I Leoni
Titolo originale: Sophie Scholl and the White Rose
Traduzione dall’inglese di Marina Nazzaro
© 2006 Oneworld Publications
© 2008 Lindau s.r.l.
corso Re Umberto 37 - 10128 Torino
Prima edizione: ottobre 2008
ISBN 978-88-7180-767-6
Annette Dumbach Jud Newborn
STORIA
DI SOPHIE SCHOLL
E DELLA ROSA BIANCA
CREDITI FOTOGRAFICI
L’Editore è molto grato a George Wittenstein per il permesso di riprodurre le
fotografie n. 2, 3, 6, 7, 8, 9, 10, 11 dell’inserto e la fotografia di p. 142 del libro:
© George Jürgen Wittenstein, 1942.
Per la fotografia n. 15 © Jud Newborn, 1983.
L’Editore ringrazia altresì Wolfgang Huber per il permesso di riprodurre la fotografia di Kurt Huber (n. 4 dell’inserto) ed esprime la propria sincera gratitudine a Ursula Kaufmann, della Fondazione La Rosa Bianca, il cui gentile aiuto
nella ricerca delle immagini è stato impagabile.
L’Editore ha fatto ogni ragionevole sforzo per identificare e contattare i titolari
del diritto di copyright delle altre fotografie riprodotte in questo volume e si dichiara disponibile a un accordo con i legittimi titolari.
Ogni errore è frutto del caso e sarà corretto nelle future ristampe previo accordo
con l’Editore.
Noi non taceremo.
Noi siamo la voce della vostra cattiva coscienza.
La Rosa Bianca non vi darà pace.
Dedica
Non nel volo del pensiero.
Ma nell’azione c’è libertà.
Dietrich Bonhoeffer *
Anche prima che Hitler prendesse il potere, e durante i dodici brutali anni del dominio nazionalsocialista, operò quella che è conosciuta
come «l’altra Germania». La sua voce non prevalse – in quei tempi
era debole, quasi bloccata – ma quegli individui che cantarono con
vibrante chiarezza mentre il mondo intorno a loro andava in fiamme
condivisero un’energia, una grazia e un coraggio insuperati.
Le cifre sono una guida inaffidabile per capire la realtà, ma spesso
non abbiamo molto altro. Un milione di tedeschi «passarono» nei
campi di concentramento e nelle prigioni; secondo stime prudenti,
almeno 40.000 furono uccisi sotto il terrore nazista, 15.000 dei quali
civili, mandati a morte per reati politici.
Questo libro è dedicato agli uomini e alle donne di Germania che si
opposero. (a.d., j.n.)
* Dietrich Bonhoeffer venne impiccato nel campo di concentramento tedesco di
Flossenbürg all’alba del 9 aprile 1945, pochi giorni prima della fine della guerra.
Sei
Nel gennaio del 1943, circa cinque settimane prima di essere arrestato dalla Gestapo, Hans Scholl scrisse una lunga lettera a Rose
Nägele, un’amica d’infanzia, una delle molte con le quali aveva stabilito un intenso rapporto intellettuale. Ad Hans sembrava che l’amicizia stesse lentamente scemando in lui e nella lettera spiegava il
suo allontanamento:
Amo questi periodi di transizione. Favoriscono la riflessione, anche
se sono tanto difficili da sopportare. Si tratta dello stesso impulso per
cui mi sento attratto dalle grandi stazioni. Conosco una persona che
si potrebbe descrivere in questo modo: non toglie mai il cappotto, rimane sempre un ospite […]. Quando si parla con lui, si ha l’impressione che da un momento all’altro possa estrarre l’orologio dalla tasca e dire: è ora che vada. Quest’uomo mi è simpatico.
L’immagine è interessante e riflette sia gli interessi letterari e intellettuali di Hans sia la sua personalità inquieta. Come le velleità artistiche di molti giovani intellettuali, ha l’aria di chi si mette in posa
rendendosi terribilmente misterioso e importante. In ogni caso c’è
qualcosa di estremamente moderno nell’uomo col mantello: sembra
incarnare lo spirito degli anni ’40, sebbene esprima un atteggiamenti e dei valori latenti già negli anni ’30 su entrambe le sponde del Reno, in Francia e in Germania, incarnati da scrittori come Camus e Sar-
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tre, che Hans Scholl non aveva letto. Quell’immagine non differiva
da quella espressa da questi scrittori: l’uomo alienato, in un anonimo
mantello grigio, senza beni o case, solitario e impegnato a ricercare e
a creare il proprio mondo.
Era dunque un’immagine originale, nonché audace e fondata, se
si pensa al luogo nel quale Hans crebbe e al suo adolescenziale fervore nazionalistico. Un vagabondaggio per il mondo, uno sguardo
all’orologio, l’ora di andare: erano immagini che colpivano al cuore
il provincialismo monotono e strombazzato della sua nazione e i tentacoli che stringevano e reprimevano il suo spirito.
