LA PRIMA GUERRA MONDIALE
L’attentato di Sarajevo, del 28 giugno 1914 ad opera dello studente serbo Gavrilo
Princip, costato la vita all’arciduca ed erede al trono asburgico, Francesco Ferdinando e
a sua moglie Sofia, fu la miccia che fece esplodere la "polveriera" Balcani, ove le regioni
slave sottomesse all’impero Austro-Ungarico, stavano maturando, fomentate dalla
Serbia, sentimenti irredentisti, volti, dunque, alla conquista dell’indipendenza.
A sua volta l’Austria-Ungheria era una potenza sempre più in crisi ed in declino che, già
provata dall’espansione della Germania e dalle sconfitte subite dall’Italia, nel corso delle
guerre d’Indipendenza, si vedeva ora minacciare anche i territori balcanici, sotto la
spinta destabilizzante di una Serbia accusata di favorire il malcontento delle popolazioni
slave suddite di Vienna.
L’uccisione dell’erede al trono era dunque una provocazione che non poteva essere
lasciata impunita e, anche se solo dopo la guerra si ebbero conferme del legame tra
Princip ed ambienti sovversivi serbi, vicini al governo, all’impero di Francesco Giuseppe
sembrò giunto il momento di liquidare il problema Serbia, contro cui fu lanciato un
ultimatum dalle condizioni durissime ed umilianti.
Sebbene le autorità di Belgrado, pur di evitare lo scontro armato ed il sicuro annientamento,
mostrarono la disponibilità ad accettare gran parte delle clausole, la risposta fu ritenuta
insoddisfacente e così l’Austria, dopo essersi assicurata l’appoggio dell’impero tedesco, il 28 luglio
1914, dichiarò guerra alla Serbia, scatenando l’inferno in un Europa allora caratterizzata da delicati
meccanismi di alleanza militare tra i vari stati, figli degli eventi e delle tensioni maturatesi negli
anni precedenti: se gli austro-ungarici erano forti del legame con il reich tedesco di Guglielmo II, a
difesa della Serbia scesero in campo la Russia zarista e la Francia, mentre, invece l’Italia, legata agli
imperi centrali da un trattato difensivo e che dunque prevedeva l’intervento solo in caso di
aggressione, appellandosi al fatto che era stata l’ Austria ad attaccare, senza neppure consultarla, si
dichiarò neutrale.
L'invasione della Francia
Con l’avvio delle ostilità, l’iniziativa militare fu presa dal reich di Guglielmo II, che
poteva contare su un esercito di straordinaria potenza, ma a cui facevano da contraltare
le malandate armate asburgiche, alle prese con le sempre più profonde divisioni
multietniche.
Al fine di evitare di combattere su due differenti fronti, la Germania tentò di liquidare
rapidamente la Francia, prima che la Russia potesse completare la sua complessa e
macchinosa opera di mobilitazione: si decise di dare attuazione al "piano Schlieffen"
(dal nome del suo ideatore conte Alfred von Schlieffen), pronto già dal 1905 e che
prevedeva, in soli 42 giorni, tramite una manovra a tenaglia dalla parte del mare,
attraverso il Belgio, l’invasione della Francia e la conquista di Parigi, al fine di trasferire
poi le operazioni sul fronte orientale, con un attacco massiccio, in forze, contro le truppe
zariste.
Le armate tedesche, al comando di von Molke, nipote del celebre comandante che
sconfisse la Francia e l’Austria nel 1870 e nel 1866, in attuazione della strategia prevista,
invasero il Belgio ma, l’accanita resistenza offerta dalle truppe del re Alberto I, mandò a
monte l’attuazione del piano Schlieffen, che dovette essere modificato, in quanto il
tempo perso e la contestuale mobilitazione russa, costrinse gli Imperi Centrali ad inviare
numerose divisioni in oriente, per arginare la pressione delle truppe dello zar e a
combattere, di conseguenza, su due fronti.
