Seconda dispensa 11-12 - Dipartimento di Scienze Politiche e

“Diritto dei migranti”
(Prof.ssa Donatella Loprieno)
Seconda dispensa
A.A. 2011-2012
1.
La condizione giuridica dello straniero nell’ordinamento
italiano precostituzionale___________________________________1
2.
La normativa italiana sugli stranieri prima del
1998_____________________________________________________4
2.a. La legge Martelli________________________________5
3. La legge Turco-Napolitano (l.n. 40/1998)__________________8
3.a. Il primo obiettivo _______________________________9
3.b. Il secondo obiettivo ____________________________13
3.c. Il terzo obiettivo _______________________________16
4. Dalla Legge Bossi-Fini del 2002 ai pacchetti sicurezza ______19
5. La stratificazione dei diritti degli stranieri ______________31
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1. La condizione giuridica dello straniero nell’ordinamento italiano precostituzionale
Preliminarmente all’analisi delle linee guida della riforma legislativa operata
nel 1998, occorre ricordare come prima della legge n. 943 del 1986, la materia
dell’immigrazione era regolata dal Testo Unico delle Leggi di Pubblica sicurezza
(TULPS) del 1931 che, data l’ideologia prevalente dell’epoca della sua adozione, si
occupava degli stranieri in maniera generica ed avendo come esclusiva finalità la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale.
Va detto che l’atteggiamento manifestato da parte dello Stato italiano nei riguardi degli immigrati stranieri è stato molto discontinuo, risentendo dei diversi atteggiamenti culturali dei rispettivi periodi storici, delle politiche estere e delle politiche economiche interne.
Già prima dell’unificazione territoriale, legislativa ed amministrativa, gli Stati
italiani preunitari contenevano ampi riferimenti alla condizione degli stranieri, in ragione dell’incidenza, rispettivamente, del codice francese e di quello austriaco, entrati in vigore in alcune province sin dal 1816. A fronte di un generalizzato riconoscimento del principio di eguaglianza formale, le normative degli Stati preunitari subordinavano tale prerogativa alla verifica della condizione di reciprocità. Gli stranieri, in
definitiva, nell’ipotesi di insussistenza di tale condizione erano sprovvisti della titolarità di gran parte dei diritti civili.
Dopo l’unificazione, si registrarono una serie di miglioramenti soprattutto grazie all’emanazione del Codice civile del 1865 (c.d. Codice Pisanelli); l’art. 3 di tale
normativa stabiliva, infatti, che lo straniero era ammesso “a godere dei diritti civili
attribuiti ai cittadini”, senza tener conto quindi dell’esistenza delle medesime prerogative a favore del cittadino nel paese di provenienza dello straniero stesso1. Attraverso tale disposizione si intese respingere, dunque, il modello di riferimento di matrice napoleonica introducendo, come si disse allora, «un’ardita e stupenda novità»,
ossia «quanto di più largo e liberale la scienza ha concepito e si augurò la dottrina»
(D’Orazio). Per la prima volta, infatti, lo straniero poté acquisire ed usufruire di tutti
i mezzi offerti dalle leggi civili (contratti, acquisti immobiliari, esercizio di lavoro
autonomo). Unica preclusione rimaneva quella relativa ai diritti politici, la cui titolarità rimase ancorata al “diritto di incolato”, notoriamente riconosciuto al solo cittadino.
Certamente, però, la situazione era tutt’altro che uniforme dato che il trattamento riservato agli stranieri dipendeva dalla classe sociale di appartenenza piuttosto che
dalla sola nazionalità. In tempi tranquilli, ovvero di pace e senza crisi internazionali,
1
Il principio di reciprocità nei rapporti fra gli Stati significa che agli stranieri è riservato un trattamento giuridico uguale a quello che i rispettivi Stati di appartenenza riservano ai cittadini dello Stato ospitante.
1
lo Stato liberale italiano concentrava”sorveglianza e punizione” soprattutto sulle
classi lavoratrici, sui sovversivi e sugli anarchici. Altra categoria oggetto di attenzione e di speciale sorveglianza speciale dello Stato erano i nomadi.
Sul finire del sec. XIX, il r.d. 30 giugno 1889, n. 6144, inquadrò la normativa
sugli stranieri nel titolo relativo alle “classi pericolose per la società”, disciplinandone i due aspetti, per così dire, patologici: l’espulsione ed il rimpatrio. Dunque, anche gli stranieri, al pari dei mendicanti, degli ammoniti e delle persone scarcerate,
erano considerati come una potenziale turbativa per l’ordine pubblico, specie se
sprovvisti di mezzi di sussistenza e non in grado di fornire sufficienti ragguagli in
ordine alla propria identità. Una delle maggiori novità introdotte dal r.d. del 1889 fu,
senza dubbio, l’introduzione della dichiarazione di soggiorno che, poi, divenne uno
dei capisaldi del TULPS del 1931. Quest’ultimo, in realtà, non prevedeva un vero e
proprio permesso di soggiorno, ma piuttosto un obbligo per lo straniero di “dare contezza di sé” alla autorità di pubblica sicurezza entro tre giorni dall’arrivo in Italia.
Quest’ultima normativa, al pari delle disposizioni preliminari al codice civile del
1942, fece segnare un sensibile passo indietro rispetto al passato, riportando
l’ordinamento italiano, limitatamente al trattamento degli stranieri, allo stesso livello
del previgente e restrittivo codice napoleonico.
È chiaro che le disposizioni fortemente limitative della libertà di circolazione e
soggiorno previste dal TULPS, nonché la stessa reintroduzione della verifica della
condizione di reciprocità relativamente al godimento dei diritti civili (art. 16 delle
preleggi, Cod. Civ.), altro non riflettevano se non gli atteggiamenti delle dottrine nazionalistiche e xenofobe dell’epoca fascista. Il periodo delle Grandi guerre e delle
dittature (1914-45), infatti, comportò un forte rafforzamento delle norme di polizia,
del controllo del territorio e della diffidenza nei confronti degli stranieri.
Ciò che desta stupore è che l’impostazione che relegava lo straniero tra i potenziali nemici dello Stato e, quindi, tra i pericoli per l’ordine pubblico e per la sicurezza
nazionale, ha continuato a caratterizzare la disciplina della condizione dello straniero
ben oltre l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Anzi, fino al 1986, gran
parte delle normative applicabili allo straniero erano proprio quelle contenute nel
TULPS. Quest’ultimo, nel quadro delle norme relative all’ordine ed alla sicurezza
pubblica, dedicava agli stranieri un apposito titolo articolato in due diversi capi (art.
142-152): da una parte, le disposizioni relative al soggiorno e, dall’altra, quelle relative all’espulsione, all’allontanamento e agli altri provvedimenti adottabili dalle autorità di pubblica sicurezza. Le norme relative al soggiorno erano assai rigorose e prevedevano un penetrante controllo di polizia. Oltre ad essere previste espulsioni di carattere giurisdizionale, erano previste anche espulsioni come misura di polizia per
chi, ad esempio, contravveniva alle regole del soggiorno oppure per motivi di ordine
pubblico. Contro questo tipo di espulsioni, emesse dal Ministro o dal Prefetto, non si
poteva esercitare il diritto di ricorso di fronte all’autorità giudiziaria. Si ricorreva
2
ampiamente anche all’istituto del respingimento alla frontiera per tutti quegli stranieri che non riuscivano a dare contezza di sé, sprovvisti di mezzi ovvero esercitanti
mestieri dissimulanti l’ozio, il vagabondaggio o la questua.
Chiaramente tale obsoleta normativa non era ‘in armonia’ con quanto previsto,
a proposito della condizione giuridica degli stranieri, dall’art. 10, comma 2, della
Cost. che mira a garantire lo straniero rispetto all’esercizio di poteri discrezionali del
Governo, ad escludere la possibilità di interventi discriminatori di carattere poliziesco rimessi al solo arbitrio del potere esecutivo. La previsione di una riserva di legge
rinforzata (in quanto vincolata alla normativa internazionale in materia) fa sì che il
diritto degli stranieri si configuri in maniera assai particolare. Da una parte, anche nel
nostro ordinamento, il diritto degli stranieri è un diritto le cui norme si applicano soltanto a persone presenti nello Stato ma che ad esso non sono legate per il tramite della cittadinanza, e che non sono titolari di un diritto soggettivo perfetto all’ingresso,
alla circolazione ed al soggiorno nel territorio italiano. Si tratta di un insieme normativo che è coessenziale alla sovranità stessa dello Stato e che, però, è un diritto “derogatorio” rispetto alle comuni norme vigenti per i cittadini ed è spesso connotato da
margini, più o meno ampi, di discrezionalità lasciata alle autorità amministrative preposte alle verifiche delle condizioni di ingresso, soggiorno ed allontanamento. Il diritto degli stranieri si configura, così, come un diritto che sottopone il non cittadino
ad obblighi più numerosi, più stringenti e più specifici rispetto a quelli previsti per il
cittadino e come un diritto maggiormente repressivo nei riguardi delle violazioni
compiute dagli stranieri. Tuttavia, il diritto degli stranieri non può limitarsi ad essere
un diritto speciale di tipo poliziesco, in quanto il legislatore è tenuto costituzionalmente, nel disciplinare la condizione giuridica dello straniero, al rispetto dei vincoli
costituzionali, internazionali e comunitari. Perciò devono far parte del diritto degli
stranieri, oltre alle norme strumentali alla preservazione della sovranità statale e che
si sostanziano prevalentemente nelle variegate misure di controllo e poliziesche, anche quelle norme ispirate alla riaffermazione dell’efficacia universale dei diritti fondamentali della persona umana (stranieri regolari, irregolari o clandestini) e che prevedono diritti civili, sociali e forme di partecipazione politica degli stranieri regolarmente soggiornanti. Una parte rilevante del diritto degli stranieri, dunque, deve essere preordinata a favorire percorsi di integrazione degli stranieri.
Da quanto detto emerge chiaramente come, nella disciplina giuridica dello straniero, debbano “convivere” due opposti sistemi di princìpi (o due anime): le prerogative della statualità/sovranità con il connesso problema del controllo del territorio e
dell’ordine pubblico ed il rispetto dei diritti fondamentali della persona umana. La
prima esigenza non può prevalere completamente sull’altra, svuotandola di senso e di
contenuto. Nella maggioranza dei casi, però, i due opposti princìpi finiscono per entrare in conflitto. Il legislatore italiano, come vedremo, sempre più tende a far prevalere le norme di natura derogatoria e repressiva, riducendo al “minimo” le norme sul
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trattamento dello straniero finalizzate alla tutela dei diritti fondamentali della persona
umana.
2. La normativa italiana sugli stranieri prima del 1998
La normativa del TU, arricchita da una copiosa mole di circolari che riflettevano le tendenze politiche del momento, ha “resistito” fino alla metà degli anni ’80,
epoca in cui il fenomeno migratorio ormai aveva assunto dimensioni tali da richiedere ben altri interventi2.
Nel 1981, con la l. n. 158/1981, si ratificava la Convenzione n. 143/1975
dell’OIL per sopprimere le immigrazioni clandestine e l’occupazione illegale di lavoratori migranti e per promuovere l’uguaglianza di opportunità e di trattamento in materia di occupazione e di qualifiche. Tuttavia, occorre aspettare il 1986 per ritrovare
un intervento normativo degno di rilievo ossia la legge 30 dicembre 1986, n. 943,
(c.d. Legge Foschi) emanata a disciplina del trattamento e collocamento dei lavoratori extracomunitari e per attuare la Convenzione Oil 143/1975 (espressamente richiamata dall’art. 1 della legge in esame). Pur riconoscendo alcuni importanti diritti
(ricongiungimento familiare, uso dei servizi sociali e sanitari, mantenimento
dell’identità culturale, accesso all’istruzione ed alla abitazione), la legge Foschi non
prevedeva nessun elemento di programmazione, ma soprattutto era basata su una visione semplicistica del mercato del lavoro degli immigrati e su una serie di meccanismi complessi e farraginosi. La parte più importante della legge fu la sanatoria delle
posizioni degli stranieri già presenti in Italia illegalmente o irregolarmente che, evidentemente, mirava a dare una prima risposta al problema del lavoro sommerso. Immigrati (occupati e disoccupati) e datori di lavoro dovevano dichiarare entro tre mesi
presenza ed attività per poter essere regolarizzati ed evitare l’espulsione (per gli stranieri) e le nuove sanzioni penali (per il datore di lavoro che sarebbe stato punito, nel
futuro, con la reclusione da tre mesi ad un anno, o da uno a cinque anni in caso di
sfruttamento).
Nel periodo 1986-1990, la crescita media del Pil al 3% creò molte più opportunità di occupazione anche per gli stranieri. La nuova legge e la sanatoria, inoltre,
avevano cominciato a collocare l’Italia nella mappa delle destinazioni migratorie da
parte dei migranti dei paesi in via di sviluppo. Però, aumentavano anche il lavoro nero e l’irregolarità della presenza straniera a testimonianza di un cattivo funzionamen-
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In questo lungo arco di tempo, un ruolo quasi di supplenza è stato svolto soprattutto dai sindacati e
dall’associazionismo cattolico (in primis, dalla Fondazione Migrantes e dalla Caritas).
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to della legge. L’immigrazione diveniva più visibile provocando episodi xenofobi
talvolta anche molto violenti3.
Non bisogna dimenticare che il 1989 fu un anno di profondissimi cambiamenti
sia nella scena politica internazionale che in quelle interna. La caduta del regime sovietico, infatti, rimosse il principale ostacolo all’emigrazione di cittadini dell’Europa
centrale ed orientale, cambiando progressivamente la composizione della popolazione immigrata in Italia. Si innescò un processo di riduzione del peso relativo dei paesi
africani a vantaggio di Albania, Romania, Ucraina, Polonia e dei paesi della ex Jugoslavia. Sulla scena politico-partitica nazionale, invece, fecero il loro ingresso gli
“imprenditori populisti della xenofobia”, ossia le leghe ostili sia all’immigrazione interna proveniente dal mezzogiorno che all’immigrazione straniera.
In sintesi, può dunque dirsi che in questi anni (ed in quelli a seguire) il principale terreno di discussione per le autorità pubbliche furono il controllo della presenza
degli immigrati e le questioni legate alla sicurezza piuttosto che le tematiche inerenti
le condizioni lavorative degli immigrati e più in generale lo status dei diritti e dei doveri degli stranieri.
2.a. La legge Martelli
La legge n. 39/1990 (c.d. Legge Martelli) fu il risultato di una lunga gestazione
e di lunghe dispute all’interno delle aule parlamentari. Tale normativa, pur se disorganicamente, rivisitava tutta la disciplina in materia di asilo politico, ingresso, soggiorno, respingimento ed espulsione del cittadino extracomunitario, secondo
un’ottica di rigoroso controllo dell’immigrazione.
La prima figura chiamata in causa dalla suddetta legge è quella del rifugiato politico. L’art. 1, infatti, richiamando la Convenzione di Ginevra del 1951, aboliva, anzitutto, la riserva geografica per i richiedenti asilo non europei4, stabilendo anche la
disciplina del riconoscimento dello status di rifugiato.
