Psicologia e Giustizia
Anno 14, numero 1
Gennaio - Giugno 2013
Prevenzione della recidiva e messa alla prova: le opinioni e l’esperienza degli
operatori dell’Ufficio di Servizio Sociale per Minorenni di Bologna.
Di Gabriele Prati* e Sara Nascetti**
Riassunto: esistono tre forme di prevenzione; la prevenzione primaria può essere rivolta a tutti i
membri della comunità oppure a una categoria sociale. L’obiettivo è quello di rimuovere tutte
quelle condizioni sociali, culturali ed economiche che permettono di cadere nel disagio. Nella
prevenzione secondaria, invece, l’obiettivo è impedire il passaggio dal disagio alla devianza e da
quest’ultima alla delinquenza. La prevenzione terziaria, infine, è per noi la più importante perché
previene la recidiva nei giovani autori di reato. Questa terza forma di prevenzione è messa in atto
dai servizi dipendenti dal Ministero di Giustizia. Nella prevenzione terziaria possiamo notare la
sospensione del processo e messa alla prova. Considerando l’importante ruolo svolto dagli assistenti
sociali dell’Ufficio di Servizio Sociale per Minorenni di Bologna (U.S.S.M) nel processo di messa
alla prova e nella riduzione della recidiva, abbiamo ritenuto importante analizzare il punto di vista e
l’esperienza degli operatori sociali. Secondo l’opinione degli intervistati, i progetti educativi e la
messa alla prova hanno un effetto positivo in termini di contrasto alla recidiva. Inoltre, ci sono due
tipi di fattori: i fattori di rischio (che influenzano l’efficacia delle azioni messe in atto dall’
U.S.S.M, come ad esempio l’ambiente di vita del minore, le sue condizioni personali oppure il
basso livello d’istruzione) e i fattori protettivi (che proteggono il minore dalla reiterazione del reato,
come ad esempio il percorso scolastico e formativo). Abbiamo anche analizzato l’opinione degli
operatori circa le differenze di genere e nazionalità al fine di verificare se queste influenzano
l’efficacia delle azioni preventive messe in atto nei confronti dei minori autori di reato. In
conclusione, abbiamo analizzato le attività maggiormente inserite nei progetti di messa alla prova,
la ricerca ha mostrato che da un lato, ci sono attività che vengono sempre inserite nei suddetti
progetti (come ad esempio le attività di volontariato o socialmente utili, le attività scolastiche e
formative, le attività di lavoro o “la borsa lavoro”) e dall’altra parte, ci sono attività che vengono
inserite a seconda della problematica del ragazzo.
Parole chiave: progetto di messa alla prova; prevenzione della recidiva; Ufficio di Servizio Sociale
Minorile; autore di reato minorile; effetti positivi della messa alla prova; comportamento recidivo.
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Docente a contratto di Psicologia giuridica e psicologia sociale presso la Facoltà di Scienze Politiche “Roberto
Ruffilli”, Università di Bologna
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Laureata in Criminologia applicata per l’investigazione e la sicurezza presso la Facoltà di Scienze Politiche
“Roberto Ruffilli”¸ Università di Bologna.
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1. Prevenzione della recidiva e messa alla prova
Il concetto di prevenzione, parlando di delinquenza minorile, è stato suddiviso in tre
categorie: primaria, secondaria e terziaria (Bertelli, 2008). La prevenzione primaria può essere
rivolta a tutti i membri della comunità oppure a una categoria sociale. L’obiettivo è quello di
rimuovere tutte quelle condizioni sociali, culturali ed economiche che permettono di cadere nel
disagio. Nella prevenzione secondaria, invece, l’obiettivo è impedire il passaggio dal disagio alla
devianza e da quest’ultima alla delinquenza. Si tratta di interventi più specifici perché rivolti ai
minori che sono a rischio di devianza: ovvero a coloro che vivono in condizioni di disagio sociale e
familiare tali da predisporli alla commissione di atti devianti. La prevenzione terziaria, infine, è
diversa dalle precedenti perché prevede politiche amministrative e giudiziarie volte a evitare che un
minore, che ha commesso reato, realizzi nuovamente il delitto. Per questo motivo gli obiettivi
perseguiti sono due: contrastare la recidiva e lo sviluppo di una carriera deviante. Se nei primi due
casi il ruolo principale è attribuito alle agenzie educative e al lavoro degli operatori sociali, nel terzo
caso un ruolo fondamentale è assunto dai servizi dipendenti dal Ministero di Giustizia (Cavallo,
2002).
