10. PETER BROOK Trovare Shakespeare nel cinema1 Esistono due film shakespeariani che meritano una particolare attenzione, l’Amleto sovietico (1964) di Kozintsev e Trono di sangue (1957) di Kurosawa. Quest’ultimo è un grande capolavoro, forse l’unico autentico capolavoro ispirato a Shakespeare, ma che non si può propriamente considerare shakespeariano perché non utilizza il testo dell’opera teatrale. Kurosawa segue molto fedelmente la trama, ma poiché trasporta la vicenda nel medioevo giapponese e fa di Macbeth un Samurai, elabora in sostanza un’altra versione dei Sette Samurai. Per Kurosawa non è importante da dove sia tratto il soggetto; egli fa quello che ogni regista ha sempre fatto: costruisce il film partendo da un’idea e utilizzando un linguaggio appropriato. Così quello che potrebbe considerarsi il miglior film shakespeariano, non ci aiuta a risolvere il problema di come filmare Shakespeare. L’Amleto russo e stato criticato perché troppo accademico e in effetti lo è: tuttavia ha un enorme merito: tutto il lavoro registico è in relazione con la ricerca del significato del testo shakespeariano e la struttura del film non si può separare da questo significato. La forza del film sta proprio nella capacità di Kozintsev di realizzare la sua concezione con estrema chiarezza. Questo è il primo film shakespeariano che riflette questa forma di approccio registico: la ricerca di un significato globale in contrapposizione ai molteplici, svariati e spesso fuorvianti tentativi di catturare sullo schermo la visione che l’attoreinterprete ha del testo quanto a immagini, teatralità, passione, colore ed effetto. Amleto è un lavoro veramente solido: Kozintsev è cosciente dello spazio politico e sociale in cui si muove. Egli conosce il significato del metallo e del legno, della pietra e del fuoco; conosce in termini di contenuto il rapporto che esiste tra il bianco e il nero. Tra lo schermo pieno e lo schermo vuoto. Inoltre Kozintsev riesce a staccarsi dalla tradizione teatrale russa di stampo melodrammatico, sia utilizzando la traduzione di Pasternak, più fredda, concisa e realistica della versione del diciannovesimo secolo, sia evitando la recitazione teatrale convenzionale. Ma il suo limite è lo stile: quello romantico e certo affascinante del dopo Ejzenstejn, che tuttavia non è ancora lo stile adatto per Shakespeare, il quale non è mai epico, né barbarico, né pittoresco, né astratto, e nemmeno realistico nel significato usuale che noi diamo a questi aggettivi. Il teatro elisabettiano possedeva una tecnica molto complicata e nello stesso tempo meravigliosamente libera. L’uso della parola era molto sofisticato: il blank verse elisabettiano scivola dentro e fuori la prosa producendo dei testi che cambiano registro in continuazione. Se si potesse estrarre un’impressione mentale suscitata dalla strategia che Shakespeare utilizza per le immagini si dovrebbe realizzare una sorta di pop collage. L’effetto è simile a una parola le cui lettere sono state scritte attraverso tre immagini che si sovrappongono nella mente. Si vede l’attore in piedi in lontananza, ma se ne distingue anche il volto nei minimi particolari - il profilo forse e, insieme, la nuca - e, allo stesso tempo, l’ambiente che gli fa da sfondo. Quando Amleto recita uno dei suoi monologhi la situazione che Shakespeare evoca in un verso si dissolve in quello successivo e una nuova immagine si affaccia alla mente dello spettatore. Credo che la libertà del teatro elisabettiano sia tuttora solo parzialmente compresa, perché ci si è abituati a parlare per stereotipi di un palcoscenico privo di una localizzazione precisa. Non ci si rende pienamente conto che un palcoscenico privo di una precisa localizzazione implica che tutto è veramente possibile: non solo rapidi cambiamenti di ambiente, ma un personaggio può anche sdoppiarsi, cambiare 1 Intervista con Jeoffrey Reeves, da «Tulane Drama Review», vol.11, n.1 (T.33), Fall 1966, p. 117. Traduzione di Paola Frezza. sesso, vivere il suo passato, il suo presente, il suo futuro, essere la versione comica di se stesso e quella tragica, non essere nessuna di queste cose e tutte contemporaneamente. Il grande saggio di Kott sul suicidio di Gloucester evidenzia come il gesto di saltare da una rupe immaginaria acquista il suo completo valore solo se realizzato su un palcoscenico vuoto. Solo allora egli è un personaggio che sta facendo un salto che non significa niente, e nello stesso tempo è un attore che sta facendo un salto pieno di significato, ed entrambi contemporaneamente contengono tutte e due le implicazioni, sia quella concreta che quella immaginaria. Al cinema, per lo meno in tutti i film da Shakespeare che abbiamo visto, Gloucester è costretto a stare al centro di una ventosa brughiera che si può vedere e descrivere, mentre il cinquanta per cento della staordinarietà di questa scena consiste nel fatto che si svolge in una brughiera immaginaria, ai confini dell’inesistente. Il senso è dato dalla doppia natura dell’azione, al contrario se si isola un solo aspetto si perde tutto il significato della scena. Un salto su un palcoscenico vuoto può essere fatto da chiunque, un salto in una brughiera è altrettanto facile. Ma Lear, quando viene rappresentato a teatro, ci dà le due cose contemporaneamente. In questo modo è come se l’idea stessa colpisse lo spettatore nella sua pura forma. Dall’altro lato, nell’ Amleto di Kozintsev lo stesso stile usato dal regista diventa alla fine la sua prigione. Il film crea un mondo plausibile nel quale ogni azione può essere ragionevolmente spiegata. Ma il prezzo che noi paghiamo per questo mondo plausibile è che la complessità di cui prima ho parlato non viene rivelata né dimostrata. Il problema di filmare Shakespeare consiste nel cambiare sullo schermo registro, stile e convenzioni con la stessa leggerezza e agilità di quanto avviene nello schermo del pensiero grazie al processo mentale che il blank verse elisabettiano riesce a stimolare. La pesantezza del cinema deriva dal fatto che ciascun particolare all’interno di ogni singola immagine tende a una durevole consistenza. E noi una volta pensavamo al cinema come movimento! L’effetto che l’invenzione del suono ha avuto sul cinema in generale e su questo problema in particolare è curioso e cruciale. Il suono ha impedito al cinema di continuare il suo percorso. Si pensò all’inizio che il suono avrebbe privato la cinepresa della sua mobilità. E così è stato, ma solo per un breve periodo; poi i nuovi microfoni a gru hanno cominciato a muoversi e ad essere orientabili, e per anni tutti hanno ingenuamente pensato che il cinema fosse diventato di nuovo mobile. Ma la mobilità di pensiero, che il cinema muto aveva avuto, è stata riconquistata solo dalle tecniche che si sono sviluppate dopo Godard. Per quanto riguarda la sperimentazione (se non per i soggetti), Godard è uno tra i più grandi registi dei nostri giorni. Continuamente egli libera le immagini dalla loro stessa consistenza. Un momento lo spettatore guarda semplicemente la fotografia di due persone in un bar, un momento dopo si sente estraniato per metà, poi per tre quarti, poi si trova a guardare il film da regista, poi si ricorda che esso è stato realizzato da attori e subito dopo è di nuovo trascinato a credere ciecamente nella finzione. Tutto ciò ha qualcosa a che fare con lo straniamento teatrale e in modo più diretto con quel teatro libero-cinema libero che lo Shakespeare del periodo elisabettiano deve essere stato. Un uomo seduto ripreso oggettivamente da una cinepresa non costituisce di per sé nessuna