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VINCENZO PADIGLIONE
Spezie morali
e kit di sopravvivenza
VINCENZO PADIGLIONE
Poetiche
dal museo etnografico
Spezie morali
e kit di sopravvivenza
ISBN 978-88-7586-290-9
II Edizione - 2010
© 2008 Editrice La Mandragora s.r.l.
Via Selice, 92 - 40026 Imola (Bo) Italy
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I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento totale o parziale,
con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche),
sono riservati per tutti i paesi.
Foto di copertina: Ritratto di comunità (EtnoMuseo Monti Lepini, Roccagorga - LT, 26 luglio 1992).
Indice
Introduzione - Luoghi profetici.......................................... 7
Museo: un genere di successo
L’invisibile che è di casa nei musei ........................................ 23
Musei: esercizi a decostruire già operanti e per volenterosi .. 35
Del buon uso dello stupore .................................................. 77
Antropologia museale riflessiva
Lingua biforcuta: una risorsa riflessiva .................................. 89
Per una centralità dell’etnografia nei musei.......................... 93
Old & New Museology ....................................................... 107
Etnografico nome di museo .............................................. 127
Piccoli etnografici musei .................................................... 141
Un genere emergente: i musei interpretativi ...................... 159
Laddove tutte le parole sono concrete ............................... 167
Patrimoni in movimento
Quale ricerca .....................................................................
Interpretazioni del patrimonio culturale .............................
L’effetto cornice. Criteri di mediazione antropologica del
patrimonio .........................................................................
Pittori della crisi: valenze patrimoniali e pratiche rituali.......
183
191
209
225
Conclusione - Tesi in discussione .................................... 249
Riferimenti bibliografici .................................................. 259
Interpretazioni
del patrimonio culturale*
Tre visioni in contrasto
Nell’arco del XX secolo, nel passaggio dal moderno al postmoderno, si sono avvicendate in sequenza tre differenti concezioni del bene da sottoporre a disciplina pubblicistica, ovvero di ciò che costituisce l’eredità culturale (patrimonio ha il
suo etimo in pater) da salvaguardare e valorizzare. Le ritroviamo intrecciate e confuse nell’attuale legislazione italiana,
in particolare nelle indicazioni emerse dalla Commissione
Franceschini della fine degli anni Sessanta79. Questa norma* Il testo riproduce, almeno in parte, la mia relazione alle Giornate di
studio: “Identità, Mediterraneo, Mediazione del Patrimonio” (Chianciano, Siena, 17-19 ottobre 1997). Il seminario è stato promosso da
un gruppo di lavoro (Pietro Clemente, Francesco Faeta, Vito Lattanzi
e il sottoscritto), costituitosi sul tema dell’antropologia del patrimonio,
anche in vista della realizzazione di un Diploma Europeo per iniziativa
dell’Università di Nizza e con la partecipazione di partner spagnoli, greci
e italiani. Il testo della relazione, prima di essere presentato, era stato
discusso all’interno del gruppo di lavoro e, dunque, mi ero avvalso dei
preziosi consigli dei colleghi. Ringrazio anche, per gli utili suggerimenti,
Cristina Fortini. La versione originale dell’intervento è stata pubblicata
in Etnoantropologia n. 6-7: 1998: 137-154; e come “El efecto marco.
Las mediaciones del patrimonio y la competencia antropologica”, in
Encarnacion Aguilar Criado (Coordinacion), Patrimonio Etnologico.
Nuevas perspectivas de estudio, Istituto Andaluz del Patrimonio Historico, Granada, Editorial Comares, 1999: 212-227.
79
Non sono pochi i meriti della Commissione ministeriale Franceschini
(di cui faceva parte, come antropologo, Tullio Tentori). Nella Relazione
conclusiva (1966) si valorizzava la componente immateriale della cultura, e si riconosceva per la prima volta la specificità del patrimonio
demologico, considerato un bene culturale definibile come “un insieme
di documenti materiali e immateriali che si riferiscono alla storia della
cultura popolare italiana” (Lattanzi 1990). Si vedano anche: Bravo
1979; Bravo-Tucci 2006.
192
tiva istituisce il regime di tutela per “tutti quei beni aventi riferimento alla storia della civiltà”. Ne elenca alcune precise
tipologie (beni archeologici, storici, artistici, ambientali...), ma
non ne intende in tal modo esaurire l’elenco poiché vi include, con la seguente definizione ben più onnicomprensiva:
“ogni altro bene che costituisca testimonianza materiale
avente valore di civiltà”.
Che cosa si debba intendere per “civiltà”, non è affatto precisato. Può essere sinonimo di Civilizzazione o di cultura in
senso antropologico e quindi consentire riferimenti esclusivi
ai grandi vettori dell’evoluzione culturale oppure alle storie
particolari di comunità locali. Altrettanto ambiguo è il riferimento alla notifica del bene, che può essere intesa come assoluta, vincolante, oppure relativa e, dunque, negoziabile; e
ancora: come una mera certificazione o un’effettiva costituzione del bene. Questioni di non poco conto che vengono ad
incidere in modo rilevante sul patrimonio, sulle scelte relative
a cosa e come mettere in valore. Di fatto, la legge di tutela ha
reso e rende possibile tre differenti interpretazioni intorno alle
quali si trovano in disaccordo gli operatori a vari livelli interessati al settore. Ne tenterò una sintesi.
A. Visione metastorica ed elitaria. Questa prima interpretazione tende – di fatto e in modo egemone, specialmente nei
media – a ridurre i beni culturali soprattutto alle tipologie di
opere d’arte classica e dei monumenti storici e archeologici:
singolari, rare eccellenze dell’ingegno umano che, per originalità, pregio, autenticità storica e artistica, si impongono
palesando il loro valore universale, la loro mostrata capacità
di trascendere la storia (appunto, testimonianze di Civiltà con
la “C” maiuscola). Il valore sarebbe intrinseco a queste opere,
alla loro qualità: esisterebbe come dato, indipendentemente
e in modo preesistente rispetto a qualsivoglia valutazione. La
prova del tempo, l’aver mantenuto immutati i valori di eccellenza nonostante il passaggio di epoche e culture, sarebbe la
manifestazione dell’esistenza di un valore in sé, di una qualità
universale intrinseca alla res.
