LA CONTRORIVOLUZIONE MONETARISTA Il monetarismo ha rappresentato una scuola di pensiero radicalmente opposta, sia nei postulati di base sia nelle conclusioni di politica economica, alla New Economics. In effetti queste due scuole di pensiero contemporanee si sono a lungo contese la supremazia ideologica e politica. Il monetarismo deve il proprio nome al fatto di porsi in antitesi al presupposto fiscalismo attribuito ai primi neokeynesiani e all’enfasi posta sull’importanza fondamentale della moneta nel sistema economico. La scuola di pensiero monetarista si identifica sostanzialmente con la posizione teorica del suo leader, Milton Friedman. Nell’attacco mosso dai monetaristi alle tesi della New Economics vengono generalmente distinte due fasi: la prima ha per oggetto lo studio delle proprietà della AD ed è collocabile nell’intervallo temporale compreso tra la metà degli anni ’50 e la fine degli anni ’60; la seconda ha per oggetto lo studio delle caratteristiche della AS ed è collocabile tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80. PRIMA FASE Nella prima fase della critica monetarista, l’oggetto del dibattito con i neokeynesiani riguardava essenzialmente forma e caratteristiche della AD (e quindi il modello IS-LM), nonché le proprietà dinamiche del sistema macroeconomico. 1. Esistenza e stabilità dell’equilibrio. Il punto di partenza della teoria monetarista è riconducibile alla riformulazione della Teoria quantitativa della moneta, utilizzata da Friedman per ribaltare le prescrizioni di politica economica dei neokeynesiani, con i quali pur condivide l’utilizzo dello schema IS-LM. Le critiche di Friedman sono rivolte principalmente alla Teoria Generale ad alle sue interpretazioni da parte di Hicks, Hansen e Modigliani. In particolare, Friedman sostiene che le conclusioni di Keynes sulla possibile esistenza teorica di un equilibrio di sottoccupazione sono logicamente erronee. Se i prezzi sono perfettamente flessibili non può persistere un equilibrio di sottoccupazione: shock della AD possono provocare temporanei allontanamenti da Y*, ma i meccanismi automatici riequilibratori evidenziati dalla teoria neoclassica sono in grado di eliminare occasionali squilibri. Tali meccanismi non solo esistono, ma sono anche potenti e rapidi. Con riferimento alla figura 1, qualora ci si trovi in un temporaneo equilibrio keynesiano in cui Y<Y*, secondo le tesi monetariste sul mercato del lavoro i salari e quindi i prezzi si riducono: la 1 domanda aggregata aumenta per i meccanismi di seguito esposti, per cui le imprese sono indotte ad aumentare la produzione e quindi il reddito; si assisterà dunque ad una diminuzione cumulativa di P e W fino al raggiungimento di Y*. Gli effetti provocati da una variazione negativa nei prezzi sono duplici: da una parte aumenta l’offerta reale di moneta, per cui, come mostrato in fig. 1, la LM si sposta verso destra (il cosiddetto “effetto Keynes”: il tasso di interesse cala e quindi gli investimenti crescono); dall’altra aumentano i saldi di cassa reali, e quindi la ricchezza, per cui la IS si sposta verso destra (all’aumentare della ricchezza crescono i consumi e quindi la domanda aggregata; l’effetto ricchezza sui consumi è in generale denominato “effetto Pigou”; quando ci si limita, come per Friedman, a considerare il particolare effetto ricchezza legato all’incremento dell’offerta reale di moneta, si parla di “real balance effect”). Fig. 1. Pieno impiego e Real Balance Effect IS’ i IS LM LM’ Y* Y L’operare del real balance effect (reb) elimina il rischio di incorrere in una eventuale trappola della liquidità, situazione in cui la LM risulta essere completamente piatta, come mostra la fig. 2. Secondo Modigliani, in effetti, l’esistenza di una trappola della liquidità avrebbe impedito al sistema di libero mercato di ritornare automaticamente alla piena occupazione. La considerazione del