario un obbligo di rimborso in favore dell’altro
coniuge, che le ha sostenute, in aggiunta all’assegno
di mantenimento, quale ulteriore “modo” di contribuire al mantenimento dei figli (art.155 cc); obbligo
normalmente consacrato, con le formule più varie,
nei provvedimenti giudiziali adottati nel corso dei
giudizi di separazione e divorzio.
Va subito osservato, peraltro, che tali spese non
sono identificabili nelle decisioni di maggiore interesse che i coniugi devono prendere “di comune accordo” ai sensi dell’art.155 cc, posto che decisioni di
massimo interesse per la prole possono non comportare spese (si pensi ad un delicato intervento chirurgico coperto dal S.S.N.); e per converso ingenti
spese straordinarie possono derivare da decisioni di
scarso peso (es. il corredo scolastico). Ciò comporta
che il coniuge collocatario ben può compiere, senza
necessità di acquisire il consenso dell’altro, spese
straordinarie di notevole entità, almeno finchè non
attengano a decisioni “di maggiore interesse”59; e
nella realtà non è raro il caso del coniuge che, in una
situazione di elevata conflittualità con l’altro, abusi
della situazione, sostenendo ingenti spese straordinarie senza neppure comunicarle all’altro coniuge,
per poi chiedere a quest’ultimo il rimborso della
quota di spettanza di tali spese, in aggiunta all’assegno di mantenimento.
Da qui il sorgere, nella pratica quotidiana, di un
corposo contenzioso (d.i., precetti, opposizioni), che
porta ad approfondire due questioni, tra loro intimamente connesse: quali siano gli accorgimenti
adottati, nella concreta regolamentazione dei rapporti economici tra genitori e figli, per evitare o comunque ridurre i rischi di abuso sopra descritti; e
quali siano, nel caso in cui nonostante ogni accorgimento sorga una lite in materia, i profili esecutivi
della pretesa di rimborso delle spese straordinarie
sostenute per la prole.
Con riguardo all’esigenza di predefinire le spese
rientranti nella categoria delle spese straordinarie,
in modo da evitare abusi, la prassi dei Tribunali italiani è estremamente variegata: vi è chi elenca analiticamente le spese straordinarie rimborsabili separatamente, magari recependo nel provvedimento
un protocollo d’intesa; chi indica una soglia minima
di ciascuna singola spesa oltre la quale quest’ultima, purchè imprevedibile, è da considerare aggiuntiva rispetto ai costi ordinari di organizzazione
familiare già presuntivamente considerati nel fissare l’assegno di mantenimento; chi prevede una
soglia massima delle spese straordinarie in rapporto
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al reddito dell’obbligato; chi, infine, sceglie di omettere qualsiasi riferimento alle spese straordinarie.
Poiché peraltro la regolamentazione giudiziale
delle spese straordinarie, per quanto accurata, non
riesce ad evitare il frequente ricorso al giudice, è importante anche accennare ai profili esecutivi della
materia.
Fino al 2008, la giurisprudenza era ferma nel ritenere necessario che il coniuge, una volta sostenuta
la spesa straordinaria, non potesse agire esecutivamente nei confronti dell’altro coniuge per il rimborso della quota a suo carico, ma dovesse preventivamente adire il giudice della cognizione ai fini
della formazione di tanti titoli giudiziali quante
erano le spese straordinarie via via sostenute60.
In tempi più recenti, tuttavia, la S.C.61, condividendo le aperture di alcuni Tribunali62, ha ritenuto,
per intuibili ragioni di effettività della tutela e di
economia processuale, che, laddove il provvedimento giudiziale (o l’accordo omologato) preveda
espressamente l’obbligo di un coniuge di contribuire
pro quota al pagamento delle spese mediche e scolastiche necessarie per i figli (e quindi di rimborsare
tale quota all’altro coniuge che le abbia sostenute
per l’intero), esso non richiede un’ulteriore attività
di formazione di un titolo esecutivo, costituendo
esso stesso titolo giudiziale idoneo per far eseguire
coattivamente l’obbligo di rimborso, tenuto conto
che tali categorie di spese sono prevedibili e certe
nell’an sin dall’origine (tanto che neppure possono
qualificarsi come straordinarie stricto sensu, essendo
al contrario normali su di un piano statistico), mentre il quantum, inizialmente incerto, ben può essere
determinato sulla base della documentazione rilasciata (es. dal S.S.N.) al momento dell’esborso, che
deve intendersi implicitamente richiamata dal titolo.
Ciò non priverebbe comunque di tutela, ad avviso
della S.C., il coniuge obbligato, il quale ben potrebbe
contestare il diritto della controparte ex post, in sede
di opposizione all’esecuzione (preventiva o successiva), a tal fine deducendo che la spesa non può
considerarsi necessaria, o contestando la verificazione dell’esborso, o deducendo la violazione del dovere di concordare la spesa in quanto spesa di maggior interesse, e così via.
Nel diverso caso di previsione, nel titolo, di rimborso pro quota di spese senza altra specificazione, la
parte interessata non potrebbe evitare invece l’intervento del giudice della cognizione, necessario per
accertare l’effettiva sopravvenienza degli specifici
esborsi richiesti, in quanto relativi ad eventi il cui
accadimento risulta oggettivamente incerto e che,
quindi, non sono desumibili dal titolo medesimo.
In concreto dunque, nel sistema venutosi a creare
a seguito della pronuncia in commento, il coniuge,
una volta eseguito l’esborso straordinario medico o
scolastico, dovrebbe avanzare all’altro richiesta di
rimborso della quota e, in mancanza di pagamento,
notificare il precetto e procedere esecutivamente. In
caso di opposizione, il procedente avrebbe poi
l’onere di provare il suo diritto mediante produzione
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 13
STUDI E RICERCHE
di documenti formatisi successivamente al titolo
azionato ma ritenuti già parte integrante dello
stesso.
Sebbene le finalità pratiche del suddetto approccio ermeneutico siano assolutamente condivisibili,
esso appare francamente un po’ troppo sbilanciato
in favore del coniuge che richiede il rimborso. Infatti
da un lato esso sembra porsi in tensione con il consolidato principio secondo cui il titolo esecutivo non
è suscettibile di integrazione extratestuale, salvo
che i dati integrativi, non contenuti nel titolo, siano
già stati ritualmente acquisiti nel processo in cui il
titolo stesso si è formato63; dall’altro lato la soluzione della Cassazione pone al coniuge obbligato, in
caso di mancata o incompleta documentazione degli esborsi, e di dubbi circa l’effettiva riconducibilità
degli stessi alle spese suscettibili di rimborso, l’alternativa tra il soddisfare fideisticamente la richiesta, ovvero proporre opposizione al fine di far sorgere in capo all’altro l’onere di dimostrare il suo diritto attraverso un’adeguata produzione documentale; con il rischio, in quest’ultimo caso, di pagare
con la condanna alle spese di lite la propria legittima esigenza di esaminare le pezze d’appoggio dell’altro.
4. L’ASSEGNO C.D. DIVORZILE
4.1 Generalità.
Mentre il regime dell’assegno in favore della prole
è ormai unico per la separazione e per il divorzio,
stante l’espressa previsione di applicabilità degli
14 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
artt.155 ss. cc anche al giudizio divorzile, il regime
dei rapporti patrimoniali tra coniugi si presenta ancora distinto nei due ambiti, e ciò in quanto in materia di separazione opera l’art.156 cc, mentre in materia di divorzio opera l’art.5 co.6 L. divorzio; disposizioni che, pur delineando istituti in qualche misura omogenei (si pensi ad es. all’assoggettamento
di entrambi gli assegni al principio della domanda),
presentano anche rilevanti profili di diversità, aventi
la loro ragion d’essere nelle differenze tra gli istituti
sostanziali cui si riferiscono.
Tra i due regimi, è quello dell’assegno divorzile il
regime generalmente riconosciuto come più problematico. La materia è regolata dall’art.5 co.6 L. divorzio, secondo il quale il giudice stabilisce l’obbligo
di un coniuge di somministrare un assegno periodico all’altro64 sulla base dei seguenti criteri: a)
“quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”; b) ...“tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della
decisione, del contributo personale ed economico dato da
ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del
patrimonio di ciascuno o o di quello comune, del reddito di
entrambi; e valutati tutti questi elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio”.
Siffatta disciplina ha apportato sostanziali novità
rispetto a quella previgente. Infatti nel precedente
sistema si riteneva che l’assegno di divorzio avesse
natura composita, nel senso che tutti e tre i criteri
assistenziale (riguardante l’adeguatezza dei mezzi
e le rispettive condizioni dei coniugi), compensativo
STUDI E RICERCHE
(riguardante il contributo personale di ciascun coniuge al ménage domestico e alla formazione del patrimonio comune o individuale) e risarcitorio (riguardante le ragioni della decisione) concorressero
alla determinazione, prima ancora del quantum, dell’an debeatur.
Con la nuova inequivoca formulazione, invece,
l’assegno divorzile ha acquistato natura essenzialmente assistenziale, essendo fondato sull’esigenza
- in caso di inadeguatezza dei mezzi di un coniuge
- che l’altro assicuri la sua solidarietà post-coniugale, e ciò a prescindere dal tempo trascorso dalla
separazione65); sicchè soltanto il parametro dell’adeguatezza dei mezzi del coniuge istante rileva ai
fini dell’accertamento dell’an dell’assegno, mentre
gli altri parametri, afferenti ancora al profilo assistenziale ma anche e soprattutto a quelli compensativo e risarcitorio, incidono soltanto sul piano
della concreta quantificazione di tale assegno.
Coerentemente con tale nuova impostazione
dommatica, la S.C., a partire da una pronuncia a sezioni unite del 199066 ha affermato che la determinazione dell’assegno divorzile va compiuta sulla
base di due indagini, tra loro logicamente distinte:
una prima, relativa all’an, che è volta a verificare il
presupposto per la somministrazione dell’assegno,
ossia l’inadeguatezza dei mezzi dell’istante a conservare il tenore di vita anteatto; una seconda, relativa al quantum, e logicamente successiva alla prima
perché da compiere soltanto in caso di esito positivo della stessa, che è invece volta a stabilire la misura dell’assegno astrattamente riconoscibile (salvi,
in casi estremi, il suo assoluto azzeramento) attraverso l’applicazione, all’accertata misura dell’inadeguatezza dei redditi del coniuge, costituente la
misura massima dell’assegno divorzile, dei fattori di
riduzione derivanti dai criteri enunciati dalla legge,
ferma peraltro la discrezionalità del giudicante di
non applicare uno o più di tali ultimi criteri67.
4.2 Rapporti tra assegno divorzile e regime economico della separazione.
La specificità della natura e dei presupposti dell’assegno divorzile, nel distinguerlo dall’assegno di
mantenimento del coniuge separato, comporta che
le precedenti determinazioni, giudiziali o convenzionali, in ordine all’assegno di separazione, non
possano vincolare il giudice del divorzio68, il quale
quindi potrà riconoscere l’assegno divorzile anche
in presenza di assegno di separazione determinato
una tantum69, ovvero in caso di domanda di assegno
di separazione non proposta, o rigettata, o sulla
quale il giudice abbia omesso di pronunciarsi70; così
come ben potrà riconoscere l’assegno divorzile in
misura superiore a quello della separazione71.
Ciò non significa, tuttavia, che le vicende dell’assegno di separazione siano del tutto irrilevanti. Anzitutto, infatti, in sede di provvedimenti provvisori
assunti all’esito dell’udienza presidenziale è assai
frequente, nella prassi, il caso di conferma in blocco,
anche per i rapporti economici, del regime della separazione personale; il che trova solida giustificazione nell’opportunità, in un’ottica di cautela, di
non sconvolgere gli equilibri consolidatisi per effetto
di quel regime, tanto più se essi derivano da accordi
tra le parti; salvo, ovviamente, il caso in cui siano allegate e provate, già in quella sede di sommaria valutazione, modificazioni della situazione di fatto
così rilevanti da imporre l’immediata revisione delle
statuizioni della separazione.
Inoltre, e soprattutto, le vicende che nel corso del
giudizio di separazione hanno interessato i rapporti
patrimoniali tra i coniugi assurgono ad elementi di
valutazione, talora decisivi, da cui prendere le
mosse per determinare in concreto l’assegno divorzile. Così, la mancata proposizione della domanda
di mantenimento in sede di separazione, ovvero la
conclusione di una convenzione di separazione che
non preveda alcun assegno in favore del coniuge,
sono circostanze significative della convinzione
dello stesso di poter continuare a tenere, già con i
propri mezzi, un tenore di vita analogo a quello di
cui ha goduto durante la convivenza matrimoniale72.
Del pari, l’assetto economico relativo alla separazione costituisce un importante indice di riferimento nella regolazione del regime patrimoniale del
divorzio, nella misura in cui possa fornire elementi
utili per la valutazione delle condizioni dei coniugi
e dell’entità dei loro redditi73.
4.3 Il criterio dell’adeguatezza dei mezzi di sostentamento e dell’impossibilità oggettiva di procurarseli da sè.
Dunque il giudicante deve verificare se i mezzi del
coniuge (redditi, sostanze e ogni altra utilità) siano
sufficienti a consentirgli di mantenere il tenore di
vita avuto in costanza di matrimonio e, in caso negativo, deve verificare l’entità dell’inadeguatezza, la
quale, in mancanza di altri elementi di valutazione,
è pari appunto al divario reddituale attuale dei due
coniugi74. Tale divario, peraltro, costituisce il tetto
massimo della misura dell’assegno, da contemperare poi con gli altri criteri relativi al quantum, che
operano come fattori di moderazione, diminuzione
e addirittura azzeramento dell’assegno divorzile75.
Circa il riferimento al tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio, la giurisprudenza, con riguardo anche alla materia della separazione personale, ha più volte chiarito che il relativo giudizio di
adeguatezza va riferito alle “potenzialità” economiche dei coniugi. Pertanto è irrilevante che durante la
convivenza matrimoniale il coniuge beneficiario abbia tollerato, subìto o comunque accettato un tenore
di vita più modesto rispetto a tali potenzialità76; mentre per converso sono senz’altro rilevanti eventuali
miglioramenti della situazione economica del coottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 15
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niuge obbligato verificatisi dopo la separazione o addirittura dopo la conclusione del relativo giudizio77;
con la precisazione, a quest’ultimo proposito, che tali
miglioramenti rilevano soltanto se, e nella misura in
cui, costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta durante il matrimonio: perché soltanto in tale caso il coniuge che richiede l’assegno ha
maturato una legittima aspettativa di miglioramento
del tenore di vita nel tempo, frutto tra l’altro del proprio contributo al ménage coniugale78.
In tale prospettiva, si comprende come la S.C. non
attribuisca rilevanza, al fine di determinare il tenore
di vita cui commisurare l’assegno al coniuge, agli
atti straordinari di liberalità in favore del coniuge
obbligato79.
In materia di divorzio peraltro la legge espressamente impone al giudicante, a differenza che nella
separazione, la verifica di un altro presupposto negativo, e cioè che il coniuge, oltre a non avere mezzi
adeguati alla conservazione del tenore matrimoniale, sia nell’impossibilità oggettiva di procurarseli
da sé, solo in tal caso imponendosi l’applicazione
del principio di solidarietà post-coniugale.
Anche qui le questioni più delicate si pongono,
nella pratica giudiziaria, sul versante probatorio. Infatti, se non può dubitarsi che incomba su chi
chiede l’assegno divorzile l’onere di provare, oltre
alle circostanze positive della propria inadeguatezza
economica e della maggiore capacità economica
dell’altro coniuge, anche quella negativa dell’impossibilità oggettiva di procurarsi da sé tali mezzi,
la difficoltà pratica di provare quest’ultimo presupposto spiega perché la giurisprudenza faccia ampio
ricorso alle presunzioni80 e ai poteri istruttori officiosi81, valorizzando addirittura - quanto meno nella
fase davanti al Presidente - le dichiarazioni rese dal
beneficiario, nella contumacia dell’altro coniuge,
circa la capacità economica di quest’ultimo82.
4.4 Il criterio della condizioni e del reddito dei coniugi.
Nelle “condizioni”, quale parametro di determinazione dell’assegno divorzile, vanno ricomprese
non soltanto le condizioni economiche, ma anche
tutti gli elementi di carattere personale quali l’età, le
condizioni sociali e di salute, la situazione ambientale e la capacità lavorativa.
Per quanto riguarda il “reddito” dei coniugi, invece, esso è da intendere nell’ampia accezione già
vista in tema di assegno di mantenimento della
prole, cui si rimanda.
Occorre qui accennare, invece, alla rilevanza, sotto
l’aspetto reddituale, della convivenza more uxorio
che uno dei due coniugi, dopo la crisi matrimoniale,
abbia eventualmente instaurato con altra persona.
Quanto all’ipotesi di instaurazione, da parte del
coniuge obbligato, di un regime di convivenza con
altra persona (ed eventualmente con i figli concepiti
16 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
con la stessa), tale circostanza83 può rilevare ai fini
della quantificazione in senso riduttivo dell’assegno
divorzile (non valendo a renderla irrilevante il fatto
che si sia trattato di una libera scelta dell’interessato), ma soltanto se, e nella misura in cui, si dia
prova del fatto che essa comporta esborsi continuativi, e che tali esborsi incidono sostanzialmente
sulla situazione economica dell’obbligato, non essendo la complessiva situazione patrimoniale dell’obbligato di consistenza tale da rendere irrilevanti
i nuovi oneri84. Del tutto irrilevanti sono poi, al fine
di tali valutazioni, i redditi del soggetto convivente85.
Con riguardo, invece, al regime di convivenza
eventualmente instaurato dal coniuge beneficiario,
la più recente giurisprudenza, nel superare precedenti orientamenti (volti ad attribuire rilevanza alla
capacità di apporto economico del nuovo compagno), tende ora a distinguere tra l’occasionale convivenza del coniuge con il nuovo partner (la quale incide sulla persistenza dei presupposti del diritto all’assegno solo se e nella misura in cui si provi che il
nuovo convivente assicura entrate connotate da regolarità e relativa sicurezza) e il diverso caso in cui
la convivenza assuma connotati di stabilità e continuità, e dunque assurga a vera e propria famiglia di
fatto, connotata in quanto tale dall’elaborazione di
un progetto di vita in comune analogo a quello che
caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio.
Quest’ultima situazione infatti, nel precludere ogni
riferimento al preesistente modello di vita caratterizzante la convivenza matrimoniale, fa venir meno
la possibilità di ricorrere al parametro dell’adeguatezza dei mezzi attuali rispetto al tenore di vita anteatto e, con ciò, il presupposto stesso della riconoscibilità dell’assegno di mantenimento (fondato proprio
sulla conservazione di tale tenore), che quindi non è
più dovuto; con la precisazione che, essendo il nuovo
rapporto di fatto suscettibile di rottura ad nutum (a
differenza di quello fondato sul matrimonio), il diritto
all’assegno non cessa definitivamente, ma entra in
una fase di quiescenza, potendo ritornare attuale in
caso di cessazione della convivenza86.
Sul piano probatorio, poiché gli aspetti più intimi
e soggettivi del progetto di vita in comune (arricchimento e potenziamento reciproco della personalità
dei conviventi; trasmissione di valori educativi ai figli ecc.) non possono essere oggetto di prova diretta,
si suole ricorrere anche qui a ragionamenti presuntivi, desumendo la configurabilità di una vera e propria famiglia di fatto dalla condotta complessiva
della nuova coppia.
4.5. Il criterio delle ragioni della decisione.
Tale parametro, riferibile alla componente risarcitoria dell’assegno divorzile, assume naturalmente
particolare rilevanza nei casi di divorzio per ragioni
diverse dall’intervenuta separazione personale (inconsumazione, condanna penale).
STUDI E RICERCHE
Nel caso statisticamente più frequenta, ossia
quello del divorzio chiesto a seguito dell’intervento
della separazione, la S.C. è ferma nel ritenere che
possa rilevare anche il comportamento tenuto dal
coniuge anteriormente alla separazione, consensuale o giudiziale, salvo che non debba ritenersi assorbito dalla valutazione compiuta dal giudice della
separazione87. Pertanto, specialmente nei casi di separazione consensuale, in cui non vi è alcuno sbarramento costituito dalla pronuncia giudiziale, la
tendenza è quella di prendere in considerazione, in
qualche misura, le condotte tenute dai coniugi
prima di separarsi, tanto più nei casi in cui sia giustificato il sospetto che gli accordi economici presi
in sede di separazione siano frutto di imposizioni di
un coniuge, accettate dall’altro per ottenere concessioni sul piano dei rapporti personali, soprattutto
relativi ai figli minori.
4.6. Il criterio del contributo personale ed economico di ciascun coniuge. La durata del matrimonio.
Al fine di quantificare l’assegno divorzile, rileva
anche il contributo dato da ciascun coniuge alla
conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune.
Rilevano dunque, anche in negativo88, anzitutto
le forme di contributo di natura personale, quali in
particolare l’educazione e l’allevamento della prole,
il lavoro domestico, l’assistenza al coniuge (anche
ove abbia avuto carattere di normalità89), ecc.
Rilevano inoltre le forme di contributo di natura
economica: si pensi all’acquisto in costanza di matrimonio, con danaro proveniente in via esclusiva
da uno dei coniugi, della casa coniugale; o al caso in
cui siano messi a disposizione della famiglia beni di
proprietà esclusiva di uno solo dei coniugi; o ancora
al caso, sempre più frequente nella prassi, in cui
l’apporto economico provenga non direttamente dal
coniuge ma dalla sua famiglia d’origine90.
Connesso al criterio del contributo personale ed
economico è quello della durata del matrimonio
(durata da calcolare sino al momento della separazione personale, salva la possibilità per l’interessato
di provare la rilevanza del vincolo matrimoniale anche nel periodo successivo); criterio che però, come
rileva la peculiare collocazione dello stesso nell’ambito dell’art.5 L. divorzio, non è sullo stesso
piano degli altri, costituendo piuttosto un parametro per valutare – appunto – l’importanza del contributo dei coniugi alla famiglia. Va peraltro precisato che la breve durata del matrimonio influisce
soltanto sulla misura dell’assegno e non può valere,
in linea di principio, ad escludere del tutto il diritto
a goderne, a meno che risulti che il vincolo matrimoniale fu solo formalmente istituito e non diede
luogo alla formazione di alcuna comunione materiale e spirituale fra i coniugi 91.
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 17
STUDI E RICERCHE
4.7. Decorrenza e adeguamento dell’assegno divorzile.
Il principio generale operante in tema di decorrenza dell’assegno divorzile è quello secondo cui
tale assegno, trovando la propria fonte nel nuovo
“status” delle parti, stabilito da una sentenza di natura costitutiva, decorre soltanto dal passaggio in
giudicato della relativa statuizione92. Prima di tale
momento, continua dunque ad essere dovuto – salvi
specifici provvedimenti provvisori presidenziali
adottati nel giudizio di divorzio - l’eventuale assegno di mantenimento disposto in sede di separazione, assegno la cui modifica però va chiesta, in
pendenza del giudizio di divorzio, al G.I. di quest’ultimo e non già al Tribunale collegiale ai sensi dell’art.710 cpc93.
L’art.4 co.13-14 L. divorzio peraltro (riferito testualmente alle sentenze non definitive ma ritenuto
applicabile dalla giurisprudenza anche alle definitive94) introduce una deroga al suddetto principio,
18 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
stabilendo il potere del giudice
di disporre, anche senza una
domanda di parte in tal senso,
che l’obbligo di mantenimento
decorra dal momento della domanda, purchè espliciti adeguatamente in motivazione le ragioni della deroga95. Non si ritiene possibile, invece, fissare
un momento intermedio di decorrenza dell’assegno divorzile,
a meno che la parte interessata
non abbia allegato e provato sopravvenienze, rispetto alla data
della domanda, che giustifichino tale soluzione96.
Sono poi immediatamente
esecutivi, per il più recente
orientamento della S.C., i provvedimenti di revisione, ex art.9
L. divorzio, di quanto disposto,
sotto i profili economico e personale, a seguito di scioglimento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili; e
ciò in conformità con una regola
generale, espressa dall’art. 4
della citata legge regolativa
della materia ed incompatibile
con l’art. 741 cpc (che invece subordina l’efficacia esecutiva al
decorso del termine utile per la
proposizione del reclamo97).
Quanto all’adeguamento dell’assegno, l’art.5 co.7 L. divorzio
impone al giudice di stabilire, in
sentenza, un criterio di adeguamento automatico dell’assegno,
almeno con riferimento agli indici di svalutazione
monetaria; con implicito divieto, quindi, di fissare
criteri di adeguamento meno favorevoli per il beneficiario. La stessa norma prevede peraltro, con disposizione eccezionale operante soltanto in materia di divorzio, il potere del tribunale di escludere
l’adeguamento, motivando adeguatamente tale decisione, in caso di “palese iniquità”.
4.8. Liquidazione una tantum dell’assegno.
L’art.5 co.8 L. divorzio prevede espressamente la
possibilità che i coniugi si accordino nel senso della
liquidazione dell’assegno divorzile una tantum, ossia nel senso della corresponsione di somme o altre
utilità, in forza di un’unica fonte negoziale, con funzione di sistemare definitivamente i rapporti tra i
coniugi98, eventualmente affidandosi al giudicante
per la determinazione della concreta misura di tale
assegno. L’attribuzione può riguardare capitali, rendite, beni in proprietà o in godimento ecc..
STUDI E RICERCHE
L’equità di un siffatto accordo deve essere valutata dal giudicante, al quale spetta verificare, precisamente, se l’attribuzione una tantum, per il suo concreto contenuto, sia idonea a fornire al coniuge beneficiario i mezzi adeguati al suo sostentamento. In
caso di valutazione positiva, al coniuge beneficiario
sarà preclusa ogni successiva pretesa a contenuto
economico, anche relativa a quote di TRF, di pensione ecc., e ciò anche nell’ipotesi in cui sopravvengano circostanze rilevanti ai fini della revisione di
cui all’art.9 L. divorzio99.
4.9. La cessazione dell’assegno a seguito di nuove
nozze.
Ai sensi dell’art. 5 co.10 L. divorzio, le nozze del coniuge beneficiario determinano il venir meno del
suo diritto all’assegno divorzile, purchè il nuovo matrimonio, ancorchè non trascritto, abbia effetti civili
in Italia. Occorre peraltro precisare che, come per
tutte le circostanze sopravvenute, la sua verificazione non determina l’automatica cessazione dell’obbligo, giustificando soltanto l’instaurazione di un
procedimento ex art.9 L. divorzio al fine di ottenere la
conseguente revisione delle condizioni economiche.
La norma è insuscettibile di applicazione analogica alla convivenza more uxorio100: ma si è detto che,
con riguardo alla nuova famiglia di fatto costituita
dal beneficiario, la giurisprudenza ha affermato la
sospensione del diritto all’assegno (salva sua reviviscenza in caso di cessazione ad nutum della relazione
affettiva) al fine di pervenire a risultati analoghi.
5. L’ASSEGNO DI MANTENIMENTO IN FAVORE DEL
CONIUGE SEPARATO
5.1 Generalità.
La materia è disciplinata dall’art.156 cc, a mente
del quale il coniuge cui non è addebitabile la separazione ha diritto di ricevere dall’altro coniuge il necessario al suo mantenimento, qualora non abbia
adeguati mezzi propri, nella misura determinata in
relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato.
Sotto il profilo processuale, il diritto in discorso è
soggetto al principio della domanda, sicchè esso va
fatto valere mediante proposizione della relativa
pretesa in sede di tempestiva costituzione in giudizio101; a meno che i presupposti per la sua nascita
non siano maturati successivamente102, oppure il coniuge nei cui confronti la domanda viene avanzata
abbia riconosciuto il suo obbligo in corso di causa103.
All’assegno di mantenimento del coniuge separato, inoltre, non sembra applicabile, dopo la novella
del 2006,, il peculiare regime di decorrenza esaminato in tema di divorzio. In mancanza di una normativa specifica, si ritiene che la decorrenza dell’assegno al coniuge separato vada riferita, così
come in materia di assegno alla prole, al momento
di proposizione della domanda, e ciò sia in base al
principio generale della retroattività degli effetti alla
domanda, sia in base all’art.445 cc104; disposizione,
quest’ultima, applicabile in considerazione della natura sostanzialmente alimentare dell’assegno relativo al coniuge separato, tale da comportare altresì
il divieto di compensazione, l’impignorabilità ecc105.
5.2 Presupposti dell’assegno e criteri di determinazione.
Sul piano sostanziale, l’art.156 cc prevede anzitutto, ai fini della nascita del diritto al mantenimento in capo al coniuge, un presupposto negativo,
ossia la circostanza che al medesimo istante non sia
stata addebitata la separazione. È invece irrilevante,
a tal fine, che la separazione sia stata addebitata all’obbligato, in quanto l’addebito all’altro non è presupposto del diritto al mantenimento106. Se poi la
separazione è stata addebitata ad entrambi i coniugi, nessuno di loro potrà pretendere dall’altro il
mantenimento107.
L’altro presupposto richiesto per la nascita del diritto al mantenimento, pure di tipo negativo, è la
mancanza di adeguati redditi propri, la quale fa sorgere il diritto ad ottenere quanto necessario al mantenimento.
Malgrado l’uso di termini come “necessità” e “adeguati”, Il credito del coniuge separato non postula lo
stato di bisogno del coniuge (la cui configurabilità
comporta piuttosto l’obbligo di prestare gli alimenti
secondo il regime codicistico, come espressamente
stabilisce l’art.156 co.2), bensì la mancanza di redditi sufficienti ad assicurare al coniuge beneficiario
un tenore di vita analogo a quello di cui ha goduto
durante la convivenza matrimoniale108.
Quanto alla prova dei suddetti presupposti negativi, in conformità con i principi generali in tema di
riparto dell’onere della prova spetta al coniuge
istante dimostrare in via indiretta, attraverso la
prova di circostanze positive contrarie, l’inadeguatezza dei propri redditi e una capacità reddituale
dell’altro tale da giustificare una corresponsione perequativa; mentre è onere della controparte provare,
in via liberatoria, l’esistenza di altre risorse dell’istante o una propria capacità economica tale da
non giustificare alcuna perequazione.
Peraltro, per evidenti fini prativi di semplificazione probatoria, la S.C. suole precisare che l’attività
istruttoria non deve tendere ad accertare l’esatto
ammontare dei redditi dei due coniugi attraverso
l’acquisizione di dati numerici o rigorose indagini
contabili, essendo sufficiente pervenire ad un’attendibile ricostruzione delle rispettive situazioni patrimoniali complessive109.
È importante sottolineare che gli accertamenti
istruttori sul punto vanno compiuti con riguardo
alla situazione economica attuale dei coniugi, operando in materia la clausola generale rebus sic stantibus, in base alla quale rileva ogni modificazione
degli assetti economici intervenuta sino al moottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 19
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mento della decisione110 o addirittura nelle more del
giudizio di appello111. Ciò, nel consentire lo svolgimento di attività assertiva e probatoria ben oltre gli
sbarramenti temporali imposti dal vigente sistema
delle preclusioni, comporta evidentemente delicati
problemi processuali, tra i quali in particolare l’esigenza di assicurare il pieno contraddittorio112, eventualmente anche rimettendo - a richiesta - la parte
interessata nei termini per svolgere le ulteriori allegazioni e richieste istruttorie che si rendano necessarie per replicare alle avverse deduzioni. In ogni
caso, proprio perché va tutelato il contraddittorio,
deve escludersi che circostanze sopravvenute possano essere allegate e provate nelle fasi finali del
giudizio, destinate unicamente a precisare ed illustrare le domande ed eccezioni svolte nel corso del
giudizio e le relative attività istruttorie.
Una volta accertata la sussistenza dei due presupposti negativi richiesti per la nascita del diritto al
mantenimento, occorre procedere a determinare la
misura dell’assegno, e ciò in base all’entità della
sperequazione reddituale tra i due coniugi, nonché
in base agli altri criteri espressamente indicati dall’art.155 cc113.
Quanto al tenore di vita anteatto, sulla cui base va
formulato il giudizio di adeguatezza reddituale, è
sufficiente richiamare i principi e gli orientamenti
giurisprudenziali già descritti con riferimento all’analoga materia del divorzio.
Anche con riguardo al concetto di redditi del coniuge obbligato vale richiamare quanto già riferito
in ordine ai redditi rilevanti a fini di determinazione
dell’assegno alla prole.
Un discorso a sé merita, invece, la capacità reddituale del coniuge separato richiedente l’assegno di
mantenimento. In materia, infatti, la S.C. ha assunto
un atteggiamento piuttosto benevolo nei confronti
del coniuge istante, in quanto, dopo avere premesso
che non sono applicabili all’assegno di separazione
i diversi presupposti previsti in tema di assegno di
divorzio dall’art.5 co.6 L. divorzio114, suole affermare
che in materia occorre valutare se, in relazione ad
una serie di fattori individuali ed ambientali del
caso concreto (età, condizioni psicofisiche, preparazione professionale, vita anteatta, condizioni del
mercato del lavoro), esistano serie ed immediate
possibilità di guadagno in un’occupazione non usurante e comunque confacente alla propria personalità115. Dunque, per la S.C., l’inattività lavorativa del
coniuge separato può incidere sull’an dell’assegno
di mantenimento in suo favore, nel senso di precluderne il riconoscimento, soltanto se il beneficiario
abbia rifiutato effettive e concrete possibilità di lavoro, essendo al contrario irrilevante un’occasione
lavorativa meramente ipotetica116.
Discusso è inoltre, sempre con riferimento alla situazione economica del coniuge che richiede l’assegno di mantenimento, se e in che misura vadano
20 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
considerati gli apporti economici fornitigli dalla sua
famiglia d’origine o da terzi117 .
Quanto infine alle “circostanze” che, ai sensi dell’art.155 co.2 cc, possono incidere sulla determinazione del quantum dell’assegno di mantenimento al
coniuge separato, meritano attenzione, per la particolare frequenza con cui se ne è occupata la giurisprudenza: l’assegnazione della casa coniugale e le
maggiori spese che ciò comporta per il coniuge non
assegnatario118; la durata del matrimonio119; il contributo dato alla formazione del patrimonio comune
o dell’altro coniuge120; le ragioni della decisione121;
l’obbligo di mantenimento di figli naturali concepiti
nell’ambito di altra relazione122.
5.3 Profili negoziali dell’assegno di mantenimento
del coniuge.
Occorre infine accennare brevemente a talune
questioni, di notevole rilievo pratico, riguardanti i limiti entro cui l’autonomia privata può incidere sul
regime, pattizio o giudiziale, di mantenimento del
coniuge.
La prima questione è se possa ritenersi valida la
rinuncia all’assegno di mantenimento da parte del
coniuge separato che ne sia beneficiario. In proposito, il tradizionale orientamento della S.C. è nel
senso che, stante la natura indisponibile del diritto
al mantenimento (art.143 cc), esso è irrinunciabile,
con la conseguenza che deve ritenersi affetto da
nullità, ai sensi dell’art.160 cc, il patto con cui il coniuge rinunci all’assegno pur in presenza dei presupposti per ottenerlo123.
Più in generale, si discute della validità di eventuali accordi a latere di una convenzione di separazione, come tali non oggetto di omologazione. Trattasi solitamente di accordi volti a maggiorare la misura del mantenimento, spesso per tenere conto di
un’effettiva capacità reddituale dell’obbligato maggiore di quella risultante dalle dichiarazioni reddituali prodotte in sede di separazione. Per la giurisprudenza che se ne è occupata124, simili accordi
sono validi ed efficaci, anche a prescindere dall’omologazione, ai sensi dell’art.1322 cc, ma entro i
seguenti limiti: quanto agli accordi successivi all’omologazione, finchè rispettino il limite di derogabilità dell’art.160 cc (e quindi, entro tale limite, anche quando peggiorativi delle condizioni pattuite);
quanto agli accordi anteriori o contemporanei a
quelli oggetto di omologazione, purchè si collochino
in posizione di non interferenza rispetto a questi ultimi (regolando ad esempio aspetti non disciplinati
dai patti omologati, ovvero dettando una disciplina
di dettaglio), oppure quando siano incontestabilmente in posizione di maggiore rispondenza rispetto all’interesse del coniuge beneficiario (si pensi
al caso dell’accordo per un assegno di mantenimento di entità maggiore rispetto a quella concordata nella convenzione di separazione).
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Note
1
Intervento nel seminario organizzato dalla Sezione Territoriale di Bari dell’Osservatorio Nazionale sul diritto di famiglia. Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bari - Scuola Superiore della Magistratura/Struttura didattica territoriale
del distretto della Corte di Appello di Bari.
24 maggio 2013 ore 15,30 - Bari - Sala del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati.
2
Cass.1506/90, 6312/99, 17043/07.
3
La pratica giudiziale evidenzia, peraltro, l’esito spesso insoddisfacente di tali indagini, le quali comunque postulano
che l’interessato abbia proposto un’istanza circostanziata, fondata su fatti specifici, tale da giustificare l’esercizio del
potere discrezionale del giudice: Cass.2098/11.
4
Cfr., in materia, Cass. pen. 9.4.10 n.34336, la quale ha desunto la maggiore potenzialità economica dell’obbligato dall’assunzione di un mutuo immobiliare superiore alla capacità economica dichiarata dal mutuatario.
5
In concreto, al fine di determinare l’assegno, il giudice dovrà procedere nel seguente modo: a) determinare l’entità
del mantenimento necessario in base ai nn.1-2 (attuali esigenze+tenore di vita anteatto); b) dividere il relativo obbligo
tra i genitori in base ai nn.3-4 (tempi permanenza presso ciascuno+risorse di ciascuno); c) sottrarre al dovuto quanto già
erogato in natura.
6
Cass.1367/11; 785/12.
7
Cass.15566/11.
8
La tendenza ad una più coerente applicazione pratica dei principi normativi in tema di affidamento condiviso ha trovato, di recente, emersione in un provvedimento del Presidente del Tribunale di Firenze (ord. 2-4.3.12 n.190, in Gdir.
N.18/12 pag.13), il quale ha disciplinato la frequentazione del figlio minore da parte dei genitori separati, in una situazione di affidamento condiviso connotata da elevata litigiosità, nel senso di collocare il minore presso entrambi i genitori a settimane alternate; con la conseguenza di limitarsi a fissare a carico del genitore dotato di maggiore capacità patrimoniale, in una situazione di lieve sperequazione reddituale, il versamento di un minimo assegno di mantenimento
del figlio (€ 75,00) , fermi i rispettivi obblighi di mantenimento diretto.
9
Solitamente l’altro coniuge, ma anche altri terzi - quali ad es. i nonni - che risultino collocatari e/o affidatari della
prole:cfr. Trib. Palermo 26.11.07 in Dejure.
10
Cass.13414/10.
11
Trib. Pistoia, n.993 del 24.11.11 in Dejure.
12
Cass.11538/09.
13
Cass.1607/07; Cass.13630/11.
14
Cass.6074/04.
15
Cass.17043/07.
16
Così Cass.10197/05. Per Cass.3905/11, peraltro, la circostanza non vale ex se ad escludere il diritto del figlio legittimo
di avere garantito il tenore di vita anteatto. Contrario alla rilevanza della nascita di un figlio naturale è, poi, Trib. Milano
6.3.07, in Giust. a Milano 2007,3,18, secondo cui la nuova nascita impone piuttosto una contrazione delle spese personali
dell’obbligato.
17
Cass.16126/11.
18
Cass.9719/10, sia pure in tema di assegno al coniuge separato, precisa che devono considerarsi soltanto i redditi netti,
poiché è su questi ultimi che, in costanza di matrimonio, la famiglia fa affidamento, ad essi rapportando ogni possibilità di spesa.
19
Cass. 706/95.
20
Cass.6774/90.
21
Cass.9718/10.
22
Cass.6872/99.
23
Cass.3974/02; Trib. Novara 11.2.10 e Trib. Lanciano 24.11.11, entrambe in Dejure.
24
Cass.15565/11.
25
contra Trib. Monza n.1750 del 9.6.10, in Dejure, secondo cui il contributo va già tarato sull’aumento delle esigenze
della prole, notoriamente legato alla sua crescita.
26
Cfr. sul punto, per l’analogo caso di figlio maggiorenne non autosufficiente studente fuori sede, Cass.400/10.
27
Trib. Varese 4.1.12 i D. & G. 2012,21.
28
Cass.785/12.
29
Trib. Roma 21.5.98 in CED Archivio Merito
30
Trib. Catania 1.12.90 in DFP 1991,1010.
31
Corte di Appello Milano 6.5.94, in Fam. e diritto 1994; Cass.3747/06; Trib. Reggio Emilia 26.3.07 in Il civilista 2009,5,19.
32
Cass.2088/05.
33
Anche tali aspetti hanno costituito oggetto di evoluzione giurisprudenziale. Infatti la S.C., inizialmente propensa a
considerarli accordi di diritto familiare (Cass.4277/78), successivamente ha optato per l’inquadramento nella figura del
contratto con obbligazioni a carico del solo proponente ex art.1333 cc (Cass.9500/87), per poi precisare, a partire dagli anni
90 (Cass.2788/91), che i negozi che trovino sede e occasione nella separazione consensuale, ma non causa in questa (in
quanto non direttamente collegati a diritti ed obblighi matrimoniali) non sono convenzioni di famiglia, distinte dai contratti, ma espressione appunto di libera autonomia contrattuale, nel senso che ciascun coniuge, con un contratto avente
causa solutorio-compensativa, condiziona il proprio consenso alla separazione, nei limiti dei diritti inderogabili in materia, ad un determinato assetto dei propri interessi economici, per lui soddisfacente. Nel senso di una causa tipica, con
i caratteri dell’onerosità o della gratuità a seconda delle concrete ragioni dell’attribuzione, cfr. da ultimo, con riguardo
però alle attribuzioni tra coniugi, Cass.8678/13.
34
Trib. Cagliari 2.10.00 in Riv. Giur. Sarda 2001,785.
35
Trib. Milano, Sez. IX, decreto 21.5.13, in Guida al diritto, n.34-35 p.34;
36
Cass. 24932/07.
37
Trib. Modena n.752 del 9.5.12 in Dejure.
38
Cass.6864/09; Cass.21675/12.
39
Cass.11863/04, Cass.28987/08 e, da ultimo, Trib. Milano 28.7.10 in Dejure.
40
Cass.5384/90.
41
SS.UU. 5135/89.
aprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 21
STUDI E RICERCHE
42
Cass.6215/94.
Cass.10780/96 e, da ultimo, Cass.3908/09.
44
Cass.4296/12.
45
Cass.1146/07, 19607/11.
46
Cass.22951/12.
47
In caso di figlio divenuto maggiorenne dopo la sentenza di separazione o di divorzio che ha disposto un assegno di
mantenimento in suo favore, persiste la legittimazione del genitore a ricevere tale assegno (Cass.21437/07; 19607/11), E’
però salva la facoltà dell’avente diritto di domandare (si ritiene con le forme dell’art.710 cpc o dell’art.9 L. divorzio) il versamento diretto in suo favore dell’assegno stabilito in suo favore.
48
Cass.9067/02, che sottolinea come in tal caso il figlio maggiorenne, rimasto estraneo al giudizio e al giudicato formale così formatosi, non ha titolo per ottenere direttamente dal genitore obbligato il contributo al suo mantenimento.
49
Così Trib. Marsala 26.2.07 in Giur. Merito 2008,1,136
50
Cass.15756/06.
