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La psicoterapia strategica applicata a livello familiare
integrata ad un percorso di rieducazione neuropsicologica
individuale
Psychotherapy strategically applied at the household level
integrated to a path of individual neuropsychological
rehabilitation
Lorena Calandi1
Riassunto
In questo lavoro è trattato un caso clinico di Disturbo Pervasivo dello sviluppo Sindrome di Asperger con un percorso di rieducazione neuropsicologica individuale
integrato ad un intervento familiare con l’approccio strategico breve. Dopo una breve
introduzione, che descrive il disturbo sul piano qualitativo, esso prosegue con la
descrizione del percorso terapeutico effettuato. Il trattamento realizza importanti
cambiamenti attraverso la consapevolezza dei membri sul funzionamento del sistema
familiare.
Parole chiave
Approccio strategico breve, disturbo pervasivo dello sviluppo - Sindrome di Asperger,
valutazione neuropsicologica.
Abstract
In this work has treated a case of Pervasive development - Asperger Syndrome with a
path of individual neuropsychological rehabilitation concomitant to a family
intervention with the strategic approach short. After a brief introduction, which
describes the disorder in terms of quality, it continues with a description of the course
of treatment carried out. The treatment produces important changes through the
awareness of the members on the functioning of the family system.
Keywords
Strategic approach short, pervasive
neuropsychological assessment
development
-
Asperger
Syndrome,
Introduzione
Ogni bambino cresce con ritmi di sviluppo individuali per imparare a camminare, a
correre, a parlare, a disegnare, a giocare, a leggere e scrivere, a stabilire rapporti
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sociali e ciò avviene con tempi e modi che dipendono sia dalle sue caratteristiche
costituzionali, sia dagli stimoli ambientali che riceve.
Quando il percorso di crescita di un bambino si discosta in modo significativo da quello
dei coetanei,può rendersi necessario approfondire i motivi dei ritardi o delle atipie che si
manifestano in determinate acquisizioni.
Non esistono misurazioni precise, soprattutto quando si tratta di valutare competenze
presenti o assenti, come camminare o pronunciare le prime parole, ma competenze che
si organizzano progressivamente, come disegnare soggetti riconoscibili, giocare con
regole adeguate, saper raccontare e farsi capire, ben più difficili da misurare.
Nei primi due anni di vita, rallentamenti di pochi mesi nella crescita possono già
definirsi come scarti o divari degni di osservazione, mentre durante lo sviluppo i tempi
di un ritardo possono allungarsi soprattutto se non sono coinvolte le funzioni più
importanti dello sviluppo.
Nei bambini possono anche presentarsi comportamenti che appaiono atipici, quali un
eccesso di isolamento, instabilità,comportamenti oppositivi o aggressività, e sentimenti
intensi di paura, tristezza, rabbia vissuti dagli adulti come sproporzionati e incongrui
rispetto al contesto. I criteri che si possono utilizzare per differenziare le situazioni
dovute a specifiche crisi evolutive o a disagi temporanei da un vero e proprio disturbo
dello sviluppo sono:
 l'ampiezza e la gravità del divario tra ciò che il bambino sa fare e le attese in
rapporto all'età e al confronto con i coetanei;
 durata e frequenza dei comportamenti immaturi, inadeguati o bizzarri, sia a
livello cognitivo che emotivo.
Un campanello d'allarme si deve accendere solo quando il comportamento diverso del
piccolo si discosta in modo significativo da quello dei coetanei, ovvero quando il
divario tra ciò che il bambino sa fare e le attese in rapporto all'età e al confronto con gli
altri bambini, si rivela ampio e rilevante e quando diventa ripetuta la frequenza dei suoi
comportamenti "immaturi, inadeguati o bizzarri". Soltanto in presenza di questi dati
intrecciati, è indispensabile prendere in mano la situazione clinicamente, con urgenza,
determinazione e in maniera sinergica. Poiché, con l'intervento precoce, i disturbi più
lievi possono riassorbirsi quasi completamente, e i più gravi potranno comunque avere
una evoluzione migliore e una prognosi più favorevole.
I genitori devono evitare d'inseguire il falso mito del “super bambino” a tutti i costi e
dedicare attenzione ai suoi reali bisogni, non pretendere performance da piccolo genio
ma rispettare l'individualità di ogni piccolo, in modo da saper riconoscere quando un
supposto ritardo o un'anomalia comportamentale manifesta le caratteristiche non di un
semplice tempo evolutivo diverso, bensì di un reale disturbo dello sviluppo.
Essere in grado di valutare precocemente le prime avvisaglie di uno sviluppo atipico
oggettivo e autentico determina l’immediatezza dell’intervento e una maggiore
possibilità di garantire un risultato medico mirato ed efficace.
Quando è presente una patologia, che può interessare lo sviluppo globale di un bambino
o alcuni aspetti settoriali della sua crescita, è indispensabile effettuare una diagnosi che
non solo inserisca il bambino all'interno di una situazione clinica definita, ma riesca a
chiarire qual è il suo profilo di sviluppo in termini di deficit e risorse, punti di forza e
punti di debolezza, strategie cognitive utilizzate, modalità e qualità delle relazioni
sociali. Se un bambino presenta un disturbo dello sviluppo, ancora di più è
fondamentale rispettare i suoi tempi e i suoi modi di conoscere, esprimersi e
relazionarsi.
Su questo quadro conoscitivo è possibile programmare un intervento terapeutico (sugli
aspetti cognitivi, neuropsicologici o psicopatologici) finalizzato a favorire la risoluzione
del deficit, a ridurre l'entità e il peso del disturbo nello sviluppo della personalità del
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bambino e a evitare il rischio che difficoltà emotive e relazionali complichino il quadro
iniziale.