Per giunta, la violazione della neutralità belga costò cara al reich di Guglielmo II in
quanto l’Inghilterra decise di intervenire nel conflitto a fianco della Russia e della
Francia, in quella che d’ora in poi sarebbe stata denominata Intesa, in contrapposizione
agli Imperi Centrali d’Austria e Germania.
Il piano Schlieffen venne, dunque, modificato e si decise di puntare direttamente su
Parigi, attraverso un’ avanzata rivelatasi, nei fatti, talmente incontenibile da portare i
tedeschi, nell’agosto 1914 a soli quaranta chilometri dalla capitale, ormai sull’orlo della
capitolazione; quando tutto sembrava ormai perduto, i francesi, guidati dal generale
Joffre organizzarono però una disperata controffensiva sulla Marna che riuscì
nell’impresa di fermare un nemico costretto, obbligatoriamente, ad attestarsi sulle
posizioni conquistate; fu l’inizio dell’estenuante e tremenda guerra di posizione, fatta di
trincee, reticolati, filo spinato, tra le indicibili sofferenze dei soldati, costretti a
combattere in condizioni ai limiti della sopportazione, tra fango, pioggia, malattie,
freddo e fuoco nemico.
Lungo una linea di centinaia di chilometri,che andava dal mare del nord alla Svizzera,
per quattro lunghi anni, gli opposti schieramenti si affrontarono, staticamente, in
posizione di equilibrio, senza che nessuno riuscisse ad avere la meglio sull’altro.
Soltanto l’intervento degli Stati Uniti riuscirà, nel 1918, grazie all’infinito serbatoio di
uomini, mezzi e materie prime, cui gli americani potevano attingere, a risolvere la
situazione, consentendo agli alleati un trionfo pagato a caro prezzo.
La guerra diventa mondiale
L’esercito del Reich, impantanatosi in occidente, riuscì però a prendersi una fragorosa e
sonante rivincita sul fronte orientale ove le armate dello Zar, dopo una prima avanzata,
costata il posto al prudente comandante tedesco von Prittwitz, andarono incontro alla
catastrofe nella battaglia di Tannemberg e dei laghi Masuri.
Eroi indiscussi del trionfo germanico furono i generali Hindenburg e Ludendorff che,
forti del clamoroso successo, si tramutarono, agli occhi dell’opinione pubblica, in eroi
nazionali, fino a divenire il binomio destinato a decidere, con assoluta padronanza, per
tutto il corso della guerra, i destini militari della Germania.
Il trionfo dei tedeschi sul fronte orientale fu però vanificato dal disastro austro-ungarico
a Leopoli, ove i Russi, dopo aver travolto le linee nemiche, dilagarono in Galizia e nei
Carpazi.
Quello che, nelle intenzioni di tutti, doveva essere un conflitto di stampo ottocentesco e,
quindi, di breve durata, si tramutò, viceversa, da semplice questione austro-serba, in una
tragedia sempre più ampia, fino ad assumere, per il numero di paesi coinvolti, una
dimensione di carattere mondiale.
A fianco degli imperi centrali si schierarono l’Impero Ottomano ed una Bulgaria
desiderosa di espandersi a danno della Serbia, mentre l’Intesa riuscì a giovarsi
dell’apporto di Montenegro, Giappone, Portogallo, Romania (immediatamente
sopraffatta), Cina, Grecia e, soprattutto Italia e Stati Uniti, le due nazioni che più di ogni
altra avrebbero contribuito a determinare le sorti della "grande guerra"; in particolare
l’entrata in guerra della Turchia bloccò le vie di rifornimento alleate alla Russia,
attraverso il mar Nero, per cui, al fine di forzare il blocco navale ottomano, fu deciso, dai
franco-inglesi ed in particolar modo dal lord dell’ammiragliato Winston Churchill, un
ambizioso sbarco nei Dardanelli risoltosi, però, in un clamoroso fiasco, nonostante la
crisi profonda che attanagliava il paese della mezzaluna.