All’interno di questa interpretazione elitaria e idealistica, che
tende ad oscurare il patrimonio demo-etnologico (a meno di
non reinserirlo, per via romantica, in sovrapposizione alle
tracce ‘significative’ della storia della Nazione), è facile che si
193
riproducano ben noti luoghi comuni etnocentrici: “in Italia, vi
sarebbe il 50% del patrimonio culturale mondiale e in Toscana il 50% di quello italiano”80.
B. Visione disciplinare. La seconda interpretazione, rilevabile
specialmente nelle Sovrintendenze e nelle Università, prescinde
sia da una concezione olistica, sia da una elitaria e mette in
primo piano il ruolo della competenza tecnica. I beni vengono
rilevati, distinti e riferiti a tipologie specifiche (archeologici, storici, artistici, ambientali, archivistici, librari, demo-etno-antropologici…). Si sottolinea che “la qualità storica o artistica del
bene culturale non è immanente alla cosa”. Sono gli esperti
disciplinari che, con la loro valutazione, con la loro discrezionalità tecnica, trasformano un oggetto in un’opera d’arte; definiscono uno strumento, magari ancora in uso, in una testimonianza storica; sottraggono un oggetto al “flusso della vita”
per farne un documento (Cirese 1977, Solinas 1989).
In questo caso, il valore non è considerato intrinseco al bene,
ma è ad esso attribuito dall’autorità amministrativa sulla base
di una expertise scientifica. Come a dire che il Bene culturale
viene costituito in virtù di un’assoluta discrezionalità tecnica.
La prospettiva privilegiata non è unitaria, ma frammentata in
tanti singoli saperi autoreferenziali (archeologia, storia
80
L’esito di questa prospettiva finisce per essere l’oblio, proprio in
Toscana, della storia del Novecento e, comunque, di epoche considerate meno illustri del Medio Evo o del Rinascimento. Pietro Clemente
ha messo in evidenza questa dinamica, con particolare riferimento
alla mezzadria: “perché questo territorio non ha immaginazione di
un passato prossimo e di una tradizione socioculturale così forte, così
caratterizzante, così marcante?” (1997: 149). “L’effetto che scaturisce
dalla Guida Touring Club Italiano è quello di un territorio battuto al
millimetro per ciò che riguarda piccole pievi cadenti, resti etruschi, arte
sacra, opere architettoniche ecc. che interessano forse un visitatore che
provenga da un altro mondo (l’aristocrazia inglese o i marziani) e che
poco o niente ha da dire sulla vita, sulle tradizioni e sulla cultura dei
‘nativi’ che lo abitano. Che cosa ha di più una bifora rispetto alla storia
di una famiglia contadina? Adesso potrei sembrare un po’ patetico ma,
d’altro canto, la bifora resta lì mentre la memoria di queste storie si sta
perdendo e sono storie di grande ricchezza, che andrebbero ricordate
poiché […] sono la chiave della comprensione di questo mondo e di
questo tempo” (Clemente 1997: 150).
194
dell’arte, paletnologia, antropologia) che operano valutazioni
iusta propria principia.
È evidente che il problema della discrezionalità tecnica non è
di poco conto, poiché la notifica deve precisare il “rilevante
interesse” o la “particolare importanza” senza tenere conto
dei possibili molteplici interessi in gioco e della variabile storica che mette particolarmente a rischio di arbitrarietà questo
giudizio: “fissare in una norma il criterio valutativo, dando
cioè al bello, al raro, al valore, ecc. un preciso contenuto, significherebbe cristallizzare per sempre un sentimento del
bello, del raro e del valore diffuso in quel momento storico,
certamente destinato a mutarsi, non solo per ragioni ideologiche, ma anche per l’evolversi continuo degli studi” (Cavallo
1987: 14).
Insieme all’impossibilità di fissare criteri definitivi delle valutazioni tecniche, però, vi è anche la necessità di prendere in
considerazione interessi diversi, di natura sociale, che possono contribuire alla definizione del bene: “nel procedimento
il giudizio valutativo è ritenuto espressione di un’assoluta discrezionalità tecnica dell’amministrazione, la quale è legittimata a non considerare, quindi a ignorare, l’esistenza di qualsivoglia altro interesse, pubblico o privato che sia […]. Notificando sempre, con l’intento di proteggere tutto (e qui riemerge la concezione del bene culturale come insostituibile
testimonianza), ad esempio nel settore dell’arte contemporanea, ‘si vogliono bloccare migliaia di opere d’arte e in pratica
non se ne controlla e non se ne difende nessuna’ (Bay E.,
Corriere della Sera, 12 agosto 1987). L’esigenza di contemperare la cura dell’interesse pubblico culturale e gli altri interessi
pubblici e privati […] [potrebbe portare] a suggerire alla
stessa amministrazione la sofferta decisione di consentire la
distruzione del bene a fronte della necessità dell’indifferibile
costruzione di una grande opera pubblica” (Cavallo 1987:
15).
Con questa asserzione dell’impossibilità di sopprimere la
dimensione sociale particolare e con l’emergere scompaginante dell’arte contemporanea (le cui opere sono necessariamente prodotti controversi che non attendono la prova
del tempo per entrare come beni nei nostri musei), di fatto
si fa strada una terza interpretazione ancor più aperta e storicistica.
195
C. Ermeneutica storica e culturale. Si tratta di un’interpretazione che parte dal presupposto che si possano interrogare
i beni, nel tentativo di conoscerli e valorizzarli, solo sulla
base di concetti e linguaggi offerti come potenzialità da un
orizzonte culturale storico e limitato, quale è quello di cui è
partecipe lo stesso studioso. La sua scienza dai rigorosi strumenti è pur sempre interna al mondo che vuole conoscere.