Parallelamente al processo terapeutico del bambino devono essere attivati interventi di
supporto psicologico ai genitori per sostenere le loro competenze genitoriali e
affiancarli nel percorso di conoscenza ed elaborazione delle difficoltà del figlio.
Nei bambini si possono distinguere due tipi diversi di disturbi cognitivi: acquisiti o
evolutivi. Si parla di disturbi acquisiti quando, dopo un periodo di sviluppo normale, in
seguito ad una lesione neurologica o a una malattia (ad es. in seguito ad attacchi
epilettici) si determina un danno e la conseguente perdita di un’abilità precedentemente
esistente. Sono, invece, disturbi evolutivi quei casi in cui il disturbo si evidenzia nel
corso dello sviluppo, senza la perdita di funzioni precedentemente già acquisite in modo
normale. I bambini con disturbi evolutivi mostrano, in confronto ai coetanei, particolari
difficoltà nell’acquisire determinate capacità o abilità: linguaggio, lettura, scrittura,
calcolo, ecc. Questi disturbi possono assumere un diverso grado di intensità: dal lieve,
al moderato, al grave. In ogni caso, occorre intervenire tempestivamente con programmi
riabilitativi ad hoc, per impedire l’evoluzione del disturbo in forme più severe.
Disturbi evolutivi
Con Disturbo Pervasivo dello Sviluppo (DSP), secondo il DSM-IV-Tr (2001), si fa
riferimento ad un quadro clinico caratterizzato dalla compromissione di tre aree
principali dello sviluppo psichico del bambino, rappresentate da:
 interazione sociale;
 comunicazione verbale e non verbale;
 repertorio di attività ed interessi.
Le tipologie di disturbo pervasivo dello sviluppo (o disturbo generalizzato dello
sviluppo) sono le seguenti:
1. Il disturbo autistico (o autismo);
2. L'autismo atipico;
3. Il disturbo di Rett;
4. Il disturbo disintegrativo dell'infanzia;
5. Il disturbo di Asperger (sindrome di Asperger);
6. Il disturbo pervasivo di sviluppo non altrimenti specificato (PDD-NOS).
La sindrome di Asperger, è stata originariamente descritta da Hans Asperger (1944), che
trattava alcuni casi le cui forme cliniche somigliavano alla descrizione di Kanner (1943)
dell’autismo (problemi con interazione sociale e comunicazione e schemi di interessi
limitati e caratteristici).
La sua descrizione però vi si differenziava in quanto il linguaggio era in ritardo in modo
meno frequente; i deficit di tipo motorio erano più comuni; l’inizio della manifestazione
del disturbo si presentava più tardi; tutti i casi iniziali descritti riguardavano solo il sesso
maschile.
Inoltre, Asperger suggeriva che era possibile osservare alcuni problemi simili anche in
altri membri della famiglia, e particolarmente nei padri.
Per molti anni, questa sindrome è rimasta fondamentalmente sconosciuta, finchè una
serie di analisi di casi realizzati da Lorna Wing (1981), aumentarono l’interesse per
questa condizione, determinando un uso sempre maggiore di questo termine nella
pratica clinica e un continuo aumento del numero di rapporti di casi e di studi di ricerca.
Le caratteristiche cliniche della sindrome descritta abitualmente includono:
a) scarsezza di empatia;
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b) interazione sociale unilaterale, inappropriata e senza malizia, poca abilità di formare
delle amicizie e conseguente isolamento sociale;
c) linguaggio monotono e pedante;
d) scarsa comunicazione non verbale;
e) profondo interesse in tematiche circoscritte come il tempo, i fatti di trasmissioni
televisive, gli orari ferroviari o le carte geografiche che, memorizzate in modo
meccanico, riflettono poca comprensione conferendo inoltre un’impressione di
eccentricità;
f) movimenti goffi, maldestri e posture bizzarre.
Il soggetto può parlare incessantemente di un argomento favorito, spesso non arrivando
a una conclusione ed i tentativi dell’interlocutore di cambiare discorso o intervenire sul
contenuto restano frustrati.
Dal punto di vista del funzionamento sociale, sono spesso soggetti isolati, pur
rendendosi conto della presenza degli altri e pur tentando approcci, che risultano però
inappropriati, poiché è spesso presente un’insensibilità verso i sentimenti e le intenzioni
altrui. I bambini affetti da questa patologia non sono infatti in grado di dare significato
alla comunicazione non verbale degli altri.
Nonostante Asperger avesse originariamente descritto la presenza di questa condizione
unicamente in persone di sesso maschile, che ne hanno più probabilità di esserne affetti,
attualmente vi sono pure casi di persone di sesso femminile.
Anche se risulta che la maggior parte dei bambini affetti da questa condizione si situano
nei normali parametri di intelligenza, in alcuni di loro è stato riscontrato un leggero
ritardo.
L’apparente inizio della condizione, o perlomeno la presa di coscienza di essa, ha luogo
probabilmente un po’ più tardi dell’autismo. È possibile che ciò sia dovuto al fatto che
le proprietà di linguaggio e le abilità cognitive sono migliori. La condizione tende ad
essere molto stabile nel tempo e le più alte capacità intellettive osservate suggeriscono,
a lungo temine, un miglior esito di quanto tipicamente osservato nell’autismo.
I soggetti possono essere in grado di descrivere, correttamente e con dovizia di
particolari, le emozioni e le intenzioni altrui, tuttavia non sanno agire sulla base di
queste conoscenze e restano rigidamente attaccati alle norme e alle convenzioni sociali.
Sono invece presenti singolari isole di abilità, che possono essere coltivate così
assiduamente da ignorare o impedire lo sviluppo di altre.