Dal punto di vista delle politiche migratorie, la legge 39/90 inaugurava (senza
molto successo) la politica della programmazione dei flussi migratori, strumento attraverso cui realizzare, almeno in teoria, un controllo preventivo capace di garantire
un assorbimento graduale degli stranieri, funzionale alla loro possibilità di integrazione sociale e lavorativa.
Tra i principali aspetti della normativa in esame possiamo ricordare i seguenti:
a) introduzione di alcuni nuovi tipi di permesso di soggiorno (per lavoro autonomo, per commercianti ambulanti stranieri, per turismo e per motivi di culto);
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Tra tutti ricordiamo l’omicidio Masso, nel 1989 a Villa Literno. Jerry Masslo era un rifugiato sudafricano ed era una figura molto nota nel mondo dell’associazionismo e dei sindacati.
4
Tale riserva geografica prevedeva, per l’Italia, la possibilità di concedere lo status di rifugiato esclusivamente ai cittadini di paesi europei e per eventi precedenti alla data del primo gennaio 1951.
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b) assegnazione al giudice amministrativo della competenza per tutti i ricorsi attinenti i diritti degli immigrati;
c) costituzione dei centri di prima accoglienza;
d) riconoscimento delle associazioni degli immigrati e delle associazioni operanti sul versante dell’immigrazione;
e) introduzione dell’istituto dell’espulsione del cittadino extracomunitario.
In realtà, gli istituti più dibattuti (e criticati) negli anni immediatamente successivi all’emanazione della Legge Martelli sono stati l’espulsione, il riaccompagnamento alla frontiera, i limiti al diritto di difesa e di ricorso giurisdizionale contro
questi provvedimenti. In linea generale, si prevedeva la notifica in una lingua comprensibile allo straniero di tutti gli atti di diniego dello status di rifugiato, di espulsione o di ritiro del permesso di soggiorno, insieme alle informazioni su come poter ricorrere al Tar (ricorso che come effetto aveva la sospensione dell’espulsione).
L’espulsione era prevista per coloro che erano condannati per reati gravi o per violazione delle disposizioni in materia di ingresso e di soggiorno. Come regola generale,
però, l’espulsione avveniva solo per intimazione ossia con la notifica (per iscritto)
alla straniero di lasciare il paese di propria iniziativa entro 15 giorni. Cosa che nella
maggior parte dei casi non avveniva. L’espulsione con accompagnamento alle frontiere tramite la forza pubblica era l’eccezione in quanto riservata alle decisioni
straordinarie del Ministro degli Interni per motivi di ordini pubblico o di sicurezza
dello Stato oppure agli espulsi che non avevano ottemperato all’intimazione di abbandonare l’Italia ed erano stati nuovamente fermati dalla polizia (recidiva). La debolezza di tale procedura di espulsione dipendeva sostanzialmente da due fattori: da
una parte, la scarsità delle risorse e, dall’altra, dall’opposizione di molte forze politiche e sociali alle espulsioni forzate, considerate lesive della libertà individuale e della
tradizione giuridica italiana.
Nella legge Martelli mancavano quasi completamente le misure per l’effettiva
integrazione sociale degli immigrati che si prevedeva di introdurre con altri provvedimenti che, però, non conclusero il proprio iter a causa del cambiamento del contesto politico/partitico.
In sintesi, la legge Martelli ha sicuramente rappresentato un miglioramento della situazione normativa dei lavoratori stranieri, dei loro familiari e dei richiedenti asili, abrogando molte delle misure del TULPS del 1931 e creando utili strumenti di gestione (visti, permessi, programmazione dei flussi). La regolarizzazione in essa prevista funzionava, però, anche da richiamo per chi era all’estero e vi intravedeva una
opportunità di regolarizzazione. Inoltre, la debolezza delle procedure di espulsione e
le scarsissime sanzioni nei riguardi dei datori di lavoro irregolari hanno comportato
un ulteriore flusso di immigrazione illegale di manodopera attratta, soprattutto, dalla
possibilità pratica di trovare lavoro anche se in condizioni illegali. È importante ricordare, infatti, che l’immigrazione irregolare sarebbe molto limitata se i migranti
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non avessero possibilità alcuna (o anche solo bassissima) di trovare una qualche forma di occupazione e se accanto alla disponibilità a migrare non vi fosse anche una
domanda di lavoratori immigrati illegalmente nei paesi di destinazione. La clandestinizzazione contribuisce a inserire i migranti nel mercato del lavoro come soggetti
più vulnerabili di altri.
Fino al 1998, i pubblici poteri non sono stati in grado di predisporre seri strumenti di gestione dei flussi migratori: non un effettivo e controllato aumento delle
possibilità legali di ingresso di stranieri per lavoro (scelta impopolare in periodi di
disoccupazione5), né un aumento del contrasto del lavoro nero (su cui si basavano
molti settori produttivi italiani) e della lotta alla criminalità internazionale che gestiva
(con profitti molto alti) i traffici dei clandestini.
La disciplina legislativa sull’immigrazione e gli interventi dei pubblici poteri in
merito sono stati, dunque, dal 1990 al 1998, disorganici, incompleti e frammentari in
quanto (spesso) ‘ispirati’ dalla esigenza di risolvere i problemi posti
dall’immigrazione illegale e/o per “tamponare” emergenze e/o crisi internazionali6.
Nel 1995, ad esempio, veniva emanato il decreto legge 489 reiterato per ben
cinque volte senza essere, tuttavia, convertito in legge ordinaria. Tale decreto tentava
di portare a termine una limitata revisione della Legge Martelli regolamentando diversamente la disciplina delle espulsioni e dei reati collegabili alla presenza di stranieri irregolari; prevedendo norme sulla programmazione dei flussi e sul lavoro stagionale, sulla previdenza e sull’assistenza e sui ricongiungimenti familiari; introducendo diverse ipotesi di espulsione di competenza del giudice penale (espulsione
giudiziaria); facendo diventare reato la mancata esibizione del documento (o la sua
distruzione), imponendo agli espulsi il divieto di poter legalmente fare rientro in Italia per sette anni e facendo divenire reato il reingresso illegale.
Tuttavia, la parte più conosciuta (anche perché l’unica ad essere effettivamente
applicata) della normativa appena ricordata è stata quella relativa alla (quinta) regola5
Dopo l’introduzione dei visti nel 1990, si sono parallelamente anche sviluppate una serie di tecniche
di contrabbando di esseri umani, la produzione di documenti amministrativi falsi per permettere il
passaggio alla frontiera o anche la simulazione di situazioni oggettive false (ad esempio: i matrimoni
di comodo per acquisire permessi e cittadina italiana). Un effetto secondario dell’inasprimento delle
misure di controllo è, infatti, proprio la nascita di una forte industria del crimine organizzato altamente
specializzato.
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A tal proposito, ricordiamo gli esiti della crisi albanese del 1991 ed i relativi sbarchi di massa sulle
coste italiane. Le reazioni allo sbarco dell’agosto 1991 furono molto diverse rispetto a quelle del marzo dello stesso anno. Il 9 agosto 1991, infatti, a Bari, attraccò il mercantile Vlora, carico di 10.00012.000 persone, stipate fino all’inverosimile. Il governo dell’epoca, cavalcando la paura di massa di
essere invasi dagli albanesi, decise di non accogliere i nuovi immigrati che furono ricevuti come clandestini, dissetati con getti di acqua, poi trasferiti nello stadio Della Vittoria dove il cibo veniva distribuito con gli elicotteri. Vennero poi quasi tutti rimpatriati, dal 17 agosto in poi, con i traghetti. Invero,
tra gli effetti di quell’operazione (da cui l’Italia non usciva molto bene) vi fu anche l’avvio di una politica di contenimento dei flussi irregolari nel paese di origine tramite una Intesa con Tirana finalizzata
alla lotta contro il traffico di droga, la criminalità, il contrabbando e l’immigrazione clandestina.
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rizzazione degli stranieri irregolari. Pur essendo ispirate a ragioni latamente umanitarie, le sanatorie succedutesi negli anni 1987-1997 sono state determinate tanto
dall’incapacità del legislatore ad emanare una riforma della materia quanto
dall’impossibilità pratica di allontanare decine di migliaia di stranieri in posizione irregolare nel nostro Paese, salvo procedere ad espulsioni di massa (vietate dal diritto
internazionale).
Il recepimento delle convenzioni internazionali (prime fra tutte la convenzione
OIL n. 143), una serie di sentenze della Corte costituzionale (sul diritto al ricongiungimento ed all’unità familiare e sulla parità di trattamento tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri), la progressiva assunzione a livello comunitario di competenze in
materia di visto, asilo ed immigrazione hanno contribuito a rendere massimamente
urgente una riforma organica della legislazione sulla condizione giuridica dello straniero in linea con quanto previsto dall’art. 10 della Costituzione.
3. La legge Turco-Napolitano (l.n. 40/1998)
Il Governo Prodi (vincente alle elezioni dell’aprile 1996) si era impegnato ad
elaborare una nuova normativa sull’immigrazione che trattasse finalmente i temi di
ingresso, lavoro, integrazione, controllo del territorio, espulsioni e cooperazione internazionale (attesi, soprattutto, i vincoli rappresentati dalla politica comunitaria in
materia). La nuova normativa, approvata nel 1998 e nota come Legge TurcoNapolitano (l. n. 40/1998) è stata poi tradotta in un Testo Unico, il d. lgs. del 25 luglio 1988, n. 286 (d’ora in avanti TUI) e completata da un regolamento di attuazione
(D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394). Si trattava di una normativa estremamente complessa che prevedeva, per la sua entrata a regime, oltre 60 adempimenti fra regolamenti,
decreti ministeriali, interministeriali, costituzioni di comitati e di commissioni, spesso tra loro concatenati in un insieme definito (più o meno compiutamente) solo dopo
più di due anni dall’approvazione della legge.
Il legislatore del 1998 muoveva dalla constatazione che l’immigrazione straniera costituiva ormai un fenomeno ordinario in Italia (ed in Europa) da disciplinare in
maniera organica e coerente in tutti i suoi molteplici aspetti. In altre parole, si percepiva, finalmente, che l’immigrazione era un fenomeno ordinario, complesso e globale da governare mediante strumenti ordinari e di lungo periodo e non semplicemente
ignorato o meramente represso. Si avvertiva, dunque, come non più prorogabile una
normativa organica in grado di contemperare la tutela dell’ordine e della sicurezza
pubblica con il bisogno insoddisfatto di alcuni tipi di manodopera, con il forte calo
demografico italiano e con l’aumento delle spinte migratorie da molti paesi. Il tutto
senza perdere di vista il corpus di diritti da riconoscere al migrante.
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La normativa si articolava (e si articola nonostante le numerosissime modifiche
a cui è andata incontro7) intorno ai seguenti temi:
le modalità di ingresso e dei controlli alle frontiere;
la disciplina dell’accesso al lavoro;
la regolamentazione del lavoro autonomo e di quello stagionale;
le norme penali e processuali finalizzate al contrasto delle organizzazioni criminali che gestiscono l’immigrazione clandestina;
le garanzie, in termini di diritti civili, sociali e latamente politici, per l’immigrato regolarmente soggiornante.
La legge Napolitano-Turco appariva ispirata sostanzialmente ad una logica “binaria”: tenere distinte l’immigrazione regolare per motivi di lavoro (da favorire collegandola anche alla progressiva integrazione sociale dei lavoratori)
dall’immigrazione clandestina (da limitare, prevenire e reprimere).
Gli obiettivi perseguiti possono essere così sintetizzati:
Realizzare una politica di ingressi legali, limitati, programmati e regolati attraverso una più efficace programmazione dei flussi di ingresso per lavoro;
Contrastare l’immigrazione clandestina e lo sfruttamento criminale dei flussi
migratori attraverso misure di prevenzione e repressione;
Avviare realistici, ma effettivi, percorsi di integrazione per i nuovi immigrati
e per gli stranieri già regolarmente soggiornanti in Italia attraverso, soprattutto, il riconoscimento e la piena fruibilità di un insieme compiuto di diritti.
Questi tre obiettivi che costituivano, potrebbe dirsi, l’architrave della legislazione del 1998 erano così strettamente interconnessi da dover essere necessariamente
realizzati insieme: sarebbe stato sufficiente la mancata o parziale realizzazione di anche uno solo di essi, per inficiare la possibilità di realizzare anche gli altri.
3.a. Il primo obiettivo
La legge 40/98 adottava, in materia di lavoro degli stranieri, un approccio innovativo sia rispetto agli orientamenti seguiti negli altri paesi europei, sia rispetto alla
precedente normativa italiana. Si abbandonava, infatti, il criterio in base al quale, dal
1974 (e, di nuovo, a partire dal 2002), in Italia si era tentato di “governare” il fenomeno della immigrazione extracomunitaria: limitare i nuovi ingressi di lavoro ai soli
casi in cui vi fosse una richiesta nominativa di lavoro e per il quale non vi erano altri
disoccupati (italiani o stranieri) iscritti nelle liste di collocamento.
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Il TUI si compone, in particolare, da 49 articoli suddivisi in 6 Titoli: Principi generali; Disposizioni
sull’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dal territorio dello Stati; Disciplina del lavoro; Diritto
all’unità familiare e tutela dei minori; Disposizioni in materia sanitaria, nonché di istruzione, alloggio,
partecipazione alla vita pubblica e integrazione sociale; Norme finali.
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La legislazione in vigore dal 1998 al 2002 prevedeva che, nell’ambito delle
quote di ingresso di stranieri individuate ogni anno, potessero essere rilasciati diversi tipi di ingresso. Così, nell’ambito delle quote per lavoro subordinato si prevedeva
la chiamata nominativa da parte del datore di lavoro italiano ma con la soppressione
della verifica caso per caso dell’indisponibilità di altri lavoratori italiani o stranieri
già residenti. Si introduceva una disciplina speciale degli ingressi per lavoro stagionale, con la previsione dell’obbligo di rientro in patria allo scadere del permesso di
soggiorno. Spiccava, poi, l’ingresso per inserimento nel mercato del lavoro, mediante
l’autorizzazione all’ingresso rilasciata in Italia, previa verifica della garanzia a favore
dello straniero; si trattava del c.d. meccanismo dello sponsor che riconosceva allo
straniero, dietro prestazione di garanzia da parte di privati o di associazioni (relativamente all’alloggio, al sostentamento ed all’assistenza sanitaria), la possibilità di
entrare e soggiornare in Italia, per un anno, alla ricerca di lavoro. Dunque, si abbandonava il principio che subordinava l’ammissione in Italia di nuovi lavoratori alla
preventiva verifica, caso per caso, dell’indisponibilità di altri lavoratori italiani o
stranieri già iscritti nelle liste di collocamento (meccanismo il cui funzionamento era
reso difficilissimo dalla vischiosità del mercato del lavoro e dalla inefficienza del sistema del collocamento pubblico).
Ma cosa si intende per sistema delle quote?