Questa prospettiva consente di comprendere e rivalutare in
positivo ciò che avviene nelle realtà locali quando, di fatto,
molteplici interessi di natura diversa convergono o entrano
in conflitto nel costruire un patrimonio. È un’interpretazione
che comunque la legislazione rende pensabile: sia attraverso
una possibile equiparazione del concetto di Civiltà, di Patrimonio culturale a quello antropologico di cultura, sia considerando importanti e tutelabili anche beni di ‘interesse locale’. Dal punto di vista di Pietro Clemente, significative
sono le innovazioni che si configurano: “anche per le riflessioni italiane interdisciplinari sui ‘beni culturali’ la nozione di
‘patrimonio culturale’ sembra essere la più interessante e
innovativa (Perego 1987). Essa consente sia degli ampliamenti tematici (ed es. al paesaggio, all’archeologia industriale, ecc.) che di tipologie documentarie (ad es. i supporti
magnetici audiovisivi), e perfino a fenomeni e risorse viventi
e non facilmente traducibili in documenti (il senso dell’identità, lo stile espressivo di un gruppo o sottogruppo). Inoltre
toglie centralità alla implicazione più corrente di ‘bene’ culturale, e cioè che si tratti di oggetti cui attribuire un ‘valore’
(e sul piano del valore è il mercato non l’interesse collettivo
che detta legge). Il concetto di ‘patrimonio’ introduce
un’idea di totalità che, come è stato notato, lo avvicina alla
nozione cruciale antropologica di ‘cultura’. Molti esperti
non antropologi, usano questo concetto perché lo sentono
investito del senso che una società o una nazione dà al suo
presente e al suo passato (Perego 1987). In questo caso il
limite consapevole della totalità è proprio la coscienza storica dei valori ‘patrimoniali’, giacché il ‘patrimonio’ viene riconosciuto da una cultura in un certo tempo come espressione della sua ‘coscienza’ attuale. La nozione si carica anche dunque di problematicità storica, riferibile alla riflessione ‘ermeneutica’” (Clemente 1993: 15-16).
Così reso concepibile, il patrimonio culturale individua “una
196
costruzione sociale” (Prats 1993: 9; Iniesta 1994), nel senso
che si riconosce come la selezione che porta a definire i patrimoni si fondi su criteri storici e convenzioni locali dove entrano intenzionalità e pratiche non solo di ordine scientifico,
artistico, ma anche politico, economico (Desvallées 1995;
Prats 1997).
Se ne deduce che la pretesa di un valore universale o imperituro da attribuire ai beni culturali, all’interno di questa terza
prospettiva, viene definitivamente dismessa. E il crollo di questo dispositivo idealizzante rischia di mettere in crisi lo stesso
processo di valorizzazione e chiama in causa la competenza
antropologica. Due ne sono i principali indizi.
a) In primo luogo, gli studiosi vanno aprendo un versante riflessivo sul loro stesso operato patrimoniale, rimettono in
discussione saperi e pratiche conoscitive in quanto ‘fatti’
culturali ‘locali’. Essi si interrogano sulle fonti della propria
autorità, sulle convenzioni storiografiche ed estetiche: su
come producono artigianalmente, da storici, archeologi,
antropologi, critici d’arte, i patrimoni.
Del resto, se una società, attraverso l’autorità di particolari
esperti disciplinari, rende opera d’arte o documento un oggetto (Duclos 1992), attribuendo ad esso un’eccellenza che ne
comporta la conservazione e la valorizzazione, questo processo
gli antropologi dovrebbero conoscerlo bene. È denominato
“sacralizzazione” e “produce ambiti di autoreferenzialità sottratti alla problematizzazione” (Remotti 1990: 156); settori nei
quali primeggia il ricorso scontato al codice simbolico (per cui
di scienza parlano gli scienziati e di estetica parlano solo i critici
d’arte, ma non viceversa). L’antropologia simbolica che non ha
avuto riguardi nel riscrivere delicate storie altrui e dare un’immagine inedita e spesso demistificante delle espressioni culturali degli altri, lo deve fare anche per le nostre.
b) In secondo luogo, la concezione del patrimonio come “costruzione sociale” viene incontro e interpreta significativi
cambiamenti intercorsi nel Novecento (il postmoderno con
la crescente insofferenza per le metanarrazioni; l’instabilità
dei sistemi di significato...), ma ne favorisce e legittima altri, altrettanto problematici.
197
In particolare, amplia a dismisura l’ambito patrimoniale, anche mettendo in valore settori precedentemente trascurati
da una visione essenzialista, romantica, oggettualista. Ma
soprattutto apre in modo radicale alla contemporaneità, diffondendo l’idea che non solo i beni demo-etnologici, ma
anche quelli ambientali, paesaggistici, storici e archeologici
sono riconoscibili in quanto beni da patrimonializzare, poiché oggetto di pratiche identitarie (scientifiche, ideologiche,
economiche, politiche, turistiche, ecc.). Come dire che questa concezione implicitamente consente di ridefinire come
‘etnologico’ l’intero patrimonio culturale di una società e,
comunque, promuove come strategico, se non egemone,
l’approccio antropologico: una sensibilità ermeneutica specificatamente volta a rilevare e conoscere quelle pratiche
identitarie attraverso le quali i membri di un gruppo (scienziati compresi) propongono un’autoimmagine, selezionano
nella coscienza storica segmenti e temi, operano un’interpretazione del passato e della loro esperienza attuale marcando con appositi segnali, che gli antropologi hanno imparato a rilevare, i luoghi e i motivi della continuità e della
specifica appartenenza.
Un segnale della possibile omologazione dell’intero patrimonio culturale a quello etnologico è fornito dal suo crescere in
rilevanza sociale di pari passo con il farsi più problematico del
consenso sul suo uso legittimo ed esclusivo, sulla modalità
corretta di interpretarlo. Di questo fenomeno ne abbiamo
una diretta evidenza, appunto, nel moltiplicarsi dei processi di
patrimonializzazione, oggi cresciuti in legittimità sulle ceneri
di saperi esclusivisti e di politiche indiscusse.
