VINCENZO PADIGLIONE Spezie morali e kit di sopravvivenza VINCENZO PADIGLIONE Poetiche dal museo etnografico Spezie morali e kit di sopravvivenza ISBN 978-88-7586-290-9 II Edizione - 2010 © 2008 Editrice La Mandragora s.r.l. Via Selice, 92 - 40026 Imola (Bo) Italy Tel. 0542 642747 - Fax 0542 647314 [email protected] www.editricelamandragora.it I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i paesi. Foto di copertina: Ritratto di comunità (EtnoMuseo Monti Lepini, Roccagorga - LT, 26 luglio 1992). Indice Introduzione - Luoghi profetici.......................................... 7 Museo: un genere di successo L’invisibile che è di casa nei musei ........................................ 23 Musei: esercizi a decostruire già operanti e per volenterosi .. 35 Del buon uso dello stupore .................................................. 77 Antropologia museale riflessiva Lingua biforcuta: una risorsa riflessiva .................................. 89 Per una centralità dell’etnografia nei musei.......................... 93 Old & New Museology ....................................................... 107 Etnografico nome di museo .............................................. 127 Piccoli etnografici musei .................................................... 141 Un genere emergente: i musei interpretativi ...................... 159 Laddove tutte le parole sono concrete ............................... 167 Patrimoni in movimento Quale ricerca ..................................................................... Interpretazioni del patrimonio culturale ............................. L’effetto cornice. Criteri di mediazione antropologica del patrimonio ......................................................................... Pittori della crisi: valenze patrimoniali e pratiche rituali....... 183 191 209 225 Conclusione - Tesi in discussione .................................... 249 Riferimenti bibliografici .................................................. 259 Interpretazioni del patrimonio culturale* Tre visioni in contrasto Nell’arco del XX secolo, nel passaggio dal moderno al postmoderno, si sono avvicendate in sequenza tre differenti concezioni del bene da sottoporre a disciplina pubblicistica, ovvero di ciò che costituisce l’eredità culturale (patrimonio ha il suo etimo in pater) da salvaguardare e valorizzare. Le ritroviamo intrecciate e confuse nell’attuale legislazione italiana, in particolare nelle indicazioni emerse dalla Commissione Franceschini della fine degli anni Sessanta79. Questa norma* Il testo riproduce, almeno in parte, la mia relazione alle Giornate di studio: “Identità, Mediterraneo, Mediazione del Patrimonio” (Chianciano, Siena, 17-19 ottobre 1997). Il seminario è stato promosso da un gruppo di lavoro (Pietro Clemente, Francesco Faeta, Vito Lattanzi e il sottoscritto), costituitosi sul tema dell’antropologia del patrimonio, anche in vista della realizzazione di un Diploma Europeo per iniziativa dell’Università di Nizza e con la partecipazione di partner spagnoli, greci e italiani. Il testo della relazione, prima di essere presentato, era stato discusso all’interno del gruppo di lavoro e, dunque, mi ero avvalso dei preziosi consigli dei colleghi. Ringrazio anche, per gli utili suggerimenti, Cristina Fortini. La versione originale dell’intervento è stata pubblicata in Etnoantropologia n. 6-7: 1998: 137-154; e come “El efecto marco. Las mediaciones del patrimonio y la competencia antropologica”, in Encarnacion Aguilar Criado (Coordinacion), Patrimonio Etnologico. Nuevas perspectivas de estudio, Istituto Andaluz del Patrimonio Historico, Granada, Editorial Comares, 1999: 212-227. 79 Non sono pochi i meriti della Commissione ministeriale Franceschini (di cui faceva parte, come antropologo, Tullio Tentori). Nella Relazione conclusiva (1966) si valorizzava la componente immateriale della cultura, e si riconosceva per la prima volta la specificità del patrimonio demologico, considerato un bene culturale definibile come “un insieme di documenti materiali e immateriali che si riferiscono alla storia della cultura popolare italiana” (Lattanzi 1990). Si vedano anche: Bravo 1979; Bravo-Tucci 2006. 192 tiva istituisce il regime di tutela per “tutti quei beni aventi riferimento alla storia della civiltà”. Ne elenca alcune precise tipologie (beni archeologici, storici, artistici, ambientali...), ma non ne intende in tal modo esaurire l’elenco poiché vi include, con la seguente definizione ben più onnicomprensiva: “ogni altro bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà”. Che cosa si debba intendere per “civiltà”, non è affatto precisato. Può essere sinonimo di Civilizzazione o di cultura in senso antropologico e quindi consentire riferimenti esclusivi ai grandi vettori dell’evoluzione culturale oppure alle storie particolari di comunità locali. Altrettanto ambiguo è il riferimento alla notifica del bene, che può essere intesa come assoluta, vincolante, oppure relativa e, dunque, negoziabile; e ancora: come una mera certificazione o un’effettiva costituzione del bene. Questioni di non poco conto che vengono ad incidere in modo rilevante sul patrimonio, sulle scelte relative a cosa e come mettere in valore. Di fatto, la legge di tutela ha reso e rende possibile tre differenti interpretazioni intorno alle quali si trovano in disaccordo gli operatori a vari livelli interessati al settore. Ne tenterò una sintesi. A. Visione metastorica ed elitaria. Questa prima interpretazione tende – di fatto e in modo egemone, specialmente nei media – a ridurre i beni culturali soprattutto alle tipologie di opere d’arte classica e dei monumenti storici e archeologici: singolari, rare eccellenze dell’ingegno umano che, per originalità, pregio, autenticità storica e artistica, si impongono palesando il loro valore universale, la loro mostrata capacità di trascendere la storia (appunto, testimonianze di Civiltà con la “C” maiuscola). Il valore sarebbe intrinseco a queste opere, alla loro qualità: esisterebbe come dato, indipendentemente e in modo preesistente rispetto a qualsivoglia valutazione. La prova del tempo, l’aver mantenuto immutati i valori di eccellenza nonostante il passaggio di epoche e culture, sarebbe la manifestazione dell’esistenza di un valore in sé, di una qualità universale intrinseca alla res. All’interno di questa interpretazione elitaria e idealistica, che tende ad oscurare il patrimonio demo-etnologico (a meno di non reinserirlo, per via romantica, in sovrapposizione alle tracce ‘significative’ della storia della Nazione), è facile che si 193 riproducano ben noti luoghi comuni etnocentrici: “in Italia, vi sarebbe il 50% del patrimonio culturale mondiale e in Toscana il 50% di quello italiano”80. B. Visione disciplinare. La seconda interpretazione, rilevabile specialmente nelle Sovrintendenze e nelle Università, prescinde sia da una concezione olistica, sia da una elitaria e mette in primo piano il ruolo della competenza tecnica. I beni vengono rilevati, distinti e riferiti a tipologie specifiche (archeologici, storici, artistici, ambientali, archivistici, librari, demo-etno-antropologici…). Si sottolinea che “la qualità storica o artistica del bene culturale non è immanente alla cosa”. Sono gli esperti disciplinari che, con la loro valutazione, con la loro discrezionalità tecnica, trasformano un oggetto in un’opera d’arte; definiscono uno strumento, magari ancora in uso, in una testimonianza storica; sottraggono un oggetto al “flusso della vita” per farne un documento (Cirese 1977, Solinas 1989). In questo caso, il valore non è considerato intrinseco al bene, ma è ad esso attribuito dall’autorità amministrativa sulla base di una expertise scientifica. Come a dire che il Bene culturale viene costituito in virtù di un’assoluta discrezionalità tecnica. La prospettiva privilegiata non è unitaria, ma frammentata in tanti singoli saperi autoreferenziali (archeologia, storia 80 L’esito di questa prospettiva finisce per essere l’oblio, proprio in Toscana, della storia del Novecento e, comunque, di epoche considerate meno illustri del Medio Evo o del Rinascimento. Pietro Clemente ha messo in evidenza questa dinamica, con particolare riferimento alla mezzadria: “perché questo territorio non ha immaginazione di un passato prossimo e di una tradizione socioculturale così forte, così caratterizzante, così marcante?” (1997: 149). “L’effetto che scaturisce dalla Guida Touring Club Italiano è quello di un territorio battuto al millimetro per ciò che riguarda piccole pievi cadenti, resti etruschi, arte sacra, opere architettoniche ecc. che interessano forse un visitatore che provenga da un altro mondo (l’aristocrazia inglese o i marziani) e che poco o niente ha da dire sulla vita, sulle tradizioni e sulla cultura dei ‘nativi’ che lo abitano. Che cosa ha di più una bifora rispetto alla storia di una famiglia contadina? Adesso potrei sembrare un po’ patetico ma, d’altro canto, la bifora resta lì mentre la memoria di queste storie si sta perdendo e sono storie di grande ricchezza, che andrebbero ricordate poiché […] sono la chiave della comprensione di questo mondo e di questo tempo” (Clemente 1997: 150). 