La formula originaria dell’art. 3, co. 4, TUI, prevedeva che ogni anno il Presidente del Consiglio dei Ministri, sulla base dei princìpi e dei criteri generali formulati
nel Documento programmatico e previo parere delle Commissioni parlamentari, della Conferenza Stato-Regioni e Stato-Città, determinasse con uno o più decreti la programmazione delle quote di ingresso per lavoro subordinato, stagionale e lavoro autonomo nell’ambito dei quali venivano rilasciati i relativi visti di ingresso e permessi
di soggiorno. Onde evitare eventuali ritardi si prevedeva che, in caso di mancata
emanazione del decreto annuale, le quote si intendessero determinate secondo le medesime disposizioni del decreto emanato l’anno precedente. Non si prevedeva un
termine dell’anno entro il quale il Governo doveva provvedere all’emanazione del
decreto. Il testo dell’art. 3, comma 4 TUI, attualmente in vigore e riscritto dalla successiva legge 189/2002, prevede che con Decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri, sentiti il Comitato per il coordinamento e monitoraggio delle disposizioni
del TUI, la Conferenza Stato-Città e autonomie locali e le competenti commissioni
parlamentari, vengono annualmente definite, entro il termine del 30 novembre
dell’anno precedente a quello di riferimento del decreto e sulla base dei criteri generali del Documento programmatico, le quote massime di stranieri da ammettere nel
territorio dello Stato, per lavoro subordinato, anche per esigenze di carattere stagionale, e per lavoro autonomo, tenuto conto dei ricongiungimenti familiari e delle misure di protezione temporanea eventualmente disposte ai sensi dell’art. 20 TUI. Non
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è obbligatorio per legge definire annualmente le quote; in caso di mancata pubblicazione del decreto di programmazione annuale, il Presidente del Consiglio dei ministri
può provvedere in via transitoria, con proprio decreto (e, quindi, senza sentire nessuna delle commissioni prima citate) ma nel limite delle quote stabilite per l’anno precedente. Ove se ne ravvisi l’opportunità ulteriori decreti possono essere emanati durante l’anno. I visti di ingresso ed i permessi di soggiorno per lavoro subordinato, anche per esigenze di carattere stagionale, e per lavoro autonomo, sono rilasciati entro
il limite di tali quote.
Sulla base di quali parametri si stabiliscono le quote di stranieri da ammettere
sul territorio?
Innanzitutto, i criteri generali per la definizione dei flussi di ingresso devono
essere individuati dal Documento programmatico relativo alla politica
dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato8. L’art. 21, comma 1,
TUI (come modificato dalla legge 189/2002) prevede poi misure di sfavore e misure
di favore. Le misure di sfavore consistono nella previsione secondo cui, nello stabilire le quote, i decreti prevedono restrizioni numeriche all’ingresso di lavoratori di Stati che non collaborano adeguatamente nel contrasto all’immigrazione clandestina o
nella riammissione di propri cittadini destinatari di provvedimenti di rimpatrio. Le
misure di favore consistono nella previsione che, tra le quote preferenziali di ingresso
per lavoro, si devono espressamente indicare le quote riservate ai «lavoratori di origine italiana per parte di almeno uno dei genitori fino al terzo grado in linea retta di
ascendenza, residenti in Paesi non comunitari, che chiedano di essere inseriti in un
apposito elenco, costituito presso le rappresentanze diplomatico e consolari, contenente le qualifiche professionali dei lavoratori stessi». Quote preferenziali possono
essere previste anche nei confronti di quegli Stati (non appartenenti all’Unione europea) con i quali il Ministro degli affari esteri, di concerto con il Ministro dell’interno
e il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, abbia concluso accordi finalizzati
alla regolamentazione dei flussi di ingresso e delle procedure di riammissione».
Nell’ambito di tali intese, possono essere definiti appositi accordi in materia di flussi
per lavoro stagionale con le corrispondenti autorità nazionali responsabili delle politiche del mercato del lavoro dei paesi di provenienza.
I decreti annuali, secondo quanto recita l’art. 21, comma 4, TUI «devono tener
conto delle indicazioni fornite, in modo articolato per qualifiche o mansioni, dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali sull’andamento dell’occupazione e dei tas8
Il Documento de qua è predisposto, a norma dell’art. 3, comma 1, TUI, dal Presidente del Consiglio
dei Ministri (sentiti i ministri interessati, il CNEL, la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, la Conferenza Stato–città ed autonomie locali, gli enti e le associazioni nazionali maggiormente attivi nell’assistenza e nell’integrazione degli
immigrati e le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro maggiormente rappresentative sul
piano nazionale) ogni tre anni, salva la necessità di un termine più breve.
11
si di disoccupazione a livello nazionale e regionale, nonché sul numero dei cittadini
stranieri non appartenenti all’Unione europea iscritti nelle liste di collocamento». Il
decreto annuale (e, se del caso, quelli infra annuali) devono essere predisposti in base
ai dati sulla effettiva richiesta di lavoro, suddivisi per regioni e per bacini provinciali
di utenza ed elaborati dall’anagrafe informatizzata del Ministero del Lavoro. In materia, le regioni potranno trasmettere alla Presidenza del Consiglio, entro il 30 novembre di ogni anno, un rapporto sulla presenza e sulla condizione degli immigrati non
comunitari nel territorio regionale, contenente anche le indicazioni previsionali relative ai flussi sostenibili nel triennio successivo in rapporto alla capacità di assorbimento del tessuto sociale e produttivo. Le quote vengono suddivise tra le varie regioni e, all’interno delle regioni, tra le varie province.
Alcune circostanze testimoniano, però, che la realizzazione dell’obiettivo di una
puntuale e realistica politica di regolazione dei nuovi flussi migratori (aumentando le
possibilità di ingresso legale per lavoro e contrastando l’ingresso e la permanenza illegale degli stranieri) non è stata perseguita, già dal legislatore del 1998, in maniera
sufficientemente chiara e precisa (e ciò è anche all’origine delle modifiche che di lì a
poco sarebbero state introdotte dalla legge Bossi-Fini). Innanzitutto, le disposizioni
adottate nel 1998 lasciavano al Governo una quasi assoluta discrezionalità
nell’individuazione di tempi, modalità e criteri attraverso i quali giungere alla determinazione delle quote. Le scelte eccessivamente prudenti (quote troppo esigue rispetto al fabbisogno di manodopera) e adottate con ritardo, non hanno scoraggiato nel
primo triennio l’immigrazione clandestina costantemente attratta dal fabbisogno di
manodopera (evidentemente insoddisfatto). In secondo luogo, le norme adottate nel
1998 ed aventi come fine quello di prevenire e reprimere il lavoro irregolare degli
stranieri regolarmente soggiornanti, si sono rivelate inadeguate a scoraggiare questo
fenomeno e, spesso, sono rimaste inapplicate a causa dello scarso numero di verifiche da parte dei competenti organi.
L’eccessiva restrizione degli ingressi regolari (anche a fronte di un fabbisogno
reale di lavoratori stranieri) ha incentivato l’ingresso irregolare di stranieri e d’altra
parte è bene ricordare quanto segue. In teoria, il decreto flussi dovrebbe essere riservato agli stranieri che si trovano ancora nel loro paese di origine. In pratica, invece,
la maggioranza dei beneficiari è costituita da migranti irregolarmente presenti in Italia che non avendo altro modo per regolarizzare la loro presenza, utilizzano
l’escamotage dei flussi. Gli stranieri ‘irregolari’ fingono di essere ancora nei rispettivi paesi di origine, inoltrano la domanda (o meglio la fanno inoltrare dai loro datori
di lavoro), ottengono l’autorizzazione a entrare in Italia e tornano nel loro paese di
origine per chiedere il visto di ingresso all’ambasciata italiana. Nella sede
dell’ambasciata fingono di essere rimasti nel loro paese esibendo l’invito del datore
di lavoro italiano assieme all’autorizzazione della Prefettura. Ciò consente loro di ot-
12
tenere il visto di ingresso, istituto grazie al quale possono rientrare in Italia da “regolari”.
L’attuale disciplina della programmazione dei flussi ha suscitato una serie di riserve per l’ampia discrezionalità riconosciuta al Governo, in contrasto sia con la riserva di legge rinforzata dell’art. 10, comma 2, Cost. sia con i principi di buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost. D’altra parte, i
flussi tentano di governare la domanda ma non l’offerta di lavoro che continua ad
alimentare un mercato del lavoro irregolare e sommerso. O meglio, il sistema dei
flussi potrebbe anche governare l’offerta di lavoro ma alla sola condizione di un
mercato del lavoro strutturato con un realistico ed effettivo intervento di mediazione
tra domanda ed offerta di lavoro9 (Pezzini).
3.b. Il secondo obiettivo
Per perseguire una più efficace prevenzione e repressione dell’immigrazione illegale, la legislazione del 1998 ha riformato completamente gli strumenti di polizia
degli stranieri operando delle scelte chiaramente volte a rendere più restrittiva la disciplina dettata precedentemente dalla Legge Martelli, ritenuta troppo favorevole e
troppo permissiva.
Per prevenire e contrastare efficacemente gli ingressi ed i soggiorni clandestini,
il legislatore del 1998 si soffermava sulle misure contro le organizzazioni criminali e
contro i datori di lavoro “nero” prevedendo, ad esempio, i reati di favoreggiamento e
di sfruttamento dell’immigrazione clandestina10. Ma norme repressive erano previste
anche nei riguardi dell’immigrato irregolarmente soggiornante prevedendosi per esso, nella gran parte dei casi, l’effettivo e celere allontanamento dal territorio dello
Stato. Il problema dell’espulsione si intersecava inevitabilmente con quello della
identificazione degli stranieri: per poter espellere un cittadino straniero ed accompagnarlo alla frontiera occorre prima identificarla ed appurare la sua cittadinanza. La
pratica dei paesi di origine di riammettere i propri connazionali espulsi muniti di do9
Il VI Rapporto CNEL sull’integrazione ha confermato che la questione che, a monte, condiziona negativamente la regolarità e la qualità dell’inserimento lavorativo consiste nelle carenze dei Servizi per
l’impiego pubblici e delle politiche di formazione professionale. La nettissima prevalenza (poco più
del 90%) dei percorsi informali (catene migratorie soprattutto) per far incontrare domanda ed offerta
di lavoro, determina condizioni favorevoli a rapporti di lavoro irregolari ed in nero (soprattutto ove
combinata con la rigidità dei titoli di soggiorno per lavoro, la c.d. non convertibilità).
10
Il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è realizzato da chiunque promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri
atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale
la persona non è cittadino o non ha titolo di residenza permanente. Oggi tale reato è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona (sono anche previste delle aggravanti). Più grave del reato di favoreggiamento è quello dello sfruttamento dell’immigrazione
clandestina. Nello sfruttamento il fine dell’azione, infatti, è sempre quello di trarre un ingiusto profitto
dalla condizione di illegalità dello straniero.
13
cumenti (o anche solo identificati) aveva consolidato tra i clandestini la pratica di distruggere o occultare i documenti e l’uso delle identità multiple fittizie. Il mancato
accertamento della vera identità, inoltre, consentiva allo straniero di eludere le conseguenze della recidiva. Chi veniva colto in posizione irregolare riceveva
l’intimazione a lasciare l’Italia; ove rintracciato nuovamente, nella stessa condizione,
doveva essere allontanato dalle forze dell’ordine e per ulteriori rientri si poteva essere puniti fino a sei mesi di carcere.
Allo scopo di impedire la fuga durante le operazioni di identificazione e di rimpatrio forzato, la legge Napolitano-Turco ha previsto l’istituto della c.d. detenzione
amministrativa in appositi luoghi denominati Centri di Permanenza e di Assistenza temporanei (CPTA) poi ridenominati Centri di identificazione e di espulsione
(CIE) nel 2008. Con tutta evidenza, si tratta di un diritto speciale che sanziona gli
immigrati irregolari con una forma di detenzione caratterizzata dalla discrezionalità
dell’autorità di polizia, ben oltre i casi eccezionali ed urgenti in cui questo è consentito in base all’art. 13 della Costituzione, che stabilisce limiti precisi per la detenzione
amministrativa, precisando che, in mancanza di un atto dell’autorità giudiziaria nei
soli casi previsti dalla legge, può essere adottata “in casi eccezionali di necessità ed
urgenza, indicati tassativamente dalla legge” con provvedimenti che devono essere
comunicati al giudice entro 48 ore e convalidati entro 96 ore “dall’autorità giudiziaria”.
In linea generale, le misure in materia di prevenzione e repressione originariamente previste dalla Napolitano-Turco così possono essere sintetizzate:
aumento della tipologia e dell’effettività dei provvedimenti di respingimento
e di espulsione degli stranieri irregolarmente presenti;
potenziamento delle misure di controllo e dei collegamenti telematici tra le
pubbliche amministrazioni e tra le diverse forze di polizia;
stipula di accordi bilaterali di riammissione con i Paesi di provenienza degli
stranieri per rendere più celeri le procedure di identificazione ed il rimpatrio degli
stranieri da espellere o da respingere e per coinvolgere i Governi dei paesi di provenienza nella regolazione dei flussi e nel contrasto dell’immigrazione illegale;
istituzione di un provvedimento di trattenimento fino a 30 giorni in uno speciale Centro di permanenza temporaneo e assistenza sotto il controllo delle forze di
polizia (provvedimento da adottarsi nei confronti dello straniero per il quale vi siano
ostacoli nell’esecuzione immediata del respingimento o dell’espulsione);
attenuazione delle garanzie di difesa contro i provvedimenti di respingimento o di espulsione e drastico sveltimento dei procedimenti giudiziari relativi ai ricorsi
contro i provvedimenti amministrativi di espulsione.
Molti degli aspetti qualificanti della disciplina legislativa del 1998 in materia di
ingresso, soggiorno, espulsione e respingimento presentavano elementi di dubbia le-
14
gittimità costituzionale, specie se letti alla luce della proclamata parità di cittadini e
stranieri (comunque presenti sul territorio) in ordine alla tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi. L’art. 2 del TUI, dopo aver previsto al primo
comma che allo straniero «comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato» sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana (previsti dalle norme
di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi del diritto
internazionale generalmente riconosciuti), aggiunge (al quinto comma) che allo straniero è riconosciuta altresì la «parità di trattamento con il cittadino relativamente alla
tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi». Il diritto alla difesa e la
garanzia della riserva di giurisdizione, come più in generale la tutela giurisdizionale,
dunque, rientrano sicuramente nel novero delle garanzie costituzionali di cui lo straniero, a prescindere dalla legalità o meno del suo soggiorno, è titolare.
Quanto alla tutela giurisdizionale, già in questa prima normativa del 1998, non
esisteva tanto un problema di titolarità formale in capo allo straniero quanto piuttosto
di effettivo godimento. La distinzione tra l’astratta titolarità e l’effettivo godimento
della tutela giurisdizionale finiva per differenziare profondamente la condizione dello
straniero rispetto al cittadino. Una tale discriminazione non trovava giustificazione
né nella Costituzione né nella normativa internazionale richiamata ma esclusivamente sul piano della politica del diritto dell’immigrazione. Come è stato notato, “la
complessa stratificazione normativa che caratterizza l’ordinamento di polizia degli
immigrati, infatti, risponde ad un fine che tutto concepisce ed ha una fine che tutto
ricomprende: assicurare l’allontanamento dello straniero (irregolare o clandestino)
dal territorio statale, il prima possibile e preferibilmente in forma coattiva” (Pugiotto).