Il riconoscere, come propone la terza concezione, che il patrimonio è un’area di intensi traffici, animata dai vecchi e nuovi
avventurieri, surriscaldata da conflitti su ciò che va rappresentato e su come farne un uso pertinente, solleva il problema
– oggi di non facile soluzione – di come ci si possa orientare
con saggezza, ma senza alcuna pretesa fondazionista, tra
questi traffici: come darsi degli strumenti di navigazione
adatti al postmoderno, ricercare nuovi criteri di giudizio, una
ripensata competenza antropologica che possa discernere tra
le mediazioni.
198
Il patrimonio come modo
di produzione contemporaneo
Buone indicazioni per slargare l’orizzonte problematico assumendo inedite chiavi interpretative ci provengono da Barbara
Kirshenblatt-Gimblett, una folklorista statunitense, docente
di perfomance studies (ad averli, in Italia!). In Destination Culture (1998), asserisce che i musei sono impegnati a competere o a fare gioco di squadra con il turismo nella produzione
di patrimoni. Debbono continuamente negoziare il loro servizio e la loro identità specifica, per altro compromessa dal ricomporsi della separazione prodottasi nell’Ottocento tra formazione e divertimento. La Kirshenblatt-Gimblett si sofferma
soprattutto sulla necessità dei musei di mettere da parte la
centralità di collezioni ed oggetti (debole da sempre, per la
verità, negli Stati Uniti) e di seguire la sirena del turismo; di
ridefinirsi come attrazioni turistiche (con i seguenti gradienti:
esperienza, immediatezza, avventura) per sostenere gli alti
costi di gestione. Al turismo, i musei servono per trasformare
i luoghi in “destinazioni” e il mondo in un museo di se stesso,
giocando sull’effetto di vero che proprio la presenza di esposizioni (pensate a quelle etnografiche) rende per complemento credibile ed efficace. Il museo imita il turismo simulando esperienze di viaggio ed entrambi convergono nel
produrre patrimoni ovunque e comunque. La tesi della Kirshenblatt è che il patrimonio sia un prodotto culturale tutto
contemporaneo, non una rappresentazione del passato. Richiede una valorizzazione e messa in scena, in esposizione o
in una performance “dell’obsoleto, dell’erroneo, del non più
conveniente, del morto e defunto” (Kirshenblatt-Gimblett
1998: 150). Turismo e musei sono implicati in questo nuovo
modo di produzione culturale che, alla ricerca di differenze in
termini di vocazioni locali, offre una seconda vita ad economie ormai bollite, a luoghi abbandonati, a modi di vita in via
di scomparsa. Sebbene ironica, la Kirshenblatt non sembra
protestare nei confronti del pervasivo riciclaggio patrimoniale;
avverte riflessivamente che questa industria culturale occulta,
con artifici dei più diversi, ciò che mostra, tende a far scomparire la mediazione del presente nella rappresentazione del
passato (si ricordi qui la polemica di Cirese – 1977 – nei confronti dei musei open air).
199
C’è da domandarsi se a riguardo del patrimonio possa essere
utile la vecchia categoria maussiana dei “fatti sociali totali”,
fenomeni in grado di mettere in “moto la totalità della società e delle sue istituzioni”, configurandosi e funzionando
come “sistemi sociali completi”, ovvero come luoghi di incontro, non solo di varia umanità, ma anche di dimensioni eterogenee, quali possono essere l’arte e la scienza, la morale,
l’educazione e la politica, “capaci di convocare intorno a nuclei di ritualità una globalità di aspetti del sociale e di istanze
culturali” (cfr. Feixa 1993). Nell’idea di Mauss, vi era un senso
di compattezza rituale e tenuta delle rappresentazioni collettive, di consenso culturale che non credo si possa facilmente
trovare oggi. Certo, si tratta di fenomeni che sembrano in
grado di caratterizzare in modo assai forte le forme culturali
nella contemporaneità, tanto che si parla di sportivizzazione
della cultura (Bausinger 2006), di caduta di confini e adozione
di costumi ed ethos sportivi nella vita sociale. In autori diversi,
sembra anche palesarsi una patrimonializzazione della cultura: esito fatale dell’industria turistica (lo mostra Kirshenblatt, ma in Francia ne hanno scritto in molti) ma anche delle
rivendicazioni identitarie. Intendo dire che la ‘cultura’ che
vieppiù ci troviamo a trattare noi antropologi quando si innesca la domanda di antropologia è già la cultura intesa come
patrimonio, quale ibrido temporale, nostalgia del presente,
più o meno ingegnosa arma di attacco o nicchia di resistenza.
Se torniamo alla torsione che Appadurai ha fatto fare al concetto di cultura, da sostantivo ad aggettivo, si troverà che il
suo esito viene a rendere omologabili il concetto di cultura e
quello di patrimonio: “propongo di considerare culturali”,
scrive Appadurai, “solo quelle differenze che esprimono oppure formano la base per la mobilitazione di identità di
gruppo” (2001: 29). Purché non si considerino sia identità
che mobilitazione in modo restrittivo, ovvero improntato al
contrattualismo economico, mi sembra che questa affermazione di Appadurai sia un’ottima definizione di patrimonio
improntata all’ermeneutica culturale, ovvero alla consapevolezza che ogni prelievo del passato trova radici e motivazioni
nell’orizzonte del presente. Il concetto di patrimonio, del resto, fa bene a quello di cultura, poiché nel settore della mediazione del patrimonio vi è crescente consapevolezza che, ad
esempio, gli oggetti etnografici sono oggetti dell’etnografia
200
– come ci ricorda Kirshenblatt –, ovvero il prodotto di prospettive e saperi disciplinari non certo neutrali e innocenti rispetto alla scena culturale e politica più ampia. Ovvero, per
dirla con Herzfeld: “We too are in the picture” (1999: 12),
noi antropologi siamo coinvolti e, quando svolgiamo – come
nel mio caso – il lavoro di antropologi museali, avvertiamo
ancor di più il senso di responsabilità e vulnerabilità.
Antropologia riflessiva del patrimonio.