realtà oggettiva. Noi ci siamo trovati per anni di fronte a questo cul de sac. Gradualmente ci stiamo rendendo conto che la fotografia non e obiettiva, non è realistica; la realtà del film esiste - nel momento della proiezione, nel momento in cui l’immagine è proiettata sullo schermo - se c’è uno spettatore che la guarda. L’interazione tra immagine e spettatore è l’unica realtà possibile al cinema. La realtà di sei settimane prima o di sei mesi prima - un uomo seduto in una stanza - non è più reale; non c’è alcuna “virtù” nel cosiddetto “naturalismo” del processo fotografico. Un’immagine sarebbe reale se fosse in grado di fornire la totalità delle informazioni, ma la semplice registrazione di un evento non può assolutamente realizzare una funzione così complessa. A questo proposito nello studio di Stratford ho realizzato un esperimento molto interessante. Ho fatto sedere un attore di fronte al gruppo dei suoi colleghi, gli ho domandato di pensare a una situazione complicata per lui e quindi di vivere, come attore, le emozioni interiori che questa situazione gli procurava. Poi gli altri del gruppo gli ponevano delle domande per scoprire che cosa stava succedendo. Ma lui non poteva rispondere. Naturalmente si creava una situazione assurda: si vedeva un uomo che aveva qualche travaglio interiore. Ma questo era tutto. Qualche volta, alla fine, egli rivelava la sua storia personale - per esempio che stava aspettando che la sua ragazza andasse dal dottore per sapere se era rimasta incinta, questo avrebbe significato decidere un aborto, trovare il denaro necessario, la possibilità che la moglie scoprisse la relazione e così via, ma, ovviamente niente di tutto questo era emerso durante l’esperimento. Questo esercizio mette in luce con chiarezza il fatto che quello che gli occhi guardano non ha di per sé nessun valore narrativo. L’attore stava immobile, senza mostrare alcuna espressione. Le interpretazioni variavano dall’ipotesi che l’interprete fosse in attesa nell’anticamera di un dentista a ogni genere di situazione tragica. La frustrazione cresceva poiché il gruppo non poteva raggiungere l’attore e viceversa il silenzio immobile di quest’ultimo non poteva raggiungere il gruppo, così si è potuto sperimentare come le apparenze esteriori non producono nessuna comunicazione. Questa considerazione ci induce ad analizzare due casi estremi: Antonioni e Godard, e a confrontare due modi di lavorare molto differenti tra loro. Antonioni accetta la solidità e la rigidità dell’immagine cinematografica e utilizza poi tutta una serie di accorgimenti nel tentativo di catturare l’invisibile. Al contrario Godard attacca la rigidità dell’immagine e prova a catturarne i molteplici aspetti. Entrambi rifiutano il concetto che l’inquadratura presa da sola o in sequenza temporale giunga a produrre significato e che l’inquadratura sia un’unità fondamentale completa e conchiusa in se stessa. La teoria classica del montaggio, che si fonda sulla convinzione che il regista componga delle unità che hanno in sé un certo grado di completezza – l’inquadratura come unità minima, come parola, come mattone - è falsa. Moderato cantabile è stato un mio personale esperimento per scoprire se era possibile fotografare una realtà invisibile, se era possibile, semplicemente fotografando le apparenze esteriori, andare oltre queste apparenze. Il mio proposito è ambizioso: a teatro e specialmente al cinema voglio catturare tutte le informazioni possibili. Questo mi fa sospettare della perfetta coerenza imposta da un unico stile, perché questo impedisce allo spettatore di scoprire qualcosa che potrebbe voler conoscere. Se abbiamo una storia che è solo una vicenda intima tra due persone, ci potrebbe essere qualcuno interessato all’aspetto sociale: se si tratta di un soggetto epico, è possibile che qualcuno voglia conoscere la vita interiore dei personaggi. È solo in Shakespeare che si riesce a trovare l’equilibrio di tutte le componenti: niente è sacrificato, niente è trascurato, e nonostante questo la coesione dell’opera non viene assolutamente danneggiata. Tutti gli elementi sono presenti al completo senza neutralizzarsi reciprocamente. Per rappresentare il suicidio di Gloucester in un film secondo me sarebbe necessario ricorrere allo straniamento. Lo straniamento fornisce infinite possibilità ed è questa l’unica strada che ci permette di riprodurre le infinite possibilità del blank verse. Le immagini evocate dai versi pongono constantemente persone e cose in una nuova prospettiva, e si ottiene lo stesso effetto utilizzando la tecnica dello straniamento. Il fotogramma fisso, la didascalia, il sottotitolo, ecc.. sono tutti esempi molto rozzi di straniamento applicato al film. Ma la complessità di un testo Shakespeariano pone il regista davanti a un problema di tutt’altra dimensione. I film di Godard potrebbero costituire lo spunto per la ricerca di un nuovo stile, ma questo stile non potrebbe mai tenere il confronto con le enormi risorse, la scala e lo spettro d’azione richiesti dall’opera di Shakespeare. Una tecnica con un grande potenziale per rappresentare Shakespeare al cinema è stata utilizzata nel documentario di Francis Thompson per la Johnson Wax al World’s Fair di New York. La gente faceva a pugni per venire a vedere questo piccolo studio sulla crescita di alcuni ragazzi in diverse parti del mondo. Il film usava brillantemente la vecchia tecnica dello schermo multiplo di Abel Gance e ne rivelava le straordinarie possibilità. Si tratta di tre schermi affiancati sui quali avvengono tre proiezioni simultanee. Questa tecnica richiede uno spazio grande come quello di uno schermo da Cinerama, ma mentre il Cinerama finge che si tratti di una sola grande immagine, simile a una vasta finestra affacciata sul mondo, la tecnica di Thompson è molto più brechtiana. La sottile striscia nera che separa gli schermi non fa mai dimenticare allo spettatore che sta guardando tre fotogrammi separati. Qualche volta gli schermi sono usati in modo unitario, come nel caso della grande sequenza del canottaggio realizzata su vasti scenari: le canoe passano velocemente e saltano le interruzioni tra uno schermo e l’altro. La situazione è simile a quella di uno spettatore che sta seduto dietro una colonna in un vecchio cinematografo. Ma quelle interruzioni ricordano costantemente che nel momento in cui il regista non vuole più utilizzare tutto lo spazio del Cinerama, ha la possibilità di frammentare l’immagine per ottenere un effetto completamente diverso. Ed è proprio questa la strategia di Thompson: un momento i tre schermi mostrano il flusso del traffico in America, un matrimonio in Italia, un paesaggio africano; un momento dopo la composizione cambia e lo schermo ci mostra un ragazzo africano mentre negli altri due siamo ancora a New York; la ripresa successiva mostra tre differenti vedute di un medesimo oggetto; quella ancora successiva, tre identici primi piani; poi uno schermo potrebbe conservare la stessa immagine, e gli altri evidenziare aspetti e angolature diversi, e così via. Qui la tecnica non è impiegata a fini estetici: l’opera di Thompson non richiede uno sforzo di immaginazione più grande di quello richiesto dai film normali, ma esso consente al suo pubblico di cambiare prospettiva passando da tre schermi che raccontano la stessa cosa, a tre schermi che raccontano tre cose diverse, come modalità connaturata al suo linguaggio, un linguaggio che potenzialmente è flessibile quanto il verso. Il grande vantaggio di questa strategia è la sua possibilità di rompere la consistenza interna