194 dell’arte, paletnologia, antropologia) che operano valutazioni iusta propria principia. È evidente che il problema della discrezionalità tecnica non è di poco conto, poiché la notifica deve precisare il “rilevante interesse” o la “particolare importanza” senza tenere conto dei possibili molteplici interessi in gioco e della variabile storica che mette particolarmente a rischio di arbitrarietà questo giudizio: “fissare in una norma il criterio valutativo, dando cioè al bello, al raro, al valore, ecc. un preciso contenuto, significherebbe cristallizzare per sempre un sentimento del bello, del raro e del valore diffuso in quel momento storico, certamente destinato a mutarsi, non solo per ragioni ideologiche, ma anche per l’evolversi continuo degli studi” (Cavallo 1987: 14). Insieme all’impossibilità di fissare criteri definitivi delle valutazioni tecniche, però, vi è anche la necessità di prendere in considerazione interessi diversi, di natura sociale, che possono contribuire alla definizione del bene: “nel procedimento il giudizio valutativo è ritenuto espressione di un’assoluta discrezionalità tecnica dell’amministrazione, la quale è legittimata a non considerare, quindi a ignorare, l’esistenza di qualsivoglia altro interesse, pubblico o privato che sia […]. Notificando sempre, con l’intento di proteggere tutto (e qui riemerge la concezione del bene culturale come insostituibile testimonianza), ad esempio nel settore dell’arte contemporanea, ‘si vogliono bloccare migliaia di opere d’arte e in pratica non se ne controlla e non se ne difende nessuna’ (Bay E., Corriere della Sera, 12 agosto 1987). L’esigenza di contemperare la cura dell’interesse pubblico culturale e gli altri interessi pubblici e privati […] [potrebbe portare] a suggerire alla stessa amministrazione la sofferta decisione di consentire la distruzione del bene a fronte della necessità dell’indifferibile costruzione di una grande opera pubblica” (Cavallo 1987: 15). Con questa asserzione dell’impossibilità di sopprimere la dimensione sociale particolare e con l’emergere scompaginante dell’arte contemporanea (le cui opere sono necessariamente prodotti controversi che non attendono la prova del tempo per entrare come beni nei nostri musei), di fatto si fa strada una terza interpretazione ancor più aperta e storicistica. 195 C. Ermeneutica storica e culturale. Si tratta di un’interpretazione che parte dal presupposto che si possano interrogare i beni, nel tentativo di conoscerli e valorizzarli, solo sulla base di concetti e linguaggi offerti come potenzialità da un orizzonte culturale storico e limitato, quale è quello di cui è partecipe lo stesso studioso. La sua scienza dai rigorosi strumenti è pur sempre interna al mondo che vuole conoscere. Questa prospettiva consente di comprendere e rivalutare in positivo ciò che avviene nelle realtà locali quando, di fatto, molteplici interessi di natura diversa convergono o entrano in conflitto nel costruire un patrimonio. È un’interpretazione che comunque la legislazione rende pensabile: sia attraverso una possibile equiparazione del concetto di Civiltà, di Patrimonio culturale a quello antropologico di cultura, sia considerando importanti e tutelabili anche beni di ‘interesse locale’. Dal punto di vista di Pietro Clemente, significative sono le innovazioni che si configurano: “anche per le riflessioni italiane interdisciplinari sui ‘beni culturali’ la nozione di ‘patrimonio culturale’ sembra essere la più interessante e innovativa (Perego 1987). Essa consente sia degli ampliamenti tematici (ed es. al paesaggio, all’archeologia industriale, ecc.) che di tipologie documentarie (ad es. i supporti magnetici audiovisivi), e perfino a fenomeni e risorse viventi e non facilmente traducibili in documenti (il senso dell’identità, lo stile espressivo di un gruppo o sottogruppo). Inoltre toglie centralità alla implicazione più corrente di ‘bene’ culturale, e cioè che si tratti di oggetti cui attribuire un ‘valore’ (e sul piano del valore è il mercato non l’interesse collettivo che detta legge). Il concetto di ‘patrimonio’ introduce un’idea di totalità che, come è stato notato, lo avvicina alla nozione cruciale antropologica di ‘cultura’. Molti esperti non antropologi, usano questo concetto perché lo sentono investito del senso che una società o una nazione dà al suo presente e al suo passato (Perego 1987). In questo caso il limite consapevole della totalità è proprio la coscienza storica dei valori ‘patrimoniali’, giacché il ‘patrimonio’ viene riconosciuto da una cultura in un certo tempo come espressione della sua ‘coscienza’ attuale. La nozione si carica anche dunque di problematicità storica, riferibile alla riflessione ‘ermeneutica’” (Clemente 1993: 15-16). Così reso concepibile, il patrimonio culturale individua “una 196 costruzione sociale” (Prats 1993: 9; Iniesta 1994), nel senso che si riconosce come la selezione che porta a definire i patrimoni si fondi su criteri storici e convenzioni locali dove entrano intenzionalità e pratiche non solo di ordine scientifico, artistico, ma anche politico, economico (Desvallées 1995; Prats 1997). Se ne deduce che la pretesa di un valore universale o imperituro da attribuire ai beni culturali, all’interno di questa terza prospettiva, viene definitivamente dismessa. E il crollo di questo dispositivo idealizzante rischia di mettere in crisi lo stesso processo di valorizzazione e chiama in causa la competenza antropologica. Due ne sono i principali indizi. a) In primo luogo, gli studiosi vanno aprendo un versante riflessivo sul loro stesso operato patrimoniale, rimettono in discussione saperi e pratiche conoscitive in quanto ‘fatti’ culturali ‘locali’. Essi si interrogano sulle fonti della propria autorità, sulle convenzioni storiografiche ed estetiche: su come producono artigianalmente, da storici, archeologi, antropologi, critici d’arte, i patrimoni. Del resto, se una società, attraverso l’autorità di particolari esperti disciplinari, rende opera d’arte o documento un oggetto (Duclos 1992), attribuendo ad esso un’eccellenza che ne comporta la conservazione e la valorizzazione, questo processo gli antropologi dovrebbero conoscerlo bene. È denominato “sacralizzazione” e “produce ambiti di autoreferenzialità sottratti alla problematizzazione” (Remotti 1990: 156); settori nei quali primeggia il ricorso scontato al codice simbolico (per cui di scienza parlano gli scienziati e di estetica parlano solo i critici d’arte, ma non viceversa). L’antropologia simbolica che non ha avuto riguardi nel riscrivere delicate storie altrui e dare un’immagine inedita e spesso demistificante delle espressioni culturali degli altri, lo deve fare anche per le nostre. b) In secondo luogo, la concezione del patrimonio come “costruzione sociale” viene incontro e interpreta significativi cambiamenti intercorsi nel Novecento (il postmoderno con la crescente insofferenza per le metanarrazioni; l’instabilità dei sistemi di significato...), ma ne favorisce e legittima altri, altrettanto problematici. 197 In particolare, amplia a dismisura l’ambito patrimoniale, anche mettendo in valore settori precedentemente trascurati da una visione essenzialista, romantica, oggettualista. Ma soprattutto apre in modo radicale alla contemporaneità, diffondendo l’idea che non solo i beni demo-etnologici, ma anche quelli ambientali, paesaggistici, storici e archeologici sono riconoscibili in quanto beni da patrimonializzare, poiché oggetto di pratiche identitarie (scientifiche, ideologiche, economiche, politiche, turistiche, ecc.). Come dire che questa concezione implicitamente consente di ridefinire come ‘etnologico’ l’intero patrimonio culturale di una società e, comunque, promuove come strategico, se non egemone, l’approccio antropologico: una sensibilità ermeneutica specificatamente volta a rilevare e conoscere quelle pratiche identitarie attraverso le quali i membri di un gruppo (scienziati compresi) propongono un’autoimmagine, selezionano nella coscienza storica segmenti e temi, operano un’interpretazione del passato e della loro esperienza attuale marcando con appositi segnali, che gli antropologi hanno imparato a rilevare, i luoghi e i motivi della continuità e della specifica appartenenza. Un segnale della possibile omologazione dell’intero patrimonio culturale a quello etnologico è fornito dal suo crescere in rilevanza sociale di pari passo con il farsi più problematico del consenso sul suo uso legittimo ed esclusivo, sulla modalità corretta di interpretarlo. Di questo fenomeno ne abbiamo una diretta evidenza, appunto, nel moltiplicarsi dei processi di patrimonializzazione, oggi cresciuti in legittimità sulle ceneri di saperi esclusivisti e di politiche indiscusse. Il riconoscere, come propone la terza concezione, che il patrimonio è un’area di intensi traffici, animata dai vecchi e nuovi avventurieri, surriscaldata da conflitti su ciò che va rappresentato e su come farne un uso pertinente, solleva il problema – oggi di non facile soluzione – di come ci si possa orientare con saggezza, ma senza alcuna pretesa fondazionista, tra questi traffici: come darsi degli strumenti di navigazione adatti al postmoderno, ricercare nuovi criteri di giudizio, una ripensata competenza antropologica che possa discernere tra le mediazioni. 198 Il patrimonio come modo di produzione contemporaneo Buone indicazioni per slargare l’orizzonte problematico assumendo inedite chiavi interpretative ci provengono da Barbara Kirshenblatt-Gimblett, una folklorista statunitense, docente di perfomance studies (ad averli, in Italia!). In Destination Culture (1998), asserisce che i musei sono impegnati a competere o a fare gioco di squadra con il turismo nella produzione di patrimoni. Debbono continuamente negoziare il loro servizio e la loro identità specifica, per altro compromessa dal ricomporsi della separazione prodottasi nell’Ottocento tra formazione e divertimento. La Kirshenblatt-Gimblett si sofferma soprattutto sulla necessità dei musei di mettere da parte la centralità di collezioni ed oggetti (debole da sempre, per la verità, negli Stati Uniti) e di seguire la sirena del turismo; di ridefinirsi come attrazioni turistiche (con i seguenti gradienti: esperienza, immediatezza, avventura) per sostenere gli alti costi di gestione. Al turismo, i musei servono per trasformare i luoghi in “destinazioni” e il mondo in un museo di se stesso, giocando sull’effetto di vero che proprio la presenza di esposizioni (pensate a quelle etnografiche) rende per complemento credibile ed efficace. Il museo imita il turismo simulando esperienze di viaggio ed entrambi convergono nel produrre patrimoni ovunque e comunque. La tesi della Kirshenblatt è che il patrimonio sia un prodotto culturale tutto contemporaneo, non una rappresentazione del passato. Richiede una valorizzazione e messa in scena, in esposizione o in una performance “dell’obsoleto, dell’erroneo, del non più conveniente, del morto e defunto” (Kirshenblatt-Gimblett 1998: 150). Turismo e musei sono implicati in questo nuovo modo di produzione culturale che, alla ricerca di differenze in termini di vocazioni locali, offre una seconda vita ad economie ormai bollite, a luoghi abbandonati, a modi di vita in via di scomparsa. Sebbene ironica, la Kirshenblatt non sembra protestare nei confronti del pervasivo riciclaggio patrimoniale; avverte riflessivamente che questa industria culturale occulta, con artifici dei più diversi, ciò che mostra, tende a far scomparire la mediazione del presente nella rappresentazione del passato (si ricordi qui la polemica di Cirese – 1977 – nei confronti dei musei open air). 