51
La casistica, in materia, è copiosissima. Tra le pronunce più significative cfr. Cass.4765/02; Cass.4616/98 riguardante
il rifiuto del figlio ventenne di accettare l’ingaggio annuale in una squadra di basket per ottocentomila mensili più vitto
e alloggio, così sacrificando l’ultimo anno di liceo scientifico; Cass.11020/13 riguardante un figlio laureato in medicina e
iscritto a corso di specializzazione; Cass.7970/13, che ha ritenuto ingiustificata l’inerzia della figlia trentasettenne, ma
non per il dato in sé dell’età, quanto per la presunzione che la stessa avesse ricevuto e rifiutato ingiustificatamente
un’idonea offerta lavorativa; Cass.4555/12 riguardante un figlio con laurea triennale; Cass.19589/11 riguardante una figlia che aveva appena iniziato un’attività di impresa; Cass.14123/11 riguardante una figlia impiegata in lavoro a tempo
indeterminato, il cui contenuto non soddisfaceva però le sue legittime aspettative; Trib. Catania 20.4.12 in D. & G. 2012,23,
maggio, sull’insufficienza, al fine di ritenere raggiunta l’autonomia economica, della circostanza della liquidazione, in favore del figlio maggiorenne, di una grossa somma a titolo risarcitorio.
52
Cfr. Cass.4555/12, 11020/13 e, con riguardo al giudizio d’appello, Cass. 407/97. Tale soluzione, peraltro, sembra non perfettamente in linea con i principi generali in materia di riparto dell’onere della prova, trattandosi di provare un elemento
costitutivo del diritto del figlio al mantenimento, e non rilevando il fatto che la “non indipendenza economica” sia una
circostanza negativa, ben potendo quest’ultima essere presuntivamente dimostrata attraverso la prova dei contrari fatti
positivi (Cass.1557/98).
53
Trib. Bari 13.10.09 in Dejure parla addirittura di inversione dell’onere della prova al raggiungimento di una certa età.
54
E’ però comunque necessario far emergere la circostanza mediante promozione del relativo giudizio di revisione: così
Trib. Modena 23.2.11 in Dejure.
55
Cass.12477/04; Cass.1761/08; CdA Roma 4685 del 27.9.12 in Guida al diritto 2012,46,90.
56
Cass.8954/10 in tema di borsa di studio post-universitaria e, da ultimo, Cass.1779/13.
57
In tal senso Cass.1830/11, relativa ad un caso in cui la figlia maggiorenne, studentessa, continuava a coabitare con
la madre pur essendo coniugata con un giovane, anch’egli studente e privo di ogni autonomia economica. Contra Trib.
Napoli 5.2.07 n.1433, secondo cui, a seguito del matrimonio, l’obbligo di mantenimento “slitta” sul coniuge a prescindere
dalla sua capacità economica.
58
Cass.9372/12.
59
E anche, a ben vedere, qualora vi attengano, non essendo configurabile per Cass. 19607/11 un obbligo di concertazione preventiva.
60
Cass.1758/08; nello stesso senso anche Trib. Palermo 1178 del 9.3.09 in Guida al diritto 2010,1,57).
61
Cass.11316/11.
62
Trib. Bari n.1960 dell’1.6.10 in Dejure, che ha ritenuto sufficiente la produzione di c.d. pezze d’appoggio ad evitare il
ricorso al giudice della cognizione a fini di liquidazione delle spese straordinarie.
63
SS.UU. 11067/12.
64
Il concreto riconoscimento giudiziale (e non anche l’astratta riconoscibilità) di un siffatto assegno è presupposto per
ottenere, in concorso con gli altri presupposti di legge, una serie di importanti benefici (un assegno periodico a carico dell’eredità dell’obbligato defunto ai sensi dell’art.9 bis; una quota del TFR ai sensi dell’art.12 bis; una quota della pensione
di reversibilità ai sensi dell’art.9 co.2-3). Ciò contribuisce a spiegare la frequenza con cui la materia dell’assegno divorzile viene trattata nelle aule giudiziarie.
65
Cass.3398/13.
66
SS.UU. 11490/90. Tra le ultime pronunce in tal senso cfr. Cass.23202/12 e Corte App. Roma n.54 del 24.1.13 in Guida
al diritto 2013,15,51.
67
Cass.5178/12.
68
In tal senso Corte App. Roma n.2784 del 22.6.11 in Guida al diritto 2011,36,76. Cass.11905/09 ha enunciato il medesimo principio addirittura con riguardo all’assegno per la prole stabilito nelle due sedi, rispetto al quale pure si riscontra una vera e propria identità di presupposti e finalità.
69
Cass.4424/08.
70
Cass.6189/79; Cass.15055/00.
71
Cass.25010/07.
72
Corte App. Milano 14.2.97, in Famiglia e Diritto 97,447.
73
Cass.11575/01.
74
Cass.21979/12; Cass.9669/13; Cass.2313/13.
75
Cass.4040/03.
76
Cass.1557/03.
77
Cass.18327/02.
78
Cass.785/12, ad esempio, ha ritenuto rappresentare il prevedibile sviluppo della carriera notarile l’incremento di reddito collegato all’esperienza acquisita, all’aumento dei clienti, allo spostamento da una piccola località ad una città più
grande. Cfr. anche Cass.11686/13. Problematica si presenta, nella pratica giudiziaria, la specifica ipotesi in cui l’incremento successivo non attenga ai redditi bensì al patrimonio, ricollegandosi in particolare all’acquisto di un compendio
ereditario da parte dell’obbligato. Ad avviso dello scrivente, in tale ipotesi non appare pienamente soddisfacente la soluzione di escludere la rilevanza di tale situazione sul rilievo che gli acquisti ereditari non rientrano nella comunione legale (potendosi replicare che i frutti dei beni personali vi rientrano ai sensi dell’art.177 cc), apparendo preferibile appli43
22 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
STUDI E RICERCHE
care anche a tale ipotesi il criterio generale della prevedibilità del miglioramento economico: di talchè potrà e dovrà
darsi rilievo soltanto agli acquisti ereditari in qualche misura dati per scontati (es. perché provenienti da stretti congiunti) e quindi oggetto di una legittima aspettativa da parte del nucleo familiare; con esclusione, al contrario, di situazioni inattese (quali ad es. l’inaspettata eredità di un lontano parente o di un amico.
79
Cass.18613/08.
80
Cfr. in materia Cass.10540/10, confermativa di una pronuncia di merito che aveva ritenuto provata l’impossibilità di
procurarsi da sé i mezzi di sostentamento desumendola dall’età non più giovane della beneficiaria, dalle caratteristiche
socio-economiche del territorio di residenza, dalla sua infruttuosa iscrizione nelle liste di collocamento.
81
Cass.3916/09.
82
Trib. Novara n.131 dell’11.2.10, in Dejure.
83
Secondo Cass.22337/11, trattasi di situazione non rientrante, sotto il profilo processuale, tra le circostanze in senso
proprio.
84
Cass.4551/12.
85
Cass.13053/99.
86
(cfr. in tema di separazione Cass.17643/07, 23968/10 e, da ultimo, Tribunale Lamezia Terme 1.12.11 in Dir. Famiglia
2012,2797; cfr. in tema di divorzio Cass.17195/11, Cass.3923/12 e, da ultimo, Corte d’Appello di Bologna n.394 dell’8.4.13).
87
Così Cass.15055/00, che ha negato rilevanza alla relazione extraconiugale di un coniuge, sul rilievo che la sentenza
di separazione aveva rigettato la domanda di addebito fondata sulla violazione del dovere di fedeltà.
88
Cfr. Cass.28892/11, relativa ad un caso di scarsa contribuzione al menage familiare da parte di coniuge dedito, anche nei primi anni di vita della prole, a frequentare locali notturni e ad assumere alcool e sostanze psicotrope.
89
Cass.2261/85.
90
Contra Cass.13060/02, in un caso in cui i familiari del coniuge richiedente l’assegno di divorzio avevano contribuito
economicamente al ménage familiare prima che l’altro coniuge riuscisse ad accedere alla professione di notaio, sul rilievo che il criterio del contributo personale esige la provenienza del contributo stesso direttamente da uno dei coniugi.
91
Cass.8233/00; Cass.7295/13.
92
Cass.10648/11; Cass.7295/13.
93
Cass.28990/08.
94
Cass.25010/07.
95
Cass.1613/11; Cass.7295/13.
96
Cass.4038/02.
97
SS.UU. 10064/13.
98
In tali termini Cass.3635/12.
99
Cass.126/01; Cass.3635/12, cit.
100
Cass.14921/07.
101
Cass.7599/11.
102
Cass.3925/12.
103
Cass.1243/12. Contra, tuttavia, Cass. 26380/11.
104
Cass.147/94.
105
Trib. Modena n.752 del 9.5.12, in Dejure.
106
Cass.8787/02.
107
Cass.5698/88.
108
Cass.21097/07.
109
Cass.187/12, Cass.23051/07.
110
Cass.12136/01.
111
Cass.3336/07; Corte Appello Bologna 2.1.12, in Guida al diritto dossier 2012,25,13.
112
Cass.5876/12.
113
In concreto, al fine di determinare l’assegno, il giudice dovrà procedere nel seguente modo: 1) anzitutto stabilire il
tenore di vita dei coniugi in costanza di matrimonio; 2) poi valutare se i mezzi a disposizione del coniuge istante siano
tali da consentirgli di mantenerlo indipendentemente da un assegno dell’altro; 3) in caso negativo, verificare se tra i
mezzi economici a disposizione dei due coniugi vi sia una sperequazione in favore del destinatario della domanda, in
caso positivo giustificandosi l’imposizione dell’assegno a fini perequativi, 4) determinare infine la misura dell’assegno
in base all’entità della sperequazione medesima e alle altre circostanze cui fa riferimento l’art.155.
114
Cass.5555/04.
115
Cass.18547/06; Cass.3502/12
116
Così Cass.12121/04 e Cass. 4178/13. V. anche Cass.3502/13, per la quale non rilevano, di per sé considerate, la giovane
età, le buone condizioni di salute e il possesso della laurea.
117
In senso affermativo cfr. Cass.11031/97. Contra Cass.6200/09, con riferimento al caso in cui l’aiuto dei familiari si giustifichi con le precarie condizioni economiche e di salute del beneficiario e con l’esiguità dell’assegno dato dall’altro coniuge. Per Cass. 7211/90 gli apporti dei terzi rilevano soltanto se presentano caratteri di regolarità, continuità e sicurezza.
Quanto in particolare alle liberalità di terzi in favore del beneficiario, per Cass.18708/12 esse devono comunque essere
attentamente considerate, mentre per Cass.10380/12 esse sono irrilevanti, non costituendo reddito agli effetti dell’art.156
co.2 cc. Per Cass.19579/11, infine, l’ospitalità data dai familiari all’istante è irrilevante.
118
Cass.4543/98; Cass.19291/05.
119
Cass.23378/04.
120
Cass.20638/04.
121
Cass.446/81.
122
Cass.4800/02.
123
Cass.6424/87. Più di recente, tuttavia, la stessa S.C., nel ribadire che la revisione delle condizioni di una separazione
omologata (nel senso della previsione di un mantenimento non previsto in quella sede) postula sempre la sopravvenienza di nuove circostanze a prescindere dal fatto che la mancata previsione del mantenimento dipenda da rinuncia
del beneficiario, sembra avere implicitamente affermato la configurabilità di una valida rinuncia (Cass.12235/92).
124
Cass.657/94.
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 23
STUDI E RICERCHE
LE NUOVE IPOTESI DI
INDEGNITÀ A SUCCEDERE
TRA LE POCHE LUCI
E LE TANTE OMBRE
ALLUNGATE DAL NUOVO
ART. 448 BIS C.C.
SUL PRINCIPIO DI
EQUIPARAZIONE DEGLI
STATUS DI FILIAZIONE
AVV. GIUSEPPE PALAZZOLO
ORDINARIO DIRITTO CIVILE UNIVERSITA’ DI PERUGIA
Sommario: 1. Il rifiuto degli alimenti al genitore indigente decaduto dalla potestà genitoriale nel nuovo art.
448 bis c.c. - 2. Pluralità delle cause generatrici della revoca sulla potestà genitoriale, circolazione degli obblighi alimentari ed alterazione della graduatoria degli obbligati contenuta agli artt. 433 e 441 c.c. - 3. I nuovi casi
di indegnità a succedere per la decadenza dalla potestà
genitoriale: limiti sostanziali ed aperte antinomie sistematiche del nuovo art. 448 bis c.c. - 4. Le regole del processo civile per la declaratoria di indegnità a succedere e
loro inamovibilità.
1. Il rifiuto degli alimenti al genitore indigente decaduto dalla potestà genitoriale nel nuovo art. 448 bis
c.c..
Il completamento della riforma sugli status di filiazione, nell’unico nomen iuris di figlio, avvenuta,
come è noto, il 27 novembre 20121, offre allo studioso del diritto successorio e della famiglia ulteriori
argomenti di verifica, specie con riguardo alla tenuta
di alcune norme del nostro sistema che necessitano,
per unità di intenti riformatori, di una adeguata sistemazione.
L’argomento che ha colto la nostra attenzione in
tema di indegnità a succedere, ancora modellata
nell’art. 463 c.c. con regole a dir poco ottocentesche
e di rifiuto degli alimenti dovuti al familiare indigente2, si trova all’art. 1, punto 9 della nuova legge,
laddove si afferma che: “Nel titolo XIII del libro
primo del Codice civile, dopo l’art. 448 è aggiunto il
seguente” - art. 448 bis - (Cessazione per decadenza dell’avente diritto dalla potestà sui figli). - Il figlio, anche
adottivo3, e, in sua mancanza i discendenti prossimi,
non sono tenuti all’adempimento dell’obbligo di
prestare gli alimenti al genitore nei confronti del
quale è stata pronunciata la decadenza dalla potestà, e per i fatti che non integrano i casi di indegnità
di cui all’art. 4634, possono escluderlo dalla successione”.
24 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
La prima lettura del nuovo testo normativo
espone immediatamente una non comune durezza
dispositiva, del tutto incompatibile con la gentil riforma della unificazione degli status di filiazione,
ove, invece, l’affettività prevale sulla causa di generazione5, unitamente alla riduzione che ingenera sul
contenuto dei principi di solidarietà e di responsabilità allargata tra i membri della famiglia6, siccome
correlati alla ragione giustificativa della prestazione
alimentare dovuta al familiare stretto caduto in
stato di indigenza.
Mai prima d’ora la disciplina degli alimenti contenuta agli artt. 433 - 448 c.c., benché caduta quasi in
uno stato di desuetudine7, era stata incisa da testi
legislativi volti a regolare ipotesi di rifiuto alimentare in favore di familiari stretti caduti in stato di bisogno con l’individuazione di cause esclusive del diritto, né stabiliti collegamenti col diritto successorio tra i membri della vicenda alimentare8, sì che il
nuovo testo normativo produce l’effetto di alterare
un sistema ove il dovere di rispondere al bisogno
dell’indigente prevaleva su ogni pregressa condotta
dell’alimentando.
Mentre, scendendo nel dettaglio della disposizione in esame, una volta individuati i soggetti titolari del diritto di rifiuto, benché tutti richiamati nell’art. 433 n. 2 c.c., essa sembra indurre il figlio e/o il
discendente in sua mancanza a coalizzarsi contro il
genitore e di poi ascendente, nella possibilità di rifiutargli gli alimenti richiesti ai sensi dell’art. 445
c.c., sul presupposto che costui abbia subito la revoca della potestà genitoriale9. Si ignora, così statuendo la legge, un recente parametro di bilanciamento delle posizioni in campo, del tutto sfuggito ai
lavori preparatori della normativa in questione,
stante che il genitore, pur revocato dalla potestà, è
tenuto ad adempiere alla prestazione alimentare e/o
mantenitoria10 nei confronti degli aventi diritto, a
prescindere dal reato che abbia determinato la perdita della potestà anzidetta11.
Quindi, se così è, la stessa umanità sottesa alla
causa generale del contributo alimentare, doveva
mantenersi, come era prima della nuova legge, in favore del soggetto bisognoso, a prescindere dal suo
comportamento in vita; anche in considerazione del
fatto che la disciplina degli alimenti dovuti, non è
richiamata, né collegata ai profili dell’indegnità a
succedere, come invece si è voluto generalmente
fare col nuovo testo normativo, donde anche l’omicida del de cuius, del suo coniuge, del discendente o
dell’ascendente, va alimentato dai suoi aventi causa
capienti, quando esponga una condizione di indigenza tale da potersi temere per la sua sopravvivenza.
E ciò, a più forte ragione, quando la dichiarazione
di revoca della potestà genitoriale fosse intervenuta
sul presupposto della reiterazione della mancata
prestazione del mantenimento, attivata con l’appli-
STUDI E RICERCHE
cazione degli art. 330 c.c. e 570 n. 1 c.p., nelle frequenti ipotesi correlate ai contenziosi matrimoniali
di separazione e divorzio12, continuiamo a credere
che la costruzione della norma volta a giustificare il
rifiuto degli alimenti al genitore nelle condizioni di
bisogno anzidette, sia in capo al figlio che al nipote
suo discendente, esponga una durezza incompatibile con un ordinamento civile ed evoluto, inemendabile anche di fronte alla sua rinnovata laicità.
Poi, per chi crede, la brutta norma di cui discorriamo, annienta quell’idea del perdono che scende tra
i membri della famiglia, quando un affetto prima perduto possa poi rientrare nella circolazione di quelli familiari, spenti i fuochi del dissidio originario13.
E qui giunti, fuor di metafora, sembra che il legislatore abbia adottato, del tutto a sproposito, un regola attinente al diritto dei contratti a prestazioni
corrispettive, nella misura in cui ricalca il principio
correlato all’art. 1460 c.c., laddove si legittima l’inadempimento nei confronti di chi, obbligato ex contractu, non abbia a sua volta adempiuto, principio tal
ultimo che meglio si coglie nel contesto della massima secondo cui: “Inadimplenti non est adimplendum”.
Si tratta, ovviamente, del riporto di un’aberrazione
giuridica che solleverebbe molte grida manzoniane
da parte degli studiosi del diritto di famiglia, considerato che gli alimenti dovuti ai sensi degli artt. 443
e ss. c.c. non nascono dal contratto, bensì da una ec-
cezionale condizione di bisogno dell’alimentando
che ha esaurito ogni possibile riserva economica da
destinare alla sua sopravvivenza.
2. Pluralità delle cause generatrici della revoca sulla
potestà genitoriale, circolazione degli obblighi alimentari ed alterazione della graduatoria degli obbligati
contenuta agli artt. 433 e 441 c.c.
Sfugge, così, nella nuova normativa una riflessione di sintesi, ben nota tra gli addetti ai lavori, riguardo il labile confine tra il diritto civile e quello
penale in argomento di revoca della potestà genitoriale, potendosi considerare che la nozione di abbandono del minore sembra sempre più uscire dall’accezione criminale prevista agli artt. 591 e 570 c.p.,
per sistemarsi in quella dell’inadempimento dell’obbligo civile di mantenimento in favore dei minori ai sensi dell’art. 147 c.c. e del coniuge affidatario della prole.
La discriminante, anzidetta, doveva essere ricordata nella norma dettata all’art. 448 bis c.c. al fine di
evitare una situazione di abbandono alimentare dell’avente diritto indigente senza una sufficiente
causa giustificativa del rifiuto, specie considerando
che costui si presenterebbe alla richiesta di alimenti
in una fase avanzata della sua vita terrena, assumendo la qualifica di anziano, categoria tal ultima
sempre più negletta e abbandonata dal legislatore,
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 25
STUDI E RICERCHE
per la quale non ha mai dettato norme di tutela14, e
non inferiore, sul piano ontologico, a quella di minore abbandonato o bisognoso15.
Bisognava, perciò, ricordare, unitamente alla giustificazione legale dell’obbligo alimentare che non
si compone solo col denaro16, il momento in cui la
norma può avere applicazione, stante che il figlio ed
in sua mancanza il discendente avrebbero il dovere
di adempiere al bisogno alimentare del genitore o
dell’ascendente, solo quando le loro condizioni patrimoniali lo avrebbero consentito, vale a dire in una
fase compiuta della vita di costoro, siccome assistita
da una certa agiatezza economica.
La triste scena giuridica che si aprirà nel futuro al
diritto dell’alimentando, vedrà un anziano signore
bisognoso, nella figura del padre decaduto dalla potestà o del nonno, ancor più cruenta, quando questi
sopravviva al proprio figlio e rimanga il discendente,
cui potrà essere opposto dall’obbligato sopravissuto,
ai sensi del nuovo art. 448 bis c.c., di non esser tenuto ad alimentarlo: non perché non possa in relazione alla sue condizioni patrimoniali, ma perché
non deve, anteponendo quale causa del rifiuto l’antica dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale a prescindere dal motivo che l’abbia determinata.
Ma l’uomo bisognoso, nella concezione del legislatore antico, che ha fatto tesoro dei precetti evangelici sul valore della carità, non può morire abbandonato a sé stesso, sì che ricevuto il rifiuto degli alimenti da parte dei suoi diretti discendenti, per così
dire legalizzato dalla norma anzidetta, benché capienti, dovrà rivolgersi alla graduatoria degli obbligati in subordine nell’ordine divisato all’art. 433 c.c.,
sperando di trovare, tra questi, qualcuno che si
prenda cura di lui.
Ora, se si può capire il peccato del singolo uomo,
al cui favore si rivela catartico ed importante anche
il pentimento avvenuto nell’ultimo momento esiziale della sua vita, non può assolutamente comprendersi quello commesso dal legislatore che con
le sue leggi lo alimenta, nonostante abbia il dovere
di essere, per definizione, perfetto ed equilibrato.
Sì che, lo squilibrio del nostro legislatore si avverte
immediatamente dal fatto che nello scrivere la legge
non ha tenuto conto di quanto la nuova introduzione dell’art. 448 bis c.c., scardini il fragile sistema
degli obbligati in subordine, stante che i soggetti titolari del diritto di rifiuto ivi individuati, rappresentano le categorie più estese, appunto quelle dei figli
e dei discendenti, naturalmente plurali ed occasionalmente bilaterali, tutti ricompresi nello stesso
grado parentale, donde, al fine di evitare una logorante escussione capo per capo, l’ottimo legislatore
antico, ha previsto. per l’esecuzione dell’obbligo alimentare, due norme di centrale importanza, vale a
dire gli artt. 441 e 442 c.c., rispettivamente dettate
in tema di concorso tra più obbligati alla prestazione
26 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
alimentare e di concorso di aventi diritto alla medesima.
Tali norme, lette congiuntamente, rappresentano
la massima espressione legale della solidarietà partecipativa al bisogno dell’alimentando che trascina
con sé l’ulteriore movente della responsabilità allargata tra i membri del gruppo familiare per la sopravvivenza del congiunto prossimo caduto in stato
di bisogno, al contempo rispettose delle singole condizioni patrimoniali degli obbligati.
La norma che qui in particolare rileva è quella dell’art. 441 c.c., sì che, tolto il contributo alimentare
dell’altro coniuge17, uno per definizione, si scende
nella categoria prevista dall’art. 433 n. 2 c.c., che può
comprendere più figli o in assenza di loro più discendenti, donde, essendo stato previsto il diritto di
rifiuto in favore degli uni e degli altri, sia come singoli che, a più forte ragione, quali obbligati nello
stesso grado, l’alimentando dovrà scendere ancora
tra le categorie parentali minori ed in quelle degli
affini, essendo molto probabile l’estinzione dell’obbligo in capo ai genitori dell’alimentando e dei suoi
ascendenti prossimi (art. 433 n. 3 c.c.) per morte, tenendo presente la naturale durata della vita umana.
Fa specie, a questo punto, che la norma dell’art.
448 bis c.c. non consideri che i generi e le nuore (art.
433 n. 4 c.c.), in capo ai quali dovrebbe permanere
l’obbligo alimentare, siano i rispettivi coniugi dei figli, testualmente esonerati dalla legge dall’alimentare il genitore decaduto dalla potestà su di loro; sì
che, scontato l’effetto stupefacente che deriva da
tale digressione, del tutto dimenticata dal disattento
legislatore, le poche parole che rimangono nel descrivere la nuova disposizione non possono essere
che di profondo biasimo, senza ulteriori commenti.
Rimangono, allora, in corsa per la prestazione alimentare i fratelli e le sorelle germani ed unilaterali
(art. 433 n. 6 c.c.), seppure col limite dello stretto indispensabile (art. 440 c.c.), ove ancora campeggia il
differenziato regime dell’obbligo tra le sorelle e i fratelli germani e quelli unilaterali, stabilendosi la precedenza dei germani sugli unilaterali.
Tale precedenza, in relazione alla riformulazione
delle norme sulla parentela e sui suoi gradi secondo
il nuovo art. 74 c.c., per così dire unificati, a prescindere dalle forme della filiazione da cui prendono origine18, non ha più ragione di esistere, stante che,
muovendo dal parametro di uguaglianza tra i tutti i
figli, poi vedendoli nella loro correlata dimensione
di fratelli, lo spettro della completa unificazione
deve completarsi in modo uniforme, abolendosi
espressamente il regime della precedenza degli uni
rispetto agli altri ed attivandosi con maggiore pienezza il disposto dell’art. 441 c.c.
Qui giunti, l’epilogo che ognuno può trarre dal “
pericoloso “riflesso dell’art. 448 bis c.c., sulla scena
giuridica del diritto alimentare e successorio, è evidente, considerato che con esso si intende cancel-
STUDI E RICERCHE
lare ogni rapporto col genitore decaduto dalla patria
potestà, senza distinzione di cause, annientandosi,
con una fragilissima previsione di indegnità, i suoi
diritti successori dal lato attivo e conservandosi interi quelli dei suoi aventi causa diretti, nelle persone
dei figli e dei discendenti che succedono al genitore
indegno nel caso di sua naturale premorienza19.
Essi, infatti, nella posizione di legittimari appartenenti al primo ordine successorio (art. 536 c.c.),
precedono la categoria dei fratelli e delle sorelle che,
invece, appartengono all’ordine dei collaterali, il cui
diritto di succedere è regolato agli artt. 565 e 570 c.c.
in assenza di costoro.
Tali ultimi, benché posti in fondo alle categorie
previste dall’art. 433 c.c., nella triste digressione cui
la norma costringe, largamente sovversiva degli ordini successori anzidetti, rimarrebbero gli unici obbligati alla prestazione alimentare in favore del proprio fratello decaduto dalla potestà genitoriale e destinato alla declaratoria di indegnità da parte dei
suoi discendenti diretti.
Se questo era l’intento del legislatore, bastata scrivere un norma ancor più brutale di quella qui analizzata, ma al contempo tragicamente sincera, con
la quale si poteva affermare la perdita di ogni diritto
in capo al genitore revocato dalla potestà genitoriale, siccome indegno di succedere e di essere alimentato dalla sua progenie.
3. I nuovi casi di indegnità a succedere per la decadenza dalla potestà genitoriale: limiti sostanziali ed
aperte antinomie sistematiche del nuovo art. 448 bis
c.c..
Venendo ora al profilo della indegnità a succedere
del genitore, conseguente dalla revoca della potestà,
attivabile dal figlio o dal discendente in mancanza
di lui, esso espone una serie di contraddizioni non
emendabili, le quali rendono il passaggio della
norma che la contiene irta di insidie con riferimento
alla lesione di diritti costituzionalmente garantiti,
non difficili da individuare all’art. 3 della Costituzione.
E proprio qui riposa il punto critico delle nuove disposizioni contenute all’art. 448 bis c.c., stante che la
previsione di indegnità ivi richiamata, era già stata
regolata con l’introduzione del n. 3 bis nel novero dei
casi previsti all’art. 463 c.c., contemplandosi per la
prima volta il caso dell’indegnità a succedere conseguente dalla perdita della potestà genitoriale nei
confronti del figlio.
Il precedente legislatore, ammetteva, dunque, la
possibilità di dichiarare l’indegnità del genitore e
tuttavia salvo reintegra, addizione, tal ultima, determinata dal richiamo dell’art. 1 della L. 137/2005,
che ne consentiva l’applicazione solo nel caso in cui
il genitore fosse giunto alla successione del figlio col
peso della revoca della potestà ancora sulle spalle.
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 27
STUDI E RICERCHE
Un occhio attento alla rigide ipotesi di indegnità a
succedere, contenute all’art. 463 c.c. avrebbe sicuramente notato che in ognuna di esse, anche in quelle
più gravi che considerano l’omicidio tentato o consumato, è sempre prevista una liberatoria, tutte le
volte in cui sia esclusa la punibilità del reo da parte
della legge penale; sì che il non aver considerato la
reintegra nella potestà, quale causa riparatrice dell’indegnità, rappresenta più un capriccio paidocentrico di ultima istanza che un valido ed opponibile
movente esclusivo del diritto di succedere.
Ciò posto e scendendo, allora, nel dettaglio della
nuova disposizione rileva, a nostro avviso, il seguente inciso “…per i fatti che non integrano i casi di
indegnità di cui all’art. 463, possono escluderlo dalla
successione” estendendosi la detta facoltà anche in
favore dei discendenti, naturalmente, se non prendiamo errori, dopo la morte del figlio, loro padre.
L’ipotesi descritta nella norma anzidetta risulta
tanto eccezionale a verificarsi da non meritare l’enucleazione di un principio di così radicale portata,
volto ad ampliare i casi di indegnità oltre le categorie individuate nell’art. 463 c.c., norma, tra l’altro, di
stretta interpretazione che non consente alcuna
estensione analogica dei casi esclusivi della successione dell’indegno in essa individuati; sì che, stupisce il fatto che il legislatore, pur avendo sotto gli occhi l’art. 315 c.c., ove al primo comma è previsto il ri28 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
spetto dovuto dai figli nei confronti dei genitori, abbia perso l’occasione di riflettere sul risvolto della
questione dell’indegnità a parti inverse, dal quale ricavare, con le stesse parole adottate per il figlio e il
discendente, il bilanciato potere di esclusione dalla
successione anche in favore dei genitori anziani,
fuori dai casi dell’art. 463 c.c., quando vengano abbandonati, disprezzati, vilipesi da coloro che hanno
messo al mondo e condotti alla maturità, emancipandoli con i loro apporti dai bisogni della vita20.
Quindi il figlio, invertendo l’ordine dei fattori, pur
avendo rifiutato gli alimenti al genitore ai sensi dell’art. 448 bis c.c., sul presupposto che durante la sua
infanzia costui abbia subito la revoca della potestà,
senza distinzione tra casi maggiori e casi minori cui
essa dà corso, spesso attinenti a tutte quelle questioni collegate al difetto attitudinale all’esercizio
della genitorialità, oppure, nel reiterato inadempimento dell’obbligo mantenitorio, gli potrà succedere, laddove residui, dopo la sua morte, un certo
patrimonio immobiliare, nonostante lo possa
espressamente escludere, quando premuoia, anche
oltre i casi previsti dall’art. 463 c.c.
E ciò si badi, a prescindere dal fatto che il genitore
abbia ottenuto la reintegra nella patria potestà,
come sembra affermare la norma considerata nell’art. 448 bis c.c., stante che non considera, neanche
per richiami esterni, l’ipotesi del superamento della
STUDI E RICERCHE
causa di indegnità, già prevista all’art. 463, n. 3 bis
c.c. tutte le volte in cui il genitore fosse stato reintegrato prima della morte del figlio con un valido
provvedimento del giudice.
Se così è, rimanendo inemendabile il carattere
rancoroso che circola all’interno della nuova disposizione di legge, un legislatore giusto e comprensivo
avrebbe avuto altri possibili profili da collegare al rifiuto degli alimenti dovuti al genitore da parte del
figlio, sul presupposto di una revoca della potestà
genitoriale di cui non si distinguono le cause ed i
veri confini.
Ed allora, rilevata la permanenza del provvedimento di revoca della potestà, laddove fosse stata
determinata da cause severe21, si sarebbe potuto
escludere la successibilità in modo reciproco sui rispettivi patrimoni residuati alla loro morte, con l’attribuzione della quota che sarebbe spettata all’indegno all’altro genitore, del caso vivente, visto che
per gli ascendenti non c’è rappresentazione ma solo
accrescimento; oppure, una volta ammessa l’indegnità a succedere del genitore decaduto dalla potestà genitoriale, anche fuori dai casi previsti dall’art.
463 c.c., consentire al genitore che l’abbia correttamente esercitata, di attivarla nei confronti di quel
figlio che reiteratamente abbia posto in essere nei
suoi confronti, atti di abbandono e disprezzo, tali da
attentare al suo patrimonio morale e materiale, cagionati o meno dalla permanenza della revoca della
potestà genitoriale.
Tale cautela avrebbe fornito, con l’evasione dalle
rigide classi dell’indegnità offerta dalla nuova
norma contenuta all’art. 448 bis c.c., per giunta collocata proprio nel sistema degli alimenti dovuti, un
miglior criterio argomentativo alla giurisprudenza,
ancora impegnata nella ricerca dell’atto lesivo della
personalità del donante in argomento di revoca
delle donazioni per ingratitudine22 ai sensi dell’art.
801 c.c.
Proprio a questo punto, prendendo ulteriori argomenti dalle questioni anzidette, si deve segnalare il
disdoro della giurisprudenza che non ha considerato il reiterato schiaffeggiamento subito dalla donante da parte della figlia donataria, quale causa di
revoca della donazione, considerandolo un comportamento da collocare nella normale dinamica litigiosa della famiglia, conseguente da scelte di vita
della beneficiata non approvate dai genitori23; mentre è noto che un’azione del genere, nei confronti di
un minore, benché deplorevole, possa condurre proprio alla perdita della potestà genitoriale anche sull’abbrivo offerto, in materia penale, dal reato di
abuso dei mezzi di correzione.
Così sfogato un represso sentimento di giustizia
sostanziale in argomento di revoca delle donazioni
per ingratitudine e venendo al tema d’indagine, l’ultimo profilo, veramente difficile da collocare nel sistema successorio, si incontra nella misura della di-
sposizione dell’art. 448 bis c.c., che prevede la possibilità offerta al discendente, nel caso in cui manchi
il figlio del padre indegno, che non abbia attivato il
nuovo meccanismo ablativo, di attivarlo lui stesso,
stabilendosi, più che un caso possibile a verificarsi
nella realtà giuridica, una sorta di successione nel
rancore derivante dalla permanenza della perdita
della potestà genitoriale sul genitore del genitore.
L’inciso della legge che riporta il seguente passaggio: “possono escluderlo dalla successione” congiuntamente riferito al figlio e ai discendenti, prima
autorizzati a non prestare gli alimenti al genitore revocato dalla potestà, appare, dunque, particolarmente oscuro, considerato che secondo un logico ordine graduale, i momenti dell’indegnità a succedere,
poggiati sull’unica causa della decadenza dalla potestà genitoriale, sembrerebbero spiegare effetti attivi in capo a due categorie di successibili, confondendosi l’interesse ad agire, in capo all’una e all’altra, potendosi attivare, l’azione di specie, solo dopo
la morte della persona offesa.
Deriva, allora, che l’azione di indegnità da parte
dei discendenti contro il genitore revocato dalla potestà sul figlio premorto, può essere innescata solo
dopo tale esiziale momento e quando non vi sia il
testamento di costui col quale si dichiari espressamente l’indegnità del genitore, per una causa che
pur girando intorno alla permanenza della perdita
della potestà genitoriale, potrebbe andare anche oltre i casi previsti dall’art. 463 c.c., stando al testo
della norma in esame.
Ora, quali possano essere i casi posti fuori dall’art.
463 c.c. da cui giungere all’esclusione dalla successione del genitore inciso dalla perdita della potestà
sull’originario minore non è dato saperli; mentre si
conosce con certezza quello contenuto all’art. 463 n.
3 bis c.c. che consente l’attivazione del rimedio ablativo di succedere da parte dei successibili concorrenti, solo quando permanga in capo al genitore la
revoca della potestà dopo la morte del figlio.
Ma, a ben vedere, rilevato che le categorie di indegnità sono tassativamente previste dall’art. 463
c.c., l’inciso “ possono escluderlo “ trascina con sè
l’idea che tale esclusione possa avere radice volontaria, potendo essa dichiarazione di esclusione dell’indegno, nel cui curriculum vitae vi sia la macchia
della revoca della potestà genitoriale, trovare la sua
sede solo nel testamento della persona offesa e in
sua mancanza in quello dell’avente causa diretto,
vale a dire il discendente.
Deriva, allora, che un testamento del genere, laddove si dichiari l’indegnità del genitore a succedere
quando, invece, costui sia stato reintegrato nella potestà prima della morte del figlio, da cui deriva poi
l’identico potere del discendente in sua assenza,
sarà colpito da nullità parziale ed a più forte ragione
nel caso in cui la dichiarazione anzidetta giri intorno ad una causale collegabile al precedente conottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 29
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flitto genitoriale, del tutto non richiamata nella lista dei casi tassativamente previsti dall’art. 463 c.c.
Venendo, ora, al profilo della legittimazione attiva
dell’erede concorrente, che prende le mosse, nel nostro caso, dal presupposto dell’assenza di testamento del figlio e nell’ipotesi più lontana del discendente, cui segue l’apertura della successione legittima, laddove concorrano discendenti e ascendente, sembrerebbe aprirsi il campo all’azione di indegnità, il cui interesse ad agire sarebbe trasferito
in capo al discendente contro l’ascendente revocato
dalla potestà, al quale non gioverebbe nemmeno,
l’intervenuta reintegra nella potestà genitoriale, se,
per fuori dai casi previsti dall’art. 463 c.c. debba pure
comprendersi quello dettato al n. 3 bis della norma
in questione.
La norma del nuovo art. 448 bis c.c., con una
estensione parossistica, sembra pure prevedere la
disponibilità dell’azione di indegnità in capo al discendente del discendente, stante che il “possono
escluderlo” riferito al figlio e al discendente, benché
incomprensibile in prima battuta, deve collocarsi
nell’ambito dell’autonomia dispositiva, non potendosi prevedere una dichiarazione di esclusione congiunta con atto volontario precedente la morte in
capo a soggetti egualmente autorizzati dalla legge,
ciò che in ultima analisi rende la norma del tutto
inapplicabile.
Qui giunti, volendosi, infine, segnalare l’errore di
fondo, sottostante all’art. 448 bis c.c. esso si incontra,
con miglior chiarezza, procedendo alla naturale sezione della norma in due parti, benché appaia superficialmente impostata in un’unica disposizione,
da cui trarre argomenti utili a dimostrare l’impossibilità tecnica del richiamo volto all’applicazione
della congiunta declaratoria di indegnità in capo al
genitore decaduto dalla potestà.
È evidente, infatti, che nel caso del rifiuto degli alimenti al genitore decaduto dalla potestà, il primo
richiamo è rivolto al figlio obbligato ai sensi dell’art.
433 n. 2 c.c., registrata la mancanza del coniuge, per
morte o per cessazione del vincolo matrimoniale,
dalla cui intrapresa spesso deriva l’attivazione della
revoca della potestà nei confronti dell’altro, sì che,
l’inciso “ in sua mancanza”, può cogliersi soltanto
in quello che si riferisca alla sua morte, da cui deriva
la chiamata in subordine del discendente prossimo.
Non avrebbe avuto alcun senso una doppia chiamata alla prestazione di alimenti, sull’identico potere di rifiuto introdotto dall’art. 448 bis c.c., congiuntamente e contemporaneamente attribuito al
figlio e al discendente.
Da qui deriva, a nostro avviso, che nella successiva sezione della norma, ove si tratta dell’indegnità
a succedere anticipata dal “possono escluderlo dalla
successione” la stessa graduazione adottata per il
rifiuto degli alimenti al genitore decaduto dalla potestà sul figlio evidentemente premorto, deve essere
30 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
mantenuta, tale da escludersi una posizione congiunta del figlio e del discendente, come erroneamente affermato nella legge che prende le mosse da
una identica causa di esclusione.
Secondo un’altro angolo di lettura, potrebbe ancora affermarsi che la perdita remota della potestà
genitoriale avrebbe un carattere plurioffensivo volta
a colpire il figlio e i discendenti, da ciò legittimati a
non prestare entrambi, senza chiamata in subordine, gli alimenti al genitore, così sovvertendosi i
criteri della personalità del rapporto alimentare, da
cui normalmente deriva quello dell’irrogazione
della sanzione, e di poi ancora, in ambito processuale il criterio dell’opponibilità.
Tale costruzione, per così dire allargata ai naturali
discendenti del genitore colpito dalla perdita della
potestà avrebbe il fatale intento di cancellare, addirittura, ogni legame tra di loro, quasi anticipando la
morte civile del dante causa comune, cui nessun riguardo dovrà più essere portato finchè viva.
Ma, se muore prima il padre, com’è normale che
accada nella naturale sequenza della vita umana, il
figlio e il discendente, quisque pro suo, non hanno limiti legali nella facoltà di succedergli, sì che ogni
rancore precedente, dinanzi ad un patrimonio devolubile iure hereditatis si estinguerà del tutto, essendo ben noto che di fronte al denaro ogni antico
pregiudizio moralistico, cedendo il passo all’oblio,
annega nel fatto contingente dell’apprensione dei
beni ereditari, il cui effetto catartico è ben conosciuto da quegli eredi ingrati ed irriconoscenti che
si presentano al capezzale del dante causa un momento prima che spiri, pur avendolo abbandonato
e, a volte, disprezzato durante la sua vita terrena.
4. Le regole del processo per la declaratoria di indegnità a succedere e loro inamovibilità.
Messe così in evidenza le incongruità della legge
qui commentata, seppure nell’euforia della prima
lettura, rimanendo in attesa di migliori chiarimenti
del suo contenuto, appare doveroso ricordare le regole minime di attivazione dell’indegnità a succedere riportate alle categorie contenute all’art. 463
c.c., siccome blindate dal criterio della stretta interpretazione.
È noto in dottrina che l’ipotesi della indegnità a
succedere di colui il quale abbia commesso nei confronti di alcuno dei soggetti indicati all’art. 463 n. 1
c.c., uno dei reati previsti nelle successive sequenze
della norma, non conduce verso il parametro dell’incapacità, bensì costituiscono singole cause di
esclusione dell’indegno dalla successione della persona offesa24, che secondo la vecchia massima, ancor oggi molto esplicativa, “potest capere sed non retinere”.
Movendo allora da questo abbrivo, l’inciso riferito
alla successione del figlio e del discendente dell’indegno in pectore: “possono escluderlo dalla loro suc-
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cessione anche fuori dai casi previsti dall’art. 463
c.c.” da cui deriva un esplicito richiamo alla materia
generale dell’indegnità, non ha speranza di veder la
luce della corretta applicazione, stante che le cause
di indegnità non possono essere estese oltre i (durissimi) casi in essa previsti, se non individuandosi,
da parte del legislatore, una nuova causa specifica
ed oggettiva, con la necessaria previsione delle ipotesi estintive dell’indegnità connesse alla legge penale e a quella civile.
Posta così in luce la prima evidente anomalia
della nuova norma, del tutto incomprensibile risulta
poi il non aver tenuto conto dell’art. 463 n. 3 bis, c.c.
ove è testualmente previsto, da una parte, il caso di
indegnità riportato alla perdita della potestà genitoriale sul figlio e dall’altra la sua neutralizzazione
in ipotesi di reintegra intervenuta prima della sua
morte, che con rigore sistematico alla disciplina dell’indegnità produce una causa di esclusione della
punibilità, riconducibile sia alla legge penale, per le
ipotesi maggiori, sia alla legge civile, quando il genitore venga reintegrato nella potestà ai sensi dell’art. 332 c.c.