reb, invece, fa sì che, in seguito alla 2 deflazione, la IS continuerà a spostarsi verso destra fino al raggiungimento del pieno impiego. Dall’analisi macroeconomica risulta pertanto che non esistono difetti fondamentali nel sistema di libero mercato, tali da generare una disoccupazione persistente come risultato naturale del funzionamento del sistema, almeno in una situazione in cui prezzi e salari sono pienamente flessibili. Tale conclusione si presenta in perfetto accordo con il postulato analitico fondamentale della scuola monetarista secondo cui la teoria dell’equilibrio economico generale di Walras descrive correttamente la natura dell’equilibrio di lungo periodo di un’economia di libero mercato: ogni modello macroeconomico è un sottoinsieme del più completo modello di equilibrio generale e non può mai essere in contraddizione con esso. Vengono aprioristicamente accettate come vere le due proprietà dell’analisi di equilibrio generale: ESISTENZA E STABILITA’. Non soltanto nel sistema di libero mercato esiste una mano invisibile in grado di conciliare le decisioni decentralizzate dei singoli agenti, ma la stessa mano invisibile è continuamente al lavoro per assicurare un risultato di mercato coerente e ottimale. Fig. 2. Trappola della liquidità e real balance effect IS’ i IS’’ IS LM Y* Y 2. Ruolo della moneta. Secondo Friedman la moneta ha caratteristiche proprie ed è una delle tante possibili attività nelle quali i risparmiatori possono detenere la loro ricchezza; essa quindi non è uno stretto sostituto 3 solamente delle attività finanziarie, ma è sostituto di qualsiasi attività finanziaria o reale: gli individui decidono contemporaneamente come allocare il proprio reddito tra consumo e risparmio e come investire la propria ricchezza. Questa posizione si pone in netto contrasto con quanto sostenuto da Keynes sul ruolo della moneta come scudo contro l’incertezza: gli individui prima deciderebbero quanto consumare e quanto risparmiare e poi sceglierebbero come allocare il risparmio tra moneta e titoli. Le assunzioni monetariste circa le proprietà della moneta conducono ad ipotizzare una bassa elasticità della scheda di domanda di liquidità ( Ld ) e, conseguentemente, ad un LM piuttosto rigida. Inoltre, sebbene non vi siano indicazioni precise al riguardo, vi è motivo di ritenere che la IS sia più piatta di quanto ipotizzato dai keynesiani, in quanto si ritiene che gli investimenti siano sensibili al tasso di interesse: una piccola riduzione del tasso di interesse condurrà ad un ampio aumento degli investimenti, a motivo del fatto che le imprese sostituiscono lavoro con capitale. Si ha così riprova della principale assunzione monetarista sull’efficienza di un sistema di libero mercato: gli stimoli di prezzo sono efficaci perché la domanda di ogni bene è elastica al suo prezzo. Inoltre, con riferimento al consumo, e a differenza dei keynesiani, per i quali tale componente della domanda aggregata dipende dal reddito corrente, secondo i monetaristi il consumo dipende dal reddito permanente, costituito dal valore attuale, al tasso di interesse corrente, di tutti i flussi di reddito previsti in n futuro. Avremo dunque C = C0 +cYp , dove Yp = e Yt+k k k=0 (1+i) . Data la definizione del reddito permanente, il tasso di interesse finisce per influenzare anche le decisioni di consumo. In definitiva, quindi, secondo l’analisi monetarista, l’inclinazione relativa delle curve IS-LM risulta rovesciata rispetto alle originarie indicazioni neokeynesiane (fiscalismo). Ciò conduce a rilevanti conseguenze di politica economica. Eventuali fluttuazioni reali (spostamenti della IS) hanno scarsi effetti sul reddito a causa della rigidità della LM, la quale determina movimenti del tasso di interesse compensativi rispetto al disturbo iniziale, come illustrato dalla figura 3. Ciò conduce anzitutto al rafforzamento della convinzione del