Uno degli argomenti più al centro della contesa politica, negli anni immediatamente successivi all’approvazione della legge Napoletano-Turco, è stato proprio
quello inerente la presenza e la gestione sul territorio degli stranieri irregolarmente
presenti. Il governo del tempo aveva inaugurato una politica fortemente innovativa
(ma non per questo meno criticabile) stringendo una serie di accordi con i paesi di
provenienza dei migranti per contrastare le organizzazioni criminali dedite al traffico
ed al contrabbando delle persone e per facilitare (con appositi accordi di riammissione) il rimpatrio dei clandestini nei paesi di origine o di transito11. Si trattava di una
sorta di politica di esternalizzazione dei controlli migratori coinvolgente attori non
istituzionali o Stati esteri dalla dubbia qualificazione democratica. Molto spesso gli
accordi bilaterali comportavano, sul versante italiano, un insieme di contropartite non
sempre formalizzate (o formalizzabili) e sempre diverso a seconda del paese in questione e che poteva includere la concessione di quote privilegiate, assistenza tecnica e
11
Già nell’estate del 1998, Italia e Tunisia firmarono un accordo bilaterale con cui l’Italia forniva assistenza tecnica e materiale alla Tunisia, alcune motovedette per il pattugliamento delle coste e quote
privilegiate di immigrazione legale. Successivamente però è divenuta la Libia il principale terminale
dei flussi di clandestini africani in direzione europea.
15
finanziaria per la costruzione di infrastrutture, dono di attrezzature per il controllo
delle frontiere, aiuti per la cooperazione allo sviluppo. In cambio, l’Italia cosa chiedeva? Si pretendeva, ad esempio, piena collaborazione nella prevenzione e nella repressione della clandestinità (tramite accordi di riammissione dei clandestini), il controllo (eventualmente congiunto) nei porti di partenza, la cooperazione dei consolati
dei paesi esteri per l’identificazione dei connazionali trattenuti nei CPTA12.
Una misura importante e innovativa per combattere la tratta internazionale degli
esseri umani è stata quella di prevedere una specifica tutela per le vittime della
schiavitù e dello sfruttamento. La Legge Napoletano-Turco, infatti, ha introdotto il
“soggiorno per motivi di protezione sociale” (art. 18, TUI) che permette di rilasciare
un permesso di soggiorno a stranieri sottoposti a situazioni di violenza o di grave
sfruttamento e che vogliono “sottrarsi alla violenza ed ai condizionamenti
dell’organizzazione criminale” e partecipare ad un programma di assistenza ed integrazione sociale”.
Complessivamente e paradossalmente, il potenziamento delle politiche di controllo e la maggiore efficacia repressiva non hanno determinato una consistente diminuzione delle migrazioni irregolari dovute a moltissimi fattori tra cui la struttura
della domanda di lavoro espressa dall’economia italiana. La generalizzata sensazione
di un aumento della presenza di stranieri irregolarmente presenti (o regolarmente
presenti, formalmente disoccupati e materialmente occupati in nero) ha fornito alle
opposizioni politiche del momento un obiettivo intorno a cui coalizzarsi13 e le questioni legate all’immigrazione ed alla sicurezza pubbliche hanno finito per diventare
tema di forte mobilitazione dell’elettorato.
3.c. Il terzo obiettivo
Al di là dei meccanismi di ingresso, del lavoro, del controllo delle frontiere e
della lotta alla criminalità, si avvertiva anche tutta la necessità di predisporre strumenti ai fini dell’inserimento/integrazione degli migranti. Quest’area delle politiche
pubbliche era (e rimane) sicuramente la più magmatica e la più difficile da realizzare
in quanto l’integrazione è questione complessa e non esistono soluzioni ottimali preconfezionate. Tanto per cominciare, non era (e non è) affatto facile e/o scontato trovare il necessario consenso sul modello di integrazione da perseguire. La stessa paro12
Non sempre si riesce a stipulare un accordo o il loro rispetto prolungato nel tempo. Può accadere,
infatti, che i per i Paesi di partenza non vi è nessun interesse ad ostacolare l’immigrazione clandestina.
Gli emigranti, ancorché clandestini, costituiscono una risorsa per i paesi di origine per le loro rimesse
ma anche ma anche perché alleggeriscono la pressione sul mercato del lavoro.
13
La Lega, ad esempio, riavviò con più slancio le proprie iniziative provocatorie. Al proposito, Guolo
sostiene che «agitando il tema dell’Islam come nemico, il Carroccio, spalanca davanti a sé un vasto
spazio nel mercato politico. Il nuovo nemico è simbolicamente più efficace e politicamente più spendibile dei precedenti, di volta in volta “Roma ladrona” o il “Sud assistito”.
16
la “integrazione” era osteggiata da una parte delle forze politiche (e dalla cultura sottostante) che vi intravedeva una certa volontà di prevaricazione e di imposizione di
un modello eurocentrico. Il dibattito sul modello di integrazione vedeva astrattamente coinvolti il modello «assimilazionista» alla francese, il modello «multiculturale»
di matrice anglosassone e quello basato sulla presenza temporanea dell’immigrato,
sperimentato soprattutto in Germania. Sinteticamente può dirsi che nel modello assimilazionista si richiede al cittadino straniero di adeguarsi ai comportamenti, ai valori ed alla lingua del paese di accoglienza in nome dei principi repubblicani universali (eguaglianza di fronte alla legge, neutralità e laicità dello Stato). Il modello multiculturale, che si differenzia molto da esperienza ad esperienza, tende invece a valorizzare e difendere le differenze. Nel dibattito culturale e politico italiano ed in filigrana anche nella normativa è emerso un favor per una sorta di modello di integrazione ibrido definito interculturale da sperimentare soprattutto nell’ambito educativo e scolastico.
Sinteticamente, può dirsi che l’obiettivo di rafforzare le misure di integrazione
sociale degli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio della Repubblica
avrebbe dovuto essere raggiunto attraverso:
la previsione di un quadro sistematico di diritti e doveri dello straniero;
un ampliamento ed un progressivo rafforzamento dei diritti fondamentali
dello straniero regolarmente soggiornante (specie per quelli lungo residenti);
la promozione dell’associazionismo straniero e delle occasioni di scambio
culturale tra italiani e stranieri (artt. 42 TUI);
l’aumento della prevenzione e della repressione degli atti di discriminazione
razzista e xenofoba, anche nei rapporti interprivati (artt. 43 3 44 TUI).
Indicazioni importanti quanto alle concrete modalità di integrazione dei cittadini stranieri dovrebbero essere contenute nel Documento programmatico. In esso, infatti, sono delineati gli interventi pubblici volti a favorire le relazioni familiari,
l’inserimento sociale e l’integrazione culturale degli stranieri nella nostra comunità
nazionale, nel rispetto delle diversità e delle identità culturali delle persone (purché
non confliggenti con l’ordinamento giuridico) prevedendo, altresì, ogni possibile
strumento per un positivo reinserimento nei paesi di origine. Per coadiuvare il Governo nella delicatissima e complessa materia della integrazione, la legge Napolitano-Turco ha previsto l’istituzione di una Commissione per le politiche di integrazione14. La prima Commissione insediata (presieduta da Giovanna Zincone, esperta
14
I cui compiti sono: predisporre per il Governo, anche ai fini dell’obbligo di riferire in Parlamento, il
rapporto annuale sullo stato di attuazione delle politiche per l’integrazione degli immigrati; di formulare proposte di intervento di adeguamento di tali politiche nonché fornire risposta ai quesiti posti dal
Governo concernenti le politiche per l’immigrazione, interculturali e gli interventi contro il razzismo.
Un altro organismo che avrebbe dovuto svolgere un ruolo rilevante è la Consulta per i problemi de-
17
in materia) aveva elaborato un concetto di integrazione fatto immediatamente proprio dal Governo del momento. Nel Documento programmatico 1998-200015 si leggeva che, nell’ordinamento italiano, “integrazione” deve significare «un processo di
non discriminazione e di inclusione delle differenze, quindi di contaminazione e di
sperimentazione di nuove forme di rapporti e comportamenti, nel costante e quotidiano tentativo di tenere insieme princìpi universali e particolarismi. Essa dovrebbe
quindi prevenire situazioni di emarginazione, frammentazione e ghettizzazione, che
minacciano l’equilibrio e la coesione sociale e affermare princìpi universali come il
valore della vita umana, della dignità della persona, il riconoscimento della libertà
femminile, la valorizzazione e la tutela dell’infanzia, sui quali non si possono concedere deroghe, neppure in nome della differenza». Secondo quanto specificato, poi,
nel Documento programmatico 2001-2003, «i principali obiettivi da perseguire sono
la tutela dell’integrità della persona e la costruzione di una interazione a basso conflitto tra immigrati e cittadini, tra nazionali e nuove minoranze. Le politiche di integrazione devono essere, dirette, da una parte, ad assicurare agli stranieri presenti nel
nostro paese basi di partenza nell’accesso a beni e servizi e, più in generale, condizioni di vita decorose. Un’interazione a basso conflitto implica che le politiche di integrazione si rivolgono anche e soprattutto ai cittadini italiani e non agli stranieri che
vivono e lavorano in Italia».
Tutti pregevolissimi obiettivi che, tuttavia, non sono stati realizzati e su cui ha
profondamente inciso la nuova politica dell’immigrazione inaugurata nel 2002. Al
proposito pare sufficiente riportare alcuni stralci del Documento programmatico relativo al periodo 2004-2006 che dedica il cap. 4 alle politiche di integrazione:
«L’integrazione della popolazione immigrata consiste in un processo bidirezionale
basato sul rispetto di diritti e doveri reciproci e di un processo interculturale. Da una
parte, il cittadino straniero deve adeguarsi alle regole e riconoscere i valori della società italiana, dall’altra deve avere accesso a beni e servizi che gli garantiscano una
dignitosa qualità della vita»; «l’elaborazione di politiche di integrazione deve tener
conto dell’evoluzione della progettualità migratoria verso la ricerca di una maggiore
stabilità, che si esprime, tra le altre cose, attraverso una crescente stabilità occupazionale, una migliore padronanza della lingua italiana, un aumento dei ricongiungimenti familiari e una maggiore partecipazione scolastica».
Il Documento programmatico relativo alla politica dell’Immigrazione e degli
stranieri nel territorio dello Stato per il triennio 2007-2009 non ha visto la luce a caugli stranieri immigrati e delle loro famiglie (analogamente le Regioni hanno la possibilità di istituire
le Consulte regionali per i problemi dei lavoratori extracomunitari e delle loro famiglie) .
15
Il primo Documento programmatico riconosceva la natura strutturale del fenomeno migratorio in
Italia che «per essere effettivamente ricondotto a dimensioni non esasperate e patologiche richiede la
graduale, autentica maturazione di una cultura dell’integrazione, fortemente ispirata ai principi di solidarietà ed ancorata al rispetto dei diritti umani fondamentali». In realtà, il primo documento programmatico, non essendo ancora completati gli adempimenti per la piena effettività della nuova legge, ebbe
più che altro la funzione di lanciare un messaggio culturale e programmatico.
18
sa dello scioglimento anticipato delle Camere e ad oggi non pare siano stati adottati
ulteriori documenti programmatici. Il modello italiano di integrazione, tutto astrattamente giocato sulla interculturalità, è stato via via indebolito dalle modifiche introdotte a partire dalla legge 189/2002, dalla progressiva riduzione dei fondi destinati
alla integrazione (fino al suo completo azzeramento) per culminare, infine nel 2009,
nel c.d. “Accordo di integrazione” (cui è strettamente legato il Piano per
l’integrazione nella sicurezza: Identità del 2010 che “individua le principali linee di
azione e gli strumenti da adottare al fine di promuovere un efficace percorso di integrazione delle persone immigrate, in grado di coniugare accoglienza e sicurezza”).
4. Dalla Legge Bossi-Fini del 2002 ai c.d. pacchetti sicurezza
Le politiche in materia di immigrazione del successivo governo di centro-destra
hanno, sicuramente, voluto rappresentare una forte discontinuità rispetto al recentissimo passato specie in materia di controllo, repressione e espulsione. Il legislatore
del 2002 ha, infatti, ripensato e rimodulato gli strumenti legislativi in vigore e specie
quelli finalizzati a regolare il fenomeno migratorio e a prevenire e reprimere
l’immigrazione clandestina. Tale ripensamento, tuttavia, non si è mosso nella direzione di migliorare l’applicazione degli strumenti esistenti ma in quella di una loro
quasi totale riformulazione. In altri termini, il legislatore della Bossi-Fini ha ritenuto
che proprio gli istituti introdotti per la prima volta nell’ordinamento italiano dalla
legge 40/98 per regolare i nuovi ingressi di lavoro, fossero i principali “responsabili”
della presenza di stranieri regolarmente soggiornanti, formalmente disoccupati ma
spesso sostanzialmente occupati nel lavoro nero.
Per tali motivi, la legge 189/2002 (composta da 38 articoli) può dirsi essere stata mossa principalmente da due finalità: ridurre o rendere difficili le possibilità di ingresso regolare di stranieri per lavoro e collegare strettamente la durata e la validità
del permesso di soggiorno per lavoro subordinato all’esistenza effettiva di un regolare rapporto di lavoro. Non si diminuisce la discrezionalità del Governo circa la programmazione dei nuovi ingressi per lavoro (tanto che la stessa determinazione annuale delle quote di ingresso per lavoro non è più obbligatoria ma facoltativa); si
reintroduce la verifica preventiva dell’indisponibilità di altri lavoratori italiani o comunitari quale condizione per autorizzare l’ingresso di nuovi lavoratori stranieri; si
rende ancora più precaria la condizione dello straniero regolarmente soggiornante per
lavoro; si istituisce il “contratto di soggiorno” il quale, mediante procedure assai
complicate rispetto alle esigenze del mercato del lavoro, sposta dai pubblici poteri ai
datori di lavoro gli oneri concernenti le esigenze alloggiative dei lavoratori stranieri.
Il “cuore” delle modificazioni introdotte dal legislatore del 2002 si concentrava,
così «nelle politiche per il lavoro, al fine di assicurare l’equivalenza tra ingresso nel
19
territorio dello Stato e lavoro legale, basata su di un corretto rapporto con il datore
di lavoro e con lo Stato, che includa il versamento di imposte e contributi sociali, la
disponibilità di un alloggio adeguato, una idonea formazione professionale e
l’opportunità di una piena integrazione nella società italiana. Il “contratto di soggiorno” assicura che all’ingresso in Italia per motivi di lavoro corrisponda realmente lo svolgimento di un lavoro legale, strumento chiave di integrazione»16.
La legge Bossi-Fini, in materia di accesso al lavoro reintroduce – tra le altre cose – la verifica preventiva dell’indisponibilità di altri lavoratori, italiani o comunitari,
a ricoprire il posto di lavoro oggetto della richiesta da parte del datore di lavoro (le
possibilità di ingresso regolare degli stranieri per motivi di lavoro si basano, dunque,
soltanto sulla preventiva chiamata nominativa del datore di lavoro); abolisce, poi, il
meccanismo dello sponsor, sostituendolo con i titoli di prelazione (art. 23 TUI), ossia
privilegiando nel collocamento i lavoratori stranieri che abbiano svolto un percorso
formativo nei loro paesi di origine, sulla base di programmi di istruzione professionale organizzati da enti e pubbliche amministrazioni italiane e finalizzati
all’inserimento lavorativo mirato nei settori produttivi italiani che operano all’interno
dello Stato o nei Paesi di origine.