Dal punto di vista motorio, sono soggetti goffi, con deficit significativi delle abilità
visuo-percettive. Infine, il livello cognitivo risulta nella norma, anche se con
significativa prevalenza del quoziente intellettivo verbale su quello di performance.
È necessario prendere in considerazione sia i punti di forza sia i punti di debolezza della
persona stessa, fornendo quindi un intervento individualizzato che risponda a questi
bisogni (valutati e monitorizzati in modo adeguato).
Apprendimento non verbale
In neuropsicologia è stata dedicata una grossa parte della ricerca al concetto di Rourke
(1989) sulla sindrome del disturbo di apprendimento non verbale (NLD). Il contributo
principale di questa linea di ricerca è stato il tentativo di tracciare le implicazioni sullo
sviluppo sociale ed emozionale del bambino con un profilo neuropsicologico singolare
di abilità e deficit, che sembra avere un impatto deleterio sia sulle capacità di
socializzazione, sia sugli stili interattivi e comunicativi della persona. Le caratteristiche
neuropsicologiche degli individui con il profilo della disabilità di apprendimento non
verbale includono deficit nella percezione tattile, nella coordinazione psicomotoria,
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nell’organizzazione visuo-spaziale, nella risoluzione di problemi non verbali e
nell’apprezzamento dell’assurdo e del senso dell’umorismo. Gli individui con disabilità
di apprendimento non verbale manifestano anche ben sviluppate capacità meccaniche
verbali e di memoria verbale, ma delle difficoltà ad adattarsi a situazioni nuove e
complesse, troppo attaccamento a comportamenti stereotipati in tali situazioni, nonché
dei deficit in aritmetica meccanica rispetto alle capacità di lettura di singole parole, poca
pragmatica, parlata monotona, e difficoltà significative nella percezione e nel giudizio
sociale e nelle abilità d’interazione sociale. Vi sono difficoltà notevoli
nell’apprezzamento di sottili e abbastanza ovvi aspetti non verbali della comunicazione,
i quali spesso hanno come conseguenza il disprezzo e il rifiuto da parte di altre persone.
Come risultato, gli individui con disabilità di apprendimento non verbale manifestano
una forte tendenza a ritirarsi socialmente e sono a rischio di sviluppare dei seri disturbi
dell’umore.
Molti degli aspetti clinici della disabilità di apprendimento non verbale sono stati
descritti anche nella letteratura neurologica come una forma di disabilità di sviluppo di
apprendimento dell’emisfero destro (Denckla, 1983; Voeller, 1986). I bambini affetti da
questa condizione mostrano dei disturbi profondi nell’interpretazione e nell’espressione
affettiva e in altre abilità interpersonali di base. Infine, un ulteriore termine presente
nella letteratura, il disordine semantico-prammatico (Bishop, 1989), riporta ugualmente
degli aspetti del disturbo di apprendimento non verbale e della sindrome di Asperger.
Al momento, non è chiaro se questi concetti descrivano delle entità differenti o se, ciò
che è più probabile, diano delle prospettive differenti di un gruppo eterogeneo, ma in
sovrapposizione, di disturbi che hanno in comune almeno alcuni aspetti.
Definizione categoriale
Come definiti nel DSM-IV (APA, 1994), i criteri per la Sindrome di Asperger
prevedono:
A.
Compromissione qualitativa nell’interazione sociale, come manifestato da
almeno 2 dei seguenti:
1)
marcata compromissione nell’uso di diversi comportamenti non verbali come lo
sguardo diretto, l’espressione mimica, le posture corporee e i gesti che regolano
l’interazione sociale;
2)
incapacità di sviluppare relazioni con i coetanei adeguate al livello di sviluppo;
3)
mancanza di ricerca spontanea della condivisione di gioie, interessi o obiettivi
con altre persone (per es. non mostrare, portare o richiamare l’attenzione di altre
persone su oggetti di proprio interesse);
4)
mancanza di reciprocità sociale o emotiva.
B.
Modalità di comportamento, interessi, e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati,
come manifestato da almeno uno dei seguenti:
1)
dedizione assorbente ad uno o più tipi di interessi stereotipati e ristretti, che
risultano anomali o per intensità o per focalizzazione;
2)
sottomissione del tutto rigida ad inutili abitudini o rituali specifici;
3)
manierismi motori stereotipati e ripetitivi (per es., sbattere o torcere le mani o le
dita o movimenti complessi di tutto il corpo);
4)
persistente eccessivo interesse per parti di oggetti.
C.
L’anomalia causa compromissione clinicamente significativa dell’area sociale,
lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento.
D.
Non vi è un ritardo del linguaggio clinicamente significativo (per es., all’età di 2
anni sono usate parole singole, all’età di 3 anni sono usate frasi comunicative).
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E.
Non vi è un ritardo clinicamente significativo dello sviluppo cognitivo o dello
sviluppo di capacità di auto-accudimento adeguate all’età, del comportamento adattivo
(tranne che nell’interazione sociale) e della curiosità per l’ambiente nella fanciullezza.
F.
Non risultano soddisfatti i criteri per un altro specifico Disturbo Generalizzato
dello Sviluppo o per la Schizofrenia.
Deficit d'interazione sociale
Individui con la sindrome di Asperger sono spesso isolati socialmente, ma non sono
inconsapevoli della presenza degli altri, anche se i loro approcci possono risultare
inappropriati e strani. Essi possono per esempio ingaggiare un interlocutore, spesso un
adulto, in conversazioni unilaterali caratterizzate da un modo di parlare interminabile,
pedante e volte a un argomento preferito, spesso inusuale e limitato. Inoltre, anche se gli
individui con sindrome di Asperger descrivono spesso sé stessi come dei solitari,
dimostrano frequentemente un grande interesse a stringere amicizie e incontrare della
gente. Questi desideri sono invariabilmente ostacolati dai loro approcci goffi e
dall’insensibilità verso i sentimenti delle altre persone, le loro intenzioni e le
comunicazioni non verbali e implicite (per esempio segni di noia, fretta di congedarsi e
necessità di privacy).