di ogni inquadratura, aprendo una sfera di infinite possibili variazioni. Il regista potrebbe mostrare Amleto sugli spalti del castello di Elsinore utilizzando lo schermo di destra mentre sugli altri due verrebbero ripresi un bastione e il mare. Oppure, tornando a Gloucester, si potrebbe vedere la brughiera e poi, nel momento in cui inizia il soliloquio, eliminarla immediatamente e concentrare l’interesse dello spettatore su diverse inquadrature di Gloucester. Si potrebbe anche utilizzare uno schermo per una didascalia, o un verso o un sottotitolo. Nel mezzo di un’azione realistica a colori se ne potrebbe avere un’altra in bianco e nero e una terza con la didascalia. Si potrebbe inserire un dato statistico o un cartone animato che parodizzi l’azione fotografata. Questa tecnica cinematografica ha esattamente le stesse possibilità del palcoscenico brechtiano e di quello elisabettiano. Io credo che lo schermo multiplo offra una reale oppurtunità di innovazione e costituisca una via attraverso la quale sarebbe possibile rappresentare Shakespeare nel linguaggio del cinema. Ma questa è solo un’idea, economicamente molto difficile da realizzare. L’unica cosa che conta oggi è definire i termini del problema. L’immagine filmica di un attore su un palcoscenico vuoto è un’affermazione estetica ben più limitata e ristretta della semplice presenza di un attore su un palcoscenico vuoto. Ma in linea di principio il palcoscenico vuoto e lo schermo bianco hanno le stesse potenzialità espressive. Come può lo schermo liberarsi dalla sua rigida solidità, così da riflettere quella mobilità di pensiero che è necessaria per la rappresentazione cinematografica del blank verse? A proposito del Re Lear e del Marat-Sade2 Se permettete, cercherò di riflettere ad alta voce. In un certo senso la ragione per cui in questo momento sono molto preoccupato — e ho pochissimo tempo — è legata al vostro tema: contemporaneamente sto provando a teatro e lavorando al montaggio di un film. È molto interessante perché, me ne rendo conto, ho sempre lavorato in questa maniera, il mio lavoro è sempre stato a cavallo fra questi due generi di spettacolo. All’inizio avevo l’impressione che ci fosse un rapporto molto stretto fra il cinema e il teatro e che passare dall’uno all’altro fosse una cosa molto tonificante, molto arricchente. Era vero, resta vero. Ma attraverso questo lavoro vado scoprendo, sempre più chiaramente, che in fondo questi due generi non hanno assolutamente niente in comune. Apparentemente, in entrambi (naturalmente se escludiamo il cinema documentario) ci sono degli attori, qualcosa che è stato concepito, predisposto, preparato prima, che si esprime per immagini, attraverso l’azione di persone che hanno ricevuto una preparazione apposita, che esprimono la realtà attraverso una certa tecnica e un certo mestiere; c’è qualcuno che funge da “regista” e questo avviene in entrambe le arti. Ma in verità, profondamente, sono arrivato alla conclusione che la loro relazione sia dello stesso tipo di quella che si ritrova in un fenomeno assai curioso: la maggior parte dei medici, per una ragione che finora nessuno ha saputo spiegare, ama molto la musica. Ho conosciuto un ottimo medico che suonava il corno inglese, c’è un gran numero di medici che passano il loro tempo libero ascoltando Mozart e si vede che all’interno della stessa persona i due interessi coesistono. Ma allo stesso tempo non si può scoprire alcuna relazione reale fra medicina e musica. Forse esagero, ma mi pare che qualcosa del genere avvenga nel rapporto fra cinema e teatro. Filmare il teatro: credo che non esista un terzo genere che sarebbe il teatro filmato [...], così come non si può dire che il cinema destinato alla televisione sia realmente diverso dal cinema. Il cinema fatto alle condizioni della televisione è un cinema realizzato con minori possibilità del solito: si gira più in fretta, si dispone di un minor numero di inquadrature, ecc. Nello stesso modo il cinema fondato su dati teatrali è forse utile, per lo studio e la ricerca, ma non può possedere un reale valore, una vera esistenza indipendente. Io stesso ho filmato diverse volte degli spettacoli che avevo già messo in scena e si è trattato ogni volta di esperimenti molto diversi, che ho tentato per motivi molto diversi. Talvolta mi è capitato di fare un film dopo aver allestito lo spettacolo a teatro, cercando di ricrearne completamente il senso. Si trattava di approfittare di una conoscenza del soggetto acquisita durante il lavoro a teatro per cercare di ricrearla in modo diverso. [...] È in questa prospettiva che abbiamo fatto un film dal Re Lear sette o otto anni dopo aver allestito la pièce a teatro.3 Fare il film senza restare attaccati 2 L’intervento e la discussione che seguono sono tratti dal volume Filmer le théâtre, une table ronde internationale du CNRS dirigée par Denis Bablet (29 nov.-1° déc. 1977). Ivry-sur-Seine – CNRS – Cerdavv), «Cahiers Théâtre Louvain», n. 46, 1981, Louvain-la Neuve. La traduzione è di Paola Quarenghi. Il testo è stato parzialmente pubblicato nel volume Peter Brook, Il punto in movimento. 1946-1987, Ubulibri, Milano 1988, pp. 171-74, la cui traduzione è qui utilizzata con piccole modifiche. 3 Lo spettacolo è stato messo in scena a Stratford-on-Avon nel 1962, con Paul Scofield nel ruolo del titolo. Il film, con lo stesso protagonista, è del 1970. all’esperienza teatrale è stata una sfida molto interessante. Ed è stato interessante per me cercare di capire in che modo fosse possibile o impossibile portare Shakespeare sullo schermo. Il caso di Marat-Sade fu molto diverso. Peter Weiss ed io considerammo a lungo l’ipotesi di fare un film vero e proprio, ricominciando da zero;4 la nostra idea era che dovesse iniziare con alcuni parigini che, in preda alla noia e non sapendo come trascorrere la serata, decidono di andare al manicomio di Charenton a dare un’occhiata ai pazzi. Cominciammo a lavorare a una sceneggiatura molto elaborata ed estrosa, ma poi ci rendemmo conto che quello che stavamo inventando con tanto entusiasmo avrebbe richiesto costi tanto elevati che sarebbe stato impossibile realizzare il film. Un giorno David Picker, direttore della United Artists, offrì a Michael Birkett, un produttore inglese dotato di grande inventiva, e a me un finanziamento molto modesto di duecentocinquantamila dollari per fare il film del Marat-Sade, lasciandoci piena libertà di farlo come meglio volevamo, purché terminassimo la lavorazione entro la data stabilita. Dopo un rapido calcolo ci rendemmo conto che questo significava fare il film in quindici giorni. Era una sfida stimolante, ma era chiaro che dovevamo concepire il film in un modo del tutto diverso e attenerci quanto più possibile alla versione teatrale che era stata già provata ed era pronta. Nello stesso tempo cercavo di individuare un linguaggio che fosse proprio del cinema, che evitasse la noia mortale del teatro filmato e cogliesse in un modo del tutto autonomo quel tipo di atmosfera eccitante e coinvolgente dello spettacolo. È stata un’esperienza molto rivelatrice, molto eccitante per chi l’ha vissuta. Credo che a quelli che hanno visto il film senza vedere lo spettacolo una gran parte dell’esperienza teatrale sia stata comunicata. Ma tutti quelli che hanno viso lo spettacolo in scena e ne hanno ricavato un’impressione molto forte, tutti, senza eccezione, credo, hanno trovato che il film non era all’altezza dello spettacolo. C’erano la stessa scenografia, gli stessi attori, lo stesso regista, la stessa conoscenza del soggetto da parte di tutti. Durante