Per compensare l’appesantimento burocratico derivante dalle diverse misure
previste dalla legge, viene prevista l’istituzione dello Sportello unico per
l’immigrazione (presso la Prefettura) che avrebbe dovuto centralizzare e coordinare
le numerose pratiche ed i rapporti con gli utenti. Tali sportelli, però, sono stati avviati
solo nel 2005-2006 entrando pienamente in funzione solo con il decreto flussi 2006.
La possibilità di nuovi ingressi regolari per lavoro, ancor più di quanto previsto
nel 1998, viene lasciata alla piena discrezionalità del governo, che può decidere di
non disporre la programmazione annuale, di penalizzare gli stranieri provenienti da
Paesi i cui governi non collaborano alla riammissione dei clandestini espulsi17 e, viceversa, “premiare” gli stranieri provenienti da Stati “collaborativi” e coi quali siano
stati stipulati accordi bilaterali.
La novella legislativa del 2002 era figlia di un sostrato politico ideologico riassumibile con l’espressione “tolleranza zero”. Dunque, nessuna meraviglia di fronte
alla numerose norme tese ad aumentare l’efficacia delle misure di prevenzione e di
repressione dell’immigrazione illegale attraverso forme di penalizzazione esplicita
per i lavoratori dei Paesi che non collaborano alla riammissione dei clandestini e
nuove norme penali contro le diverse ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione
16
Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio
dello Stato per il 2004-2006.
17
Il riferimento è all’art. 21, comma 1, del Testo Unico laddove prevede «restrizioni numeriche
all’ingresso di lavoratori di Stati che non collaborano adeguatamente nel contrasto dell’immigrazione
clandestina o nella riammissione dei propri cittadini destinatari di provvedimenti di rimpatrio». In tal
modo si collocano gli Stati (e non le persone) al centro del problema migratorio e si finisce per far pagare doppiamente allo straniero la “sventura delle proprie origini” (Pepino).
20
illegale e contro i datori di lavoro nero. Si assiste ad un forte inasprimento delle misure penali ed amministrative nei confronti dello straniero irregolarmente presente. A
tale proposito si prevedono, infatti, ad esempio:
1) l’istituzione della espulsione dello straniero clandestino quale misura alternativa alla pena detentiva (entro il limite di due anni);
2) lo sveltimento del rilascio del nulla osta dell’autorità giudiziaria
all’esecuzione dei provvedimenti amministrativi di espulsione;
3) il raddoppio del periodo massimo consentito (da 30 a 60 giorni complessivi)
di trattenimento nei CTPA;
4) l’esecuzione immediata con accompagnamento alla frontiera di quasi tutti i
provvedimenti amministrativi di espulsione senza un effettivo rispetto della riserva di
giurisdizione e del diritto di difesa da parte dello straniero (elevazione a regola della
esecuzione delle espulsioni con accompagnamento coattivo alla frontiera);
5) il raddoppio da 5 a 10 anni del periodo di divieto di rientro nel territorio nazionale dello straniero espulso;
6) l’inasprimento delle sanzioni per i reati di reingresso illegale degli stranieri
espulsi e l’introduzione dell’obbligo di sottoporre gli stranieri a rilievi fotodattiloscopici.
L’inasprimento delle misure di contrasto e repressione di clandestinità ed irregolarità ha prodotto un irrigidimento teorico del sistema “diritto degli stranieri” che
ha finito per colpire duramente l’immigrato in condizioni di irregolarità senza discernere alla luce delle condizioni personali e dell’effettivo grado di minaccia rappresentato dai singoli migranti.
Le nuove norme introdotte dalla legge 189/2002, peraltro, hanno segnato un
secco indebolimento delle misure di integrazione sociale degli stranieri regolarmente
soggiornanti anche sotto altri profili in quanto:
il periodo di validità dei rinnovi dei permessi di soggiorno di lungo periodo è
ridotto da quattro a due anni;
è stato anticipato fino a tre mesi prima della scadenza il termine entro il quale lo straniero deve presentare domanda di rinnovo dei permessi di soggiorno di lungo periodo;
è stato ridotto da 12 mesi a 6 mesi il termine minimo che deve essere comunque consentito ai titolari di permesso di soggiorno per lavoro subordinato per
trovarsi un nuovo lavoro regolare (ma durante tale periodo essi perdono la possibilità
di accedere agli alloggi di edilizia residenziale pubblica);
il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato sono strettamente condizionati dall’avvenuta stipula del “contratto di soggiorno” (art.
5-bis);
21
la mera condanna in primo grado per un reato medio-grave è configurata
come causa ostativa all’ingresso e come causa di revoca o divieto di rinnovo del
permesso di soggiorno;
è portato da 5 a 6 anni il termine di soggiorno regolare ininterrotto che costituisce uno dei presupposti per il rilascio della carta di soggiorno (ridenominata, a
partire dal 2007, Permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo e rilasciabile allo straniero in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità, art. 9 TUI).
sono state modificate le norme in materia di diritto all’unità familiare, in particolare, eliminando la possibilità per lo straniero di ricorrere all’istituto del ricongiungimento familiare per i parenti entro il terzo grado;
è stata prevista la revoca del permesso di soggiorno nelle ipotesi di matrimonio simulato con il cittadino italiano, in quanto finalizzato unicamente ad ottenere la
possibilità di soggiornare in Italia.
La Corte costituzionale italiana, con due sentenze in particolare (la 222 e la 223
del 2004), ha “ricordato” al legislatore che lo straniero gode della libertà personale e
del diritto di difesa, quantomeno nel suo nucleo incomprimibile. Per dare seguito a
tali sentenze, con decreto legge n. 241/2004 (conv. in legge n. 271/2004) viene modificata la disciplina delle espulsioni degli stranieri irregolarmente soggiornanti in maniera da assicurare un maggiore godimento delle garanzie previste dall’art. 13 della
Costituzione anche per gli stranieri “accompagnati alla frontiera”. La competenza in
materia di convalida dei periodi di trattenimento viene attribuita al Giudice di pace
prevedendosi, contestualmente, misure per assicurare la massima celerità dei provvedimenti di convalida e di esecuzione delle espulsioni.
Sempre nel 2004 e per dare attuazione alle modifiche introdotte dalla legge
Bossi-Fini, con d.P.R. 334 del 2004 viene modificato il regolamento di attuazione
della normativa sugli stranieri.
Il nuovo governo di centro sinistra, scaturito dalle elezioni di metà 2006, ha dovuto sin da subito apportare una serie consistente di modifiche alla normativa vigente
per non incorrere nelle procedure di infrazione dell’Unione europea per il mancato
recepimento di importantissime direttive comunitarie18. Si pensi alla Direttiva
2003/109/Ce relativa allo status dei cittadini dei paesi terzi che siano soggiornanti di
18
Invero, all’inizio del marzo 2007 il governo Prodi aveva presentato un disegno di legge-delega per
modificare, migliorandola, la disciplina in materia di immigrazione (si prevedeva persino di rimuovere
la clausola eccettuativa al Capitolo C della Convenzione di Strasburgo). Di assoluto rilievo è stata
l’istituzione di una speciale commissione di ispezione, voluta dal Ministro degli Interni Amato, per
verificare le condizioni all’interno dei Centri di permanenza temporanea, la loro efficienza, efficacia
ed economicità e per elaborare proposte di riforma. La presidenza della Commissione venne affidata a
Staffan De Mistura, direttore del Centro alti studi delle nazioni unite. Il Rapporto della Commissione
fu presentato a fine gennaio 2007 e tra le conclusioni vi era quella di un necessario progressivo svuotamento dei CPTA.
22
lungo periodo (istitutiva del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo
che sostituisce la vecchia carta di soggiorno) recepita con d.lgs. n. 3 del 2007 (con un
anno di ritardo). O alla Direttiva 2003/86/Ce relativa al diritto al ricongiungimento
familiare cui è stata data esecuzione con il d.lgs. n. 5 del 2007 (che modifica l’art. 29
del TUI e inserisce un nuovo articolo in materia di ricongiungimento familiare dei
rifugiati).
Il successivo governo di destra, a partire dal maggio 2008, ha costantemente
operato nella direzione di ridurre le già esigue garanzie a tutela dei diritti dei migranti, siano essi ‘clandestini’ o ‘regolari’ e dunque proseguendo nell’opera di criminalizzazione della irregolarità migratoria già avviata con la legge Bossi-Fini del 2002.
Agitando lo spettro della pubblica sicurezza e della impellente necessità di ripulire il
territorio italiano dalla presenza dei clandestini, già con la l. n. 125/200819 si introduceva la c.d. “circostanza aggravante di clandestinità” che di lì a poco sarebbe stata
ritenuta incostituzionale dal Giudice delle leggi. La disposizione in esame (art. 61, n.
11-bis, cod.pen.) prevedeva che il reato perpetrato da uno straniero irregolarmente
presente sul territorio dovesse essere punito con una pena aumentata fino ad un terzo
rispetto allo stesso reato commesso da un cittadino italiano e da uno straniero legalmente presente. L’aggravante non si fondava su un effettivo nesso di causalità tra la
condizione di clandestino ed il reato commesso dallo straniero; essa, infatti, si applicava indipendentemente da una valutazione di pericolosità sociale soggettiva dando
vita ad una irragionevole disparità di trattamento tra colpevoli dello stesso crimine: a
rilevare era unicamente una condizione personale del reo senza chiedersi come tale
condizione avesse reso possibile o facilitato la commissione del reato20.
La legge 125/2008, oltre ad aggravare le pene per favoreggiamento e sfruttamento della immigrazione clandestina, ha previsto un nuovo tipo di reato compiuto
da chi (salvo che il fatto non costituisca più grave reato) a titolo oneroso e al fine di
trarne profitto, di alloggio ad uno straniero, privo di titolo di soggiorno, in un immobile di cui abbia la disponibilità (ovvero lo cede anche a locazione).
Modifiche, sempre di natura restrittiva, vengono poi introdotte dai d.lgs.
159/2008 (“Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25
recante attuazione della direttiva 2005/85/CE relativa alle norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello
19
Trattasi della legge di conversione del decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, recante misure urgenti
in materia di sicurezza pubblica e facente parte del c.d. Primo pacchetto sicurezza.
20
Chiaramente i profili di illegittimità costituzionale della aggravante di clandestinità sono stati sin da
subito sottolineati dalla dottrina. A voler tacer d’altro, la norma accomunava sotto una unica etichetta
(l’irregolare) situazioni ben diverse tra di loro: spessissimo l’immigrato si trova a versare in condizione di irregolarità non già ab initio ma in seguito alla cessazione di validità del titolo che ne legittimava
la permanenza in Italia (trattasi dei c.d. overstayers). Sarà la Corte costituzionale, con la sentenza n.
249 del 2010, a ripristinare il sistema delle sanzioni nei riguardi degli stranieri adeguandolo a quanto
prevede la Costituzione. Altrimenti detto, con tale sentenza la Corte costituzionale ha ritenuto contraria alla Costituzione (artt. 3, I comma e 25, II comma) l’aggravante di clandestinità espungendola dal
nostro ordinamento giuridico.
23
status di rifugiato) e 160/2008 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 8
gennaio 2007, n. 5, recante attuazione della direttiva 2003/86/CE relativa al diritto al
ricongiungimento familiare).
Le modifiche più consistenti e più di impatto mediatico in materia di condizione
giuridica dello straniero verranno, però, con la legge del 15 luglio 2009, n. 94 recante Disposizioni in materia di pubblica sicurezza (e facente parte del secondo pacchetto sicurezza) istitutiva anche del c.d. “reato di clandestinità”. La legge 94/2009,
approvata al termine di un percorso irto di polemiche ed asprissimi confronti anche
tra ampi settori della società civile, si caratterizza per inserirsi appieno nella scia del
discutibile binomio tra immigrazione e sicurezza21 e per operare un intervento particolarmente restrittivo ed anche repressivo nei confronti dell’immigrazione, soprattutto irregolare, nell’intento di migliorare gli standard di sicurezza pubblica. Piuttosto
che interrogarsi in profondità sulle cause del diffuso senso di insicurezza e su quanto
essa dipenda dalla crisi economica globale e da profonde difficoltà sociali, si è preferito ancora una volta addossare ogni colpa alla presenza degli immigrati fomentando
la rischiosa confusione tra immigrazione e criminalità.
È un dato piuttosto condiviso che l’elefantiasi del corpus di norme incriminatrici costituisce un punto di debolezza lungo la strada della sicurezza e della legalità.
Inoltre, la bulimia nel ricorso alla misura della espulsione in tutte le sue possibili ed
immaginabili variabili giuridiche contribuiscono a far sì che la criminalità organizzata decida di investire risorse sempre più ingenti nella gestione illegale dei flussi migratori (c.d. smuggling of migrants): il divieto di ingresso regolare oltre un determinato numero prefissato di stranieri viene aggirato attraverso l’attivazione di strategie
da parte di singoli ed organizzazioni criminali su come superare gli ostacoli normativi.
La sicurezza pubblica di cui alla legge 94/2009, in realtà, appare il collante solo
nominale di un pacchetto che esprime un uso simbolico e distorto del diritto penale,
mettendo insieme numerose e varie disposizioni su tematiche assai varie: modifiche
al codice penale e di procedura penale, alla legge sulla cittadinanza, al codice della
strada solo per citarne alcune. Ovviamente in questa sede saranno esaminati solo gli
21
Quanto sia fuorviante l’equazione immigrazione e criminalità è stato di recente ribadito addirittura
dal rapporto del CNEL sugli indici di integrazione degli immigrati in Italia, presentato il 20 febbraio
2009. Rileva il CNEL senza mezzi termini che : “lo stesso dibattito politico nazionale
sull’immigrazione acuisce queste difficoltà. Alimenta un clima di diffidenza e paura reciproca tra italiani e immigrati ed anche tra gli stessi immigrati. Enfatizza un’emergenza invasione inesistente e mistifica l’equazione tra immigrazione e criminalità. Esso è condizionato da iniziative identitarie sul
piano elettorale contro diritti sociali e civili fondamentali riconosciuti agli immigrati dal nostro ordinamento, la cui negazione segna un arretramento di civiltà del nostro Paese. Tutto questo non ha alcuna incidenza sulla lotta alla clandestinità, che è un problema reale e su cui i cittadini giustamente
chiedono risultati tangibili. La persecuzione del clandestino già presente nel nostro Paese, fuggito
dalla fame, dalla guerra, dalla persecuzione, serve solo a suscitare gli istinti di una subcultura xenofoba, che mette a rischio una ordinata convivenza civile”.