Nell’ambito della prevenzione terziaria s’inserisce la sospensione del processo e la messa alla
prova. In questo caso il giudice affida il minore ai servizi minorili dell’amministrazione della
giustizia per lo svolgimento, in collaborazione con i servizi sociali locali, delle diverse attività di
osservazione, trattamento e sostegno. I presupposti per applicare la messa alla prova sono:
l’assunzione di responsabilità per il reato commesso, la minore età del ragazzo al momento
dell’illecito, una valutazione positiva circa il possibile esito della prova, e la stesura di un progetto
educativo che veda coinvolto il minore (Lanza, 2003). La sospensione del processo con messa alla
prova è un istituto che è volto, da una parte, a favorire un cambiamento in positivo della personalità
in divenire del minore; dall’altra, l’impegno ad aderire a un programma di inserimento e di crescita
personale, avviene in cambio della rinuncia della pretesa punitiva da parte dello Stato. Quindi la
messa alla prova ha una funzione responsabilizzante e, allo stesso tempo, una funzione
decriminalizzante e destigmatizzante perché non produce conseguenze penali (in caso di esito
positivo, il reato è estinto e la pronuncia di tale estinzione non viene iscritta nel casellario
giudiziale) (Palomba, 2002).
Ci si può domandare se la messa alla prova possa essere considerata una forma di intervento
efficace. Per rispondere a questa domanda, possiamo fare riferimento a uno studio condotto da
Mestitz e colleghi in cui si sono analizzati i fascicoli dei minorenni messi alla prova (205 casi) e
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seguiti dall’Ufficio di Servizio Sociale per Minorenni (U.S.S.M.) di Bologna negli anni 1998, 2000
e 2002 (Mestitz, 2007). I risultati hanno mostrato nella maggioranza dei casi (71%) che l’esito della
prova è positivo e il reato è dichiarato estinto. Tuttavia, si è visto che i risultati sono eterogenei, se
consideriamo la nazionalità del minore. Nello specifico, nel 12,6% dei casi riguardanti ragazzi
italiani l’esito della prova è stato negativo e questo ha determinato un rinvio a giudizio; mentre per i
minorenni stranieri la percentuale di insuccesso risulta raddoppiata (31,7%). Secondo gli studiosi,
questa differenza tra italiani e stranieri potrebbe spiegare perché si tende a concedere con minore
frequenza la misura della messa alla prova ai ragazzi stranieri.
Dalla ricerca è emerso, inoltre, che sono tre le attività che costantemente sono inserite nei progetti:
l’attività lavorativa (65,9% dei casi), quella di volontariato e socialmente utile (61,5% dei casi) e le
verifiche condotte dall’U.S.S.M (83,4%).
2. Un’indagine tra gli operatori dell’U.S.S.M
Dato il ruolo di centrale importanza rivestito dagli operatori dell’U.S.S.M nel processo di
messa alla prova e nella riduzione della recidiva, abbiamo ritenuto utile affrontare le loro opinioni
ed esperienze. Nel presente studio sono stati intervistati tra febbraio e marzo 2011, quattro dei
diciotto operatori dell’U.S.S.M di Bologna.
3. Le opinioni degli operatori dell’U.S.S.M
Gli intervistati hanno riportato che le modalità messe in atto dall’U.S.S.M bolognese per
prevenire la reiterazione del reato da parte del minore sono principalmente due: i progetti educativi
e la messa alla prova. Inoltre, gli intervistati hanno effettivamente notato che, complessivamente,
progetti educativi e la messa alla prova hanno un’efficacia positiva in termini di contrasto alla
recidiva:
“Ci sono casi che vanno veramente a buon fine, per buon fine mi viene in mente l’esempio di un
ragazzo che addirittura si è iscritto all’università dopo il suo percorso penale, questa è una cosa che
ti fa piacere perché ti rendi conto che si è riusciti ad intervenire in quella parte della persona che
non andava. In questo modo il ragazzo riesce a realizzare i suoi sogni e andare oltre a quello che è
stato il reato”. Inoltre, a proposito dell’esito positivo della messa alla prova, la nostra intervistata ci
ha riferito che “se la messa alla prova ha avuto esito positivo è perché il ragazzo ha fatto un
percorso che ha modificato determinate cose e quindi mi viene da pensare che difficilmente tornerà
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a delinquere, anche perché alla fine della messa alla prova ha qualcosa in mano che prima non
aveva: un lavoro o un percorso scolastico”
Gli operatori hanno rilevato che il successo di una misura dipende non solo dall’intervento nei
confronti del minore, ma anche sul suo contesto familiare e sociale. Tuttavia, come ha osservato
un’assistente sociale “il buon senso ci obbliga a lavorare sul sistema famigliare, ma nella realtà
questo non è sempre possibile perché in certi casi la famiglia non c'è o comunque una delle due
figure famigliari è assente, si interviene o attraverso i servizi territoriali specifici sulla famiglia o
attraverso i centri di terapia famigliare”.