E, siccome ogni diritto dell’avente causa in subordine, concorrente con quello dell’indegno, deve essere portato alla conoscenza del giudice civile con
domanda giudiziale, rispettate le regole del litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c., tra gli interessati
all’eredità della vittima dell’indegno25, notificata e
trascritta ai sensi dell’art. 2652 c.c., entro dieci anni
dall’apertura della successione della persona offesa,
da cui deriva la sentenza costitutiva dell’indegnità
medesima, laddove mai potessero concretizzarsi le
costruzioni della norma da noi avversata, le possibilità di difesa del genitore decaduto dalla potestà
genitoriale e reintegrato, al tempo suo, ai sensi dell’art. 463 n. 3 bis c.c., sarebbero senz’altro prevalenti
su quelle adottabili dai discendenti che dovrebbero
cercarle fuori dai casi previsti dall’art. 463 c.c.
Il pericolo cui conduce l’impostazione dell’art. 448
bis c.c. è da considerare, perciò, grave, stante che un
giudice, strettamente argomentando dai suoi generalissimi richiami, potrebbe dichiarare l’indegnità
dell’ascendente (quando gli vada di succedere al figlio premorto) sulla domanda proposta dal discendente, siccome tenuemente argomentata dalla perdita della potestà genitoriale, nella quale sarebbe incorso, moltissimi anni prima dell’attivazione del
giudizio ereditario, senza tener conto della reintegra dal medesimo conseguita, fissando nella sentenza un nuovo caso di indegnità, sostituendosi al
legislatore e così all’infinito.
Ogni altro ragionamento sull’impostazione della
norma contenuta nell’art. 448 bis c.c., risulta fin qui
impedito dall’evidente disarmonia che essa genera,
sia in argomento di alimenti dovuti, sia per i riflessi
negativi introdotti nel delicato ambito successorio,
rendendosi così del tutto estranea ai principi generali della nuova normativa sulla parificazione degli
status di filiazione.
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 31
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Note
1
In tale data la Camera dei Deputati della Repubblica Italiana approvava, in via definitiva, il disegno di legge unificato C. 3915 – S.
2805 della XVI legislatura, inerente alle “ Disposizioni in materia di riconoscimento di figli naturali “ confluito, nella L. 10 dicembre
2012, n. 219, pubblicata in G.U., 17 dicembre 2012, n. 293, con numerose e forse troppe disposizioni delegate contenute nel suo art. 2,
da attuare entro un anno dalla pubblicazione, che sancendo il principio generale della parificazione di tutti gli status di filiazione, tramite la rimodulazione dell’art. 315 bis c.c. e la necessaria elaborazione dell’art. 74 c.c., ha dato definitivamente voce agli studi di A. PALAZZO, La filiazione fuori dal matrimonio, Milano, 1965; ID. La filiazione, in Tratt. dir. civ. comm.,. Cicu e Messineo, continuato da L. Mengoni, diretto da P. Schlesinger, Milano, 2007, nonché alle serrate critiche di Cesare Massimo Bianca contro l’arresto di Corte Cost. 23 novembre 2000, n. 532 che ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale con riferimento alla esclusione dei parenti naturali dalla successione legittima, osservazioni, tali ultime che abbiamo avuto l’onore di ricevere ne, I Pareri, richiesti e ordinati da G. Palazzolo, in A. PALAZZO, Testamento e istituti alternati, Tratt. teorico pratico di diritto privato, diretto da G Alpa e S. Patti, Padova, 2008,
p. 693 ss., C.M. BIANCA, Alcune considerazioni sulla parentela naturale e sul principio di eguaglianza dei figli ove, trovando felici espressioni afferma che : “ Un ordinamento civile non può essere costruito sulle disuguaglianze tra figli. Il civilista deve piuttosto guardare ad
un ordinamento in cui non vi siano figli legittimi e figli non legittimi, ma figli e basta “.
2
La dottrina generale sugli alimenti dovuti è vasta, sì che tra i contributi più recenti e significativi, cfr. T. AULETTA, Alimenti e solidarietà familiare, Milano, 1984; ID., Diritto di famiglia, X ed., Giappichelli, Torino, 2011; G. BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, Torino, 2012, V ed.; G. CIAN, Alimenti, in Comm. alla riforma del diritto di famiglia, Padova, 1977, p. 815; G. TAMBURRINO, Lineamenti
del nuovo diritto di famiglia italiano, Torino, 1976, p. 376; D. VINCENZI AMATO,Gli alimenti, in Tratt. di dir. priv. diretto da Rescigno,
Torino, 1982, p. 848, G. PALAZZOLO, Alimenti dovuti e mantenimento negoziato, Napoli, 2008, p. 31 ss., tutti sulla fondamentale lezione
di A. CICU, La natura giuridica dell’obbligo alimentare tra congiunti, in Riv. dir. civ., 1910, p. 145.
3
In argomento di adozione legittimante ex L. 184/1983 e sue relazioni con l’art. 74 c.c., si veda G. SALITO, Parentela e affinità, in Il
diritto di famiglia nella dottrina e nella giurisprudenza, Il matrimonio, le unioni di fatto, i rapporti personali, Vol. I., Trattato teorico –
pratico, diretto da G. Autorino Stanzione, II ed., Torino, Giappichelli, 2011, p. 13 e ss.; : mentre, per completezza di informazione, sulle
tematiche relative alla posizione del figlio adottivo sia, inter vivos che mortis causa, si rinvia alla completa analisi di G.BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, cit., p. 335 e ss., specie in argomento di adozione di maggiorenni, nonché A. GIUSTI, L’adozione di persone
maggiori di età, in Il diritto di famiglia, Vol. III, Filiazione e adozione, Tratt. diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, continuato da G. Bonilini, Torino, 2007, II ed., p. 563 ss, nonché, in tema di adozione civile e riconoscenza dell’adottato al recente e compendioso contributo di
C. COPPOLA, L’ingratitudine nel diritto privato, Padova. 2012, p. 61 ss.
4
Si ricordi che la norma generale contenuta all’art. 463 c.c., regolatrice dei casi di indegnità a succedere era stata già integrata con
l’introduzione del n. 3 bis per effetto della L. 8 luglio 2005, n. 137, pubblicata in G.U., n. 166 del 19 luglio 2005 che escludeva dalla successione del figlio il genitore revocato dalla patria potestà, salvo che alla morte dell’ereditando non fosse stato reintegrato, con provvedimento dell’autorità giudiziaria su istanza del genitore revocato; oppure, in via volontaria, da parte del figlio, per mezzo del testamento
ai sensi dell’art. 466 c.c., sia in forma espressa che tacita ed infine con atto pubblico. Dalla stessa norma, per completezza di informazione è da riferire che vennero pure espunti alcuni termini che evocavano l’idea della pena di morte al n. 3 e la menzione “ penale “ riportata dalla legge in argomento di omicidio al n. 2.
5
Come insegna A. PALAZZO, La filiazione, in Tratt. dir. civ. comm , cit., specie alle pp., 205, 211, 241 e 261, che, contro il tradizionalismo delle regole antiche, concernenti i vari status di filiazione differenziati dal matrimonio, pone al centro del sistema la tutela dei figli non matrimoniali, coniandone l’evolutiva qualificazione ed ancorandola al tema dell’affettività, della solidarietà e dell’amore oblativo, che nella norma qui analizzata sembra tragicamente dimenticato.
6
Per tutti, G. GIACOBBE, “Genitorialità sociali” e principio di solidarietà: riflessioni critiche, in Dir. fam. pers., 2005, p. 156 ss., ID., Il fondamento giuridico della solidarietà sociale, in Iustitia, 1999, p. 523 ss.
7
Scorrendo i repertori della giurisprudenza raramente si incontra un provvedimento giudiziale che disponga sugli alimenti dovuti ai
sensi degli artt. 433 e ss. c.c., essendo noto che i genitori si compiacciano dei propri figli al punto da tenerli fuori da ogni loro vicenda
esistenziale, attribuendosi, di contro, all’intervento impersonale dello Stato di welfare il ruolo di colmare, col sistema dei servizi agli anziani indigenti, certi obblighi di assistenza e cura che prima dovrebbero essere risolti in famiglia, quando le condizioni economiche di alcuni suoi membri siano tanto sufficienti da poterli garantire. Ed infatti, ai sensi dell’art. 443 c.c., la prestazione del rateo alimentare può
trasformarsi in accoglienza e mantenimento dell’alimentando nella casa dell’obbligato, che nonostante sia considerata quale modo di
adempimento alternativo dell’obbligazione di alimenti, perpetua nella legge un uso atavico delle famiglie italiane, ancora molto diffuso
nel Sud d’Italia, vale a dire quello di accompagnare i propri genitori nelle ultime fasi della loro esistenza verso quel crepuscolo della vita
cui tutti gli uomini devono soggiacere; per tali argomenti sia consentito rinviare a G. PALAZZOLO. Alimenti dovuti e mantenimento negoziato, Napoli, 2008, p. 25 ss. .
8
L’unica norma riconducibile ad un parametro contrattuale oggettivo, riguardante l’obbligato agli alimenti e l’alimentando caduto in
stato di bisogno, si incontra all’art. 437 c.c. ove il donatario è tenuto ad adempiere con precedenza su ogni altro soggetto previsto all’art.
433 c.c., escluso il caso della donazione obnuziale ( art. 785 c.c.) e della remuneratoria ( art. 770 c.c. ), prevedendosi in capo all’obbligato che persista nell’inadempimento della prestazione alimentare una specifica causa di revocazione, secondo il richiamo dell’art. 801
c.c. riconducibile, con altre deduzioni, al sistema dell’ingratitudine e tale da non consentire il mantenimento della donazione a lui fatta.
Tali particolari applicazioni dell’ingratitudine al diritto dei contratti gratuiti, delle attribuzioni mortis causa e delle donazioni sono state
di recente messe in chiaro da C. COPPOLA, L’ingratitudine nel diritto privato, cit., p. 73 e ss.
9
Il non aver previsto nell’ambito della nuova disposizione dettata con l’art. 448 bis c.c. la causa della revoca della potestà genitoriale
che conduce al diritto del figlio di rifiutare gli alimenti dovuti al genitore o all’ascendente, produce un grave effetto massimalista, del tutto
sbilanciato rimanendo al contenuto patrimoniale dell’obbligo circolare di alimenti, specie, quando, nelle ipotesi minori il genitore decaduto continui ad adempiere alla prestazione di mantenimento. Tale massimalismo, poteva essere risolto semplicemente aggiungendo al
diritto di rifiuto anzidetto, le causali più gravi della decadenza dalla potestà genitoriale, normalmente connesse ai reati di abuso o di gravi
maltrattamenti sul minore, lasciandosi, in ogni caso, al genitore decaduto la possibilità di riscattarsi con la riabilitazione, non fosse altro che per il richiamo successivo all’art. 463 c.c. in argomento di indegnità a succedere, ove è prevalente l’impostazione penalistica..
10
Sulla questione generale del diritto al mantenimento dei figli e dell’affidamento condiviso, nella disciplina introdotta dalla L. 54/2006,
si rinvia all’esaustiva analisi di G. FREZZA, Mantenimento diretto e affidamento condiviso, Milano, 2008, p. 5 ss., unitamente alle sue
numerose riflessioni critiche sulla tenuta e l’applicabilità della nuova legge, specie in argomento di disarmonie tra di essa e quella precedente che si propone di innovare sul discrimen posto dall’art. 4 comma 2 del nuovo testo.
11
Ci basta qui riportare l’arresto della Corte Costituzionale n. 31 del 23 febbraio 2012, che intervenendo sulla pena accessoria relativa alla perdita della potestà genitoriale prevista dall’art. 569 c.p., siccome derivante dal reato di alterazione di stato commesso in violazione dell’art. 567 c.p., l’ha dichiarata costituzionalmente illegittima, tutte le volte in cui sia corrispondente all’interesse del minore che
il genitore continui a mantenerla in vista della realizzazione degli obblighi genitoriali connessi al fatto di procreazione.
32 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
STUDI E RICERCHE
12
Quando l’altro coniuge non abbia un patrimonio aggredibile, è noto che l’azione penale prevista dall’art. 570 n.1 c.p. nei confronti dell’obbligato al mantenimento in favore del figlio minore e del coniuge affidatario, anche nei casi di oggettiva impossibilità di adempiere regolarmente, spesso rappresenti una sorta di rimedio punitivo - afflittivo di ultima istanza, col quale colpire l’altro genitore e fargli perdere
la potestà genitoriale sul minore nel susseguente giudizio previsto all’art. 330 c.c. dinanzi al Tribunale per i minorenni; espediente questo,
tanto odioso ed inopportuno, specie considerandosi che il genitore, nonostante la dichiarazione di decadenza pronunciata nei suoi confronti,
che in linea astratta lo libererebbe dal dovere di adempiere, deve continuare ad assolvere ai suoi obblighi di mantenimento senza esercitare
la potestà sul minore, passaggio, tal ultimo, cui fortunatamente provvede il largo spettro argomentativo di Corte. Cost. 31/ 2012 cit.
13
Per tali particolari argomenti si veda, A. PALAZZO, Il patto del decalogo e l’idea del contratto sociale nell’Europa moderna, in Jus,
1 – 2, 2011, p. 159 ss., la cui lettura apre nuove direttrici di analisi della nostra materia, considerandosi la Legge di Dio un dono di cui
godono tutti gli uomini per conseguire la libertà dalle regole particolari poste a tutela di singoli e spesso contrastanti interessi.
14
Nonostante un primo interessamento della nostra migliore dottrina, intervenuto a cavallo degli anni 90’ nessuna norma protettiva
dei bisogni degli anziani è stata pensata dal legislatore italiano, sì che, tra i più importanti contributi cfr. L. MENGONI, La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell’uomo, in Riv. Trim. dir. e proc. civ., 1982, p. 1127; P. PERLINGIERI, Diritti della persona anziana,
diritto civile e stato sociale, in P. Stanzione ( a cura di ), Anziani e tutele giuridiche, Napoli, 1991, p. 88 ss.; P. STANZIONE, Le età dell’uomo
e la tutela della persona: gli anziani, in Riv. dir. civ., 1989, I, p. 447 ss.; L. ROSSI CARLEO, Il futuro degli anziani: le ragioni di una ricerca, in L. Rossi Carleo, M.R. Saulle, L. Siniscalchi ( a cura di ), La terza età nel diritto interno e internazionale, Napoli, 1997.
15
Si vedano sul punto discriminante della questione esposta al testo, correlata al fatto che la posizione del minore nel processo è garantita da una pluralità di norme cogenti, mentre per l’anziano i riferimenti della sua tutela debbano essere cercati all’esterno del diritto, vale a dire nelle scienze sociologiche, nella medicina, nella psicologia, nell’economia, le profonde riflessioni di M. DOGLIOTTI, Anziani
e società; doveri e diritti, in Dir. fam. e pers., 1998, p. 426; ID., I diritti dell’anziano, in Riv. trim. dir e proc. civ.., 1987, p. 711 s.; ID., Diritti della persona ed emarginazione: minori, anziani, handicappati, in Giur. it., 1990, IV, c. 361.
16
Si deve a G. BONILINI, Sull’inadempimento del vitalizio assistenziale, in Resp. Civ., 1998, p. 331 ss.; ID., Vitalizio e risoluzione per
inadempimento dell’obbligo di prestare assistenza morale, in Contratti, 1996, p. 5 ss. l’individuazione dei nuovi caratteri su cui si fonda
la prestazione globale di assistenza e cura in favore delle persone deboli, che ha mosso anche il sistema degli alimenti dovuti, nella misura in cui la prestazione alimentare non è più inquadrata nell’antico parametro dello stretto indispensabile per la sopravvivenza dell’alimentando, bensì su un coacervo di prestazioni complesse che si compongono, altresì, con l’assistenza e l’accompagnamento dell’alimentando stesso a tutte quelle attività della vita giornaliera che da solo non potrebbe svolgere compiutamente.
17
Sui rapporti tra i coniugi ed in particolare con riferimento al dovere di fedeltà, si rinvia alla completa analisi di E. GIACOBBE, Il matrimonio, T.1, L’atto e il rapporto, in Tratt. di dir. civ., diretto da R. Sacco, Torino, 2012, p. 733 e ss.
18
Bisogna qui ricordare il coraggioso contributo di M. SESTA, Stato di figlio legittimo e richiesta di alimenti al padre naturale, in Riv.
dir. civ., II, 1975, p. 460 e ss., che schierandosi contro la dottrina dominante del periodo e passando in rassegna la giurisprudenza precedente la riforma del diritto di famiglia, allora all’esordio, ha dimostrato che il sistema non escludeva che il titolare dello status di figlio
legittimo altrui, non potesse ottenere ulteriori diritti alimentari, dimostrando, con l’ausilio dell’art. 279 c.c., una diversa paternità, conformemente all’idea della prevalenza del fatto biologico di procreazione sul favor legitimitatis, ormai, quasi irrilevante nei giudizi di accertamento della genitura naturale. Tale fondamentale passaggio della dottrina, espresso in tempi duri per il diritto di famiglia, consente,
quindi, un’efficace lettura delle norme contenute agli artt. 580 e 594 c.c. in argomento di successione dei figli cd. irriconoscibili, sì che sia
consentito rinviare a G. PALAZZOLO, I diritti successori dei figli non matrimoniali, in Rass. dir. civ., IV, 2010, p. 1116 e ss.
19
Tale nuova introduzione produce una ulteriore criticità proveniente dal potere loro concesso di rifiutare gli alimenti al dante causa
decaduto dalla potestà genitoriale, dichiarando di non essere tenuti, che si incontra con quanto dispone la vecchia norma contenuta nella
L. 1580/31, all’art. 1 comma 1, ove è prevista, nonostante le rimodulazioni intervenute con L. 833/78, istitutiva del Servizio sanitario
nazionale, la rivalsa dello Stato per le spese di spedalità effettuate in favore del congiunto prossimo, ripetibili nei confronti dei suoi eredi
legittimi o testamentari. Tale normativa, nonostante sia scarsamente seguita, risulta ancora applicabile, specie dopo l’intervento di Corte
Cost. 349/89 che argomentando dal movente dell’arricchimento senza causa ( cfr. la corretta applicazione di Cass. 10 maggio 1999, n.
4621, in Mass. Giur. It., 1999 ), ritiene la rivalsa attivabile nei confronti degli aventi causa diretti dell’alimentando, quando questi risulti
in stato di povertà, ai sensi dell’art.. 438 comma 1 c.c., secondo cui gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento. Dall’esclusione dell’obbligo alimentare in capo ai figli e ai discendenti che
comunque succedono nel patrimonio del loro dante causa, deriva senz’altro un appesantimento della spesa pubblica che contrasta con
la dichiarazione di invarianza contenuta all’art. 6 del Disegno di legge unificato C. 3915 – S. 2805 approvato dalla Camera dei Deputati
il 27 novembre 2012, confluito nella L. 219/2012..
20
Sia qui consentito richiamare l’apporto di A. PALAZZO, Testamento e istituti alternativi, in Tratt. teorico – pratico di Dir. priv. diretto da G. Alpa e S. Patti, Padova, 2008, p. 452 e ss., nonché p. 455, nt. 25, che replica al progetto di legge n. 1043 della XV legislatura,
volto ad abolire la successione necessaria ed il patto di famiglia, con profonde riflessioni in argomento di tutela dei soggetti deboli e sulla
particolare funzione della proprietà partecipativa vista nell’ambito del diritto successorio dei legittimari.
21
E, tuttavia, esclusa quella relativa al compimento di reati concernenti abusi sessuali sul minore che solo la morte del genitore accertato colpevole potrebbe riparare, com’è, senza alcuna indulgenza, nell’immaginario collettivo di tutti gli uomini coscienti; sì che,
considerata la gravità del gesto disumano ed innaturale, connesso a tale tipologia di reati, non sarebbe stato difficile aggiungere l’esclusione per indegnità del genitore colpevole di tali abomini all’interno dell’art. 463 n. 1 c.c., laddove si prevede il caso l’omicidio consumato o tentato.
22
Con le nuove introduzioni al tema indicato nel testo, offerte da C. COPPOLA, L’ingratitudine nel diritto privato, cit. p. 57 e ss., che
sottopone ad una critica pacata ed elegante le precedenti posizioni assunte in dottrina ( cfr., in particolare i diversi risultati di G. FERRANDO, Filiazione. 1) Rapporto di filiazione, in Enc Giur., Vol. XIV, Roma, 1988, p. 4 e ss. e G. FOTI, Commento all’art. 315 cod. civ., in
Commentario al Codice Civile, dir. da E. Gabrielli, Della famiglia, a cura di L. Balestra, Vol. II, Torino, 2010, p. 978 ss. che escludono ogni
simmetria tra l’obbligo di rispetto dei figli verso i genitori con quello previsto dall’art. 147 c.c. in argomento di mantenimento dovuto dai
genitori ai figli minori ), prendono corpo e sostanza giuridica le nostre riflessioni in argomento di revoca delle donazioni per violazione
dell’obbligo di rispetto verso i genitori da parte del figlio donatario, in violazione dell’art. 315 c.c., contenute in G. PALAZZOLO, Atti gratuiti e motivo oggettivato, Milano 2004, p. 73 ss.
23
Si tratta di Cass. 5 aprile 2005, n. 7033, in Mass. Giur. It. 2005, da noi fortemente avversata nel silenzio di tanti, sì che sia consentito rinviare a G. PALAZZOLO, Alimenti dovuti e mantenimento negoziato, cit., p. 90, nt. 65.
24
Contro l’autorevole voce di R. NICOLO’, La vocazione ereditaria diretta e indiretta, in Annali dell’Università di Messina, 1933 –
1934, pp. 3 e 44, che riteneva l’indegnità una specifica forma di incapacità a succedere, cfr. A. PALAZZO, Successioni ( Parte generale ),
in Dig. Disc. priv., Sez. civ., diretto da R. Sacco, XIX, Torino, 1999, p. 1222 e di recente A. NATALE, L’indegnità a succedere, in Tratt. delle
successioni e donazioni, diretto da G. Bonilini, I, La successione ereditaria, Milano, 2009, p. 939 ss.
25
Chiara sul punto è la massima di Cass. civ., 12 luglio 1986, n. 4533, in Giust. Civ., 1986, I, p. 2347.
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 33
DIBATTITO
NOTA CRITICA
ALLA VERITÀ IMPOSTA
AI CONIUGI SOTTO
SANZIONE PENALE
NEI PROCEDIMENTI
PER SEPARAZIONE
CLAUDIO CECCHELLA
PROFESSORE DELL’UNIVERSITÀ DI PISA
RESPONSABILE DELLA SEZIONE DI PISA DELL’OSSERVATORIO
1. Su alcuni recenti contenuti dei decreti in calce al
ricorso per separazione presso i tribunali di Roma
e di Napoli.
Con una diversa gradualità due dei più importanti
Tribunali d’Italia (Roma e Napoli) hanno ordinato
nel decreto che fissa la comparizione delle parti nel
procedimento per separazione ai malcapitati coniugi di produrre non semplicemente come la legge
impone, già dalla fase presidenziale, le rispettive dichiarazioni dei redditi, ed è il caso del tribunale capitolino, ma un atto sostitutivo dell’atto di notorietà
con l’avviso alle “parti che la falsità delle dichiarazioni
rese è penalmente punita ai sensi dell’art. 76 del d.P.R. 28
dicembre 2000, n., nel quale: “andranno indicate le seguenti circostanze.
a) attività lavorativa a tutte le fonti di reddito (retribuzioni, compensi di ogni genere anche se saltuari, canoni da
locazione, redditi da titoli, ecc.);
b) redditi annui relativi agli ultimi tre anni e redditi
netti mensili percepiti negli ultimi sei mesi, con la precisazione in caso di lavoro autonomo, del numero dei collaboratori e dei compensi mensili loro corrisposti;
c) proprietà immobiliari ed altri diritti reali immobiliari
elencati singolarmente indicando la tipologia (abitazioni,
terreni, ecc.), l’anno di acquisto, l’ubicazione, la superficie
e l’utilizzazione del bene (se rimasto nella disponibilità, se
concessi in godimento a terzi e l’eventuale corrispettivo
mensile);
d) carte di credito e tutti conti correnti intestati o cointestati o sui quali si possa comunque operare con l’indicazione dei dati identificativi (istituto di credito, numero,
ecc.) e dei relativi saldi trimestrali degli ultimi tre anni;
e) quote sociali, titoli, depositi, e qualsiasi altra forma
di investimento e di risparmio;
g) proprietà di beni mobili registrati e in particolare autovetture (da elencare singolarmente indicando il tipo e
l’anno di acquisto), imbarcazioni, aeromobili;
h) spese per mutui e finanziamenti con l’indicazione
della rata mensile dovuta dell’anno di erogazione e della
durata, per canoni di locazione, per rette di iscrizione alle
scuole dei figli, di circoli sportivi e/o ricreativi;
i) rapporti di convivenza, rapporti di collaborazione domestica, con indicazione dei compensi”.
34 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
Il tribunale partenopeo, invece, attenua le conseguenze, in termini delittuosi, ma impone comunque: “che entrambe le parti provvedano a depositare nel
medesimo termine, in aggiunta alla documentazione reddituale degli ultimi tre anni, una nota informativa nella
quale dovranno essere inseriti anticipatamente tutti quei
dati che potrebbero essere rivelati a seguito di libero interrogatorio da parte del presidente, qui di seguito elencati: a) titolo di studio, qualificazione professionale, attività lavorativa di tutti i componenti il nucleo familiare; b)
complessive entrate delle quali in atto beneficia il nucleo
familiare con specifica indicazione del componente della
famiglia, al quale le stesse debbano riferirsi; c) le proprietà
mobiliari e immobiliari nella titolarità dei componenti la
famiglia, in essi compresi i figli minori e, in ogni caso, una
analitica descrizione degli spazi nei quali si svolge la vita
familiare e dei mezzi di locomozione di cui fruiscono i
componenti della famiglia; d) il tipo della scuola frequentata dai figli, con specifica indicazione della denominazione dell’istituto presso il quale sono iscritti; e) gli istituti
bancari con i quali intrattengano rapporto i componenti
della famiglia, con specifica indicazione dei valori ivi depositati, in qualunque forma, e del numero dei conti correnti accesi, anche al solo fine della formazione della provvista per carte di credito, con estensione alle società la cui
attività sia in qualche modo d’interesse della famiglia o di
alcuni dei componenti; f) le passività che gravino sul bilancio familiare; g) la condizione eventualmente di ammessi provvisoriamente al patrocinio a spese dello Stato.
La nota informativa dovrà essere redatta separatamente da ciascuna delle parti, e anche dai figli conviventi
non economicamente autosufficienti, per l’utilità che può
derivare dal confronto delle indicazioni fornite dalle parti
alla decisione sull’assetto, anche provvisorio, dei rapporti
personali e patrimoniali dei nuclei separati dalla famiglia
a formarsi”.
Il tribunale di Napoli prudenzialmente non si pronuncia sulle conseguenze della mancata produzione
della “nota informativa; invece quello di Roma, nel
nobile intento di coartare la verità dei coniugi, si dilunga ben oltre le conseguenze penali della menzogna, ma in una fine analisi delle conseguenze civili e
non: “avverte le parti che la falsità delle dichiarazioni rese
è penalmente punita ai sensi dell’art. 76 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, e che tale condotta o l’omessa allegazione o la tardività del deposito o la lacunosità della dichiarazione saranno valutate quali argomenti di prova ai
sensi dell’art. 116 c.p.c. già in sede di pronuncia dei provvedimenti provvisori e, qualora i coniugi abbiano figli minori, nella definizione del regime di affidamento, oltre che
ai sensi dell’art. 709-ter c.p.c. ed in sede di regolamentazione delle spese processuali ed ai sensi dell’art. 96 c.p.c.”.
Un ventaglio di conseguenze che vanno da effetti
pregiudizievoli sul piano probatorio, ad effetti economici coercitivi (la sanzione, è da pensare, dell’ultimo comma dell’art. 96 c.p.c.), sino addirittura ad
incidere nel merito sui provvedimenti di affidamento e potestà, ai sensi dell’art. 709- ter c.p.c.
DIBATTITO
Il giudice partenopeo, con la maggiore sensibilità
dovuta alla tradizione giuridica della città, tace, ma
è un silenzio sinistro che lascia presagire scenari
tutti da verificare in concreto.
Questo il quadro offerto all’interprete, a cui si accinge sommessamente chi scrive.
2. La determinazione giudiziale delle regole del
processo.
Il processo civile ammette che le regole siano poste dal giudicante, ma nel diverso contesto delle
forme di giustizia espressione dell’autonomia delle
parti, le quali – nell’arbitrato, art. 816 - bis c.p.c. – oltre a fissare la regola contrattuale che disciplina il
rapporto, possono liberamente stabilire di rivolgere
la domanda ad un giudice privato di cui hanno fiducia e possono – salvo le regole processuali di ordine pubblico come il contraddittorio –, nel mandato
di giudicare offerto, stabilire anche le regole processuali, in mancanza, come è noto, provvede l’arbitro
con un intervento vicario.
Ma questa regola è propria dell’arbitrato e si
spiega per il rilievo che il legislatore ha voluto offrire
all’autonomia privata.
Nel processo giurisdizionale le cose non stanno
nello stesso modo; il giudice è sottoposto alla legge
e con particolare rigore è sottoposto alla legge processuale, tanto che un legislatore che devolvesse –
come l’arbitrato – al giudice la determinazione della
regola processuale, sarebbe un legislatore eversivo
del principio di riserva di legge nella regolamentazione del processo, ai sensi dell’art. 111, 1° comma,
Cost.
Se poi è il giudice, che non approfittando dei vuoti
legislativi, che pure vi sono e non sono pochi – si
pensi alle regole del rito camerale – ad imporre la
regola di fonte giurisprudenziale anziché legislativa,
egli si pone su una china che lo conduce molto lontano da precise garanzie costituzionali.
Il fenomeno non è nuovo ed è qualche volta alimentato da quel movimento traversale, nel senso
che vede coinvolti oltre a giudici anche avvocati, che
nella ricerca di protocolli concertati, per un verso limitano la discrezionalità del giudicante (di cui questi si dovrebbe forse avvedere con più consapevolezza), per altro verso alimentano un diritto processuale di emanazione extra legislativa, approfittando
del vasto fenomeno della informatizzazione del processo, che pone gravi interrogativi sul rispetto della
riserva di legge costituzionalmente imposta.
3. La prova legale di origine giurisprudenziale, il
de profundis del principio di libero apprezzamento
e di tipicità della prova civile.
Nel caso che trattiamo, sempre a sommesso avviso dello scrivente, la regola del processo di creazione giurisprudenziale non ha semplicemente
riempito una lacuna, ma ha violato precisi precetti
legislativi, sul tema della prova, dell’apprezzamento
della prova e, profilo assai più preoccupante, dei diritti difensivi della parte.
Quest’ultimo aspetto ha indotto lo scrivente ad un
seppur breve contributo critico.
È noto, tanto da non meritare approfondimento se
non un fugace cenno, come un sistema probatorio
improntato alla legalità della prova, che ha radici nel
processo del diritto intermedio pre-rivoluzionario,
allontana il giudizio di fatto dalla verità contrariamente ad un sistema probatorio fondato sulla prova
liberamente apprezzabile, che attraverso il confronto
con regole logiche e di esperienza consente al giudicante, anche grazie all’immediatezza di percezione
della prova (valore troppo spesso sacrificato nella
pratica) di raggiungere un verità “vera”.
Il Tribunale di Roma, nelle accentuazioni che lo
contraddistinguono rispetto al Tribunale di Napoli,
introduce nel sistema una sorta di preventivo giuramento suppletorio, sull’altare sacrificale del giudizio fondato sul libero apprezzamento della prova
libera o delle sommarie informative, tipiche della
cognizione sommaria, fuori dai presupposti di legge,
essendo com’è noto quello un mezzo di mera supplenza al dubbio che discende dalla libera valutazione della prova, diretto alla parte che più si è avvicinata all’onere che le fa carico e che costituisce
rimedio postumo, non certo in limine litis.
Imporre il giuramento della parte su fatti a sé favorevoli in un termine anteriore alla udienza di
comparizione, se destinato ad avere una qualche
(apparente) utilità per il giudicante (pigro nel disporre la prova liberamente valutabile), deve imporre al medesimo giudicante di tenerne conto ai
fini della decisione (abbandonandone le conseguenze al giudice penale). Introduce di fatto una
prova legale, vincolante per il giudice, il quale potrà
confidare solo sullo spauracchio della sanzione penale, come remora alla menzogna.
La verità giurata non avrà invece alcuna utilità al
servizio della contestazione dei fatti, contribuendo
ad aprire la prospettiva di un’istruttoria sui fatti rilevanti, perché secondo il tribunale capitolino e partenopeo la parte ha l’onere di prendere posizione
solo sui fatti che la riguardano e non sui fatti dell’altra parte.
Dunque nella sostanza un giuramento suppletorio in limine litis.
Ma quali sono le conseguenze di una decisione
fondata sul giuramento in limine che dovesse risultare falso quando la pronuncia non è più impugnabile per decorso dei termini di reclamo o peggio ancora per il passaggio in giudicato della sentenza finale?
La sentenza è revocabile ex art. 395, n. 3 c.p.c. oppure, come per il giuramento comune, il diritto si
estingue, convertito esclusivamente in un diritto al
risarcimento del danno?
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 35
DIBATTITO
Ecco un’elegante modalità di trasformazione, dal
cilindro del prestigiatore, di diritti personali indisponibili (affidamento, assegnazione della casa,
mantenimento) in equivalente in denaro.
Il segno che il diritto si liquida, ovvero assume la
sola dimensione del denaro, è l’attento richiamo tra
le conseguenze (non hanno senso dopo il giudicato
il riferimento all’argomento di prova o la incidenza
sulle spese), all’applicazione dell’art. 96 c.p.c., il risarcimento del danno per responsabilità processuale aggravata: il giudice pensa ancora alla sanzione economica, ma non ne valuta le conseguenze
sul piano sistematico.
Al di là della nostalgia (oltre tre secoli) verso un
sistema di prova legale, a scapito di un sistema di
prova libera e di prudente apprezzamento nella valutazione della prova, noi aggiungeremo un nuovo
motivo di sacrificio della verità sostanziale (ma ormai il processo sfugge alla verità sostanziale da
tempo), che non costituisce più l’obiettivo del giudizio sui fatti, essendo importante che l’ordinamento offra una rapida soluzione ancorché governata dalla prova legale e qualunque essa sia, anche
in materia di diritti indisponibili.
Ma questa volta la tendenza evolutiva (o involutiva) del nostro sistema processuale, viola apertamente la legge.
Il nostro sistema probatorio è fondato sulla tipicità della prova e il giudice non può creare una
prova oltre il decalogo delle prove consentito. Neppure il carattere sommario della cognizione consente di fuoriuscire dall’alveo rigido delle informative che hanno luogo esclusivamente con la percezione diretta, e non stragiudiziale e giurata, dell’interrogatorio libero della parte o della testimonianza.
La creazione di conio giurisprudenziale di un giuramento suppletorio extraprocessuale in limine litis è
eversivo del sistema probatorio.
Si deve dire che la soluzione partenopea non aderisce, per buona sorte, alla rigidità della pronuncia
capitolina e anzi, nonostante imponga alle parti una
dichiarazione in limine litis da contenuti analoghi,
precisa che “l’utilità … può derivare dal confronto delle
indicazioni fornite dalle parti alla decisione sull’assetto,
anche provvisorio, dei rapporti personali e patrimoniali
dei nuclei separati dalla famiglia a formarsi” e che si
tratta di ”dati che potrebbero essere rivelati a seguito di
libero interrogatorio da parte del presidente”, perciò la
dichiarazione (in questo caso non giurata) ha la valenza delle risultanze di un interrogatorio libero,
quindi di semplice chiarificazione dei fatti rilevanti
in causa e delle contestazione che aprono la prospettiva dell’effettivo thema probandum e nient’altro.
Risultanze, deve intendersi, che non assurgono a
prova, come non assurgono a tale effetto i risultati
di un interrogatorio libero: ma allora non si intende
quale utilità possano avere le note informative,
quando il Presidente ben possa acquisire tali infor36 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
mazioni direttamente in sede di interrogatorio (con
il rispetto delle regole che fondano le informative e
che rendono auspicabile un principio di immediatezza tra giudicante e prova).
Si tratta tuttavia di un’interpretazione del decreto
“pretorio” di Napoli volto ad introdurre nuove regole
al processo per separazione, poiché la cautela dell’interprete lascia aperta l’insidia, cui può cadere il
giudice con minore sensibilità con il sistema probatorio, di una prova vera e propria fondante la decisione, che anche in questo caso incontra l’ostacolo
del divieto di prove libere, qualunque valenza probatoria si intenda offrire alla c.d. “note informative”.
4. La violazione del diritto della parte di non rispondere e l’annientamento del ruolo del giudice.
Coartare la verità alla parte sotto pena di sanzione
penale corrisponde ad una corretta concezione del
diritto di difesa?
Il processo penale, che si è liberato di quel sistema
probatorio legale, grazie all’apporto di insigni giuristi e di movimenti storici che hanno condotto alla
conquista di una civiltà del diritto, lascia un’eredità
che il giudice capitolino sembra trascurare.
Il processo e il giudizio sul fatto nel quale confluisce non può fondarsi sulla verità della parte indotta con la forza della sanzione afflittiva, ma deve
cercarla aliunde, con l’apporto del contraddittorio ovvero dello scontro delle “opposte menzogne”, dell’iniziativa probatoria delle parti indotte a fare prevalere la propria verità, mitigata dall’apporto probatorio del giudice.
È nello conflitto delle verità, il contraddittorio, che
emerge la menzogna e il compito del giudice, con gli
strumenti del libero apprezzamento della prova in
particolar modo, è quello di cogliere quale delle verità debba prevalere, con un evidente esaltazione del
suo ruolo, avvilita da orientamenti come quelli in
esame critico.
Pensiamo seriamente che un sistema di prova legale esalti il ruolo del giudice, vincolato alle conseguenze del giuramento della parte sulla verità dei
fatti?
Pensiamo veramente che nel processo civile (il
processo penale ha da tempo aborrito l’apporto della
“tortura” come mezzo preferenziale per estrarre la
verità dalla parte), viga un obbligo di verità delle parti
e che questo sia in linea con i principi del contraddittorio?
Chi scrive sommessamente crede esattamente
nel contrario: la parte ha il diritto di non dire la verità e che solo il contraddittorio, in un processo dispositivo, può assicurare il maggior grado di rispondenza della verità formale con la verità sostanziale.
Non esiste alcuna norma di diritto positivo che
possa giustificare una contraria opinione.
Non l’obbligo di lealtà e probità nella difesa ex art.
88 c.p.c., non il motivo di revocazione individuato
DIBATTITO
nel dolo di una parte ai danni dell’altra (art. 395 n. 1,
c.p.c.).
Quelle norme sono la massima concessione che il
laico Calamandrei (vincente per buona sorte) concesse ad un Carnelutti (perdente sempre per buona
sorte), offuscato dal moralismo che lo contraddistinse nell’ultimo periodo, e non sono affatto il segno di un obbligo di verità della parte.
Esse sanciscono solo il confine del diritto a non rispondere e a non confessare la verità, raccontando
una verità falsificata: quello di non impedire all’altra parte di difendersi, ovvero di alterare le regole
del gioco sino al punto di paralizzare la difesa altrui,
minando per altra via il contraddittorio (la parte che
non semplicemente si astiene dal dire la verità, ma
con comportamenti attivi impedisce all’altra di difendersi, sottraendo documenti o alterando la
prova, sino a falsificarla).
Il principio è dunque esattamente rovesciato.
5. Il tramonto della indisponibilità dei diritti.
Infine un ultimo non meno rilevante motivo di
critica.
Certamente è in atto ormai da qualche decennio
un’evoluzione della materia familiare, verso una
piena disponibilità dei diritti, soprattutto economici,
in materia di famiglia (gli accordi dei coniugi sul
contributo o l’assegno destinato ad uno di essi, non
è sindacabile dal giudice), ma resta un’area forte, costituita dalla tutela dei diritti del minore, anche economici ma particolarmente personali (affidamento
e potestà), rispetto alla quale le dichiarazioni giurate suscitano gravi perplessità anche sotto altri
profili, essendo riposto nelle mani della parte la verità dei fatti patrimoniali e reddituali che sono fondamento anche della liquidazione del contributo a
favore del minore.
Il giuramento suppletorio in limine litis, ma non
meno insidiosamente la nota informativa priva di
chiari effetti sul piano probatorio (decreto partenopeo, si segnala che il tribunale di Torino adotta una
soluzione analoga a quella del Tribunale di Napoli),
ripongono nelle mani delle parti la soluzione del
giudizio di fatto, presupposto dalla applicazione
della norma di diritto sostanziale, in contrasto con
tutti i limiti al potere dispositivo processuale dei diritti, quando questi non sono disponibili.
Ciò discende non soltanto dall’applicazione di
norme di carattere generale, ma anche di norme di
carattere specifico, come quella che impone l’intervento obbligatorio del p.m. nel processo per separazione, evidentemente in supplenza della carente
iniziativa delle parti; l’intervento di un curatore del
minore in caso di conflitto con il genitore che esercita la potestà, sino – quando il giudice di legittimità
ne sarà più consapevole – alla difesa tecnica del minore.
Il giuramento suppletorio in limine litis pone nelle
mani della parti, rendendo inutile il giudice, anche
i diritti indisponibili che fanno capo al minore.
Non resta che sperare nel ravvedimento “operoso”.
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 37
CORTE COSTITUZIONALE
LA CORTE
COSTITUZIONALE
RIMEDITA L’ANTERIORE
INDIRIZZO SULLA RIGIDA
IRREVERSIBILITÀ
DELL’OPZIONE MATERNA
PER L’ANONIMATO
DI GENITURA
AVV. GIANCARLO SAVI
RESPONSABILE SEZIONE MACERATA DELL’OSSERVATORIO
Corte Costituzionale,
Sentenza 22 novembre 2013, n. 278
Con la pronuncia appena pubblicata, che facciamo seguire in copia integrale (tratta dal sito istituzionale: www.cortecostituzionale.it), la Corte delle
leggi mitiga l’anteriore quadro normativo, dichiarato
parzialmente illegittimo, siccome l’impedimento
preclusivo derivante dall’opzione materna per il
proprio anonimato, secondo volontà manifestata al
momento della nascita, risulta in contrasto con gli
artt. 2 e 3 della carta costituzionale.
Il vulnus individuato nel vincolo ad un segreto assolutamente irreversibile: il “diritto all’oblio” materno, salvaguardato erga omnes dal legislatore, pur
producendo un legittimo impedimento all’insorgenza del rapporto di genitorialità (giuridicamente
intesa), potrà d’ora in avanti vedere la possibilità di
una revoca di quella “cristallizzazione” centenaria
(art. 93, co. 2, D. l:vo n° 196/2003), affidata però ancora alla volontà della stessa genitrice “naturale”
(che potrà essere interpellata dal giudice sul mantenimento o meno dell’anonimato).
Il ben noto precedente specifico della stessa Corte
Cost. 25/11/2005 n° 425 (in Giur. It., 2006, 1800, con
nota di MARZUCCHI; in Nuova Giur. Civ. Comm., 2006,
545, con nota di LONG; in Fam. Dir., 2006, 129, con
nota di ERAMO; in Guida Dir., 2005, 47, 28, con nota di
FIORINI; in Fam. Pers. Succ., 2006, 885, con nota di CARLETTI), risulta quindi “mitigato”, sull’onda esplicita
38 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
del recente caso Godelli contro Italia, deciso dall’altrettanto nota CEDU, sez. II, 25/9/2012 n° 33783 (in
Nuova Giur. Civ. Comm., 2013, 103, con nota di LONG;
in Fam. Dir., 2013, 537, con nota di CURRÒ).
Pregevole d’altronde l’ordinanza del Tribunale per
i Minorenni di Catanzaro 13/12/2012, che ha promosso l’incidente di costituzionalità, giunto a positivo scrutinio.