Riguardo all'aspetto emozionale della transazione sociale, gli individui con la sindrome
di Asperger possono reagire in maniera inappropriata nel contesto di un’interazione
affettiva, o anche sbagliare nell'interpretarne il suo valore, mostrando spesso un senso di
insensibilità, di formalità o d’indifferenza nei confronti dell'espressione emozionale
dell'altra persona. Nonostante ciò, possono essere capaci di descrivere correttamente, in
maniera cognitiva e spesso formale, le emozioni delle altre persone, le aspettative e le
convenzioni sociali, mentre sono incapaci di agire nei confronti di questa conoscenza in
maniera intuitiva e spontanea, mancando per questo motivo di "tempismo"
nell'interazione. Questa debole intuizione e questa difficoltà ad adattarsi
spontaneamente, sono accompagnate da un marcato legame a regole formali di
comportamento e a convenzioni sociali rigide. Questo comportamento è ampiamente
responsabile dell'impressione di ingenuità sociale e di rigidità comportamentale, che è
assai comune tra questi individui.
La comunicazione deficitaria
Ci sono almeno tre aspetti nelle capacità comunicative di questi individui che sono di
interesse clinico. In primo luogo, se le inflessioni e le intonazioni non sono del tutto
rigide e monotone come nell'autismo, la parola può essere marcata da una povera
metrica. Per esempio, ci può essere una gamma ristretta di intonazioni che sono usate
con poca attenzione verso il contenuto comunicativo del discorso (asserzione di fatti,
battute di spirito, ecc.). In secondo luogo, il discorso può essere approssimativo o
circostanziato, convogliando un senso di imprecisione di associazioni ed incoerenza.
Benché in alcuni casi questo sintomo può essere un indice di un possibile disordine del
pensiero, la mancanza di coerenza e di reciprocità nel discorso è il risultato di uno stile
conversazionale unilaterale e egocentrico.
Il terzo aspetto che caratterizza gli schemi comunicativi degli individui con sindrome di
Asperger è la marcata prolissità, che alcuni autori considerano come l’aspetto
differenziale più importante del disturbo. Il bambino o l’adulto può parlare senza mai
smettere, di solito del proprio argomento preferito, ignorando spesso completamente se
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l’interlocutore è interessato, è impegnato, o tenta di intercalare un commento o di
cambiare il soggetto della conversazione.
Nonostante la possibilità di attribuire tutti questi sintomi, in termini di deficit relativi a
capacità pragmatiche e/o a mancanza di intuito e consapevolezza delle aspettative delle
altre persone, la sfida rimane di comprendere questo fenomeno in un’ottica di sviluppo,
quale strategia di adattamento sociale.
Oltre ai criteri specificati e considerati necessari per la diagnosi, c’è un ulteriore
sintomo associato alla diagnosi della sindrome di Asperger che non viene però ritenuto
come indispensabile per la diagnosi: il ritardo nel raggiungimento delle tappe di
sviluppo motorio basilari e la presenza di una "goffaggine motoria". Gli individui con
sindrome di Asperger possono avere dei ritardi nell'acquisizione di abilità motorie,
come per esempio pedalare, prendere al volo una palla, aprire un barattolo, arrampicarsi
su una scala a pioli, ecc. Spesso sono individui visibilmente impacciati caratterizzati da
un'andatura rigida, da posture bizzarre, da deboli capacità manipolatorie e da rilevanti
deficit nella coordinazione oculomotoria.
La Sindrome d'Asperger secondo il DSM-5
Con il DSM-5 (2013) si parla di Disturbi dello Spettro Autistico, definiti all’interno di
due sole categorie: “deterioramento persistente nelle comunicazioni sociali reciproche e
nelle interazioni sociali in diversi contesti” e “schemi comportamentali ripetitivi e
ristretti”, entrambi presenti fin dall’ infanzia, ma possono non diventare manifesti finché
le esigenze sociali non superano i livelli di capacità. A loro volta, tali categorie sono
descritte attraverso alcuni sintomi, tra cui, per la prima volta, l’ipo o iper sensibilità
verso gli stimoli sensoriali. La presenza di tali sintomi deve compromettere o limitare il
funzionamento quotidiano. La diagnosi ora richiede la presenza o l’assenza di disabilità
intellettiva correlata, di alterazioni del linguaggio, così come di condizioni mediche e
genetiche aggregate.
La Sindrome di Asperger e il Disturbo Pervasivo dello Sviluppo non Altrimenti
Specificato scompaiono e le persone con Autismo appartengono ad uno stesso
continuum, piuttosto che costituire entità separate.
Ciò che differenzia, secondo il DSM V, e quindi dà origine a “sub diagnosi” è la
“gravità” che viene identificata nella necessità di “supporto” . La condizione autistica
può richiedere quindi “very substantial support”, “substantial support”, “support”.
E' stata sostituita la definizione di “Sindrome di Asperger” con quella di “Spettro
autistico”, specificando che la persona interessata non ha disabilità intellettiva, e che
non ha necessità di un supporto intensivo.
Caso clinico
L., 11 anni, ha iniziato un percorso di Training Cognitivo, su richiesta dei genitori, a
causa delle sue difficoltà scolastiche in determinate materie.
Le strategie che possiede una persona nel suo repertorio non sempre vengono utilizzate.