le riprese ho analizzato inquadratura per inquadratura, procedendo a piccoli cambiamenti, modificando l’asse in modo che l’azione fosse più raccolta, più adatta alla macchina da presa. Le riprese dello spettacolo furono fatte come se si trattasse di un incontro di boxe, cioè con tre o quattro cineprese che lavoravano senza interruzione, divorando chilometri di pellicola. Le macchine avanzavano e indietreggiavano, giravano e rigiravano quasi facendosi interpreti dei movimenti del pensiero di un presunto spettatore, simulando l’esperienza che questi avrebbe fatto seguendo i frammenti dei pensieri contraddittori dei pazzi e incassando i pugni sullo stomaco che Peter Weiss dava con tutto ciò che aveva messo nel “suo” manicomio. Penso, dopotutto, di essere riuscito a dare una visione molto soggettiva dell’azione; soltanto più tardi mi resi conto che è proprio nella soggettività la differenza reale tra un film e uno spettacolo teatrale. Quando avevo curato la regia del dramma di Weiss in teatro, non avevo fatto il benché minimo tentativo di imporre il mio punto di vista sul testo; al contrario, avevo cercato di fare in modo che ci fossero più punti prospettici possibile. Di conseguenza gli spettatori erano sempre liberi, in ogni scena e in ogni momento, di concentrare la propria attenzione sugli aspetti che li interessavano di più. Certo, come spettatoreregista avevo anch’io le mie preferenze; nel film infatti feci ciò che un regista 4 La messa in scena del Marat-Sade di Peter Weiss (Aldwich Theatre, Royal Shakespeare Company) è del 1964, il film del 1967. cinematografico non può evitare di fare e cioè far vedere quello che vedono i suoi occhi. In apparenza sembra non esserci alcuna differenza fra la realizzazione cinematografica e ciò che si vede a teatro. Ma in realtà ho verificato ancora una volta fino a che punto una illusione soggettiva è un impoverimento, cosa che è confermata dall’impressione di tutti quelli che hanno potuto confrontare le due esperienze, spettacolo teatrale e film. Il film era la stessa cosa, ma vista attraverso gli occhi di qualcun altro. A teatro l’immagine era più completa perché nella sala mille persone vedevano ad un tempo la stessa cosa e insieme qualcosa di diverso, qualcosa che rappresentava e costituiva la partecipazione attiva di ciascuno. Sia nel cinema sia nel teatro, il pubblico riceve, più o meno passivamente, impulsi e suggestioni. Questo è un aspetto fondamentale nel cinema, perché il potere dell’immagine è così forte che assorbe del tutto lo spettatore. Egli può riflettere su quello che sta vedendo o subito prima che l’impressione si sia formata dentro di lui o subito dopo, mai nello stesso momento. Quando l’immagine è lì, in tutta la sua forza, nell’attimo preciso in cui viene percepita, non si può né pensare, né sentire, né immaginare altro. In teatro si è seduti a una distanza fissa dall’azione, ma tale distanza cambia di continuo: basta che una persona sulla scena ci convinca a credere in lei e la distanza si riduce, perché in quel momento si vive l’esperienza di entrare in contatto con quella qualità della recitazione nota come “presenza”, che è in grado di far nascere una sorta di intimità. Poi vi è il movimento contrario: quando la distanza aumenta, qualcosa si allenta, si distende, ci si ritrova un po’ più lontani. Una relazione teatrale autentica è simile al rapporto umano tra due persone: il grado di coinvolgimento cambia continuamente. Ma è molto raro che questa distanza sia abolita, come avviene col primo piano cinematografico. Per questa ragione il teatro ci permette di vivere qualcosa in modo molto intenso e al tempo stesso di salvaguardare una certa libertà. Questa doppia illusione è il fondamento stesso dell’esperienza teatrale e della stessa forma drammatica. Il fatto è che se sono abbastanza convincente, con un solo gesto, facendo così (Peter Brook punta due dita della mano destra verso Denis Bablet [a imitare la minaccia di una pistola]) posso creare qui davanti a voi una doppia immagine. L’immagine di qualcuno con un maglione arancione che fa questo, e contemporaneamente l’intenzione che sono pronto a mettere nel gesto e che voi siete pronti a ricevere, a percepire attraverso il mio gesto. L’immagine evocata dall’intenzione è alla base del gioco infantile. Io minaccio Denis. Se egli sorride, il suo sorriso è la prova che in quello stesso momento lui ha visto una doppia immagine, ha visto due dita e la pistola e tutto il contesto individuale e sociale, potremmo quasi dire politico e psicologico. La persona che sta laggiù nella sala ci scatta una foto e vediamo fino a che punto una foto, che dovrebbe essere un documento, sia invece un falso documento. Perché tutti gli aspetti che ho appena evocato, se non c’è una descrizione del contesto, non sono rappresentati. La fotografia non rappresenta la realtà, ma un piccolissimo aspetto della realtà, il suo aspetto puramente visivo. Una cinepresa che, cominciando da qui, mostrasse i due movimenti, darebbe una parte un po’ più grande di questa informazione. Ma questa immagine creata dalla cinepresa sonora non offrirebbe comunque una informazione completa, offrirebbe un’informazione molto parziale, perché sarebbe sottolineato in modo eccessivo il primo grado, con un’immagine che, per la sua forza invadente, darebbe a chi la vede minori possibilità di chi vede la realtà qui nella sala, di completare l’informazione percependo la faccia nascosta del gesto. Per questo sono sempre stato affascinato da certi vecchi film di teatro, per esempio i film sui grandi attori del passato (le brevi sequenze che abbiamo visto su Sarah Bernhardt). Mi ha colpito vedere come la macchina da presa sia incapace di produrre ciò che dovremmo essere in grado di produrre, cioè dei documenti. Documento significa codice, maniera di tradurre in cifre esattamente ciò che è avvenuto. Se oggi guardiamo un pezzo di pellicola che mostra Sarah Bernhardt, l’impressione che ne ricaviamo è comica. [...] Nel momento in cui venivano effettuate le riprese, non credo che i cineasti ridessero di nascosto, al contrario: erano impressionati e commossi. Eppure il pattern è lo stesso, la pellicola è proprio quella che è passata dietro gli obiettivi nel momento in cui Sarah Bernhardt si muoveva davanti alla macchina da presa. Dunque il documento passa da un’epoca all’altra. E questo documento [...] non solo è incompleto, ma è molto falso perché non è in grado di comunicarci la totalità di quel che è successo, non ci presenta che una realtà parziale, ci trasmette solo l’aspetto esteriore di Sarah Bernhardt senza permetterci di comprendere come i suoi gesti venivano ricevuti. [...] Il problema è sempre lo stesso. Nel Marat-Sade l’azione sul palcoscenico evocava per tutto il tempo immagini complementari che integravano nella mente dello spettatore ciò che egli vedeva: c’era l’immagine dei pazzi che recitavano e che imitavano scene della Rivoluzione; le illustravano in modo parziale, ma ciò che facevano era abbastanza suggestivo e quindi il pubblico con l’immaginazione poteva completare il quadro. Abbiamo cercato di ottenere questo effetto anche nella versione cinematografica e credo che in certe scene ci siamo riusciti. Per esempio, Charlotte Corday bussa alla porta di Marat. In scena avevamo risolto nella maniera più semplice e più teatrale: un attore tendeva un braccio — che diventava il simbolo di una porta — lei bussava, un altro faceva il rumore del toc toc sulla porta e un altro ancora imitava il rumore della porta che si apriva. Era puro teatro. Durante le riprese decisi