L’esilio e lo sradicamento, però, erano più profondamente incarnati da Alexander Schmorell, diviso tra due culture, quella russa e
quella tedesca. Il nonno, tedesco, si era stabilito in Russia come commerciante di pellicce senza rinunciare alla nazionalità originaria. Il
padre di Alex, Hugo, era nato in Russia ma si considerava tedesco: a
Monaco aveva studiato medicina e poi si era stabilito in Russia, sposando una russa, la figlia di un religioso ortodosso.
Durante la prima guerra mondiale, Hugo Schmorell fu spedito
negli Urali per dirigere un ospedale per civili tedeschi e prigionieri
di guerra. Alex nacque nel 1917, un anno di turbolenze e di guerra civile. Aveva solo due anni quando la madre morì per un’epidemia di
tifo.
Nel 1921, tre anni dopo la rivoluzione, Hugo Schmorell saltò con
il figlio di quattro anni e la balia russa sull’ultimo treno che portava
via i civili tedeschi e i prigionieri di guerra. Si stabilì a Monaco, si risposò con una donna tedesca nata in Russia e aprì un centro medico.
Si dice che fu la balia russa, che non imparò mai la lingua tedesca
e parlava al suo Shurik della sua terra incantevole, a instillare in Alex
il desiderio mai rimosso della sua patria, delle sue steppe sterminate, delle foreste di betulle e delle icone scintillanti. I resoconti della
sua vita in Germania lo descrivono come un bambino felice, con una
vita tranquilla, agiata. I due figli nati dal matrimonio tedesco del padre invece si sentivano tedeschi. Alex forse era felice ma aveva anche
nostalgia di una terra lontana che non ricordava più.
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Parlava e scriveva benissimo il russo, a forza di leggere Dostoevskij, Gogol e Puskin. Sembra che la famiglia Schmorell, che abitava
in una villa a Harlaching, un sobborgo benestante di Monaco, tollerasse con fatica l’«animo slavo» di Alex. Era un ragazzo di talento:
amava la musica, i canti popolari della Russia, tragici e allegri, i grandi classici, suonava il piano e la balalaika. Imparò a dipingere e a
scolpire, perché voleva diventare uno scultore, sebbene non fosse
una vocazione ben accetta da suo padre. Hugo desiderava che i figli
divenissero degli affermati professionisti, medici preferibilmente.
Alex andò avanti nello studio con riluttanza e fu generosamente
ricompensato con assegni e la libertà di disporre del tempo libero
come più gradiva: si dedicò all’arte, ai viaggi, all’equitazione, allo
sci, all’alpinismo, tutte attività tipiche della gioventù privilegiata di
Monaco.
Fu educato secondo i principi della religione ortodossa russa, la
fede della madre. Fin dalla prima giovinezza Alex ebbe un carattere
in cui convivevano allegria, spensieratezza e malinconia. Aveva molti amici, anche ragazze, era interessato all’arte come allo sport, viaggiava spesso. Apparteneva alla gioventù più fortunata di Monaco:
una città invidiabile se si era giovani, istruiti e benestanti.
C’era però anche qualcos’altro in Shurik: una voglia di girare per
le campagne o da solo in città, di trascorrere il tempo con i braccianti nelle fattorie, di parlare con le contadine, le zingare, i vagabondi.
Era attratto dai barboni, dagli uomini ai margini della Volksgemeinschaft, la «comunità razziale», la Germania nazista. La marginalità ai
suoi occhi era espressione di libertà, quella libertà che ritrovava in
ogni libro della letteratura russa, in ogni canzone o canto della musica russa.
Aveva rigettato d’istinto i valori e i principi del Terzo Reich. Non
era un rifiuto soltanto razionale, ma molto più profondo. Non era
nemmeno una questione di etica e di giustizia: era insopportabile vivere e agire in un mondo grigio e irreggimentato, abitato da uomini
e donne in uniforme che marciano a passo serrato. Alex faceva parte
della Scharnhorst, un gruppo giovanile di destra, ma non ne fu mai
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entusiasta e dopo che il gruppo fu integrato nella Gioventù hitleriana, nel 1933, smise pian piano di frequentarne gli incontri. Non visse mai il momento di svolta esistenziale che ad esempio ebbe Hans
Scholl dopo il raduno del partito nel 1936. La sua vita non era dominata dalla razionalità ma dall’istinto.
Si ha l’impressione che Alex fosse un po’ viziato come se la generosità e i regali paterni potessero sostituire la comprensione paterna.