L'intervento rieducativo a tal proposito, punta a valorizzare le capacità e le potenzialità
inespresse del ragazzo ed attraverso il fenomeno della plasticità cerebrale permette di
sviluppare capacità che risultavano precedentemente inesistenti nel suo repertorio
comportamentale.
Si tratta, infatti, di un allenamento cognitivo che risulta utile per imparare ad esprimere
le potenzialità che il ragazzo possiede e svilupparne delle nuove; infatti col termine
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potenziamento si indica il miglioramento delle abilità di base e l'acquisizione di altre più
complesse.
Il ragazzo appare goffo, maldestro, non incrocia lo sguardo dell'interlocutore e se lo fa
lo discosta velocemente, mostrando un'incapacità a mantenere il punto di fissazione per
un tempo prolungato.
Fin da piccolo, L., ha sofferto di crisi convulsive febbrili, che hanno portato la famiglia
a periodici controlli neurologici, per cui ancora oggi segue una cura farmacologica con
medicine che lo portano ad ingrassare e lo costringono a stare a dieta e praticare nuoto.
I genitori riferiscono che il suo sviluppo motorio e cognitivo sia stato nella norma, a
differenza dell'aspetto linguistico che li ha spinti a sottoporlo ad un trattamento
logopedico dall'età di 4 anni fino all'inizio della scuola primaria.
Il ragazzo non ha mai avuto problemi scolastici: è sempre stato molto studioso,
addirittura troppo meticoloso e preciso nello studio, ma ha evidenziato negli anni
difficoltà relazionali con i suoi compagni di classe.
Nonostante l'eccessivo tempo dedicato allo studio, tale da impedire qualsiasi altra
attività di svago e tempo libero, il suo rendimento scolastico è sempre stato ai limiti
della norma, finché nella scuola secondaria, le sue difficoltà cognitive si sono messe in
evidenza nello studio di determinate materie.
La mamma riferisce che il ragazzo è molto sensibile e fin da piccolo è stato sempre
escluso dai suoi compagni, che lo hanno sempre deriso e preso in giro per il suo
atteggiamento goffo e il suo scarso tempismo.
La valutazione psicodiagnostica evidenzia un'immaturità sul piano emotivo ed affettivo
mentre, sul piano cognitivo, l'analisi quantitativa evidenzia un quoziente intellettivo ai
limiti della norma in riferimento alla popolazione di riferimento per età e scolarità.
Da un'analisi qualitativa, invece, emerge:

incapacità di astrazione e di pianificazione;

perseverazione e mancanza di flessibilità nella formulazione e nell’uso di
strategie cognitive;

scarsa capacità attentiva e di pianificazione delle azioni;

inadeguato impiego di strategie di problem solving con tendenza alla
perseverazione nei propri errori.

difficoltà nell'orientamento temporo-spaziale, che pregiudicano il processo di
apprendimento di nuove informazioni e la successiva verbalizzazione, causando
una erronea selezione dei dati immagazzinati in memoria.
Le difficoltà sono correlate alla tendenza da parte di L. alla ripetizione del modello, con
difficoltà nella valutazione e cambiamento della strategia in relazione al compito.
Mostra la tendenza ad applicare una strategia risolutoria già sperimentata ma inadatta
alla situazione contingente, o a considerare un'unica strategia escludendo a priori
strategie alternative. Ciò è noto come impostazione mentale negativa, che porta a
considerare come apprendimenti precedenti possano, se non interiorizzati con giusta
prospettiva, andare ad influire in maniera controproducente con nuovi apprendimenti in
campi similari ma che richiedono processi o strategie differenti. Una particolare forma
di rigidità nella soluzione di problemi è la fissità funzionale, un meccanismo mentale
consistente nella tendenza a prendere in considerazione gli elementi di un problema
secondo il loro uso comune o tradizionale, mentre la soluzione richiede che tali elementi
vengano impiegati in un ruolo insolito.
Gli apprendimenti passati possono anche essere benefici per la risoluzione di problemi,
se utilizzati in maniera creativa, come spunto per produrre analogie produttive tra
situazioni diverse. In psicologia infatti la creatività è intesa come la capacità di produrre
molte e diversificate idee, di compiere collegamenti tra idee usualmente considerate non
aventi elementi in comune (le quali tuttavia possono essere messe in rapporto attraverso
44
una serie di passaggi associativi), di ristrutturare le situazioni. Questi elementi
consentono una ristrutturazione più ampia del problema, consentendo anche di superare
eventuali fissità mentali e generalmente garantiscono una produzione più diversificata di
strategie risolutorie e una maggiore facilità nel rapportarsi a situazioni nuove.
La mente umana non si limita ad accumulare informazioni ma è anche in grado di
cogliere o formare relazioni tra esse. Questa è una capacità collegata allo svolgersi di
operazioni cognitive che portano alla costruzione di rappresentazioni mentali che a loro
volta costituiscono i contenuti del nostro pensiero. Questi contenuti non devono essere
immaginati come entità puramente astratte, ma sono strettamente collegati alle azioni o
alle operazioni che da loro conseguono. Inoltre sono sensibili (e lo dimostrano in
qualche modo anche gli studi sul condizionamento) alle risposte e agli stimoli
dell'ambiente. È anche importante sottolineare come molte operazioni pur se collegate a
processi mentali vengano eseguite automaticamente, mentre altre sono prettamente
consce e controllate.
L. mostra difficoltà nelle capacità sottese ai lobi frontali come la pianificazione, la
previsione, il monitoraggio, la flessibilità, l’apprendimento e l’impiego di strategie,
l’inventiva, la capacità di giudizio e di critica e l'elaborazione delle informazioni
rilevanti.