199 C’è da domandarsi se a riguardo del patrimonio possa essere utile la vecchia categoria maussiana dei “fatti sociali totali”, fenomeni in grado di mettere in “moto la totalità della società e delle sue istituzioni”, configurandosi e funzionando come “sistemi sociali completi”, ovvero come luoghi di incontro, non solo di varia umanità, ma anche di dimensioni eterogenee, quali possono essere l’arte e la scienza, la morale, l’educazione e la politica, “capaci di convocare intorno a nuclei di ritualità una globalità di aspetti del sociale e di istanze culturali” (cfr. Feixa 1993). Nell’idea di Mauss, vi era un senso di compattezza rituale e tenuta delle rappresentazioni collettive, di consenso culturale che non credo si possa facilmente trovare oggi. Certo, si tratta di fenomeni che sembrano in grado di caratterizzare in modo assai forte le forme culturali nella contemporaneità, tanto che si parla di sportivizzazione della cultura (Bausinger 2006), di caduta di confini e adozione di costumi ed ethos sportivi nella vita sociale. In autori diversi, sembra anche palesarsi una patrimonializzazione della cultura: esito fatale dell’industria turistica (lo mostra Kirshenblatt, ma in Francia ne hanno scritto in molti) ma anche delle rivendicazioni identitarie. Intendo dire che la ‘cultura’ che vieppiù ci troviamo a trattare noi antropologi quando si innesca la domanda di antropologia è già la cultura intesa come patrimonio, quale ibrido temporale, nostalgia del presente, più o meno ingegnosa arma di attacco o nicchia di resistenza. Se torniamo alla torsione che Appadurai ha fatto fare al concetto di cultura, da sostantivo ad aggettivo, si troverà che il suo esito viene a rendere omologabili il concetto di cultura e quello di patrimonio: “propongo di considerare culturali”, scrive Appadurai, “solo quelle differenze che esprimono oppure formano la base per la mobilitazione di identità di gruppo” (2001: 29). Purché non si considerino sia identità che mobilitazione in modo restrittivo, ovvero improntato al contrattualismo economico, mi sembra che questa affermazione di Appadurai sia un’ottima definizione di patrimonio improntata all’ermeneutica culturale, ovvero alla consapevolezza che ogni prelievo del passato trova radici e motivazioni nell’orizzonte del presente. Il concetto di patrimonio, del resto, fa bene a quello di cultura, poiché nel settore della mediazione del patrimonio vi è crescente consapevolezza che, ad esempio, gli oggetti etnografici sono oggetti dell’etnografia 200 – come ci ricorda Kirshenblatt –, ovvero il prodotto di prospettive e saperi disciplinari non certo neutrali e innocenti rispetto alla scena culturale e politica più ampia. Ovvero, per dirla con Herzfeld: “We too are in the picture” (1999: 12), noi antropologi siamo coinvolti e, quando svolgiamo – come nel mio caso – il lavoro di antropologi museali, avvertiamo ancor di più il senso di responsabilità e vulnerabilità. Antropologia riflessiva del patrimonio. Risonanze in AM Le prime due tesi esposte nell’introduzione a questa terza parte e volte a valorizzare e a non rimuovere dai patrimoni l’eterogeneità culturale e dai musei l’etnografia, hanno rappresentato le punte di diamante di un’opera di reinscrizione dei musei e dei patrimoni all’interno dell’antropologia contemporanea, delle sue tendenze interpretative e dei suoi dibattiti critici. Queste direttrici, rigeneratesi alla luce del confronto con la comunità degli antropologi e dei museali, hanno trovato proposte, esemplificazioni, approfondimenti e discussioni in articoli pubblicati dalla rivista Antropologia Museale. Chiaramente, mi limiterò a segnalare solo alcuni contributi. Il tema che sin dall’inizio si è imposto come polo di attrazione di ricerche e campo problematico privilegiato è costituito proprio dalla patrimonializzazione, ovvero da quei processi che vedono gli antropologi spesso coinvolti nel duplice e ambiguo ruolo di analisti e operatori. Noi redattori di AM abbiamo voluto subito prendere il toro per le corna, pubblicando nel primo numero un articolo di Palumbo (2002) che è una vera e propria frustata nei confronti degli addetti ai lavori, ovvero nei confronti di noi stessi che ci eravamo avventurati sul terreno dell’antropologia dei patrimoni riflessiva. Palumbo ci richiamava al nostro impegno e posizionamento etnografico, sottolineando con vigore e rigore la necessità di un’antropologia critica che sveli i molti traffici simbolici e che riscatti il nostro sapere dal rischio di collusione con il potere. Come etnografi abbiamo il dovere di osservare e analizzare le logiche e le pratiche locali del discorso patrimoniale alla luce delle strategie politiche che vi si attuano, coglierne la rappresenta- 201 zione istituzionale, la connotazione tecnica offerta degli addetti ai lavori, ma anche le minute espressioni incorporate nell’organizzazione di feste come nei modi di fare quotidiani della gente. Come dire, proprio noi antropologi non possiamo ingenuamente finire per avvalorare estetiche egemoni e gerarchie di valore e, soprattutto, non possiamo esimerci dal segnalare le legittimazioni che, attraverso la patrimonializzazione, ricevono fenomeni dai fondamenti culturali erronei (es. l’abuso della nozione di identità e di origine) e dalle potenziali conseguenze sociali inique (come l’equiparazione tra appartenenza e identità e i tanti reverberi sui sistemi di inclusione ed esclusione). In parziale dissenso verso Palumbo, è apparso un intervento sul n. 2 di AM. Lo ha firmato Fabio Dei (2002b), preoccupato che l’allarme e l’invito alla vigilanza critica possano divenire una scusa per ereggere il sapere cosiddetto critico a mondo autoreferenziale indebolendo altre autorità, cancellando ancora una volta patrimoni culturali minori che si sono edificati nella differenza-resistenza rispetto all’accademia e ai contesti egemoni nazionali. Sulla scia del dibattito aperto, membri della redazione di AM sono intervenuti (Clemente 2002-2003; Lattanzi 2002-2003; Padiglione 2002-2003; e Palumbo (2002-2003) ha replicato. Le posizioni contrastanti si sono in parte chiarite e in parte smussate e non può essere questa la sede per poterle ridefinire. Mi preme solo di segnalare quelle che mi sembra restino le differenze tra i due interlocutori, relative ai contesti teorici convocati attraverso gli stili di scrittura messi in scena (in Palumbo, una strategia più sociologica alla Bourdieu; in Dei, una più culturalista alla Marcus. Forse, restano anche divergenze di fondo su quale sia il senso da attribuire a nozioni quali identità e patrimonio: per l’uno, si tratta fondamentalmente di parole rischiose, da evitare, da cogliere nel punto di vista dei nativi, da contestualizzare, documentandone gli usi all’interno delle arene politiche locali e nazionali; per gli altri, di parole complesse che non esauriscono la loro connotazione all’interno dell’agone politico, in quanto capaci anche di parlarci di relazioni ed affetti verso persone, luoghi e cose, della difficile costruzione del senso di appartenenza; parole, inoltre, che gli antropologi usano anche da nativi, evocando la vulnerabilità, la limitatezza e l’inquietudine del loro stesso 202 agire conoscitivo: con quella sensibilità ermeneutica il cui presupposto è che si possa interrogare i beni, nel tentativo di conoscerli e valorizzarli, solo sulla base di un orizzonte culturale storico e limitato, quale è quello presente allo stesso studioso. Ecco, si può dire – e risulta ben in evidenza nei commenti dei redattori di AM – che il dibattito inaugurato dal saggio di Palumbo è stato assunto come un atto di fondazione, un evento simbolo di un ambizioso quanto difficile inizio, forma agonistica di uno stile argomentativo totalmente inedito in Italia e che ci sarebbe piaciuto imporre come format adatto ai nostri tempi e alle spinose questioni, per riflettere con passione e rigore senza presupporre certezze già condivise. Testi e commenti hanno costruito un’occasione preziosa quanto a volte lacerante per riflettere a tutto campo segnalando caratteri, debolezze e ambizioni, aspettative e illusione che contraddistinguono le nostre discipline DEA in quel campo dei beni culturali che, seppure in modo marginale, finalmente ci ha accordato riconoscimento. È stata un’occasione in cui la stessa redazione di AM si è presentata articolata in modo per predisporsi ad una discussione interna, a tempi difficili da affrontare senza slogan né uniformità forzate. Un’occasione dove, ad esempio, affermare e ad un tempo ripensare nostre consolidate retoriche – come l’enfasi romantica e l’imprinting vittimistico e rivendicativo –, o i tic del nostro lessico, tra cui la mia orgogliosa rivendicazione della lingua biforcuta dell’antropologo museale. Un’occasione per immaginarci etnografi di noi stessi e delle nostre museografie, stranieri interni ovunque, portatori di un sguardo critico spesso poco in grado di compenetrarsi in un sapere dignostico operativo e, dunque, contraltare euforico e idealizzato per lenire autoimmagini immiserite: “A nessuno di noi”, scriveva allora Clemente, “è dato comprendersi davvero nelle pratiche, questo sogno è forse la causa dell’accusa di onnipotenza che qualcuno ha voluto fare a una disciplina così poco potente come la nostra” (2002-2003: 46). L’eco di quell’inaugurale momento, anche per la rarità di dibattiti all’interno della nostra comunità scientifica, è rimasto nelle menti dei redattori di AM. Dobbiamo ringraziare Giovanni Pizza, Massimiliano Minelli e Gian Luca Grassigli, dell’Università di Perugia, che ne hanno offerto un originale riverbero (2004) 203 in occasione dell’uscita del libro di Berardino Palumbo L’Unesco e il