In particolare l’intervento del Giappone rappresentò la vera e propria svolta storica delle
ostilità in quanto, per la prima volta, le operazioni belliche si ampliarono a 360°gradi,
assumendo contorni universali, dall’Europa all’estremo oriente, passando per le rotte
dell’Atlantico.
L’Impero del Sol Levante era ormai divenuto una splendida realtà politico-militare, tale
da far assurgere il paese al ruolo di grande potenza; la disfatta di Port Arthur, inflitta, nel
1905, alla grande Russia zarista, aveva rafforzato le ambizioni dei vertici imperiali,
desiderosi di consolidare la propria supremazia in tutto l’oriente e, da questo punto di
vista, le colonie tedesche in Cina e nel Pacifico rappresentavano un bottino troppo
ghiotto per farselo sfuggire.
Con un esercito all’avanguardia, con una flotta potenziata a tutti gli effetti e capace di
travolgere quella russa, il Giappone si affacciava a quella che sarebbe stata denominata I
guerra mondiale, anche a causa del suo intervento, con la certezza di poter recitare un
ruolo da protagonista.
Il regno di Vittorio Emanuele III, allo scoppio delle ostilità era invece rimasto neutrale
ma, dopo un lungo dibattito e scontro tra interventisti e neutralisti, si decise l’entrata in
guerra al fianco dell’Intesa, in seguito alla firma del trattato di Londra, che avrebbe
garantito all’Italia, in caso di vittoria il riconoscimento del Trentino,dell’Alto Adige, di
Trieste, dell’Istria e della Dalmazia.
Il 24 maggio 1915, dunque, l’esercito italiano, alla guida del comandante Cadorna,
prendeva posizione ai confini con l’impero Austro-Ungarico, su un fronte di 700
chilometri che andava dai monti del Trentino, al Carso, sino all’Isonzo.
L’intervento del nuovo alleato fu una boccata d’ossigeno soprattutto per le armate russe
sbaragliate, pochi giorni prima, da un poderoso attacco tedesco nella zona di GorligeTarow che non colpì in profondità, solo a causa del necessario spostamento di uomini sul
neonato fronte italiano.
Nel frattempo la piccola Serbia, dopo un’accanita resistenza, guidata dal generale
Putnik, che aveva portato alla liberazione di una Belgrado originariamente occupata
dagli austro-tedeschi, aveva dovuto capitolare, mentre i resti del suo esercito furono tratti
in salvo dalla flotta italiana dell’ammiraglio Paolo Thaon di Revel.
Il conflitto si stava, intanto, sempre più trasformando in una carneficina senza
precedenti, con i fanti che venivano mandati al massacro attraverso la dissennata tattica
degli attacchi frontali all’arma bianca; all’inizio del 1916, il generale von Falkenhayn,
che aveva sostituito il debole von Molke, all’indomani della battaglia della Marna,
decise di lanciare l’assalto alla fortezza di Verdun, considerata inespugnabile dai
francesi, al fine di infliggere al nemico una sconfitta dal devastante impatto psicologico.
La battaglia che ne seguì, che vide premiata la stoica resistenza dell’esercito francese, fu
un’ autentica ecatombe, con 700.000 soldati che persero la vita nel giro di pochi mesi,
ma altrettanto devastante, fu l’offensiva sulla Somme, quella dello Chemin des Dames e
le 11 battaglie dell’Isonzo condotte dagli italiani, nelle quali entrambi gli schieramenti,
al fine di conquistare pochi chilometri di terreno, lamentarono una paurosa perdita di
vite umane, tale da far temere l’annientamento reciproco.
Usa in guerra
Le sorti della guerra non dipendevano solo da ciò che avveniva sul piano delle
operazioni militari, ma un ruolo chiave era rappresentato dalla corsa ai rifornimenti, che
correva lungo le rotte marittime dell’Atlantico; da questo punto di vista la situazione
degli Imperi Centrali, schiacciati tra due fronti di guerra e con il blocco navale operato
dall’Inghilterra, non era delle più favorevoli, anche in seguito all’incerto risultato nella
battaglia navale dello Jutland, mentre l’Intesa poteva giovarsi degli aiuti provenienti
dall’ America.