24
aspetti legati più immediatamente alla disciplina del fenomeno migratorio ed al fatto
che gli ingranaggi processuali escogitati segnano il primato dell’interesse al contenimento delle presenze irregolari sino al punto da negare o ostacolare all’immigrato
irregolare l’esercizio di veri e propri diritti fondamentali. In una parola, tutto concorre a fare “terra bruciata” attorno all’immigrato irregolare ed a rendere assai difficile
la vita a quello regolarmente presente sul nostro territorio.
La legge in esame introduce modifiche sostanziali in materia di cittadinanza italiana. Prima della sua entrata in vigore, il coniuge straniero di cittadino italiano poteva presentare la richiesta di cittadinanza per matrimonio decorsi almeno sei mesi di
residenza legale dalla data di celebrazione del matrimonio. Inoltre, se successivamente interveniva la separazione dei coniugi, il riconoscimento della cittadinanza restava comunque salvo, poiché era sufficiente essere in possesso dei requisiti al momento della presentazione della domanda. La legge 94/2009, invece, ha prolungato il
tempo necessario per poter presentare la richiesta di cittadinanza per un matrimonio
da parte di cittadino straniero coniugato con un italiano: da sei mesi si passa a due
anni di residenza legale (ridotti ad un anno in presenza di figli anche adottivi). Se
dopo la presentazione dell’istanza di riconoscimento della cittadinanza alla competente Prefettura interviene lo scioglimento del matrimonio o la separazione dei coniugi, l’istanza sarà rigettata poiché si stabilisce che il rapporto di coniugio deve
permanere fino all’adozione del provvedimento di riconoscimento da parte del Ministero dell’Interno. Sempre in tema di matrimonio, per potersi sposare con un italiano
ora lo straniero deve esibire all’ufficiale di stato civile, oltre al nulla osta del paese di
provenienza, anche il permesso di soggiorno. Anche questa nuova disposizione pare
presentare profili di dubbia costituzionalità ove si ponga mente che il diritto a contrarre matrimonio ed a formare una famiglia sono diritti fondamentali riconosciuti a
livello costituzionale, comunitario ed internazionale. Non sarà più possibile autocertificare lo stato di famiglia, la residenza e il possesso dei requisiti ma tutta la documentazione dovrà essere allegata a supporto della richiesta (ciò vale anche per i cittadini comunitari). Ed ancora: gli agenti che prestano servizi di money transfer devono segnalare (entro 12 ore) l’eventuale irregolarità del cittadino straniero.
La permanenza nei CIE viene prolungata da 60 giorni a sei mesi (art. 14, comma 5, TUI). In caso di mancata cooperazione al rimpatrio da parte del paese terzo interessato o in caso di ritardi per acquisire la documentazione necessaria, il questore
può, infatti, chiedere una prima proroga di 60 giorni cui ne può aggiungere una seconda. Come è stato notato tale misura è utile per “centrare tre bersagli con un colpo
solo: costringere per sfinimento lo straniero a declinare le proprie generalità necessarie al suo allontanamento, assicurarsi la disponibilità fisica del trattenuto per tutto il
tempo necessario ad ottenere la documentazione indispensabile alla sua espulsione,
25
preservare l’effettività dell’allontanamento differito” 22 (Pugiotto). La legge in commento, peraltro, ha previsto l’efficacia retroattiva del prolungamento del trattenimento amministrativo nei Centri di Identificazione ed Espulsione: chi era già trattenuto
ha visto allungarsi il periodo di detenzione da due a sei mesi23.
Tra le innovazioni che hanno suscitato maggiore clamore anche mediatico vi è
però la previsione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato
(c.d. reato di clandestinità). All’art. 10 del TUI se ne aggiunge un altro, l’art.10-bis,
che punisce, con la pena dell’ammenda da 5.000 a 10.000 euro (ma per la quale non
è possibile l’oblazione24), salvo che il fatto costituisca più grave reato, lo straniero
che fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del testo unico nonché di quelle di cui all’art. 1 della legge n. 68/2007 che riguarda i soggiorni per breve durata per visite, affari, turismo e studio. La condotta
sanzionata, dunque, si riferisce all’ingresso o al trattenimento nel territorio italiano in
mancanza di un titolo di legittimazione. I clandestini sono sottoposti a processo davanti al giudice di pace con espulsione per direttissima (si prevede, infatti, per tale
caso l'applicazione della sanzione sostitutiva dell'espulsione). Sin da subito si è dubitato che una sanzione del genere (una pena pecuniaria non oblabile comminata a chi
spesso non solo versa in condizioni di povertà ma soprattutto non ha nulla da perdere) potesse avere una qualche efficacia generalpreventiva e/o fungere da deterrente
contro la migrazione “clandestina”. Inoltre, già prima della introduzione del reato di
clandestinità la libertà personale di chi veniva trovato in condizioni di irregolarità
veniva fortemente limitata dai provvedimenti di trattenimento e di espulsione e le
statistiche mostrano come la minaccia della detenzione non sembri spaventare troppo
i migranti irregolari (come testimoniata dai bassissimi livelli di ottemperanza
all’ordine di espulsione del questore)25.
22
Lo stesso ministro Maroni, sul punto, così si è espresso: «Voi ricorderete che quando i CIE sono
stati introdotti dall’allora Ministro dell’Interno Giorgio Napolitano la permanenza era limitata ad un
mese, quando è stata raddoppiata sono più che raddoppiati i casi di identificazione. Ciò è avvenuto
perché se si ha la prospettiva di dover rimanere nei centri un mese si resiste, due mesi è già più difficile, mentre credo che nessuno possa pensare di non farsi riconoscere e resistere per 18 mesi» (XVI
Legislatura, Resoconto stenografico del Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione
dell’Accordo di Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di
immigrazione, Audizione del 15 ottobre 2008)
23
L’istituto del trattenimento amministrativo (con tutto ciò che intorno ad esso orbita) viene fatta ricadere nell’alveo del diritto amministrativo e non di quello penale. Ciò spiega come sia possibile la
retroattività del prolungamento dei tempi della detenzione.
24
L'oblazione è una causa di estinzione del reato limitata alle contravvenzioni, prevista agli articoli
162 e 162bis del codice penale italiano.
25
Il sospetto di incostituzionalità della fattispecie in esame si è subito tradotto in due incidenti di costituzionalità sollevati dai giudici di pace di Lecco e Torino. La Corte costituzionale (sent. 250 del
2010), differentemente dalla pronuncia sull’aggravante di clandestinità, non ha ritenuto sussistente il
vulnus alla Costituzione. In particolare, non ha ritenuto che il reato in esame penalizzasse una mera
26
Diamo un veloce sguardo alle altre nuove norme penali introdotte da questa
legge. Si amplia la fattispecie dell’art. 5, comma 8-bis (contraffazione o alterazione
della documentazione attestante la regolarità del soggiorno) con l’inserimento
dell’utilizzazione di uno dei documenti contraffatti o alterati come condotta sanzionata (il reato di falso identitario e la stretta sanzionatoria mirano a prevenire condotte
diffuse tra i migranti clandestini che ostacolano il perfezionarsi delle relative procedure espulsive). Si riformula l’art. 6, comma 3, TUI (Facoltà ed obblighi inerenti al
soggiorno) a norma del quale “lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di
pubblica sicurezza, non ottempera, senza giustificato motivo, all’ordine di esibizione
o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato è punito con l’arresto
fino ad un anno e con l’ammenda fino ad euro 2000”. Vengono aggravate le pene per
il favoreggiamento della clandestinità.
Per quanto riguarda il profilo della emersione dei soggetti vulnerabili, il legislatore del 2009 ha abbandonato, dopo molti tentativi, l’idea di rendere obbligatoria
l’esibizione del permesso di soggiorno da parte degli immigrati agli esercenti le professioni sanitarie. La modifica dell’art. 6, comma 2 del d.lgs 286/1998 concernente le
eccezioni all’obbligo della esibizione dei documenti, dovuta alla sostituzione della
frase “e per quelli inerenti agli atti di stato civile o all’accesso a pubblici servizi” con
“quelli inerenti all’accesso alle prestazioni sanitarie di cui all’art. 35 e per quelli attinenti alle prestazioni scolastiche obbligatorie” sembrerebbe aver scongiurato il rischio paventato dagli esercenti le professioni sanitarie di dover denunciare irregolari
e clandestini.
Viene, poi, introdotta una tassa di soggiorno: gli immigrati dovranno pagare un
contributo di soggiorno il cui l’importo va da un minimo di 80 ad un massimo di 200
euro. Sono escluse da questo versamento solo le domande di rilascio ed il rinnovo del
permesso di soggiorno per asilo, per richiesta di asilo, per protezione sussidiaria, per
motivi umanitari; pertanto sarà richiesto tale versamento anche per le domande di rilascio e rinnovo dei permessi di soggiorno per minori stranieri, con conseguente aggravio della spesa delle loro famiglie, oppure degli enti e affidatari che se ne occupano.
Dulcis in fundo, la legge 94 del 2009, ha inserito l’art. 4-bis titolandolo “Accordo di integrazione”. A norma del primo comma di tale articolo, devesi intendere per
integrazione “quel processo finalizzato a promuovere la convivenza dei cittadini italiani e di quelli stranieri, nel rispetto dei valori sanciti dalla Costituzione italiana, con
il reciproco impegno a partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società”. Per realizzare tale integrazione, il legislatore del 2009 ha previsto uno strumento davvero bizzarro: l’accordo di integrazione che lo straniero dovrà sottoscrivecondizione personale o sociale (quale quella di clandestino) e che oggetto della incriminazione non
fosse un modo di essere della persona ma un comportamento trasgressivo di norme vigenti.
27
re, contestualmente alla presentazione di domanda di rilascio del permesso di soggiorno. Tale accordo, articolato per crediti, impegna lo straniero a sottoscrivere specifici obiettivi di integrazione, da conseguire nel periodo di validità del permesso di
soggiorno. La stipula del contratto di integrazione assurge a condizione necessaria
per il rilascio del permesso di soggiorno e la perdita integrale dei crediti determina la
revoca del permesso di soggiorno e l’espulsione dello straniero dal territorio dello
Stato, eseguita dal questore secondo le modalità previste dall’art. 13, comma 4 (accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica) ad eccezione dello straniero titolare del permesso di soggiorno per protezione internazionale, per motivi
familiari, di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, di carta di
soggiorno per familiare straniero di cittadino dell’Unione europea, nonché dello straniero titolare di altro permesso di soggiorno che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare. Criteri e modalità per la sottoscrizione e la struttura dell’accordo
sono rimandati ad un regolamento governativo da adottarsi entro 180 giorni
dall’entrata in vigore della legge (e di cui ancora oggi nulla si sa).
Come si è osservato, l’accordo di integrazione trasforma i diritti sociali in obblighi pesantemente sanzionati a carico dello straniero (attese le conseguenze sul
permesso di soggiorno) e scarica sullo straniero “tutti gli oneri del processo di integrazione posto che, per l’attuazione del sistema dell’accordo di integrazione, si dovrà
provvedere nell’ambito delle risorse umane strumentali e finanziarie disponibili a
legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Nella definizione di integrazione, contenuta nel primo comma dell’art. 4-bis non vi è traccia
della prospettiva dinamica e bi-direzionale che invece è una parte di fondamentale
importanza ai fini della integrazione che è «questione complessa nella quale sono determinanti i fattori soggettivi, le aspettative ed i vissuti della esperienza immigratoria,
lo stesso sentire dei cittadini, la qualità dei rapporti tra questi e gli immigrati»26. La
nuova norma espressamente vieta ai soggetti pubblici l’incremento di risorse finanziarie, strutturali e personali e traduce l’impegno di integrazione in un sistema di debiti/crediti legati alla sottoscrizione obbligatoria di un impegno che individui obiettivi di integrazione da conseguire nel periodo di validità del permesso di soggiorno.
A spiegare la “guerra all’immigrazione clandestina” lanciata dal Ministro degli
interni Maroni e la conseguente introduzione di aggravante e reato di clandestinità
(insieme ovviamente alla pletora di altre fattispecie tutte miranti ad indebolire la posizione dello straniero sia regolarmente che irregolarmente presente) hanno contribuito i dividendi elettorali che, in contesti di insicurezza diffusa e di crisi economica, il legislatore (specie nella sua versione padana) punta a raccogliere ricorrendo appunto ad ostentazioni di risolutezza (tanto urlate quanta inefficaci). In molti hanno
26
VI Rapporto sugli Indici di integrazione degli immigrati in Italia (2009) del CNEL.
28
sottolineato come, in realtà, la previsione del reato di clandestinità era funzionale alla
elusione della c.d. “Direttiva rimpatri” del 16 dicembre 2006, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il
cui soggiorno è irregolare. La direttiva ora richiamata, che avrebbe dovuto essere recepita entro il 24 dicembre 2010, mirava ad armonizzare i sistemi nazionali cercando
di bilanciare due opposte esigenze: da un lato, assicurare l’effettività dei meccanismi
di rimpatrio degli immigrati irregolarmente presenti e, dall’altro, tutelare la libertà
personale dell’immigrato fissando una serie di limiti agli Stati parte. L’art. 7 della
Direttiva, ad esempio, di fronte al soggiorno irregolare di uno straniero impone che il
rimpatrio avvenga prioritariamente con partenza volontaria. Tuttavia, la stessa Direttiva prevede che le sue disposizioni possano non applicarsi agli stranieri “sottoposti a
rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale, in conformità della legislazione nazionale”. È su questa possibile deroga che - estendendo
la platea dei soggetti che possono ricadere in tale ipotesi e facendo conseguentemente della eccezione la regola – puntava il nuovo reato di clandestinità.
Il legislatore italiano ha, come ben può intuirsi, lasciato passare il termine ultimo concesso per recepire ed attuare l’importante Direttiva Rimpatri. Tale inerzia ha
generato uno dei contrasti dottrinali e giurisprudenziali più accesi degli ultimi anni
in ordine alla sorte dei reati configurabili durante la procedura di espulsione, in particolar modo sul delitto di cui all’art. 14, comma 5 ter (reclusione da uno a quattro anni per lo straniero che senza giustificato motivo permane illegalmente sul territorio
dello Stato dopo essere stato intimato ad abbandonarlo entro il termine di 5 giorni).
Occorre ricordare, infatti, che i giudici hanno l’obbligo di interpretare il diritto interno in modo comunitariamente orientato in maniera tale da garantire il conseguimento
dei risultati e degli scopo perseguiti dalle direttive. Qualora, poi, sia impossibile procedere ad una interpretazione conforme, al giudice non resta che disapplicare il diritto interno senza che ciò comporti anche una sostituzione con la normativa comunitaria e purché quest’ultima abbia un effetto diretto. Se quest’ultimo dovesse mancare o
fosse di dubbia configurazione, al giudice deve rispettivamente sollevare la questione
di legittimità costituzionale davanti alla Corte costituzionale per violazione degli artt.