campanile (2003): un’antropologia del noi che a ragione può essere definita esemplare per il modo in cui intreccia serie storiche e fonti etnografiche, pedinamento della propria incisiva presenza nel terreno e dispiegamento di piani locali, translocali e transnazionali: sempre nell’intento di sorprendere poetiche e retoriche delle oggettivazioni culturali, di cogliere rappresentazioni e pratiche sociali di persone e istituzioni nell’atto di intramarsi in discorsi, di incorporarsi in fazioni religiose, sociali e politiche, di costruire attraverso gli usi del passato senso dell’identità e della località. I recensori hanno sottolineato i molteplici vantaggi prospettici che l’opera di Palumbo apre. Di Massimiliano Minelli mi ha interessato il riferimento all’affordance degli oggetti, alla loro silenziosa presenza di nostre guide e tutori, come anche l’articolazione della nozione di iperluogo in rapporto a quella foucaultiana di eterotopia, laddove il primo, nell’accezione di Palumbo, è proteso a moltiplicare immagini e discorsi sfuggendo così il rischio di essenzialismo connesso all’idea di luogo e mettendo in evidenza percezioni variabili e sconfinamenti tattici e strategici di campi e contesti. Viene da segnalare che in un articolo su AM di qualche numero prima il collega tedesco Gottfried Korff (2003) aveva rivendicato al museo un posto di riguardo nella modernità riflessiva proprio in quanto spazio dell’eterotopia, dove il lontano viene reso vicino e il familiare si fa straniero. Già dalle titolazioni dei paragrafi si percepisce l’enfasi in chiave marxista che Gianni Pizza (2004) propone del testo di Palumbo. Il riferimento all’antropologia degli intellettuali come linea gramsciana mi è apparso prezioso, più complesso nell’attuale situazione globalizzata l’impiego della categoria di egemonia in rapporto alla funzione dello Stato (come pure la sua estensione nella nozione di incorporazione). Ancor più traballante è il presumere di svelare le reali motivazioni di un pensatore identificando il suo posizionamento con quelle che un tempo si chiamavano le sue “condizioni materiali di esistenza” (vedi l’accusa di rimozione che colpirebbe Dei, reo di non aver scritto, nel dibattito con Palumbo, di essere stato Assessore alle politiche culturali di Poggibonsi - SI). Trovo in questa posizione (che ricorda un testo di Gunnar Myrdal del 1973) un rischio di semplifica- 204 zione che mi porta a dubitare sulla stessa applicabilità della pur ragionevole e necessaria tesi di Palumbo richiamata da Pizza: “ogni ricerca etnografica, oggi non può non essere anche un’antropologia politica della produzione culturale” (Palumbo 2003: 120). In questo ritorno di fiamma del dibattito, si è percepita in modo ancor più palese l’efficacia riflessiva che una prospettiva di antropologia dei patrimoni apporta non solo agli antropologi ma anche agli archeologi. È evidente che tutto il processo di patrimonializzazione merita di essere conosciuto in dettaglio e nelle diverse storie e pratiche che lo compongono nel panorama italiano. Quel nesso forte tra patrimonio e identità nazionale, dato per certo da Settis (2002), va meglio accertato e articolato per regioni, province e paesi. E fa bene l’archeologo Grassigli (2004) a sottolineare come la contesa, la polemica, lo scontro interno non siano un di più ma forse parte integrante del sentire il patrimonio come fulcro dell’identità locale. Se questa regola vale per Catalfaro, come ci ha mostrato Palumbo, forse vale anche per Arce. Qui, alcuni ragazzi hanno di recente compiuto atti di vandalismo nei confronti dell’istituendo museo della Gente di Ciociaria: Qui ci siamo solo noi. Nostro è il luogo, hanno affermato, con gesti che hanno compromesso la nascita del museo (Iannazzi 2004). Gesti tutt’altro che infrequenti, se è vero che ormai direttive di vario genere, provenienti spesso dagli stessi direttori dei musei suggeriscono di evitare tabelle di percorsi esterni proprio per limitare il loro frequente danneggiamento. Certo, quando Rosati nello stesso numero di AM (2004) spinge noi antropologi ad occuparci della valorizzazione per meglio curare i rapporti tra patrimonio e comunità locali, nell’idea di fare del bene culturale un elemento cardine della “cittadinanza attiva”, ci indica un compito che le pagine della rivista lasciano presupporre assai delicato e complesso. Un terreno di ricerca e di intervento assai fertile e riflessivo, dove entrano in conflitto posizionamenti, competenze, matrici diverse dell’antropologia museale (come quelle aperte dal dibattito Palumbo-Dei) e dove è legittimo aspettarsi una crescita della domanda futura. Sulle pagine di AM, in alcuni interventi, il discorso sul patrimonio guadagna una visione di diverso respiro, recuperando quei 205 fondamentali del pensiero etno-antropologico tra i quali mi sembra rifaccia una timida comparsa sia una riedizione debole dell’olismo – in quanto enfasi sulle connessioni tra natura, cultura e storia, sul ridimensionamento dell’autoreferenzialità umana e sul riconoscimento dell’imprevedibilità delle dinamiche future –, sia una visione comparativa a livello interculturale della memoria sociale, delle culture del ricordo: usi che le diverse società fanno del passato, operando selezioni, preferenze e occultamenti, regolando – come ci ricorda Remotti in un editoriale ospite dedicato al bananeto/cimitero tra i BaNande – il “gioco complesso delle categorie del ‘ciò che scompare’ e del ‘ciò che rimane’, [la] dialettica sottile tra la memoria e l’oblio” (2003). Che la tomba di un antenato illustre possa essere affidata alle vicissitudini di un albero, collocata nel mezzo di una natura effervescente che fatalmente la trasforma in altro è un’idea buona per noi da pensare in connessione con il patrimonio, poiché inscrive flusso, vita, storia in monumenti da noi immaginati e realizzati per sfidare il futuro. Clemente, a tal riguardo, ha scritto uno dei primi gustosi sparatrap (2002) – rubrica che cura stabilmente in AM –, tessendo l’elogio delle memorie a tempo, inscritte in oggetti e istituzioni culturali che si danno scadenze, limiti di uso e che dunque appaiono come un antidoto alla saturazione culturale del futuro, all’occupazione patrimoniale che sottrae spazi di crescita e creatività alle prossime generazioni. Memorie a tempo, dunque, come alternativa processuale alla “sindrome archeologica o storico artistica o legata all’estetica idealista dell’universalità-eternità-assolutezza dell’arte che fa pensare che musei e patrimoni sono ‘per sempre’ come i diamanti” (2002: 68). Complice la zuppa di pesce preparata prima di morire da Alex Ginsberg – da lui mangiata in parte e quindi riposta nel freezer e dai suoi eredi in seguito affidata al bizzarro Museum of Jurassic Technology di Los Angeles, che l’ha esposta però solo sino alla naturale scadenza, nel 2003 –, Clemente viene a comporre un apologo sul desiderio di eternizzare, di sopravvivere comunque con tenacia e sulla necessità di riconoscere fragilità e condizione effimera in noi, nelle nostre cose, nei ricordi e patrimoni81. Viene da rinforzare que81 Viene da richiamare, a mo’ di esempio di questo ambivalente sentire, il recente operato di un famoso collezionista romano (Domenico Ago- 206 sta riflessione di Clemente sul nostro ethos contraddittorio e dolente ricordando il Marvin Harris di America Now (1983), il quale lamentava come ormai gli oggetti non fossero più fatti per durare e che la nostra vita e i nostri pensieri vi si andassero adeguando. Oppure, segnalando come i supporti della scrittura abbiano subito un crescendo vorticoso di deperibilità che ormai sta allarmando gli archivisti. La carta moderna – quella che usiamo per scrivere – dato l’elevato tasso di acidità, tende a polverizzarsi dopo massimo cinquanta anni. Per la memoria digitale, il futuro è ancora più incerto: le trasformazioni degli strumenti tecnologici ci impongono continui riversamenti. Si pone inoltre il problema se non sia illusorio trasporre in digitale le principali biblioteche nazionali, se non sia impossibile conservare la traccia di tutti i siti web e dei nostri passaggi su internet, quando è ancora piuttosto difficile spostare su memorie esterne i nostri carteggi di posta elettronica. Certo, le ipotesi che si fanno segnalano ad un tempo l’impossibilità di una memoria totale e gli alti rischi di una conservazione selettiva che escluderebbe, guarda caso, il patrimonio di culture non egemoniche. Non ci resta dunque che vigilare sulle scelte che si fanno, accettando però la fatalità dei limiti posti alla nostra voracità di tutto conservare ed eternizzare. Una visione processuale del patrimonio permea di sé tutti i numeri di AM: si anima, ad esempio, nella testimonianza rilasciata da Bausinger (2003). Forte è il suo appello a non imbalsamare la cultura popolare nel cliché della tradizione, a non identificare il suo studio in relitti e sopravvivenze, censurando nessi e dinamiche con il mondo della tecnica, della modernizzazione, dell’immigrazione, privando di enfasi conoscitiva la dimensione quotidiana nelle sue realtà attuali, ritorna nell’intervista all’etnomusicologo Steven Feld (Feld - Ricci 2004) e nella richiesta di inserire organicamente nel patrimonio la contemporaneità espressa da popoli indigeni di varie parti del mondo (in AM, australiani e nordamericani), soprattutto attraverso gli artisti che reclamano attenzione per la produzione stinelli) che aveva deciso di murare dentro una stanza per almeno un secolo gli oggetti degli anni Cinquanta. Gli stanno facendo cambiare idea le imperiose richieste della Rai di poterle usare per costruire scenografie. 