Eventuali carenze in queste abilità si esplicano nelle attività della vita quotidiana, per
cui il soggetto tenderà ad adottare soluzioni ovvie e superficiali o può essere incapace di
distinguere ciò che è importante da ciò che è irrilevante, ciò che è essenziale da ciò che
non lo è, ciò che è appropriato da ciò che è estraneo (Lezak, 2004).
La variabile emotivo-motivazionale inoltre ha un ruolo fondamentale, poiché motore di
tutto lo stile di funzionamento della persona. Tale variabile si poggia direttamente sulla
fiducia nelle proprie capacità di portare a termine con successo delle attività e prende il
nome di autoefficacia. La propria autostima, che si raccorda con l’autoconsapevolezza
delle proprie capacità, può cambiare nel tempo, grazie ai rinforzi che si ricevono ed alle
persone che dimostrano di credere nelle abilità dell’altro.
Con L. si è cercato di effettuare un intervento integrato a più livelli:

rieducazione neuropsicologica delle capacità cognitive deficitarie attraverso
l’impiego di esercizi e programmi sulle abilità che risultano compromesse o
carenti;

miglioramento del metodo di studio ed apprendimento di strategie alternative
per la risoluzione dei compiti scolastici, lavorando soprattutto nell’ambito in cui
si riscontrano maggiori difficoltà;

sostegno emotivo-motivazionale per imparare ad affrontare le difficoltà che gli
si presentano in ambito scolastico e nella vita di tutti i giorni, in conseguenza
alle difficoltà relazionali;

parent training ad orientamento strategico per i familiari, che vengono educati
sul significato del disturbo ed a cui vengono insegnate le strategie da utilizzare
per gestire le difficoltà e rapportarsi con il bambino.
Intervento strategico familiare
Il modello di terapia breve evoluta si focalizza sulle interazioni presenti tra i membri
della famiglia e sulle loro storie attorno al problema, tralasciando le considerazioni sulla
struttura familiare.
Esso nasce dall’integrazione di tre indirizzi di terapia sistemica breve: l'approccio di
“terapia breve focalizzata sul problema” del Mental Research Institute (MRI) di Palo
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Alto (Watzlawick et al., 1974), l'approccio di Shazer, (1986) e l'approccio narrativo di
White (White, 1992).
Il modello evoluto-integrato consente di spostarsi liberamente dal “parlare del
problema” al “parlare della soluzione” e viceversa, qualora questo modo di procedere si
adatti meglio alle prospettive dei clienti.
I genitori giungono al primo colloquio sottolineando le difficoltà scolastiche del ragazzo
e manifestando l'interesse nel fargli intraprendere il percorso cognitivo, di cui hanno
sentito parlare. Appaiono stupiti alla richiesta di recarsi al primo colloquio senza il
ragazzo, mostrando palesemente la loro convinzione che il colloquio effettuato sarebbe
stato privo di utilità sul piano clinico.
Ciò dimostra la credenza che negli anni si è strutturata nel sistema familiare: "L. è
piccolo e bisognoso e necessita della loro protezione".
I coniugi sono sposati da 19 anni ed hanno due figli, di cui L. è il più piccolo.
La mamma, A., è un’estetista, il papà è un elettricista.
A. attacca il marito sulla sua poca presenza a casa, giustificata da lui con gli impegni
lavorativi. Lei invece, sostiene di essersi sempre sacrificata per il bene di L., che fin da
piccolo ha necessitato della sua presenza a causa dei suoi problemi di salute.
Riferisce che L. ha sempre avuto difficoltà a relazionarsi con i compagni di classe, in
quanto tutti lo hanno sempre trattato male e deriso, e ciò ha sempre spinto L. a cercare
la compagnia di ragazzi più piccoli.
Molte volte lei stessa si è recata a scuola a parlare con gli insegnanti, per gli insulti
subiti dal figlio, o direttamente con i compagni, "sostituendosi" a lui nella gestione delle
situazioni.
A. ha deciso di iscriverlo ad un'associazione scout per facilitarne l'inserimento e
renderlo autonomo, ma dopo un avvenimento verificatosi al rientro da un'uscita esterna,
in cui L. è stato deriso suscitando in lui profondo disagio, A. ha deciso di non rinnovare
l'iscrizione.
Il padre ascolta senza proferire parola, annuendo con la testa quando la moglie dice che
tutto ciò che hanno sempre fatto è per il bene di L. La madre si sente "esaurita",
incapace di gestire e far fronte a questa situazione (definizione del problema).
Dopo tanti anni, infatti, in cui i problemi venivano disconosciuti, oggi sono diventati più
evidenti ed amplificati ai loro occhi, generando, soprattutto nella madre, notevole ansia.
A. è una donna precisa, che cerca di controllare tutto e si sente impotente nei confronti
delle difficoltà del figlio, dicendo di essere stanca e non sapere più cosa fare per lui. Ha
sacrificato il suo lavoro negli anni, riducendone il carico a mezza giornata in modo da
poter seguire meglio il figlio, mettendosi "a sua disposizione".
Con l'ingresso nella scuola secondaria, L. ha manifestato difficoltà scolastiche: il
trattamento neuropsicologico da un lato ha portato nel tempo dei miglioramenti nel suo
modo di approcciarsi alla realtà, dall'altro lo ha reso consapevole della sua incapacità di
effettuare dei ragionamenti complessi a differenza dei suoi compagni, determinando,
attraverso il ritiro dal contatto con l’esterno, un maggiore invischiamento con i genitori,
e con la madre in particolare, il porto sicuro su cui può sempre contare e che lo sostiene
e lo aiuta.
L. infatti, nel corso del trattamento, ha iniziato a lamentarsi con i genitori per tutte le
difficoltà che incontra a scuola, pretendendo che la madre si rechi dai docenti a
spiegargli quali siano le sue difficoltà.