di provare se sarebbe stato possibile consentire allo spettatore questa doppia visione pur nella spietata letteralità della fotografia. Questo era il tipo di problemi che veniva fuori a ogni piè sospinto mentre giravamo. Problemi analoghi ci si presentarono nel caso del Re Lear. La pregnanza di un dramma shakespeariano sulla scena è dovuta al fatto che l’azione avviene in luoghi imprecisati. Un’opera di Shakespeare non ha una sua ambientazione; ogni tentativo, sia esso più o meno sostenuto da ragioni estetiche o politiche, di situarla in una precisa cornice è un’imposizione che rischia di sminuirlo. I suoi drammi possono cantare, vivere e respirare soltanto in uno spazio vuoto. Uno spazio vuoto consente allo spettatore di evocare nella sua fantasia un mondo molto complesso, ricco di tutti gli elementi del mondo reale, in cui coesistono e interagiscono rapporti di ogni tipo: sociali, politici, metafisici, individuali. Un mondo che viene creato e ricreato a ogni istante un tocco dopo l’altro, un tema dopo l’altro, un’interazione dopo l’altra fra i personaggi, così da far svelare a poco a poco il dramma. In qualsiasi opera di Shakespeare è essenziale che l’immaginazione dello spettatore, come quella dell’attore, sia in uno stato che gli permetta di spaziare in libertà, perché deve muoversi in un labirinto assai complesso; il valore dello spazio scenico vuoto, quindi, assume una grande importanza perché permetterà allo spettatore di avere, ogni due o tre secondi, l’occasione di liberare il campo della sua mente dalle tante impressioni che riceve; in questo modo gli si darà l’opportunità di perderle proprio perché possa meglio conservarne il sapore. È un principio del tutto analogo a quello su cui si fonda la televisione. In essa l’immagine e la continuità dell’immagine sono del tutto inseparabili dal principio elettronico del ritorno costante, punto dopo punto, allo schermo neutro. Se lo schermo potesse trattenere per un certo tempo la stessa immagine, dopo un sessantesimo di secondo non si vedrebbe più nulla; esattamente la stessa cosa avviene al cinema. Al cinema la visione è possibile perché ogni immagine dopo un venticinquesimo di secondo viene cancellata e si torna allo schermo bianco per poter vedere una nuova immagine. E questo è proprio quello che accade a teatro. Messo a confronto con un palcoscenico del tutto neutro, lo spettatore riceve nel tempo di un secondo, un impulso che gli consente di situare l’immagine: per esempio, ode la parola “foresta” nel Sogno di una notte di mezza estate ed è sufficiente: essa evoca l’intera scena e questo processo di evocazione deve restare presente e attivo nei minuti che seguono. Suscitata da una frase soltanto, l’immagine è percepita subito in tutta la sua globalità; in seguito si sposta dal primo livello della mente, da cui è stata captata, a un altro e rimane con discrezione in sottofondo, come un ricordo che ha il ruolo di guida nella comprensione di tutta la scena; poi può essere quasi del tutto obliterata fino al momento in cui, duecento battute più tardi, occorrerà far riemergere l’immagine della foresta. Nell’intervallo fra questi due momenti l’immagine è scomparsa, liberando lo spazio mentale in cui impressioni di tipo diverso possono emergere, suscitate, per esempio, da acute osservazioni dei pensieri e dei sentimenti nascosti sotto la superficie del dramma. Nel cinema, il processo è del tutto diverso. Vi è un problema costante contro cui si deve sempre lottare: l’eccessivo potere intrusivo dell’immagine, i cui dettagli rimangono nel campo visivo per un tempo molto superiore al necessario. Se una scena di dieci minuti si svolge in una foresta, non riusciamo mai a eliminare gli alberi. È chiaro che vi sono delle tecniche equivalenti a quelle del teatro: il montaggio, l’uso di lenti che mettono in risalto il primo piano e lasciano il resto fuori fuoco, ma non è affatto la stessa cosa. La realtà dell’immagine è la forza del film ma è anche il suo limite. Nel caso di un film tratto da un’opera shakespeariana vi è un ulteriore problema: bisogna stabilire un legame fra due ritmi diversi. In Shakespeare il ritmo è dato dalle parole del dramma; ha inizio con la prima battuta e continua fino all’ultima e ha bisogno di essere variato e sostenuto in continuazione. È un ritmo del tutto diverso da quello dato dal flusso e riflusso delle immagini su cui si basa il cinema. Far coincidere questi due ritmi è difficile, anzi, direi quasi impossibile — e dico quasi impossibile perché vi sono dei momenti di grazia in cui, in modo fugace, si riesce a sfiorare l’ideale. Volevo solo tentare di impostare questi problemi, per come li vedo. Altri, senza dubbio, cercheranno di penetrare in questa strano territorio in cui cinema e teatro si incontrano. Discussione O. Aslan. Sul piano vocale, come recitano gli attori nel film in rapporto a quanto facevano nella rappresentazione teatrale? P. Brook. Meno forte. O. Aslan. Solamente, oppure c’è un lavoro di trasposizione? P. Brook. Molto poco. Gli attori avevano recitato a teatro dopo un lungo periodo di prove. Nelle prove si comincia recitando molto piano e poi arriva il momento in cui si deve raggiungere la forza necessaria per far arrivare la voce al pubblico. Quando si filma o anche quando si fanno delle riprese brevi per la televisione, è un esercizio molto difficile per l’attore, perché l’attore sente che c’è qualcosa di inautentico che a teatro non si percepisce a causa della distanza. Poiché con la macchina da presa la distanza è ridotta, egli è obbligato a tornare a un impulso interiore più adatto, che si ottiene sempre riducendo il livello. Per questo dico: recita meno forte. Ben inteso, non si può immediatamente prendere un altro tono per la macchina da presa o recitare con un naturalismo che non ha niente a che vedere col soggetto. Ma la recitazione è più contenuta, così come lo spazio. L’impianto è diverso. Non si può vedere in dettaglio come queste differenze influiscano sulla messa in scena, ma in realtà ogni cosa è disposta in modo diverso. In un momento avete un’immagine, il ragazzo con la maglia gialla che fa un annuncio, qualche commento, entra immediatamente nell’inquadratura, mentre in realtà si trovava dall’altra parte della scena. Perché si guarda soltanto da quella parte, e hop, arriva una voce e gli spettatori voltano la testa. Al cinema si dimentica completamente l’impatto perché immediatamente ci si relaziona con i primi piani. Al cinema, continuamente, inquadratura dopo inquadratura, si opera un cambiamento che consente di ridurre lo spazio, perché tutto rientri in quel piccolo quadro. O. Aslan. In effetti alcuni piani sonori sono stati modificati, ma gli attori hanno comunque conservato una recitazione molto forte. È una cosa che mi ha colpito in questa registrazione: i piani sonori restano molto marcati e il suono non è affatto appiattito come talvolta accade nei film. P. Brook. Fare tutto questo in quindici giorni di riprese è stata una vera sfida. Altro aspetto tecnico: si è fatto tutto con un solo tipo di illuminazione, sfidando qualunque principio e norma dell’illuminazione per la macchina da presa. Ho trovato un operatore che ha accettato di illuminare in modo da dare l’impressione di luci diverse, senza che in realtà ci fosse alcun cambio di illuminazione, e ho trovato un fonico disposto a fare un lavoro di mixage direttamente sul posto. C’erano infatti dei microfoni dappertutto, ma nessun missaggio alla maniera tradizionale del cinema, in cui tutto si fa mesi e mesi dopo. È stato un problema per il produttore che avrebbe