In dottrina, cfr., PALAZZO, La Filiazione, in Trattato Dir.
Civ. Comm. CICU – MESSINEO – MENGONI, continuato da
SCHLESINGER, Milano, 2013, 190 ss.; GOSSO, L’adottato
alla ricerca delle proprie origini, spunti di riflessione, in
Fam. Dir., 2011, 204; STEFANELLI, Parto anonimo e diritto
a conoscere le proprie origini, in Dir. Fam. Pers., 2010, 426;
LONG., La Corte europea dei diritti dell’uomo, il parto anonimo e l’accesso alle informazioni sulle proprie origini: il
caso Odièvre c. Francia, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2004,
283; LISELLA, Ragioni dei genitori adottivi, esigenze di
anonimato dei procreatori e accesso alle informazioni sulle
origini biologiche dell’adottato nell’esegesi del nuovo testo
dell’art. 28 L. 4 maggio 1983 n° 184, in Rass. Dir. Civ.,
2004, 441; LENTI, Adozione e segreti, in Nuova Giur. Civ.
Comm., 2004, 229; PETRONE, Il diritto dell’adottato alla
conoscenza delle proprie origini, Milano 2004; BALESTRA,
Il diritto alla conoscenza delle proprie origini tra tutela
dell’identità dell’adottato e protezione del riserbo dei genitori biologici, in Familia, 2002, 167.
Di grande delicatezza e spessore le considerazioni
volte a garantire i primari diritti della personalità
del figlio adottato nella peculiare ricorrenza del diritto all’anonimato materno, primo fra tutti quello
alla conoscenza delle proprie origini, globalmente
intese, sino alle caratteristiche del proprio patrimonio genetico; giuste si palesano le motivazioni che
sorreggono il nuovo quadro normativo, ma decisamente “timide” le conseguenze che ne sono state
tratte; questa nuova sistemazione normativa che la
Corte comunque prefigura come oggetto dell’intervento del legislatore, ci pone di fronte ad innumerevoli interrogativi, soprattutto sul piano concreto
dell’applicazione e delle modalità di interpello giudiziale della madre “anonima”, nonché della configurazione attuativa di un tale atto processuale, atto
che non trova un valido riferimento tipico nel codice di rito.
Non può che rimandarsi ad una successiva nota
esplicativa la compiuta e meditata considerazione
di ogni aspetto e dei suoi effettivi risvolti, meritando
la pronuncia, proprio per la sua rilevanza, una
pronta segnalazione.
Svolgimento del processo
(omissis)
Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184
(Diritto del minore ad una famiglia), promosso dal
Tribunale per i minorenni di Catanzaro, sul ricorso
proposto da R. M., con ordinanza del 13 dicembre
DOSSIER
Convenzione di Istanbul
adottata dal Consiglio
d’Europa l’11 maggio 2011
sulla prevenzione
e il contrasto alla violenza
alle donne e alla violenza
domestica
[ratificata dall’Italia con la legge 27 giugno 2013, n. 77]
La Convenzione non è stata accolta, né in Italia né
altrove, con particolare euforia (almeno pari a quello
che alla fine degli anni Ottanta accompagnò l’approvazione della Convenzione di New York sui diritti del
fanciullo). Forse a causa del momento storico particolare che non vede purtroppo particolarmente appassionata l’opinione pubblica nei confronti delle
norme sovranazionali. Nonostante ciò si tratta di uno
dei testi legislativi internazionali più importanti che
mai siano stati approvati. Un testo normativo - come
chiunque si può rendere conto leggendolo con attenzione - forse tra i più completi e ben scritti tra i
molti esistenti. E’ stato approvato dal Consiglio d’Europa (47 Stati del continente europeo di cui quasi la
metà appartenenti all’Unione europea) a distanza di
oltre sessanta anni dalla Convenzione europea sui
diritti dell’Uomo del 1950 con la quale il Consiglio
d’Europa fece il suo esordio nel campo della tutela
dei diritti delle persone.
L’Italia è il quinto Stato a ratificarla (la Convenzione
entrerà in vigore a livello internazionale tre mesi dopo
la decima ratifica). Finora l’avevano ratificata solo il
Montenegro, l’Albania, la Turchia e il Portogallo.
In ogni caso molte delle indicazioni contenute nella
Convenzione di Istanbul - e questo è senz’altro il motivo per cui l’Italia l’ha ratificata quasi immediatamente - fanno già parte del nostro sistema giuridico
che, sia pure solo nell’ultimo decennio, ha costruito
un quadro normativo sistematico piuttosto omogeneo
e coerente contro la violenza di genere e contro la violenza domestica (di cui la Convenzione dà una nuova
e puntuale definizione recepita dal nostro legislatore
nella recente legge 119/2013 che ha convertito il decreto legge del 14 agosto 2013, n. 93 sugli stessi temi).
Mi riferisco - oltre che alle norme contro la violenza
sessuale inserite nel 96 nei codici e alle norme contro lo sfruttamento sessuale dei minori (legge
269/1998) e contro la pedopornografia (legge 38/2006)
- soprattutto alla legge 4 aprile 2001, n. 154 che ha introdotto in Italia ormai da oltre un decennio gli ordini di protezione; al più recente decreto legge
11/2009 (legge 38/2009) sullo stalking nonché da ultimo al recentissimo decreto legge 14 agosto 2013, n.
93 (convertito nella legge 15 ottobre 2013, n. 119) che,
proprio in seguito alla ratifica della Convenzione di
Istanbul, ha inasprito le norme sanzionatorie e ha
introdotto molte disposizioni di prevenzione.
Pubblichiamo il testo della Convenzione con l’auspicio che la sua lettura possa contribuire a rafforzare
nei tempi che corrono la cultura della non violenza.
Gianfranco Dosi
CONVENZIONE DEL CONSIGLIO D’EUROPA SULLA PREVENZIONE E LA LOTTA CONTRO LA VIOLENZA NEI CONFRONTI DELLE DONNE E LA VIOLENZA DOMESTICA
Istanbul, 11 maggio 2011
Preambolo
Gli Stati membri del Consiglio d’Europa e gli altri firmatari
della presente Convenzione,
Ricordando la Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (STE n° 5, 1950)
e i suoi Protocolli, la Carta sociale europea (STE n° 35, 1961,
riveduta nel 1996, STE n°163), la Convenzione del Consiglio
d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani (STCE
n° 197, 2005) e la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla
protezione dei bambini contro lo sfruttamento e gli abusi
sessuali (STCE n° 201, 2007);
Ricordando le seguenti raccomandazioni del Comitato dei
Ministri agli Stati membri del Consiglio d’Europa: Raccomandazione Rec(2002)5 sulla protezione delle donne dalla
violenza,
Raccomandazione CM/Rec(2007)17 sulle norme e meccanismi per la parità tra le donne e gli uomini, Raccomandazione CM/Rec(2010)10 sul ruolo delle donne e degli uomini
nella prevenzione e soluzione dei conflitti e nel consolidamento della pace, e le altre raccomandazioni pertinenti;
Tenendo conto della sempre più ampia giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo, che enuncia norme rilevanti per contrastare la violenza nei confronti delle donne;
Considerando il Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966), il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (1966), la Convenzione delle Nazioni Unite
sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro
le donne (CEDAW, 1979) e il suo Protocollo opzionale (1999)
e la Raccomandazione generale n° 19 del CEDAW sulla violenza contro le donne, la Convenzione delle Nazioni Unite
sui diritti dell’infanzia (1989) e i suoi Protocolli opzionali
(2000) e la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle
persone con disabilità (2006);
Considerando lo statuto di Roma della Corte penale internazionale (2002);
Ricordando i principi fondamentali del diritto internazionale umanitario, in particolare la quarta Convenzione di Ginevra (IV), relativa alla protezione dei civili in tempo di
guerra (1949) e i suoi Protocolli addizionali I e II (1977);
Condannando ogni forma di violenza sulle donne e la violenza domestica;
Riconoscendo che il raggiungimento dell’uguaglianza di genere de jure e de facto è un elemento chiave per prevenire
la violenza contro le donne;
Riconoscendo che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i
sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla
discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e
impedito la loro piena emancipazione;
Riconoscendo la natura strutturale della violenza contro le
donne, in quanto basata sul genere, e riconoscendo altresì
che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in
una posizione subordinata rispetto agli uomini;
Riconoscendo con profonda preoccupazione che le donne e
le ragazze sono spesso esposte a gravi forme di violenza, tra
cui la violenza domestica, le molestie sessuali, lo stupro, il
matrimonio forzato, i delitti commessi in nome del cosiddetto “onore” e le mutilazioni genitali femminili, che costituiscono una grave violazione dei diritti umani delle donne
e delle ragazze e il principale ostacolo al raggiungimento
della parità tra i sessi;
Constatando le ripetute violazioni dei diritti umani nei conflitti armati che colpiscono le popolazioni civili, e in parti-
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 39
DOSSIER
colare le donne, sottoposte a stupri diffusi o sistematici e a
violenze sessuali e il potenziale aggravamento della violenza di genere durante e dopo i conflitti;
Riconoscendo che le donne e le ragazze sono maggiormente
esposte al rischio di subire violenza di genere rispetto agli
uomini;
Riconoscendo che la violenza domestica colpisce le donne
in modo sproporzionato e che anche gli uomini possono essere vittime di violenza domestica;
Riconoscendo che i bambini sono vittime di violenza domestica anche in quanto testimoni di violenze all’interno
della famiglia;
Aspirando a creare un’Europa libera dalla violenza contro le
donne e dalla violenza domestica,
Hanno convenuto quanto segue:
CAPITOLO I – OBIETTIVI, DEFINIZIONI, UGUAGLIANZA E
NON DISCRIMINAZIONE, OBBLIGHI GENERALI
Articolo 1 – Obiettivi della Convenzione
1 La presente Convenzione ha l’obiettivo di:
a) proteggere le donne da ogni forma di violenza e prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le
donne e la violenza domestica;
b) contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione
contro le donne e promuovere la concreta parità tra i
sessi, ivi compreso rafforzando l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne;
c) predisporre un quadro globale, politiche e misure di
protezione e di assistenza a favore di tutte le vittime di
violenza contro le donne e di violenza domestica;
d) promuovere la cooperazione internazionale al fine di
eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica;
e) sostenere e assistere le organizzazioni e autorità incaricate dell’applicazione della legge in modo che possano collaborare efficacemente, al fine di adottare un
approccio integrato per l’eliminazione della violenza
contro le donne e la violenza domestica.
2 Allo scopo di garantire un’efficace attuazione delle sue disposizioni da parte delle Parti contraenti, la presente Convenzione istituisce uno specifico meccanismo di controllo.
Articolo 2 – Campo di applicazione della Convenzione
1 La presente Convenzione si applica a tutte le forme di violenza contro le donne, compresa la violenza domestica,
che colpisce le donne in modo sproporzionato.
2 Le Parti contraenti sono incoraggiate ad applicare le disposizioni della presente Convenzione a tutte le vittime
di violenza domestica. Nell’applicazione delle disposizioni della presente Convenzione, le Parti presteranno
particolare attenzione alla protezione delle donne vittime
di violenza di genere.
3 La presente Convenzione si applica in tempo di pace e
nelle situazioni di conflitto armato.
Articolo 3 – Definizioni
Ai fini della presente Convenzione:
a) con l’espressione “violenza nei confronti delle donne” si
intende designare una violazione dei diritti umani e una
forma di discriminazione contro le donne, comprendente
tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano
o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le
minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che
nella vita privata;
b) l’espressione “violenza domestica” designa tutti gli atti di
violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si
40 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare
o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima;
c) con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti,
attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini;
d) l’espressione “violenza contro le donne basata sul genere”
designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in
quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato;
e) per “vittima” si intende qualsiasi persona fisica che subisce gli atti o i comportamenti di cui ai precedenti commi
a e b;
f) con il termine “donne” sono da intendersi anche le ragazze di meno di 18 anni.
Articolo 4 – Diritti fondamentali, uguaglianza e non discriminazione
1 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per promuovere e tutelare il diritto di tutti gli individui, e segnatamente delle donne, di vivere liberi dalla
violenza, sia nella vita pubblica che privata.
2 Le Parti condannano ogni forma di discriminazione nei
confronti delle donne e adottano senza indugio le misure
legislative e di altro tipo necessarie per prevenirla, in particolare:
– inserendo nelle loro costituzioni nazionali o in qualsiasi
altra disposizione legislativa appropriata il principio
della parità tra i sessi e garantendo l’effettiva applicazione di tale principio;
– vietando la discriminazione nei confronti delle donne,
ivi compreso procedendo, se del caso, all’applicazione
di sanzioni;
– abrogando le leggi e le pratiche che discriminano le
donne.
3 L’attuazione delle disposizioni della presente Convenzione da parte delle Parti contraenti, in particolare le misure destinate a tutelare i diritti delle vittime, deve essere
garantita senza alcuna discriminazione fondata sul sesso,
sul genere, sulla razza, sul colore, sulla lingua, sulla religione, sulle opinioni politiche o di qualsiasi altro tipo, sull’origine nazionale o sociale, sull’appartenenza a una minoranza nazionale, sul censo, sulla nascita, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere, sull’età, sulle condizioni di salute, sulla disabilità, sullo status matrimoniale, sullo status di migrante o di rifugiato o su qualunque altra condizione.
4 Le misure specifiche necessarie per prevenire la violenza
e proteggere le donne contro la violenza di genere non
saranno considerate discriminatorie ai sensi della presente Convenzione.
Articolo 5 – Obblighi degli Stati e dovuta diligenza
1 Gli Stati si astengono da qualsiasi atto che costituisca una
violenza nei confronti delle donne e garantiscono che le
autorità, i funzionari, i rappresentanti statali, le istituzioni
e ogni altro soggetto pubblico che agisca in nome dello
Stato si comportino in conformità con tale obbligo.
2 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per esercitare la debita diligenza nel prevenire, indagare, punire i responsabili e risarcire le vittime di atti di
violenza commessi da soggetti non statali che rientrano
nel campo di applicazione della presente Convenzione.
Articolo 6 – Politiche sensibili al genere
Le Parti si impegnano a inserire una prospettiva di genere
nell’applicazione e nella valutazione dell’impatto delle disposizioni della presente Convenzione e a promuovere ed
DOSSIER
attuare politiche efficaci volte a favorire la parità tra le
donne e gli uomini e l’emancipazione e l’autodeterminazione delle donne.
CAPITOLO II – POLITICHE INTEGRATE E RACCOLTA DEI DATI
Articolo 7 – Politiche globali e coordinate
1 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per predisporre e attuare politiche nazionali efficaci, globali e coordinate, comprendenti tutte le misure
adeguate destinate a prevenire e combattere ogni forma
di violenza che rientra nel campo di applicazione della
presente Convenzione e fornire una risposta globale alla
violenza contro le donne.
2 Le Parti si accertano che le politiche di cui al paragrafo 1
pongano i diritti della vittima al centro di tutte le misure
e siano attuate attraverso una collaborazione efficace tra
tutti gli enti, le istituzioni e le organizzazioni pertinenti.
3 Le misure adottate in virtù del presente articolo devono
coinvolgere, ove necessario, tutti i soggetti pertinenti,
quali le agenzie governative, i parlamenti e le autorità nazionali, regionali e locali, le istituzioni nazionali deputate
alla tutela dei diritti umani e le organizzazioni della società civile.
Articolo 8 – Risorse finanziarie
La Parti stanziano le risorse finanziarie e umane appropriate
per un’adeguata attuazione di politiche integrate, di misure
e di programmi destinati a prevenire e combattere ogni
forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della
presente Convenzione, ivi compresi quelli realizzati dalle
ONG e dalla società civile.
Articolo 9 – Organizzazioni non governative e società civile
Le Parti riconoscono, incoraggiano e sostengono a tutti i livelli il lavoro delle ONG pertinenti e delle associazioni della
società civile attive nella lotta alla violenza contro le donne e
instaurano un’efficace cooperazione con tali organizzazioni.
Articolo 10 – Organismo di coordinamento
1 Le Parti designano o istituiscono uno o più organismi ufficiali responsabili del coordinamento, dell’attuazione, del
monitoraggio e della valutazione delle politiche e delle misure destinate a prevenire e contrastare ogni forma di violenza oggetto della presente Convenzione. Tali organismi
hanno il compito di coordinare la raccolta dei dati di cui
all’Articolo 11 e di analizzarne e diffonderne i risultati.
2 Le Parti si accertano che gli organismi designati o istituiti
ai sensi del presente articolo ricevano informazioni di carattere generale sulle misure adottate conformemente al
capitolo VIII.
3 Le Parti si accertano che gli organismi designati o istituiti
ai sensi del presente articolo dispongano della capacità
di comunicare direttamente e di incoraggiare i rapporti
con i loro omologhi delle altre Parti.
Articolo 11 – Raccolta dei dati e ricerca
1 Ai fini dell’applicazione della presente Convenzione, le
Parti si impegnano a:
a) raccogliere a intervalli regolari i dati statistici disaggregati pertinenti su questioni relative a qualsiasi
forma di violenza che rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione;
b) sostenere la ricerca su tutte le forme di violenza che
rientrano nel campo di applicazione della presente
Convenzione, al fine di studiarne le cause profonde e
gli effetti, la frequenza e le percentuali delle condanne,
come pure l’efficacia delle misure adottate ai fini dell’applicazione della presente Convenzione.
2 Le Parti si adoperano per realizzare indagini sulla popolazione, a intervalli regolari, allo scopo di determinare la
prevalenza e le tendenze di ogni forma di violenza che
rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione.
3 Le Parti forniscono al Gruppo di esperti menzionato all’articolo 66 della presente Convenzione le informazioni
raccolte conformemente al presente articolo, per stimolare la cooperazione e permettere un confronto a livello
internazionale.
4 Le Parti vigilano affinché le informazioni raccolte conformemente al presente articolo siano messe a disposizione
del pubblico.
CAPITOLO III – PREVENZIONE
Articolo 12 – Obblighi generali
1 Le Parti adottano le misure necessarie per promuovere i
cambiamenti nei comportamenti socio-culturali delle
donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull’idea
dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei
ruoli delle donne e degli uomini.
2 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per impedire ogni forma di violenza rientrante
nel campo di applicazione della presente Convenzione
commessa da qualsiasi persona fisica o giuridica.
3 Tutte le misure adottate ai sensi del presente capitolo devono prendere in considerazione e soddisfare i bisogni
specifici delle persone in circostanze di particolare vulnerabilità, e concentrarsi sui diritti umani di tutte le vittime.
4 Le Parti adottano le misure necessarie per incoraggiare
tutti i membri della società, e in particolar modo gli uomini e i ragazzi, a contribuire attivamente alla prevenzione di ogni forma di violenza che rientra nel campo di
applicazione della presente Convenzione.
5 Le Parti vigilano affinché la cultura, gli usi e i costumi, la
religione, la tradizione o il cosiddetto “onore” non possano essere in alcun modo utilizzati per giustificare nessuno degli atti di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione.
6 Le Parti adottano le misure necessarie per promuovere
programmi e attività destinati ad aumentare il livello di
autonomia e di emancipazione delle donne.
Articolo 13 – Sensibilizzazione
1 Le Parti promuovono o mettono in atto, regolarmente e a
ogni livello, delle campagne o dei programmi di sensibilizzazione, ivi compreso in cooperazione con le istituzioni
nazionali per i diritti umani e gli organismi competenti
in materia di uguaglianza, la società civile e le ONG, tra
cui in particolare le organizzazioni femminili, se necessario, per aumentare la consapevolezza e la comprensione da parte del vasto pubblico delle varie manifestazioni di tutte le forme di violenza oggetto della presente
Convenzione e delle loro conseguenze sui bambini, nonché della necessità di prevenirle.
2 Le Parti garantiscono un’ampia diffusione presso il vasto
pubblico delle informazioni riguardanti le misure disponibili per prevenire gli atti di violenza che rientrano nel
campo di applicazione della presente Convenzione.
Articolo 14 – Educazione
1 Le Parti intraprendono, se del caso, le azioni necessarie
per includere nei programmi scolastici di ogni ordine e
grado dei materiali didattici su temi quali la parità tra i
sessi, i ruoli di genere non stereotipati, il reciproco rispetto, la soluzione non violenta dei conflitti nei rapporti
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 41
DOSSIER
interpersonali, la violenza contro le donne basata sul genere e il diritto all’integrità personale, appropriati al livello cognitivo degli allievi.
2 Le Parti intraprendono le azioni necessarie per promuovere i principi enunciati al precedente paragrafo 1 nelle
strutture di istruzione non formale, nonché nei centri
sportivi, culturali e di svago e nei mass media.
Articolo 15 – Formazione delle figure professionali
1 Le Parti forniscono o rafforzano un’adeguata formazione
delle figure professionali che si occupano delle vittime o
degli autori di tutti gli atti di violenza che rientrano nel
campo di applicazione della presente Convenzione in materia di prevenzione e individuazione di tale violenza, uguaglianza tra le donne e gli uomini, bisogni e diritti delle vittime, e su come prevenire la vittimizzazione secondaria.
2 Le Parti incoraggiano a inserire nella formazione di cui al
paragrafo 1 dei corsi di formazione in materia di cooperazione coordinata interistituzionale, al fine di consentire una gestione globale e adeguata degli orientamenti
da seguire nei casi di violenza che rientrano nel campo
di applicazione della presente Convenzione.
Articolo 16 – Programmi di intervento di carattere preventivo e di trattamento
1 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per istituire o sostenere programmi rivolti agli
autori di atti di violenza domestica, per incoraggiarli ad
adottare comportamenti non violenti nelle relazioni interpersonali, al fine di prevenire nuove violenze e modificare i modelli comportamentali violenti.
2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per istituire o sostenere programmi di trattamento per prevenire la recidiva, in particolare per i reati
di natura sessuale.
3 Nell’adottare le misure di cui ai paragrafi 1 e 2, le Parti si
accertano che la sicurezza, il supporto e i diritti umani
delle vittime siano una priorità e che tali programmi, se
del caso, siano stabiliti ed attuati in stretto coordinamento con i servizi specializzati di sostegno alle vittime.
Articolo 17 – Partecipazione del settore privato e dei mass
media
1 Le Parti incoraggiano il settore privato, il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i mass
media, nel rispetto della loro indipendenza e libertà di
espressione, a partecipare all’elaborazione e all’attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di
norme di autoregolazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità.
2 Le Parti sviluppano e promuovono, in collaborazione con
i soggetti del settore privato, la capacità dei bambini, dei
genitori e degli insegnanti di affrontare un contesto dell’informazione e della comunicazione che permette l’accesso a contenuti degradanti potenzialmente nocivi a carattere sessuale o violento.
CAPITOLO IV – PROTEZIONE E SOSTEGNO
Articolo 18 – Obblighi generali
1 Le Parti adottano le necessarie misure legislative o di altro
tipo per proteggere tutte le vittime da nuovi atti di violenza.
2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie, conformemente al loro diritto interno, per garantire che esistano adeguati meccanismi di cooperazione efficace tra tutti gli organismi statali competenti,
comprese le autorità giudiziarie, i pubblici ministeri, le
autorità incaricate dell’applicazione della legge, le autorità locali e regionali, le organizzazioni non governative e
42 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
le altre organizzazioni o entità competenti, al fine di proteggere e sostenere le vittime e i testimoni di ogni forma
di violenza rientrante nel campo di applicazione della
presente Convenzione, ivi compreso riferendosi ai servizi
di supporto generali e specializzati di cui agli articoli 20 e
22 della presente Convenzione.
3 Le Parti si accertano che le misure adottate in virtù del
presente capitolo:
– siano basate su una comprensione della violenza di genere contro le donne e della violenza domestica e si concentrino sui diritti umani e sulla sicurezza della vittima;
– siano basate su un approccio integrato che prenda in
considerazione il rapporto tra vittime, autori, bambini e
il loro più ampio contesto sociale;
– mirino ad evitare la vittimizzazione secondaria;
– mirino ad accrescere l’autonomia e l’indipendenza economica delle donne vittime di violenze;
– consentano, se del caso, di disporre negli stessi locali di
una serie di servizi di protezione e di supporto;
– soddisfino i bisogni specifici delle persone vulnerabili,
compresi i minori vittime di violenze e siano loro accessibili.
4 La messa a disposizione dei servizi non deve essere subordinata alla volontà della vittima di intentare un procedimento penale o di testimoniare contro ogni autore di
tali reati.
5 Le Parti adottano misure adeguate per garantire protezione consolare o di altro tipo e sostegno ai loro cittadini
e alle altre vittime che hanno diritto a tale protezione,
conformemente ai loro obblighi derivanti dal diritto internazionale.
Articolo 19 – Informazione
Le Parti adottano misure legislative o di altro tipo che consentano alle vittime di ottenere un’informazione adeguata
e tempestiva sui servizi di sostegno e le misure legali disponibili in una lingua che comprendono.
Articolo 20 – Servizi di supporto generali
1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le vittime abbiano accesso ai
servizi destinati a facilitare il loro recupero. Tali misure
includeranno, se necessario, dei servizi quali le consulenze legali e un sostegno psicologico, un’assistenza finanziaria, alloggio, istruzione, formazione e assistenza
nella ricerca di un lavoro.
2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le vittime abbiano accesso ai
servizi sanitari e sociali, che tali servizi dispongano di risorse adeguate e di figure professionali adeguatamente
formate per fornire assistenza alle vittime e indirizzarle
verso i servizi appropriati.
Articolo 21 – Assistenza in materia di denunce individuali/collettive
Le Parti vigilano affinché le vittime possano usufruire di informazioni sui meccanismi regionali e internazionali disponibili per le denunce individuali o collettive e vi abbiano
accesso. Le Parti promuovono la messa a disposizione delle
vittime di un supporto sensibile e ben informato per aiutarle a sporgere denuncia.
Articolo 22 – Servizi di supporto specializzati
1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per fornire o, se del caso, predisporre, secondo una
ripartizione geografica appropriata, dei servizi di supporto
immediato specializzati, nel breve e lungo periodo, per ogni
vittima di un qualsiasi atto di violenza che rientra nel
campo di applicazione della presente Convenzione.
DOSSIER
2 Le Parti forniscono o predispongono dei servizi di supporto specializzati per tutte le donne vittime di violenza
e i loro bambini.
Articolo 23 – Case rifugio
Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per consentire la creazione di rifugi adeguati, facilmente accessibili e in numero sufficiente per offrire un alloggio sicuro alle vittime, in particolare le donne e i loro
bambini, e per aiutarle in modo proattivo.
Articolo 24 – Linee telefoniche di sostegno
Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per istituire a livello nazionale apposite linee telefoniche gratuite di assistenza continua, operanti 24 ore su 24,
sette giorni alla settimana, destinate a fornire alle persone
che telefonano, in modo riservato o nel rispetto del loro anonimato, delle consulenze su tutte le forme di violenza oggetto della presente Convenzione.
Articolo 25 – Supporto alle vittime di violenza sessuale
Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per consentire la creazione di centri di prima assistenza adeguati, facilmente accessibili e in numero sufficiente, per le vittime di stupri e di violenze sessuali, che
possano proporre una visita medica e una consulenza medico-legale, un supporto per superare il trauma e dei consigli.
Articolo 26 – Protezione e supporto ai bambini testimoni di
violenza
1 Le Parti adottano le misure legislative e di ogni altro tipo
necessarie per garantire che siano debitamente presi in
considerazione, nell’ambito dei servizi di protezione e di
supporto alle vittime, i diritti e i bisogni dei bambini testimoni di ogni forma di violenza rientrante nel campo
di applicazione della presente Convenzione.
2 Le misure adottate conformemente al presente articolo
comprendono le consulenze psicosociali adattate all’età
dei bambini testimoni di ogni forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della presente Convenzione e tengono debitamente conto dell’interesse superiore del minore.
Articolo 27 – Segnalazioni
Le Parti adottano le misure necessarie per incoraggiare
qualsiasi persona che sia stata testimone di un qualsiasi
atto di violenza che rientra nel campo di applicazione della
presente Convenzione, o che abbia ragionevoli motivi per ritenere che tale atto potrebbe essere commesso, o che si possano temere nuovi atti di violenza, a segnalarlo alle organizzazioni o autorità competenti.
Articolo 28 – Segnalazioni da parte delle figure professionali
Le Parti adottano le misure necessarie per garantire che le
norme sulla riservatezza imposte dalla loro legislazione nazionale a certe figure professionali non costituiscano un
ostacolo alla loro possibilità, in opportune condizioni, di fare
una segnalazione alle organizzazioni o autorità competenti,
qualora abbiano ragionevoli motivi per ritenere che sia stato
commesso un grave atto di violenza che rientra nel campo
di applicazione della presente Convenzione o che si possano
temere nuovi gravi atti di violenza.
CAPITOLO V – DIRITTO SOSTANZIALE
Articolo 29 – Procedimenti e vie di ricorso in materia civile
1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per fornire alle vittime adeguati mezzi di ricorso
civili nei confronti dell’autore del reato.
2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie, conformemente ai principi generali del diritto
internazionale, per fornire alle vittime adeguati risarcimenti civili nei confronti delle autorità statali che abbiano
mancato al loro dovere di adottare le necessarie misure di
prevenzione o di protezione nell’ambito delle loro competenze.
Articolo 30 – Risarcimenti
1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le vittime abbiano il diritto di richiedere un risarcimento agli autori di qualsiasi reato
previsto dalla presente Convenzione.
2 Un adeguato risarcimento da parte dello Stato è accordato a coloro che abbiano subito gravi pregiudizi all’integrità fisica o alla salute, se la riparazione del danno non
è garantita da altre fonti, in particolare dall’autore del
reato, da un’assicurazione o dai servizi medici e sociali finanziati dallo Stato. Ciò non preclude alle Parti la possibilità di richiedere all’autore del reato il rimborso del risarcimento concesso, a condizione che la sicurezza della
vittima sia pienamente presa in considerazione.
3 Le misure adottate conformemente al paragrafo 2 devono
garantire che il risarcimento sia concesso entro un termine ragionevole.
Articolo 31 – Custodia dei figli, diritti di visita e sicurezza
1 Le Parti adottano misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che, al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, siano presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di
applicazione della presente Convenzione.
2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che l’esercizio dei diritti di visita o
di custodia dei figli non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini.
Articolo 32 – Conseguenze civili dei matrimoni forzati
Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che i matrimoni contratti con la forza
possano essere invalidabili, annullati o sciolti senza rappresentare un onere finanziario o amministrativo eccessivo
per la vittima.
Articolo 33 – Violenza psicologica
Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per penalizzare un comportamento intenzionale mirante a compromettere seriamente l’integrità psicologica di
una persona con la coercizione o le minacce.
Articolo 34 – Atti persecutori (Stalking)
Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per penalizzare un comportamento intenzionalmente
e ripetutamente minaccioso nei confronti di un’altra persona, portandola a temere per la propria incolumità.
Articolo 35 – Violenza fisica
Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per penalizzare il comportamento intenzionale di chi
commette atti di violenza fisica nei confronti di un’altra persona.
Articolo 36 – Violenza sessuale, compreso lo stupro
1 Le Parti adottano misure legislative o di altro tipo necessarie per perseguire penalmente i responsabili dei seguenti comportamenti intenzionali:
a) atto sessuale non consensuale con penetrazione vaginale, anale o orale compiuto su un’altra persona con
qualsiasi parte del corpo o con un oggetto;
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DOSSIER
b) altri atti sessuali compiuti su una persona senza il suo
consenso;
c) il fatto di costringere un’altra persona a compiere atti
sessuali non consensuali con un terzo.
2 Il consenso deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve
essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto.
3 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo per
garantire che le disposizioni del paragrafo 1 si applichino
anche agli atti commessi contro l’ex o l’attuale coniuge o
partner, quale riconosciuto dalla legislazione nazionale.
Articolo 37 – Matrimonio forzato
1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per penalizzare l’atto intenzionale di costringere
un adulto o un bambino a contrarre matrimonio.
2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per penalizzare il fatto di attirare intenzionalmente con l’inganno un adulto o un bambino sul territorio di una Parte o di uno Stato diverso da quello in cui risiede, allo scopo di costringerlo a contrarre matrimonio.
Articolo 38 – Mutilazioni genitali femminili
Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per perseguire penalmente i seguenti atti intenzionali:
a) l’escissione, l’infibulazione o qualsiasi altra mutilazione
della totalità o di una parte delle grandi labbra vaginali,
delle piccole labbra o asportazione del clitoride;
b) costringere una donna a subire qualsiasi atto indicato al
punto a, o fornirle i mezzi a tale fine;
c) indurre, costringere o fornire a una ragazza i mezzi per
subire qualsiasi atto enunciato al punto a.
Articolo 39 – Aborto forzato e sterilizzazione forzata
Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per perseguire penalmente i seguenti atti intenzionali:
a) praticare un aborto su una donna senza il suo preliminare consenso informato;
b) praticare un intervento chirurgico che abbia lo scopo e
l’effetto di interrompere definitivamente la capacità riproduttiva di una donna senza il suo preliminare consenso informato o la sua comprensione della procedura
praticata.
Articolo 40 – Molestie sessuali
Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che qualsiasi forma di comportamento
indesiderato, verbale, non verbale o fisico, di natura sessuale,
con lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona,
segnatamente quando tale comportamento crea un clima
intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo, sia
sottoposto a sanzioni penali o ad altre sanzioni legali.
Articolo 41 – Favoreggiamento o complicità e tentativo
1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per perseguire penalmente il favoreggiamento o
la complicità intenzionali in ordine alla commissione dei
reati di cui agli articoli 33, 34, 35, 36, 37, 38.a e 39 della presente Convenzione.
2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per perseguire penalmente i tentativi intenzionali di commissione dei reati di cui agli articoli 35, 36, 37,
38.a e 39 della presente Convenzione.
Articolo 42 – Giustificazione inaccettabile dei reati, compresi quelli commessi in nome del cosiddetto “onore”
1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che nei procedimenti penali inten-
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tati a seguito della commissione di qualsiasi atto di violenza che rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione, la cultura, gli usi e costumi, la religione, le tradizioni o il cosiddetto “onore” non possano
essere addotti come scusa per giustificare tali atti. Rientrano in tale ambito, in particolare, le accuse secondo le
quali la vittima avrebbe trasgredito norme o costumi culturali, religiosi, sociali o tradizionali riguardanti un comportamento appropriato.
2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che, qualora un bambino sia stato
istigato da una persona a compiere un atto di cui al paragrafo 1, non sia per questo diminuita la responsabilità
penale della suddetta persona per gli atti commessi.
Articolo 43 – Applicazione dei reati
I reati previsti ai sensi della presente Convenzione si applicano a prescindere dalla natura del rapporto tra la vittima
e l’autore del reato.
Articolo 44 – Giurisdizione
1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per determinare la giurisdizione competente per
qualsiasi reato previsto ai sensi della presente Convenzione quando il reato è commesso:
a) sul loro territorio; o
b) a bordo di una nave battente la loro bandiera; o
c) a bordo di un velivolo immatricolato secondo le loro disposizioni di legge; o
d) da uno loro cittadino; o
e) da una persona avente la propria residenza abituale sul
loro territorio.
2 Le Parti adottano tutte le misure legislative o di altro tipo
appropriate per determinare la giurisdizione con riferimento a tutti i reati di cui alla presente Convenzione
quando il reato è commesso contro un loro cittadino o
contro una persona avente la propria residenza abituale
sul loro territorio.
3 Per perseguire i reati stabiliti conformemente agli Articoli
36, 37, 38 e 39 della presente Convenzione, le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie affinché la loro competenza non sia subordinata alla condizione che i fatti siano perseguibili penalmente sul territorio in cui sono stati commessi.
4 Per perseguire i reati stabiliti conformemente agli Articoli
36, 37, 38 e 39 della presente Convenzione, le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie affinché la loro competenza riguardante i commi d. ed e. del
precedente paragrafo 1 non sia subordinata alla condizione che il procedimento penale possa unicamente essere avviato a seguito della denuncia della vittima del
reato, o di un’azione intentata dallo Stato del luogo dove
è stato commesso il reato.
5 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per determinare la giurisdizione con riferimento
a tutti i reati di cui alla presente Convenzione, nei casi in
cui il presunto autore del reato si trovi sul loro territorio
e non possa essere estradato verso un’altra Parte unicamente in base alla sua nazionalità.
6 Quando più Parti rivendicano la loro competenza riguardo a un reato che si presume stabilito conformemente alla presente Convenzione, le Parti interessate si
concertano, se lo ritengono opportuno, per determinare
quale sia la giurisdizione più appropriata per procedere
penalmente.
7 Fatte salve le disposizioni generali di diritto internazionale, la presente Convenzione non esclude alcuna competenza penale esercitata da una delle Parti conformemente al proprio diritto interno.
DOSSIER
Articolo 45 – Sanzioni e misure repressive
1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che i reati stabiliti conformemente
alla presente Convenzione siano punibili con sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, che tengano conto
della loro gravità. Tali sanzioni includono, se del caso,
pene privative della libertà e che possono comportare
l’estradizione.
2 Le Parti possono adottare altre misure nei confronti degli
autori dei reati, quali:
– il monitoraggio, o la sorveglianza della persona condannata;
– la privazione della patria podestà, se l’interesse superiore del bambino, che può comprendere la sicurezza
della vittima, non può essere garantito in nessun altro
modo.
Articolo 46 – Circostanze aggravanti
Le Parti adottano le misure legislative e di ogni altro tipo necessarie per garantire che le seguenti circostanze, purché
non siano già gli elementi costitutivi del reato, possano, conformemente alle disposizioni pertinenti del loro diritto nazionale, essere considerate come circostanze aggravanti nel
determinare la pena per i reati stabiliti conformemente alla
presente Convenzione:
a) il reato è stato commesso contro l’attuale o l’ex coniuge
o partner, come riconosciuto dal diritto nazionale, da un
membro della famiglia, dal convivente della vittima, o da
una persona che ha abusato della propria autorità;
b) il reato, o i reati connessi, sono stati commessi ripetutamente;
c) il reato è stato commesso contro una persona in circostanze di particolare vulnerabilità;
d) il reato è stato commesso su un bambino o in presenza di
un bambino; e il reato è stato commesso da due o più persone che hanno agito insieme;
f) il reato è stato preceduto o accompagnato da una violenza di estrema gravità;
g) il reato è stato commesso con l’uso o con la minaccia di
un’arma;
h) il reato ha provocato gravi danni fisici o psicologici alla
vittima;
i) l’autore era stato precedentemente condannato per reati
di natura analoga.
Articolo 47 – Condanne pronunciate sul territorio di un’altra Parte contraente
Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per prevedere la possibilità di prendere in considerazione, al momento della decisione relativa alla pena, le condanne definitive pronunciate da un’altra Parte contraente
in relazione ai reati previsti in base alla presente Convenzione.
Articolo 48 – Divieto di metodi alternativi di risoluzione
dei conflitti o di misure alternative alle pene obbligatorie
1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo destinate a vietare i metodi alternativi di risoluzione dei
conflitti, tra cui la mediazione e la conciliazione, per tutte
le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione.
2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo destinate a garantire che, se viene inflitto il pagamento di
una multa, sia debitamente presa in considerazione la capacità del condannato di adempiere ai propri obblighi finanziari nei confronti della vittima.
CAPITOLO VI – INDAGINI, PROCEDIMENTI PENALI, DIRITTO
PROCEDURALE E MISURE PROTETTIVE
Articolo 49 – Obblighi generali
1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le indagini e i procedimenti penali relativi a tutte le forme di violenza che rientrano nel
campo di applicazione della presente Convenzione siano
avviati senza indugio ingiustificato, prendendo in considerazione i diritti della vittima in tutte le fasi del procedimento penale.
2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo, in
conformità con i principi fondamentali in materia di diritti umani e tenendo conto della comprensione della violenza di genere, per garantire indagini e procedimenti efficaci nei confronti dei reati stabiliti conformemente alla
presente Convenzione.
Articolo 50 – Risposta immediata, prevenzione e protezione
1 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per garantire che le autorità incaricate dell’applicazione della legge affrontino in modo tempestivo e
appropriato tutte le forme di violenza che rientrano nel
campo di applicazione della presente Convenzione, offrendo una protezione adeguata e immediata alle vittime.
2 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo per
garantire che le autorità incaricate dell’applicazione della
legge operino in modo tempestivo e adeguato in materia
di prevenzione e protezione contro ogni forma di violenza
che rientra nel campo di applicazione della presente
Convenzione, ivi compreso utilizzando misure operative
di prevenzione e la raccolta delle prove.
Articolo 51 – Valutazione e gestione dei rischi
1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per consentire alle autorità competenti di valutare il rischio di letalità, la gravità della situazione e il rischio di reiterazione dei comportamenti violenti, al fine di
gestire i rischi e garantire, se necessario, un quadro coordinato di sicurezza e di sostegno.
2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la valutazione di cui al parafrafo 1 prenda in considerazione, in tutte le fasi dell’indagine e dell’applicazione delle misure di protezione, il
fatto che l’autore di atti di violenza che rientrano nel
campo di applicazione della presente Convenzione possieda, o abbia accesso ad armi da fuoco.
Articolo 52 – Misure urgenti di allontanamento imposte
dal giudice
Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le autorità competenti si vedano riconosciuta la facoltà di ordinare all’autore della
violenza domestica, in situazioni di pericolo immediato,
di lasciare la residenza della vittima o della persona in
pericolo per un periodo di tempo sufficiente e di vietargli
l’accesso al domicilio della vittima o della persona in pericolo o di impedirgli di avvicinarsi alla vittima. Le misure
adottate in virtù del presente articolo devono dare priorità alla sicurezza delle vittime o delle persone in pericolo.
Articolo 53 – Ordinanze di ingiunzione o di protezione
1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le ordinanze di ingiunzione o di
protezione possano essere ottenute dalle vittime di ogni
forma di violenza che rientra nel campo di applicazione
della presente Convenzione.
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DOSSIER
2 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per garantire che le ordinanze di ingiunzione o di
protezione di cui al paragrafo 1 siano:
– concesse per una protezione immediata e senza oneri
amministrativi o finanziari eccessivi per la vittima;
– emesse per un periodo specificato o fino alla loro modifica o revoca;
– ove necessario, decise ex parte con effetto immediato;
– disponibili indipendentemente, o contestualmente ad
altri procedimenti giudiziari;
– possano essere introdotte nei procedimenti giudiziari
successivi.
3 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violazione delle ordinanze di
ingiunzione o di protezione emesse ai sensi del paragrafo
1 sia oggetto di sanzioni penali o di altre sanzioni legali
efficaci, proporzionate e dissuasive.
Articolo 54 – Indagini e prove
Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che in qualsiasi procedimento civile o
penale, le prove relative agli antecedenti sessuale e alla condotta della vittima siano ammissibili unicamente quando
sono pertinenti e necessarie.
Articolo 55 – Procedimenti d’ufficio e ex parte
1 Le Parti si accertano che le indagini e i procedimenti penali per i reati stabiliti ai sensi degli articoli 35, 36, 37, 38
e 39 della presente Convenzione non dipendano interamente da una segnalazione o da una denuncia da parte
della vittima quando il reato è stato commesso in parte o
in totalità sul loro territorio, e che il procedimento possa
continuare anche se la vittima dovesse ritrattare l’accusa
o ritirare la denuncia.
2 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per garantire, conformemente alle condizioni
previste dal loro diritto interno, la possibilità per le organizzazioni governative e non governative e per i consulenti specializzati nella lotta alla violenza domestica di
assistere e/o di sostenere le vittime, su loro richiesta, nel
corso delle indagini e dei procedimenti giudiziari relativi
ai reati stabiliti conformemente alla presente Convenzione.