207 attuale e che minacciano di dislocare le opere al di fuori del contesto etnografico, a favore dell’ambito artistico. È proprio nella contemporaneità – che per gli antropologi resta una temporalità sostanzialmente ibrida, tanto è impastata di permanenze ed effetti di lunga durata – che, a quanto risulta da molti articoli da noi pubblicati, Arte e Antropologia stanno vivendo una nuova stagione di rapporti. Il patrimonio configura la terra di nessuno del loro fronteggiarsi. Hanno oggi una comune posta in gioco: tendono a sovrapporsi e scontrarsi nel tentativo di dare visibilità, rappresentazione, consistenza all’ordine di differenze culturali e alle loro connessioni possibili. Ciò che per tradizione era compito degli antropologi – accostare mondi che si descrivono in modo refrattario, che appaiono incommensurabili –, oggi è una prospettiva da definire contestualmente ogni volta, in quanto sempre più di sovente, in tema di alterità culturale, trasposizioni, traduzioni, ridefinizioni preferiscono definirsi artistiche e non etnografiche (si veda Macrì 2002). Che sia cresciuto a dismisura lo spazio del dissenso su cosa si debba definire cultura, identità, arte e artigianato, rito, festa82, su quali vantaggi artisti indigeni dovrebbero arrecare alla comunità, su cosa si possa e si debba legittimamente inserire in un museo, su quali voci privilegiare una volta sostituito il discorso impersonale, ecc. non dovrebbe ingenerare 82 Nel numero 9 di AM si trova il saggio di Roberta Tucci, Come salvaguardare il patrimonio immateriale? Il caso della scherma di Torrepaduli (2004-2005). In esso, la collega riporta in dettaglio i motivi di contrasto che, soprattutto via internet, alcuni nativi del Salento hanno espresso nei confronti degli invasori che, durante la festa di San Rocco, accorrerebbero al suono della pizzica, alterando senso e caratteri della loro festa tradizionale. Il problema è rilevante e riguarda l’opportunità o meno di esercitare una qualche forma di tutela e protezione nei confronti di una festa folklorica, di considerarla un organismo vivo da lasciare libero al flusso del suo possibile cambiamento. Evidentemente, la risposta non è semplice: attiene alla proprietà culturale dei beni immateriali, ai diritti di cittadinanza e di uso, al coinvolgimento di intellettuali locali, artisti e accademici in un’opera di documentazione che è anche costruzione di un canone, se non monitoraggio e talora orientamento. Dibattiti in parte già svolti, forse, qualche decennio fa (penso a un intervento di Tullio Seppilli sulla rappresentazione di Sega la Vecchia), che andrebbero ripresi, riletti e aggiornati anche alla luce dell’ormai esistente antropologia dei patrimoni. 208 senso di impotenza. La risposta che viene dagli articoli di AM è che la nuova museografia etnografica non teme il dissenso, bensì vi si alimenta: promuove ricerche che indagano – per metterli in scena – memorie problematiche, dilemmi etici e politici, punti di vista tra loro divergenti sui modi di attuare magari quella stessa museografia collaborativa (si veda la posizione di Ruth Phillips nell’intervista pubblicata su AM 2002-2003) che resta per noi un potente e ideale riferimento. Ne è un esempio la lucida analisi di Duclos (2002) sui problemi apertisi nella recente fase di collaborazione con gruppi etnici da parte del museo di Grenoble. Ci sono ancor più espliciti casi: quelli sardi, segnalati con sensibilità etnografica negli articoli di Da Re (2002-2003) (che menziona questioni che si aprono tra antropologo e comunità una volta realizzato un museo e relative alla scelta di non esporre alcuni oggetti donati) e di Caoci (2004) (che ricostruisce le interpretazioni in conflitto del progettista, del direttore, del sindaco, delle tessitrici su cosa dovrebbe accogliere e a chi dovrebbe portare vantaggio un museo locale); casi che documentano situazioni problematiche e che, per la ragionevolezza dei punti di vista contrapposti, forse meriterebbero di essere rappresentati o almeno evocati all’interno degli stessi spazi espositivi, così che il visitatore ne colga l’indissolubile legame con gli oggetti in mostra. Attraverso queste tracce di ricerca inscritte negli allestimenti, l’etnografia avrebbe il merito di rinnovare costantemente una visione processuale del patrimonio e dell’identità locale e conquisterebbe quella centralità che spesso i nostri musei le attribuiscono solo nominalmente. Riferimenti bibliografici Abruzzese, A. (1984), Produzione meccanica delle immagini e industria culturale, in L. Gavazzi, R. Leone, A. Margotta, R. Piccininni, S. Tozzi, a cura, Roma Capitale 1870 - 1911. Una città di pagina in pagina, Venezia, Marsilio, pp. 13-21. Agamben, G. (2008), Che cosa è il contemporaneo?, Roma, Nottetempo. Ames, M.M. (1986), Museums, the Public and Anthropology: A Study in the Anthropology of Anthropology, Vancouver, University of British Columbia Press. Ames, M.M. (1987), Free Indians from their Ethnological Fate: the Emergence of the Indian Point of View in Exhibitions of Indians, “Muse”, summer, pp. 14-19. Apolito, P. (1993), Il tramonto del totem. Osservazioni per un’etnografia delle feste, Milano, Angeli. Appadurai A. (1986), Introduction: Commodities and the Politics of Value in The Social Life of Things. Commodities in Cultural Perspective, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 3-63. Appadurai, A. (2001), Modernità in polvere, Roma, Meltemi. Appadurai, A. - Breckenridge, C.A. (1995), Musei per pensare. Il patrimonio dell’India in mostra, in I. Karp - C.M. Kreamer - S.D. Lavine, a cura, Musei e identità. Politiche culturali della collettività, Milano, Clueb. Appelbaum, R. (1997), Progettare il museo del XXI secolo, in L. Basso Peressut, a cura, Stanze della meraviglia. I musei della natura tra storia e progetto, Bologna, Clueb. Arpin, R. (1992), Le musée de la civilisation. Concept et pratiques, Quebec, Multimonde. Assmann, J. (1997), La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Torino, Einaudi. 260 Augé, M. (1993), Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera. Barbier-Bouvet, J.-F. (1989), Introduction, in E. Verón, s.d., Ethnographie de l’exposition. L’espace, le corps et le sens, Paris, Centre Georges Pompidou. Baron, R. - Spitzer, N. (1992), Public Folklore, Oxford, University Press of Mississippi. Barroso, E. - Vaillant, E. (1993), Musées et sociétés. Actes du colloque Mulhouse Ungersheim (1991). Répertoire analytique des musées: bilans et prjects (1980-1993), Direction des musées de France. Bateson, G. (1977), Verso un‘ecologia della mente, Milano, Adelphi. Bateson, G. (1984), Mente e Natura, Milano, Adelphi. Bateson, G. (1996), Questo è un gioco, Milano, Cortina. Baudrillard, J. (1986), L’America. Milano, Feltrinelli. Bauman, R. (1992) Contextualization, Tradition, and the Dialogue of Genres: Icelandic Legends of the Kraftaskld, in A. Duranti - C. Goodwin, a cura, Rethinking Context. Language as an Interactive Phenomenon, Cambridge, Cambridge Univ. Press. Bausinger, H. (2003), Incontro con Hermann Bausinger, “Antropologia Museale”, n. 4, pp. 6-11. Bausinger, H. (2006), Sportkultur, Tübingen, Attempto. Bennett, T. (1988), Museum and ‘The People’, in R. Lumley, a cura, The Museum Time Machine: Putting Cultures on Display, London, Routledge. Benjamin, W. (2001), Infanzia berlinese intorno al millenovecento. Ultima redazione (1938), Torino, Einaudi. Berlo, J.C. - Phillips, R.B. (1992), “Vitalizing the Things of the Past”: Museum Representations of Native North American Art in the 1990s, “Museum Anthropology”, n. 16, pp. 29-43. Berri, M. (1996), Tra collezionismo e antiquariato, in R. Mammucari, a cura, La campagna romana nell’arte dei XXV, Velletri, Tra 8 & 9, pp. 251-267. Bettelheim, B. (1954), Symbolic Wounds, Glencoe, The Free Press. Bettelheim, B. (1976), Il mondo incantato. Uso, importanza e significati delle fiabe, Milano, Feltrinelli. 261 Bettelheim, B. (1990), I bambini e i musei, in La Vienna di Freud, Milano, Feltrinelli, pp. 161-169. Bianco, C. - Del Ninno, M., a cura (1981), Festa. Antropologia e Semiotica, Firenze, Nuova Guarardi. Bonasegale, G. (2001), Immagini riflesse tra fotografia e pittura, in G. Piantoni, a cura, La Poesia del Vero. Pittura di paesaggio a Roma tra ottocento e novecento da Costa a Parisani, Roma, De Luca, pp. 20-28. Bourdieu, P. - Darbel, A. (1969), L’amour de l’art: les musées et leur public, Paris, Ed. de Minuit. Brandi, C. (1977), Teoria del restauro, Torino, Einaudi. Bravo, G. (1979), Cultura popolare e beni culturali. Problemi di ricerca e documentazione, Torino, Tirrenia-Stampatori. Bravo, G. - Tucci, R. (2006), I beni culturali demoetnoantropologici, Roma, Carocci. Bredekamp, H. (1996), Nostalgia dell’antico e fascino della macchina, Milano, Il Saggiatore. Bronzini, G.B. (1985), Homo laborans, Cultura del territorio e musei demologici, Galatina, Congedo. Bronzini, G.B. (1992), L’avventura etnomuseografica di G. Šebesta, “Lares”, n. 58, pp. 499-513. Bruner, J. (1986), Actual Minds, Possible Worlds, Cambridge, Harvard Univ. Press. Burcaw, G.E. (1975), Introduction to Museum Work, Nashville, The American Ass. for State and Local History. Buttitta, A. - Miceli, S. (1973), Ricerca deduttiva per un museo critico del mondo popolare, “Uomo e Cultura”, n. 6, pp. 11-12. Calvani, A. (1994), Iperscuola. Tecnologia e futuro dell’educazione, Padova, Muzzio Nuovo Millennio. Cameron, D. (1971), The Museum, a Temple or the Forum, “Curator”, anno XIV, n. 1, pp. 11-24. Candeloro, I. - Clemente, P. (2000), I beni culturali demoetno-antropologici, in N. Assini - P. Francalacci, a cura, Manuale dei Beni culturali, Milano, Cedam. Caoci, A. (2004), Il museo per l’arte del tessuto di Tzùffiu, “Antropologia Museale”, n. 8, pp. 12-19. Cardano, N. (1980), La mostra dell’Agro Romano, in G. Piantoni, a cura, Le Esposizioni in Roma nel 1911, Roma, De Luca, pp. 179-198. 