Seminario su “La costruzione della memoria”

Seminario su “La costruzione della memoria”
Pavia, 28-30 gennaio 2002
Intervento di Marita Rampazi
(bozza)
1.
Il disembedding: con la rottura del legame organico fra tempo, spazio, rapporti sociali, si evidenzia il problema
dell’appartenenza associata alla memoria “pubblica”
Oggi si parla molto di memoria e riflessività. Il bisogno di interrogarci su chi siamo, da dove veniamo, dove
andiamo, che senso ha quello che stiamo facendo, sembra permeare una quantità crescente di situazioni. Viviamo in una
società dominata dall’incertezza, che moltiplica le occasioni in cui i soggetti devono compiere e gestire le loro scelte in
ambiti nei quali non si può “dare il mondo per scontato”. Norme, significati, strumenti dell’agire individuale e collettivo
appaiono sempre più come oggetto di una negoziazione costantemente rinnovata, anziché come “quadri” di riferimento
stabili nel tempo, radicati nella memoria di individui e gruppi. Il presente, nel quale avviene la negoziazione, si dilata,
soffoca la proiezione nel passato e accorcia quella nel futuro.
Questo fenomeno si iscrive in un più generale processo di ridefinizione delle coordinate spazio-temporali
dell'esperienza, sul quale vale la pena di soffermarsi, seppur rapidamente, per valutare non solo i rischi, ma anche le
opportunità che esso offre.
Le novità nella definizione spazio-temporale dell’esperienza contemporanea sono essenzialmente due: lo
stiramento dei rapporti sociali nello spazio che, potenzialmente, si dilatano sino a livello planetario - l'elemento
centrale del disembedding messo a tema da Giddens- e l'enfatizzazione dell'istantaneità nel vissuto temporale. Questi
due fenomeni generano una frattura nel legame organico fra il tempo, i luoghi e i rapporti sociali che, in passato, hanno
favorito la formazione delle appartenenze, il consolidarsi di culture specifiche, sorrette da un progetto di durata e
definite a partire da precisi assetti territoriali.
La crisi delle istituzioni e dei soggetti politici tradizionali, con la contemporanea "perdita di credibilità dei grandi
racconti della ragione" (U. Fabietti e V. Matera, 1999), associata a questi mutamenti spazio-temporali, sembra mettere
in discussione la possibilità stessa di concepire l’esistenza di identità collettive produttrici di memoria e progettualità
storica.
Contemporaneamente, il crescente bisogno di riflessività prodotto dall’incertezza associata a questi mutamenti
contribuisce a svelare le ambiguità, i conflitti, le negoziazioni che, per definizione, sono connaturati ai processi della
memoria. Si tratta di caratteristiche spesso sottovalutate o “messe tra parentesi” nel passato, in nome di una pretesa
“naturalità” della memoria, soprattutto di quella cui usualmente si associano valori, norme, procedure del discorso
pubblico. Tale naturalità non è mai esistita e la memoria “pubblica” – quella che propone motivazioni, contenuti e
stimoli all’agire civico – è da sempre il prodotto di dinamiche di potere che si sviluppano fra diverse componenti della
società. Un prodotto che si si può anche nutrire di vere e proprie “invenzioni”, la cui demistificazione spesso è possibile
solo in fasi di grandi trasformazioni storico-sociali. Si tratta delle stesse trasformazioni che mettendo in crisi le identità
collettive produttrici di tale/i memoria/memorie, fanno riaffiorare alla coscienza della società quella che Namer
definisce la “memoria negativa”, su cui mi soffermerò più avanti.
Le difficoltà con cui oggi si scontra il bisogno di memoria per la sfera pubblica possono essere ricondotte
essenzialmente al venir meno di due pilastri sui quali si sono costruite le democrazie moderne.