Al fine di ovviare e porre un freno a tale situazione, l’impero tedesco fece ricorso alla
guerra sottomarina, condotta dai temibili sommergibili del reich, che rappresentarono
una spina nel fianco per il naviglio alleato, fino a quando, nel maggio 1915, colò a picco,
colpito da un siluro, iltransatlantico Lusitania, sul quale viaggiava un consistente
numero di cittadini americani; in seguito alle proteste degli Stati Uniti e temendone
l’entrata in guerra, la Germania decise di astenersi da tali attacchi ma, nel febbraio 1917,
il kaiser Guglielmo II, diede ordine di riprendere, senza alcuna forma di tolleranza, la
guerra sottomarina e di affondare qualunque naviglio fosse transitato sulle rotte
dell’Atlantico.
La decisione si rivelò però un tragico errore per gli Imperi Centrali perché il presidente
americano Wilson ruppe gli indugi ed optò per l’intervento in guerra al fianco
dell’Intesa, cui già da tempo gli americani guardavano con favore.
Il nuovo alleato prese, in pratica, il posto della Russia, la quale, dopo aver devastato le
truppe austro-ungariche in Galizia, venne travolta dalla rivoluzione, uscendo dal
conflitto, dopo l’avvento al potere dei bolscevichi di Lenin, con la pace di Brest-Litovsk,
ottenuta a scapito di gravi perdite territoriali.
Gli austro-tedeschi si trovavano ora di fronte un vero e proprio colosso, che poteva
mettere sul piatto un inesauribile apparato di uomini e mezzi in grado di spezzare, a
favore degli alleati i fragili equilibri del conflitto.
L’unica salvezza era quella di battere gli alleati sul tempo, mettendo a frutto, lo sterile
vantaggio di uomini e mezzi di cui gli Imperi Centrali potevano ancora giovarsi.
La battaglia imperiale, del marzo 1917 e lo sfondamento del fronte italiano, nella zona di
Caporetto, avrebbero rappresentato, dunque, il disperato tentativo di risolvere la partita
con l’ Intesa ed anche, visti gli avvenimenti che fecero seguito ai due attacchi, l’ultimo
lampo austro-tedesco in una guerra irrimediabilmente persa.
La rivoluzione russa
Il vento della rivoluzione soffiò, inesorabilmente, sulla Russia imperiale, tra l’8 e il 9
marzo 1917 (23 e 24 febbraio secondo il calendario ortodosso), quando, con lo zar
Nicola II al fronte, scoppiarono a Pietrogrado (ex San Pietroburgo) violente
manifestazioni di piazza, simili a quelle che, nel 1905, furono tragicamente represse, nel
sangue, dalla guardia imperiale, che, in quest’occasione, a differenza della volta
precedente, decise di fraternizzare con i rivoltosi e di appoggiare, dunque, la sommossa.
All’inizio del 1917, la condizione economica del paese, già drastica nell’ante-guerra, fu
resa catastrofica da un conflitto che aveva provocato la morte di due milioni di persone e
che aveva sottratto alle campagne quella forza lavoro necessaria per lavorare le terre,
abbandonate al loro destino a causa della mobilitazione forzata di un esercito che
fagocitava uomini e mezzi e sempre più allo sbando, privo di adeguati armamenti, mal
equipaggiato e sbaragliato dalle violente offensive degli Imperi Centrali sul fronte
orientale.