Allo stesso tempo la mamma e il papà, in conseguenza alle sue lamentele e pianti, si
dedicano maggiormente al ragazzo, aumentando attenzioni e cure, e ciò aumenta i
sintomi, che sono alimentati dal loro stesso tentativo di soluzione, creando anche nel
fratello maggiore un atteggiamento di gelosia.
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Per evitare la sera le sue continue lamentele e i pianti sulle sue difficoltà, L. costringe i
genitori a farlo studiare, dopo interi pomeriggi trascorsi in un centro che si occupa di
doposcuola (Tentate soluzioni).
Il loro atteggiamento costituisce in realtà un ostacolo al cambiamento, che per
verificarsi necessita di esperienze emozionali correttive più che di riflessioni razionali.
L'incessante desiderio di avere un controllo sulla situazione, che non può essere gestita
in tempi brevi, viste le difficoltà cognitive di L., genera un atteggiamento familiare
ambivalente, per cui da un lato si vorrebbe che L. imparasse a gestire le situazioni (a
livello scolastico, con una prestazione migliore) e che diventasse più autonomo,
integrandosi con i ragazzi della sua età, ma dall'altro lo si "protegge", ricercando
continue giustificazioni alle sue difficoltà e evitandogli le frustrazioni.
Nei primi incontri,il terapeuta affida ai genitori un semplice compito: sfruttando la loro
capacità di osservare, riflettere e spiegare i fenomeni, chiede loro di spendere quanto più
tempo possibile a capire non tanto le cause del comportamento di L., quanto piuttosto i
vantaggi che lui ne trae.
Nel modello strategico acquista una grande importanza far sperimentare al paziente
azioni concrete di vita che rompono il meccanismo di azioni, retroazioni e tentate
soluzioni che mantengono il problema.
In un approccio sistemico ai problemi, è da considerare che ogni elemento ha la sua
funzione, compreso il sintomo. Tale funzione si realizza spesso in un vantaggio che si
definisce “secondario”, intendendo con questo che le persone affette da un disturbo
traggono dai loro sintomi benefici di qualche tipo. Risulta dunque necessario avere
chiaro quale beneficio trae L. dall'evitare le situazioni potenzialmente "pericolose". Allo
stesso tempo, attraverso il compito prescritto, si ottiene anche il vantaggio di rendere i
genitori consapevoli delle logiche sottese a tale rifiuto.
Nel corso delle sedute, infatti, i genitori sembrano più consapevoli dei loro tentativi
fallimentari di gestire le situazioni e le difficoltà del figlio, impedendogli di sviluppare
un suo punto di vista sulle cose e di attuare quel processo di separazione-individuazione
tipico della fase adolescenziale.
Grazie a questa loro presa di consapevolezza,il terapeuta attua un processo di
ristrutturazione del comportamento di protezione, inteso come eccessivo amore nei
confronti del figlio, che gli impedisce di crescere, determinando delle ripercussioni
anche sul fratello maggiore che in fase adolescenziale si trova a vivere un periodo
particolarmente stressante, che gli causa un blocco nello studio, determinando un
sentimento d'impotenza, che lo porta a reagire con l'abbandono scolastico.
Nel corso delle sedute di parent training, emerge l'utilizzo di uno stile genitoriale
permissivo nell'educazione dei figli, che li ha resi incapaci di gestire le situazioni
frustranti ed ansiogene. I figli, infatti, senza delle regole chiare nel loro sviluppo, non
hanno avuto un percorso da seguire che gli permettesse di essere autosufficienti ed
aperti all'esplorazione, determinando di conseguenza un minor autocontrollo. Un
atteggiamento iperprotettivo, infatti, comporta una carenza d'impegno nell'affrontare le
nuove situazioni o le regole del vivere insieme.
Trasmettere le regole ed acquisirle vuol dire diventare persone costruttive e sviluppare
una sensazione di sicurezza e non di dispersione e di assenza di punti di riferimento
forti.
Il terapeuta affronta continuamente, durante il percorso clinico, il tema dell'educazione
facendo degli esempi concreti della modalità di stabilire delle regole su cui i figli
possano contare nel corso del tempo. Questa tecnica, definita della concretizzazione,
consiste nel fornire all'interlocutore degli esempi concreti che permettano loro di
scorgere i contorni del problema, la maniera in cui lo si percepisce, i ruoli assunti e le
diagnosi inespresse.
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Viene rimandata ai coniugi la metafora del treno che scivola velocemente sui binari
verso una direzione prestabilita, ma che senza manutenzione e controlli periodici rischia
di deragliare, deviando il suo percorso.
Queste informazioni, sotto forma di feedback che il terapeuta dà ai genitori, consente di
attivare una ristrutturazione del problema, una vera e propria ri-codificazione di
immagini e percezioni della realtà mediante lo spostamento del punto di osservazione.
Secondo Gulotta (1997), la ristrutturazione consiste nel modificare la struttura
concettuale ed emozionale di una situazione, ottenendo un'alterazione del significato
che le viene attribuito.
Il terapeuta, però, evita di colpevolizzare il comportamento negativo dei genitori,
attraverso l'evitamento di forme negative, e ri-orientando in chiave positiva le
esperienze esposte in terapia.
La madre,però, continua ad avere un atteggiamento ambivalente nei confronti del
trattamento. Se da un lato si rende conto dell'importanza di un percorso psicologico che
aiuti il figlio minore ad acquisire maggiore autonomia, dall'altro non ammette i
cambiamenti che il ragazzo ha effettuato grazie ad esso e che hanno assecondato una
normale spinta fisiologica legata allo sviluppo tipico della fase adolescenziale.