Articolo 56 – Misure di protezione
1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo destinate a proteggere i diritti e gli interessi delle vittime,
compresi i loro particolari bisogni in quanto testimoni in
tutte le fasi delle indagini e dei procedimenti giudiziari, in
particolare:
a) garantendo che siano protette, insieme alle loro famiglie e ai testimoni, dal rischio di intimidazioni, rappresaglie e ulteriori vittimizzazioni;
b) garantendo che le vittime siano informate, almeno nei
casi in cui esse stesse e la loro famiglia potrebbero essere in pericolo, quando l’autore del reato dovesse evadere o essere rimesso in libertà in via temporanea o definitiva;
c) informandole, nelle condizioni previste dal diritto interno, dei loro diritti e dei servizi a loro disposizione e
dell’esito della loro denuncia, dei capi di accusa, dell’andamento generale delle indagini o del procedimento, nonché del loro ruolo nell’ambito del procedimento e dell’esito del giudizio;
d) offrendo alle vittime, in conformità con le procedure
del loro diritto nazionale, la possibilità di essere ascoltate, di fornire elementi di prova e presentare le loro
opinioni, esigenze e preoccupazioni, direttamente o
tramite un intermediario, e garantendo che i loro pareri
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siano esaminati e presi in considerazione;
e) fornendo alle vittime un’adeguata assistenza, in modo
che i loro diritti e interessi siano adeguatamente rappresentati e presi in considerazione;
f ) garantendo che possano essere adottate delle misure
per proteggere la vita privata e l’immagine della vittima;
g) assicurando, ove possibile, che siano evitati i contatti
tra le vittime e gli autori dei reati all’interno dei tribunali e degli uffici delle forze dell’ordine;
h) fornendo alle vittime, quando sono parti del processo
o forniscono delle prove, i servizi di interpreti indipendenti e competenti;
i) consentendo alle vittime di testimoniare in aula, secondo le norme previste dal diritto interno, senza essere fisicamente presenti, o almeno senza la presenza
del presunto autore del reato, grazie in particolare al ricorso a tecnologie di comunicazione adeguate, se sono
disponibili.
2 Un bambino vittima e testimone di violenza contro le
donne e di violenza domestica, deve, se necessario, usufruire di misure di protezione specifiche, che prendano in
considerazione il suo interesse superiore.
Articolo 57 – Gratuito patrocinio
Le Parti garantiscono che le vittime abbiano diritto all’assistenza legale e al gratuito patrocinio alle condizioni previste
dal diritto interno.
Articolo 58 – Prescrizione
Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per garantire che il termine di prescrizione per intentare un’azione penale relativa ai reati di cui agli articoli 36,
37, 38 e 39 della presente Convenzione sia prolungato per
un tempo sufficiente e proporzionale alla gravità del reato,
per consentire alla vittima minore di vedere perseguito il
reato dopo avere raggiunto la maggiore età.
CAPITOLO VII – MIGRAZIONE E ASILO
Articolo 59 – Status di residente
1 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo per
garantire che le vittime, il cui status di residente dipende
da quello del coniuge o del partner, conformemente al
loro diritto interno, possano ottenere, su richiesta, in caso
di scioglimento del matrimonio o della relazione, in situazioni particolarmente difficili, un titolo autonomo di
soggiorno, indipendentemente dalla durata del matrimonio o della relazione. Le condizioni per il rilascio e la durata del titolo autonomo di soggiorno sono stabilite conformemente al diritto nazionale.
2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le vittime possano ottenere la
sospensione delle procedure di espulsione avviate perché
il loro status di residente dipendeva da quello del coniuge
o del partner, conformemente al loro diritto interno, al
fine di consentire loro di chiedere un titolo autonomo di
soggiorno.
3 Le Parti rilasciano un titolo di soggiorno rinnovabile alle
vittime, in una o in entrambe le seguenti situazioni:
a) quando l’autorità competente ritiene che il loro soggiorno sia necessario in considerazione della loro situazione personale;
b) quando l’autorità competente ritiene che il loro soggiorno sia necessario per la loro collaborazione con le
autorità competenti nell’ambito di un’indagine o di
procedimenti penali.
4 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le vittime di un matrimonio
DOSSIER
forzato condotte in un altro paese al fine di contrarre matrimonio, e che abbiano perso di conseguenza il loro status di residente del paese in cui risiedono normalmente,
possano recuperare tale status.
Articolo 60 – Richieste di asilo basate sul genere
1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro le donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una
forma di persecuzione ai sensi dell’articolo 1, A (2) della
Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e
come una forma di grave pregiudizio che dia luogo a una
protezione complementare / sussidiaria.
2 Le Parti si accertano che un’interpretazione sensibile al
genere sia applicata a ciascuno dei motivi della Convenzione, e che nei casi in cui sia stabilito che il timore di
persecuzione è basato su uno o più di tali motivi, sia concesso ai richiedenti asilo lo status di rifugiato, in funzione
degli strumenti pertinenti applicabili.
3 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per sviluppare procedure di accoglienza sensibili
al genere e servizi di supporto per i richiedenti asilo, nonché linee guida basate sul genere e procedure di asilo sensibili alle questioni di genere, compreso in materia di concessione dello status di rifugiato e di richiesta di protezione internazionale.
Articolo 61 – Diritto di non-respingimento
1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per il rispetto del principio di non-respingimento, conformemente agli obblighi esistenti derivanti
dal diritto internazionale.
2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le vittime della violenza contro
le donne bisognose di una protezione, indipendentemente dal loro status o dal loro luogo di residenza, non
possano in nessun caso essere espulse verso un paese
dove la loro vita potrebbe essere in pericolo o dove potrebbero essere esposte al rischio di tortura o di pene o
trattamenti inumani o degradanti.
CAPITOLO VIII – COOPERAZIONE INTERNAZIONALE
Articolo 62 – Principi generali
1 Le Parti cooperano, in conformità con le disposizioni della
presente Convenzione, e nel rispetto dell’applicazione degli strumenti internazionali e regionali relativi alla cooperazione in materia civile e penale, nonché degli accordi
stipulati sulla base di disposizioni legislative uniformi o di
reciprocità e della propria legislazione nazionale, nel
modo più ampio possibile, al fine di:
a) prevenire, combattere e perseguire tutte le forme di
violenza che rientrano nel campo di applicazione della
presente Convenzione;
b) proteggere e assistere le vittime;
c) condurre indagini o procedere penalmente per i reati
previsti sulla base della presente Convenzione;
d) applicare le pertinenti sentenze civili e penali pronunciate dalle autorità giudiziarie delle Parti, ivi comprese
le ordinanze di protezione.
2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le vittime di un reato determinato ai sensi della presente Convenzione e commesso sul
territorio di una Parte diversa da quella in cui risiedono
possano presentare denuncia presso le autorità competenti del loro Stato di residenza.
3 Se una Parte che subordina all’esistenza di un trattato la
mutua assistenza giudiziaria in materia penale, l’estradizione o l’esecuzione delle sentenze civili o penali pro-
nunciate da un’altra Parte contraente alla presente Convenzione riceve una richiesta di cooperazione in materia
giudiziaria da una Parte con la quale non ha ancora concluso tale trattato, può considerare la presente Convenzione come la base giuridica per la mutua assistenza in
materia penale, di estradizione, di esecuzione delle sentenze civili o penali pronunciate dall’altra Parte riguardanti i reati stabiliti conformemente alla presente Convenzione.
4 Le Parti si sforzano di integrare, se del caso, la prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle
donne e la violenza domestica nei programmi di assistenza allo sviluppo condotti a favore di paesi terzi, compresa la conclusione di accordi bilaterali e multilaterali
con paesi terzi, al fine di facilitare la protezione delle vittime, conformemente all’articolo 18, paragrafo 5.
Articolo 63 – Misure relative alle persone in pericolo
Quando una Parte, sulla base delle informazioni a sua disposizione, ha seri motivi di pensare che una persona possa
essere esposta in modo immediato al rischio di subire uno
degli atti di violenza di cui agli Articoli 36, 37, 38 e 39 della
presente Convenzione sul territorio di un’altra Parte, la Parte
che dispone di tale informazione è incoraggiata a trasmetterla senza indugio all’altra Parte, al fine di garantire che
siano prese le misure di protezione adeguate. Tale informazione deve includere, se del caso, delle indicazioni sulle disposizioni di protezione esistenti a vantaggio della persona
in pericolo.
Articolo 64 – Informazioni
1 La Parte richiesta deve rapidamente informare la Parte richiedente dell’esito finale dell’azione intrapresa ai sensi
del presente capitolo. La Parte richiesta deve inoltre informare senza indugio la Parte richiedente di qualsiasi
circostanza che renda impossibile l’esecuzione dell’azione ipotizzata o che possa ritardarla in modo significativo.
2 Una Parte può, nei limiti delle disposizioni del suo diritto
interno, senza richiesta preliminare, trasferire a un’altra
Parte le informazioni ottenute nell’ambito delle proprie
indagini, qualora ritenga che la divulgazione di tali informazioni possa aiutare la Parte che le riceve a prevenire i
reati penali stabiliti ai sensi della presente Convenzione
o ad avviare o proseguire le indagini o i procedimenti relativi a tali reati penali, o che tale divulgazione possa suscitare una richiesta di collaborazione formulata da tale
Parte, conformemente al presente capitolo.
3 Una Parte che riceve delle informazioni conformemente
al precedente paragrafo 2 deve comunicarle alle proprie
autorità competenti, in modo che possano essere avviati
dei procedimenti se sono considerati appropriati, o che
tale informazione possa essere presa in considerazione
nei procedimenti civili o penali pertinenti.
Articolo 65 – Protezione dei dati
I dati personali sono conservati e utilizzati conformemente
agli obblighi assunti dalle Parti alla Convenzione sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato
dei dati a carattere personale (STE n° 108).
CAPITOLO IX – MECCANISMO DI CONTROLLO
Articolo 66 – Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica
1 Il Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (di seguito
“GREVIO”) è incaricato di vigilare sull’attuazione della
presente Convenzione da parte delle Parti contraenti.
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DOSSIER
2 Il GREVIO è composto da un minimo di 10 membri a un
massimo di 15 membri, nel rispetto del criterio dell’equilibrio tra i sessi e di un’equa ripartizione geografica e dell’esigenza di competenze multidisciplinari. I suoi membri
sono eletti dal Comitato delle Parti tra i candidati designati dalle Parti con un mandato di quattro anni, rinnovabile una volta, e sono scelti tra i cittadini delle Parti.
3 L’elezione iniziale di 10 membri deve aver luogo entro un
anno dalla data dell’entrata in vigore della presente Convenzione. L’elezione dei cinque membri supplementari si
svolge dopo la venticinquesima ratifica o adesione.
4 L’elezione dei membri del GREVIO deve essere basata sui
seguenti principi:
a) devono essere selezionati mediante una procedura trasparente tra personalità di elevata moralità, note per
la loro competenza in materia di diritti umani, uguaglianza tra i sessi, contrasto alla violenza sulle donne e
alla violenza domestica o assistenza e protezione alle
vittime, o devono essere in possesso di una riconosciuta esperienza professionale nei settori oggetto della
presente Convenzione;
b) il GREVIO non può comprendere più di un cittadino del
medesimo Stato;
c) devono rappresentare i principali sistemi giuridici;
d) devono rappresentare gli organi e i soggetti competenti
nel campo della violenza contro le donne e la violenza
domestica;
e) devono partecipare a titolo individuale e devono essere
indipendenti e imparziali nell’esercizio delle loro funzioni, e devono rendersi disponibili ad adempiere ai
loro compiti in maniera efficace.
5. La procedura per l’elezione dei membri del GREVIO è determinata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, previa consultazione e unanime consenso delle
Parti entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente
Convenzione.
6 Il GREVIO adotta il proprio regolamento interno.
7 I membri del GREVIO e gli altri membri delle delegazioni
incaricate di compiere le visite nei paesi, come stabilito
all’articolo 68, paragrafi 9 e 14, godono dei privilegi e immunità previsti nell’allegato alla presente Convenzione.
Articolo 67 – Comitato delle Parti
1 Il Comitato delle Parti è composto dai rappresentanti
delle Parti alla Convenzione.
2 Il Comitato delle Parti è convocato dal Segretario Generale del Consiglio d’Europa. La sua prima riunione deve
avere luogo entro un anno dall’entrata in vigore della presente Convenzione, allo scopo di eleggere i membri del
GREVIO. Si riunisce successivamente su richiesta di almeno un terzo delle Parti, del Presidente del Comitato
delle Parti o del Segretario Generale.
3 Il Comitato delle Parti adotta il proprio regolamento interno.
Articolo 68 – Procedura
1 Le Parti presentano al Segretario Generale del Consiglio
d’Europa, sulla base di un questionario preparato dal GREVIO, un rapporto sulle misure legislative e di altro tipo destinate a dare attuazione alle disposizioni della presente
Convenzione, che dovrà essere esaminato da parte del
GREVIO.
2 Il GREVIO esamina il rapporto presentato conformemente
al paragrafo 1 con i rappresentanti della Parte interessata.
3 La procedura di valutazione ulteriore sarà divisa in cicli,
la cui durata è determinata dal GREVIO. All’inizio di ogni
ciclo, il GREVIO seleziona le disposizioni specifiche sulle
quali sarà basata la procedura di valutazione e invia all’uopo un questionario.
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4 Il GREVIO definisce i mezzi adeguati per procedere a tale
valutazione. Può in particolare adottare un questionario
per ciascuno dei cicli, che serve da base per la valutazione dell’applicazione della Convenzione da parte delle
Parti contraenti. Il suddetto questionario è inviato a tutte
le Parti. Le Parti rispondono al suddetto questionario e a
qualsiasi altra eventuale richiesta di informazioni da
parte del GREVIO.
5 Il GREVIO può ricevere informazioni riguardanti l’attuazione della Convenzione da parte delle ONG e della società civile, nonché dalle istituzioni nazionali di protezione dei diritti umani.
6 Il GREVIO tiene debitamente conto delle informazioni
esistenti disponibili in altri strumenti internazionali e
regionali nei settori che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione.
7 Nell’adottare il questionario per ogni ciclo di valutazione,
il GREVIO prende in debita considerazione la raccolta dei
dati e le ricerche esistenti presso le Parti, quali enunciate
all’articolo 11 della presente Convenzione.
8 Il GREVIO può ricevere informazioni relative all’applicazione della Convenzione da parte del Commissario per i
diritti umani del Consiglio d’Europa, dell’Assemblea parlamentare e di altri organi competenti specializzati del
Consiglio Europa, nonché da quelli stabiliti nel quadro di
altri strumenti internazionali. Le denunce presentate dinanzi a tali organi e il seguito che viene loro dato sono
messi a disposizione del GREVIO.
9 Il GREVIO può inoltre organizzare, in collaborazione con
le autorità nazionali e con l’assistenza di esperti nazionali indipendenti, delle visite nei paesi interessati, se le
informazioni ricevute sono insufficienti o nei casi previsti al paragrafo 14. Nel corso di queste visite, il GREVIO
può farsi assistere da specialisti in settori specifici.
10 Il GREVIO elabora una bozza di rapporto contenente la
propria analisi sull’applicazione delle disposizioni alle
quali si riferisce la procedura di valutazione, nonché i
suoi suggerimenti e le sue proposte riguardanti il modo
in cui la Parte interessata può trattare i problemi individuati. Tale bozza di rapporto è trasmessa alla Parte oggetto della valutazione perché formuli i propri commenti, che sono presi in considerazione dal GREVIO
quando adotta il suo rapporto.
11 Sulla base di tutte le informazioni e dei commenti delle
Parti, il GREVIO adotta il proprio apporto e le proprie conclusioni in merito alle misure adottate dalla Parte interessata per attuare le disposizioni della presente Convenzione. Questo rapporto e le conclusioni sono inviati
alla Parte interessata e al Comitato delle Parti. Il rapporto
e le conclusioni del GREVIO sono resi pubblici non appena adottati, accompagnati dagli eventuali commenti
della Parte interessata.
12 Fatte salve le procedure di cui ai precedenti paragrafi da
1 a 8, il Comitato delle Parti può adottare, sulla base del
rapporto e delle conclusioni del GREVIO, delle raccomandazioni rivolte alla suddetta Parte (a) riguardanti le
misure da adottare per dare attuazione alle conclusioni
del GREVIO, se necessario fissando una data per la presentazione delle informazioni sulla loro attuazione, e (b)
miranti a promuovere la cooperazione con la suddetta
Parte per un’adeguata applicazione della presente Convenzione.
13 Se il GREVIO riceve informazioni attendibili indicanti
una situazione in cui i problemi rilevati richiedono un’attenzione immediata per prevenire o limitare la portata o
il numero di gravi violazioni della Convenzione, può domandare la presentazione urgente di un rapporto speciale sulle misure adottate per prevenire una forma di
violenza sulle donne grave, diffusa o ricorrente.
DOSSIER
14 Il GREVIO può, tenendo conto delle informazioni presentate dalla Parte interessata e di ogni altra informazione attendibile, designare uno o più membri incaricati
di condurre un’indagine e di presentargli con urgenza un
rapporto. Se necessario, e con il consenso della Parte, tale
indagine può includere una visita sul suo territorio.
15 Dopo avere esaminato le conclusioni relative all’indagine
di cui al paragrafo 14, il GREVIO trasmette tali risultati
alla Parte interessata e, se del caso, al Comitato delle
Parti e al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa,
accompagnati da qualsiasi altra osservazione e raccomandazione.
Articolo 69 – Raccomandazioni generali
Il GREVIO può adottare, ove opportuno, raccomandazioni di
carattere generale sull’applicazione della presente Convenzione.
Articolo 70 – Partecipazione dei Parlamenti al controllo
1 I parlamenti nazionali sono invitati a partecipare al controllo delle misure adottate per l’attuazione della presente Convenzione.
2 Le Parti presentano i rapporti del GREVIO ai loro Parlamenti nazionali.
3 L’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa è invitata a fare regolarmente un bilancio dell’applicazione
della presente Convenzione.
CAPITOLO X – RELAZIONI CON ALTRI STRUMENTI
INTERNAZIONALI
Articolo 71 – Relazioni con altri strumenti internazionali
1 La presente Convenzione non pregiudica gli obblighi derivanti dalle disposizioni di altri strumenti internazionali
di cui le Parti alla presente Convenzione sono parte contraente o lo diventeranno in futuro e che contengono disposizioni relative alle questioni disciplinate dalla presente Convenzione.
2 Le Parti alla presente Convenzione possono concludere
tra loro accordi bilaterali o multilaterali relativi alle questioni disciplinate dalla presente Convenzione, al fine di
integrarne o rafforzarne le disposizioni o di facilitare l’applicazione dei principi in essa sanciti.
CAPITOLO XII – CLAUSOLE FINALI
Articolo 73 – Effetti della Convenzione
Le disposizioni della presente Convenzione non pregiudicano le disposizioni di diritto interno e di altri strumenti internazionali vincolanti già in vigore o che possono entrare
in vigore, in base ai quali sono o sarebbero riconosciuti dei
diritti più favorevoli per la prevenzione e la lotta contro la
violenza sulle donne e la violenza domestica.
Articolo 74 – Composizione delle controversie
1 In caso di controversia tra le Parti circa l’applicazione o
l’interpretazione delle disposizioni della presente Convenzione, le Parti si adopereranno anzitutto per trovare
una soluzione mediante negoziato, conciliazione, arbitrato, o qualsiasi altro mezzo pacifico di loro scelta.
2 Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa può stabilire delle procedure per la composizione delle controversie che potranno essere utilizzate dalle Parti, se vi consentono.
Articolo 75 – Firma ed entrata in vigore
1 La presente Convenzione è aperta alla firma degli Stati
membri del Consiglio d’Europa, degli Stati non membri
che hanno partecipato alla sua elaborazione e dell’Unione
europea.
2 La presente Convenzione è soggetta a ratifica, accettazione o approvazione. Gli strumenti di ratifica, di accettazione o di approvazione saranno depositati presso il Segretario Generale del Consiglio d’Europa.
3 La presente Convenzione entrerà in vigore il primo
giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo
di tre mesi dopo la data in cui 10 firmatari, di cui almeno
otto Stati membri del Consiglio d’Europa, avranno
espresso il loro consenso a essere vincolati dalla Convenzione, conformemente alle disposizioni del precedente paragrafo 2.
4 Se uno Stato di cui al paragrafo 1 o l’Unione europea
esprime ulteriormente il proprio consenso a essere vincolato dalla Convenzione, quest’ultima entrerà in vigore,
nei suoi confronti, il primo giorno del mese successivo
alla scadenza di un periodo di tre mesi dopo la data del
deposito dello strumento di ratifica, di accettazione o di
approvazione.
CAPITOLO XI – EMENDAMENTI ALLA CONVENZIONE
Articolo 72 – Emendamenti
1 Ogni emendamento alla presente Convenzione, proposto
da una Parte, deve essere comunicato al Segretario Generale del Consiglio d’Europa e trasmesso da quest’ultimo
agli Stati membri del Consiglio d’Europa, a ogni Stato firmatario, a ogni Parte, all’Unione europea, a ogni Stato invitato a firmare la presente Convenzione, conformemente
alle disposizioni dell’articolo 75, nonché a ogni Stato invitato ad aderire alla presente Convenzione, conformemente alle disposizioni dell’articolo 76.
2 Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa esamina
l’emendamento proposto e, dopo avere consultato le Parti
alla Convenzione che non sono membri del Consiglio d’Europa, può adottare l’emendamento con la maggioranza prevista all’Articolo 20.d dello statuto del Consiglio d’Europa.
3 Il testo di ogni emendamento adottato dal Comitato dei
Ministri conformemente al paragrafo 2 del presente articolo è trasmesso alle Parti per accettazione.
4 Ogni emendamento adottato conformemente al paragrafo 2 entra in vigore il primo giorno del mese successivo
alla scadenza di un periodo di un mese dopo la data in
cui tutte le Parti hanno informato il Segretario Generale
della loro accettazione.
Articolo 76 – Adesione alla Convenzione
1 Dopo l’entrata in vigore della presente Convenzione, il
Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, dopo avere
consultato le Parti alla presente Convenzione e averne ottenuto l’unanime consenso, può invitare qualsiasi Stato
non membro del Consiglio d’Europa che non abbia partecipato all’elaborazione della convenzione ad aderire alla
presente Convenzione con una decisione presa con la
maggioranza prevista all’articolo 20.d dello Statuto del
Consiglio d’Europa, e all’unanimità dei rappresentanti
delle Parti contraenti con diritto di sedere in seno al Comitato dei Ministri.
2 Nei confronti di ogni Stato aderente, la Convenzione entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo alla
scadenza di un periodo di tre mesi dopo la data del deposito dello strumento di adesione presso il Segretario
Generale del Consiglio d’Europa.
Articolo 77 – Applicazione territoriale
1 Ogni Stato o l’Unione europea, al momento della firma o
del deposito del proprio strumento di ratifica, di accettazione, di approvazione o di adesione, potrà indicare il territorio o i territori cui si applicherà la presente Convenzione.
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 49
DOSSIER
2 Ciascuna Parte potrà, in qualsiasi momento successivo e
mediante dichiarazione inviata al Segretario Generale del
Consiglio d’Europa, estendere l’applicazione della presente Convenzione a ogni altro territorio specificato in
tale dichiarazione, di cui curi le relazioni internazionali o
in nome del quale sia autorizzata ad assumere impegni.
La Convenzione entrerà in vigore nei confronti di questo
territorio il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dalla data di ricevimento
della dichiarazione da parte del Segretario Generale.
3 Ogni dichiarazione fatta ai sensi dei due paragrafi precedenti potrà essere ritirata nei confronti di ogni territorio
specificato nella suddetta dichiarazione mediante notifica indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa. Il ritiro avrà effetto il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dalla data
del ricevimento di tale notifica da parte del Segretario Generale.
Articolo 78 – Riserve
1 Non è ammessa alcuna riserva alle disposizioni della presente Convenzione, salvo quelle previste ai successivi paragrafi 2 e 3.
2 Ogni Stato o l’Unione europea può, al momento della
firma o del deposito del proprio strumento di ratifica, di
accettazione, di approvazione o di adesione, mediante dichiarazione inviata al Segretario Generale del Consiglio
d’Europa, precisare che si riserva il diritto di non applicare o di applicare solo in particolari casi o circostanze le
disposizioni enunciate nei seguenti articoli:
– Articolo 30, paragrafo 2;
– Articolo 44, paragrafi 1.e, 3 e 4;
– Articolo 55, paragrafo 1 esaminato insieme all’Articolo
35 per quanto riguarda i reati minori;
– Articolo 58 esaminato insieme agli Articoli 37, 38 e 39;
– Articolo 59.
3 Ogni Stato o l’Unione europea può, al momento della
firma o del deposito dello strumento di ratifica, di accettazione, di approvazione o di adesione, mediante dichiarazione inviata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, precisare che si riserva il diritto di prevedere sanzioni non penali, invece di imporre sanzioni penali, per i
comportamenti di cui agli articoli 33 e 34.
4 Ogni Parte può ritirare in tutto o in parte una riserva mediante notifica indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa. Il ritiro avrà effetto a partire dalla data del
suo ricevimento da parte del Segretario Generale.
Articolo 79 – Validità ed esame delle riserve
1 Le riserve previste all’articolo 78, paragrafi 2 e 3 sono valide per un periodo di cinque anni a partire dal primo
giorno dell’entrata in vigore della Convenzione per la
Parte interessata. Tali riserve possono tuttavia essere rinnovate per periodi di uguale durata.
2 Diciotto mesi prima della scadenza della riserva, il Segretario Generale del Consiglio d’Europa notifica tale scadenza alla Parte interessata. Tre mesi prima della data
50 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
della scadenza, la Parte deve comunicare al Segretario Generale la sua intenzione di mantenere, modificare o ritirare la riserva. In assenza di tale comunicazione, il Segretario Generale informa la Parte che la sua riserva si intende automaticamente prorogata per un periodo di sei
mesi. Se la Parte interessata non notifica prima della scadenza di tale termine la sua intenzione di mantenere o
modificare la propria riserva, questa è considerata sciolta.
3 La Parte che ha formulato una riserva conformemente all’Articolo 78, paragrafi 2 e 3, deve fornire, prima di rinnovarla, o su richiesta, delle spiegazioni al GREVIO in merito ai motivi che ne giustificano il mantenimento.
Articolo 80 – Denuncia
1 Ogni Parte può, in qualsiasi momento, denunciare la presente Convenzione mediante notifica inviata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa.
2 Tale denuncia ha effetto il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dalla data
di ricevimento della notifica da parte del Segretario Generale.
Articolo 81 – Notifica
Il Segretario Generale del Consiglio d’Europa notificherà agli
Stati membri del Consiglio d’Europa, agli Stati non membri
del Consiglio d’Europa che abbiano partecipato all’elaborazione della presente Convenzione, a ogni firmatario, a ogni
Parte, all’Unione europea e a ogni Stato invitato ad aderire
alla presente Convenzione:
a) ogni firma;
b) il deposito di ogni strumento di ratifica, di accettazione,
di approvazione o di adesione;
c) ogni data di entrata in vigore della presente Convenzione,
conformemente agli Articoli 75 e 76;
d ogni emendamento adottato conformemente all’Articolo
72 e la data della sua entrata in vigore;
e) ogni riserva e ritiro di riserva formulati conformemente
all’Articolo 78;
f) ogni denuncia presentata conformemente all’Articolo 80;
g) ogni altro atto, notifica o comunicazione concernente la
presente Convenzione.
***
In fede di che i sottoscritti, debitamente autorizzati a tal
fine, hanno firmato la presente Convenzione.
Fatto a Istanbul, l’11 maggio 2011, in inglese e in francese,
entrambi i testi facenti ugualmente fede, in un unico esemplare che sarà depositato negli archivi del Consiglio d’Europa.
Il Segretario Generale del Consiglio d’Europa ne trasmetterà
una copia certificata conforme a ogni Stato membro del
Consiglio d’Europa, agli Stati non membri che hanno partecipato all’elaborazione della presente Convenzione, all’Unione europea e a ogni Stato invitato ad aderirvi.
CORTE COSTITUZIONALE
2012, iscritta al n. 43 del registro ordinanze 2013 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nella camera di consiglio del 9 ottobre 2013
il Giudice relatore Paolo Grossi.
Ritenuto in fatto
1.– Il Tribunale per i minorenni di Catanzaro solleva, in riferimento agli articoli 2, 3, 32 e 117, primo
comma, della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 28, comma 7, della legge 4
maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dall’art. 177, comma 2, del
decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in
materia di protezione dei dati personali), «nella
parte in cui esclude la possibilità di autorizzare la
persona adottata all’accesso alle informazioni sulle
origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non volere essere nominata
da parte della madre biologica».
Premette il giudice a quo che una donna, nata nel
1963 e adottata nel 1969, esponeva di essere venuta
a conoscenza della sua adozione soltanto in occasione della procedura di separazione e divorzio dal
marito e che la ignoranza delle sue origini le aveva
cagionato vari condizionamenti anche di ordine sa-
nitario, limitando le possibilità di diagnosi e cura per
patologie (nodulo al seno e disturbi ricollegabili
forse ad una menopausa precoce) che avrebbero dovuto comportare una anamnesi di tipo familiare.
Soggiungeva la istante che non era animata da spirito di rivendicazione nei confronti della madre biologica, la quale avrebbe potuto ricevere conforto
dalla conoscenza della figlia, «così chiudendo un
conto con il passato». Da qui, la richiesta di conoscere le generalità della madre naturale. Il pubblico
ministero aveva espresso parere favorevole, ma il
Tribunale rilevava che, a fronte della possibilità riconosciuta all’adottato che abbia compiuto i 25 anni
di accedere ad informazioni riguardanti i propri genitori biologici, previa autorizzazione del Tribunale
per i minorenni, tale possibilità era invece esclusa
dalla disposizione oggetto di impugnativa, ove le informazioni si riferiscano alla madre che abbia dichiarato alla nascita – come nella specie – di non voler essere nominata, ai sensi dell’art. 30, comma 1,
del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per
la revisione e la semplificazione dell’ordinamento
dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12,
della legge 15 maggio 1997, n. 127).
A proposito della violazione dell’art. 2 Cost., il Tribunale osserva come la conoscenza delle proprie
origini rappresenti un presupposto indefettibile per
l’identità personale dell’adottato, la quale integra un
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 51
CORTE COSTITUZIONALE
diritto fondamentale, che viene tutelato sotto il profilo della immagine sociale della persona; vale a
dire, di quell’insieme di valori rilevanti nella rappresentazione che di essa viene data nella vita di relazione. Il diritto alla identità personale ed alla ricerca delle proprie radici è salvaguardato dagli artt.
7 e 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta
a New York il 20 novembre 1989, resa esecutiva con
la legge 27 maggio 1991, n. 176 – che assicurano, appunto, il relativo diritto a conoscere i propri genitori
ed a preservare la propria identità – nonché dall’art.
30 della Convenzione per la tutela dei minori e la
cooperazione in materia di adozione internazionale,
fatta a L’Aja il 29 maggio 1993, resa esecutiva con la
legge 31 dicembre 1998, n. 476, la quale impone agli
Stati aderenti di assicurare l’accesso del minore o
del suo rappresentante alle informazioni relative
alle sue origini, fra le quali, in particolare, quelle relative all’identità dei propri genitori. Il diritto all’identità è stato poi di recente riaffermato e puntualizzato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo,
nella sentenza Godelli contro Italia del 25 settembre 2012, ove si è affermato che, nel perimetro della
tutela offerta dall’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa
esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, rientra
anche la possibilità di «disporre dei dettagli sulla
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propria identità di essere umano e l’interesse vitale,
protetto dalla Convenzione ad ottenere informazioni necessarie alla scoperta della verità concernente un aspetto importante della propria identità
personale, ad esempio l’identità dei genitori».
Il diritto a conoscere le proprie origini contribuisce, dunque, in maniera determinante a delineare
la personalità di un essere umano e rientra, quindi,
nell’ambito dei principi tutelati dall’art. 2 Cost., che
nella specie risulterebbero violati: negare, infatti, a
priori l’autorizzazione all’accesso alle notizie sulle
proprie origini, in ragione del fatto che il genitore
abbia dichiarato di non voler essere nominato, compromette il diritto all’identità personale dell’adottato.
D’altra parte – sottolinea il giudice a quo – a fronte
del diritto all’anonimato, basterebbe prevedere che,
in presenza della richiesta del figlio, la madre fosse
posta in condizione di ribadire o meno la scelta fatta
molti anni prima, non senza sottolineare come il
mutamento del costume sociale non faccia più percepire come un disonore la nascita di un figlio fuori
del matrimonio. Tale possibilità, inoltre, non presenterebbe “pericoli” maggiori neppure per la famiglia adottiva, tenuto conto delle possibilità offerte
all’adottato dai commi 5 e 6 dell’art. 28 in discorso.
La logica che ne ha informato la novellazione, d’altra parte, pare essere tutta orientata verso il recepi-
CORTE COSTITUZIONALE
mento dei dati scientifici, convergenti nell’assegnare importanza alla conoscenza delle proprie origini; sicché, la disposizione dettata dal comma 7, oggetto di censura, rischierebbe di «precludere irrazionalmente, nella maggior parte dei casi, ciò che
voleva consentire».
La disposizione oggetto di impugnativa violerebbe
anche il principio di uguaglianza, trattando in modo
diverso l’adottato la cui madre non abbia dichiarato
alcunché e quello la cui madre abbia dichiarato di
non voler essere nominata, senza considerare
l’eventualità che possa aver cambiato idea e lei
stessa desideri avere notizie del figlio. Nella specie,
sussisterebbero interessi contrapposti: da un lato,
quello dell’adottato a conoscere le proprie origini,
quale espressione del diritto alla propria identità
personale; dall’altro, le esigenze di protezione della
famiglia adottiva e quello all’anonimato della famiglia naturale, quale ulteriore garanzia per la famiglia adottiva. La norma impugnata avrebbe privilegiato esclusivamente l’interesse del genitore all’anonimato, senza controllarne l’attualità, sacrificando sempre e comunque l’interesse dell’adottato,
in ipotesi anche a fronte di gravi esigenze attinenti
alla sua salute psico-fisica.
Infine, la disposizione in questione, operando solo
a tutela dell’anonimato, discriminerebbe irragionevolmente gli adottati, in quanto diversamente dal
caso di genitori naturali che non hanno dichiarato di
non voler essere nominati – e che possono in concreto essersi opposti all’adozione, così da rappresentare un potenziale pericolo per la famiglia adottiva – un simile rischio non è rappresentato dal genitore il quale abbia richiesto l’anonimato. L’impossibilità di accertare, poi, se la madre abbia mutato
orientamento circa l’anonimato costituirebbe violazione del principio di uguaglianza, giacché «accertato il superamento del rapporto conflittuale fra il
diritto dell’adottato alla propria identità personale e
quello della madre naturale al rispetto della sua volontà di anonimato», la diversità di disciplina fra le
due ipotesi sarebbe ingiustificata.
Risulterebbe compromesso anche l’art. 32 Cost.,
in quanto l’impedimento alla conoscenza dei dati
inerenti alla madre naturale priverebbe l’adottato di
qualsiasi possibilità di ottenere una anamnesi familiare, essenziale per interventi di profilassi o di
accertamenti diagnostici, essendo già egli privo di
notizie circa la storia sanitaria del ramo paterno del
proprio albero genealogico. Ciò, peraltro, in costanza
della prassi, diffusa negli ospedali italiani, di omettere la stessa ordinaria raccolta dei dati anamnestici
non identificativi della madre.
Sussisterebbe, infine, violazione dell’art. 117,
primo comma, Cost., in riferimento all’art. 8 della
CEDU, per come interpretato dalla Corte di Strasburgo nella già richiamata sentenza nel caso Godelli contro Italia, la quale ha ritenuto che la nor-
mativa italiana in materia violi l’art. 8 della Convenzione, non essendo stati bilanciati fra loro gli interessi delle parti contrapposte, in tal modo eccedendo dal margine di valutazione riconosciuto alla
stregua del principio convenzionale.
Sottolinea il giudice a quo, rammentando la giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di interpretazione adeguatrice, che la Corte europea non
ha considerato che la normativa nazionale (art. 93
del d.lgs. n. 196 del 2003), da un lato, consente l’acquisizione dei dati relativi alla nascita trascorsi
cento anni dalla formazione della cartella clinica o
del certificato di assistenza al parto e, dall’altro, riconosce la possibilità di ottenere informazioni non
identificative della madre.
Tuttavia – soggiunge il Giudice rimettente – la
Corte europea ha censurato la normativa italiana in
rapporto a circostanze diverse rispetto all’accesso
alle informazioni non identificative, le quali ultime,
peraltro, restano disciplinate in modo confuso, al
punto da aver generato prassi applicative assai differenziate. La reversibilità del segreto, introdotta
dalla legislazione francese – che ha passato immune, nel caso Odièvre, il controllo della Corte di
Strasburgo –, costituirebbe un passo in avanti verso
il soddisfacimento dell’esigenza di conoscenza delle
proprie origini, valutato come elemento fondamentale per la costruzione della personalità dai nuovi
approdi della scienza psicologica. Risulterebbe poi
contestabile l’assunto che la garanzia dell’anonimato preserverebbe dal rischio di “decisioni irreparabili” della donna, tenuto conto dei dati statistici
sugli infanticidi. Inoltre, il parto in anonimato sarebbe tra le prime cause che favoriscono alterazioni
di stato, tanto da aver indotto il legislatore a predisporre rimedi in prevenzione, secondo quanto stabilito dall’art. 74 della legge n. 184 del 1983.
In punto di rilevanza, infine, il Tribunale sottolinea che, nella specie, la madre biologica ha dichiarato di non voler essere nominata, con la conseguenza che è precluso anche il semplice interpello
della donna: il che confermerebbe la rilevanza della
questione, giacché – come già detto – la ricorrente
vedrebbe frustrata la sua aspirazione di conoscenza
delle proprie origini e insoddisfatte le esigenze di
salute connesse alla impossibilità di ottenere una
ordinaria anamnesi familiare.
Non sussisterebbe, poi, possibilità di procedere ad
interpretazioni della norma interna tali da escludere
l’intervento del Giudice delle leggi, a nulla valendo,
anche per le incertezze normative, il ricorso ad elementi non identificativi. D’altra parte, «sia emettendo un provvedimento che respingesse la domanda di accesso, ovvero autorizzasse almeno la
conoscenza di dati non identificativi, di fatto neppure esistenti perché mai raccolti e/o conservati, la
soluzione non soddisferebbe la decisione della
CEDU».
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 53
CORTE COSTITUZIONALE
2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione sia dichiarata manifestamente infondata.
La difesa erariale segnala come il Tribunale rimettente abbia trascurato, salvo un breve passaggio,
di considerare che la questione è già stata dichiarata non fondata dalla Corte con la sentenza n. 425
del 2005, in riferimento proprio agli artt. 2, 3 e 32
Cost., rievocando la storia del quadro normativo e
ponendo in luce la ratio della disciplina censurata
(«da un lato, assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali e, dall’altro, distogliere la donna da
decisioni irreparabili»), che, pure, il giudice a quo ha
richiamato per disattenderne la concludenza. Del
pari, la Corte ebbe a escludere la violazione del principio di uguaglianza, tra figlio adottato la cui madre
abbia dichiarato di non voler essere nominata e figlio adottato i cui genitori non abbiano reso tale dichiarazione, posto che – osservò la Corte – «solo la
prima ipotesi e non anche la seconda è caratterizzata dal rapporto conflittuale fra il diritto dell’adottato alla propria identità personale e quello della
madre al rispetto della sua volontà di anonimato».
Il novum sarebbe dunque rappresentato dalla sentenza della CEDU nel “caso Godelli” e la questione
andrebbe esaminata, pertanto, solo sul versante
della conformazione del quadro normativo agli impegni internazionali. Anche sotto questo profilo,
però, la questione sarebbe infondata, giacché, se è
vero che la legislazione nazionale risolve in favore
della tutela dell’anonimato il contrasto di interessi,
attraverso quella tutela si salvaguarda anche la vita
del nascituro e la salute della donna. In linea con il
comune sentire, quindi, si è considerato più grave il
«vulnus che patirebbe la donna dal vedere svelata
la sua identità di madre contro la propria volontà,
rispetto al pericolo di una (non certa) compromissione dell’aspirazione dell’individuo alla sua piena
realizzazione anche attraverso la conoscenza delle
sue origini».
D’altra parte – e come ricordato dallo stesso rimettente –, il legislatore ha consentito l’accesso alla
cartella clinica della madre ove venga in gioco la salute del figlio; tutela di natura eccezionale che non
viene invece accordata se la madre si è sottoposta a
pratiche di fecondazione assistita (art. 9 della legge
19 febbraio 2004, n. 40, recante «Norme in materia
di procreazione medicalmente assistita»). Per altro
verso, l’accesso ai dati è consentito dopo cento anni
e, prima, sono acquisibili i dati non identificativi
della madre che abbia dichiarato di non voler essere
nominata.
Pertanto, e contrariamente all’assunto della Corte
di Strasburgo, la legislazione nazionale avrebbe «regolato con equilibrio e proporzionalità i diversi interessi coinvolti». Mentre risulterebbe priva di base
scientifica la tesi del giudice a quo secondo la quale
54 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
le ragioni della tutela dell’anonimato sarebbero venute meno per il mutamento dei costumi sociali e
della morale civile.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale per i minorenni di Catanzaro solleva, in riferimento agli articoli 2, 3, 32 e 117, primo
comma, della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 28, comma 7, della legge 4
maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dall’art. 177, comma 2, del
decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in
materia di protezione dei dati personali), «nella
parte in cui esclude la possibilità di autorizzare la
persona adottata all’accesso alle informazioni sulle
origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non volere essere nominata
da parte della madre biologica».
La disposizione denunciata contrasterebbe con
l’art. 2 della Costituzione, configurando «una violazione del diritto di ricerca delle proprie origini e
dunque del diritto all’identità personale dell’adottato»; con l’art. 3 Cost., in riferimento all’«irragionevole disparità di trattamento fra l’adottato nato
da donna che abbia dichiarato di non voler essere
nominata e l’adottato figlio di genitori che non abbiano reso alcuna dichiarazione e abbiano anzi subìto l’adozione»; con l’art. 32 Cost., in ragione dell’impossibilità, per il figlio, di ottenere dati relativi
all’anamnesi familiare, anche in relazione al rischio genetico; con l’art. 117, primo comma, Cost.,
in riferimento all’art. 8 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e
resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, per
come interpretato dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo nella sentenza del 25 settembre 2012 nel
caso Godelli contro Italia, la quale ha dichiarato
che la normativa italiana rilevante violi il predetto
art. 8 della Convenzione, non adeguatamente bilanciando fra loro gli interessi delle parti contrapposte.
2.– Intervenuto nel giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri ha osservato che la questione di
legittimità costituzionale, già dichiarata non fondata con la sentenza n. 425 del 2005 in riferimento
ai parametri di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost., risulterebbe del pari non fondata in riferimento all’art. 117,
primo comma, Cost., considerato che con la tutela
dell’anonimato si salvaguarda anche la vita del nascituro e la salute della donna e che, diversamente
da come prospettato dalla Corte di Strasburgo, la
normativa italiana avrebbe «regolato con equilibrio
e proporzionalità i diversi interessi coinvolti».
3.– La questione è fondata, nei termini di cui appresso.
4.– Come il giudice a quo e la stessa difesa erariale
hanno puntualmente rilevato, il tema del diritto al-
CORTE COSTITUZIONALE
l’anonimato della madre e quello del diritto del figlio a conoscere le proprie origini ai fini della tutela
dei suoi diritti fondamentali hanno già formato oggetto di pronunce tanto di questa Corte che della
Corte europea dei diritti dell’uomo.