11 e 117 Cost. oppure promuovere il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Una
volta scaduto il termine per dare attuazione alla direttiva rimpatri, un orientamento
prevalente le ha riconosciuto efficacia self executing con la conseguenza di applicare
direttamente le norme europee ritenute avere efficacia diretta. Per l’orientamento opposto, invece, la Direttiva rimpatri non sarebbe stata incidente sulle norme incriminatrici del TUI. È stata la sentenza della Corte di Giustizia del 28 aprile 2011, El Dridi,
a sciogliere alcuni nodi interpretativi derivanti dal mancato recepimento della direttiva. In particolare, nella sentenza si sostiene che la previsione della sanzione penale di
cui all’art. 14, comma 5 ter, in ragione anche delle sue condizioni e modalità di applicazione, rischia di compromettere la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla
29
direttiva ossia l’introduzione di una efficace politica di allontanamento e di rimpatrio
dei cittadini dei paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare.
Dopo una serie di tentennamenti e scomposte reazioni del Governo italiano, alla
presa peraltro con gli ingenti sbarchi di cittadini e cittadine provenienti dai paesi nordafricani coinvolti nella c.d Primavera araba, il 23 giugno viene adottato un decreto
legge recante “Disposizioni urgenti per il completamento dell’attuazione della direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento
della Direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari”. Il
suddetto decreto legge è stato convertito, con modificazioni, con Legge 2 agosto
2011, n. 129. Anche questa volta, il legislatore italiano non ha saputo approfittare
della situazione per avviare un vero e proprio disegno riformatore adeguato a prevedere un insieme di norme capaci di assicurare un efficace governo del fenomeno migratorio nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone27. Piuttosto, e rimandando
la puntuale disamina delle novità in materia di espulsione e di rimpatrio alla Terza
dispensa, giova qui ricordare che la qualità e la quantità di situazioni in cui il provvedimento amministrativo di espulsione è immediatamente eseguito con accompagnamento alla frontiera (art. 13, comma 4, TUI) sono tanti e tali ed i limiti alla partenza volontaria sono così tanti che le ipotesi residuali in cui sarebbe concessa la partenza volontaria appaiono delle mere concessioni e delle mere eccezioni. Detto in altri termini, la direttiva 115/2008 si fonda sul principio della partenza volontaria ed
agevolata degli stranieri in condizioni di irregolarità; ciò non impedisce eventuali allontanamenti forzati e/o trattenimenti in quei casi (eccezionali) in cui sussistano concreti pericoli di fuga, in quanto la direttiva configura la coercizione ed il trattenimento come i rimedi estremi. Persino il ricorso al trattenimento, secondo la logica della
Direttiva rimpatri, deve essere regolamentato “allo scopo di assicurare il rispetto dei
diritti fondamentali dei cittadini interessati dei Paesi terzi (…): il principio di proporzionalità esige che il trattenimento di una persona sottoposta a procedura di espulsione o di estradizione non si protragga oltre un termine ragionevole, cioè non superi il
tempo necessario per raggiungere lo scopo perseguito. Secondo tale principio, il trattenimento ai fini dell’allontanamento deve essere quanto più breve possibile”. Il legislatore italiano, per tutta risposta (e capovolgendo il significato e la portata di quanto
previsto dalla Direttiva) ha riformulato l’art.14, comma 5, TUI prevedendo che la durata del trattenimento nel CIE possa protrarsi fino a un massimo di 18 mesi (in luogo
dei previgenti sei mesi). Quando il trattenimento non sia possibile o non sia più consentito, il Questore ordina allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro 7
giorni (in luogo dei previgenti 5 giorni). La violazione per inottemperanza all’ordine
di allontanamento del Questore, salvo che sussiste giustificato motivo, comporta in
27
Giova ricordare che è scaduto nel luglio 2011 il termine ultimo per recepire l’importantissima direttiva 2009/52/ce del parlamento europeo e del consiglio del 18 giugno 2009 che introduce norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di
paesi terzi il cui soggiorno è irregolare.
30
prima battuta l’irrogazione di una multa ed a seguire misure via via più incidenti sulla libertà personale ma non fino alla reclusione in carcere.
5. La “stratificazione” dei diritti degli stranieri nell’ordinamento giuridico italiano
L’attuale normativa italiana in materia di condizione giuridica dello straniero
conferma come le posizioni giuridiche soggettive di cui è titolare lo straniero sono
configurate con una ampiezza progressivamente crescente in dipendenza
dell’appartenenza dello straniero stesso ad una delle diverse categorie, per le quali la
legge prevede una posizione – progressivamente più rafforzata – di regolarità di soggiorno nel territorio dello Stato. L’idea di base è che una certa durata delle permanenza rivela certamente un rapporto strutturato con il territorio ed un grado crescente
di inserimento e integrazione nello Stato.
Sia le condizioni di regolarità (collocabili su un continuum che vede agli opposti un rapporto meramente occasionale fino all’acquisizione della cittadinanza) che di
irregolarità (che può riguardare l’ingresso o le condizioni di soggiorno o entrambe28)
sono ulteriormente differenziabili con particolare rilievo nel qualificare la posizione
dello straniero in relazione alla fruizione dei diritti fondamentali.
Diritti e doveri dello straniero possono, così, essere graduati secondo il seguente schema:
A) Alcune situazioni giuridiche soggettive sono attribuite agli stranieri presenti alla frontiera o comunque presenti sul territorio, siano essi o meno in regola con le norme sull’ingresso e sul soggiorno
I soggetti rientranti in tale categoria godono, ex art. 2, co. 1, TU, dei diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme interne, dalle convenzioni internazionali e dai princìpi di diritto internazionale generalmente riconosciuti. Allo straniero deve applicarsi il principio di eguaglianza col cittadino previsto dall’art. 3
Cost., per quanto riguarda la titolarità dei diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti e
garantiti dall’art. 2, Cost. (e che devono, comunque, essere assicurati allo straniero
anche sulla base delle convenzioni internazionali in materia).
28
Le condizioni di regolarità sono definite sulla base della durata del visto e/o del permesso di soggiorno e si distinguono tra soggiorni di breve durata (inferiori ai 90 giorni), permessi rinnovabili con
scansioni temporali diverse (9 mesi/1 anno/2 anni). Dopo cinque anni si può acquisire (stanti certi requisiti) un permesso di soggiorno a tempo determinato (art. 9, TUI, permesso di soggiorno CE per
soggiornanti di lungo periodo che ha sostituito la Carta di soggiorno che dopo sei anni consentiva il
soggiorno a tempo indeterminato); dopo 10 anni maturano le condizioni per la concessione della cittadinanza. A questo ultimo proposito, va notato che, in presenza delle condizioni che consentirebbero di
accedere alla cittadinanza, non necessariamente e non sempre lo straniero vuole o può accedervi. Ne
consegue che la condizione dei non cittadini stabilmente residenti conserva un suo autonomo rilievo.
31
Un nucleo minimo di diritti fondamentali viene assicurato allo straniero comunque presente sul territorio. Tra gli altri si ricordano: il diritto alla vita, alla libertà
ed alla sicurezza personale (salvo nel caso di arresto o detenzione legittima), il diritto
di non essere ridotto in schiavitù o a lavori forzati o a pene, trattamenti disumani e
crudeli; il diritto al rispetto della vita privata e personale (salvo le limitazioni che la
legge può prevedere in virtù delle clausole di salvaguardia: sicurezza nazionale, sicurezza pubblica, benessere economico del paese, difesa dell’ordine, prevenzione dei
reati, protezione della salute o della morale); il diritto a manifestare il proprio pensiero; il diritto al riconoscimento della personalità o capacità giuridica; il diritto al rispetto del principio di legalità in materia penale (divieto di essere condannato per una
azione che quando fu commessa non costituiva reato); il diritto alla libertà di riunione pacifica ed alla libertà di associazione; il diritto di sposarsi e fondare una famiglia.
Di particolare rilevanza, a questo proposito, è la Convenzione sui diritti del fanciullo (Assemblea generale ONU 1989, ratificata dall’Italia nel 1991), con cui gli
Stati membri si impegnano a garantire una completa ed effettiva protezione del minore. Tale Convenzione, in particolare, prevede particolari forme di assistenza del
bambino privo di famiglia ed adottabile o del minore rifugiato, riconoscendo che il
minore non può essere separato dai genitori contro la sua volontà a meno che le autorità competenti dispongano in tal senso per il suo superiore interesse. Gli Stati contraenti si sono impegnati a favorire il ricongiungimento familiare quando un membro
della famiglia viva in uno Stato diverso da quello in cui vivono altri membri del nucleo familiare e a prendere tutte le misure nazionali adeguate per prevenire il rapimento, la vendita o il traffico di bambini con ogni fine e sotto ogni forma.
Al di là dei diritti fondamentali garantiti dalle norme costituzionali e dalle fonti
internazionali, il legislatore italiano ha espressamente riconosciuto agli stranieri (anche a quelli irregolari e clandestini) – si veda art. 2, co. 5, TUI – la parità di trattamento con il cittadino italiano per alcuni diritti fondamentali, nei limiti e nei modi
previsti dalla legge. Trattasi, nello specifico, della tutela giurisdizionale dei diritti e
degli interessi legittimi (diritto alla difesa; presunzione di non colpevolezza; diritto
alla riparazione degli errori giudiziari; il diritto per lo straniero arrestato di avere la
presenza di un interprete nel dibattimento e di ricevere comunicazioni scritte nella
propria lingua; per lo straniero espulso il diritto di rientrare in Italia al solo fine e per
il tempo necessario al dibattimento); dei rapporti con la pubblica amministrazione
(estensione allo straniero delle norme vigenti in materia di procedimento amministrativo); dell’accesso ai pubblici servizi (riferimento assai generico che sembrerebbe alludere alla parità di condizioni tra cittadini e stranieri quanto all’accesso sia ai servizi
di interesse economico generale, sia ai servizi sociali in senso lato).
Si tratta di un nucleo di diritti la cui effettività (specie riguardo al diritto di difesa ed alla libertà personale) è messa in dubbio dalla quasi totale precarietà della condizione giuridica soprattutto dei clandestini e degli irregolari, costantemente soggetti
32
al potere discrezionale dell’amministrazione di disporne lo allontanamento, anche
con la forza, dal territorio dello Stato. Siamo in presenza, dunque, di una netta distinzione tra titolarità ed effettivo godimento rispetto, soprattutto, alle garanzie giurisdizionali che differenzia il maniera nettissima la condizione dello straniero rispetto a
quella del cittadino. Ne costituisce un chiaro esempio la bulimia nel ricorso alla misura dell’espulsione, declinata nel TUI in tutte le possibili varianti giuridiche.
In sintesi e non potendo scendere dei dettagli del diritto penale e di procedura
penale, resta da dire, sulla scia di una dottrina quasi unanime, che la tutela giurisdizionale assicurata allo straniero irregolare o clandestino si è via via ridotta tanto da
essere ritenuta «insufficiente nelle ipotesi di ricorso avverso i provvedimenti di
espulsione ministeriale, di espulsione prefettizia immediata, di accompagnamento
coattivo, di trattenimento» ed addirittura assente «in alcuni delicatissimi snodi ordinamentali: l’espulsione per ragioni di contrasto al terrorismo, il respingimento differito, il respingimento in alto mare con immediato rimpatrio» (Pugiotto).
Tutto ciò premesso, resta quantomeno che allo straniero comunque presente nel
territorio dello Stato sono riconosciuti alcuni fondamentali diritti sociali.
Quanto al diritto alla salute (riconosciuto dall’art. 32 Cost., come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività), l’art. 35, comma 3, TUI, assicura ai cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, ospedaliere ed ambulatoriali per malattia e
infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva. Sono individuate alcune tipologie di prestazioni comunque garantite: la tutela sociale della gravidanza e della maternità; la tutela della salute
del minore; le vaccinazioni e la profilassi. Da notare che, nella disciplina del TUI, le
prestazioni di cui sopra, sono erogate senza oneri a carico dei richiedenti qualora privi di risorse economiche sufficienti. A garanzia dell’effettiva tutela della salute, l’art.
35, comma 5 TUI, dispone il divieto di segnalazione alle autorità dello straniero irregolarmente presente sul territorio che acceda alle strutture sanitarie. Tale divieto è
ora accompagnato dalla previsione dell’art. 6, comma 2 (per come modificato dalla l.
n. 94/2009) che esclude espressamente la necessità di esibire il permesso di soggiorno per l’accesso alle prestazioni sanitarie urgenti ed essenziali29.
Con riguardo al fondamentale diritto all’istruzione, la disciplina del TUI contiene elementi particolarmente significativi di una attenzione all’effettività ed alla
specificità della condizione e dei bisogni di istruzione dello straniero. L’art. 38,
comma 1, TUI, si occupa del livello dell’istruzione definita dall’obbligo scolastico
(attualmente esteso per almeno dieci anni) che viene ampiamente garantito ai minori
29
Nel corso dell’approvazione della l. n. 94 del 2009, invero, si era tentato di abrogare tale divieto di
segnalazione poi reintrodotto nel testo definitivo anche per la significativa mobilitazione da parte di
numerose associazioni e per le decise prese di posizione da parte delle federazioni dei professionisti
sanitari.
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stranieri indipendentemente dal possesso di un titolo regolare di ingresso e di soggiorno, assicurando loro l’applicazione di tutte le disposizioni vigenti in materia di
diritto all’istruzione, di accesso ai servizi educativi, di partecipazione alla vita della
comunità scolastica. L’effettività di tale diritto è garantita dalla prescrizione di cui
all’art. 6, comma 2 TUI che, anche dopo la sua riformulazione, esclude espressamente la necessità di esibire il permesso di soggiorno per l’accesso alle prestazioni scolastiche obbligatorie (dalla scuola dell’infanzia fino al conseguimento del titolo secondario superiore o professionale comprensivo delle misure complementari al diritto
allo studio). Altri aspetti significativi dell’effettività di tale diritto sono rinvenibili
nell’art. 38, comma 2 (ove si vincolano Stato, regioni ed enti locali a garantire
l’effettività con l’attivazione di corsi ed iniziative per l’apprendimento della lingua
italiana, veicolo importantissimo per l’integrazione e per l’esercizio del diritto allo
studio), comma 3 (che valorizza la dimensione interculturale come elemento di accoglienza da parte della comunità scolastica), comma 7 (che prevede la formazione
specifica del personale scolastico e l’adeguamento dei programmi, i criteri e le modalità di comunicazione con le famiglie anche con l’ausilio dei mediatori culturali, i criteri per l’iscrizione e l’inserimento nelle classi degli stranieri, per la ripartizione degli
alunni stranieri nelle classi e per l’attivazione di specifiche attività di sostegno linguistico).
L’inserimento dei minori nel sistema scolastico, strumento principe ai fini di
una vera integrazione, reclama tuttavia l’effettività di tutte le misure di contesto individuate nel TUI ed in particolare di quelle rivolte al minore straniero. Tali misure dipendono fortemente da flussi di finanziamento adeguati e certi che il sistema non
sembra in grado di garantire. I mezzi sono deboli e largamente insufficienti. Come
giustamente sostiene B. Pezzini, «non vi è alcun meccanismo di programmazione necessaria, ancorché graduale o variabile nel tempi, né alcuna garanzia dell’attivazione
delle attività formative così individuate, bensì solo una generica sollecitazione a
promuoverle poste a carico delle istituzioni scolastiche nel quadro di una programmazione territoriale ed anche mediante convenzioni con Regioni ed enti locali».