Alex aveva stile, era elegante: sembrava un giovane gentiluomo inglese di campagna, specie quando indossava i calzoni e gli stivali da
cavallerizzo e le camicie a collo alto. Esistono vaghi indizi che lo dipingono come un problema per la famiglia: il classico ragazzo che si
mette nei guai e deve essere tirato fuori con il denaro e l’influenza del
padre. Una volta, mentre prestava servizio come medico nella Wehrmacht, fu sorpreso a indossare gli abiti civili invece della disprezzata uniforme. Il padre e lo zio, che avevano legami con le alte sfere, lo
tirarono fuori da una situazione difficile.
Poteva anche essere avventato e spericolato, ma dispensava le
sue energie, il talento e l’affetto con generosità e non usava mai prudenza: non sapeva cosa significasse agire al sicuro.
Quando Alex incontrò Hans nell’autunno del 1940 all’università
di Monaco aveva già vissuto la prima fase della conquista hitleriana
dell’Europa. Dopo il periodo di lavoro obbligatorio presso il RAD,
nel 1937, svolto nella costruzione di una autostrada, divenne medico e fece parte delle unità tedesche che marciarono in Austria per ricondurre quel paese «a casa, nel Reich». Prestò servizio in Cecoslovacchia nel 1938 e in Francia nel 1940, come fece Hans, ma non si incontrarono.
All’inizio della carriera militare, Alex soffrì di una violenta crisi
emotiva. Quando dovette giurare fedeltà e lealtà assoluta ad Adolf
Hitler non se la sentì di fingere. Andò dall’ufficiale in comando e gli
disse la verità, per incredibile che sembri, e chiese di essere sollevato
dai doveri militari. La richiesta fu naturalmente respinta, ma sorprendentemente non ci furono ripercussioni: forse l’ufficiale era un
tipo comprensivo. In realtà c’erano non poche anime come la sua nel-
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le unità mediche, più che in qualsiasi altro gruppo militare, e questo
è uno dei motivi che spiega perché i cospiratori si incontrarono in
una di esse.
Dopo aver espresso il proprio rifiuto a giurare, Alex si sentì meglio. Anche se era obbligato a prestare servizio, si considerò esonerato dall’obbedire alle parole del giuramento. In seguito, quando scoppiò la guerra in Russia, promise agli amici che nella vita non avrebbe mai sparato a un russo. Per fortuna al fronte non si trovò mai a dover compiere una simile azione.
Verso l’autunno del 1940 tornò a Monaco, a studiare per l’esame
d’ingresso alla facoltà di medicina. Poteva di nuovo vivere a casa, seguire un corso di scultura, andare ai concerti. In questo periodo incontrò Hans poiché erano assegnati alla stessa unità medica. Con gusti e interessi vasti e affini, avvertirono un’immediata attrazione reciproca: entrambi detestavano i militari e il nazismo. Le due personalità, così diverse per certi aspetti, erano complementari: l’uomo col
mantello e il vagabondo attraversavano una fase della loro vita che
trovavano assurda e «selvaggia». Prepararono insieme, minuziosamente, l’esame, che superarono, e gli Schmorell accolsero Hans in casa, invitandolo alle «serate di lettura» che loro figlio teneva periodicamente. Fu tramite Alex che Hans conobbe altri due membri della
Rosa Bianca. Durante una delle serate dagli Schmorell, Shurik presentò Hans a Christopher Probst, che tutti chiamavano Christel, un
vecchio amico dei giorni del ginnasio a Monaco, e a Traute Lafrenz,
che Alex aveva incrociato, durante un breve periodo di studi all’università di Amburgo, a una serata in cui erano stati eseguiti i Concerti
brandeburghesi di Bach.
Nella primavera del 1942 queste amicizie si erano ormai consolidate. Hans e Traute avevano anche vissuto una relazione appassionata e tumultuosa che li aveva così spossati che lui ne era ben presto
uscito. La Russia era stata invasa l’anno prima, le incursioni aeree
sulle città tedesche andavano intensificandosi e la vita era sempre
più tetra e deprimente.
La decisione presa a questo punto da Alex e Hans, di cui proba-
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bilmente Probst era a conoscenza, e che approvava, fu che era venuto il momento di agire.
Willi Graf fu uno degli ultimi a entrare nel gruppo, anzi fu l’ultimo a unirsi prima dell’arrivo di Sophie. Willi rimase sempre un po’
in disparte. Fu sì coinvolto profondamente nella cospirazione, portò
a termine missioni molto pericolose, ma ci fu sempre una specie di
separazione tra lui e gli altri.
A differenza degli altri, Willi era un cattolico molto devoto, un
giovane silenzioso e riflessivo che metteva alla prova la sua fede di
continuo. Il suo essere taciturno e la sua mancanza di diplomazia celavano il fatto che era tormentato dai dubbi, su sé stesso, sulla resistenza in tempo di guerra e qualche volta, forse, in qualche spazio
terribile e nascosto del suo cuore, perfino su Dio.