Risonanze in AM
Le prime due tesi esposte nell’introduzione a questa terza
parte e volte a valorizzare e a non rimuovere dai patrimoni
l’eterogeneità culturale e dai musei l’etnografia, hanno rappresentato le punte di diamante di un’opera di reinscrizione
dei musei e dei patrimoni all’interno dell’antropologia contemporanea, delle sue tendenze interpretative e dei suoi dibattiti critici. Queste direttrici, rigeneratesi alla luce del confronto con la comunità degli antropologi e dei museali,
hanno trovato proposte, esemplificazioni, approfondimenti e
discussioni in articoli pubblicati dalla rivista Antropologia Museale. Chiaramente, mi limiterò a segnalare solo alcuni contributi.
Il tema che sin dall’inizio si è imposto come polo di attrazione
di ricerche e campo problematico privilegiato è costituito proprio dalla patrimonializzazione, ovvero da quei processi che
vedono gli antropologi spesso coinvolti nel duplice e ambiguo
ruolo di analisti e operatori. Noi redattori di AM abbiamo voluto subito prendere il toro per le corna, pubblicando nel
primo numero un articolo di Palumbo (2002) che è una vera
e propria frustata nei confronti degli addetti ai lavori, ovvero
nei confronti di noi stessi che ci eravamo avventurati sul terreno dell’antropologia dei patrimoni riflessiva. Palumbo ci richiamava al nostro impegno e posizionamento etnografico,
sottolineando con vigore e rigore la necessità di un’antropologia critica che sveli i molti traffici simbolici e che riscatti il
nostro sapere dal rischio di collusione con il potere. Come
etnografi abbiamo il dovere di osservare e analizzare le logiche e le pratiche locali del discorso patrimoniale alla luce delle
strategie politiche che vi si attuano, coglierne la rappresenta-
201
zione istituzionale, la connotazione tecnica offerta degli addetti ai lavori, ma anche le minute espressioni incorporate
nell’organizzazione di feste come nei modi di fare quotidiani
della gente. Come dire, proprio noi antropologi non possiamo ingenuamente finire per avvalorare estetiche egemoni
e gerarchie di valore e, soprattutto, non possiamo esimerci
dal segnalare le legittimazioni che, attraverso la patrimonializzazione, ricevono fenomeni dai fondamenti culturali erronei
(es. l’abuso della nozione di identità e di origine) e dalle potenziali conseguenze sociali inique (come l’equiparazione tra
appartenenza e identità e i tanti reverberi sui sistemi di inclusione ed esclusione).
In parziale dissenso verso Palumbo, è apparso un intervento
sul n. 2 di AM. Lo ha firmato Fabio Dei (2002b), preoccupato
che l’allarme e l’invito alla vigilanza critica possano divenire
una scusa per ereggere il sapere cosiddetto critico a mondo
autoreferenziale indebolendo altre autorità, cancellando ancora una volta patrimoni culturali minori che si sono edificati
nella differenza-resistenza rispetto all’accademia e ai contesti
egemoni nazionali.
Sulla scia del dibattito aperto, membri della redazione di AM
sono intervenuti (Clemente 2002-2003; Lattanzi 2002-2003;
Padiglione 2002-2003; e Palumbo (2002-2003) ha replicato.
Le posizioni contrastanti si sono in parte chiarite e in parte
smussate e non può essere questa la sede per poterle ridefinire. Mi preme solo di segnalare quelle che mi sembra restino
le differenze tra i due interlocutori, relative ai contesti teorici
convocati attraverso gli stili di scrittura messi in scena (in Palumbo, una strategia più sociologica alla Bourdieu; in Dei, una
più culturalista alla Marcus. Forse, restano anche divergenze
di fondo su quale sia il senso da attribuire a nozioni quali
identità e patrimonio: per l’uno, si tratta fondamentalmente
di parole rischiose, da evitare, da cogliere nel punto di vista
dei nativi, da contestualizzare, documentandone gli usi all’interno delle arene politiche locali e nazionali; per gli altri, di
parole complesse che non esauriscono la loro connotazione
all’interno dell’agone politico, in quanto capaci anche di parlarci di relazioni ed affetti verso persone, luoghi e cose, della
difficile costruzione del senso di appartenenza; parole, inoltre, che gli antropologi usano anche da nativi, evocando la
vulnerabilità, la limitatezza e l’inquietudine del loro stesso
202
agire conoscitivo: con quella sensibilità ermeneutica il cui presupposto è che si possa interrogare i beni, nel tentativo di
conoscerli e valorizzarli, solo sulla base di un orizzonte culturale storico e limitato, quale è quello presente allo stesso studioso.
Ecco, si può dire – e risulta ben in evidenza nei commenti dei
redattori di AM – che il dibattito inaugurato dal saggio di Palumbo è stato assunto come un atto di fondazione, un evento
simbolo di un ambizioso quanto difficile inizio, forma agonistica di uno stile argomentativo totalmente inedito in Italia e
che ci sarebbe piaciuto imporre come format adatto ai nostri
tempi e alle spinose questioni, per riflettere con passione e
rigore senza presupporre certezze già condivise. Testi e commenti hanno costruito un’occasione preziosa quanto a volte
lacerante per riflettere a tutto campo segnalando caratteri,
debolezze e ambizioni, aspettative e illusione che contraddistinguono le nostre discipline DEA in quel campo dei beni
culturali che, seppure in modo marginale, finalmente ci ha
accordato riconoscimento. È stata un’occasione in cui la
stessa redazione di AM si è presentata articolata in modo per
predisporsi ad una discussione interna, a tempi difficili da affrontare senza slogan né uniformità forzate. Un’occasione
dove, ad esempio, affermare e ad un tempo ripensare nostre
consolidate retoriche – come l’enfasi romantica e l’imprinting
vittimistico e rivendicativo –, o i tic del nostro lessico, tra cui
la mia orgogliosa rivendicazione della lingua biforcuta dell’antropologo museale. Un’occasione per immaginarci etnografi
di noi stessi e delle nostre museografie, stranieri interni ovunque, portatori di un sguardo critico spesso poco in grado di
compenetrarsi in un sapere dignostico operativo e, dunque,
contraltare euforico e idealizzato per lenire autoimmagini immiserite: “A nessuno di noi”, scriveva allora Clemente, “è
dato comprendersi davvero nelle pratiche, questo sogno è
forse la causa dell’accusa di onnipotenza che qualcuno ha
voluto fare a una disciplina così poco potente come la nostra”
(2002-2003: 46).