voluto delle versioni in altre lingue, ma non si è potuto fare, perché tutto è stato registrato contemporaneamente: le canzoni, i diversi piani dei dialoghi, i rumori di fondo, gli effetti sonori. È per questa ragion che si ha un risultato molto più vivo di quello che si avrebbe se si fosse proceduto secondo la maniera abituale del cinema. O. Veillon. Nel suo intervento Peter Brook ha parlato del lato nascosto del gesto esattamente come si parlerebbe del lato nascosto di un segno. Trovo questo molto interessante. Si ha l’impressione che, nelle sue spiegazioni e nel suo lavoro per il Marat-Sade, egli abbia fissato in un primo tempo solo la traccia significante del fenomeno teatrale, la sua manifestazione più immediata, e che in seguito il lavoro di montaggio, il lavoro propriamente cinematografico sia consistito nel restituire un significato globale analogo a quello dello spettacolo teatrale, come se ci fosse una specie di scarto — questo termine è stato usato anche da Peter Brook [...] — fra la manifestazione significante dello spettacolo teatrale e il risultato significato, che è in definitiva prodotto dal film. [...] Vorrei dunque domandare a Peter Brook in che modo renda sul piano cinematografico quel che c’è di nascosto nel gesto, poiché ha detto che c’è sempre un lato nascosto del gesto in ciò che viene filmato. P. Brook. Sì, il problema è proprio come colmare questo scarto: nei due film si vede questo problema e forse in certi momenti sono più vicino a risolverlo che in altri. Quel che mi colpisce rivedendo questo estratto dopo quindici anni [...] è che perché fosse vivo, la struttura era fondata su un montaggio nel quale nessuna inquadratura era casuale: si era cercato di inserire in ogni immagine il massimo di elementi, e di far venir fuori il significato dalla composizione delle immagini. Ma per me è chiarissimo, riguardando il film, che ci sono sempre queste due facce – quando si dice gesto, non so se si dice bene, ma chiamiamolo gesto per ora –, c’è il gesto che si vede e, dietro, qualche cosa che si può chiamare la sua faccia nascosta. Lo stesso avviene per un suono, per una smorfia, per un gioco. [...] Durante le prove, si lavora su una scena fra due persone perché ci sia un inizio, un passaggio, un’evoluzione. Queste lunghe linee in cui la scena si sviluppa sono ciò che dà allo spettatore l’impressione di partecipare a qualcosa di vivo. L’effetto di presenza che si ha a teatro, certo è legato in maniera mistica alla presenza fisica dell’attore, ma di più, molto di più, a questa partecipazione a qualcosa che si sviluppa nel tempo, non soltanto a uno svolgimento secondo per secondo (il fascino della televisione, nei rari momenti in cui è sopportabile, è legato a questo). [...] Col Marat-Sade mi trovo di fronte a questo problema: perché quelli che l’hanno visto a teatro, pur riconoscendo nel film quello che avevano visto sulla scena, hanno preferito il teatro dicendo: «Manca qualcosa»? Ciò che manca, per me è molto chiaro, è la lunga vita che collegava le piccole linee. [...] Essendo obbligato a prevedere un montaggio, ho reso la vita in maniera cinematografica, ma ho perduto quel qualcosa che avveniva in scena, dove si vedeva allo stesso tempo l’uomo col coltello, tutti i personaggi, dei movimenti e questo finale che si preparava, come una pulsione che sfociava in un momento di parossismo in cui si rompeva tutto. Questo momento era incredibilmente forte per noi, sul set. L’abbiamo girato l’ultimo giorno, alle nove di sera, dovevamo terminare alle sei. L’ultimo giorno, non avevamo finito e allora abbiamo pranzato, portato parecchie cose da bere in scena e tutti erano pronti a continuare fino a mezzanotte. Alle nove di sera ho detto: «Facciamo quest’ultima scena». Abbiamo preso tutti delle macchine da presa, io ne ho presa una, gli assistenti, tutti ne avevano una, e ho detto agli attori che avevano recitato in questo spettacolo per due o tre anni – e che recitavano per l’ultima volta – : «Questa volta fate quel che avete sempre avuto voglia di fare, rompete tutto, date fuoco». È tutto vero, per due ore è stato un happening per tutti noi: abbiamo ricominciato, è stato una specie di delirio collettivo. Alla fine, il set era incredibile, pieno di cose che bruciavano, con alcuni pompieri attoniti che si aggiravano. Nel film (a teatro era diverso), volevo un’impressione di movimento. Un gran movimento animava il set durante le riprese, ma neanche in questo modo sono riuscito a renderlo [...]. D. Bablet. Vorrei fare una precisazione, o piuttosto esprimere un’opinione. Peter ha insistito molto sull’impulso (ha usato questo termine a più riprese nella prima parte del suo intervento) e io credo che si tratti di un elemento molto importante, un elemento che spiega certe divisioni nel campo dell’analisi teatrale, certi insuccessi in alcuni procedimenti, e che spiega anche le difficoltà che si incontrano nel filmare il teatro. Un’analisi che fa riferimento ai segni (significante-significato) è un’analisi terribilmente riduttiva del fenomeno teatrale e le analisi semiologiche attuali lo provano; si riferiscono solo alla superficie delle cose, escludono il vissuto teatrale che invece si basa sugli impulsi, e sono proprio questi impulsi i più difficili da far passare quando si filma il teatro, sia che il film sia un’opera cinematografica propriamente detta, sia che si tratti di un documento di teatro destinato alla ricerca. P. Brook. Ricevo continuamente articoli o proposte che sono scritti con questa terminologia e devo dire che, dal punto di vista artigianale, è quasi impossibile servirsi di analisi così schematiche. Non c’è relazione, non si possono riconoscere questioni che si fondano esclusivamente su separazioni rigide e teoriche. Esse non hanno alcun riflesso su quel che avviene nella realtà. M. Koleva. [...] Nel suo teatro, la parte sonora, le parole del dialogo scambiate dagli attori, giocano un ruolo molto importante. Quando dico la parte sonora, parlo delle sfumature, di tutta quella musica sonora che è lo spettacolo. Al cinema, quando vedo il Marat-Sade, per esempio l’happening finale, non corrisponde a quel che si sarebbe potuto trovare a teatro. Per lo meno io non lo trovo. P. Brook. È esattamente di questo che si parlava stamattina. Per esempio, nel Re Lear ciò che lei vede è una ricerca attorno a questo problema. Se si recitano le scene che abbiamo appena visto nel contesto realistico del cinema, lo si può fare solo alla condizione di eliminare tutto il testo. La ragione per cui il Macbeth di Kurosawa è molto più forte per me di tutti gli altri film da Shakespeare è che non ne ha conservato nemmeno una battuta. Lavorando in giapponese, ha potuto fare un dialogo che corrispondesse al ritmo necessario: il ritmo di base era il ritmo delle immagini. Ma quello che lei dice è assolutamente vero. Tutti i problemi iniziano nel momento in cui si ha un soggetto con due ritmi. Quando ho cominciato il lavoro per il Re Lear, a un certo punto avevo deciso di farlo senza il testo, mi rendevo conto che si sarebbe potuto fare un film molto più giusto, più vero, più forte se si fosse potuti partire dal tema, dagli elementi. Abbiamo anche lavorato tre mesi con Ted Hugues cercando di costruire dei dialoghi molto condensati, di concentrare una frase di Shakespeare in tre parole, di prendere, per esempio, la scena in cui parla con Cordelia quando è fermo accanto alla nave: si era cercato di trovare ciò che era giusto, ciò che rientrava in un ritmo cinematografico giusto, ma dopo tre mesi siamo stati costretti ad abbandonare questo