fatto che il settore privato possieda al proprio interno elementi di stabilizzazione automatici che rendono inutile l’intervento dello Stato. Risulta inoltre compromessa l’efficacia della politica fiscale, strumento anticongiunturale favorito dai fiscalisti keynesiani. In effetti come mostra ancora la fig. 3, il crowding out connesso all’uso della politica fiscale è pressoché completo. In realtà si verificano due distinti fenomeni di spiazzamento: 4 l’aumento della spesa pubblica produce infatti un aumento del tasso di interesse che da una parte genera una caduta dell’investimento, e dall’altra determina una riduzione della ricchezza finanziaria e quindi dei consumi. Fig. 3. Equilibrio IS-LM e crowding out i LM IS’ IS ∆Y Y Eventuali fluttuazioni monetarie (spostamenti della LM) hanno notevoli effetti sul reddito e sull’occupazione; tuttavia è importante isolare correttamente le possibili fonti dell’instabilità finanziaria. In effetti, a priori, shock monetari possono originare o da una variazione della domanda di liquidità oppure da una variazione dell’offerta di moneta. I due casi vanno analizzati ed affrontati separatamente. 1) Secondo Friedman gli shock alla domanda di moneta sono inesistenti o irrilevanti, contrariamente alla tesi di Keynes secondo cui la Ld sarebbe altamente instabile a causa della volatilità della aspettative e, quindi, della preferenza per la liquidità. L’asserita stabilità della Ld viene intesa dai monetaristi in due significati, distinti, ma complementari: 1) si nega che si possano verificare cambiamenti nelle aspettative tali da condurre a fluttuazioni rilevanti della funzione Ld ; 2) pur considerando un limitato numero di variabili, la Ld è ipotizzata stabile. In particolare, partendo dalla formulazione generale della domanda di moneta (in cui per 5 semplicità si assume una elasticità unitaria rispetto al reddito nominale (pY), abbiamo: Ld k(i, P, R, u, ω)pY dove le nuove variabili introdotte hanno il seguente significato: u= preferenze degli agenti, ω = rapporto tra capitale umano e capitale non umano. I monetaristi asseriscono che la Ld è una funzione stabile, sia nella formulazione generale sopra riportata, sia anche qualora si consideri una serie più ristretta di variabili indipendenti, riconducibili di fatto a i ed R, ovvero nella formulazione ristretta Ld = k(i,R)pY . Se scostamenti di k dal suo valore medio sono piccoli e casuali, lo stesso può dirsi per la velocità di circolazione della moneta, essendo V=1/k. Poiché in equilibrio Ld = M, si ha anche M=(1/V)pY, ovvero MV=pY: una velocità di circolazione della moneta stabile implica un relazione stabile tra M e pY. 2) Esclusa la possibilità che il comportamento autonomo del settore privato (fluttuazioni della Ld ) possa essere causa di instabilità finanziaria, la conclusione che se ne deriva è che l’unica vera fonte di instabilità di un sistema economico deve essere fatta risalire al comportamento dell’offerta di moneta. Le variazioni di M s operate dalle autorità monetarie hanno effetti rilevanti su Y non solo a causa della pendenza relativa delle curve IS-LM, ma anche a causa della natura più ampia del meccanismo di trasmissione degli impulsi monetari, per cui bisogna considerare gli effetti di una variazione dell’offerta di moneta sulla spesa non solo tramite il tasso di interesse (effetto Keynes), ma anche attraverso i consumi (real balance effect). In pratica, una variazione dell’offerta di moneta determina un contemporaneo spostamento della LM e della IS. Poiché la politica monetaria risulta particolarmente efficace nell’influenzare il reddito, se ne potrebbe trarre l’implicazione che le autorità di governo dovrebbero utilizzare la politica monetaria, invece della politica fiscale, per operare il fine tuning dell’economia, suggerito dall’approccio neokeynesiano alle politiche di stabilizzazione. Friedman nega tuttavia questa