3.1
Il contesto di vita e le condizioni personali del ragazzo
In seguito si è chiesto di riportare i fattori di rischio che, secondo gli operatori, influenzano
l’efficacia degli interventi messi in atto dall’U.S.S.M e i fattori che, invece, proteggono il minore
dal reiterare il reato. Dalle risposte fornite dal campione sottoposto all’analisi emerge che, tra i
fattori di rischio, troviamo principalmente il contesto famigliare e le condizioni personali del
giovane autore di reato. Due operatori hanno aggiunto, agli elementi appena citati, la bassa scolarità
e il contesto sociale. Per quanto riguarda il contesto famigliare, questo può influire negativamente
sul percorso del ragazzo in diversi modi; in alcuni casi si parla di scarsa qualità dei rapporti, “fattori
di rischio sono la conflittualità famigliare e l’assenza della figura paterna”. In altri casi di stile
educativo della famiglia “nel senso che non è in linea con il percorso previsto dai servizi, o
addirittura è in contrasto con gli stessi, oppure ha un atteggiamento estremamente giustificativo nei
confronti dei ragazzi o rileva che in fondo è stata una ragazzata, fino ad arrivare a chi pensa che la
società ce l’ha con il figlio e quindi con tutta la famiglia”. La famiglia, tuttavia, agli occhi degli
intervistati non è solo un fattore di rischio, ma anche di protezione: “Se la famiglia collabora, è
presente, partecipa al processo educativo, rivede gli stili educativi, si mette un attimo in discussione
e sostiene il ragazzo aiutandolo in questo percorso di responsabilizzazione di fronte al reato,
sicuramente influisce”.
Un’assistente sociale ha accennato, inoltre, all’influenza esercitata dal contesto sociale sul minore “i
ragazzi che abitano in contesti a rischio, dove la criminalità è più diffusa, sono portati a certi tipi di
frequentazione e quindi cadono nel reato più facilmente. Io credo che sia una concatenazione di
fattori che fa sì che il comportamento del ragazzo sfoci nella devianza”.
Oltre agli elementi contestuali, gli intervistati hanno fatto riferimento al ruolo esercitato dai fattori
personali in gradi di esercitare un’influenza sul percorso del minore. Tra questi sono stati
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menzionati l’atteggiamento, la personalità, la volontà di impegnarsi nel cambiamento, la messa in
discussione, l’assunzione di responsabilità del reato: “conta molto il fatto che sia lo stesso ragazzo a
farsi carico del reato: elaborandolo, assumendosene la responsabilità, cercando di capire cosa ha
provocato nell'altro ecc. Inoltre molto dipende anche dal ragazzo se si coinvolge, si impegna,
partecipa, capisce che in fondo anche se è inciampato in un reato questo potrebbe anche essere
l'occasione per avere opportunità diverse”.
Tra le caratteristiche personali del minore, si è voluto affrontare la percezione degli operatori delle
differenze legate al genere e alla nazionalità, per quanto riguarda l’efficacia degli interventi
preventivi messi in atto nei confronti dei giovani autori di reato. Prendendo in considerazione il
genere, tre operatori su quattro hanno dichiarato che non ci sono differenze tra maschi e femmine
“per quanto riguarda l’atteggiamento che hanno quando arrivano qua, non ci sono differenze
sostanziali nel senso che vengono tutti qua, maschi e femmine, con le stesse domande, le stesse
paure, gli stessi timori. Non ho riscontrato differenze di genere”. Soltanto un operatore ha messo in
luce una differenza tra i sessi ovvero ha dichiarato, sulla base della sua esperienza, che “le femmine
di solito sono un po’ più ostiche all’inizio, però poi rispondono meglio”. Inoltre, tutti e quattro i
partecipanti all’intervista hanno evidenziato l’elevata presenza di minori di sesso maschile
all’interno del circuito penale.
Per quanto riguarda, invece, le differenze tra italiani e stranieri, i partecipanti hanno dichiarato, da
un lato, che grosse diversità tra i due gruppi non ci sono, però, dall’altro lato, hanno ritenuto
opportuno precisare che esistono delle difformità connesse, ad esempio, alla cultura:
“Alcune volte gli interventi risultano più difficili anche per una cultura diversa e per una situazione
familiare più drastica; altre volte ancora sono minori non accompagnati, quindi non abbiamo una
famiglia su cui poter contare o da vedere per capire determinate dinamiche. Mi è capitato di notare,
ad esempio, che i ragazzi albanesi sono molto più impostati, più testardi nelle cose, non voglio
generalizzare per cultura, però delle sottili differenze ci sono, allora deve essere fatto un intervento
molto più mirato che tiene conto del fatto che è un ragazzo straniero e che ha delle difficoltà di
integrazione. Proprio per questo, poi, commette dei reati, anche perché quando giunge qui, gli unici
contatti che ha sono con altri connazionali che delinquono e il suo unico aggancio è quello. Nel
momento in cui ci approcciamo a lui diventa anche difficile farci capire, comunicare e cercare di
spiegare che la legge italiana è diversa dalla sua legge”.