Il primo pilastro è rappresentato dall’identità di classe, che ha generato la memoria delle forze politiche
protagoniste della politica del Novecento. Pensiamo, ad esempio, ai mutamenti che si sono sviluppati nel modo di
produrre a seguito della Rivoluzione scientifica e tecnologica ed alla sostanziale modificazione della base produttiva,
non più fondata su attività labour intensive, quindi, sull’esistenza di un’ampia base operaia, cuore e motore della
riproduzione materiale della società industriale. Inevitabilmente, ciò ha messo in discussione la tradizionale identità
operaia e le forze politico-sociali che essa ha prodotto. Ne parla Namer in un saggio recente su memoria e democrazia
(2001), facendo, fra l’altro, notare come il nostro orizzonte culturale associ tale identità ad una temporalità che oggi va
scomparendo: il “tempo lungo” del lavoro, della vita, della progettualità politica, tipico della società industriale. Nelle
società contemporanee, questa dimensione “lunga” del tempo non è più dominante. Al suo posto, si sta imponendo un
“tempo breve”, nel lavoro, come nella politica. In effetti, il primo è progressivamente caratterizzato da incertezza,
frammentazione, precarietà e la seconda si fonda sempre più sui sondaggi e sulla spettacolarizzazione televisiva. Questo
“tempo breve”, per Namer, contribuisce ad erodere la capacità progettuale e, insieme, narrativa delle forze del “tempo
lungo”, facendone sbiadire la fisionomia e la memoria stessa.
Il secondo pilastro riguarda senso di appartenenza nazionale, il cui affievolirsi mette in discussione il contesto
entro cui si è sviluppata la democrazia moderna: quello generato dall'identificazione esclusiva dello Stato con la nazione
(Habermas 1999). Con la globalizzazione, i processi stessi della vita quotidiana scavalcano continuamente le frontiere
nazionali, creando un contesto culturale plurale e ambiti dell'agire sottratti all'azione regolatrice dello Stato. Sotto la
spinta di questo processo, l'esclusività dell'appartenenza nazionale si rompe, la ricerca delle «radici» appare come un
vuoto esercizio retorico (Bettini 2001) e si generano due rischi contrastanti: da un lato, l'esplosione di integralismi e
micro-nazionalismi — forme esacerbate di chiusura identitaria —, dall'altro, lo spaesamento esistenziale e l'apatia
politica dovute ad un eccesso di individualismo.
I profondi mutamenti intervenuti nella base materiale della società, associandosi ai fenomeni di disembedding
prodotti dalla globalizzazione, mettono in discussione la sopravvivenza stessa del concetto di identità collettiva. O,
comunque, della forma che essa tuttora assume nel ricordo – talvolta mitizzato - della generazione adulta attuale.
Vediamo ora perché la destrutturazione della tradizionale dimensione collettiva dell'agire, a partire dalla
definizione dello spazio sociale e del tempo storico, si riflette in una analoga ridefinizione dell'esperienza individuale,
che rende più che mai attuale e problematico il tema della memoria.
2. Tempo e spazio nell’era della globalizzazione: nuovi limiti per l'esperienza
Con l’affievolirsi delle forme tradizionali di identificazione collettiva, la soggettività sembra conquistare un ruolo
via via preminente nella prassi sociale. Emerge, così, un tipo-ideale di soggetto, connotato dal fatto di non dover
sottostare al vincolo di identificazioni rigide, di essere capace di autoriflessività e di saper gestire livelli elevati di
autonomia. Si tratta di un soggetto per il quale il limite dell'esperienza potenziale, per certi versi, si estende, mentre, per
altri versi, si restringe, sia temporalmente che spazialmente, rispetto al passato.
-Temporalmente: il limite si estende, nella misura in cui si producono elementi di relativa reversibilità nei percorsi
esistenziali, aumentano enormemente le speranze medie di vita, si prolungano le fasi giovanile e adulta e si
allontana il momento della vecchiaia, psicologica, relazionale e biologica.