possibilità. Anzitutto, il sistema di mercato possiede meccanismi riequilibratori automatici forti e potenti che operano rapidamente in direzione stabilizzante. Inoltre il funzionamento effettivo del sistema non è noto con certezza nel breve periodo. Infine esistono ritardi di conoscenza e di operazione della politica monetaria, lunghi e variabili, che impediscono di fatto una sua concreta e corretta utilizzazione per scopi di controllo delle fluttuazioni della AD. Il fine tuning ipotizzato dai keynesiani richiederebbe un bagaglio di conoscenze da parte della 6 autorità più ampio di quello esistente. Diventa allora del tutto verosimile che una politica monetaria disegnata in funzione anticiclica finisca per agire ex post in maniera prociclica, cominciando a operare nella fase in cui il sistema ha già reagito autonomamente agli shock esogeni (vedi fig. 4) e si sta riportando rapidamente all’equilibrio naturale. Friedman conclude pertanto che la causa primaria dell’instabilità deve essere ricercata nel comportamento del settore pubblico rispetto alla creazione di moneta. In definitiva, a differenza di quanto sostenuto dai neokeynesiani, per i quali “l’economia di libero mercato ha bisogno di essere stabilizzata, può essere stabilizzata e quindi deve esserlo”, per i monetaristi “non c’è necessità di stabilizzare l’economia, non è possibile farlo e quindi non si deve farlo”, perché con l’uso delle politiche di stabilizzazione sarebbe più probabile aumentare invece di diminuire l’instabilità. Il suggerimento migliore per la gestione della politica monetaria è dunque quello di sottrarre il controllo dell’offerta di moneta alla Banca Centrale e attenersi alla regola del k%, ovvero alla regola secondo la quale la quantità di moneta deve crescere annualmente ad un tasso percentuale k, pari alla somma della crescita del reddito potenziale più un tasso di inflazione ottimale (empiricamente prossimo a zero). Fig. 4. Il ruolo prociclico della politica monetaria Y Dinamica del sistema in presenza di intervento Y* Dinamica del sistema in assenza di intervento t In seguito alle tesi di Friedman sorse un ampio dibattito sul comportamento ottimale delle autorità di governo nei confronti della politica 7 economica, focalizzato intorno al tema dell’opportunità di adottare regole precise o di seguire criteri di discrezionalità. In particolare, secondo Friedman, la stabilità del sistema privato, l’ignoranza del funzionamento effettivo del sistema da parte delle autorità, l’esistenza di ritardi di operazione della politica economica ed anche la possibile incompetenza o il condizionamento politico dei policy maker suggerivano l’opportunità che la politica economica obbedisse a regole fisse, come quella del k%. Per i keynesiani, invece, l’instabilità del settore privato, la competenza degli economisti e la conoscenza del funzionamento del sistema e della struttura dei ritardi deducibile dai modelli econometrici inducevano a ritenere possibile un fine tuning dell’economia, ottenibile con comportamenti discrezionali. Come già accennato, la critica di Friedman alle tesi dei neokeynesiani diede origine ad un ampio e acceso dibattito teorico ed empirico. In particolare due temi furono oggetto di approfondite analisi econometriche: 1) la stabilità relativa del moltiplicatore keynesiano e di quello monetario, ovvero della velocità di circolazione della moneta; 2) l’elasticità di Ld rispetto ad i. Nonostante il notevole numero di contributi, la verifica empirica non fu in grado di dare una risposta univoca alle questioni oggetto di dibattito. I risultati empirici sembravano comunque escludere la validità delle ipotesi estreme (non era stabile né il moltiplicatore keynesiano, né quello monetario, e l’elasticità della Ld era intermedia). L’unico risultato concreto del dibattito fu quindi quello di non attribuire supporto empirico alle posizioni più