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Queste differenze culturali sembrerebbero avere ripercussioni anche sulle pratiche educative e sui
rapporti con i figli:
“Più che altro è la famiglia che influenza molto l’efficacia della messa alla prova, nel senso che i
genitori delle famiglie straniere sono molto più dispiaciuti, preoccupati perché hanno timore che ci
sia un pregiudizio, che il fatto stesso di essere straniero possa influenzare in modo negativo l'esito e
quindi il giudizio sul ragazzo. Sono famiglie molto presenti e dispiaciute forse un po' di più delle
famiglie degli italiani, le quali sì sono dispiaciute, ma tendono forse un po' di più a coprire o
discolpare il figlio piuttosto che colpevolizzarlo fortemente come fanno le famiglie degli stranieri”
In altri casi si fa riferimento alla differenza nell’accesso alle risorse per spiegare la differenza tra
italiani e stranieri:
“I ragazzi stranieri hanno una diversa opportunità di accesso alle misure e alle risorse, se sono
stranieri non accompagnati, se sono di culture particolari come per esempio la cultura zingara o la
cultura rom. La cosa che rimarco è questa differenza di accesso alle misure e alle risorse”.
Passando a parlare, invece, dei fattori che proteggono il ragazzo dalla reiterazione del reato, il
campione intervistato ha evidenziato l’importanza del percorso scolastico e formativo, quale
elemento protettivo perché, come sostiene un’assistente sociale, “aver indirizzato il ragazzo verso
un percorso ben preciso, che può essere aver conseguito un titolo di studio o avere un lavoro,
permette di lasciarlo alla fine del percorso penale con un progetto di vita, e questo aiuta tanto il
ragazzo a non ricommettere il reato”.
Gli altri operatori hanno messo in luce ulteriori elementi protettivi:
“Concludere un percorso scolastico, concludere un percorso formativo, l'avvio di una borsa lavoro
che magari può dare adito ad un assunzione, il coinvolgimento in attività di volontariato sono
esperienze positive; esperienze con un adulto di riferimento significativo, che può essere un
educatore o un volontario. Anche il poter sperimentare delle situazioni di discussione, di
elaborazione di determinate situazioni in gruppo, secondo me, è estremamente positivo, tutela”.
3.2. Le attività inserite nel progetto di messa alla prova
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Andando a trattare le attività inserite con maggiore frequenza nel progetto di messa alla prova,
sono emersi due punti. Da un lato, vi sono attività che vengono inserite sempre nel progetto, il
volontariato o attività socialmente utili, attività formative o scolastiche, attività lavorative o una
borsa lavoro; dall’altro lato ci sono attività che vengono inserite a seconda della specifica
problematica del ragazzo:
“Nel caso di ragazzi stranieri ci impegniamo a fargli acquisire il permesso di soggiorno oppure gli
facciamo frequentare dei corsi di alfabetizzazione, se il ragazzo ha difficoltà con la lingua italiana.
Nel caso di reati a sfondo sessuale, il ragazzo frequenta un percorso psicologico”.
Le diverse attività vengono inserite per raggiungere differenti obiettivi, ad esempio, il volontariato è
“l’unico modo che il ragazzo ha per ripagare la società del danno subito”. Si prevedono, inoltre,
attività che possono sviluppare nei giovani delle competenze da impiegare nel loro percorso di vita:
“inseriamo i giovani in corsi professionali in modo che acquisiscano titoli che poi possono spendere
nel mercato del lavoro, finito il loro percorso”.
Tutti gli intervistati sono concordi nel sostenere che l’esito favorevole dipende dal ragazzo e non
dal tipo di attività inserita: “il progetto dovrebbe essere fatto in modo che l’esito sia facilmente
raggiunto; dalla mia esperienza non dipende molto dall’attività ma da quanto il ragazzo comprende
il senso della messa alla prova”.
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BIBLIOGRAFIA
BERTELLI B. (2008), Devianza, forme di giustizia, prevenzione, Trento,Valentina Trentini editore.
CAVALLO M. (2002), Ragazzi senza: disagio, devianza e delinquenza, Milano, Bruno Mondatori
editori.
LANZA E. (2003), La sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato minorenne,
Milano, Giuffrè editore.
MESTITZ A. (2007), Messa alla prova: tra innovazione e routine, Roma, Carocci editore.
PALOMBA F. (2002), Il sistema del processo penale minorile, Milano, Giuffrè editore.
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