L’eco di quell’inaugurale momento, anche per la rarità di dibattiti all’interno della nostra comunità scientifica, è rimasto nelle
menti dei redattori di AM. Dobbiamo ringraziare Giovanni
Pizza, Massimiliano Minelli e Gian Luca Grassigli, dell’Università
di Perugia, che ne hanno offerto un originale riverbero (2004)
203
in occasione dell’uscita del libro di Berardino Palumbo L’Unesco e il campanile (2003): un’antropologia del noi che a ragione può essere definita esemplare per il modo in cui intreccia
serie storiche e fonti etnografiche, pedinamento della propria
incisiva presenza nel terreno e dispiegamento di piani locali,
translocali e transnazionali: sempre nell’intento di sorprendere
poetiche e retoriche delle oggettivazioni culturali, di cogliere
rappresentazioni e pratiche sociali di persone e istituzioni
nell’atto di intramarsi in discorsi, di incorporarsi in fazioni religiose, sociali e politiche, di costruire attraverso gli usi del passato senso dell’identità e della località.
I recensori hanno sottolineato i molteplici vantaggi prospettici
che l’opera di Palumbo apre. Di Massimiliano Minelli mi ha
interessato il riferimento all’affordance degli oggetti, alla loro
silenziosa presenza di nostre guide e tutori, come anche l’articolazione della nozione di iperluogo in rapporto a quella
foucaultiana di eterotopia, laddove il primo, nell’accezione di
Palumbo, è proteso a moltiplicare immagini e discorsi sfuggendo così il rischio di essenzialismo connesso all’idea di
luogo e mettendo in evidenza percezioni variabili e sconfinamenti tattici e strategici di campi e contesti. Viene da segnalare che in un articolo su AM di qualche numero prima il
collega tedesco Gottfried Korff (2003) aveva rivendicato al
museo un posto di riguardo nella modernità riflessiva proprio
in quanto spazio dell’eterotopia, dove il lontano viene reso
vicino e il familiare si fa straniero.
Già dalle titolazioni dei paragrafi si percepisce l’enfasi in
chiave marxista che Gianni Pizza (2004) propone del testo di
Palumbo. Il riferimento all’antropologia degli intellettuali
come linea gramsciana mi è apparso prezioso, più complesso nell’attuale situazione globalizzata l’impiego della
categoria di egemonia in rapporto alla funzione dello Stato
(come pure la sua estensione nella nozione di incorporazione). Ancor più traballante è il presumere di svelare le reali
motivazioni di un pensatore identificando il suo posizionamento con quelle che un tempo si chiamavano le sue “condizioni materiali di esistenza” (vedi l’accusa di rimozione che
colpirebbe Dei, reo di non aver scritto, nel dibattito con Palumbo, di essere stato Assessore alle politiche culturali di
Poggibonsi - SI). Trovo in questa posizione (che ricorda un
testo di Gunnar Myrdal del 1973) un rischio di semplifica-
204
zione che mi porta a dubitare sulla stessa applicabilità della
pur ragionevole e necessaria tesi di Palumbo richiamata da
Pizza: “ogni ricerca etnografica, oggi non può non essere
anche un’antropologia politica della produzione culturale”
(Palumbo 2003: 120).
In questo ritorno di fiamma del dibattito, si è percepita in
modo ancor più palese l’efficacia riflessiva che una prospettiva di antropologia dei patrimoni apporta non solo agli antropologi ma anche agli archeologi.
È evidente che tutto il processo di patrimonializzazione merita
di essere conosciuto in dettaglio e nelle diverse storie e pratiche che lo compongono nel panorama italiano. Quel nesso
forte tra patrimonio e identità nazionale, dato per certo da
Settis (2002), va meglio accertato e articolato per regioni,
province e paesi. E fa bene l’archeologo Grassigli (2004) a
sottolineare come la contesa, la polemica, lo scontro interno
non siano un di più ma forse parte integrante del sentire il
patrimonio come fulcro dell’identità locale. Se questa regola
vale per Catalfaro, come ci ha mostrato Palumbo, forse vale
anche per Arce. Qui, alcuni ragazzi hanno di recente compiuto atti di vandalismo nei confronti dell’istituendo museo
della Gente di Ciociaria: Qui ci siamo solo noi. Nostro è il
luogo, hanno affermato, con gesti che hanno compromesso
la nascita del museo (Iannazzi 2004). Gesti tutt’altro che infrequenti, se è vero che ormai direttive di vario genere, provenienti spesso dagli stessi direttori dei musei suggeriscono di
evitare tabelle di percorsi esterni proprio per limitare il loro
frequente danneggiamento.
Certo, quando Rosati nello stesso numero di AM (2004)
spinge noi antropologi ad occuparci della valorizzazione per
meglio curare i rapporti tra patrimonio e comunità locali,
nell’idea di fare del bene culturale un elemento cardine della
“cittadinanza attiva”, ci indica un compito che le pagine della
rivista lasciano presupporre assai delicato e complesso. Un
terreno di ricerca e di intervento assai fertile e riflessivo, dove
entrano in conflitto posizionamenti, competenze, matrici diverse dell’antropologia museale (come quelle aperte dal dibattito Palumbo-Dei) e dove è legittimo aspettarsi una crescita della domanda futura.