262 Castellacci, C. - Sanvitale, P. (2004), Il tipografo mestiere d’arte, Milano, Il Saggiatore. Cavalcanti, O. (1990), Musei demo-etno-antropologici, in F. Sisinni - D. Bernini - F. Minissi, a cura, Museo oggi in Italia, Roma, CSR, pp. 26-32. Cavallo, B. (1987), La nozione giuridica di bene culturale, in F. Perego, a cura, Memorabilia: il futuro della memoria, Bari-Roma, Laterza, vol. I, pp. 12-20. Charuty, G., a cura (1995), Nel paese del tempo. Antropologia dell’Europa cristiana, Napoli, Liguori. Cirese, A.M. (1973), Cultura egemonica e culture subalterne, Palermo, Palumbo. Cirese, A.M. (1977), Oggetti segni musei. Sulle tradizioni contadine, Torino, Einaudi. Cleaver, J. (1988), Doing Children’s Museum. A Guide to 225 Hands-On Museums, Charlotte, Williams Publ. Clemente, P. (1982), I musei: appunti su musei e mostre a partire dalle esperienze degli studi demologici, in AA.VV., La storia: Fonti orali nella scuola, Venezia, Marsilio, pp. 141-155. Clemente, P. (1993), La ricerca nella prospettiva dei patrimoni culturali demo-etno-antropologici, in L. Prats - M. Iniesta, a cura, El Patrimonio etnologico, Actas del VI Congreso de Antropologia, Santa Cruz de Tenerife, pp. 13-38. Clemente, P. (1996), Graffiti di museografia antropologica italiana, Siena, Protagon. Clemente, P. (1997), Toscana, un turismo senza cultura, in E. Nocifora, Turismatica. Turismo, cultura, nuove imprenditorialità e globalizzazione dei mercati, Milano, Angeli, pp. 141-154. Clemente, P. (1999a), La postura del ricordante. Memorie, generazioni, storie della vita e un antropologo che si racconta, “Annuario del Centro Studi Franco Fortini”, Quodlibet, pp. 65-96. Clemente, P. (1999b), I confini del Museo, il museo dei confini: un viaggio nell’opera di una vita di Ettore Guatelli, in P. Clemente - E. Rossi, a cura, Il terzo principio della museografia, Roma, Carocci. Clemente, P. (2002), Zuppe, lepri e cannonate, “Antropologia Museale”, n. 2, pp. 67-70. 263 Clemente, P. (2002-2003), Zoppicando, ma per andare dove?, “Antropologia Museale”, n. 3, pp. 45-46. Clemente, P. (2006), Poetiche, “Antropologia Museale”, n. 14, pp. 72-74. Clemente, P. - Guatelli, E., a cura (1996), Il bosco delle cose. Il Museo Guatelli di Ozzano Taro, Parma, Guanda. Clemente, P. - Rossi, E., a cura (1999), Il terzo principio della museografia. Antropologia, contadini, musei, Roma, Carocci. Clifford J. (1985), Objects and Selves. An Afterword, in G.W. Stocking, a cura, Objects and Others. Essays on Museums and Material Culture, Madison, The University of Wisconsin Press. Clifford, J. (1989), Interview with Brian Wallis. “The Global Issue. A Symposium”, “Art in America”, pp. 86-87; 152153. Clifford, J. (1990), Notes on (Field)notes, in S. Sanjek, a cura, Fieldnotes. The Makings of Anthropology, Ithaca, Cornell University Press, pp. 47-70. Clifford, J. (1991), Four Northwest Coast Museums: Travel Reflections, in I. Karp - S.D. Lavine, a cura, Exhibiting cultures. The poetics and politics of museum display, Washington, Smithsonian Institution Press, pp. 212-54. Clifford, J. (1993), I Frutti puri impazziscono. Etnografia, Letteratura e arte nel secolo XX, Torino, Bollati Boringhieri. Clifford, J. (1999), Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Torino, Bollati Boringhieri. Clifford, J. (2000), Oggetti e sé. Una nota a margine, in G.W. Stocking jr., a cura, Gli oggetti e gli altri. Saggi sui musei e sulla cultura materiale, Roma, Ei Editore. Clifford, J. - Marcus, G.E., a cura (1997), Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia, Roma, Meltemi. Colombo, F. (1994), Effetto Italia, “La Repubblica”, 5.10.1994, pp. 34-35. Corso, R. (1942), Etnografia. Prolegomeni, Napoli, Pironti. Corso, R. (1946), Folklore: storia, obiettivi, metodo, bibliografia, Napoli, Pironti. Cossa, E. - Schlinkert, G., a cura (2002), Ibridaafrica, Catalogo della mostra, Roma, Gangemi. D’Annunzio, G. [Il Duca Minimo] (1885), Demolizioni e Restauri, “La Tribuna”, 12 maggio. 264 Da Re, M.G. (2002-2003), Riflessioni dopo un sogno. Il Museo “Sa Domu de is Ainas”, “Antropologia Museale”, n. 3, pp. 27-32. Dagognet, F. (1994), Le musée sans fin, Champ Vallon, Seyssel. Darton, R. (1988), Il grande massacro dei gatti, Milano, Adelphi. Davallon, J. (1986), Claquemurer, Pour Ainsi Dire, Tout L’univers: La Mise En Exposition, Paris, Centre Georges Pompidou, Centre de création industrielle. de Certeau, M. (2001), L’invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni Lavoro. de Martino, E. (1975), Mondo popolare subalterno, civiltà moderna, etnologia (Prospettive e polemiche), in R. Brienza, a cura, Mondo popolare e magia in Lucania, Basilicata editrice, Roma-Matera, pp. 31-50. Dean, D. (1994), Museum Exhibition: Theory and Practice, London, Routledge. Dei, F. (2002a), Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura popolare, Roma, Meltemi. Dei, F. (2002b), Antropologia critica e politiche del patrimonio, “Antropologia Museale”, n. 2, pp. 34-37. Deni, M. (2002), Oggetti in azione. Semiotica degli oggetti: dalla teoria all’analisi, Milano, Angeli. Desvallées, A., a cura (1992), Vagues. Une anthologie de la nouvelle muséologie, Macon, W, M.N.E.S. Desvallées, A. (1995), Emergence et cheminements du mot patrimoine, “Musées et Collections Publiques de France”, n. 208, pp. 6-29. Di Puolo, M. (1994), Il Grande Cugino e la Grande Sorella, “Il giornale dell’arte”, n. 120, p. 29. Duclos, J.-C. (1992), Pour des musées de l’homme et de la société, “Le Débat”, n. 70, pp. 174-178. Duclos, J.-C. (2002), La ricerca etnologica e il museo, “Antropologia Museale”, n. 2, pp. 23-27. Duranti, A. (1997), Linguistic Anthropology, Cambridge, Cambridge University Press. Eco, U. (1962), Opera aperta, Milano, Bompiani. Eco, U. (1963), Diario Minimo, Milano, Bompiani. Eco, U. (1973), Il costume di casa. Evidenze e misteri dell’ideologia italiana, Milano, Bompiani. 265 Eco, U. (1977), Dalla periferia dell’impero, Milano, Bompiani. Eco, R. (1986), A scuola col museo, Milano, Bompiani. Eco, U. (1988), Intervento, in U. Eco, F. Zeri, R. Piano, A. Graziani, Le isole del Tesoro. Proposte per la riscoperta delle risorse culturali, Milano, IBM Italia. Eco, U. (1990), I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani. Eco, U. (1995), Interpretazione e sovrainterpretazione: Un dibattito con Richard Rorty, Jonathan Culler e Christine Brooke-Rose, Milano, Bompiani. Fabietti, U. (1995), L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Roma, NIS. Fabre, D., a cura (1993), Ecritures ordinaires, Paris, Centre Georges Pompidou. Faeta, F. (1989a), Le Figure Inquiete: Tre Saggi Sull’immaginario Folklorico, Milano, Angeli. Faeta, F. (1989b), Museo demologico di San Giovanni in Fiore. Bilancio e prospettive, “Musei e Gallerie d’Italia, Museo e demoantropologia”, n. 7-8, pp. 27-33. Faeta, F. (1995), Strategie dell’occhio. Etnografia, antropologia, media, Milano, Angeli. Faldella, G. (1957), Roma Borghese, Rocca San Casciano, Cappelli. Fanfara, E. (1994), Biografie femminili e isteria nell’Ottocento. Note per una lettura antropologica del fenomeno, in F.F. Bernardini, A. Iaria, A. Bonfigli, a cura, L’ospedale dei pazzi di Roma dai papi al ‘900, vol. II: Lineamenti di assistenza e cura a poveri e dementi, Bari, Dedalo, pp. 185-201. Featherstone, M. (1994), Cultura del consumo e postmodernismo, Roma, Seam. Feixa, C. (1993), La ciudad en la antropología mexicana, Espai Temps, Universitat de Lleida. Feld, S. - Ricci, A. (2004), Musica, antropologia, popoli indigeni, “Antropologia Museale”, n. 8, pp. 37-42. Ferraris, M. (1983), Invecchiamento della “scuola del sospetto”, in G. Vattimo - P.A. Rovatti, a cura, Il pensiero debole, Milano, Feltrinelli, pp. 120-136. Fisher, M.M.J. - Marcus, G.E. (1986), Anthropology as Cultural Critique. An Experimental Moment in the Human Sciences, Chicago, University of Chicago Press. 266 Fjellman, S.M. (1992), Vinyl Leaves. Walt Disney World and America, Boulder, Westview Press. Foresta Martin, F., a cura (1985), Vedere l’invisibile. Ipotesi per un museo della scienza, Roma, Oberon. Forni, G. (1992), Ricerche storico-antropologiche sulla filogenesi del museo di storia della cultura tradizionale, “Lares”, Anno LVIII, n. 4, pp. 525-572. Forni, G. - Pisani, F. - Togni, R. (1997), Guida dei musei etnografici italiani, Firenze, Leo Olschki. Foucault, M. (1994), Eterotopia, in “Millepiani”, Michel Foucault. Eterotopia. Luoghi e non luoghi metropolitani, Milano, Mimesis, pp. 9-22. Gallini, C. (1980), La festa, “Enciclopedia del teatro del ‘900”, Milano, Feltrinelli, pp. 416-421. Gallini, C. (1988), La ballerina variopinta. Una festa di guarigione in Sardegna, Napoli, Liguori. Gallini, C. (1996), Giochi pericolosi, Roma, Manifesto. Gallini, C. (2003), Patrie Elettive, Torino, Bollati Boringhieri. Gallini, C. - Faeta, F., a cura (1999), I viaggi nel Sud di Ernesto de Martino, Torino, Bollati Boringhieri. Geertz, C. (1987), Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino. Geertz, C. (1988), Arte come sistema culturale, in Antropologia interpretativa, Bologna, Il Mulino. Geertz, C. (1995), Dopo i fatti, Bologna, Il Mulino. Gentile, C. (1996), La museografia etnografica in Europa e in Italia, “Didascalie”, Museo degli Usi e Costumi delle Genti Trentine, n. 6, pp. 6-10. Ghidetti, E., a cura (1979), Roma Bizantina, Milano, Longanesi. Goffman, I. (1975), Frame Analysis, Harmondsworth, Penguin. Grassigli, G.L. (2004), Catalfaro, Italia, “Antropologia Museale”, n. 8, pp. 66-68. Greenblatt, S. (1995), Risonanza e meraviglia, in I. Karp e S. Lavine, a cura, Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, Bologna, Clueb, pp. 27-45. Gruppo della Stadura (1985), Dalla Stadura al Museo. Un’esperienza alla base della nuova museografia rurale, Bologna - S. Marino di Bentivoglio, Unigraphis. 267 Guatelli, E. - Candelari, P. (1988), Il museo del tempo, Parma, Segea. Guerzoni, G. (2002), Introduzione, “La stanza delle meraviglie”, Catalogo della mostra, Castello di Masino, Torino, FAI, pp. 13-25. Guibal, J. - Laurent, J-P. (1984), L’ethnologie urbaine au Musée: Chronique d’une expérience, Le Monde Alpin et Rhodanien, n. 3-4, pp. 201-212. Hainard, J. - Kaehr, R., a cura (1984), Objets prétextes, objets manipulés, Musée d’ethnographie, Neuchâtel. Handler, R. (1992), On the Valuing of Museum Objects, “Museum Anthropology”, n. 16, pp. 21-28. Handler, R. (1993), An Anthropological Definition of the Museum and its Purpose, “Museum Anthropology”, n. 17, pp. 33-36. Handler, R. (2000), Avere una cultura. Nazionalismo e preservazione del Patrimoine del Quebec, in G.W. Stocking jr., a cura, Gli oggetti e gli altri. Saggi sui musei e sulla cultura materiale, Roma, Ei Editore. Harris, M. (1983), America now. I modi di vivere e di pensare, le paure e le speranze di una società che cambia, Milano, Feltrinelli. Hein, H. (1990), The Exploratorium. The museum as laboratory, Washington, Smithsonian Institution Press. Herzfeld, M. (1999), Anthropology through the Looking Glass. Critical Ethnography in the Margins of Europe, Cambridge, Cambridge University Press. Hooper-Greenhill, E. (1991), The museum in the disciplinary society, in S. Pearce, a cura (1991a), Museum Studies in Material Culture, Washington, Smithsonian Institution Press, pp. 61-72. Hooper-Greenhill, E. (2005), I musei e la formazione del sapere, Milano, Il Saggiatore. Horkheimer, M. (2001), La nostalgia del totalmente altro, Brescia, Queriniana. I.C.O.M. (2004), Code de déontologie professionnelle de l’I.C.O.M., Paris, pp. 22-35. Iannazzi, U. (2004), Arce, Gente di Ciociaria. Il museo ferito, “Antropologia Museale”, n. 8, pp. 50-51. Iniesta, M. (1994), Els gabinet del mon. Antropologia, museus i museologies, Lleida, Pagès. 