Le cose cambiano se consideriamo l'idea di durata, intesa come "il presente che dura, o la continuità
dell'esistenza" (E. Jaques, 1982). Se l'agire si declina essenzialmente in termini di istantaneità dell'atto e se
incomincia a prevalere nell'orizzonte culturale delle nostre società l’idea di una flessibilità spazio-temporale
spinta all’estremo (Sennett, 1999), si inceppa quel processo di "costruzione temporale dell'azione differita" che è
il motore della memoria (G. Bachelard, 1950/1980). Vediamo, così, restringersi l'orizzonte dell'agire e della
definizione biografica individuale. Ne è un indizio il fatto che, sempre più spesso, soprattutto guardando ai
giovani, si noti una tendenza a "ridurre l'esperienza ad un presente esteso" (M. Rampazi, 1991), a prospettarsi un
"futuro breve" (C. Leccardi, 1996), oltre alla difficoltà di confrontarsi con la memoria storica (IRSIFAR, 1998).
- Spazialmente: con l'interdipendenza crescente dei rapporti sociali a livello planetario, gli orizzonti materiali, culturali,
relazionali dell'esistenza si estendono al di là dei confini locali e nazionali, configurando incontri molteplici con
culture diverse, interlocutori nuovi, opportunità di sperimentare situazioni inedite.
Lo spazio dell'esperienza, però, si restringe, se si considera il modo episodico in cui esso, sempre più
frequentemente, viene vissuto. Non più come un sistema coerente che unisce idealmente il microcosmo in cui "si
sta" in un dato momento con ambiti spaziali ad esso collegati - nell'immaginario sociale - in modo strutturato e
concentrico. Si tratta dello stesso vissuto sul quale si è fondata l'idea di appartenenza nazionale, cui si è
accennato in precedenza. Ora, lo spazio si segmenta in isole significative, che si stagliano nel grande mare
dell'esperienza possibile. In esse si possono cercare anche approdi temporanei,da lasciare quando emerge il
richiamo di altre mete. Basti pensare a come si configura la vita quotidiana nelle grandi città, caratterizzate in
prevalenza da spazi da "attraversare", piuttosto che da vivere come luoghi - nel senso attribuito a questo termine
da Augé (1993): identitari, relazionali, storici - che sfumano gli uni negli altri senza soluzione di continuità.
Unica eccezione alla frammentazione/ perdita di identità spaziale è l'enfatizzazione della sfera del privato.
3. L'esperienza che si fa e l'esperienza che si ha: il ruolo della memoria
Il concetto di esperienza è sociologicamente - oltre che psicologicamente - rilevante, nella misura in cui evoca
l'idea di una ricaduta/rielaborazione/appropriazione, entro il vissuto individuale, dei motivi di cambiamento generati dal
contatto del singolo con l'ambiente fisico, economico, relazionale, istituzionale.
Va tuttavia notato (Jedlowski, 1989), che c'è una differenza tra il fare e l'avere esperienza, dalla quale non si può
prescindere quando si analizza il rapporto tra questo concetto e la memoria.
Fare esperienza - o, meglio, fare delle esperienze, come ricorre frequentemente nel linguaggio comune - significa
poter entrare in contatto con soggetti molteplici, vivere situazioni diversificate, avere, in sintesi, una pluralità di
occasioni di uscire dalla routine di relazioni e situazioni quotidiane.
Al contrario, avere esperienza, presuppone un certo grado di scontatezza derivante precisamente dall'esistenza
della routine come momento che segue e stabilizza una situazione di mutamento. La routine si associa ad un certo
grado di strutturazione della vita sociale. Per certi versi, essa è un vincolo perché annulla la creatività e libertà
individuali. Per altri, tuttavia, è una risorsa del quotidiano, in quanto consente quella sospensione del dubbio (A. Schutz,
1979) connesso alle scelte, indispensabile per dare all'esperienza il tempo di sedimentare. In questo senso, Jedlowski
osserva che l'esperienza si sostanzia in tre momenti: "la sedimentazione che origina dalla consuetudine, la profondità e
l'autocoscienza (o la capacità di raccontarsi)".