L’inflazione alle stelle, determinata da un sistema economico assolutamente
insufficiente a sostenere lo sforzo bellico, la miseria, la spaventosa carestia del biennio
16/17, portò, dunque, all’esasperazione e alla conseguente rivolta, che, dilagata in tutto il
paese, travolse il regime zarista: lo zar Nicola II, infatti, nel tentativo di salvare la
situazione, decise di abdicare a favore del fratello Michele il quale, in tutta risposta,
rinunciando al trono, decretò, di fatto, la fine della lunga dominazione imperiale della
dinastia Romanov.
Nel caos generale, mentre i ribelli costituirono un "Soviet" di operai, l’unica autorità
legittima rimasta, la Duma, diede il via alla formazione di un governo provvisorio,
presieduto dal principe L’vov e formato dai cosiddetti "cadetti", costituzionalidemocratici di tendenze liberali, tra cui spiccava, alla guida del ministero della difesa, la
figura Kerenskij, di estradizione menscevica, ossia di quella che era la corrente di
minoranza del partito socialista rivoluzionario.
Karenskij si mostrò, da subito, favorevole alla prosecuzione della guerra a fianco degli
alleati dell’Intesa, che videro così, con favore, l’affermazione della rivoluzione, certi di
un maggior vigore delle armate russe sul fronte orientale.
Nell’aprile del 1917, però, si verificò un evento che avrebbe mutato i destini della Russia
e dell’intera Europa, quando l’esule Vladimir Il’ic Ul’janov, detto Lenin decise di
abbandonare la Svizzera e di ritornare in patria, alla testa del partito comunista
bolscevico; appena rientrato Lenin lanciò le sue "tesi d’aprile", nelle quali sostenne la
necessità di uscire immediatamente dalla guerra, di togliere la terre ai proprietari per
distribuirla ai cittadini e di affidare il potere ai Soviet che stavano sorgendo, a grappoli,
in tutto il paese, sul modello di quello di Pietrogrado.
Nel frattempo, mentre Karenskij assumeva personalmente la guida del governo
provvisorio, gli eserciti russi, guidati dal generale Brusilov, poi sostituito da Kornilov,
andarono incontro alla catastrofe, anche a causa del progressivo sfaldamento delle truppe
e dei sempre più frequenti episodi di insubordinazione.
Preoccupati dalle disfatte subite dagli austro-tedeschi, i bolscevichi scatenarono le
"giornate di luglio", violente manifestazioni anti-governative che vennero duramente
represse nel sangue e che costarono la messa al bando del partito di Lenin, costretto alla
fuga in Finlandia.
Il paese intanto era sempre più allo sbando e un colpo di stato del generale Brusilov, da
poco alla guida delle forze armate, fallì solo per la mobilitazione dei bolscevichi, ormai
pronti per la presa del potere.
Tra il 6 e il 7 novembre ( 24-25 ottobre secondo il calendario ortodosso) il braccio destro
di un Lenin tornato dall’esilio, Trotzkij decise una sollevazione che portò alla conquista
del palazzo d’inverno, sede di un governo costretto alla fuga; era il trionfo della
cosiddetta rivoluzione d’ottobre e dei bolscevichi, ora nuovi padroni dell’immenso
paese, dopo un lungo percorso iniziato con il crollo della monarchia zarista.
Lenin fu chiamato a presiedere il "consiglio dei commissari del popolo", prendendo il
comando di un governo di lavoratori, fondato sul potere dei Soviet, che ebbe, come
prima finalità, quella di uscire da una guerra che, a causa delle ripetute sconfitte, stava
portando all’annientamento.
Al prezzo di gravissime perdite territoriali fu concluso, dunque, dai bolscevichi, per
mano del neo-commissario per gli affari esteri Trotzkij, il trattato di pace di BrestLitovsk, ma le sofferenze del popolo russo non si conclusero con la fine delle ostilità:
fomentati dalle potenze occidentali, che temevano l’affermarsi della rivoluzione, gruppi
di ufficiali fedeli allo zar, tentarono abbattere il potere costituito, scatenando, alla guida
delle cosiddette armate "bianche" una spaventosa guerra civile, che ,anche a causa della
nuova, terrificante, carestia del periodo 21/22, avrebbe provocato milioni di morti.