estreme. In effetti, verso la metà degli anni ’60 il dibattito sfociò in una specie di compromesso caratterizzato dall’accettazione, da parte di entrambe le scuole, di un “modello di consenso” in cui le curve IS-LM hanno una inclinazione intermedia e tanto l’offerta di moneta quanto la spesa pubblica costituiscono strumenti di politica economica utilizzabili dalle autorità. Tale modello di consenso IS-LM (che rappresenta il lato della AD) veniva eventualmente integrato da una curva di Phillips (lato della AS) per indicare come shock di vario tipo influenzavano la AD e la AS. Rimanevano tuttavia tra le due scuole divergenze di carattere prevalentemente empirico riguardanti: i valori effettivi di alcuni parametri strutturali e quindi l’inclinazione di IS e LM; l’affidabilità, la forza e la rapidità dei meccanismi di stabilizzazione automatici: secondo i keynesiani, l’intervento dello Stato era necessario perché tali meccanismi automatici sono lenti; secondo i monetaristi, invece, non bisognava intervenire perché tali meccanismi sono veloci e potenti; la priorità tra gli obiettivi: secondo i keynesiani, l’obiettivo prioritario era costituito dalla stabilizzazione del reddito, per cui si consigliavano 8 politiche attive di intervento; secondo i monetaristi, invece, andava attribuita priorità alla stabilizzazione dei prezzi, per cui si consigliavano regole di comportamento passive, come la regola del k%. Nel modello IS-LM di consenso, esiste sempre uno spiazzamento della spesa pubblica ai danni di quella privata, seppure incompleto. Questa conclusione, alla fine degli anni ’60, fu controbattuta da uno studio di due ricercatori dell’Università di St. Louis, Andersen e Jordan, i quali ripresero il tema del valore effettivo dei moltiplicatori (fiscali e monetari) nel modello di consenso e del conseguente effetto di crowding out. In particolare, essi studiarono l’effetto dell’offerta di moneta e della spesa pubblica sul reddito, stimando una equazione in forma ridotta (seppure comunemente identificata come “modello di St. Louis”) in cui il reddito Y viene spiegato dai valori correnti e ritardati di G ed M secondo k h i=0 i=0 la relazione: Yt = μi Mt-i + γ iG t-i . Andersen e Jordan riscontrarono che, mentre una variazione dell’offerta di moneta aveva effetti di impatto e ritardati sempre positivi sul reddito, una variazione della spesa pubblica aveva effetti di impatto positivi, ma effetti ritardati negativi tali per cui, in un certo intervallo di tempo, gli interventi fiscali risultavano praticamente ininfluenti sul reddito. Queste conclusioni sembravano confermare le iniziali affermazioni di Friedman, provocando un ampio dibattito all’interno del quale si formulò una vera e propria casistica delle situazioni in cui era possibile uno spiazzamento completo da parte della spesa pubblica. Rispetto alla discussione precedente, l’elemento di novità era costituito dalla necessità di definire correttamente l’orizzonte temporale di riferimento dell’analisi e di conseguenza dalla necessità di tenere conto degli effetti che variazioni nei flussi esercitano sugli stock. In particolare, nel breve periodo si considerano solo i flussi, mentre nel medio periodo si considerano flussi e stock, e nel lungo periodo si considera un equilibrio completo di flussi e stock. Nella fase iniziale del dibattito sul crowding out tra monetaristi e keynesiani ci si era limitati a considerare gli effetti della politica fiscale in un orizzonte temporale di breve periodo in cui le variazioni degli stock erano trascurate. Estendendo l’orizzonte temporale, occorreva tenere conto degli effetti di mutamenti fiscali o monetari sulla ricchezza finanziaria degli individui e quindi sulle loro decisioni di spesa o di portafoglio. Per fare ciò si doveva introdurre esplicitamente nell’analisi il vincolo di bilancio del settore pubblico, al fine di specificare