In corso d'opera,il terapeuta utilizza la “miracle question”, che è stata sviluppata da de
Shazer nel 1986, particolarmente utile per suscitare le mete di trattamento ed una
descrizione particolareggiata della situazione senza il problema. Questa tecnica permette
di mettere il soggetto di fronte alla realtà attraverso il riconoscimento indiretto dei
progressi avvenuti durante il percorso terapeutico. Inoltre è applicata la “scaling
question” utile per assicurare una misurazione quantitativa del problema in modo da
valutare il livello al quale vorrebbero trovarsi per considerare il problema risolto. La
famiglia ha identificato la situazione del problema su una scala da 1 a 10 (essendo 10 la
situazione migliore).
Negli incontri con i genitori si esplorano le passate e le presenti tentate soluzioni e si
negozia una meta di trattamento separata indirizzando alcune loro aspettative o
preoccupazioni.
Dopo questa presa di consapevolezza da parte dei coniugi,il terapeuta assegna loro due
compiti: osservare senza intervenire, senza fare facce tristi o allegre; evitare di parlare
del problema con i figli, la cosiddetta congiura del silenzio, in quanto più se ne parla,
più si alimenta la paura dello stesso.
All'incontro successivo, la coppia ritorna e si avverte un clima meno teso. Il terapeuta
chiede loro se hanno effettuato le prescrizioni e loro hanno ad un certo punto realizzato
che i pianti di L. sono finalizzati all’aumento di attenzioni verso di lui, e che forse è
questo il vantaggio che rinforza nel figlio certi comportamenti. La nuova
consapevolezza rappresenta una diversa visione delle cose. Si chiede loro cosa
potrebbero quindi fare di diverso rispetto a quello che hanno finora fatto. I genitori
subito aggiungono che pur essendo stati tentati a non intervenire, a volte con minore
dolcezza, non avrebbero mai avuto il coraggio di mettere in atto il comportamento.
La madre riporta un avvenimento che non riesce a gestire, ovvero l'alzarsi tutte le
mattine per andare a scuola, che si trova a circa 1 km, e che diventa un momento
drammatico "L. non si sbriga nonostante le nostre insistenze e ci costringe a doverlo
accompagnare, perché non riesce a prendere il pulmino".
Il terapeuta le dice che deve lasciare che qualche mattina perda lo scuolabus e vada a
scuola a piedi, dopo avergli spiegato che non ha tempo per accompagnarlo.
Il terapeuta richiama ai genitori un'efficace analogia di Milton Erickson: “quando vostro
figlio ha mal di denti, che cosa volete che il dentista faccia? Che gli dia semplicemente
un qualche calmante per alleviargli il dolore o che lo curi facendogli male? Perché
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grande o piccola che sia, l’iniezione per l’anestesia locale sarà dolorosa”; immagine che
serve ad abbattere eventuali resistenze e pregiudizi relativi alle prossime manovre.
Allora viene data loro la prescrizione che ogni mattina devono svegliare L. un po’ prima
del solito, e quando è ormai pronto per la scuola, con affetto e calma, spiegargli che
capiscono quanto sia importante per lui lamentarsi e così vogliono che lo faccia adesso
prima di uscire, per un quarto d’ora, mentre loro possono ascoltarlo con attenzione
comodamente seduti sul divano; durante il resto della giornata, se si fosse lamentato,
avrebbero dovuto ricordargli che la mattina dopo aveva a disposizione ben quindici
minuti per farlo e che doveva quindi rimandare.
La seconda richiesta è di comportarsi “come se” non ci fosse il problema per cui sono
venuti, né altri problemi, limitandosi ad osservare quello che fa.
La manovra di “prescrivere il sintomo” ha la funzione di svuotare di significato il
comportamento del bambino privandolo della sua potenza emotiva. Chiedergli di
lamentarsi corrisponde ad appropriarsi del suo modo di fare per utilizzarlo in maniera
diversa, privandolo dei benefici che procura e quindi della sua funzionalità. E’ un
atteggiamento contrario a quello tenuto dai genitori fino ad ora, anche per questo
destabilizzante e quindi utile a spezzare il circolo vizioso attraverso nuove esperienze
emotive.
A questo si affianca uno stratagemma, quello del comportarsi “come se”, che
interrompe gli schemi relazionali soliti allontanando l’attenzione dal problema ma
soprattutto modificando la tendenza ad interagire solo in funzione di esso. Attraverso
questi nuovi comportamenti è veicolato il messaggio che i ruoli sono cambiati e che non
c’è più chi si lamenta e chi consola, ma chi parla e chi ascolta, in uno scambio limitato
nel tempo e nell’importanza.
Nel tempo i genitori si mostrano più rilassati e consapevoli dell'atteggiamento di L.
sostenendo che si è notevolmente ridotto e che adesso la sera non fa più storie, come se
avesse capito che il gioco è ormai stato smascherato e non funziona più. Riferiscono che
non ha mai utilizzato il quarto d’ora del mattino per lamentarsi se non il primo giorno.
La terapia prosegue per consolidare i risultati raggiunti, monitorare l’evoluzione
positiva del cambiamento, ma soprattutto per lavorare sull’ansia e i timori che il
problema ha provocato nei genitori e sulla loro tendenza a trasmetterli al bambino.
Queste convinzioni sulle sue difficoltà, se non adeguatamente trattate, possono
concretizzarsi in atteggiamenti di sfiducia o peggio ancora di rinuncia, che rendono più
difficile il percorso individuale.
Per evolvere in una direzione positiva si lavora sulla comprensione e su quanto è
necessario fare per aiutarlo, cercando di mantenere una visione realistica del problema.
Allo stesso tempo si utilizza un dialogo ricco di metafore e ristrutturazioni per
rinforzare le risorse positive individuali e di coppia e per mantenere alta la motivazione
al trattamento.
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