268 Iniesta, M. - Prats, L., a cura (1993), El Patrimonio etnologico, Actas del VI Congreso de Antropologia, Santa Cruz de Tenerife. Jameson, F. (1989), Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano, Garzanti. Jannattoni, L. (1968), Bocca Romana, Roma, Palombi. Jenkinson, P. (1991), Material Culture, People’s History and Populism, in S. Pearce, a cura, Museum Studies in Material Culture, Washington, Smithsonian Institution Press, pp. 139-152. Jesi, F. (1977), La festa. Antropologia, etnologia, folklore, Torino, Rosemberg & Sellier. Jeudy, H.P. (1995), Entre mémoire et patrimoine, “Ethnologie française”, anno XXV, n. 1, pp. 5-6. Jonaitis, A., a cura (1991), Chiefly Feasts. The Enduring Kwakiutl Potlatch, Seattle, American Museum of Natural History & University of Washington Press. Jordanova, L. (1989), Object of Knowledge: A Historical perspective on Museums, in P. Vergo, a cura, The New Museology, London, Reakton Book, pp. 22-40. Karp, I. - Lavine, S.D., a cura (1991), Exhibiting cultures. The poetics and politics of museum display, Washington, Smithsonian Institution Press. Kelly, M. (1994), Scholarship versus Showmanship at Hawaii’s Bishop Museum: Reflections of Cultural Hegemony, “Museum Anthropology”, n. 18, pp. 37-48. Kezich, G. - Turci, M., a cura (1996), L’invenzione dell’identità e la didattica delle differenze, Milano, ET. Kinard, J. (1992), Intermédiaires entre musée et communauté, in A. Desvallées, a cura, Vagues. Une anthologie de la nouvelle muséologie, Macon, W, M.N.E.S., pp. 99-108. Kirshenblatt-Gimblett, B. (1998), Destination Culture. Tourism, Museums, and Heritage. Berkeley, University of California Press. Korff, G. (2003), Estraneo e museo, “Antropologia Museale”, n. 5, pp. 22-27. Lanternari, V. (1977), Crisi e ricerca d’identità, Napoli, Liguori. Lanternari, V. (1983), Festa, Carisma, Apocalisse, Palermo, Sellerio. Latour, B. (1990), Drawing Things Together, in M. Lynch - S. 269 Woolgar, a cura, Representation in Scientific Practice, Cambridge, Mit Press. Latour, B. (1998), Fatti, Artefatti e Fatticci, in M. Nacci, a cura, Oggetti d’uso quotidiano. Rivoluzioni tecnologiche nella vita d’oggi, Venezia, Marsilio. Lattanzi, V. (1990), Competenze antropologiche e tutela dei beni etnografici, “Lares”, a. LVI, n. 3, luglio-settembre, pp. 453-467. Lattanzi, V. (1993), Ethnographic Museums and Forms of Anthropological Communications, “Yearbook of Visual Anthropology”, n. 1. Lattanzi, V. (2000), Beni demo-etno-antropologici, in “Appendice 2000”, Enciclopedia Italiana Treccani, vol. I, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, pp. 171-174. Lattanzi, V. (2002-2003), Dilemmi e compimenti, “Antropologia Museale”, n. 3, pp. 43-45. Laurent, J.P. (1988), Tables Rondes du 1 salon de la muséologie, 1986, M.N.E.S. Leone, R. (1984), Tra le riviste d’arte, in L. Gavazzi, R. Leone, A. Margotta, R. Piccininni, S. Tozzi, a cura, Roma Capitale 1870 - 1911. Una città di pagina in pagina, Venezia, Marsilio, pp. 175-198. Lévi-Strauss, C. (1965), Tristi tropici, Milano, Il Saggiatore. Lo Sardo, E. (2001), Athanasius Kircher. Il museo del mondo. Macchine, esoterismo, arte, Roma, De Luca. Lombardi Satriani, L.M. (1974), Menzogna e verità nella cultura contadina del Sud, Napoli, Guida. Lombardi Satriani, L.M. (1989), Cultura dell’oblio e ricerca demologica, “Musei e Gallerie d’Italia, Museo e demoantropologia, n. 7-8, pp. 7-11. Loria, L. - Mochi, A. (1906), Sulla raccolta di materiali per la etnografia italiana, Firenze. Lugli, A. (1990), Naturalia et Mirabilia. Il collezionismo enciclopedico nelle Wunderkammern d’Europa, Milano, Mazotta. Lugli, A. (1992), Museologia, Milano, Jaca Book. Lyotard, J.-F. (1981), La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli. Macpherson, C.B. (1976), Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke, Milano, Isedi. 270 Macrì, T. (2002), Postculture, Roma, Meltemi. Maffi, M. (1992), Nel mosaico della città. Differenze etniche e nuove culture in un quartiere di New York, Milano, Feltrinelli. Manganaro, M., a cura (1990), Modernist Anthropology: From Fieldwork to Text, Princeton, Princeton University Press. Manghi, S., a cura (1997), Attraverso Bateson. Ecologia della mente e relazioni sociali, Milano, Cortina. Marcus, G.E. (1986), Contemporary Problems of Ethnography in the Modern World System, in J. Clifford - G.E. Marcus, Writing Culture, Berkeley, University of California Press, pp. 165-193. Marcus, G. - Myers, G., a cura (1995), The Traffic of Culture. Refiguring Art and Anthropology, Berkeley, University of California Press. Mauss, M. (1969), Manuale di etnografia, Milano, Jaca Book. Mead, M. (1972), Generazioni in conflitto, Milano, Rizzoli. Menarini, R. - Padiglione, V., a cura (1978), Il miracolo della Vergine delle Tre Fontane, in F. Saja, a cura, Questione meridionale. Religione e classi subalterne, Napoli, Guida. Merriman, N. (1989), Museum Visiting as a Cultural Phenomenon, in P. Vergo, a cura, The New Museology, London, Reakton Book, pp. 149-171. Messenger, P., a cura (1991), The Ethics of Collecting Cultural Property. Whose Culture? Whose Property?, Albuquerque, University of New Mexico Press. Metalli, E. (1903), Usi e costumi della campagna romana. Con disegni originali di Duilio Cambellotti, Roma, NER. Minelli, M. (2004), Il linguaggio delle “cose culturali”, “Antropologia Museale”, n. 8, pp. 61-66. Minicuci, M. (2000), Osservare, raccontare, proporre. Linee per la costituzione di un centro di documentazione della Riforma fondiaria, in F. Remotti, a cura, Memoria, Terreni, Musei. Contributi di Antropologia, Archeologia, Geografia, Alessandria, Dell’Orso. Mochi, A. (1902), Per l’etnografia italiana, “Archivio per l’antropologia e l’etnologia”, n. 32, pp. 642-646. Munn, N.D. (1992), The Cultural Anthropology of Time: A Critical Essay, “Annual Review of Anthropology”, Vol. 21, pp. 93-123. 271 Myrdal, G. (1973), L’obiettività nelle scienze sociali, Torino, Einaudi. Nobili, C. (1994a), Dall’analogia al dialogo in museo: plurivocalità, sovranità culturale, processo di repatriation, “Lares”, n. 1, pp. 89-98. Nobili C. (1994b), La rappresentazione antropologica museale e i nuovi soggetti storici, “Annali del Museo di San Michele all’Adige”, n. 7, pp. 131-148. Ortega y Gasset, J. (1991), Burlador de Sevilla, “Lettera Internazionale”, luglio, rist. parz. in La Repubblica, 30.6.1991, pp. 30-1. Padiglione, V. (1977), In margine al dibattito sul folklore, “La Critica Sociologica”, n. 43, pp. 95-111. Padiglione, V. (1984), La festa e il suo opposto: note antropologiche sulla condizione festiva nella società post-industriale”, “Idoc”, n. 6-7, pp. 61-68. Padiglione, V., a cura (1986), Introduzione, in Gente del Circo, bestiari ed altra umanità, Roma, Armando, pp. 1-135. Padiglione, V. (1989), Antropologia della organizzazione: strumento analitico o codice espressivo, “Rivista di Psicologia Clinica”, n. 3, pp. 328-347. Padiglione, V. (1994), Musei e patrimoni: esercizi a decostruire, “Antropologia museale. Annali del Museo di San Michele all’Adige”, n. 7, pp. 149-174. Padiglione, V. (1995), Per una centralità dell’etnografia nei musei, “Etnoantropologia”, n. 3-4, pp. 238-247. Padiglione, V. (1996), Presentazione, in A.A.V.V., L’invenzione dell’identità e la didattica delle differenze, Atti del convegno della Sezione di Antropologia museale dell’Aisea, Milano, Edizione ET, pp. 13-26. Padiglione, V. (1997a), Interpretazione e differenze. La pertinenza del contesto, Roma, Kappa. Padiglione, V. (1997b), Visualizzare un pensiero: la cinematografia demartiniana, “Ossimori”, n. 8, pp. 69-74. Padiglione, V. (1998a), L’effetto cornice. Le mediazioni del patrimonio e la competenza antropologica, “Etnoantropologia”, n. 6-7, pp. 137-154. Padiglione, V. (1998b), Musei e antropologia, “Ossimori”, n. 9-10, pp. 126-128. Padiglione, V. (2001a), Due paradossi e un autore: Bateson e 272 la svolta riflessiva, in A. Cotugno e G. Di Cesare, a cura, Territorio Bateson, Roma, Meltemi, pp. 88-118. Padiglione, V. (2001b), “Ma chi mai aveva visto niente”. Il Novecento, una comunità, molti racconti, Catalogo EtnoMuseo Monti Lepini, Roma, Kappa, pp. 1-181. Padiglione, V. (2002a), Piccoli etnografici musei, “Antropologia Museale”, n. 1, pp. 20-40. Padiglione, V. (2002b), Demo cosa?, “Antropologia Museale”, n. 2, p. 5. Padiglione, V. (2002-2003), Dalla lingua biforcuta dell’antropologo museale, “Antropologia Museale”, n. 3, pp. 4749. Padiglione V. (2005), Pittori della crisi: valenze patrimoniali e pratiche rituali, in N. Cardano e A.M. Damigella, a cura, Accademia Nazionale di San Luca. La Campagna Romana de “XXV”, Roma, De Luca. Padiglione, V. (2006), Storie contese e ragioni culturali, Catalogo del Museo del Brigantaggio di Itri, Itri, Odisseo, pp. 1-236. Padiglione, V. - Gatti, S. (2000), Representar la tragèdia: l’estil passional dels museus de la Resistéencia, “L’Avenc. Historia, Cultura, Pensament”. Palumbo, B. (2000), Vita sociale di musei locali, in F. Remotti, a cura, Memoria, Terreni, Musei. Contributi di Antropologia, Archeologia, Geografia, Alessandria, Dell’Orso. Palumbo, B. (2002), Patrimoni-identità: lo sguardo di un etnografo, “Antropologia Museale”, n. 1, pp. 14-19. Palumbo, B. (2002-2003), Fabbricare alieni, “Antropologia Museale”, n. 3, pp. 33-43. Palumbo, B. (2003), L’Unesco e il campanile. Antropologia, politica e beni culturali in Sicilia orientale, Roma, Meltemi. Parisella, A. (1980), Fuori dalla