Al fine di contrastare le temibili forze avversarie, Trotzkij organizzò l’esercito
rivoluzionario, che sarebbe passato alla storia con il mitico nome di Armata Rossa e la
cui fama si sarebbe sempre più affermata negli anni successivi, sino quasi ai giorni
nostri.
La guerra civile, dopo anni contrassegnati, tragicamente, dal "terrore rosso e bianco" e che portò al
massacro dello zar Nicola II e di tutta la famiglia, si concluse, alla fine del 1920, con l’affermazione
dei bolscevichi e con la nascita, sulle rovine della dissolta Russia imperiale, dell’Unione delle
Repubbliche Socialiste Sovietiche, con capitale Mosca; fu il trionfo definitivo della rivoluzione
d’ottobre e del comunismo.
Crollo Germania e Austria
Dopo l'ingresso in guerra degli Usa, gli Imperi Centrali tentarono il tutto per tutto prima
che le forze americane potessero essere disponibili e, forti delle truppe provenienti dal
dissolto fronte orientale, diedero il via ad un attacco in grande stile, sia sul versante
italiano, sia su quello occidentale.
Il 24 ottobre 1917, gli eserciti austro-tedeschi, sfondarono le linee italiane a Caporetto,
facendo incetta di prigionieri e di armamenti e costringendo il nemico ad una disastrosa
ritirata che appariva come il preludio di un’imminente capitolazione; quella che
sembrava la dissoluzione di un esercito ormai allo sbando si tramutò invece,
miracolosamente, in un’incredibile rinascita, visto che, dopo la sostituzione del crudele
Cadorna col il più umano Armando Diaz, le rinvigorite truppe italiane fermarono
definitivamente gli austro-tedeschi nella storica battaglia del Piave, ricacciandoli al di la
del fiume.
Nel contempo, sul fronte occidentale, gli imperi centrali, dopo una poderosa offensiva,
che li ricondusse, ancora una volta, alle porte di Parigi, vennero di nuovo sconfitti nella
seconda battaglia della Marna e non furono più in grado nè di riprendere l’iniziativa né,
soprattutto, di arginare un nemico, appoggiato dal consistente contributo dell’alleato
americano, i cui soldati raggiungevano, ormai, in Europa, il numero di 2 milioni di
effettivi.
Sul versante italiano, dopo il trionfo del Piave e la conseguente rotta avversaria, il
generale Diaz ottenne, a Vittorio Veneto, la vittoria decisiva, che costrinse l’imperatore
d’Austria-Ungheria Carlo I, succeduto, nel 1916, al defunto Francesco Giuseppe, a
chiedere la resa, firmata il 4 novembre 1918 a Villa Giusti, presso Padova.
Con gli eserciti dell’Intesa ormai padroni del campo e all’offensiva, sette giorni dopo anche una
Germania allo sbando, stremata dal blocco navale e devastata da scioperi e da episodi di
insubordinazione militare, si arrese; fu la fine di una guerra terrificante, atroce, che provocò la
morte di 10 milioni di persone e che si concluse con la lacerazione del grande impero AustroUngarico e con la fine del reich di Guglielmo II, costretto ad abdicare in favore della nascita della
debole repubblica di Weimar; a distanza di 20 anni da quei tragici eventi, la Germania, umiliata
dagli accordi di pace di Versailles, avrebbe tentato di prendersi la rivincita per opera di un piccolo
caporale austriaco, reduce di guerra e memore della sconfitta, destinato a scatenare un secondo
tragico inferno di morte e distruzione, nel tentativo di vendicare le umiliazioni del suo Kaiser, per il
quale aveva combattuto nel fango delle trincee.
Trattato di Versailles
Quella che doveva essere una conferenza volta a ristabilire una pace duratura si tramutò,
invece, nella causa embrionale della seconda, immane, tragedia.