Willi era cresciuto a Saarbrücken, una città al confine francese.
Nel 1942 aveva ventiquattro anni. Il padre era un mercante di vini all’ingrosso che esigeva dai figli un comportamento corretto e devoto;
era la madre a dare ai figli il calore e la tenerezza che addolcivano la
sua severità. La chiesa ebbe un ruolo cruciale nella vita di Willi fin
dall’infanzia: la religione fu uno dei suoi principali interessi già a
scuola, insieme all’arte, alla poesia, alla musica. Non si interessò mai
di politica: la sua ribellione, quando scoppiò, non era di natura ideologica.
Autentico spirito solitario della Rosa Bianca, Willi Graf desiderava più di ogni altro però un’amicizia profonda e duratura. C’era
qualcosa di tremendamente esigente e doloroso nelle sue aspettative.
Quando Hitler salì al potere, aveva appena quindici anni: compilò
una lista di tutti gli amici, sbarrò i nomi di quelli che erano entrati
nella Gioventù hitleriana e non ebbe più a che fare con loro.
Come gli altri, durante le vacanze scolastiche faceva escursioni in
campagna o gite all’estero. Era membro dell’Ordine grigio, uno di
quei gruppi giovanili cattolici, «non autorizzati e illegali», che furono
perseguiti nel 1937 e 1938. Fu arrestato mentre studiava all’università
di Bonn, fu interrogato e venne liberato diverse settimane dopo. L’e-
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sperienza rafforzò la sua repulsione verso il regime e lo convinse che
Hitler e i suoi uomini erano l’incarnazione del male.
Nel 1939 Willi era diventato medico. Prestò sevizio in Polonia e
poi in Russia dopo l’invasione del 1941: si occupava dei feriti dei
campi di battaglia. Ciò che vide gli indurì l’animo: non erano solo il
sangue e l’agonia dei soldati feriti a turbarlo, ma la crudeltà e la brutalità indicibili dei soldati tedeschi nei confronti delle persone disarmate e inermi. «Non avessi mai visto ciò che ho visto nei giorni scorsi», scrisse alla sorella Anneliese dalla Russia.
La struttura dell’universo e le sue siurezze teologiche cominciarono a vacillare: cosa si doveva fare? Come bisognava comportarsi di
fronte a un’ondata di morte e terrore come quella che stavano vivendo? «Forse la cosa più difficile nella vita sarà», scrisse, «essere un cristiano. Non siamo mai cristiani, solo al momento della morte lo diventiamo in parte». Le sue riflessioni sono laconiche, quasi criptiche,
ma dense di un’angoscia inespressa. Vide donne, bambini e anziani
russi trascinati fuori dalle case dalle truppe tedesche; in un villaggio
rimasero solo un gatto e dei fiori. Lui se ne prese cura.
Caduto in depressione a causa di quelle esperienze, che condivideva solo con la sorella e il suo diario, Willi fu mandato in licenza a
Monaco, presso la Studentenkompanie della scuola Bergmann, e qui
incontrò Hans e Alex e, grazie a loro, Probst, che ammirerà in modo
particolare.
La vita a Monaco per Willi era più tollerabile. Prendeva lezioni di
scherma, leggeva, cantava in un coro e, cosa più importante, aveva
degli amici, non solo i vecchi compagni dell’Ordine grigio, ma anche
il gruppo nuovo e più vivace riunito intorno ad Hans e ad Alex. Restava, però, ossessionato da quanto aveva visto in Russia.
Il tormento non lo abbandonò mai e, allorché Hans e Alex, quando si unì al gruppo Sophie, cominciarono a parlare di cospirazione e
della diffusione di volantini clandestini, Willi non riusciva a prendere una decisione. Una parte di sé voleva distruggere il tiranno e il
male che aveva visto, ma un’altra gli parlava di illegalità, di gesti non
cristiani, mentre i suoi amici combattevano al fronte per le loro vite.
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Ci vollero settimane a Willi Graf per decidere. Quel periodo fu un
tormento: Willi era una persona fondamentalmente sola. Anche dopo l’adesione e l’ingresso nella clandestinità, anche dopo un altro periodo di servizio medico prestato in Russia, con Hans, Alex e altri
amici (per fortuna questa volta non era solo), anche quando si assunse i rischi maggiori, Willi non smise mai di dubitare.
Superare il confine del dubbio fu un gesto che Willi Graf fu costretto a compiere molte volte, e non fu mai facile.
Indice
7 Dedica
9 Ringraziamenti
13 Prefazione
17 Introduzione di Studs Terkel
19 STORIA DI SOPHIE SCHOLL E DELLA ROSA BIANCA
247 Appendici. I volantini della Rosa Bianca
303 Bibliografia