scena: le classi popolari e l’Esposizione del 1911, in G. Piantoni, a cura, Le Esposizioni in Roma nel 1911, Roma, De Luca, pp. 52-67. Pearce, S. (1990), Objects of Knowledge. New Research in Museum Studies, London, The Athlone Press. Pearce, S., a cura (1991a), Museum Studies in Material Culture, Washington, Smithsonian Institution Press. Pearce, S. (1991b), Introduction: Museum Studies in Material Culture, in S. Pearce, a cura, Museum Studies in Material 273 Culture, Washington, Smithsonian Institution Press, pp. 1-10. Pearce, S. (1991c), Object in Structures, in S. Pearce, a cura, Museum Studies in Material Culture, Washington, Smithsonian Institution Press, pp. 47-59. Perego, F., a cura (1987), Memorabilia: il futuro della memoria, Bari-Roma, Laterza. Pezza, S. (2006), Riflessivo dicesi di museo, “Antropologia Museale”, n. 14, pp. XII-XIII. Phillips, R. (2002-2003), Incontro con Ruth Phillips, “Antropologia Museale”, n. 3, pp. 6-17. Pierucci, C. (1984), Il Museo etnografico. Le ragioni di un’istituzione, Roma, La Goliardica. Pizza, G. (2004), Un nuovo modo di essere gramsciani, “Antropologia Museale”, n. 8, pp. 57-61. Pomian, K. (1987), Collectionneurs, amateurs et curieux, Gallimard, Paris. Pomian, K. (1989), Collezionisti, amatori e curiosi. Parigi - Venezia XVI-XVIII secolo, Milano, Il Saggiatore. Pommier, E. (1991), Prolifération du musée, “Le Débat”, n. 65, pp. 144-149. Poni, C. (1985), Un archivio popolare, in Gruppo della Stadura, Dalla Stadura al Museo. Un’esperienza alla base della nuova museografia rurale, Bologna - S. Marino di Bentivoglio, Unigraphis. Prats, L. (1993), De le Primeres Jornadas sobre el Patrimonio Etnológico, in AA.VV, Sobre el Patrimonio Etnológico a les Terres de Ponent i l’Alt Pirineu, Lleida, Ass. cat. del patrimonio etnològic, Univ. Lleida, pp. 5-13. Prats, L. (1997), Antropologia y patrimonio, Barcelona, Ariel. Praz, M. (1946), La carne, la morte, il diavolo nella letteratura romantica, Firenze, Sansoni. Price, S. (1992), I primitivi traditi. L’arte dei selvaggi e la presunzione occidentale, Torino, Einaudi. Price, S. - Price, R. (1994), Ethnicity in a Museum Case: France’s Show-Window in the Americas, “Museum Anthropology”, n. 18, pp. 3-15. Puccini, S., a cura (1991), L’uomo e gli uomini. Scritti antropologici italiani dell’Ottocento, Roma, CISU. Puccini, S. (1998), Il corpo, la mente e le passioni, Roma, CISU. 274 Puccini S. (2005), L’Itala Gente dalle molte vite, Roma, Meltemi. Remotti, F. (1990), Noi primitivi, Torino, Bollati Boringhieri. Remotti, F. (1996), Contro l’identità, Bari, Laterza. Remotti, F. (2000), Introduzione, in Memoria, Terreni, Musei. Contributi di Antropologia, Archeologia, Geografia, Alessandria, Dell’Orso. Remotti, F., a cura (2000), Memoria, Terreni, Musei. Contributi di Antropologia, Archeologia, Geografia, Alessandria, Dell’Orso. Remotti, F. (2003), Luoghi di memoria, luoghi di oblio, “Antropologia Museale”, n. 5, pp. 5-6. Ricoeur, P. (1967), Nietzsche, Freud, Marx, “Cahiers de Royaumont”, n. 6, pp. 182-192. Rigoli, A. (1984), Metodo etno-storico e cultura materiale, in AA.VV., I Mestieri. Organizzazione, tecniche, linguaggi, “Quaderni del CSS”, Palermo. Rorty, R. (1994), Scritti filosofici, A.G. Gargani, a cura, RomaBari, Laterza. Rosaldo, R. (1989), Culture & Truth. The Remaking of Social Analysis, Boston, Becon Press. Rosati, C. (2004), Valorizzazione, “Antropologia Museale”, n. 8, pp. 34-36. Sahlins, M. (1982), Cultura e utilità, Milano, Bompiani. Saunders, G. (1993), “Critical Ethnocentrism” and the Ethnology of Ernesto de Martino, “American Anthropologist”, n. 95, pp. 875-893. Saunders, G. (1995), The Crisis of Presence in Italian Pentecostal Conversion, “American Ethnologist”, n. 22, pp. 324-340. Schildkraut, E. (1991), Ambiguous Messages and Ironic Twists: Into the Heart of Africa and the Other, “Museum Anthropology”, n. 15:2, pp. 16-23. Šebesta, G. (1991), Scritti etnografici, San Michele all’Adige, Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina. Settis, S. (2002), Italia S.p.a. L’assalto al patrimonio culturale, Torino, Einaudi. Shelton, A.A. (1995), Introduction: Object Realities, “Cultural Dynamics”, (“Museum and Changing Perspectives of Culture”), vol. 1, March, pp. 5-14. 275 Sobrero, A.M. (1999), L’antropologia dopo l’antropologia, Roma, Meltemi. Solinas, P.G. (1989), Presentazione, in Oggetti esemplari, Montepulciano, Del Grifo. Sombart, W. (1891), La Campagna Romana. Studio economico sociale, Torino, Loescher. Sorensen, C. (1989), Theme Parks and Time Machines, in P. Vergo, a cura, The New Museology, London, Reakton Book, pp. 60-73. Stocking, G., a cura (1985), Objects and Others, “History of Anthropology”, vol. 3, Madison, University of Wisconsin Press. Strinati, C. (1996), Dalla terza saletta all’omnibus, in R. Mammucari, a cura, La campagna romana nell’arte dei XXV, Velletri, Tra 8 & 9, pp. 269-277. Swift, J. (1913) [1726], I Viaggi di Gulliver, Roma, Ed. Formiggini. Tittoni, M.E. (2002), Diego Angeli, pittore per sé, in P.A. De Rosa e P.E. Trastulli, a cura, La Campagna Romana da Hackert a Balla, Roma, Ed. De Luca. Tozzi Fontana, M. (1984), I musei della cultura materiale, Roma, Nis. Trigari, I. (1985), Dalla Stadura al Museo, San Marino di Bentivoglio, Gruppo della Stadura. Tucci, R. (2002), Contadini, pastori, butteri nella campagna romana: una lettura antropologica delle opere in mostra, in P.A. De Rosa e P.E. Trastulli, a cura, La Campagna romana da Hackert a Balla, Roma, ed. Studio Ottocento / De Luca, pp. 63-70. Tucci, R. (2004-2005), Come salvaguardare il patrimonio immateriale? Il caso della scherma di Torrepaduli, “Antropologia Museale”, n. 9, pp. 25-31. Turci, M. (1994), Museo d’antropologia. I luoghi della rappresentazione fra oggetti e vicinanza, “Annali del Museo di San Michele all’Adige”, n. 7, pp. 193-208. Tyler, S. (1986), Post-Modern Ethnography: From Document of the Occult to Occult Document, in J. Clifford - G.E. Marcus, a cura, Writing Cultures, Berkeley, University of California Press, pp. 122-140. Vattimo, G. (1994), Oltre l’interpretazione, Bari-Roma, Laterza. 276 Veo, E. (1929), Roma Popolaresca, Roma, Universale Poliglotta. Verdier, Y. (1980), Le petit chaperon rouge dans la tradition orale, “Le debat”, n. 3, pp. 31-56. Vergo, P., a cura (1989), The New Museology, London, Reakton Book. Veron, E. - Levasseur, M. (1989), Ethnographie de l’exposition: l’espace, le corps et le sens, Paris, Centre Georges Pompidou. Wilson, D. (2002), The Museum of Jurassic Technology. Primi Decem Anni, Jubilee Catalogue, Los Angeles, publ. by the Trustees - The Museum of Jurassic Technology. Zanazzo, G. (1881), A la mi’ regazza. Poesie romanesche, Velletri, Pio Stracca tipografo editore. Zanazzo, G. (1907), Novelle, Favole e Leggende romanesche, Torino - Roma, Soc. Tip. Editrice Nazionale. Zanazzo, G. (1976), Poesie romanesche, G. Orioli, a cura, Roma, Newton Compton. l fatale populismo dei musei etnografici e la loro riconosciuta opera di democratizzazione della cultura ne fanno, a buon diritto, un esempio di arte pubblica tra i più significativi della scena contemporanea. In particolare ai “piccoli etnografici musei” è riconosciuta, per origine, una valenza etico-politica e un impegno non recente e non improvvisato a favore della massima accessibilità. Per statuto, la loro missione è di mettere la memoria locale di generazioni passate al servizio dello sviluppo sociale e culturale delle generazioni future, trasformando in un kit di sopravvivenza, a disposizione di tutti, un articolato savoir faire relativo all’agricoltura, alla pastorizia, all’alimentazione, all’artigianato, al vivere associato: ricette ingegnose di vita, sperimentate a lungo in quel luogo e, di colpo, sopraffatte dalla modernizzazione. Lo sguardo del museo etnografico non è soltanto rivolto all’indietro: è anche impegnato ad operare in avanti, a slargare orizzonti, a forzare incontri culturali defamiliarizzanti, a diffondere – grazie a comparazioni antropologiche e coinvolgimento di nuovi immigrati – quelle spezie morali, quei frammenti di esperienza che si possono apprendere da altre culture e che rendono più riflessiva e meno uniforme la nostra appartenenza locale in un’epoca di flussi globali. La contemporaneità sta sollecitando ad un’inedita alleanza il campo delle scienze demoetnoantropologiche e quello delle arti, torcendo nella direzione dell’etica civile e pubblica la documentazione e la sperimentazione estetica. Vincenzo Padiglione è professore alla Sapienza Università di Roma, dove insegna Antropologia culturale, Antropologia museale, Etnografia della comunicazione, Antropologia del patrimonio. Ha tenuto corsi su antropologia e musei presso università straniere (Brasile, USA, Spagna e Francia). Ha svolto ricerche nell’area del Mediterraneo su identità locale e patrimonio culturale, amicizia maschile, familismo e relazione uomo-animale nella caccia e nella pastorizia. Ha progettato e curato l’allestimento di: EtnoMuseo Monti Lepini (Roccagorga LT); Museo del Brigantaggio (Itri - LT); Ludus - Museo Etnografico del Giocattolo (Sezze - LT); Museo del Brigantaggio dell’Alto Lazio (Cellere - VT), in coll. con F. Caruso; Museo delle Terre di Confine (Sonnino - LT), in coll. con V. Lattanzi; Museo delle Scritture (Bassiano - LT); Museo dell’Infiorata (Genzano - RM). È membro del direttivo della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (Simbdea) e direttore della rivista quadrimestrale AM - Antropologia museale. Ha realizzato mostre, video etnografici e pubblicato saggi e libri, tra i quali, Il cinghiale cacciatore. Antropologia simbolica della caccia in Sardegna (Roma 1989); Interpretazioni e differenze. La pertinenza del contesto (Roma 1997); Ma chi mai aveva visto niente. Catalogo dell’EtnoMuseo / Monti Lepini (Roma 2002); in coll. con A. Riccio, Preghiere e grazie. Per una etnografia delle forme di religiosità popolare contemporanea (Roma 2004); Storie contese e ragioni culturali. Catalogo del Museo del Brigantaggio (Itri 2006); Tra casa e bottega. Passioni da etnografo (Roma 2007); in coll. con S. Giorgi, Etnografi in famiglia. Relazioni, luoghi, riflessività (Roma 2009). -LL