La memoria è il luogo in cui si sviluppano questi tre momenti. Essa, a) registra l'elemento di novità - un evento,
un'emozione, un'immagine, un incontro - che si produce, a un dato momento, nel vissuto del soggetto ; b) lo fa proprio o
lo respinge, nel senso che ne definisce, provvisoriamente, i contorni e la significatività ai fini della conferma o
rielaborazione dello stile di identità individuale; c) lo utilizza, eventualmente, per rimettere in prospettiva scelte,
comportamenti, giudizi; d) lo propone come parte della definizione di sé - che affonda nel passato, poggia sul presente e
si sostanzia in un'idea di divenire nel futuro - attraverso il racconto, vale a dire, come si vedrà più avanti, attraverso
l'esplicitazione dei motivi della propria durata ad un Altro, da cui ci si attendono conferme o smentite. Un processo
analogo riguarda le identità dei gruppi e la natura dinamica delle memoria collettive.
Oggi, come si è detto, il soggetto ha molte più opportunità che in passato di fare delle esperienze, tuttavia,
paradossalmente, sembra in difficoltà sul versante dell'avere esperienza. Il succedersi veloce dei cambiamenti e
l'eccesso di stimoli che ne consegue (Simmel, 1984, 1995) riducono il tempo dell'indugio e della riflessione. Non
potendo sedimentare, l'esperienza che si fa (istantanea, episodica) non può tradursi in esperienza che si ha (componente
durevole della coscienza di sé).
In questi processi si inserisce un ulteriore elemento, che va considerato, seppur sinteticamente: il fatto che,
secondo molti commentatori, lo sbiadire del concetto stesso di identità – e memoria – collettiva, sia accelerato dagli
effetti delle moderne tecnologie dell’informazione. In parte, questo è vero, in parte non lo è.
4. Tecnologie dell’informazione e dilatazione delle “memorie senza soggetto”
Le
straordinarie
opportunità
che
le
risorse
tecnologiche
contemporanee
offrono
alla
conservazione/produzione/accessibilità delle informazioni ed alla diffusione delle comunicazioni di massa, producono
una progressiva dilatazione di memorie “altre” rispetto a quella collettiva. In particolare, si espandono le opportunità di
accesso alla memoria sociale — che, come vedremo meglio più avanti, è l'insieme di tutte le tracce del passato di cui
esiste possibilità di conservazione — e si dilata la sfera della memoria comune, vale a dire, dell’insieme dei ricordi di
medesimi stimoli ai quali si è esposti, con altri, per il mero fatto di trovarsi a condividere un luogo, un dato momento
temporale (Jedlowski, 2001).
Si tratta di memorie “senza soggetto”, che non offrono referenti in termini di appartenenza/identificazione, né
criteri di rilevanza atti a guidare la dialettica ricordo/oblio sulla quale si reggono la capacità di scelta e l'orientamento
dell'agire.
Un eccesso di informazioni, soprattutto se filtrate dall'azione de-localizzante dei mass-media, rischia di indurre
effetti di “sterilizzazione emotiva” o di “irrilevanza cognitiva”. Analogamente, la dilatazione della memoria comune
televisiva comporta una sovraesposizione a stimoli indifferenziati, non necessariamente “selezionati e interpretati
collettivamente”. Ciò può generare il rischio di un appiattimento dei soggetti-spettatori su rappresentazioni della realtà
rispetto al cui significato non è data loro alcuna possibilità diretta di negoziazione o contraddittorio.
Tuttavia, tali effetti non sono l'unica, inevitabile, conseguenza che ci si può configurare. Non dobbiamo
sottovalutare il fatto che la maggiore accessibilità a una molteplicità di tracce, testimonianze di altre culture e memorie,
libera il soggetto dai vincoli di una condivisione esclusiva delle memorie dominanti nel suo specifico contesto
esistenziale. Si favoriscono, in tal modo, “contaminazioni” potenzialmente rigeneratrici per le memorie del discorso
pubblico in declino, sclerotizzate in ripetizioni rituali sempre meno significative, soprattutto agli occhi dei giovani. In
secondo luogo, lo sviluppo di più memorie comuni può essere una risorsa comunicativa e relazionale con una molteplicità
di soggetti, una base potenziale per la nascita di nuove identità collettive.