Sulle pagine di AM, in alcuni interventi, il discorso sul patrimonio guadagna una visione di diverso respiro, recuperando quei
205
fondamentali del pensiero etno-antropologico tra i quali mi
sembra rifaccia una timida comparsa sia una riedizione debole
dell’olismo – in quanto enfasi sulle connessioni tra natura, cultura e storia, sul ridimensionamento dell’autoreferenzialità
umana e sul riconoscimento dell’imprevedibilità delle dinamiche future –, sia una visione comparativa a livello interculturale
della memoria sociale, delle culture del ricordo: usi che le diverse società fanno del passato, operando selezioni, preferenze
e occultamenti, regolando – come ci ricorda Remotti in un editoriale ospite dedicato al bananeto/cimitero tra i BaNande – il
“gioco complesso delle categorie del ‘ciò che scompare’ e del
‘ciò che rimane’, [la] dialettica sottile tra la memoria e l’oblio”
(2003). Che la tomba di un antenato illustre possa essere affidata alle vicissitudini di un albero, collocata nel mezzo di una
natura effervescente che fatalmente la trasforma in altro è
un’idea buona per noi da pensare in connessione con il patrimonio, poiché inscrive flusso, vita, storia in monumenti da noi
immaginati e realizzati per sfidare il futuro.
Clemente, a tal riguardo, ha scritto uno dei primi gustosi sparatrap (2002) – rubrica che cura stabilmente in AM –, tessendo l’elogio delle memorie a tempo, inscritte in oggetti e
istituzioni culturali che si danno scadenze, limiti di uso e che
dunque appaiono come un antidoto alla saturazione culturale
del futuro, all’occupazione patrimoniale che sottrae spazi di
crescita e creatività alle prossime generazioni. Memorie a
tempo, dunque, come alternativa processuale alla “sindrome
archeologica o storico artistica o legata all’estetica idealista
dell’universalità-eternità-assolutezza dell’arte che fa pensare
che musei e patrimoni sono ‘per sempre’ come i diamanti”
(2002: 68). Complice la zuppa di pesce preparata prima di
morire da Alex Ginsberg – da lui mangiata in parte e quindi
riposta nel freezer e dai suoi eredi in seguito affidata al bizzarro Museum of Jurassic Technology di Los Angeles, che l’ha
esposta però solo sino alla naturale scadenza, nel 2003 –,
Clemente viene a comporre un apologo sul desiderio di eternizzare, di sopravvivere comunque con tenacia e sulla necessità di riconoscere fragilità e condizione effimera in noi, nelle
nostre cose, nei ricordi e patrimoni81. Viene da rinforzare que81
Viene da richiamare, a mo’ di esempio di questo ambivalente sentire,
il recente operato di un famoso collezionista romano (Domenico Ago-
206
sta riflessione di Clemente sul nostro ethos contraddittorio e
dolente ricordando il Marvin Harris di America Now (1983), il
quale lamentava come ormai gli oggetti non fossero più fatti
per durare e che la nostra vita e i nostri pensieri vi si andassero adeguando. Oppure, segnalando come i supporti della
scrittura abbiano subito un crescendo vorticoso di deperibilità
che ormai sta allarmando gli archivisti. La carta moderna –
quella che usiamo per scrivere – dato l’elevato tasso di acidità,
tende a polverizzarsi dopo massimo cinquanta anni. Per la
memoria digitale, il futuro è ancora più incerto: le trasformazioni degli strumenti tecnologici ci impongono continui riversamenti. Si pone inoltre il problema se non sia illusorio trasporre in digitale le principali biblioteche nazionali, se non sia
impossibile conservare la traccia di tutti i siti web e dei nostri
passaggi su internet, quando è ancora piuttosto difficile spostare su memorie esterne i nostri carteggi di posta elettronica.
Certo, le ipotesi che si fanno segnalano ad un tempo l’impossibilità di una memoria totale e gli alti rischi di una conservazione selettiva che escluderebbe, guarda caso, il patrimonio
di culture non egemoniche. Non ci resta dunque che vigilare
sulle scelte che si fanno, accettando però la fatalità dei limiti
posti alla nostra voracità di tutto conservare ed eternizzare.
Una visione processuale del patrimonio permea di sé tutti i
numeri di AM: si anima, ad esempio, nella testimonianza rilasciata da Bausinger (2003). Forte è il suo appello a non imbalsamare la cultura popolare nel cliché della tradizione, a non
identificare il suo studio in relitti e sopravvivenze, censurando
nessi e dinamiche con il mondo della tecnica, della modernizzazione, dell’immigrazione, privando di enfasi conoscitiva la
dimensione quotidiana nelle sue realtà attuali, ritorna nell’intervista all’etnomusicologo Steven Feld (Feld - Ricci 2004) e
nella richiesta di inserire organicamente nel patrimonio la
contemporaneità espressa da popoli indigeni di varie parti del
mondo (in AM, australiani e nordamericani), soprattutto attraverso gli artisti che reclamano attenzione per la produzione
stinelli) che aveva deciso di murare dentro una stanza per almeno un
secolo gli oggetti degli anni Cinquanta. Gli stanno facendo cambiare
idea le imperiose richieste della Rai di poterle usare per costruire scenografie.
207
attuale e che minacciano di dislocare le opere al di fuori del
contesto etnografico, a favore dell’ambito artistico.
È proprio nella contemporaneità – che per gli antropologi
resta una temporalità sostanzialmente ibrida, tanto è impastata di permanenze ed effetti di lunga durata – che, a
quanto risulta da molti articoli da noi pubblicati, Arte e Antropologia stanno vivendo una nuova stagione di rapporti. Il
patrimonio configura la terra di nessuno del loro fronteggiarsi. Hanno oggi una comune posta in gioco: tendono a
sovrapporsi e scontrarsi nel tentativo di dare visibilità, rappresentazione, consistenza all’ordine di differenze culturali e alle
loro connessioni possibili. Ciò che per tradizione era compito
degli antropologi – accostare mondi che si descrivono in
modo refrattario, che appaiono incommensurabili –, oggi è
una prospettiva da definire contestualmente ogni volta, in
quanto sempre più di sovente, in tema di alterità culturale,
trasposizioni, traduzioni, ridefinizioni preferiscono definirsi
artistiche e non etnografiche (si veda Macrì 2002).