I delegati delle potenze vincitrici si ritrovarono a Versailles nel gennaio 1919, per
ristabilire i nuovi assetti di un’Europa straziata da una guerra devastante, che aveva
travolto assetti consolidati da secoli, con il crollo di ben 4 grandi imperi.
Già nel gennaio 1918 il presidente americano Wilson aveva enunciato i suoi 14 punti,
volti a definire una pace giusta e duratura e a creare un organismo garante dell’integrità
territoriale, che avrebbe dovuto vigilare su eventuali tentativi sovversivi e di
destabilizzazione; in realtà, fin dalle prime battute, la conferenza di Versailles, anziché
mirare a creare una situazione di armonia, si caratterizzò per il suo intento punitivo nei
confronti delle nazioni vinte, che, senza essere neppure invitate, furono costrette a subire
condizioni umilianti delle potenze alleate, animate da un profondo desiderio di vendetta.
La stessa associazione voluta dal presidente statunitense, la società delle nazioni,
nacque, in pratica, già morta, priva di effettivi poteri e svuotata dall’assenza, tra i suoi
membri, non solo di delegati dei paesi sconfitti, ma anche di quelli americani, dopo la
politica d’ "isolamento" decisa dal congresso.
Se l’impero Austro-Ungarico cessò di esistere politicamente, la Germania, ove nel
frattempo era stata proclamata la repubblica, si ritrovò, praticamente, in ginocchio:
considerata la causa di tutte le sciagure e la principale responsabile dei lutti provocati da
4 anni di guerra, fu privata di tutte le colonie e dell’Alsazia e della Lorena, tornate alla
Francia, che si arrogò pure il diritto di sfruttare le miniere della Saar.
La fragile repubblica di Weimar fu inoltre condannata a pagare debiti di guerra
astronomici, a smilitarizzare la zona del Reno, a cedere la flotta di guerra all’Inghilterra
(ma le navi tedesche, confinate a Scapa Flow, preferirono l’auto-affondamento) a
limitare l’esercito a soli 100.00 effettivi, a rinunciare ad artiglieria, sommergibili ed
aviazione; la stessa Prussia orientale, la regione dalla quale partì il processo di
unificazione del paese, venne separata dalla madrepatria, attraverso il cosiddetto
"corridoio" di Danzica, creato al fine di concedere uno sbocco sul mare alla neonata
Polonia e proprio il corridoio di Danzica sarebbe tragicamente divenuto noto come la
causa scatenante del secondo conflitto mondiale.
La Germania post-bellica appariva come un paese sull’orlo del baratro, disastrato dalla
fame, dalla miseria, dalla disoccupazione, con l’inflazione che raggiunse livelli talmente
spaventosi da ridurre il marco a mera carta straccia; i tumulti di piazza, i disordini erano
all’ordine del giorno e lo stesso governo appariva troppo debole per poter arginare la
protesta e le insurrezioni che rendevano, sempre più concreto, lo spettro di una
rivoluzione filo-bolscevica.
In una nazione distrutta ed umiliata, si fece dunque sempre più strada il partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi di Adolf Hitler, che, nel giro di pochi anni riuscì a
conquistare il favore delle folle, assolutamente conquistate dai suoi appassionati discorsi,
imperniati, proprio, sulla necessità di riportare la Germania ai fasti e alla grandezza di un
tempo e di cancellare le umiliazioni inferte ad un popolo, destinato, necessariamente, a
prendersi la rivincita sulle nazioni vincitrici.
Si può dunque dire che gli errori dei trattato di pace di Versailles furono fatali per gli
equilibri europei e per i sogni di una pace stabile e certa:
a causa del desiderio di vendetta delle potenze alleate, sotto la cenere della "grande guerra", covò il
sentimento di rivalsa degli sconfitti, che sarebbe sfociato, nel settembre 1939, nel secondo
drammatico incubo, capace di travolgere i fragili equilibri creati e responsabile, tragicamente, della
morte di ben 50 milioni di persone.