Si tratta di questioni di particolare delicatezza,
perché coinvolgono, entrambe, valori costituzionali
di primario rilievo e vedono i rispettivi modi di concretizzazione reciprocamente implicati; al punto
che – come è evidente – l’ambito della tutela del diritto all’anonimato della madre non può non condizionare, in concreto, il soddisfacimento della contrapposta aspirazione del figlio alla conoscenza
delle proprie origini, e viceversa.
Nel giudizio concluso con la sentenza n. 425 del
2005, questa Corte fu chiamata a pronunciarsi su un
quesito del tutto analogo a quello ora nuovamente
devoluto dal giudice rimettente: anche in quella circostanza, infatti, il petitum perseguito non mirava
alla mera ablazione del diritto della madre che, alla
nascita del figlio, avesse dichiarato, agli effetti degli
atti dello stato civile, di non voler essere nominata,
ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre
2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a
norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127); e neppure era volto a conseguire
una sorta di bilanciamento fra i diritti – potenzialmente alternativi, quanto al rispettivo soddisfacimento – di cui innanzi si è detto; ma mirava esclu-
sivamente ad introdurre nel sistema normativo –
che sul punto era del tutto silente – la possibilità di
verificare la persistenza della volontà della madre
naturale di non essere nominata.
Ebbene, nella circostanza, non si mancò di rammentare come la finalità della norma, oggi nuovamente impugnata in parte qua, fosse quella di assicurare, da un lato, che il parto avvenisse nelle condizioni ottimali tanto per la madre che per il figlio,
e, dall’altro lato, di «distogliere la donna da decisioni
irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi». E l’irrevocabilità degli effetti di questa scelta venne spiegata secondo una logica di rafforzamento dei corrispondenti obiettivi, escludendo che la decisione per
l’anonimato potesse comportare, per la madre, «il
rischio di essere, in un imprecisato futuro e su richiesta del figlio mai conosciuto e già adulto, interpellata dall’autorità giudiziaria per decidere se confermare o revocare quella lontana dichiarazione di
volontà».
Il nucleo fondante della scelta allora adottata si
coglie, così, agevolmente, nella ritenuta corrispondenza biunivoca tra il diritto all’anonimato, in sé e
per sé considerato, e la perdurante quanto inderogabile tutela dei profili di riservatezza o, se si vuole,
di segreto, che l’esercizio di quel diritto inevitabilmente coinvolge. Un nucleo fondante che – vale la
pena puntualizzare – non può che essere riaffermato, proprio alla luce dei valori di primario risalto
che esso intende preservare.
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 55
CORTE COSTITUZIONALE
Il fondamento costituzionale del diritto della madre all’anonimato riposa, infatti, sull’esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale
da generare l’emergenza di pericoli per la salute
psico-fisica o la stessa incolumità di entrambi e da
creare, al tempo stesso, le premesse perché la nascita
possa avvenire nelle condizioni migliori possibili.
La salvaguardia della vita e della salute sono, dunque, i beni di primario rilievo presenti sullo sfondo
di una scelta di sistema improntata nel senso di favorire, per sé stessa, la genitorialità naturale.
Peraltro, in questa prospettiva, anche il diritto del
figlio a conoscere le proprie origini – e ad accedere
alla propria storia parentale – costituisce un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona, come pure riconosciuto in varie
pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo.
E il relativo bisogno di conoscenza rappresenta uno
di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l’intimo atteggiamento e la stessa vita di
relazione di una persona in quanto tale. Elementi,
tutti, affidati alla disciplina che il legislatore è chiamato a stabilire, nelle forme e con le modalità reputate più opportune, dirette anche a evitare che il suo
esercizio si ponga in collisione rispetto a norme –
quali quelle che disciplinano il diritto all’anonimato
della madre – che coinvolgono, come si è detto, esigenze volte a tutelare il bene supremo della vita.
56 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
5.– Tuttavia, l’aspetto che viene qui in specifico rilievo – e sul quale la sentenza della Corte di Strasburgo del 25 settembre 2012, Godelli contro Italia,
invita a riflettere, secondo la prospettazione dello
stesso giudice rimettente – ruota attorno al profilo,
per così dire, “diacronico” della tutela assicurata al
diritto all’anonimato della madre.
Con la disposizione all’esame, l’ordinamento pare,
infatti, prefigurare una sorta di “cristallizzazione“ o
di “immobilizzazione“ nelle relative modalità di
esercizio: una volta intervenuta la scelta per l’anonimato, infatti, la relativa manifestazione di volontà
assume connotati di irreversibilità destinati, sostanzialmente, ad “espropriare” la persona titolare
del diritto da qualsiasi ulteriore opzione; trasformandosi, in definitiva, quel diritto in una sorta di
vincolo obbligatorio, che finisce per avere un’efficacia espansiva esterna al suo stesso titolare e, dunque, per proiettare l’impedimento alla eventuale relativa rimozione proprio sul figlio, alla posizione del
quale si è inteso, ab origine, collegare il vincolo del
segreto su chi lo abbia generato.
Tutto ciò è icasticamente scolpito dall’art. 93,
comma 2, del ricordato d.lgs. n. 196 del 2003, secondo cui «Il certificato di assistenza al parto o la
cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali
che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi
della facoltà di cui all’articolo 30, comma 1, del d.P.R.
3 novembre 2000, n. 396, possono essere rilasciati in
CORTE COSTITUZIONALE
copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione
del documento».
Ebbene, a cercare un fondamento a tale sistema –
che commisura temporalmente lo spazio del “vincolo” all’anonimato a una durata idealmente eccedente quella della vita umana –, se ne ricava che
esso riposa sulla ritenuta esigenza di prevenire turbative nei confronti della madre in relazione all’esercizio di un suo “diritto all’oblio” e, nello stesso
tempo, sull’esigenza di salvaguardare erga omnes la
riservatezza circa l’identità della madre, evidentemente considerata come esposta a rischio ogni
volta in cui se ne possa cercare il contatto per verificare se intenda o meno mantenere il proprio anonimato.
Ma né l’una né l’altra esigenza può ritenersi dirimente: non la prima, in quanto al pericolo di turbativa della madre corrisponde un contrapposto pericolo per il figlio, depauperato del diritto di conoscere
le proprie origini; non la seconda, dal momento che
la maggiore o minore ampiezza della tutela della riservatezza resta, in conclusione, affidata alle diverse
modalità previste dalle relative discipline, oltre che
all’esperienza della loro applicazione.
Sul piano più generale, una scelta per l’anonimato
che comporti una rinuncia irreversibile alla “genitorialità giuridica” può, invece, ragionevolmente non
implicare anche una definitiva e irreversibile rinuncia alla “genitorialità naturale”: ove così fosse, d’altra parte, risulterebbe introdotto nel sistema una
sorta di divieto destinato a precludere in radice
qualsiasi possibilità di reciproca relazione di fatto
tra madre e figlio, con esiti difficilmente compatibili
con l’art. 2 Cost.
In altri termini, mentre la scelta per l’anonimato
legittimamente impedisce l’insorgenza di una “genitorialità giuridica”, con effetti inevitabilmente stabilizzati pro futuro, non appare ragionevole che
quella scelta risulti necessariamente e definitivamente preclusiva anche sul versante dei rapporti relativi alla “genitorialità naturale”: potendosi quella
scelta riguardare, sul piano di quest’ultima, come
opzione eventualmente revocabile (in seguito alla
iniziativa del figlio), proprio perché corrispondente
alle motivazioni per le quali essa è stata compiuta e
può essere mantenuta.
6.– La disciplina all’esame è, dunque, censurabile
per la sua eccessiva rigidità.
Ciò, d’altra parte, risulta sulla base degli stessi rilievi, in sostanza, formulati dalla Corte EDU nella richiamata “sentenza Godelli”.
In essa – come accennato e nei termini di seguito
precisati – si è stigmatizzato che la normativa italiana non darebbe «alcuna possibilità al figlio adottivo e non riconosciuto alla nascita di chiedere l’accesso ad informazioni non identificative sulle sue
origini o la reversibilità del segreto», a differenza di
quanto, invece, previsto nel sistema francese, scrutinato, in parte qua, nella sentenza 13 febbraio 2003,
nel “caso Odièvre”.
Ora, è agevole osservare, quanto al primo rilievo,
che il già citato art. 93 del d.lgs. n. 196 del 2003 prevede espressamente, al comma 3, la comunicabilità,
in ogni tempo (e nel termine di cento anni fissato
per il segreto), delle informazioni “non identificative” ricavabili dal certificato di assistenza al parto o
dalla cartella clinica, tuttavia ancorandola soltanto
all’osservanza, ai fini della tutela della riservatezza
della madre, delle relative «opportune cautele per
evitare che quest’ultima sia identificabile».
Resta evidente che l’apparente, quanto significativa, genericità, o elasticità, della formula «opportune cautele» sconta l’ovvia – e sia pure non insormontabile – difficoltà di determinare con esattezza
astratte regole dirette a soddisfare esigenze di segretezza variabili in ragione delle singole situazioni
concrete. Altrettanto evidente che debba, inoltre, essere assicurata la tutela del diritto alla salute del figlio, anche in relazione alle più moderne tecniche
diagnostiche basate su ricerche di tipo genetico.
Il vulnus è, dunque, rappresentato dalla irreversibilità del segreto. La quale, risultando, per le ragioni
anzidette, in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., deve
conseguentemente essere rimossa.
Restano assorbiti i motivi di censura formulati in
riferimento agli ulteriori parametri.
Sarà compito del legislatore introdurre apposite
disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale
di non voler essere nominata e, nello stesso tempo,
a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo
identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi
si è detto.
P.Q.M.
la Corte Costituzionale,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo
28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito
dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei
dati personali), nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che
assicuri la massima riservatezza – la possibilità per
il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396
(Regolamento per la revisione e la semplificazione
dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n.
127) – su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale
revoca di tale dichiarazione.
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 57
GIURISPRUDENZA
Ricorre per cassazione A, il quale formula tre motivi. Resiste con controricorso l’intimata. È stata depositata relazione ai sensi dell’art. 380bis c.p.c. Il relatore ha concluso per il rigetto del ricorso. La relazione, con il decreto di fissazione dell’adunanza, è
stata notificata alle parti e comunicata al P.M.
LA DESTINAZIONE
DEGLI ASSEGNI FAMILIARI
NELLA SEPARAZIONE
Cassazione civile, sezione I,
Sentenza 23 maggio 2013, n. 12770
Presidente Di Palma
Relatore Didone
Il coniuge affidatario dei figli minori in sede di separazione coniugale, acquista ex lege, ai sensi dell’art. 211
della L. 19 maggio 1975 n° 151, il diritto a percepire gli assegni familiari corrisposti per i medesimi figli all’altro coniuge in virtù del rapporto di lavoro di cui questi sia parte,
in aggiunta ed indipendentemente dal tipo e dall’ammontare del contributo al mantenimento della medesima prole
fissato in sede di separazione dal giudice o convenuto consensualmente, cumulandosi in ogni caso a questo.
Gli assegni familiari percepiti dal coniuge onerato del
contributo per il mantenimento del coniuge giudizialmente
o consensualmente separato, in mancanza di una previsione analoga all’art. 211 della L. 19 maggio 1975 n° 151,
spettano al lavoratore cui sono corrisposti.
Svolgimento del processo
(omissis)
1. Pronunciata con sentenza non definitiva la separazione personale dei coniugi A - B, il Tribunale
di Trieste, con sentenza dell’8/7/2011, ha provveduto sulla domanda di addebito formulata da B nei
confronti del coniuge, sull’affidamento dei figli minori, sull’assegnazione della casa familiare e sulla
domanda di attribuzione di assegno di mantenimento in favore della moglie e dei figli (di cui uno
maggiorenne non autosufficiente e tre ancora minori), determinato, rispettivamente, in € 300,00
mensili per la moglie e in € 150,00 mensili per ciascun figlio.
La Corte di appello di Trieste, provvedendo sulle
impugnazioni proposte dalle parti, ha - per quanto
ancora qui interessa - confermato le statuizioni relative all’assegno di mantenimento e, in parziale riforma della decisione, ha posto a carico del marito
«il 50% delle spese straordinarie», preventivamente
concordate.
58 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
Motivi della decisione
2. Con il primo e il secondo motivo il ricorrente
denuncia violazione di legge e vizio di motivazione.
Deduce che la sentenza impugnata è errata nella
parte in cui non prevede che gli assegni di mantenimento in favore della moglie e dei figli siano comprensivi degli assegni familiari di cui al d.p.r. n°
797/1955. Gli assegni familiari, percepiti direttamente dalla B, dovrebbero essere computati nel
quantum complessivo liquidato a carico del ricorrente. Lamenta (2° motivo) l’omessa considerazione
delle sue esigenze di vita.
2.1. «Il coniuge affidatario del figlio minorenne ha
diritto, ai sensi dell’art. 211 della legge 19 maggio
1975 n° 151, a percepire gli assegni familiari corrisposti per tale figlio all’altro coniuge in funzione di
un rapporto di lavoro subordinato di cui quest’ultimo sia parte, indipendentemente dall’ammontare
del contributo per il mantenimento del figlio fissato
in sede di separazione consensuale omologata a carico del coniuge non affidatario, salvo che sia diversamente stabilito in modo espresso negli accordi di
separazione. Gli assegni familiari per il coniuge, consensualmente o giudizialmente separato invece, in
mancanza di una previsione analoga al citato art.
211, spettano al lavoratore, cui sono corrisposti per
consentirgli di far fronte al suo obbligo di mantenimento ex artt. 143 e 156 c.c., con la conseguenza che,
se nulla al riguardo è stato pattuito dalle parti in
sede di separazione consensuale (ovvero è stato stabilito dal giudice in quella giudiziale), deve ritenersi
che nella fissazione del contributo per il mantenimento del coniuge si sia tenuto conto anche di questa particolare entrata» (Sez. I, Sentenza n° 5060 del
2/4/2003; Sez. Un., Sentenza n° 5135 del 27/11/1989).
Alla luce di tale giurisprudenza della S. C., dunque, il motivo appare manifestamente infondato
quanto all’assegno in favore dei figli e inammissibile nella parte in cui la censura è riferita anche all’assegno in favore della moglie, posto che dalla sentenza impugnata risulta che il ricorrente, in sede di
appello, aveva lamentato soltanto che l’assegno in
favore dei figli dovesse essere comprensivo degli assegni familiari e nel ricorso non risultano specificamente indicati il luogo e le modalità di devoluzione
della questione relativa agli assegni familiari percepiti per la moglie.
La censura, poi, è manifestamente infondata nella
parte in cui denuncia che la corte di merito non abbia tenuto conto, nella determinazione dell’assegno
di mantenimento, degli ulteriori oneri derivanti a
GIURISPRUDENZA
carico del ricorrente in conseguenza della nascita di
figli naturali da una successiva unione, perché, invece, la corte di merito ha valutato la circostanza e
l’ha considerata irrilevante – condividendo, sul
punto, l’analogo giudizio del tribunale – alla luce
dell’apporto economico della nuova compagna dell’obbligato. Omissis…
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate …omissis.
IL PUNTO DI VISTA
di AVV. GIANCARLO SAVI
RESPONSABILE DELLA SEZIONE DI MACERATA DELL’OSSERVATORIO
Questa pronuncia della Suprema Corte, di largo rilievo pratico, riafferma il principio per cui all’assegno di contributo perequativo al mantenimento dei
figli fissato in sede di separazione coniugale si cumulano gli assegni familiari percepiti a tale titolo
dal coniuge non affidatario, in virtù del rapporto di
lavoro di cui è parte, salva l’eventuale diversa statuizione giudiziale o la diversa condizione pattuita
in sede di separazione consensuale.
Il riferimento dell’art. 211, L.19 maggio 1975 n°
151, al “coniuge affidatario” dei figli in età minore,
come tale convivente con essi, deve intendersi
esteso al coniuge c.d. collocatario della prole in affidamento condiviso, regime imposto d’ordinario
dall’art. 155 c.c., nel tenore introdotto dalla sopravvenuta L. 8/2/2006 n° 54; difatti, tale coniuge è co-affidatario e convivente, mentre l’ipotesi dell’affidamento esclusivo di cui all’art. 155bis c.c., costituisce
una residuale eccezione.
Stando alla lettera della norma lo stesso diritto
non sembra potersi estendere al coniuge convivente
con figli che, pur avendo raggiunto la soglia della
maggiore età, non risultino ancora economicamente
autosufficienti (nei limiti d’età previsti per la conservazione del diritto alla prestazione che qui ci occupa), e quindi aventi ancora diritto al mantenimento, secondo la previsione ex artt. 147, 148,
155quinquies c.c.: evocando la norma comunque la
condizione di “affidamento” della prole (condiviso
od eccezionalmente esclusivo), appare obiettivamente riferibile al solo figlio in età minore; tuttavia, a diverso risultato può validamente giungersi
ovi si consideri l’identico fondamento del diritto del
genitore convivente con il figlio maggiorenne (sia
esso ancora non autosufficiente come in età minore), che si fa carico degli oneri quotidiani del suo
mantenimento, ad esercitare, verso l’altro genitore,
la tutela volta al conseguimento del proporzionale
contributo; infatti, trattasi di una posizione di diritto autonoma e iure proprio, il cui titolo si rinviene
nella comune responsabilità genitoriale - condivisione dell’obbligazione ex lato passivo (artt. 147 e
148, co. 1, c.c.) - e trova pregnante ragione nel munus
spettante al medesimo genitore convivente di provvedere direttamente e in modo completo e continuo,
al mantenimento, all’istruzione ed all’educazione
del figlio, pur essendo la legittimazione al suo esercizio concorrente con quella del figlio maggiorenne
in quanto titolare del diritto al proprio mantenimento per autonomo titolo (cfr., da ultimo, Cass.,
Sez. I, 19/3/2012 n° 4296, in Giur. It., 2012, 1288, con
mia notazione ed ampi riferimenti).
Recita testualmente l’art 211 della L. 19 maggio
1975 n° 151 che: “Il coniuge cui i figli sono affidati ha diritto in ogni caso a percepire gli assegni familiari per i figli, sia che ad essi abbia diritto per un suo rapporto di lavoro, sia che di essi sia titolare l’atro coniuge.”
Pertanto, il coniuge affidatario (o collocatario) dei
figli ha il diritto di percepire ex lege gli assegni familiari elargiti per loro; quindi, non ai sensi dell’art.
155, co. 2 e 4, c.c., ma direttamente in forza della previsione di cui al detto art. 211, L. n° 151/1975.
La posizione di lavoratore subordinato o comunque di lavoratore (ma anche di pensionato od altra
condizione rientrante nelle categorie aventi diritto,
tra le quali i beneficiari del trattamento di disoccupazione - in tal senso ad es., Cass., Sez. Lav.,
20/12/2005 n° 28165, in banca dati Il Foro It. -) beneficiario di assegni familiari per i figli, rivestita dal coniuge/genitore non affidatario o non collocatario in
regime di affidamento condiviso, costituisce il presupposto per l’acquisto ex lege in capo al coniuge/genitore affidatario o co-affidatario convivente con la
prole, del diritto a percepire tali assegni familiari; e
ciò, a prescindere dalla previsione, dal tipo di contributo o dal suo ammontare fissato in sede di separazione, a carico del medesimo coniuge/genitore
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 59
GIURISPRUDENZA
onerato, com’è fatto evidente dal riferimento della
norma ad un diritto che sorge “in ogni caso”.
In tale titolarità ex lege si rinviene così l’ontologica
ratio della cumulabilità degli assegni familiari con il
contributo al mantenimento dei figli fissato dal giudice o dalle parti, in sede di separazione coniugale,
ai sensi dell’art. 155 o 158 c.c.
D’altronde, i criteri che in sede di separazione personale presiedono alla regolazione del modo e della
misura con cui il coniuge non convivente o non affidatario, è chiamato a contribuire al complessivo
obbligo di mantenimento (artt. 30 Cost. e 147 c.c.)
dei figli, è determinato in proporzione alle rispettive
“sostanze e secondo la capacità di lavoro” (art. 148
c.c.), con l’ulteriore specificazione (art. 155 c.c.) della
proporzionalità al “reddito” e della considerazione
anche delle altre “risorse economiche”, di ciascun
genitore (art. 155 c.c.) - cfr. tra molteplici, Cass., Sez.
I, 15/5/2009 n° 11291, in Dir. & Giust., 2009 -, ma non
riguarda le somme già spettanti di diritto al genitore affidatario o collocatario.
Il diritto così acquisito dal coniuge/genitore convivente, è una posizione di diritto condizionata alla
permanenza nel tempo del corrispondente diritto in
capo all’altro genitore; l’indicata titolarità ex lege del
diritto in parola, essendo peraltro condizionata anche dalla separazione coniugale e quindi, dalla relativa regolamentazione giudiziale o pattizia dell’affidamento della prole, non sembra consentire
una sua qualificazione di diritto soggettivo acquistato a titolo originario. Secondo SUPPIEJ, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, Padova,
1977, I, 2, 921, la norma dispone soltanto “che la prestazione, già dovuta in base alle regole generali, venga effettuata ad un soggetto diverso da quello al quale secondo
tali norme spetterebbe”.
Secondo Trib. Genova
3/1/2006, in banca dati Platinum Utet, il coniuge/genitore avente diritto alla prestazione non può essere
chiamato a rimborsare gli assegni familiari al coniuge affidatario, ove non li abbia mai percepiti, per
aver dichiarato di non avere figli in affidamento.
Gli assegni familiari, o meglio, come vedremo infra, l’assegno per il nucleo familiare, costituisce una
prestazione assistenziale di tipo previdenziale che
compete al lavoratore (od appartenente ad altra categoria avente diritto), destinata proprio al sostentamento del nucleo familiare a suo carico, piuttosto
che rappresentare parte del trattamento stipendiale,
pur essendo elargita sotto forma di integrazione
della retribuzione (CINELLI, Diritto della previdenza sociale, Torino, 2003, 515; PROSPERETTI, voce Assegni familiari, rapporto di lavoro privato, in Enc. Giur. Treccani,
III, Roma, 1993; ORSI BATTAGLINI, voce Assegni familiari,
rapporto di lavoro pubblico, ivi; in giurisprudenza, tra
le tante, Cass., Sez. Lav., 22/11/1996 n° 10296, in banca
dati Il Foro It.); infatti gli assegni familiari, sin dall’origine, sono stati caratterizzati dalla funzione assistenziale, per sopperire ai maggiori oneri derivanti
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dai carichi di famiglia di ciascun lavoratore, con erogazione integrativa autonoma, attraverso i fondi
della specifica contribuzione, cioè in ottica composita prefigurata dagli artt. 3, 31 e 36 Cost.; la fonte
normativa si rinviene ancora nel T.U. delle norme
sugli assegni familiari, approvato con il D.P.R.
30/5/1955 n° 797, cui sono state apportate nel tempo
integrazioni e modificazioni, tra le quali, quella di
cui alla L. 13/5/1988 n° 153 (che ha introdotto il
nuovo criterio del riferimento al complessivo nucleo
familiare) ed alla L. 27/12/2006 n° 296. Giova peraltro
rinviare a RODÀ, Gli assegni familiari dopo la legge sull’affido condiviso, in Fam. Minori di Guida Dir., 2007,
fasc. 8, inserto. Sulla natura della prestazione sociale in parola, tra numerose altre, necessario il richiamo di Corte Cost. 3/4/1987 n° 98; ID., 21/7/1988
n° 851; ID., 27/7/1989 n° 458; ID., 2/2/1990 n° 42; ID.,
8/6/1992 n° 258; ID., 22/12/1995 n° 516; ID., 20/5/1999
n° 180; tutte rinvenibili nel sito ufficiale www.cortecostituzionale.it; mentre in ordine al complesso percorso di equiparazione della madre lavoratrice al padre, cfr., ex multis, Corte Cost. 30/12/1987 n° 613; ID.,
31/3/1988 n° 365; ID., 9/3/1990 n° 116; tutte ancora
ivi. Cfr. anche, GATTA, Questioni di costituzionalità della
normativa in materia di assegni familiari, in Dir. Lav.,
1991, II, 56; e AMENDOLA, Parità uomo-donna e assegni
familiari, ivi, 1981, II, 50. Opportuno sottolineare poi,
che il diritto alla percezione dell’assegno in favore
degli assicurati sorge per la sola sussistenza delle
condizioni di legge e la richiesta finalizzata ad ottenerli riveste mera funzione di avvio della procedura,
la quale sfocia in un accertamento avente natura dichiarativa; ragione per cui si trasmette agli eredi in
quanto già entrato nel patrimonio del de cuius al momento stesso in cui vengono ad esistenza le condizioni di legge (cfr., tra altre, Cass., Sez. Lav., 2/9/2008
n° 22051, in banca dati Il Foro It.); la prescrizione, fissata nel termine di anni cinque, decorre dal primo
giorno del mese successivo al momento in cui vengono ad esistenza i requisiti (cfr., Cass., Sez. Lav.,
19/10/2007 n° 21960, ivi).
Per maggiori ragguagli, v. NODARI, in Codice della famiglia a cura di SESTA, Milano, 2009, III, 4096 ss.
Invero, la giurisprudenza di legittimità si è occupata della specifica questione di cui alla pronuncia
annotata - nonostante la rilevanza che assume, ancor più evidente nelle congiunture economiche di
crisi - in sparute occasioni: i precedenti editi si individuano infatti in Cass., Sez. I, 1°/12/2011, in Giust.
Civ., 2013, 737; Cass., Sez I, 2/4/2003 n° 5060, in Giur. It.,
2003, 2011, con nota di PETRI, Doppio binario per gli assegni familiari in caso di separazione; e Cass., Sez. Un.,
27/11/1989 n° 5135, in Giust. Civ., 1990, I, 973. Ad ogni
modo, l’indirizzo è univoco e quindi ben consolidato.
La soluzione adottata, che trova nuova conferma,
si palesa in sostanza lineare e condivisibile, ma
nella giurisprudenza di merito le voci emerse non
sono risultate sempre unanimi.
GIURISPRUDENZA
Infatti, un minoritario indirizzo è giunto all’opposta soluzione, stabilendo che ove il giudice nulla abbia disposto od i coniugi stessi nulla abbiano previsto, l’assegno di contributo al mantenimento della
prole, di cui all’art. 155 c.c., deve ritenersi comprensivo degli assegni familiari percepiti dall’onerato,
escludendo così la cumulabilità degli importi, sulla
duplice considerazione che tali assegni costituiscono una voce della retribuzione dell’onerato e che
sono corrisposti proprio per consentirgli di sostenere l’onere per il mantenimento della prole; in tal
senso, App. Brescia 19/7/1990, in Giust. Civ., 1990, I,
2156.
Tra i precedenti della giurisprudenza di merito invece conformi alla pronuncia annotata, si segnalano, App. Cagliari 14/5/1993, in Rass. Giur. Sarda,
1996, 376, (precedente che peraltro estende il principio alla provvidenza familiare percepita per il coniuge svantaggiato, in dissenso con la seconda massima della pronuncia annotata, come infra); App.
Trento 9/2/2001, in Giur. Merito, 2001, 627, con nota
di VITIELLO; App. Genova 18/11/2001, in Inform. Prev.,
2002, 561; Trib. Bari 1/8/2006, in banca dati Platinum
Utet, Trib. Vallo della Lucania 7/3/2007, in Fam. Dir.,
2007, 715, con nota di NUNIN, Coniugi legalmente separati e diritto all’assegno per il nucleo familiare; Trib. Cassino 19/6/2007, in banca dati Platinum Utet; Trib. Bari
18/1/2008, in Il Merito, 2008, 7/8, 30; e Trib. Nocera Inferiore 9/10/2013, in www.ilcaso.it..
In dottrina, pur risalente, A. FINOCCHIARO, in A. e M.
FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, Milano, I, 1984, 628, afferma come “il coniuge non affidatario che si vede ridurre le proprie entrate della somma corrispondente all’ammontare degli assegni familiari non più percepiti ci
sembra che possa autoridurne - senza necessità di ricorrere al giudice - l’assegno di mantenimento dovuto per la
prole, attesa la stretta correlazione fra mancata perce-
zione degli assegni per i figli e percezione degli stessi da
parte dell’altro coniuge”.
In quest’ottica gli assegni familiari sono comunque parte della retribuzione del genitore che li percepisce, unicamente in virtù del proprio rapporto
di lavoro e quindi, fanno parte del suo “reddito”,
preso in considerazione in sede di fissazione del
contributo al mantenimento della prole ai sensi
dell’art. 155 c.c., cosicché non possono cumularsi
con questo.
Di contrario avviso, DOGLIOTTI, Separazione divorzio,
Torino, 1988, 58, secondo cui “Ove non vi sia alcuna indicazione, l’assegno non dovrebbe essere comprensivo degli assegni familiari, eventualmente percepiti dal genitore
non affidatario. Si tratta infatti di somme comunque dovute dal genitore indipendentemente dal provvedimento
del giudice, il quale peraltro potrebbe ricomprendere tali
somme entro l’assegno liquidato.”
Da segnalare come la Suprema Corte di legittimità, anche in sede penale, ha avuto occasione di
analizzare la questione, sotto il profilo della ricorrenza o meno del delitto di appropriazione indebita,
nella condotta del coniuge che distrae a proprio profitto gli assegni familiari percepiti per i figli minori
affidati all’altro coniuge, giungendo alla soluzione
affermativa; secondo Cass., sez VI pen., 1/2/1985,
Amato, in Giust. Pen., 1985, II, 724, ed in Riv. Pen., 1985,
1112, è infatti integrato tale reato, in quanto il coniuge non ha la gestione autonoma degli assegni familiari e con tale condotta sottrae le somme al vincolo sociale di scopo fissato dal sistema normativo,
individuato nell’integrazione alimentare (non constano però altri precedenti editi in punto).
In sede divorzile vigono ovviamente gli stessi criteri, in quanto la pronuncia di divorzio non rileva rispetto alla necessità di regolare parimenti l’affidamento dei figli in età minore ed in genere in ordine
ai doveri dei genitori verso i figli.
Per effetto della recente novella sulla parificazione dello status filiationis, di cui alla L. 10/12/2012
n° 219, il riferimento normativo in materia è da intendersi ad ogni figlio, qualunque sia la sua genitura, sia matrimoniale che non matrimoniale, come
indica la nuova terminologia legislativa, mutuando
invero anteriore espressione della dottrina (PALAZZO,
La Filiazione, in Trattato Dir. Civ. Comm. CICU-MESSINEOMENGONI continuato da SCHLESINGER, Milano, 2007,
239).
Giova allora fare cenno, in tema di c.d. famiglia di
fatto o comunque di relazioni familiari al di fuori del
“modello legale” fondato sul vincolo di coniugio, al
buon diritto del lavoratore agli assegni familiari anche per il figlio “non matrimoniale” riconosciuto,
siccome provvidenza che non richiede l’inserimento
del figlio in seno ad una famiglia legittima; in tal
senso, Cass., Sez. Lav., 18/6/2010 n° 14783, in Dir. Fam.
Pers., 2011, 126, ed in Fam. Pers. Succ., 2010, 827, con
nota di CORSO (la fattispecie ineriva genitore coniuottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 61
GIURISPRUDENZA
gato che aveva effettuato il riconoscimento di tre figli nati da altra donna, nelle forme di cui all’art. 254,
co. 1, c.c., e senza il ricorrere di separazione personale dalla coniuge); ma già anteriormente, Cass.,
Sez. Lav., 20/12/2000 n° 15978, in Fam. Dir., 2001, 505,
con nota di NUNIN, Sul diritto del genitore agli assegni
familiari per i figli naturali riconosciuti non conviventi;
nonché Cass., Sez. Lav., 7/4/2000 n° 4419, in Giust.
Civ., 2000, I, 2271, con nota di BAGIANTI, Sul diritto del
padre naturale a percepire gli assegni familiari per il figlio
convivente con la madre naturale, avevano chiarito che
per la corretta individuazione dell’avente diritto doveva aversi riguardo al soggetto che abitualmente
provvede al mantenimento dei figli, sicché il discrimine non è in tal caso segnato dal ricorrere o meno
della convivenza nel quotidiano; invero, la convivenza costituisce elemento di fatto su cui può fondarsi una mera presunzione della “vivenza a carico”.
Distinta ovviamente l’ipotesi in cui sussista una
statuizione giudiziale inerente l’affidamento della
prole non matrimoniale, ad esempio in esito a giudizio ex art. 317bis c.c.
In via di principio, quindi, l’assegno per il nucleo
familiare, ricorrendo unicamente il vincolo di filiazione, fermo il criterio del divieto di cumulo dello
stesso assegno in capo ad entrambi i genitori, spetta
al lavoratore, pensionato, od altro avente diritto, in
tutte le ipotesi in cui ricorre lo stato di bisogno sotteso alla tutela, siccome provvede abitualmente al
mantenimento; d’altro canto, la norma che nel 1988
innovava la previsione sugli assegni familiari, ri62 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
configurandola come assegno per il nucleo familiare
complessivamente inteso (al fine di una più accorta
tutela sociale - pur ancora limitata in pratica al
mondo del lavoro dipendente con altre poche eccezioni, piuttosto che all’universalità dei nuclei familiari - calibrata in considerazione della sommatoria
dei redditi e del numero dei soggetti a carico; in sostanza, l’importo dell’assegno varia in base all’ampiezza della famiglia ed al reddito complessivo di
questa, secondo il criterio selettivo delle necessità
familiari, per cui l’assegno decresce con il miglioramento della condizione economica, pur evincendosi
un livello sostanziale di mero riparo dalla povertà),
prendendo in considerazione una nozione di nucleo
familiare estesa; infatti, ai fini del diritto all’assegno in discussione, sono considerati, oltre al richiedente in condizione di occupazione lavorativa od altra avente diritto, in sunto essenziale, i seguenti soggetti: -il coniuge che non sia legalmente ed effettivamente separato; -i figli minorenni ed equiparati;
ai figli legittimi erano sostanzialmente già equiparati i figli oggi definiti “non matrimoniali”, ma anche quelli nati da precedente matrimonio del coniuge (sui quali era già intervenuta ad esempio,
Corte Cost. 18/2/1988 n° 181, in www.cortecostituzionale.it, ad eliminare residua discriminazione) ed
i minori in affidamento (in merito ai quali peraltro
è poi risultato dirimente l’intervento di Corte Cost.
20/5/1999 n° 180, in www.cortecostituzionale.it; cfr.
inoltre, quanto alle ipotesi di affidamento al Servizio Sociale, con collocazione abitativa presso il ge-
GIURISPRUDENZA
nitore, Cass., Sez. Lav., 6/8/2003 n° 11876, in Arch.
Civ., 2004, 190); sono inoltre equiparati i nipoti in linea retta, minori e viventi a carico dell’ascendente,
ed i nipoti in linea collaterale, se siano minori o
maggiorenni inabili purché orfani di entrambi i genitori e non abbiano conseguito il diritto alla pensione ai superstiti, o qualora siano stati affidati al
richiedente; -i figli maggiorenni ed equiparati che
siano totalmente inabili al lavoro, o quelli studenti
od apprendisti, con peculiare rilevanza dei nuclei
con più di tre figli di età inferiore ad anni 26; -i fratelli, le sorelle ed i nipoti (in linea collaterale) in età
minore o maggiorenni nelle stesse condizioni appena indicate (cfr. Corte Cost. 2/2/1990 n° 42, cit.).
Come si può notare, con questa risalente legislazione anche la famiglia c.d. allargata aveva visto un
rilevante riconoscimento.
Quanto all’ulteriore e diverso problema dei genitori aventi titolo entrambi a richiedere l’assegno per
il nucleo familiare, debbono farsi delle distinzioni:
a) ove coniugati, in costanza di armonica vita familiare, essendo la prestazione previdenziale unica
(vige il divieto di cumulo in capo ad entrambi genitori), l’individuazione di chi tra i due effettuerà la richiesta di autorizzazione alla corresponsione, sarà
riferibile all’accordo tra i coniugi, in conformità al
generale dovere di autoregolamentazione concorde
ex artt. 143, 144 c.c.; b) sopravvenuta la separazione
personale od il divorzio dei coniugi, nell’ipotesi di
affido esclusivo dei figli in età minore ovviamente è
il genitore affidatario il solo titolare del diritto all’assegno per il nucleo familiare; mentre, nell’ordinaria ipotesi di affidamento in regime condiviso,
mancando il medesimo accordo, la percezione della
prestazione verrà accordata al genitore co-affidatario con il quale il figlio risulta convivere; in tal senso
soccorre peraltro il disposto normativo generale di
cui all’art. 9 della L. 9/12/1977 n° 903, che recita: “Nel
caso di richiesta di entrambi i genitori gli assegni familiari, le aggiunte di famiglia e le maggiorazioni delle pensioni per i familiari a carico debbono essere corrisposti al
genitore con il quale il figlio convive”; c) ricorrendo invece la mera separazione di fatto dei coniugi, condizione che non produce effetti di status e può ricorrere sino a che non viene proposta la domanda di
separazione personale o vi sia una ripresa della convivenza, non sussiste pertanto neppure un provvedimento di affidamento dei figli, cosicché non può
obiettivamente operare il canone ribadito dalla Suprema Corte con la pronuncia in commento; in difetto di un accordo tra i coniugi risulta allora dirimente il medesimo art. 9, L. n° 903/1977; d) per i figli “non matrimoniali”, sempre in mancanza di una
soluzione concordata (od anche non opposta), ovvero di statuizione giudiziale inerente l’affidamento,
presentandosi l’esercizio contrastato della pretesa
da parte di entrambi i genitori parimenti aventi diritto, la soluzione può rinvenirsi nel c..d. affida-
mento ex lege (secondo le previsioni di cui agli artt.
317, co. 1, e 317bis c.c., per i figli nati fuori dal matrimonio) ed ancora nel disposto normativo di cui
all’art. 9, L. n° 903/1977; da evidenziare come la legislazione delegata ex art. 2, della L. 10/12/2012 n°
219 (schema di decreto approvato dal Governo in
data 12/7/2013, ma non ancora promulgato), non ha
inteso apportare nuove indicazioni; eppure, all’odierna equiparazione dei figli, senza eccezioni, razionale risulta far corrispondere la fissazione di un
criterio unico per l’individuazione dell’avente diritto
a percepire questa provvidenza sociale, in esatta
sintonia con il soddisfacimento del bisogno cui è destinata: ed è proprio la relazione di convivenza che
impone un’organizzazione domestica ed individua
il genitore che è obiettivamente gravato - in sintonia con la propria veste di coobbligato solidale - degli oneri per il vivere nel quotidiano dei figli.
Tutt’altra soluzione riguarda invece, l’assegno familiare percepito dal lavoratore od altro avente diritto, per il coniuge: come ribadito dalla pronuncia
in commento, qui manca obiettivamente una disposizione in qualche modo analoga a quella di cui
all’art. 211 della L. 19/5/1975 n° 151, ragione per cui
è indubitabile la titolarità della provvidenza sempre
in capo esclusivo al coniuge lavoratore onerato del
mantenimento del coniuge separato ai sensi degli
artt. 143, 156 o 158 c.c.
Questo sistema legislativo del doppio binario, invero incoerente, tanto più oggi che la provvidenza è
quantificata in relazione al complessivo nucleo familiare, ha indotto minoritaria giurisprudenza di
merito a conclusioni omologhe, sulla base del rilievo
sostanziale che identica ne risulta la ratio: secondo
App. Cagliari 14/5/1993, cit., con nota di OBINO, Brevi
osservazioni in tema di cumulabilità fra assegno di mantenimento e assegni familiari percepiti per il coniuge e per
i figli dal coniuge non affidatario, tutte le somme percepite a titolo di “assegni familiari” dal lavoratore coniuge/genitore onerato dei contributi al mantenimento, e cioè sia per la prole che per il coniuge svantaggiato, spettano di diritto a quest’ultimo (in relazione alla prole ovviamente solo ove genitore affidatario o co-affidatario convivente), cumulandosi sempre con gli assegni di contributo al mantenimento
cui il primo è obbligato, siccome fissati giudizialmente in sede di separazione personale dei coniugi,
salvo che ricorra una diversa regolamentazione,
espressa nel provvedimento giudiziale o nelle condizioni consensualmente convenute ed omologate.
Si impone ad ogni modo una conclusione: l’eventuale spettanza della provvidenza sociale dell’assegno per il nucleo familiare costituisce comunque
una risorsa economica della famiglia, cosicché si palesa imprescindibile che venga presa in considerazione espressa nella determinazione dei contributi
perequativi per la prole, come pure del contributo al
mantenimento del coniuge svantaggiato.
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APPROFONDIMENTI
LO STATUS DI FIGLIO
AVV. GERMANA BERTOLI
COORDINATORE REGIONE PIEMONTE
Lo status di figlio è l’insieme dei diritti, doveri, oneri, facoltà e
capacità di cui un soggetto è portatore nell’ambito della collettività e che gli derivano a seguito della procreazione. Detta
condizione, però, non può che acquisirsi se non in conseguenza di una condotta attiva (o in alternativa di un provvedimento giudiziario) di chi è genitore, attraverso il riconoscimento da cui scaturisce l’atto di nascita (titolarità formale
dello status di figlio) o attraverso il possesso di stato che si desume dalla condotta di chi è genitore nei confronti di chi è figlio (titolarità sostanziale dello status di figlio). Sia l’atto di nascita che il possesso di stato sono una prova dello status di figlio seppure abbiano funzione e natura differenti.
L’ATTO DI NASCITA
La formazione dell’atto di nascita è disciplinata dal D.R.P 3 novembre 2000, n. 396 - Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile.
Art. 95 D.P.R. n. 396/2000
Comma 1: «Chi intende promuovere la rettificazione di un atto dello stato civile o la ricostituzione di un atto distrutto o smarrito
o la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato, o intende opporsi a un rifiuto dell'ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o
in parte una dichiarazione o di eseguire una
trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale
nel cui circondario si trova l'ufficio dello
stato civile presso il quale è registrato l'atto
di cui si tratta o presso il quale si chiede che
sia eseguito l'adempimento»
a) Contenuto dell’atto di nascita
L’art 29, comma 2, stabilisce che l’atto di nascita contiene l’indicazione: del luogo, dell’anno, del mese, del
giorno e dell’ora della nascita del figlio; delle generalità, della cittadinanza, della residenza dei genitori; del
sesso e nome del bambino.
b) Dichiarazioni di cui viene corredato l’atto di nascita
Al contenuto proprio dell’atto di nascita, per l’attribuzione della natura di atto amministrativo, sono necessarie: la dichiarazione di nascita e l’attestazione di nascita.
La dichiarazione di nascita
La funzione di tale dichiarazione è quella di rendere nota ai terzi la nascita. Da chi è rilasciata: da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto.
Dove e quando va rilasciata: la dichiarazione di nascita può essere resa, entro dieci giorni dalla nascita,
presso il comune nel cui territorio è avvenuto il parto o nel comune di residenza dei genitori o in alternativa, entro tre giorni presso la direzione sanitaria dell’ospedale o della casa di cura in cui è avvenuta la nascita. In questi due ultimi casi, il direttore sanitario dovrà trasmetterla entro tre giorni all’ufficiale di stato
civile del comune nel cui territorio è situato il centro di nascita o, su richiesta dei genitori, al comune di residenza dei genitori. Se i genitori non risiedono nello stesso comune e salvo diverso accordo tra loro, la dichiarazione di nascita è resa nel comune di residenza della madre.