correttamente le conseguenze di diverse modalità di finanziamento di interventi di natura fiscale. All’interno di tale dibattito veniva quindi ripreso il contributo di Blinder e Solow, i quali avevano esplicitato il vincolo di bilancio dello Stato nella forma: G -T +iB = ΔB+ ΔM 9 in cui G rappresentava la spesa pubblica primaria; per semplicità si ipotizzava poi l’esistenza di un titolo a brevissimo termine, rinnovato continuamente, sul quale gli interessi pagati erano quindi pari a iB. Il vincolo di bilancio sopra esplicitato rende evidente che un disavanzo pubblico deve essere finanziato con l’emissione o di titoli o di moneta. Una politica fiscale pura determina pertanto una variazione del saldo di bilancio finanziata con titoli. I suoi effetti possono essere analizzati in un orizzonte di breve, di medio e di lungo periodo, come nella trattazione seguente. Fig. 5. Gli effetti di una politica fiscale pura in vari orizzonti temporali LM’’’ i LM’’ LM E’’’ E’’ E’ IS’’’ E IS’’ IS’ IS Y Y0 Breve periodo: la politica fiscale sposta la IS verso destra in IS’, cosicché si passa dal punto di equilibrio E al nuovo punto E’. Nel breve periodo, trascurando gli effetti ricchezza, si ottengono gli effetti tradizionali: il crowding out è presente ma è incompleto. Medio periodo: la politica fiscale, finanziata con emissione di titoli, determina una variazione della ricchezza finanziaria, definita dalla solita relazione R= (M+B)/P. L’aumento nella ricchezza genera un duplice effetto: - una variazione nei consumi, con conseguente spostamento della IS a destra fino a IS’’; - una variazione della domanda di liquidità, con conseguente spostamento della LM a sinistra fino a LM’’. Il nuovo punto di equilibrio sarà quindi E’’, caratterizzato da proprietà non univocamente definite: il tasso di interesse è sicuramente maggiore di 10 quello corrispondente all’equilibrio E’, ma la variazione del reddito può essere positiva o negativa, a seconda della dimensione relativa dello spostamento della IS e della LM, e quindi a seconda che 1 C Ld 1 . Poiché l’effetto flusso dato dalla sia maggiore o minore di 1 - c R R k variazione nella spesa pubblica si verifica una sola volta, mentre l’effetto ricchezza si verifica finché ∆B>0, se l’effetto sulla domanda di moneta è maggiore dell’effetto sulla spesa per consumi, ovvero se gli effetti ricchezza sono “perversi”, il reddito continua a diminuire, per cui lo spiazzamento finale è inevitabile. La conclusione di Andersen e Jordan secondo cui vi sarebbe, nel lungo periodo, un crowding out totale si basa quindi sulla convinzione che gli effetti ricchezza siano perversi. Lungo periodo. Il processo di spostamento della IS a destra e della LM a sinistra continua finché il bilancio non è tornato in pareggio. Si dovrebbe così arrivare in E’’’. In tale punto il crowding out è ovviamente completo. E’ appena il caso di osservare che, a differenza dell’analisi precedente, in cui la spesa pubblica è finanziata con l’emissione di titoli, un incremento di spesa pubblica finanziato con moneta avrebbe effetti certamente espansivi poiché tanto la IS quanto la LM continuerebbero a spostarsi a destra, nella stessa direzione. Le conclusioni della scuola di St. Louis, sopra illustrate, sono tuttavia soggette a limitazioni, che l’analisi neokeynesiana non mancò di sottolineare: 1. se gli effetti ricchezza sono perversi, allora il sistema risulta instabile; in effetti, a differenza di quanto sostenuto dai monetaristi, il sistema non si arresterebbe nell’equilibrio E’’’ (punto nel quale il bilancio sarebbe ancora in deficit, essendo la spesa pubblica aumentata e la tassazione immutata), per cui le schede IS e LM continuerebbero a spostarsi e il reddito a diminuire continuamente. Tale dinamica divergente impone una forte restrizione alla rilevanza del caso monetarista, proprio perché essa si associa ad un’ipotesi di instabilità contraria alla logica della stessa teoria, la quale assume che il settore privato sia sempre stabile. 