In proposito, vorrei precisare che, a mio avviso, il problema non consiste tanto nella scomparsa di qualsiasi
potenzialità – e bisogno – di memorie “dotate di un soggetto” collettivo, come sembrano presupporre coloro che
enfatizzano il ruolo del soggetto come centro autonomo della prassi sociale. La questione è piuttosto quella di pensare in
modo diverso il fenomeno dell’appartenenza e di prendere atto del fatto che le attuali inquietudini della memoria sono, in
parte, il prodotto di una fase di cambiamento e, in parte, l’esito di una salutare presa di coscienza del fatto che i processi
di costruzione della memoria sono, per definizione, complessi, mutevoli, ambigui, conflittuali, nella misura in cui la posta
in gioco è la validazione del presente, facendo ricorso a significati sedimentati nel passato. Lo si può constatare già
guardando al carattere costruito discorsivamente della narrazione di sé prodotta dai singoli.
5.
Memoria autobiografica e quadri sociali di riferimento: la narrazione come costruzione discorsiva
“Narrare” significa attivare un processo che si snoda attraverso percorsi complessi e non lineari, nei quali ricordo e
oblio si intrecciano in combinazioni mutevoli, sorrette da una ricerca di senso che lega indissolubilmente passato,
presente e futuro.
L’esito della narrazione è una storia, entro la quale si cristallizza una molteplicità di elementi – fattuali, relazionali,
identitari – estremamente complessa da analizzare, comprendere, interpretare.
Il racconto autobiografico, in particolare, poggia, prima di tutto, su un insieme di “ragioni”: quelle stesse che, nel
pensiero dei fondatori della sociologia della memoria, guidano la riflessione sul passato alla ricerca di fatti capaci di
condensare, e rendere immediatamente comunicabili, momenti emblematici per il significato che si vorrebbe ritrovare
nella propria vita, “momenti di essere” direbbe Virginia Woolf. In questo senso, la narrazione è anche ricerca di
riconoscimento, finalizzato alla costruzione negoziata dell'identità, entro una specifica situazione discorsiva.
Inoltre, le storie di vita abbracciano una prospettiva temporale a più dimensioni: muovono da una situazione
relazionale situata nel presente e ricostruiscono un divenire che ha sempre una componente prospettica, anche quando
assume forme apparentemente appiattite sul passato.
Da ultimo, il racconto è, insieme, un processo individuale e sociale: si dipana “assemblando” pezzi di “altre”
narrazioni, per proporre modelli di identità specifici, anche ricorrendo a schemi prefissati, che si suppongono condivisi
con l’interlocutore del momento; cercando congruenze e creando incongruenze tra pensieri, discorsi, azioni.
La molteplicità di elementi e piani del discorso che confluiscono nel racconto è stata efficacemente sintetizzata da
Alberto Melucci che, in un saggio pubblicato postumo (2001) elabora il concetto di “mappa” del narrare, articolata in
quattro modalità:
2.
raccontare a noi stessi, per ricostruire la nostra identità, attraverso la ricostruzione di un senso per la nostra azione;
3.
raccontare di noi stessi, al fine di ottenere un riconoscimento dall'Altro con cui si interagisce;
4.
raccontare agli altri, identificando degli interlocutori per i quali la nostra narrazione sia significativa;
5.
raccontare gli altri, costruendo un'immagine dei nostri interlocutori.
Tali modalità si intrecciano, trasmigrando l'una nell'altra, nel farsi del racconto e dando vita ad “un discorso, con
una storia, che, in realtà, è un insieme di discorsi, una storia di storie”.
Il rapporto discorso-realtà non è né trasparente né speculare, come dice Melucci, sottolineando “l’opaca distorsione
che ogni racconto porta con sé”. Al determinarsi di tale distorsione contribuiscono diversi fattori, riconducibili, in ultima
istanza, a due categorie di fenomeni: 1) le distanze e asimmetrie di potere esitenti fra i soggetti coinvolti nella relazione
tra narratore/osservato e interlocutore/osservatore; 2) il fatto che atti e persone, diventando oggetti del racconto, si
trasfigurano in miti, tipi, idee, i quali si costituiscono a partire da e, insieme, alimentano un ordine simbolico
potenzialmente condiviso/condivisibile.