La dichiarazione resa oltre i termini previsti: se la dichiarazione di nascita è fatta oltre dieci giorni dalla nascita, il dichiarante deve indicare le ragioni del ritardo. In tal caso l’ufficiale dello stato civile procede alla formazione tardiva dell’atto di nascita e ne dà segnalazione al procuratore della Repubblica.
Nel caso in cui il dichiarante non indichi le ragioni del ritardo o non si rechi dell’ufficiale di stato civile, quest’ultimo ne riferirà al procuratore della Repubblica. In tal caso non potrà più essere ricevuta alcuna dichiarazione, neanche tardiva, e l’atto di nascita potrà essere formato esclusivamente con decreto emesso ai
sensi e per gli effetti degli artt. 95 e ss. del D.P.R. n. 396/2000.
L’attestazione di nascita
L’attestazione di nascita che è il documento che deve corredare la dichiarazione di nascita e che serve ad accertarne la verità. Cosa contiene: le generalità della puerpera, le indicazioni del comune, ospedale, casa di
cura o altro luogo ove è avvenuta la nascita, il giorno e l’ora della nascita e il sesso del bambino.
Chi la rilascia: il personale sanitario che ha assistito la madre durante il parto. Nel caso in cui la madre non
abbia avuto assistenza sanitaria, il soggetto legittimato a rendere la dichiarazione di nascita potrà, in luogo
dell’attestazione di nascita, rilasciare una dichiarazione sostitutiva.
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APPROFONDIMENTI
Le annotazioni
Le annotazioni sono una serie di fatti o atti susseguenti alla nascita. Di seguito si riportano le principali:
- i provvedimenti di adozione;
- le comunicazioni relative alla curatela e alla tutela;
- le sentenze di interdizione o di inabilitazione e quelle di revoca;
- gli atti di matrimonio e le sentenze dalle quali risulta l’esistenza del matrimonio; (vedi schede sul matrimonio civile e sul matrimonio religioso)
- le sentenze che pronunciano la nullità, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio;
- gli atti e i provvedimenti riguardanti l’acquisto, la perdita, la rinuncia o il riacquisto della - cittadinanza
italiana;
- le sentenze che dichiarano lo stato di figlio
- i provvedimenti che determinano il cambiamento o la modifica del nome e del cognome;
- gli atti di morte.
Funzione dell’atto di nascita:
In merito a quale sia la funzione dell’atto di nascita vi sono tre tesi:
- Atto di nascita quale prova legale: nel caso di contestazione della qualità di figlio, l’atto di nascita ne è la
prova.
- Atto di nascita quale elemento costitutivo dello status di figlio: lo status di figlio, insito nei fatti (titolarità
sostanziale), preesiste all’atto di nascita che avrebbe esclusivamente la funzione di attribuire efficacia legale a dati di realtà.
- Atto di nascita quale atto amministrativo di certificazione: per rendere opponibile a terzi i fatti da cui
trarre la filiazione legittima è necessaria la formazione dell’atto di nascita, con assunzione pubblica dello
status (titolarità formale). Indubbio che in quest’ultimo caso l’atto di nascita acquisisca anche la natura di
atto amministrativo con scopo di certificare i fatti e renderli pubblici.
IL POSSESSO DI STATO
È il godimento della qualità di figlio anche in mancanza dell’atto di nascita e tale possesso consente di dar
prova dello status. (art. 236 c.c.). La mancanza dell’atto di nascita può essere originaria, ossia quando l’atto
di nascita non è mai stato formato, oppure successiva quando l’atto di nascita è andato perso o distrutto.
Il possesso di stato consegue da una serie di fatti che nel loro complesso vengono a dimostrare le relazioni
di filiazione e di parentela fra una persona e la famiglia a cui l’interessato pretende di appartenere.
I requisiti
Per avere il possesso di stato di figlio è necessario:
- che il genitore abbia trattato la persona come figlio e abbia provveduto in questa qualità al mantenimento, alla educazione e al collocamento di essa;
- che la persona sia stata costantemente considerata come tale nei rapporti sociali;
- che sia stata riconosciuta in detta qualità dalla famiglia.
I predetti requisiti devono essere tra loro concorrenti in quanto devono sussistere tutti contemporaneamente (la mancanza anche solo di uno di essi non consente di attribuire il possesso di stato), persistenti in
quanto debbono presentarsi senza alcuna interruzione ed attuali, ossia presenti al momento in cui si rivendica l’esistenza del possesso di stato.
Si badi, però, che seppure si possa dar prova dell’esistenza delle elencate circostanze, tanto da potersi parlare di possesso di stato, quest’ultimo non potrà essere opponibile a terzi senza un titolo che abbia efficacia dichiarativa dello status stesso. Tale fattispecie è infatti una situazione di fatto che necessità di un accertamento/certificazione della propria esistenza ottenibile attraverso una sentenza dichiarativa.
Approfondimenti
Prima della riforma in tema di filiazione, attuata con la legge 219/2012, tra i fatti costitutivi del possesso di
stato, l’art. 237 c.c. indicava anche “che la persona abbia sempre portato il cognome del padre che essa pretende di avere”. Tale requisito è stato eliminato dall’articolo riformato. La ragione deriva dal fatto che prima
della modifica legislativa, il possesso di stato era un concetto riferito alla filiazione legittima, inserito come
era nel titolo settimo, capo primo, sezione prima del codice civile, riguardante lo “stato di figlio legittimo”.
Con l’abolizione della distinzione tra filiazione legittima e filiazione naturale, il legislatore ha correttamente
eliminato tutte quelle specificazioni che potevano valere solo per l’una o per l’altra categoria di figli. Con riguardo al cognome, per esempio, è noto che la filiazione extra-matrimoniale può comportare l’assunzione
da parte del figlio del cognome materno (riconoscimento preventivo da parte della madre). Inoltre, la riottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 65
APPROFONDIMENTI
vendicazione del possesso di stato potrebbe ben riguardare solo la madre (si pensi appunto all’ipotesi in
cui, in assenza di legame matrimoniale, non si abbia contezza delle origini paterne).
Ha subito, invece una revisione il requisito che nella versione dell’art. 237 c.c. ante riforma prevedeva: “che
il padre l’abbia trattata [la persona che rivendica lo status] come figlio e abbia provveduto in questa qualità
al mantenimento, all’educazione e al collocamento di essa”. Dall’articolo in commento, infatti è stato fatto
scomparire il riferimento al “padre” introducendo genericamente la figura di genitore. Ovvio è che la modifica è la conseguenza della parificazione tra figli legittimi e naturali che comporta la possibilità che la rivendicazione del possesso di stato sia anche nella direzione materna. Già prima della riforma, però, la visione paternocentrica del problema era contestata da parte della dottrina, la quale sottolineava come fosse
necessario che anche la madre legittima dovesse trattare l’interessato come figlio, oltre al fatto che il regime
del possesso di stato avrebbe potuto trovare applicazione anche nell’ipotesi in cui la famiglia fosse stata
composta solo dalla madre (G.M. UDA, Presunzione di paternità e prove della filiazione legittima, in Trattato di diritto di famiglia, p. 103).
“MATER SEMPER CERTA EST”: UN BROCARDO CHE NON VALE NEL NOSTRO ORDINAMENTO GIURIDICO
Nel nostro ordinamento giuridico lo stato materno non viene riconosciuto automaticamente in conseguenza
della nascita (art. 250 c.c.). Infatti:
- nel caso di donna non coniugata viene richiesto l’atto di riconoscimento (art. 250 c.c.);
- nel caso di donna coniugata questa ha il diritto di non essere nominata (art. 30 D.P.R. 396/2000).
DIRITTO della MADRE di NON ESSERE NOMINATA
L’accertamento della maternità si distingue a seconda che si
esplichi all’interno o fuori del matrimonio. Infatti, in caso di
Art. 30 D.P.R. 396/2000: «La dichiarazione
procreazione al di fuori del matrimonio la maternità verrà
di nascita è resa da uno dei genitori, da un
formalizzata con un comportamento attivo della donna, atprocuratore speciale, ovvero dal medico o
traverso l’atto di riconoscimento (art. 250 c.c.), mentre in caso
dalla ostetrica o da altra persona che ha
di procreazione nell’ambito matrimoniale la donna assumerà
assistito al parto, rispettando l’eventuale
la qualità di madre in maniera automatica, a prescindere da
volontà della madre di non essere nomiuna dichiarazione di volontà in tal senso. Ma, vi è la possibilità
nata».
di impedire la costituzione dello status di madre in caso di procreazione in ambito matrimoniale? Inizialmente tale possibilità pareva che non fosse riconosciuta alla madre coniugata,
Art. 250 c.c.: «Il figlio nato fuori del matrisia che avesse concepito un figlio con il marito sia con persona
monio può essere riconosciuto nei modi
diversa dal marito e ciò in quanto detto diritto avrebbe cozprevisti dall’art. 254 c.c. dal padre e dalla
zato con la presunzione di paternità del coniuge. Successivamadre».
mente la giurisprudenza è giunta a riconoscere alla donna coniugata il diritto di non essere nominata, ritenendo che la presunzione di paternità non opererebbe automaticamente, ma solo in conseguenza della formazione dell’atto
di nascita ove vi sia l’indicazione della madre. Dunque, qualora la donna coniugata decida di non essere
nominata, nessun atto di nascita da unione legittima si verrebbe a formare e quindi non verrebbe ad operare la presunzione di paternità.
Peraltro, successivamente alla riforma del diritto di famiglia (L. 151/1975) si è fatto un ulteriore passo avanti,
giungendo ad attribuire alla donna coniugata il diritto di riconoscere il figlio nato da una relazione extra-coniugale come figlio proprio e non del marito, e ciò grazie all’abrogazione del divieto di riconoscimento dei
figli adulterini (art. 252 c.c.).
Il fermento dottrinale e giurisprudenziale ha evidenziato l’esigenza di un dettato normativo preciso sul
punto, finalmente concretizzatosi nell’art. 30 del D.P.R. 396/2000 che ha introdotto espressamente nel nostro
sistema legislativo il diritto della donna coniugata a non essere nominata nell’atto di nascita.
I casi
Vediamo le differenti casistiche che possono presentarsi:
Donna coniugata che abbia concepito un figlio in costanza di matrimonio, ma con persona diversa dal marito.
1) Viene riconosciuto alla donna coniugata il diritto di non essere nominata: in questo caso il padre biologico potrà provvedere al riconoscimento del figlio.
2) Viene riconosciuto alla donna coniugata il diritto di riconoscere il figlio come concepito con persona differente dal marito: in questo caso il marito non verrà individuato come padre e non avrà interesse a dar
corso all’azione di disconoscimento di paternità.
66 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
APPROFONDIMENTI
Donna coniugata che abbia concepito un figlio in costanza di matrimonio con il marito.
1) Il figlio acquisisce la qualità di figlio nato in costanza di matrimonio con operatività della presunzione di
paternità in favore del marito;
2) Diritto della madre di non essere nominata: in questo caso si sono create due differenti tesi dottrinali:
2) a) la donna coniugata che abbia concepito un figlio con il marito non ha il diritto di non essere nominata.
Ciò in quanto si creerebbe una disparità di trattamento tra padre e madre. Infatti, consentendo alla
donna coniugata il diritto di non essere nominata nell’atto di nascita del figlio concepito con il marito,
si attribuirebbe solo a lei il potere di determinare lo status del figlio e non anche al marito che diverrebbe
padre automaticamente con la dichiarazione della maternità della moglie.
2) b) La donna coniugata, al pari della donna non coniugata, ha il diritto di non essere nominata nell’atto di
nascita. Tale tesi si basa sul dettato letterale dell’art. 30 D.P.R. 396/2000 nel quale non viene fatta alcuna
distinzione, parlandosi di madre a prescindere dallo status di coniugata o meno.
2) b) Questa seconda tesi, a parere di scrive, è quella da condividere, soprattutto alla luce della recente legge
219/2012 che ha eliminato le differenze tra figli legittimi e figli naturali. Non sarebbe, infatti, compatibile con la nuova legge mantenere una distinzione interpretativa nella formazione dello stato materno
tra filiazione in ambito matrimoniale e filiazione extra-matrimoniale. Non accettando la possibilità,
per la donna coniugata che abbia concepito un figlio con il marito, di non essere nominata, la maternità in costanza di matrimonio verrebbe dichiarata a prescindere da qualsiasi manifestazione di volontà
della donna, contrariamente a quanto accade per l’imputazione della maternità al di fuori del matrimonio, laddove è necessario un atto di impulso come il riconoscimento (art. 250 c.c.).
Approfondimenti
Può la donna che abbia dichiarato di non essere nominata
nell’atto di nascita procedere successivamente al riconoscimento?
L’art. 30 del D.P.R. n. 396/2000 prevede per la madre il diritto di
non essere nominata nell’atto di nascita. Ciò, però, non comporta la rinuncia al riconoscimento, che deve considerarsi un
diritto fondamentale. Peraltro, se il legislatore avesse inteso
far discendere dal diritto della donna a non essere nominata
nell’atto di nascita la rinuncia al riconoscimento ed ulteriormente la sua irrevocabilità, lo avrebbe previsto come ha fatto
per il riconoscimento con l’art. 256 c.c.
L’unica situazione in cui la donna che abbia esercitato il diritto
all’anonimato si ha quando si sia istaurato un procedimento
di adottabilità per effetto della preclusione assoluta dell’art.
27 l. 184/1983.
Art. 28 legge 183/1984
Comma 4: «Le informazioni concernenti
l'identità dei genitori biologici possono essere fornite ai genitori adottivi, quali esercenti la potestà dei genitori, su autorizzazione del tribunale per i minorenni, solo
se sussistono gravi e comprovati motivi. Il
tribunale accerta che l'informazione sia
preceduta e accompagnata da adeguata
preparazione e assistenza del minore. Le informazioni possono essere fornite anche al
responsabile di una struttura ospedaliera o
di un presidio sanitario, ove ricorrano i presupposti della necessità e della urgenza e
vi sia grave pericolo per la salute del minore».
Comma 5: «L'adottato, raggiunta l'età di
venticinque anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l'identità dei propri genitori biologici. Può
farlo anche raggiunta la maggiore età, se
sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. L'istanza
deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza».
Comma 8: «Fatto salvo quanto previsto dai
commi precedenti, l'autorizzazione non è
richiesta per l'adottato maggiore di età
quando i genitori adottivi sono deceduti o
divenuti irreperibili»
IL CONTEMPERAMENTO TRA IL DIRITTO DELLA MADRE ALL’ANONIMANTO E IL DIRITTO DEL FIGLIO ALLA CONOSCENZA DELLE PROPRIE ORIGINI
L’art. 28, comma 7 della legge n. 184/1983 (legge sull’adozione), non consente l’accesso alle informazioni sulle origini
quando la madre abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1 del D.P.R. n. 396
del 2000 (decreto sull’ordinamento dello stato civile).
Peraltro, tale restrizione è coerente con quanto stabilito dal
Codice sulla Privacy il quale all’art. 93, comma 2, stabilisce
che: «Il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica,
ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile
la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata
avvalendosi della facoltà di cui all’articolo 30, comma 1 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396,
possono essere rilasciati in copia integrale a chi via abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento».
Si badi che l’art. 28 della legge 184/1983 ha subito un’importante modifica ai sensi della legge n. 149/2001
nella parte in cui prevedeva addirittura il segreto sull’adozione anche nei rapporti tra figlio adottivo e geniottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 67
APPROFONDIMENTI
tori adottivi. Con la riforma del 2001 il legislatore ha ritenuto di dare rilevanza al diritto all’informazione, considerandolo in caso di adozione come un diritto alla personalità, ossia una garanzia per l’equilibrio psicologico dell’adottato.
Ciò però non è stato sufficiente per scalfire il diritto della madre a mantenere l’anonimato. Sul punto si è
espressa anche la Corte Costituzionale (sentenza 425/2005) privilegiando il diritto della madre all’anonimato, ritenendo che ciò sia necessario per la protezione del diritto alla vita di colui che deve nascere e della
salute della donna partoriente che, certa di poter conservare l’anonimato, verrà allontanata dall’idea dell’interruzione di gravidanza e stimolata ad avvalersi di personale sanitario idoneo.
Approfondimenti
Sin quanto l’adottato sia minore di età, il diritto alle informazioni sulle sue origini biologiche è dei genitori
adottivi che dovranno rivolgersi al Tribunale per i minorenni della residenza del figlio. Tale richiesta potrà
trovare accoglimento esclusivamente nel caso in cui ricorrano gravi e comprovati motivi e nella misura in
cui tale conoscenza sia funzionale allo sviluppo pieno della
personalità del minore.
Raggiunta la maggiore età, l’adottato potrà rivolgersi direttaArt. 28 legge 184/1983
mente al Tribunale per i minorenni al fine di avere l’autorizcomma 7: «L'accesso alle informazioni non
zazione per avere accesso alle informazioni circa le proprie
è consentito nei confronti della madre che
origini biologiche, ma ciò solo per gravi e comprovati motivi
abbia dichiarato alla nascita di non volere
attinenti alla sua salute psico-fisica. Raggiunta l’età di ventiessere nominata ai sensi dell'articolo 30,
cinque anni, l’adottato potrà accedere alle suddette informacomma 1, del decreto del Presidente della
zioni senza motivazione. In ogni caso, il maggiorenne non avrà
Repubblica 3 novembre 2000, n. 396».
necessità di autorizzazione quando i genitori adottivi siano
deceduti o divenuti irreperibili.
I casi
Una donna, abbandonata alla nascita dalla madre e affidata con provvedimento di affiliazione ad una coppia di coniugi, si rivolge all’ufficiale di stato civile per avere informazioni sulle proprie origini. In tale occasione viene a conoscenza che la madre biologica si era avvalsa del diritto di non essere nominata nell’atto
di nascita. Per tale ragione l’interessata si rivolge al Tribunale per i minorenni per ottenere informazioni
sulle proprie origini. Il Tribunale per i minorenni respinge la richiesta, ritenendo che in applicazione dell’art.
28, comma 7 della legge n. 184/1983 non sia consentito l’accesso alle informazioni richieste quando la madre abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30 del D.P.R. N. 396/2000. Tale
decisione viene successivamente impugnata, ma confermata dal giudice di secondo grado. L’interessata
propone ricorso alla Corte europea sui diritti dell’uomo. Detto organo, con sentenza del 25 settembre del
2012 (causa Godelli vs Italia) ravvisa da parte dell’Italia la violazione dell’art. 8 della Convezione europea sui
diritti dell’uomo, posto che sistema giuridico italiano vi è una tutela del diritto all’anonimato della madre
incondizionato senza che sia stato fatto alcun tentativo di mantenere un equilibrio tra i diritti e gli interessi
concorrenti, oltrepassando il margine di discrezionalità che la disciplina europea sul punto attribuisce agli
stati membri.
Esperienze europee
In Francia, nel 2003, è intervenuta una modifica legislativa che ha dato vita ad un organo composto da magistrati, rappresentanti delle associazioni e di professionisti con esperienza nel settore delle adozioni, al
quale il figlio adottato può rivolgersi per rimuovere, con l’accordo della madre, il segreto sulle proprie origini. In altre parole la madre che abbia dichiarato al momento del parto di non voler essere nominata, viene
chiamata dal detto organo per riconfermare o revocare la propria volontà di mantenere segreta la propria
identità, introducendosi così la possibilità della reversibilità del segreto.
IL REATO DI ALTERAZIONE DI STATO E DI FALSE DICHIARAZIONI AL PUBBLICO UFFICIALE
Il reato di alterazione di stato, di cui all’art. 567 comma 2 c.p.
consiste nell’alterazione dello status filiationis (vale a dire lo
«spostamento» del naturale rapporto di procreazione) che avviene quando, nella formazione dell’atto di nascita del neonato, s’inserisce un dato non veritiero sull’identità, sulla discendenza, sulla qualità di figlio legittimo o naturale, sul sesso
ecc., mediante false certificazioni, false attestazioni o altre fal68 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
Alterazione di stato
Art. 567, comma 2: «Si applica la reclusione da cinque a quindici anni a chiunque,
nella formazione di un atto di nascita, altera lo stato civile di un neonato, mediante
false certificazioni, false attestazioni o altre
falsità».
APPROFONDIMENTI
sità. La qualità di figlio, infatti, compete non già per un atto di autonomia privata del genitore, il quale non
può disporre dello stato familiare del bambino, ma in quanto ricorra nella realtà il rapporto naturale di discendenza. Per la integrazione del delitto, inoltre, è sufficiente il dolo generico, cioè la contemporanea presenza in chi lo commette della consapevolezza della falsità della dichiarazione, della volontà di effettuarla
e della previsione dell’evento di attribuire al neonato uno stato civile diverso da quello spettantegli secondo
natura. La falsità può concernere sia le dichiarazioni fatte ai medici o alle ostetriche nell’esercizio del particolare potere certificante loro riconosciuto, sia le dichiarazioni rese all’ufficiale dello stato civile dal padre,
dalla madre o dalla persona che ha assistito al parto.
È invece esclusa l’alterazione di stato nel caso del figlio di donna coniugata che viene denunciato come figlio di ignoti oppure di donna che non intende essere nominata.
I casi
- Tizio coniugato con Caia, dichiara falsamente - in sede di formazione dell’atto di nascita - la sua paternità
naturale del piccolo Mevio, quale frutto di una relazione extraconiugale con una non meglio identificata donna che al
momento del parto avrebbe dichiarato di volersi avvalere del
Falsa attestazione o dichiarazione a un
diritto di non essere nominata. In questo caso si è ritenuto inpubblico ufficiale sulla identità o su qualità
tegrato il reato di alterazione di stato commesso dal marito
personali proprie o di altri.
in concorso con la moglie che avrebbe poi chiesto l’adozione
del neonato medesimo, ai sensi dell’art. 44 lett. b), della legge
Art. 495 c.p.: «Chiunque dichiara o attesta
n. 184 del 1983 (Cass. pen., Sez. VI, 12/02/2003).
falsamente al pubblico ufficiale [c.p. 357]
- Mevia coniugata con Sempronio dichiara all’ufficiale dello
l'identità, lo stato o altre qualità della prostato civile che il figlio è del marito dal quale viveva sepapria o dell'altrui persona è punito con la
rata e con il quale aveva in corso giudizio rotale di annullareclusione da uno a sei anni[c.p. 29].
mento del matrimonio, pur sapendo che il bambino era
La reclusione non è inferiore a due anni:
prole di altra persona. In tale condotta è stato ravvisato il
1) se si tratta di dichiarazioni in atti dello
reato di alterazione di stato (Cass. pen., Sez. VI, 03/11/1989,
stato civile.
n. 15039).
- Caio procede al riconoscimento, con atto distinto da quello di
[omissis]
nascita, del figlio naturale della moglie pur essendo consapevole della paternità di un terzo. In questo caso il reato che
si ravvisa non è quello di alterazione di stato ma di falsa dichiarazione a pubblico ufficiale sulla qualità personali di altri, reato di cui all’art. dell’art. 495, comma 3, c.p..
Approfondimenti
Al fine di evitare che il diritto della madre di non essere nominata nell’atto di nascita possa essere utilizzato come espediente per eludere le norme in materia di adozione con il riconoscimento da parte di chi si
dichiari padre seppur coniugato con altra donna (che potrebbe procedere successivamente alla richiesta di
adozione del figlio del coniuge) la legge 183/1984 al suo art. 74 comma 1 prevede che in caso di riconoscimento da parte di persona coniugata di un figlio naturale non riconosciuto dall’altro genitore, gli ufficiali di
stato civile trasmettano immediata comunicazione di tale riconoscimento al competente tribunale per i minorenni. Il tribunale dei minorenni provvederà ad effettuare i necessari accertamenti per verificarne la veridicità previa nomina di un curatore speciale del minore. Quest’ultimo, nel caso in cui si dovesse accertare
la non corrispondenza a verità della paternità dichiarata nell’atto di nascita, potrà avanzare, nell’interesse
del minore un’azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità.
AZIONE DI CONTESTAZIONE DELLO STATO DI FIGLIO
Prima della legge 219/2012 l’azione di contestazione doveva intendersi riferita esclusivamente alla filiazione
legittima, ove l’art. 248 c.c. rubricato come “Legittimazione all’azione di contestazione della legittimità. Imprescrittibilità” prevedeva che: “l’azione per contestare la legittimità spetta a chi dall’atto di nascita del figlio risulti
suo genitore e a chiunque vi abbia interesse. L’azione è imprescrittibile. Quando l’azione è proposta nei confronti di persone premorte o minori o altrimenti incapaci si osservano le disposizioni dell’articolo precedente1. Nel giudizio devono
essere chiamati entrambi i genitori”. Il decreto legislativo attuativo della legge 219/2012 ha titolato l’art. 248 c.c.
“Legittimazione dell’azione di contestazione dello stato di figlio. Imprescrittibilità”, eliminando il riferimento alla
legittimità ed introducendo un’azione di stato che pare riguardare sia i figli nati all’interno del matrimonio
1
L’art. 245 c.c. prevede la sospensione della decorrenza del termine sino a quando dura lo stato di incapacità.
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 69
APPROFONDIMENTI
che al di fuori di esso. Si utilizza il condizionale, però, in quanto il corpo della norma non è stato modificato,
posto che continua a parlarsi di “azione per contestare la legittimità” con un’evidente disarmonia tra contenuti
e titolo.
Va evidenziato primariamente come l’azione di contestazione dello stato di figlio possa essere esercitata in
tutti i casi in cui venga posto in dubbio uno degli elementi che danno luogo alla filiazione (ad esempio nel
caso in cui il figlio non sia stato partorito dalla donna indicata come madre nell’atto di nascita o nel caso di
supposizione di parto), ad esclusione, però, della contestazione di paternità. Infatti, in quest’ultimo caso è
prevista un’apposita azione di stato detta “azione di disconoscimento di paternità” prevista dall’art. 243 bis
c.c. dalla legge delega e disciplinata precedentemente alla riforma dall’art. 244 c.c. e di cui si tratterà nel capitolo a seguire. Soggetti legittimati ad esperire l’azione: chi dall’atto di nascita risulti genitore e da chiunque vi abbia interesse. L’interesse (che si badi deve essere dimostrato solo da chi non sia genitore) può essere di natura patrimoniale (ad esempio può avere interesse alla contestazione di figlio un coerede) o di tipo
morale (la volontà di individuare con correttezza la composizione familiare). L’azione è imprescrittibile.
Competente è il Tribunale ordinario che, nel caso in cui il figlio sia minore, provvede alla nomina di un curatore speciale. La sentenza verrà annotata in calce all’atto di nascita.
AZIONE DI RETTIFICAZIONE
Si tratta di un’azione volta a modificare un atto esistente nei registri di stato civile o ad inserire un atto che
sia stato omesso o a rinnovare un atto smarrito o distrutto (art. 454 c.c.). In altre parole ha come scopo quello
di porre rimedio ad un errore materiale o ad un situazione di fatto. Differisce rispetto all’azione di contestazione dello stato in quanto in quest’ultimo caso l’azione è volta a determinare un effetto reale.
AZIONE DI RECLAMO DELLO STATO DI FIGLIO
Speculare all’azione di contestazione dello stato di figlio è l’azione di reclamo dello stato di figlio che ha
come obiettivo quello di costituire lo status filiationis.
Tale rimedio è disciplinato dall’art. 249 c.c. anch’esso oggetto del decreto legislativo attuativo dei contenuti
della legge 219/2012. Prima della legge di riforma detto articolo era rubricato “Reclamo della legittimità”. Il decreto attuativo prevede una titolazione che elimina la distinzione tra filiazione legittima e naturale indicando “Legittimazione all’azione di reclamo dello stato di figlio. Imprescrittibilità”. Tale azione viene esercitata
quando mancano l’atto di nascita e il possesso di stato. Legittimazione attiva: l’azione spetta al figlio. Nel
caso di figlio minore, l’azione può essere esercitata da un curatore speciale nominato dal Giudice tutelare
ai sensi dell’art. 78 c.p.c. seppure vi sia chi ritenga che l’azione possa essere esercitata dal genitore del minore e che il curatore speciale, in caso di accertato conflitto di interessi, debba essere nominato dal giudice
innanzi al quale l’azione è esercitata. Nel caso in cui il figlio sia morto in minore età o nei cinque anni successivi alla maggiore età, l’azione spetta ai suoi eredi. La limitazione dei cinque anni pone in evidenza come
il legislatore abbia voluto limitare l’iniziativa degli eredi esclusivamente all’ipotesi in cui si possa presumere che il mancato esercizio dell’azione da parte del figlio sia stata esclusivamente la conseguenza di
un’impossibilità di maturare consapevolmente la decisione, impedendone l’esercizio da parte di terzi che
sia in contrasto con la sua volontà. Legittimazione passiva: legittimati passivi sono i genitori che debbono
essere entrambi chiamati ed in loro mancanza gli eredi. Prova: il decreto legislativo attuativo della L. 219/2012
prevede che la prova della filiazione possa essere data con ogni mezzo, modificando l’art. 241 c.c. e abrogando
gli artt. 242 e 243 c.c. che prevedevano la prova per testimoni e la prova scritta.
70 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
APPROFONDIMENTI
LA SUCCESSIONE DEI FIGLI NATI FUORI
DAL MATRIMONIO DOPO LA LEGGE 219/2012
ANTONELLA MOLICA e BIANCA SANTORO
AVVOCATI DEL FORO DI MESSINA
1. Premessa. La nuova formulazione dell’art. 315 c.c.: dalla pluralità all’unicità dello status filiationis.
Con la legge delega n. 219/2012, “Disposizioni sul riconoscimento dei figli naturali”, il Parlamento ha finalmente portato a compimento un lungo e travagliato iter che ha avuto inizio ancor prima della riforma del
diritto di famiglia del 1975 e che ha rappresentato una operazione in primo luogo culturale piuttosto che giuridica, attraverso la proclamazione, nel nuovo testo dell’art. 315 c.c., della unicità dello status filiationis.
La riforma ha avuto il pregio di intervenire opportunamente in un momento storico di grande complessità
del tessuto familiare, in cui al modello fondato sul matrimonio si affiancano altri e sempre più numerosi modelli di famiglie ricomposte o fondate sulla convivenza anche fra persone dello stesso sesso, ed in cui la
stessa nozione di filiazione si è ampliata, vedendo affiancarsi a quella biologica ed adottiva, quella artificiale.
Appare evidente, dunque, che il valore aggiunto di tale intervento riformatore è stato quello di dare piena e
concreta attuazione al principio di uguaglianza nell’ambito del rapporto familiare, in linea con i principi
fondamentali sanciti dagli artt. 2, 3 e 30 della Carta costituzionale, disancorando una volta per tutte lo status filiationis dallo status familiae, senza tuttavia causare un “appiattimento indifferenziato di tutte le forme
di comunità familiare nel modello della famiglia fondata sul matrimonio1” e, tantomeno, senza costituire una
“minaccia” alla famiglia “tradizionale”2. Sganciando l’attribuzione dei diritti dei figli da ogni profilo inerente
l’ambito familiare di appartenenza, è stato altresì evitato il rischio che si potesse confondere il problema della
tutela dei diritti dei figli con quello del riconoscimento delle unioni parafamiliari diverse dal modello della
famiglia fondata sul matrimonio. Sancendo, infatti, che “tutti i figli hanno lo stesso status giuridico” e, dunque,
cancellando dal linguaggio normativo quella che è stata definita la “terminologia della diversità”3, è stato
tolto agli stati il loro significato di “condizione sociale” dell’individuo, esaltandone, invece, la condizione di
“persona umana”4, e ciò in quanto “la famiglia si pone in funzione della persona”5.
Come è stato brillantemente osservato da autorevole dottrina, la novella ha rappresentato una “risposta
etica all’ingiustizia dei rapporti familiari”6: mediante il riconoscimento della parità dei figli, l’ordinamento
ha finalmente attribuito loro, quali esseri umani, parità di diritti e doveri, sin dalla nascita ed a prescindere
dalla condizione della famiglia d’origine o dei genitori.
Grazie alla spinta della dottrina, della giurisprudenza di legittimità e del Giudice delle leggi7 nonché in forza
della necessità di adeguare la normativa nazionale al contesto europeo - all’interno del quale la Corte europea di Strasburgo aveva già da lungo tempo raggiunto la conquista della unicità dello status di figlio anche in ordine alla equiparazione dei diritti successori dei figli naturali8 e ciò alla luce degli artt. 8 (posto a tutela della vita privata e familiare) e 14 (che sancisce il divieto di qualsiasi discriminazione) della CEDU - ed
internazionale - in attuazione della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e dell’art. 21 della Carta
di Nizza (che vieta ogni forma di discriminazione fondata sulla nascita) -, il legislatore ha radicalmente mutato la prospettiva inerente la condizione del figlio, eliminando ogni aspetto discriminatorio lesivo della sua
dignità e fonte di grande ingiustizia, ritenuto che andava a colpire la persona per un fatto a cui la stessa era
estranea, imputandogli una colpa connessa ad eventi anteriori alla sua nascita.
La Legge delega 219/2012 riconoscendo piena tutela alla filiazione nata fuori dal matrimonio ha, quindi, contribuito a realizzare un passo, ormai dovuto, di grande civiltà giuridica9.
2. Assetti delegati, disposizioni transitorie ed entrata in vigore delle nuove norme.
Venendo, dunque, a trattare dell’ambito di operatività concreta delle innovazioni introdotte sotto il profilo
sostanziale, occorre precisare che è stato demandato al Governo il compito di revisionare le disposizioni vigenti in materia di filiazione in modo da adeguarle al mutato panorama normativo e da eliminare ogni residua discriminazione tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori dal matrimonio, compito che andrà portato a termine entro la data del 1 gennaio 2014.
Fra gli assetti delegati vi è quello relativo alla disciplina delle successioni e delle donazioni, il cui adeguamento al principio di unicità dello status di figlio dovrà avere effetti anche sulle azioni e sui giudizi pendenti
alla data di entrata in vigore del decreto, e ciò anche nell’ipotesi in cui parte di tali giudizi sia un discendente
del figlio nato fuori del matrimonio che voglia fare valere i diritti successori del de cuius nei confronti dei parenti del defunto, rispetto ai quali, anteriormente alla modifica dell’art. 74 c.c., non era riconosciuto alcun
vincolo di parentela.
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 71
APPROFONDIMENTI
Orbene, proprio avendo riguardo ai rapporti successori, differenti e contrapposti orientamenti interpretativi potrebbero venire a crearsi in merito alla immediata vigenza o meno delle modifiche introdotte dalla novella del 2012. Invero, atteso che l’art. 2, I c., lett. l) della legge 219 delega al Governo “l’adeguamento della
disciplina delle successioni”, si potrebbe argomentare che le modifiche alla successione non siano ancora
vigenti, non discendendo in via diretta dal nuovo testo dell’art. 74 c.c., ma che lo diventeranno una volta emanati i decreti delegati. È chiaro che si tratta di una visione un po’ forzata che difficilmente potrà incontrare
il favore della dottrina ed ancor meno quello della giurisprudenza, e ciò in considerazione del fatto che l’art.
74 c.c. deve intendersi norma immediatamente vigente, con tutte le conseguenze del caso, fra cui, in primis,
l’abrogazione implicita o virtuale di ciascuna norma basata sulla distinzione tra parenti legittimi e naturali.
Di gran lunga più condivisibile appare, invece, una visione che, nella prospettiva della raggiunta e proclamata
unicità dello status filiationis, reputi ormai superate le passate discriminazioni fondate sui concetti di filiazione e parentela naturali, individuando nella delega uno strumento fondamentale atto a sanare le discrepanze tra nuove e vecchie successioni, avuto riguardo ai giudizi pendenti, e ciò allo scopo di evitare l’insorgere di profili di incostituzionalità10.
3. Effetti sulla successione dei figli: come cambiano le norme.
Per esaminare gli effetti che le modifiche normative hanno ed avranno sulla successione dei figli nati fuori
dal matrimonio (e, di riflesso, per i figli nati nel matrimonio, che “perdono” quella posizione di privilegio
non più giustificabile e non più coperta dall’interpretazione delle norme costituzionali), è doveroso partire
dal nuovo art. 315 c.c., il cui testo precedente è stato ampliato ed affidato al successivo art. 315 bis c.c.
Art. 315
Stato giuridico della filiazione
I. Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico.(1)
(1) Articolo sostituito dall’art. 1 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 con effetto dal 1 gennaio 2013. L’articolo sostituito così
disponeva: “Art. 315 (Doveri del figlio verso i genitori) I. Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie
sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa.”
Questo “super-principio” è stato seguito nella redazione dello schema di decreto legislativo approvato dal
Consiglio dei Ministri il 12.07.2013, in sede di esame preliminare.
In attuazione della delega contenuta nella legge 219/2012 si modificano, nel senso specificato, anche le
norme in materia di successione e donazione, dando così attuazione all’art. 2, comma primo, lettera l) della
medesima legge.
La riforma, che arriva nel nostro paese nel 2012 (e dispiega i sui effetti dall’inizio del 2013), si conforma, tra
l’altro, alla nozione di filiazione via via formatasi in Europa.
Interessante è il riferimento allo sganciamento dello status di figlio dalla condizione dei genitori espressamente previsto anche nel progetto di raccomandazione del Consiglio d’Europa del 201211.
Nell’Explanatory Memorandum posto in appendice al Draft Recommendation si precisa, infatti, che il detto
sganciamento evita che l’attribuzione di determinati diritti ai figli sia strettamente connessa al previo riconoscimento delle varie unioni parafamiliari diverse dalla famiglia fondata sul matrimonio, come, tra le altre, le tanto discusse unioni tra persone dello stesso sesso12.
Prima di passare all’esame di alcune delle norme portatrici delle modifiche in materia di successione dei figli naturali, è necessario precisare che gli artt. 536, 538, 544, 565, 573, 580, 581, 582, 583, 594, 737 e 804 sono
stati solo oggetto dell’adeguamento linguistico imposto dall’art. 2, lett. a) della legge 219/2012 («a) sostituzione,
in tutta la legislazione vigente, dei riferimenti ai «figli legittimi» e ai «figli naturali» con riferimenti ai «figli», salvo l’utilizzo delle denominazioni di «figli nati nel matrimonio» o di «figli nati fuori del matrimonio» quando si tratta di disposizioni a essi specificamente relative»).
A rigore, però, già l’ultimo comma dell’art. 1 della legge 219/2012 ha disposto che nel codice civile, le parole:
«figli legittimi» e «figli naturali», ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: «figli», con effetto dal 1
gennaio 2013. Pertanto, già da tale data le norme in parola risultavano modificate per adeguamento al principio dell’unicità dello status filiationis (art. 315 c.c.).
Gli artt. 578 (Successione dei genitori al figlio naturale) e 579 (Concorso del coniuge e dei genitori sempre di figlio naturale) c.c. vengono espressamente abrogati dall’art. 106 dello schema di decreto legislativo.
A ben vedere, anche le dette norme potrebbero considerarsi implicitamente abrogate a partire dal giorno 1
gennaio 2013, vista la parificazione della posizione dei figli nati fuori dal matrimonio a quella dei figli nati
nel matrimonio.
72 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
APPROFONDIMENTI
Anche la norma contenuta nell’art. 577 c.c. (Successione del figlio naturale all’ascendente legittimo immediato del
suo genitore) dovrebbe essere aggiunta all’elenco delle abrogazioni di cui al citato art. 106 dello schema di decreto legislativo, ma tale articolo del codice civile, al momento, non è oggetto di alcuna modifica espressa.
L’art. 715 c.c., infine, viene modificato semplicemente sostituendo alle parole «sulla legittimità o sulla filiazione naturale» le parole «sulla filiazione».
Le norme esaminate a seguire, invece, sono state oggetto di interventi più significativi di adeguamento al
principio dell’unicità dello stato di figlio ed alle novità introdotte dalla legge 219/2012, sempre stando al testo dello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri il 12.07.2013 ed ora, dopo il recente parere favorevole delle Commissioni Giustizia della Camera e del Senato, rientrato al Consiglio dei
Ministri per l’approvazione definitiva e quindi, de iure condendo.
Per semplicità espositiva, si segue l’ordine numerico progressivo che gli articoli modificati hanno nel codice
civile.
Art. 448-bis
Cessazione per decadenza dell'avente diritto dalla
potestà sui figli
I. Il figlio, anche adottivo, e, in sua mancanza, i
discendenti prossimi non sono tenuti all'adempimento dell'obbligo di prestare gli alimenti al genitore nei confronti del quale èstata
pronunciata la decadenza dalla potestà e, per i
fatti che non integrano i casi di indegnità di cui
all'articolo 463, possono escluderlo dalla successione.
Art. 448-bis
Cessazione per decadenza dell'avente diritto dalla
responsabilità genitoriale sui figli
I. Il figlio, anche adottivo, e, in sua mancanza, i
discendenti prossimi non sono tenuti all'adempimento dell'obbligo di prestare gli alimenti al genitore nei confronti del quale è stata
pronunciata la decadenza dalla responsabilità
genitoriale e, per i fatti che non integrano i casi
di indegnità di cui all'articolo 463, possono
escluderlo dalla successione.
(1) Articolo introdotto dall'art. 1 della legge 10 dicembre
2012, n. 219 con effetto dal 1 gennaio 2013.
La norma introdotta dalla legge 219/2012 e ritoccata dallo schema di decreto legislativo indicato, sebbene non
sia inserita nel libro II, dedicato alle successioni, merita un breve cenno per due ragioni.
La prima è la previsione della dispensa dall’obbligo di prestazione degli alimenti al genitore decaduto dalla
potestà e della possibilità di esclusione dalla successione per i fatti che non integrino i casi di indegnità previsti dall’art. 463 c.c, posto che gli ascendenti, se in vita, sono eredi legittimari.
La decadenza dalla potestà segue come sanzione all’inaffidabilità del genitore ed alla sua incapacità a curare gli interessi del figlio, nelle ipotesi di grave inadempimento ai doveri (o, meglio, alle responsabilità) genitoriali, con conseguente grave danno per il figlio.
Con la novella si pone rimedio ad una lacuna dell’ordinamento, che nulla disponeva in proposito.
La seconda ragione è la sostituzione del termine «potestà» con il termine «responsabilità genitoriale», in linea con l’attenzione data alla disciplina unitaria della responsabilità genitoriale.
Art. 480
Prescrizione
I. Il diritto di accettare l'eredità si prescrive in
dieci anni.
II. Il termine decorre dal giorno dell'apertura
della successione e, in caso d'istituzione condizionale, dal giorno in cui si verifica la condizione.
III. Il termine non corre per i chiamati ulteriori,
se vi è stata accettazione da parte di precedenti
chiamati e successivamente il loro acquisto
ereditario è venuto meno.
Art. 480
Prescrizione
I. Il diritto di accettare l'eredità si prescrive in
dieci anni.
II. Il termine decorre dal giorno dell'apertura
della successione e, in caso d'istituzione condizionale, dal giorno in cui si verifica la condizione. In caso di accertamento giudiziale della
filiazione il termine decorre dal passaggio in
giudicato della sentenza che accerta la filiazione stessa.
III. Il termine non corre per i chiamati ulteriori,
se vi è stata accettazione da parte di precedenti
chiamati e successivamente il loro acquisto
ereditario è venuto meno.
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 73
APPROFONDIMENTI
L’art. 480 c.c. è oggetto di modifica da parte del richiamato schema di decreto legislativo, il quale, con l’art.
69 inserisce un ulteriore periodo al secondo comma ed esattamente dopo la parola “condizione” è aggiunto
quanto segue: “In caso di accertamento giudiziale della filiazione il termine decorre dal passaggio in giudicato della
sentenza che accerta la filiazione stessa”.
La modifica era stata già suggerita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 191/1983.