B) Alcuni diritti sono attribuiti soltanto agli stranieri regolarmente soggiornanti
Rientrano in tale categoria gli stranieri titolari del permesso di soggiorno Ce per
soggiornanti di lungo periodo o di altro permesso di soggiorno e i minori stranieri di
età inferiore ai 14 anni iscritti nel permesso di soggiorno o nel permesso di soggiorno
Ce per soggiornanti di lungo periodo di stranieri maggiorenni. Anche in queste ipotesi, tuttavia, l’intensità della fruizione di tutta una serie di diritti è strettamente collegata alla tipologia ed alla durata del permesso di soggiorno poiché, in genere, ad un
maggior consolidamento della permanenza nel nostro territorio corrispondono maggiori diritti.
34
Per gli stranieri regolarmente soggiornanti con un titolo non breve (superiore
cioè ai nove mesi corrispondenti alla durata del permesso di soggiorno per lavoro
stagionale), nonché per i familiari a loro carico, vi è l’obbligo di iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale ed in questo modo viene garantita “parità di trattamento e
piena uguaglianza di diritti e di doveri rispetto ai cittadini italiani per quanto attiene
all’obbligo contributivo, all’assistenza erogata in Italia dal servizio sanitario nazionale e alla sua validità temporale”. Per le altre categorie di stranieri regolarmente soggiornanti, vi è l’obbligo individuale di garantirsi una adeguata copertura del rischio,
stipulando una assicurazione privata ovvero tramite l’iscrizione volontaria al SSN.
Per quanto riguarda il diritto di istruzione, i bisogni formativi degli adulti (regolarmente soggiornanti) sono presi in considerazione prevalentemente dall’art. 38 TUI
ove si prevedono: corsi di alfabetizzazione nell’ambito della scuola dell’obbligo, corsi per il conseguimento del titolo dell’obbligo, percorsi volti ad integrare gli studi già
compiuti, corsi di formazione professionale (anche in base ad accordi internazionali
di collaborazione). L’art. 39 TUI è, invece, dedicato all’istruzione universitaria assicurando, come principio base di riferimento, la parità di trattamento tra lo straniero
ed il cittadino nelle condizioni di accesso e negli interventi per il diritto allo studio,
sia pure nei limiti previsti dalla stessa norma. Gli stranieri regolarmente soggiornati
(titolari del permesso Ce per soggiornanti di lungo periodo, per lavoro subordinato o
autonomo, per motivi familiari, per asilo politico, per asilo umanitario, o per motivi
religiosi ovvero regolarmente soggiornanti in Italia in possesso del titolo di scuola
superiore conseguito in Italia) hanno accesso, senza limiti, all’istruzione universitaria. Gli altri stranieri che accedono nell’ambito delle quote annue determinate dal
Ministro degli affari esteri di concerto con il MIUR e del Ministero degli Interni devono chiedere un visto di ingresso ed un permesso di soggiorno per motivi di studio,
devono dimostrare la disponibilità di mezzi sufficienti di sostentamento e devono sostenere un tot di esami all’anno. Il TUI contiene poi tutta una serie di ulteriori disposizioni tese idealmente a soddisfare le specificità dei bisogni di istruzione dello straniero (tutela della lingua di origine, percorsi interculturali comuni e via dicendo) il
cui potenziale di effettività, ancora una volta, si scontra con la genericità delle previsioni relative agli strumenti, l’assenza di garanzia di programmazione ma, soprattutto, dalla mancanza di adeguate risorse finanziarie.
Particolarmente interessante è poi la posizione del non cittadino riguardo al diritto sociale dell’abitazione. Innanzitutto, occorre ricordare che la disponibilità di un
alloggio adeguato (ovvero rispondente ai requisiti previsti dalla legge) costituisce,
per lo straniero, una condizione indispensabile ai fini dell’ingresso e della permanenza nel territorio dello Stato. Ciò accade per i casi di ingresso prevalenti che sono
quelli dei permessi di lavoro subordinato ed autonomo, per ricongiungimento familiare, ma anche per ottenere il permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo
periodo e per i permessi di soggiorno per cure mediche. Evidentemente, dunque, il
35
bene “abitazione” è per queste categorie di stranieri prima ancora che un diritto un
vero e proprio onere.
Le prestazioni in merito all’accesso ed al godimento del bene “alloggio” sono
poste a carico di soggetti privati e soggetti pubblici.
Per quanto concerne i soggetti privati, ricordiamo che la configurazione del
“contratto di soggiorno” (art. 5-bis TUI) ha imposto al datore di lavoro di garantire al
lavoratore la disponibilità di un alloggio avente i requisiti minimi previsti dalla legge
sull’edilizia residenziale pubblica. In realtà, il datore di lavoro limita la sua attività al
reperimento dell’alloggio e all’eventuale anticipazione delle spese che potrà recuperare successivamente trattenendo dalla retribuzione fino ad un terzo dell’ammontare
mensile.
A carico dei soggetti pubblici, secondo quanto stabilito dal TUI, sono poste le
prestazioni concernenti l’accoglienza di primo e secondo livello30 nonché
l’integrazione socio-abitativa degli stranieri (art. 40, TUI). Quest’ultima è riservata, a
parità di condizioni con i cittadini italiani, ai titolari di permesso Ce per soggiornanti
di lungo periodo, agli stranieri che esercitano regolare attività di lavoro subordinato
ed autonomo con permesso biennale e si concretizza nell’accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica, al credito agevolato in materia edilizia, recupero e/o acquisto della prima abitazione. Questa (astratta) parità di trattamento viene rinforzata
dalla previsione contenuta nell’art. 43, comma 2, lett. c) TUI che qualifica come discriminatorio l’atto di chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’alloggio (oltre che all’occupazione,
all’istruzione, alla formazione, ai servizi sociali ed ai servizi socio-assistenziali) allo
straniero regolarmente soggiornante, solo in ragione della sua condizione di straniero
o di appartenente ad una certa razza, religione, etnia o nazionalità. Molte norme regionali e locali, specie negli ultimi anni, invece, fanno ricorso al criterio della residenza o addirittura prevedendo punteggi aggiuntivi ai fini della graduatoria in ragione esclusivamente della cittadinanza italiana del richiedente31.
30
Per quanto riguarda la prima accoglienza, titolari del diritto sono gli stranieri regolarmente soggiornanti per motivi diversi dal turismo, temporaneamente impossibilitati a provvedere alle proprie esigenze abitative e di sussistenza. Tale prestazione è posta a carico delle Regioni, anche in collaborazione con gli enti locali e le associazioni di volontariato ed ha ad oggetto la predisposizione dei Centri
di accoglienza aventi la finalità di provvedere alle immediate esigenze alloggiative ed alimentari per il
tempo strettamente necessario al raggiungimento dell’autonomia. Tali centri di accoglienza sono evidentemente diversi dai CPA (Centri di prima accoglienza per gli immigrati irregolari, l. 563/1995), dai
CARA (Centri di ricovero per richiedenti asilo,d. lgs. 25/2008) e dai CIE (Centri di identificazione e
di espulsione, art. 14 TUI). La seconda accoglienza è invece affidata ai comuni di maggiore insediamento degli stranieri (ma anche ad associazioni, fondazioni, altri enti pubblici o provati) che predispongono strutture alloggiative miste (pensionati) per una sistemazione dignitosi ed a prezzi calmierati. Destinatari della seconda accoglienza sono gli stranieri regolarmente soggiornanti.
31
Ci si riferisce al bando del Comune di Milano per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale
pubblica che il Tribunale di Milano ha annullato in quanto integrava gli estremi del comportamento
discriminatorio di cui all’art. 43 TUI (Trib. Milano, 21 marzo 2002). Ma questo è solo un esempio tra
i tanti.
36
Infine (ma solo con riferimento ai diritti sociali più rilevanti32) per quanto riguarda l’area delle prestazioni di assistenza sociale, il TUI prevede l’inclusione degli
stranieri nel sistema complessivo degli istituti e dei servizi garantiti ai cittadini, a
partire però da una condizione di relativa stabilità, durata e regolarità del soggiorno.
L’art. 41 TUI stabilisce, infatti, che le prestazioni di assistenza sociale sono attribuite ai titolari di permesso Ce di lungo soggiorno ed ai titolari di permesso di soggiorno
non inferiore ad un anno i quali sono esplicitamente equiparati ai cittadini quanto alla
fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale (incluse quelle previste per quanti siano affetti da morbo di Hansen (la lebbra) o
da tubercolosi, per i sordomuti, per i ciechi civili, per gli invalidi civili e per gli indigenti).
Certamente il principio della equiparazione strettamente legata ad una ragionevole stabilità nel rapporto con il territorio appare coerente con la necessità di prevedere quanti saranno i potenziali fruitori delle prestazioni sociali ed in base
all’affermazione contenuta nel citato art. 41, tale principio, dovrebbe essere considerato come una sorta di punto fermo dello statuto giuridico dello straniero in tale materia. La legislazione successiva, pur mantenendo formalmente invariato il tenore
dell’art. 41 TUI, ha invece peggiorato incrementalmente le condizioni degli stranieri
nell’accesso alle prestazioni sociali. Qualche esempio concreto potrà ritornarci utile.
La legge finanziaria del 2001 (l. 388/2000) dispone che “l’assegno sociale e le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione in
materia di servizi sociali” richiedono la carta di soggiorno (ora permesso Ce di lunga
durata). La legge 133/2008 esclude direttamente i non cittadini dalla social card e
prevede il requisito della residenza continuativa di 10 anni per il c.d. piano casa. Dal
1° gennaio del 2009, poi, fruisce dell’assegno sociale chi abbia soggiornato legalmente, in via continuativa e per almeno dieci anni, nel territorio nazionale. Sempre
nel 2009 sono stati stanziati due milioni di euro per il rimborso delle spese sostenute
dalle famiglie a basso reddito per acquistare pannolini e latte artificiale per i neonati,
fino a tre mesi, ma di cittadinanza italiana.
Per quanto riguarda l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie
professionali, l’assicurazione per malattia e per maternità ed il diritto per le detrazioni per i figli a carico, residenti in Italia o nel paese di provenienza, non si riscontrano
problemi rilevanti. Da ricordare che, invece, i lavoratori stagionali sono esclusi da
qualunque prestazione di disoccupazione e dagli assegni per il nucleo familiare in
quanto il relativo obbligo contributivo da parte del datore di lavoro è stato convertito
in un contributo che viene destinato agli interventi di carattere socio-assistenziale a
favore dei lavoratori di cui all’art. 45 TUI (Fondo nazionale per le politiche migratorie).
32
La spinosa tematica relativa al diritto all’unità familiare costituirà oggetto di una analisi più approfondita nella terza dispensa.
37
Infine, qualche cenno in ordine ad un argomento già trattato nel corso della
prima dispensa ma che richiede un surplus di attenzione. Lo straniero regolarmente
soggiornante ha il diritto di iscriversi nelle liste anagrafiche del comune di residenza
e l’art. 2, co. 4 TU prevede che lo straniero regolarmente soggiornante possa partecipare alla vita pubblica locale. Si tratta, evidentemente, dell’attuazione della Convenzione di Strasburgo (meglio, dei primi dei suoi primi due Capitoli). su cui pare
necessario un ulteriore approfondimento anche per capire cosa debba intendersi per
“partecipazione alla vita pubblica locale” in assenza del riconoscimento del diritto di
voto.
Ma quali sono le effettive possibilità di partecipare alla vita pubblica locale di
cui dispone lo straniero?
Innanzitutto, lo straniero partecipa alla vita pubblica, potendo indirettamente influire sull’opinione pubblica a livello locale e nazionale, allorché esercita liberamente i diritti fondamentali di cui abbiamo già parlato (diritto di manifestare il proprio
pensiero, di costituire e partecipare ad associazioni formate anche da italiani33, di costituire sindacati o di associarsi ad essi). In secondo luogo, lo straniero partecipa alla
vita pubblica locale allorquando, direttamente o indirettamente, partecipa alla formazione o all’attività di organi di rappresentanza degli stranieri, aventi natura consultiva, e che sono individuati dalle norme dello Stato o delle Regioni o dalle norme statutarie o regolamentari approvate discrezionalmente dagli enti locali. In particolare,
sono proprio gli enti locali la dimensione territoriale più a diretto contatto con le esigenze della popolazione costituendo, dunque, il livello istituzionale più idoneo ad
elaborare forme di intervento per il loro soddisfacimento. Non è casuale, in tal senso,
che le amministrazioni comunali assolvano, in generale, un ruolo centrale nella erogazione dei servizi sociali e siano gli artefici principali delle politiche di accoglienza.
Ad essi è, sostanzialmente, attribuito il compito di elaborare percorsi di integrazione
delle comunità immigrate e la competenza a promuovere forme di partecipazione popolari, che coinvolgano, oltre ai cittadini, anche gli stranieri regolarmente soggiornanti nel loro territorio. Ancor prima della promulgazione del D.Lgs. n. 267/2000
(Testo Unico degli Enti Locali) che ha accentuato i compiti di integrazione sociale
affidati ai comuni, le amministrazioni locali, facendo riferimento a quanto previsto
dalla l. 142/90, hanno favorito forme di partecipazione politica delle comunità immigrate. Molti Consigli comunali, grazie all’autonomia statutaria loro riconosciuta dalla
legge 142/90, hanno proceduto alla istituzione di Consulte di immigrati (organismi
composti dai membri rappresentativi delle diverse comunità di stranieri ma che non
può incidere direttamente sulle dinamiche interne al Consiglio comunale) e/o affiancato al Consiglio comunale la figura del Consigliere comunale aggiunto (che affian33
Peraltro, il legislatore del 1998 ha previsto una serie di agevolazioni per la vita di queste associazioni (art. 42 TU – Misure di integrazione sociale – ).
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ca il Consiglio comunale nelle funzioni concernenti l’accoglienza degli stranieri). Tali forme di partecipazione politica in quanto limitate ad un livello meramente consultivo, nella gran parte dei casi, non hanno conseguito i risultati sperati così sollecitando i livelli di governo locale a riflettere sulla possibilità di individuare forme di partecipazione attiva. Il nuovo Testo Unico del 2000 (d. lgs. 267/2000) ha investito i
Comuni del compito di specificare le forme di garanzia e di partecipazione delle minoranze (art. 6) ed allo Statuto è rimandata non solo la funzione di promuovere (come in passato) organismi di partecipazione popolare all’amministrazione locale, ma,
più in particolare il compito di favorire forme di partecipazione alla vita pubblica locale dei cittadini dell’Unione Europea e degli stranieri regolarmente soggiornanti,
sulla base dei princìpi di cui alla legge 203/1994 (di ratifica della Convenzione di
Strasburgo) e del d. lgs. 286/98 (art. 8, d. lgs. 267/2000).
In particolare, lo Statuto di ogni Comune deve prevedere forme di consultazione della popolazione (art. 8, comma 3) e poiché per popolazione deve intendersi
l’insieme delle persone legalmente residenti ed iscritte nelle liste anagrafiche del
Comune di residenza, cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti devono intendersi equiparati all’accesso a tali generiche forme di consultazione (pubbliche assemblee aventi ad oggetto un determinato tema di interesse collettivo, raccolta di
opinioni su questionari, audizioni).
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