Una complessità analoga si può riscontrare nella ricostruzione del senso delle identità collettive, attraverso la
negoziazione degli elementi di ricordo e oblio, a volte di pura invenzione, come si è detto, con cui se ne attualizza la
memoria. Questa negoziazione, comunque, assume connotati differenti secondo il diverso ruolo – di conferma o di
elaborazione – attribuito alla memoria stessa.
6. La memoria collettiva: tra conferma ed elaborazione
La memoria collettiva è una memoria “con un soggetto”: il gruppo che la elabora e sulla quale fonda le
giustificazioni della sua esistenza. Halbwachs ha messo in rilievo come, nella società, esistano più gruppi e più memorie,
alcune delle quali possono diventare dominanti in taluni momenti storici, marginali in altri, quando non addirittura
scomparire nel corso del tempo. La società sopravvive, e si trasforma, con un processo di continua
attualizzazione/rielaborazione delle memorie collettive, di cui si fanno portatori i gruppi che la compongono. Adottando
una specifica prospettiva di "lettura" del passato, questi gruppi ne traggono:
— il senso della loro identità;
— gli elementi di significato che guidano il loro adeguamento ai mutamenti proposti dal presente, nonché
— l'orientamento a proiettare tali significati nel futuro, attraverso un progetto — di natura sostanzialmente etica —
che consenta loro di definirsi in termini di durata.
Nella prospettiva di Halbwachs, la memoria collettiva, a differenza della Storia —su cui l’autore non si sofferma,
identificandola semplicemente come l’"oggetto del lavoro degli storici" — è intrecciata con la molteplicità
dell'esperienza, quindi, è attuale e multiforme, come la stessa vita sociale. Grazie ai gruppi, la memoria collettiva dura nel
tempo, anche se non rimane mai identica a se stessa. Ciò che permane, sono i dati di senso, mentre cambiano la
normatività e le articolazioni dei progetti che prolungano il passato nel futuro.
Una volta definitasi con la nascita ed il consolidamento dei gruppi che se ne fanno portatori, la memoria collettiva
opera come una memoria di conferma. Con questa espressione coniata da Namer (1994), ci si riferisce alla natura dei
processi di costruzione sociale della memoria attraverso l'avvicendarsi delle generazioni. L'accento si sposta così sulle
dinamiche relazionali insite nei processi di socializzazione.
Sottolineando il carattere interattivo della socializzazione/trasmissione, si vede come l'elemento centrale del
processo sia la negoziazione. La memoria di conferma non esclude momenti di conflittualità, Ma si tratta di una
conflittualità che non mette tanto in discussione la continuità, quanto il modo migliore di garantirla, nonostante i
mutamenti che si producono incessantemente nell'esperienza sociale. Il passato non è mai definito una volta per tutte, ma
viene riletto continuamente in una prospettiva di continuità nel cambiamento: continuità di identificazione con un
elemento essenziale, fondante, che si può rintracciare in un vissuto di eredità — di valori — comune; cambiamento nei
modi differenziati di porsi rispetto a questo passato, costruendo la propria identità nel presente.
La chiave di volta di questa "lettura" è il progetto, suscitatore di energie, volontà di azione e passioni. In senso
lato, il progetto è il punto di coagulo di un gruppo, quello in cui si annodano i legami di solidarietà, fra soggetti e
generazioni, rafforzati e perpetuati attraverso il riferimento a ragioni comuni proposte dalla memoria collettiva.
Ad un processo di costruzione sociale di memoria come conferma, Namer ne affianca un altro: quello connesso
alla memoria come elaborazione. Si tratta di una "memoria puntuale, di rottura del tempo storico". La rottura può
rappresentare la conseguenza di un evento traumatico (una catastrofe, una guerra, ecc.), o può coincidere con
l'affermazione di un progetto politico-sociale "forte" (una rivoluzione) punto di riferimento per nuove identità — e
memorie — collettive. In ogni caso, questa rottura si associa a un desiderio di memoria, un orientamento attivo, che
produce profonde modificazioni nei quadri sociali precedenti.