2. Se si analizza l’equilibrio completo di lungo periodo (G-T+iB=0) si può dimostrare che, paradossalmente, una politica fiscale finanziata con titoli è più espansiva di un’analoga politica finanziata con variazioni nell’offerta di moneta, dato che la prima alternativa genera un flusso addizionale di interessi che incrementa il reddito disponibile degli individui, e quindi la loro domanda. In effetti l’equilibrio di bilancio di lungo periodo, in cui si ipotizza la presenza di imposte sul reddito, per cui G-T+iB=G-T0-ty+iB=0, implica che il 11 G-T0 +iB . Come si t può facilmente constatare, un aumento di G finanziato con emissione di titoli (cioè con un incremento di B), che a sua volta genera un rialzo di i, determina una crescita del reddito nettamente superiore a quella che si otterrebbe nel caso di un aumento di G finanziato con moneta. reddito di equilibrio sia dato dall’espressione: y= La rilevanza degli effetti ricchezza, alla base del risultato di Andersen e Jordan, è subordinata al fatto che i titoli pubblici siano considerati o meno parte della ricchezza privata. Sulla base di un’ipotesi di ultrarazionalità individuale (Barro, 1974), alcuni monetaristi hanno assunto la validità del Teorema di Equivalenza ricardiana, per cui i titoli pubblici non fanno parte della ricchezza privata; questo avverrebbe perché, al momento della loro emissione, gli individui sconterebbero immediatamente le maggiori imposte che sarebbero introdotte in futuro per il rimborso del debito. Se i titoli non sono ricchezza privata, però, gli effetti della politica fiscale dovrebbero essere tendenzialmente nulli. In particolare, nella prospettiva ricardiana, il consumo dell’individuo nel presente non sarà funzione del solo reddito disponibile oggi (t0), bensì del reddito disponibile lungo tutto il suo arco di vita. Per comprendere tale affermazione nell’ambito di un modello semplificato, consideriamo un orizzonte di vita biperiodale. Il reddito disponibile degli individui in un generico periodo t è esprimibile con la seguente espressione: Yd = Y + TR - T dove TR sono i trasferimenti e T la tassazione corrente. In t0 il reddito disponibile complessivo (cioè nell’intero ciclo vitale) dell’individuo sarà dato da: Yd Y + TR1 -T1 . Ytd = Y0d + 1 = Y0 + TR0 -T0 + 1 1 +i 1 +i ovvero dal reddito disponibile nel periodo corrente e dal valore attualizzato del reddito disponibile nel periodo futuro. Gli individui sono peraltro pienamente consci del fatto che il settore pubblico è soggetto ad un il vincolo di bilancio intertemporale, per cui un incremento dei trasferimenti (ad esempio per pensioni e sussidi) praticato dal governo oggi (cioè in t0) comporterà in futuro (nel nostro caso in t1) un incremento della tassazione T tale da uguagliare il valore della più elevata spesa pubblica del periodo corrente, maggiorata degli interessi pagati sui titoli emessi per finanziarla. Avremo quindi: ΔT1 ΔTR0 (1 i) Pertanto, se si ipotizza un incremento della spesa pubblica per trasferimenti nel periodo presente ( ΔTR0 ), gli individui, scontando il fatto che in futuro dovranno 12 pagare più tasse ( ΔT1 ) per il servizio del debito, e che il valore attuale di tale onere è esattamente uguale al valore della maggior spesa corrente per T trasferimenti (essendo cioè TR0 = 1 ), non subiranno alcuna variazione del (1+i) reddito disponibile complessivo, per cui: ΔYt d = 0 Di fronte all’invarianza del reddito disponibile, non si genererà alcuna variazione del consumo privato. In particolare, rispetto al reddito corrente, peraltro aumentato, si determinerà esclusivamente una variazione del risparmio pari a quella della spesa pubblica. Se valgono le ipotesi di equivalenza ricardiana, dunque, l’equilibrio del sistema rimane immutato perché non si spostano né la IS, né la LM: l’aumento dei trasferimenti comporterebbe infatti un tendenziale spostamento della IS verso destra, ma poiché gli individui aumentano in t 0 la propria propensione al risparmio rispetto al reddito corrente, in modo tale da poter pagare le maggiori imposte in t1, il consumo corrente cadrà rispetto al reddito disponibile corrente; la IS resterà così invariata. In definitiva, nella misura in cui la variazione del saldo di bilancio pubblico si traduce in una variazione del risparmio corrente, la politica fiscale è assolutamente inefficace e si genera un crowding out particolare, non più a scapito del consumo effettivo ma di quello potenziale. A fronte di queste conclusioni, i keynesiani avanzarono essenzialmente due obiezioni: 1) L’invarianza della IS presuppone che l’incremento di spesa pubblica sia dovuto, come ipotizzato in precedenza, ad un aumento della spesa per trasferimenti; nel caso in cui invece si fosse in presenza di un incremento della spesa pubblica per acquisto di beni e servizi, anche di fronte ad una corrispondente anticipazione di tassazione futura, la IS si sposterebbe comunque verso destra, come illustrato dal Teorema del bilancio in pareggio. 2) L’ultrarazionalità ricardiana presuppone per la sua validità l’esistenza di ipotesi assai difficili da realizzare: assenza di miopia individuale, altruismo, mercati dei capitali perfetti e assenza di vincoli di liquidità, imposte non distorsive, orizzonte temporale uguale per Governo e famiglie (o comunque orizzonte infinito). Poiché tali ipotesi sono irrealistiche, il teorema ricardiano non vale; i titoli pubblici sono quindi, almeno in parte, ricchezza netta, e la politica fiscale è efficace, determinando comunque uno spiazzamento, seppure incompleto. Vale la pena di osservare, in conclusione di analisi, che il lungo dibattito tra keynesiani e monetaristi sul crowding out, sin qui illustrato, ha implicitamente 13 adottato un pregiudizio di fondo keynesiano, secondo cui l’intersezione tra la IS e la LM avverrebbe alla sinistra di Y*. In realtà il vero elemento discriminante tra le due scuole, nel modello di consenso, è costituito non dalla forma o dalla pendenza delle curve IS-LM, ma piuttosto dal livello di reddito al quale avviene la loro intersezione. Se tale livello è Y*, allora il crowding out derivante dalla spesa pubblica è inevitabile, senza necessità di fare riferimento né all’effetto ricchezza, né al teorema di ultrarazionalità ricardiana. In effetti, se ci si trova al reddito di pieno impiego, qualunque sia lo schema di riferimento adottato, la spesa pubblica determina sempre uno spiazzamento completo, ed ogni incremento dalla domanda aggregata provoca soltanto una variazione proporzionali dei prezzi. Nello schema IS-LM, in cui l’intersezione tra le due curve avviene a Y*, infatti, un aumento della spesa pubblica (con spostamento della IS a destra) provocherebbe un iniziale incremento del reddito oltre il pieno impiego, che darebbe luogo ad una variazione dei prezzi. Quest’ultima farebbe ridurre l’offerta reale di moneta e quindi spostare verso sinistra la LM finché il reddito non fosse tornato a Y*. Nella nuova posizione di equilibrio quindi il reddito resterebbe immutato, mentre il tasso di interesse sarebbe più elevato, con un crowding out completo, esattamente analogo a quello ipotizzato dal Punto di vista del Tesoro. Lo stesso risultato sarebbe ottenuto utilizzando lo schema AS-AD. In effetti, verso la fine degli anni ’60, la critica monetarista alle posizioni keynesiane muta, non riguardando più le caratteristiche della domanda aggregata, e quindi la posizione e la pendenza relativa delle curve IS-LM, ma la posizione e la forma della funzione di offerta aggregata. A tale seconda fase della critica monetarista volgiamo ora la nostra attenzione. Fig. 6. Il crowding out completo nell’ipotesi di pieno impiego LM’ i i1 i0 E’ LM E IS’ IS Y* 14 Y