lavoro, impossibile per degli inglesi: un giapponese potrebbe farlo e forse anche un francese, perché non sarebbero obbligati ad ammettere che il testo di Shakespeare in inglese è una tale meraviglia che è ridicolo cercare di adattarlo. Ted Hugues, che è un grande poeta, che ha la più grande ammirazione, il più grande rispetto per Shakespeare, cercava di trovare una frase molto spoglia e poi ci siamo vergognati. Quel che lui trovava, e che era molto bello, era comunque ridicolo a confronto di ciò che stavamo scartando. Allora siamo stati obbligati a rinunciare e a metterci di fronte a un problema che è, sono d’accordo con lei, quasi insolubile. Tutto questo lavoro, questo sottrarre gli elementi decorativi, questo passaggio da un’inquadratura molto ravvicinata a una molto larga, girata in un luogo in cui gli accessori, i costumi, i dettagli che entrano nel campo sono ridotti al minimo, è in questa direzione che abbiamo cercato di trovare delle soluzioni che permettessero ai due movimenti, quello dell’immagine e quello sonoro, di coesistere. Io credo che talvolta si trovi una coesistenza possibile, altre volte no. In teoria, se si ha abbastanza materiale, se l’immagine si rinnova abbastanza, si può, con un montaggio perfetto, arrivare a questi due ritmi, ma non sono sicuro che questo possa avvenire con un dramma di Shakespeare, che contiene dei momenti in cui cose di capitale importanza sono espresse con troppe parole per permettere al ritmo naturale dell’immagine di svilupparsi. [...] D. Bablet. Nei due estratti di film che abbiamo visto, Peter Brook ha cercato in tutti i modi di evadere dalla scena ma questo non impedisce che da un lato ci sia il MaratSade che è filmato a partire dalle realtà sceniche e dal gioco scenico, mentre il King Lear non è affatto la trasposizione cinematografica o la riproduzione cinematografica di un Re Lear messo in scena. È un film a sé stante, che utilizza come “sceneggiatura” fra virgolette — in realtà la cosa è più complessa — lo stesso Shakespeare, cioè non c’è alcun lavoro che parta dalla recita degli attori sulla scena. Odette Aslan ha detto che si resta colpiti dalla scomparsa della scenografia, o per così dire dalla riduzione di tutti gli elementi decorativi e lei ha detto invece che noi avevamo tutti i riferimenti in testa. Noi pensiamo al suo King Lear sulla scena del Théâtre des Nations. La mia impressione è molto diversa. Mi sembra che il film del King Lear abbia fatto ricorso in modo molto maggiore, direi enorme, alla scenografia, attraverso i paesaggi, le cavalcate, i passaggi da un castello all’altro, quei castelli di cui, personalmente, mi dispiace un po’ il carattere fittizio, molto accentuato, che Wakhevitch ha dato loro. Ho l’impressione che il lavoro di spoliazione avvenga piano piano. Alla fine, nella sequenza che abbiamo visto, è totale, ma prima no. Si effettua solo a poco a poco. Nel film, l’apporto molto consistente dell’elemento scenografico, che siano gli esterni dei castelli, le pianure, le lande, o che siano gli interni, con le grandi lampade pesanti, le costruzioni, ecc..., è qualcosa che mi ha disturbato, che mi è parso falso, in contraddizione con l’interpretazione degli attori e con l’interpretazione generale, con la messa in scena nel suo insieme. E sono stato anche disturbato da una scena (forse perché non sono abbastanza sensibile ai mezzi del cinema), una scena fondamentale: la scena della tempesta che, se mi ricordo bene, nella versione teatrale era una specie di percorso a zig-zag su un palcoscenico completamente nudo con solo una specie di lamiera che vibrava al di sopra della scena. Nel film, al contrario, si ricorre a un sacco di effetti di pioggia, di figure che scompaiono, di ombre, ecc. Non è che volessi risentire la stessa cosa del teatro al cinema; ovviamente volevo qualcosa di cinematografico e non di teatrale. Ma la scena non ha avuto su di me lo stesso effetto. Diciamo che certi mezzi cinematografici, le scenografie che avrebbero potuto essere diverse da come erano, mi hanno disturbato invece di supportare l’azione. P. Brook. La capisco molto bene perché cerco di tornare, come dieci anni fa, al punto di partenza. Una delle possibilità sarebbe stata quella di girare il film all’interno di scenografie teatrali, come uno spettacolo di teatro. È la soluzione che ha adottato Bergman col Flauto magico e credo che forse sia la sola soluzione se non si vuole allo stesso tempo cambiare il testo. D’altra parte si tratta di una pièce molto lunga. Prima di tutto mi sono domandato cosa sarebbe successo se avessi preso un set e ci avessi messo dentro tutti gli oggetti. Avevo anche una proposta per fare Il sogno di una notte di mezza estate e in quel caso ero assolutamente deciso a fare in questo modo: mettere in un set gli elementi che avevo sulla scena, cioè quelli teatrali e artificiali e, in questo caso, la scena della tempesta sarebbe stata fatta nello stesso modo. Ma mi sono reso conto che così facendo, non avrei avuto lo stesso risultato, perché, per le ragioni di cui abbiamo appena parlato, a teatro si è liberi, si vedono le cose senza dare loro troppa importanza. Con le immagini cinematografiche l’immaginazione non funziona nella stessa maniera. Poi mi sono detto: visivamente è troppo noioso, non si può fare in questo modo. E poi, il gioco appassionante in questa pièce, come in tutto Shakespeare, si basa su un naturalismo di transizione. È sempre così a teatro: si cerca continuamente di passare da una cosa che non è collocata da nessuna parte a un contesto molto quotidiano. Nel Re Lear per esempio, avviene questo: c’è un Re Lear col quale siamo in una relazione epica e poi tutto si umanizza nella seconda scena, quando rientra dalla caccia, domanda da mangiare, e si arriva a qualcosa che deve essere molto concreto e molto quotidiano. È per questo che mi sembra molto interessante creare un mondo molto realistico e poi lasciarlo cadere a poco a poco. [...] A teatro, ben inteso, si può farlo così, in un batter d’occhio. Fin dall’inizio, la prima scena può essere completamente spoglia da ogni apparenza quotidiana, e un secondo dopo si può evocare il quotidiano e poi lasciarlo cadere, diversamente da quel accade al cinema. Ma io credo che in realtà, quando si cerca di collocare questa pièce nella natura, ci si scontra col problema che è dietro tutte le riduzioni cinematografiche da Shakespeare che ho visto [...]: o si elimina una gran parte del testo e non è più il caso perché non è possibile sostituirne le immagini, oppure lo si conserva e il ritmo è troppo lento, diventa pesante. La sola eccezione è il film giapponese che ha avuto la possibilità di raccontare la stessa storia, con alcune immagini parallele, gli stessi personaggi, senza restare prigioniero della forma imposta dal testo. Personalmente questa esperienza mi ha convinto che non si può veramente uscire da questo problema se si conserva il testo integrale. [...] Keresztessy. Una domanda tecnica. Vorrei sapere quanto tempo è stato dedicato al découpage o al predécoupage, per esempio per Marat-Sade e in che modo la cosa è avvenuta, prima di tutto da parte dell’operatore (scelta degli obiettivi, ecc.), poiché nell’estratto che abbiamo visto, c’è un’inquadratura che utilizza un grandangolo molto speciale, che non è comune, e che non è stato utilizzato per il resto della sequenza che abbiamo visto. [...] Seconda questione: la lunghezza delle sequenze, dei piani sequenza. Era previsto l’uso di diverse macchine da presa, come si fa spesso in televisione, oppure c’era una macchina principale e altre che giravano