7. La memoria negativa o l’attualizzazione di contenuti rimossi della memoria sociale
Al di qua e al di là della memoria collettiva, come nota Namer (1991), c'è la memoria sociale, che racchiude anche
un passato non necessariamente attualizzato nel presente. Essa si configura come una sorta di inconscio sociale, in cui si
depositano tutti i motivi che hanno retto il processo di cui è intessuta quella che, per Braudel (1973), è la "lunga durata".
La memoria sociale costituisce il quadro delle ragioni che hanno fatto la Storia dell'umanità, con l'intreccio delle infinite
storie che essa contiene.
Questi contenuti, o, meglio, taluni di essi — dimenticati perché incompatibili con quelli dei gruppi che, via via, si
fanno portatori delle memorie collettive dominanti di tempo in tempo e di luogo in luogo — sono suscettibili di emergere
alla coscienza della società nei momenti in cui si profilano quei punti di rottura del tempo storico che ho appena indicato
come suscitatori di un desiderio di memoria come elaborazione. In questi casi, le memorie attualizzate dai gruppi che
hanno costituito l'ossatura degli assetti sociali precedenti, non definiscono più compiutamente l'esperienza nel presente. E,
tanto meno, consentono di preparare il nuovo che si dischiude all'orizzonte. Nella corrente di memoria sociale,
sedimentano altre ragioni, suscettibili di essere riattualizzate, rese coerenti con l'inedito presente, diventare oggetto di
ripensamento, di altre identità collettive, di battaglie, fra ed entro le generazioni.
Se, oggi, è veramente in atto una ridefinizione radicale delle coordinate spazio-temporali dell’esperienza, questo
significa che stiamo vivendo uno di questi momenti epocali di rottura del tempo storico. Si tratta di momenti nei quali la
produzione di “non contemporaneità” è ostacolata dal venir meno del quadro etico, normativo, spazio-temporale, offerto
dalle memorie collettive dominanti nell'orizzonte politico-sociale-culturale precedente. Sono momenti, dove, come
direbbe Namer (1993), può riaffiorare la memoria negativa: quella che è stata rimossa perché "scomoda", non coerente
con il progetto identitario dei gruppi dominanti sulla scena politico-sociale.
La memoria negativa racchiude i grandi progetti di civiltà rimasti incompiuti, i fallimenti, il tradimento dei valori
in nome dei quali si era orientato e giustificato l’agire. Nella riattualizzazione di alcuni di questi significati rimossi, può
trovare alimento un processo finalizzato alla ricostruzione di una memoria - come elaborazione - connessa alla
definizione di nuove forme di appartenenza e definizione identitaria.
A proposito di questa ultima osservzione, bisogna tenere presente che Giddens, pur mettendo l’accento sull’effetto
di sradicamento – o disembedding – prodotto dalla globalizzazione, non esclude affatto la possibilità che, ad esso, si
associno nuove modalità di radicamento – o re-embedding – con l’emergere di nuovi contesti in cui sia possibile
riannodare il legame spezzato fra tempo, spazio e rapporti sociali. Pensiamo, ad esempio, all’accresciuta enfatizzazione
della dimensione locale che sta affiancando l’altrettanto forte accentuazione di ciò che è globale, in una prospettiva,
definita da taluni “glocalizzante”. Qui si possono celare propensioni identitarie e volontà di memoria inedite, salutari per
l’agonizzante contesto del discorso pubblico.
In tale contesto, le appartenenze, comunque, non possono più essere concepite come esclusive (chiuse),
sostanzialmente ascritte, date una volta per tutte. Ormai, la crescente interdipendenza della vita sul pianeta comporta la
capacità di confrontarsi con la multiculturalità e di gestire una situazione di appartenenze plurime. Sono questi i
presupposti di ciò che Beck (1999) definisce le identità inclusive (aperte alla differenza portata dall’Altro) e, in buona
parte, oggetto di una scelta costantemente rinnovata.
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