In merito, nella relazione illustrativa allo schema di decreto si legge13:
«È sembrato utile ed opportuna l’introduzione di tale precisazione ancorché la Corte Costituzionale si sia espressa sul
punto in termini del tutto chiari. Con la pronuncia n. 191 del 1983, infatti, dopo aver escluso che tra gli “ulteriori chiamati” di cui al terzo comma dell’art. 480 c.c. possano essere compresi anche i figli che ottengono la dichiarazione giudiziale di paternità posteriormente all’apertura della successione (…), La Corte giustifica la declaratoria di non fondatezza della sollevata questione argomentando che deve (semplicemente) farsi ricorso all’applicazione del principio generale di cui all’art. 2935 c.c.», a mente del quale la prescrizione comincia a decorre dal giorno in cui il diritto
può essere fatto valere. Nel caso di specie, tale giorno è quello del passaggio in giudicato della sentenza che
accerti la filiazione.
Appare (ed appariva) evidente, infatti, che, sino al momento in cui si forma il giudicato in ordine alla domanda di accertamento della paternità o della maternità, non sorge lo status di figlio e, quindi, difetta il presupposto per l’esercizio delle azioni che a tale status si riconnettono.
Ad ogni buon conto, nonostante il principio desumibile dalla sentenza n. 191/1983 sia stato ampiamente
recepito dalla giurisprudenza di legittimità, l’occasione offerta dalla legge 219/2012 è stata colta per interpolare il periodo esaminato e conferire alla norma maggiore chiarezza e completezza.
In proposito, si riporta qualche riferimento giurisprudenziale14, già espressione di un orientamento consolidato.
Chiara e sintetica la massima tratta da Cass. Civ., Sez. II, 5 settembre 2012 n. 14917: «La prescrizione del diritto all’eredità del figlio naturale parte dalla data della dichiarazione giudiziale, se successiva alla successione, e non
già da quest’ultima perché il figlio naturale versa nell’impossibilità giuridica e non di mero fatto di accettare l’eredità
del genitore fino a quando tale dichiarazione sia pronunciata».
In precedenza, un’altra pronuncia della medesima Sezione II della Suprema Corte ed esattamente la n.
2424/2011 (con riferimento all’opposta usucapione dei beni ereditari) aveva chiarito: «Con riferimento a una
successione ab intestato apertasi prima dell’entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia, in capo a quanti erano
stati chiamati all’eredità quali eredi legittimi non è configurabile un possesso ad usucapionem, da far valere nei confronti di coloro che, avendo successivamente ottenuto lo status di figli naturali del de cuius, agiscano in petizione di
eredità, se non dal momento (…) in cui questi ultimi potevano in concreto compiere atti interruttivi della situazione
possessoria»15.
Riportando, poi, un altro stralcio tratto da Cass. Civ., Sez. II. n. 2923/1990, si può verificare come l’orientamento giurisprudenziale fosse consolidato da tempo nel senso illustrato, ottenendo i risultati voluti dalla
legge di riforma del diritto di famiglia del 1975 in forza dell’applicazione dei principi basilari del diritto: «Il
conseguimento dello status di figlio naturale, con dichiarazione giudiziale di paternità ottenuta dopo la data di entrata
in vigore della nuova disciplina di cui alla legge 19 maggio 1975 n. 151 e in forza dell’operatività della disciplina stessa
anche per i figli nati o concepiti anteriormente, comporta il diritto di partecipare alla successione del genitore naturale
in precedenza apertasi (…) atteso che detta dichiarazione ha effetti retroattivi, senza alcuna limitazione rispetto alle posizioni successorie».
Una considerazione conclusiva può essere affidata alla precisazione fatta dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 23596/2006.
Negli obiter dicta della pronuncia indicata si legge: «Tale azione (azione nei confronti dell’altro genitore per
ottenere il rimborso pro quota delle spese sostenute dalla nascita) non è tuttavia utilmente esercitabile se
non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione naturale (atteso che soltanto per effetto della pronuncia si costituisce lo status di figlio naturale, sia pure con effetti retroagenti alla data della
nascita), con la conseguenza che detto momento segna altresì il dies a quo della decorrenza della prescrizione del
diritto stesso».
La Suprema Corte sottolinea che - pur avendo la sentenza di accertamento della filiazione effetto retroattivo e natura dichiarativa di uno status, che attribuisce al figlio nato fuori dal matrimonio tutti i diritti ad esso
connessi, sin dalla nascita - è solo a seguito del passaggio in giudicato della detta sentenza (come a seguito
del riconoscimento volontario) che i medesimi diritti possono essere utilmente esercitati.
La sentenza di accertamento de qua, pertanto, sotto il profilo dell’attribuzione dei diritti connessi allo status
filiationis, potrebbe essere qualificata come costitutiva, poiché in assenza di essa non può esserci utile esercizio dei diritti di figlio, nonostante il godimento di tali diritti retroagisca alla data della nascita16.
74 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
APPROFONDIMENTI
Art. 537
Riserva a favore dei figli [legittimi](1) e [naturali](1)
I. Salvo quanto disposto dall'articolo 542, se il genitore lascia un figlio solo, legittimo o naturale, a
questi è riservata la metà del patrimonio.
II. Se i figli sono più, è loro riservata la quota dei
due terzi, da dividersi in parti uguali tra tutti i
figli, [legittimi](1) e [naturali](1).
III. I figli [legittimi](1) possono soddisfare in denaro o in beni immobili ereditari la porzione
spettante ai figli [naturali](1) che non vi si oppongano. Nel caso di opposizione decide il giudice, valutate le circostanze personali e patrimoniali.
Art. 537
Riserva a favore dei figli
I. Salvo quanto disposto dall'articolo 542, se il
genitore lascia un figlio solo a questi è riservata
la metà del patrimonio.
II. II. Se i figli sono più, è loro riservata la quota
dei due terzi, da dividersi in parti uguali tra tutti
i figli.
(1) L'art. 1 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha disposto, con effetto dal 1 gennaio 2013, che nel codice civile,
le parole: «figli legittimi» e «figli naturali», ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: «figli».
L’articolo in parola è ricompreso nelle disposizioni sulla c.d. successione necessaria, ossia quell’insieme di
regole che stabiliscono quali quote del patrimonio debbano necessariamente andare a determinati successori, in presenza o meno del testamento.
In particolare, i primi due commi dell’art. 537 c.c. fissano la misura della riserva a favore dei figli con un sistema di mobilità della quota in relazione al numero di figli (uno o più).
Il terzo comma dell’art. 537 c.c., attribuisce ai figli legittimi (rectius ai figli nati nel matrimonio) il diritto di
commutazione, ossia la possibilità di soddisfare in danaro o beni immobili ereditari la porzione spettante
ai figli naturali (rectius ai figli nati fuori dal matrimonio), salva opposizione di questi ultimi, sulla quale decide il Giudice valutando le circostanze personali e patrimoniali, espressione generica di volta in volta affidata al prudente apprezzamento dello stesso Giudice.
Il diritto di commutazione, pertanto, poiché assegna al figlio legittimo una posizione privilegiata rispetto a
quella del figlio naturale, è l’oggetto di una disposizione normativa implicitamente abrogata dalla data di entrata in vigore della legge 219/2012.
La norma era stata introdotta nel 1975 dalla legge di riforma del diritto di famiglia, abrogando la vecchia disposizione dell’art. 574 c.c., in forza della quale i figli legittimi avevano il diritto potestativo di sciogliere la
comunione ereditaria con i figli naturali, commutando la quota di questi ultimi in una somma di denaro o
in beni immobili ereditari, senza che fosse prevista alcuna facoltà di opposizione da parte dei figli naturali
e la conseguente valutazione giudiziale delle circostanze del caso concreto17.
Lo schema di decreto legislativo citato, all’art. 71, provvede «all’allineamento linguistico» del testo dei primi due
commi ed all’abrogazione del comma terzo dell’art. 537 c.c.
La relazione illustrativa aggiunge: «La disposizione - portatrice di un evidente disfavore nei confronti dei figli nati
fuori dal matrimonio, visti quasi come coloro che intaccano l’integrità della famiglia fondata sul matrimonio, unica meritevole di tutela piena - non ha più ragione di esistere, dopo che la legge delega ha affermato nel novellato art. 315 c.c.
che “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”. L’abrogazione dell’istituto della commutazione, di cui al terzo
comma, pertanto, è conseguenza logica e necessaria per la realizzazione, sotto tutti i profili, della completa parificazione»
del trattamento dei figli nati nel matrimonio e dei figli nati fuori dal matrimonio.
Vale la pena ricordare che, qualche anno fa, la Corte Costituzionale con la sentenza N. 335/2009 aveva diversamente affermato: «Non è fondata, in riferimento agli art. 3 e 30 comma 3 cost., la q.l.c., dell’art. 537 comma 3
c.c. La scelta del legislatore di conservare in capo ai figli legittimi la possibilità di richiedere la commutazione, condizionata dalla previsione della facoltà di opposizione da parte del figlio naturale e dalla valutazione delle specifiche circostanze posta a base della decisione del giudice, non contraddice l’aspirazione alla tendenziale parificazione della posizione dei figli naturali, giacché non irragionevolmente si pone ancor oggi (quale opzione costituzionalmente non obbligata né vietata) come termine di bilanciamento dei diritti del figlio naturale in rapporto con i figli membri della famiglia legittima. L’espresso riferimento dell’art. 30 cost. al criterio di “compatibilità” assume la funzione di autentica
clausola generale, aperta al divenire della società e del costume. In questa prospettiva al giudice - cui viene in definitiva demandato il riscontro della sussistenza o meno di quella che sostanzialmente può definirsi come “giusta causa”
dell’opposizione del figlio naturale alla richiesta di commutazione avanzata dai figli legittimi, da valutarsi in base alle
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 75
APPROFONDIMENTI
specifiche circostanze sia personali (attinenti ai pregressi rapporti tra i figli), sia patrimoniali (riguardanti la situazione
dei beni lasciati in eredità, in considerazione della loro migliore conservazione e gestione, nonché del rapporto che lega
l’erede al bene) - è attribuito il ruolo di garante della parità di trattamento nella diversità, attraverso il continuo adeguamento della concreta applicazione della norma ai principi costituzionali».
Eliminato l’ultimo baluardo della differenziazione di trattamento, il fondamento della disciplina della successione di tutti i figli diventa, oggi, esclusivamente «la responsabilità della procreazione18».
Art. 542
Concorso di coniuge e figli
I. Se chi muore lascia, oltre al coniuge, un solo figlio, [legittimo] o [naturale], a quest'ultimo è riservato un terzo del patrimonio ed un altro terzo
spetta al coniuge.
II. Quando i figli, [legittimi](1) o [naturali](1), sono
più di uno, ad essi è complessivamente riservata
la metà del patrimonio e al coniuge spetta un
quarto del patrimonio del defunto. La divisione
tra tutti i figli, [legittimi](1) e [naturali](1), è effettuata in parti uguali.
III. Si applica il terzo comma dell'articolo 537.
Art. 542
Concorso di coniuge e figli
I. Se chi muore lascia, oltre al coniuge, un solo
figlio a quest'ultimo è riservato un terzo del patrimonio ed un altro terzo spetta al coniuge.
II. Quando i figli sono più di uno, ad essi è complessivamente riservata la metà del patrimonio
e al coniuge spetta un quarto del patrimonio
del defunto. La divisione tra tutti i figli è effettuata in parti uguali.
(1) L'art. 1 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha disposto, con effetto dal 1 gennaio 2013, che nel codice civile,
le parole: «figli legittimi» e «figli naturali», ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: «figli».
Art. 566
Successione dei figli [legittimi](1) e [naturali](1)
I. Al padre ed alla madre succedono i figli [legittimi](1) e [naturali](1), in parti uguali.
II. Si applica il terzo comma dell'articolo 537.
Art. 566
Successione dei figli
I. Al padre ed alla madre succedono i figli in
parti uguali.
(1) L'art. 1 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha disposto, con effetto dal 1 gennaio 2013, che nel codice civile,
le parole: «figli legittimi» e «figli naturali», ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: «figli».
Gli artt. 542 e 566 c.c. vengono snelliti con l’eliminazione, nel primo e nel secondo comma dell’art. 542 c.c.
come nella rubrica e nel primo comma dell’art. 566 c.c., degli aggettivi che erano l’indice della pluralità degli status di figlio, ossia le parole «legittimi» e «naturali», e con l’abrogazione rispettivamente del terzo
comma e del secondo comma dei detti articoli, come inevitabile conseguenza dell’abrogazione dell’art. 537,
terzo comma c.c., dagli stessi articoli richiamato.
Art. 567
Successione dei figli legittimati e adottivi
I. Ai figli [legittimi](1) sono equiparati i legittimati e gli adottivi.
II. I figli adottivi sono estranei alla successione
dei parenti dell'adottante.
(1) L'art. 1 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha disposto, con effetto dal 1 gennaio 2013, che nel codice civile,
le parole: «figli legittimi» e «figli naturali», ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: «figli».
76 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
Art. 567
Successione dei figli adottivi
I. Ai figli sono equiparati gli adottivi.
II. I figli adottivi sono estranei alla successione
dei parenti dell'adottante.
APPROFONDIMENTI
L’art. 67 dello schema di decreto legislativo modifica l’art. 567 c.c. e la relazione illustrativa mette in evidenza che, venuta meno anche la categoria dei legittimati, la categoria degli adottivi ricomprende esclusivamente gli adottati maggiori d’età ed i minori adottati ai sensi dell’art. 44 della legge 184/1983, alla quale
il Legislatore ha voluto attribuire un diritto successorio che, altrimenti, gli stessi non avrebbero avuto19.
Non potrebbe trattarsi dell’«adozione piena», nel qual caso l’equiparazione degli adottati ai figli nati nel matrimonio è già stata sancita dall’art. 27, comma primo, della legge 184/1983.
Art. 643
Amministrazione in caso di eredi nascituri
I. Le disposizioni dei due precedenti articoli si
applicano anche nel caso in cui sia chiamato a
succedere un non concepito, figlio di una determinata persona vivente. A questa spetta la
rappresentanza del nascituro, per la tutela dei
suoi diritti successori, anche quando l'amministratore dell'eredità è una persona diversa.
II. Se è chiamato un concepito, l'amministrazione spetta al padre e, in mancanza di questo,
alla madre.
Art. 643
Amministrazione in caso di eredi nascituri
I. Le disposizioni dei due precedenti articoli si
applicano anche nel caso in cui sia chiamato a
succedere un non concepito, figlio di una determinata persona vivente. A questa spetta la
rappresentanza del nascituro, per la tutela dei
suoi diritti successori, anche quando l'amministratore dell'eredità è una persona diversa.
II. Se è chiamato un concepito, l'amministrazione spetta al padre e alla madre.
L’art. 643 c.c. viene modificato dall’art. 84 dello schema di decreto, per dare atto della superata concezione
della “patria potestà”, sostituita prima dalla «potestà genitoriale» e poi dalla «responsabilità genitoriale». La
modifica attribuisce, pertanto, ad entrambi i genitori l’amministrazione dei beni del concepito, realizzando,
anche in tal maniera, la pari responsabilità genitoriale. Ove ce ne fosse bisogno, la relazione illustrativa aggiunge che nel caso in cui vi fosse un solo genitore «l’amministrazione non potrà che spettare a questi20».
Art. 687
Revocazione per sopravvenienza di figli
I. Le disposizioni a titolo universale o particolare, fatte da chi al tempo del testamento non
aveva o ignorava di aver figli o discendenti,
sono revocate di diritto per l'esistenza o la sopravvenienza di un figlio o discendente [legittimo] del testatore, benché postumo, o legittimato o adottivo, ovvero per il riconoscimento
di un figlio [naturale].
II. La revocazione ha luogo anche se il figlio è
stato concepito al tempo del testamento, e, trattandosi di figlio naturale legittimato, anche se è
già stato riconosciuto dal testatore prima del
testamento e soltanto in seguito legittimato.
III. La revocazione non ha invece luogo qualora
il testatore abbia provveduto al caso che esistessero o sopravvenissero figli o discendenti
da essi.
IV. Se i figli o discendenti non vengono alla successione e non si fa luogo a rappresentazione,
la disposizione ha il suo effetto.
Art. 687
Revocazione per sopravvenienza di figli
I. Le disposizioni a titolo universale o particolare, fatte da chi al tempo del testamento non
aveva o ignorava di aver figli o discendenti,
sono revocate di diritto per l'esistenza o la sopravvenienza di un figlio o discendente del testatore, benché postumo, anche adottivo, ovvero per il riconoscimento di un figlio.
II. La revocazione ha luogo anche se il figlio è
stato concepito al tempo del testamento.
III. La revocazione non ha invece luogo qualora
il testatore abbia provveduto al caso che esistessero o sopravvenissero figli o discendenti
da essi.
IV. Se i figli o discendenti non vengono alla successione e non si fa luogo a rappresentazione,
la disposizione ha il suo effetto.
(1) L'art. 1 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha disposto, con effetto dal 1 gennaio 2013, che nel codice civile,
le parole: «figli legittimi» e «figli naturali», ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: «figli».
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 77
APPROFONDIMENTI
L’art. 687 c.c. viene modificato dall’art. 85 dello schema di decreto delegato non soltanto con il già visto adeguamento lessicale, ma anche con la semplificazione del secondo comma, dal quale viene espunto l’ultimo
periodo, dopo la parola «testamento».
Come si legge nella relazione illustrativa21: «è invece soppressa la specifica disciplina dettata per il figlio naturale
legittimato: fattispecie che, con la parificazione dei figli nati fuori dal matrimonio ai figli nati nel matrimonio e il conseguente venir meno della categoria dei legittimati, non necessita più di autonoma considerazione normativa».
Art. 803
Revocazione per sopravvenienza di figli
I. Le donazioni, fatte da chi non aveva o ignorava
di avere figli o discendenti [legittimi] al tempo
della donazione, possono essere revocate per la
sopravvenienza o l'esistenza di un figlio o discendente [legittimo] del donante. Possono inoltre essere revocate per il riconoscimento di un
figlio [naturale], fatto entro due anni dalla donazione, salvo che si provi che al tempo della donazione il donante aveva notizia dell'esistenza
del figlio.
II. La revocazione può essere domandata anche
se il figlio del donante era già concepito al tempo
della donazione.
Art. 803
Revocazione per sopravvenienza di figli
I. Le donazioni, fatte da chi non aveva o ignorava di avere figli o discendenti al tempo della
donazione, possono essere revocate per la sopravvenienza o l'esistenza di un figlio o discendente del donante. Possono inoltre essere
revocate per il riconoscimento di un figlio, salvo
che si provi che al tempo della donazione il donante aveva notizia dell'esistenza del figlio.
II. La revocazione può essere domandata anche
se il figlio del donante era già concepito al
tempo della donazione.
(1) L'art. 1 della legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha disposto, con effetto dal 1 gennaio 2013, che nel codice civile,
le parole: «figli legittimi» e «figli naturali», ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: «figli».
Nella stesura approvata dello schema di decreto, l’art, 88 modifica l’art. 803 c.c. viene adeguato al principio
dell’unicità dello status filiationis – come si da atto nella relazione illustrativa – non solo modificando l’articolo in esame con il solito adeguamento lessicale, ma anche eliminando la limitazione temporale dei due
anni.
Nella relazione illustrativa anzidetta, si tiene presente la pronuncia n. 250/2000, con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui, in caso di sopravvenienza di figlio naturale, la donazione poteva essere revocata solo se il riconoscimento era intervenuto entro due anni dalla donazione, ma si evidenzia, altresì, che la detta limitazione, comunque, non avrebbe alcun senso logico alla luce della unificazione dello status di figlio22.
Art. 104 (Disposizioni transitorie)
In ultimo, un accenno deve essere fatto all’art. 104 dello schema di decreto legislativo, rubricato “Disposizioni
transitorie”.
Tale disposizione, per la sua estensione e per le implicazioni che ne deriveranno, non può essere trattata adeguatamente in questa sede.
Si riporta solo qualche riferimento ai primi sei commi di essa, in quanto specificamente dedicati agli effetti
successori per i figli nati fuori dal matrimonio.
Nel rispetto dell’intangibilità del giudicato formatosi prima dell’entrata in vigore della legge 219/2012, effetti
si avranno sulle azioni da intraprendere e sui giudizi pendenti di cui sia parte anche un discendente di figlio
nato fuori dal matrimonio che voglia far valere i diritti successori del de cuius nei confronti di parenti del defunto, rispetto ai quali, prima della modifica dell’art. 74 c.c., non era riconosciuto alcun vincolo di parentela.
Il primo comma, ad esempio, prevede che: «Fermi gli effetti del giudicato (…), sono legittimati a proporre azioni di
petizione di eredità, ai sensi dell’art. 533 c.c., coloro che in applicazione» del nuovo art. 74 c.c. «hanno titolo a chiedere il riconoscimento della qualità di erede».
Il secondo comma prevede l’estensione di cui al primo comma per tutti i diritti successori che derivino dalla
novella del 2012.
78 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
APPROFONDIMENTI
Il terzo comma estende ancora l’applicazione dei primi due commi anche ai discendenti del figlio nato fuori
dal matrimonio morto prima dell’entrata in vigore della legge delega.
Il quarto ed il quinto comma fissano la decorrenza della prescrizione dei diritti successori scaturenti dalle
novità normative, per le successioni già aperte.
Infine, il sesto comma, estende l’applicazione dei primi tre commi a tutti i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del decreto delegato.
4. Brevi accenni agli aspetti processuali.
Da ultimo occorre ribadire che in forza della nuova formulazione dell’art. 38, ultimo comma, disp. att. c.c. anch’essa introdotta dalla novella del 2012, la competenza in ordine all’accertamento giudiziale di paternità e
di maternità di cui all’art. 269 c.c. - anche in caso di minori - nonché in ordine al riconoscimento del figlio
da parte del genitore infrasedicenne, ex art. 250, ultimo comma, c.c., spetta al Tribunale Ordinario e, più
nello specifico, in questo secondo caso, al Giudice Tutelare. A tal proposito, parte della giurisprudenza di
merito ha argomentato che “la legge ha attribuito al Giudice Tutelare il potere di accertamento della capacità naturale degli individui, al fine di verificarne l’idoneità al compimento di determinati atti. Inoltre, in questo senso, depone la
particolare snellezza e deformalizzazione dei procedimenti di competenza del Giudice Tutelare, che assicurano di norma
una particolare celerità nella decisione e si presentano, pertanto, del tutto idonei alle esigenze di speditezza che simili
casi richiedono. Per la competenza del giudice tutelare depone anche la circostanza che il provvedimento richiesto nel
caso di specie all’Autorità Giudiziaria, non risolve una questione contenziosa, ma ha la funzione, in quanto autorizzatorio, di rimuovere un limite posto dall’ordinamento nei confronti di un soggetto superando, attraverso l’accertamento
in concreto, la presunzione di incapacità ritenuta dal legislatore”23.
Trovando nuovamente attuazione la norma generale di cui all’art. 9, II c., c.p.c., il rito prescelto per l’esercizio dell’azione è quello ordinario, pertanto, lì dove il giudizio fosse stato erroneamente introdotto con ricorso,
atteso che tale atto non contiene i necessari elementi indicati ex art. 163 c.p.c., si rende necessario ad opera
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 79
APPROFONDIMENTI
del giudice disporre ex officio il mutamento di rito ai sensi dell’art. 4 D.lgs. 150/201124; parte attrice, conseguentemente, sarà onerata alla integrazione dell’atto introduttivo con le avvertenze di cui all’art. 163, n.7,
c.p.c. ed alla notifica dello stesso, unitamente al decreto di conversione contenente la fissazione della data
d’udienza25.
Quanto ai profili probatori, relativamente all’accertamento giudiziale di paternità e di maternità, atteso che
ai sensi dell’art. 269, II e IV c., c.c. la prova può essere data con ogni mezzo purché essa non si basi esclusivamente sulle sole dichiarazioni della madre e sulla mera esistenza di rapporti fra la madre ed il preteso padre all’epoca del concepimento, al giudice è dato il potere di valutare liberamente le prove nonché di trarre
argomenti di prova dal contegno assunto dalle parti nel corso del giudizio, ex art. 116 c.p.c..
La giurisprudenza di legittimità ritiene, quindi, che sia da escludere che “il rifiuto ingiustificato di sottoporsi alla
prova ematologica possa essere valutato solo se sia stata provata in altro modo l’esistenza di rapporti sessuali tra il
presunto padre e la madre naturale” 26.
Note
1
La China, “Diritti umani: qualche precisazione”, in Riv. Trim. dir. Proc. Civ., 2012, 835 ss..
2
C. M. Bianca, “Verso un più giusto diritto di famiglia”, in Justitia, 2012, 239: “La riforma non è una minaccia al matrimonio che rimane l’insostituibile presidio a garanzia della stabilità e solidarietà del nucleo familiare”.
3
F. Gilda, “La nuova legge sulla filiazione. Profili sostanziali”, in Corriere Giur., 2013, 4, 525.
4
C. M. Bianca, Diritto civile, I, II ed., Milano, 299.
5
C. M. Bianca, Famiglia (diritto), in Enciclopedia delle scienze sociali, III, Roma, 1993, 780 ss.; C.M. Bianca, “Realtà sociale ed effettiva della norma”, Scritti giuridici, I, t. 2, 883.
6
C. M. Bianca, “Il momento giuridico dei valori della persona e della famiglia nel pensiero di Giorgio Oppo”, in Uomo, persona e diritto. Giornate di studio in ricordo di Giorgio Oppo, Roma, 2013; C. M. Bianca, “Dove va il diritto di famiglia”, in Familia, 2011, 3 e ss..
7
Cfr. Cass. Civ., sez. II, 7 aprile 1990, n. 2923; Corte Cost., sent. Nn. 2 giugno 1979, n. 55; 184/90; 341/90; 377/94 su www.dejure.it.
8
Cfr. Cedu, n. 34406/97, Mazurek vs. France; Cedu 7 febbario 2013, Fabrice vs. France; V. A. Diurni, “La filiazione nel quadro europeo”, in G. Ferrando, “Il nuovo diritto di famiglia”, III, cit., 41 ss.; M. G. Cubeddu, “Diritto della filiazione in Europa, tra diritti ed interessi della persona e di terzi”, in Ferrando e Laurini, La riforma della filiazione, in Quaderni di Notariato, Milano, 2013, 85 ss.
9
Cfr. “L’uguaglianza dello stato giuridico dei figli nella recente legge n. 219/2012”, in Giustizia civile, fasc. 5-6, 2013, pag. 205, su
www.dejure.it.
10
B. De Filippis, “La nuova legge sulla filiazione: una prima lettura”, in Famiglia e Diritto, 2013, 3, 291; nello stesso senso cfr. F. Gilda,
“La nuova legge sulla filiazione. Profili sostanziali”, op. cit., 2013, 4, 525, ed ancora, secondo una lettura che già a suo tempo prospettava L. Carraro,” La vocazione legittima alla successione”, Padova, 1979, 43 ss..
11
Si veda l’art. 1, paragrafo 2, del Draft Recommendation (Cm/Rec (2012) to member states on the rights and legal status of children
and parental responsibilities: «In particular, children should not be discriminated against on the basis of the civil status of their parents».
12
L’obiettivo è spiegato nell’Explanatory Memorandum posto in appendice al Draft Recommendation (Cm/Rec (2012) to member states on the rights and legal status of children and parental responsibilities, cit., sub art. 1, comma 2: «Paragraph 2 emphasises that children should not be discriminated against to the civil status of their parents. In providing this, the recommendation is not to be read as
obliging strictu sensu member states to recognize all form of partnership, for example same-sex relationships».
13
Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri il 12.07.2013, pag. 34, su www.governo.it.
14
Per un commento più approfondito, L. Avignano, “Equiparazione di figli legittimi e naturali: gli effetti successori”, Rivista Ventiquattrore Avvocato – Il Sole 24 Ore, ottobre 2013 n. 10, pp. 18-19.
15
Cass. Civ., Sez. II, 2 febbraio 2011 n. 2424, su www.dejure.it.
16
L. Avignano, “Equiparazione di figli legittimi e naturali: gli effetti successori”, già cit., ottobre 2013 n. 10, cit., pp. 18-19.
17
Lina Avignano, “Equiparazione di figli legittimi e naturali: gli effetti successori”, già cit., ottobre 2013 n. 10, cit. pp. 19-21.
18
V. Barba, “La successione mortis causa dei figli dal 1942 al disegno di legge recante «Disposizioni in materia di riconoscimento dei
figli naturali»“, Famiglia, Persone e Successioni ottobre 2012, p. 665.
19
Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri il12.07.2013, cit., p. 36.
20
Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri il12.07.2013, cit., p. 37.
21
Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri il12.07.2013, cit., p. 37.
22
Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri il12.07.2013, cit., p. 38.
23
Cfr. sul punto Trib. Catanzaro, 5 marzo 2013 su www.dejure.it.
24
Cfr. Tribunale di Milano , 29 aprile 2013, su www.ilcaso.it.
25
Cfr. Tribunale di Velletri, 8 aprile 2013, su www.dejure.it.
26
Cfr. Cass. Civ., Sez. I, 19 novembre 2012 n. 20235, su www.dejure.it.
80 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
IN LIBRERIA
In libreria
a cura dell’avv. MARIA LIMONGI
MAURO PALADINI
E CLAUDIO CECCHELLA
La riforma della filiazione,
1° quaderno della Scuola
di formazione dell’Osservatorio
sul diritto di famiglia
Pro.Form Editore, 2013
La nuova casa editrice Pro.Form.
nella collana “Itinerari legislativi”
presenta il 1° quaderno della
Scuola di Formazione dell'Osservatorio sul diritto di famiglia a
cura di Claudio Cecchella e Mauro
Paladini dal titolo “La riforma
della filiazione. La legge 10 dicembre 2012, n. 219”.
Nel volume vengono affrontati
tutti i temi sia di diritto sostanziale che di diritto processuale
grazie al contributo di autorevoli
studiosi della materia di diritto di
famiglia. Nell'introduzione al volume, curata dall' Avv. Gianfranco
Dosi - Presidente dell'Osservatorio
Nazionale sul diritto di Famiglia si pone da subito l'accento sul
senso della nuova normativa che
appunto elimina ogni discriminazione giuridica riguardante lo status filiationis, riaffermazione di un
principio già facente parte del diritto vivente grazie alla ratifica nel
1991 della Convenzione di New
York del 1989 sui diritti dei minori.
Parità che però non trova una
completa attuazione nella nuove
regole processuali, dove come sottolineato dall'Avv. Prof. Claudio
Cecchella rimane, pur nella modifica dell'art. 38 disp. att. c.c. (con
l'unificazione delle competenze
in favore del tribunale ordinario),
una ripartizione delle competenze ed una diversificazione dei
riti per le azioni de potestate.
Sui profili sostanziali si registrano
i contributi del Prof. Francesco
Prosperi sull'unicità dello status
filiationis, dell'Avv. Luca Barbaro
sulla disciplina unitaria del cognome e dell'Avv. Tiziana Ceccarelli sulla delega al governo di cui
all'art. 2 della l. 219/2012, nonché
il contributo del Prof. Mauro Paladini in cui vengono sviluppati
temi relativi alla nuova disciplina
della potestà, all'ascolto del minore.
Sui profili processuali i contributi
dell'Avv. Giancarlo Savi sul ruolo
processuale del minore e del Prof.
Angelo Lupoi sui nuovi art. 250
c.c. e 315 bis c.c.
In calce al volume un'utile appendice normativa di pronta consultazione.
Luci ed ombre della nuova normativa vengono quindi affrontate
dagli autori con spirito critico offrendo al lettore un utile strumento di approfondimento sia
teorico che pratico grazie alle soluzioni interpretative offerte.
Avv. Gianluca Vecchio
DARIO BUZZELLI
La Famiglia Composita.
Jovene Editore Napoli, 2012
Riuscire a far convivere in modo
armonioso una famiglia “tradizionale” ed a volte eterogenea non è
facile. L’esperienza quotidiana ci
porta spesso a “sbuffare” quando
il nostro quotidiano si intreccia
con i parenti. A quanti è capitato
di dover fare fronte agli interventi
del suocero, genero, cognato nelle
proprie dinamiche familiari; inevitabilmente si creano i presupposti per situazioni equivoche,
per l’insorgere di incomprensioni,
ed a volte per accuse vicendevoli
anche per futili motivi. Se poi si
inserisce qualche personaggio,
estraneo che subentra a figure di
riferimento del nucleo familiare
ed affiancando la mamma o il
papà, il quadro si potrebbe complicare ulteriormente… oppure
no?! La famiglia “composita”.
Un’indagine sistematica sulla famiglia ricomposta: i neo coniugi
o conviventi, i figli nati da precedenti relazioni e i loro rapporti
analizza e ripercorre i passaggi
attraverso i quali è dovuta transitare la famiglia tradizionale. Prendendo le mosse dal venir meno
dell’unitarietà dell’istituto della
famiglia e del concetto e la nozione consegnata ai codici ed alle
leggi del secolo scorso, l’Autore si
addentra in un’indagine del pluralismo delle comunioni e dei
progetti non individuali di vita
evidenziando le criticità e le lacune degli istituti previsti e tutelati dall’Ordinamento nonché da
quelli nuovi di derivazione giurisprudenziale. Non a caso l’Autore
evidenzia sin dai primi capitoli
come il Legislatore sia restio a
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 81
IN LIBRERIA
considerare e regolamentare in
modo specifico le seconde nozze
laddove l’impianto normativo assimila il secondo matrimonio al
primo. Tale impostazione è limitante in ragione delle scelte diverse dal contrarre le seconde
nozze che oggi possono essere
compiute dai singoli quali la comunione more uxorio. Tale impostazione che prosegue nell’intero
testo è tesa ad analizzare i profili
giuridici della famiglia ricomposta alla luce delle problematiche
sottese ai diritti ed ai doveri dei
nuovi coniugi che possono interferire con le corrispondenti situazioni soggettive di cui possono risultare titolari gli stessi coniugi
per effetto del precedente matrimonio.
Ed infatti l’Autore si sofferma nell’esame dei vari diritti che possono essere riconosciuti al coniuge separato e le modalità attraverso le quali il diritto dell’ex
possa interferire con il diritto del
partner attuale; ponendosi interrogativi e dando parimenti delle
soluzioni anche attraverso i numerosi richiami in nota. Segue
l’ulteriore disamina relativa al
rapporto del nuovo partner con il
figlio dell’altro anche in ragione
delle nuove norme a tutela della
bigenitorialità e la loro applicazione nella vita reale nonché
l’analisi della relazione tra il
nuovo partner ed il figlio dell’altro nel momento in cui quest’ultimo diviene padre ovvero nel
caso di adozione ovvero nel caso
di introduzione nel nucleo “legittimo” del figlio naturale. Il testo
ha un taglio teorico-pratico e risulta ben argomentato e sviluppato e si propone quale buon testo per il Professionista che opera
nel settore… sia concesso a questo punto concludere evidenziando che anche in caso di famiglia composita non si possa negare tuttavia che si possono verificare momenti di tranquilla convivenza e di spiritosa ed allegra
partecipazione a fatti che normalmente accadono in ogni famiglia.
82 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
OLGA ANASTASI
IL DIVORZIO COLLABORATIVO
Capponi Editore, 2013
Nel caos emozionale che precede, perdura e segue la fine di
un rapporto, è possibile gestire la
conflittualità in modo collaborativo?
Gli americani ci hanno provato,
ed hanno elaborato delle strategie di negoziazione per portare i
partner a scegliere l’ottimo di
lungo periodo su quello, più contingente, del breve.
Anche perché – come è nell’esperienza di tutti – il successo
immediato (un assegno più alto,
l’ affidamento dei figli etc…) può
rivelarsi una vittoria di Pirro (lui
smette di pagare, figli psicologicamente distrutti…); ed il carico
emozionale che deriva da conflitti non risolti può rovinare, in
un crescendo di fantasmi e recriminazioni, anche la nuova vita di
chi crede di aver “vinto”.
Trasformare il dolore in un momento di crescita è, però, possibile: ma occorrono tre cose.
Primo: il rispetto dei tempi emozionali di ciascuna parte. Può accadere che, mentre per uno dei
coniugi il rapporto sia già esaurito, l’altro cerchi ancora un contatto attraverso pretesti di litigio.
La fenomenologia può essere diversa - dalla regolamentazione
delle visite ai figli al servizio da
caffè di nonna Assunta-; le pretese dichiarate tutte più o meno
apparentemente fondate; ma la
ragione di fondo quasi sempre è
unica: una delle parti non è veramente pronta al distacco.
Viste in questo modo, le ragioni
dell’ostilità non sono occasione
di giudizio sulla maturità/immaturità-adeguatezza/inadeguatezza-bontà/cattiveria
delle
parti, ma chiavi di lettura delle
dinamiche di coppia. La comprensione di questi modelli di
azione emozionale, spesso inconsci, ed il rispetto del dolore e
dello smarrimento che rappresentano, costituisce il primo tassello per uno scioglimento armonico del rapporto.
Secondo: responsabilizzazione
delle parti sulla posizione avuta
in coppia e sulle cause dello scioglimento, in modo che nessuna
si consideri vittima della forza
prevalente dell’altra. Anche nei
rapporti più sbilanciati, i piani
del carnefice sono negli occhi
della vittima: la presa di coscienza sul proprio ruolo e sulle
conseguenze del proprio atteggiamento, riporta in entrambi i
partner la fiducia sulla possibilità di “essere in controllo”della
propria vita, ed impedisce i risentimenti dovuti alla percezione di aver subito ingiustizie
ed abusi.
Terzo: una distribuzione patrimoniale equa. Nel divorzio collaborativo l’obiettivo non è riuscire
ad avere il massimo possibile,
ma trovare una soluzione di
compromesso che eviti l’accendersi di liti future o il continuo rinegoziamento delle condizioni di
separazione.
Ovviamente, in questo quadro la
figura dell’avvocato deve essere
completamente ripensata, poiché non si tratta più di vincere
attraverso una prova di forza o
un’astuta eccezione processuale,
ma di costituire e coordinare un
team (psicologo, mediatore, stimatore dei beni) con cui programmare un settlement di
lungo periodo. In ciò, all’avvo-
IN LIBRERIA
cato non è chiesto di essere mediatore imparziale, ma di assistere tecnicamente la parte, con
la rilevante differenza di spingerla verso soluzioni che abbattono – e non incrementano – la
conflittualità.
La conoscenza della legge diventa fondamentale in tutti e tre
i momenti, perché le regole –se
adeguatamente presentate- offrono alle parti un criterio oggettivo per valutare i supposti abusi
affettivi, fisici e patrimoniali.
Armonia, non vittoria; prevalenza del “noi” sull’ “io”: questo
deve essere lo scopo del professionista, che addirittura mette
nero su bianco il suo impegno a
non assistere la parte in caso il
tentativo della strada collaborativi fallisca.
Una rivoluzione copernicana,
quindi, nel modo di impostare la
propria opera professionale, che
il bel libro di Olga Anastasi ha il
merito di proporre e dimostrare
possibile; nonché un’indicazione
chiara di quello che dovrebbe essere il buon avvocato di famiglia:
una figura che sappia unire all’
alto tecnicismo, profonda sensibilità e buon senso.
Avv. Benedetta Piola Caselli
ALARICO MARIANI MARINI
E UMBERTO VINCENTI
Le carte storiche dei diritti
Raccolta di Carte, Dichiarazioni
e Costituzioni con note
esplicative
Pisa University Press, 2013
L’uomo ha bisogno di regole giuridiche per poter vivere e per poter condurre una esistenza pacifica all’interno di un consesso sociale. Il volume è il frutto dell’attività di studio e di ricerca curata
da Alarico Mariani Marini e Umberto Vincenti con la collaborazione della Scuola Superiore dell’Avvocature e del Consiglio Nazionale Forense e ripercorre attraverso le Costituzioni storiche
l’evoluzione del diritto e, soprattutto, dell’individuo laddove deve
intendersi non tanto l’individuo
monolite ma in quanto elemento
facente parte di un unicum che altro non è se non il contesto sociale nel quale viene ad interagire
con altri individui. Il testo propone un excursus dei capisaldi del
diritto ed iniziando dall’esame
della Magna Charta libertatum proseguendo con il trattato di Westafalia del 1648 e del Bill of rights del
1689 per giungere – attraverso altri – alla dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America
ed alle Dichiarazioni dei diritti
dell’uomo e del cittadino del 1793
e dei diritti e doveri dell’uomo e
del cittadino del 1795 giungendo
al commento delle Costituzioni
pre-unitarie quali la Costituzione
romana del 1798, della Repubblica
Napoletana del 1799 ovvero dello
Statuto Albertino del 1848. Il lettore è accompagnato dai vari
commenti attraverso un percorso
dove in modo inversamente proporzionale lo Stato cede all’individuo e l’individuo diviene oggetto di normazione specifica e
puntuale con la Legge che si pone
come baluardo rispetto ad ingerenze di terzi e dello Stato stesso.
La Legge così assurge ad espressione della volontà generale che
non può e non deve essere disattesa né dall’individuo né dallo
Stato così come i diritti degli individui non possono essere limitati
se non in forza della volontà popolare e del principio generale per
il quale la libertà consiste nel non
nuocere al diritto altrui (art. 2 dichiarazione dei diritti e dei doveri
dell’uomo e del cittadino). Il testo
permette così di evidenziare i vari
passaggi attraverso i quali il diritto dell’individuo si è affermato
rispetto alla prevaricazione del
più forte nonché la volontà generale ha sostituito il comune sentire dei popoli ed ha così realizzato le fondamenta degli Stati di
diritto. Una raccolta quale “ulteriore contributo alla formazione culturale di quei giovani che scelgono
l’avvocatura non già come percorso
per accedere ad un mercato di servizi,
ma soprattutto per svolgersi una funzione sociale protesa alla difesa, in
uno stato democratico, dei diritti e
delle libertà di ogni persona”.
MAURO AGOSTO
ROSARIA CAPOZZI
Formulario del matrimonio
canonico
EUPress FTL, 2013
Mauro Agosto, docente di Lingua
Latina presso la Pontificia Università Lateranense, e Rosaria Capozzi, avvocato civilista e canonista, presentano il loro lavoro congiunto, risultato della rispettiva
esperienza, dedicato alla raccolta
di esempi di scrittura tecnica relativa ai motivi di nullità del matrimonio canonico al fine di una
ottobre-dicembre 2013 | Avvocati di famiglia | 83
IN LIBRERIA
migliore comprensione della materia resa difficoltosa dall’impiego
della lingua Latina nella pratica
del tribunale della Rota Romana.
Ciascun motivo di nullità del matrimonio canonico è affrontato:
Simulazione totale, simulazione
parziale, incapacità a contrarre
matrimonio, errore, condizione,
vis et metus, impotentia coeundi,
difetto di forma.
L’istituto matrimoniale canonico
è messo in luce attraverso schemi
84 | Avvocati di famiglia | ottobre-dicembre 2013
esemplificativi di casi pratici di
frequente riproposizione nella
prassi e giurisprudenza attuale.
Sono riportati tutti i modelli di
scrittura tecnica relativi a casi
concreti accompagnati da una
traduzione latina letterale capace
di esprimere in modo fedele e
chiaro la complessità dei concetti
e dei pensieri giuridici canonici.
L’esperienza latinista del prof. M.
Agosto incontra l’esperienza canonista dell’avv. R. Capozzi che,
in modo particolareggiato e peculiare, offrono uno strumento utile
non solo agli studenti di diritto
canonico per i quali è pensato,
ma anche ai Professionisti ed
operatori di diritto coinvolti dalla
materia e che di occupano del
settore. Formule esplicative della
dottrina e riferimenti giurisprudenziali completano e rendono
ulteriormente concreta, semplice
ed efficace la consultazione e
comprensione dell’opera.