attorno come si gira attorno a un avvenimento di attualità? Vorrei anche chiederle quale è stata la presenza degli attori durante le riprese del Marat-Sade: sono stati presenti per tutto il tempo? Oppure hanno seguito il découpage come nel cinema tradizionale, con una pianificazione delle presenze? P. Brook. Nel caso del Marat-Sade non c’è stato alcun découpage. La preparazione è stata del tutto diversa. Ho lavorato con un operatore col quale ho un’ottima relazione umana, che aveva visto con me diverse volte lo spettacolo, e col quale ho parlato a lungo, lavorato, discusso degli obiettivi, ma mai di découpage. Una domanda essenziale, prettamente tecnica e pratica: avrebbe accettato di realizzare un’illuminazione unica e, a partire da quel momento, non modificare mai il diaframma, non tirare mai fuori il fotometro, non spostare mai i riflettori? Normalmente, anche gli operatori che lavorano in fretta al cinema, a un certo punto fanno delle correzioni per ottenere un buon risultato, e io volevo invece che si lavorasse esattamente come per una trasmissione televisiva, in cui non cambia niente, ma tutto questo con i mezzi del cinema. L’operatore ha accettato, ha lavorato diversi giorni per fare un’illuminazione permanente, poi abbiamo fatto delle prove. Io non ero del tutto felice del risultato perché aveva preso una strada molto facile, quella più sicura. Aveva messo la stessa luce dappertutto; non c’era niente d’interessante, di vivo, perché non rischiava. Abbiamo discusso a lungo su questo, lui ha rifatto un’illuminazione in cui prendeva dei rischi, in cui rifiutava di decidere in anticipo da dove si sarebbe effettuata la ripresa, bisognava che tutto fosse come nella natura, come all’aperto, che qualunque posto andasse bene, a qualunque altezza, cosa che ci avrebbe permesso di servirci dei diversi obiettivi come di una gamma che avevamo sempre fra le dita. [...] Il primo giorno delle riprese, il direttore della fotografia, cioè colui che al cinema è responsabile soprattutto delle luci, non aveva niente da fare. Ma era previsto, e questo gli ha permesso di prendere una seconda macchina da presa, e abbiamo girato in un modo molto particolare e molto interessante. [...] Tutto era improvvisato sul posto, si faceva il découpage man mano che l’azione procedeva. Si facevano sequenze lunghe, si passava immediatamente a dividere in piccole sequenze, ci ponevamo domande sugli obiettivi e ci rispondevamo, era una cosa del tutto empirica che veniva decisa in base all’impressione che si voleva cogliere al momento, e tutto questo avveniva molto rapidamente. Gli attori erano sempre presenti e le riprese non si sono fermate un secondo, si svolgevano assolutamente senza posa, continuamente. [...] Siamo arrivati al montaggio con una gran quantità di materiale. Circa il quaranta per cento apparentemente era girato in modo casuale, ma non era frutto veramente del caso. Le due camere avevano cercato di cogliere un tipo di materiale che fosse conforme alla stessa intenzione di fondo. È capitato molto raramente, come in quest’ultima sequenza, di lavorare con tre macchine, in uno spirito abbastanza lontano da quello televisivo. In televisione è molto diverso, si cerca di stabilire dei legami diretti fra un punto centrale e gli operatori, i quali però non sono mai impegnati in questo modo nella preparazione. Raramente hanno la libertà di fare delle proposte. [...] Ho constatato che i rapporti umani sono più importanti di quelli elettronici: quando si lavora con più camere, in televisione, per esempio con quattro, si vede spesso che se un solo regista cerca di collegarsi a quattro punti di vista, ciascuno di essi è diluito. È un vero problema. Molto spesso si può lavorare in modo più rapido, più intenso, in relazione con una sola persona, pur assumendo la responsabilità di spostare molto rapidamente tutta la troupe se si vogliono trovare altri punti di vista, piuttosto che se si utilizza la struttura apparentemente molto pratica e logica della televisione: una persona in mezzo che cerca di collegarsi a diverse altre. In questo caso la relazione è molto più evanescente, meno personale, e, credo, meno intensa, l’inquadratura diventa meno coinvolgente. O. Veillon. Lei ha introdotto un elemento molto importante parlando di queste due camere che durante le riprese hanno punti di vista indipendenti, i quali permettono di produrre un materiale filmato che è possibile montare in seguito avendo degli elementi che interagiscono insieme secondo due punti di vista che non sono determinati dalla stessa concezione. E questo permette di costruire e dialettizzare una interpretazione dello spettacolo teatrale, di andare un po’ più avanti e di uscire dalla falsa contrapposizione punto di vista soggettivo / punto di vista oggettivo [...] P. Brook. Avevo già provato qualcosa del genere, in un lavoro che non ha niente a che fare col teatro, nel film Il signore delle mosche, nel quale abbiamo lavorato sempre in questo modo. C’era una seconda camera, che però non era seconda gerarchicamente, perché colui che ci stava dietro era un grande amico, un collaboratore che aveva partecipato a tutta la preparazione. È stato un film duro, a tutti i livelli (finanziamento, preparazione, ecc.). Al momento delle riprese l’operatore era completamente libero, il suo materiale rappresentava un altro punto di vista, e allo stesso tempo questo punto di vista non era gratuito perché lui perseguiva lo stesso scopo. L. De Guyencourt. [...] Volevo chiedere qualcosa a Peter Brook a proposito di queste due camere. Quando dice che non c’era gerarchia fra queste due camere, cosa succede sul piano della simultaneità? Le due macchine riprendevano contemporaneamente, quindi una delle due doveva avere la priorità sull’altra riguardo a ciò che sceglievano. Una delle due doveva per forza fare attenzione, evitare di dare disturbo all’altra, doveva avere quindi la priorità dello sguardo, anche se l’altra non era semplicemente un accessorio della prima o il suo complemento. P. Brook. Certamente. Le due macchine non si trovavano in una relazione identica. Per le riprese c’era la macchina principale che era quella del regista-operatore, la nostra, che riprendeva le grandi sequenze, le grandi carrellate e i grandi movimenti durante i quali si girava a volte tutto attorno all’azione perché era la macchina che raccontava, che aveva la responsabilità di raccontare la storia. L’altra macchina aveva tutte le libertà, salvo quella di entrare nel campo della prima. Questo è evidente. Ma in realtà tutto questo è teorico, perché nel lavoro sul set, se un operatore è veloce e scattante, ci sono mille modi di lavorare, e a volte capitava che mi domandasse : «Non potrei mettermi là? Vorrei riprendere questo o quest’altro». Certamente, è così che si lavora. Certo è indispensabile che ci sia rispetto reciproco fra le due macchine. L. De Guyencourt. In pratica questo richiede un utilizzo enorme di pellicola? P. Brook. Sì. È un principio al quale tengo molto. Al cinema ho sempre visto questo lavorando in film con pochi mezzi, con piccoli budget, ma talvolta anche con grandi budget. Nello spirito di tutti coloro che sono responsabili della produzione, ogni spreco è permesso tranne lo spreco di pellicola. È insensato. [...] Al cinema si deve accettare la pellicola, pur sapendo che quando si arriverà al montaggio questo rappresenterà un problema. Trovo sorprendente quel che fa Jancso che riesce a girare dei film nei quali, alla fine, il montaggio dura dieci minuti. Ma non credo che sia una tecnica che tutti possono usare. [...]