Che sia cresciuto a dismisura lo spazio del dissenso su cosa si
debba definire cultura, identità, arte e artigianato, rito, festa82, su quali vantaggi artisti indigeni dovrebbero arrecare
alla comunità, su cosa si possa e si debba legittimamente inserire in un museo, su quali voci privilegiare una volta sostituito il discorso impersonale, ecc. non dovrebbe ingenerare
82
Nel numero 9 di AM si trova il saggio di Roberta Tucci, Come salvaguardare il patrimonio immateriale? Il caso della scherma di Torrepaduli (2004-2005). In esso, la collega riporta in dettaglio i motivi di
contrasto che, soprattutto via internet, alcuni nativi del Salento hanno
espresso nei confronti degli invasori che, durante la festa di San Rocco,
accorrerebbero al suono della pizzica, alterando senso e caratteri della
loro festa tradizionale. Il problema è rilevante e riguarda l’opportunità o meno di esercitare una qualche forma di tutela e protezione
nei confronti di una festa folklorica, di considerarla un organismo vivo
da lasciare libero al flusso del suo possibile cambiamento. Evidentemente, la risposta non è semplice: attiene alla proprietà culturale dei
beni immateriali, ai diritti di cittadinanza e di uso, al coinvolgimento di
intellettuali locali, artisti e accademici in un’opera di documentazione
che è anche costruzione di un canone, se non monitoraggio e talora
orientamento. Dibattiti in parte già svolti, forse, qualche decennio fa
(penso a un intervento di Tullio Seppilli sulla rappresentazione di Sega
la Vecchia), che andrebbero ripresi, riletti e aggiornati anche alla luce
dell’ormai esistente antropologia dei patrimoni.
208
senso di impotenza. La risposta che viene dagli articoli di AM
è che la nuova museografia etnografica non teme il dissenso,
bensì vi si alimenta: promuove ricerche che indagano – per
metterli in scena – memorie problematiche, dilemmi etici e
politici, punti di vista tra loro divergenti sui modi di attuare
magari quella stessa museografia collaborativa (si veda la posizione di Ruth Phillips nell’intervista pubblicata su AM 2002-2003) che resta per noi un potente e ideale riferimento.
Ne è un esempio la lucida analisi di Duclos (2002) sui problemi apertisi nella recente fase di collaborazione con gruppi
etnici da parte del museo di Grenoble. Ci sono ancor più
espliciti casi: quelli sardi, segnalati con sensibilità etnografica
negli articoli di Da Re (2002-2003) (che menziona questioni
che si aprono tra antropologo e comunità una volta realizzato
un museo e relative alla scelta di non esporre alcuni oggetti
donati) e di Caoci (2004) (che ricostruisce le interpretazioni in
conflitto del progettista, del direttore, del sindaco, delle tessitrici su cosa dovrebbe accogliere e a chi dovrebbe portare
vantaggio un museo locale); casi che documentano situazioni
problematiche e che, per la ragionevolezza dei punti di vista
contrapposti, forse meriterebbero di essere rappresentati o
almeno evocati all’interno degli stessi spazi espositivi, così che
il visitatore ne colga l’indissolubile legame con gli oggetti in
mostra. Attraverso queste tracce di ricerca inscritte negli allestimenti, l’etnografia avrebbe il merito di rinnovare costantemente una visione processuale del patrimonio e dell’identità
locale e conquisterebbe quella centralità che spesso i nostri
musei le attribuiscono solo nominalmente.
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democratizzazione della cultura ne fanno, a buon diritto, un esempio di
arte pubblica tra i più significativi della scena contemporanea.
In particolare ai “piccoli etnografici musei” è riconosciuta, per origine, una
valenza etico-politica e un impegno non recente e non improvvisato a favore della massima accessibilità. Per statuto, la loro missione è di mettere la
memoria locale di generazioni passate al servizio dello sviluppo sociale e culturale delle generazioni future, trasformando in un kit di sopravvivenza, a
disposizione di tutti, un articolato savoir faire relativo all’agricoltura, alla
pastorizia, all’alimentazione, all’artigianato, al vivere associato: ricette ingegnose di vita, sperimentate a lungo in quel luogo e, di colpo, sopraffatte dalla
modernizzazione.
Lo sguardo del museo etnografico non è soltanto rivolto all’indietro: è anche
impegnato ad operare in avanti, a slargare orizzonti, a forzare incontri culturali defamiliarizzanti, a diffondere – grazie a comparazioni antropologiche
e coinvolgimento di nuovi immigrati – quelle spezie morali, quei frammenti
di esperienza che si possono apprendere da altre culture e che rendono più
riflessiva e meno uniforme la nostra appartenenza locale in un’epoca di flussi
globali.
La contemporaneità sta sollecitando ad un’inedita alleanza il campo delle
scienze demoetnoantropologiche e quello delle arti, torcendo nella direzione
dell’etica civile e pubblica la documentazione e la sperimentazione estetica.
Vincenzo Padiglione è professore alla Sapienza Università di Roma, dove insegna
Antropologia culturale, Antropologia museale, Etnografia della comunicazione, Antropologia del patrimonio. Ha tenuto corsi su antropologia e musei presso università
straniere (Brasile, USA, Spagna e Francia). Ha svolto ricerche nell’area del Mediterraneo su identità locale e patrimonio culturale, amicizia maschile, familismo e
relazione uomo-animale nella caccia e nella pastorizia.
Ha progettato e curato l’allestimento di: EtnoMuseo Monti Lepini (Roccagorga LT); Museo del Brigantaggio (Itri - LT); Ludus - Museo Etnografico del Giocattolo
(Sezze - LT); Museo del Brigantaggio dell’Alto Lazio (Cellere - VT), in coll. con
F. Caruso; Museo delle Terre di Confine (Sonnino - LT), in coll. con V. Lattanzi;
Museo delle Scritture (Bassiano - LT); Museo dell’Infiorata (Genzano - RM). È
membro del direttivo della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (Simbdea) e direttore della rivista quadrimestrale AM - Antropologia
museale. Ha realizzato mostre, video etnografici e pubblicato saggi e libri, tra i quali,
Il cinghiale cacciatore. Antropologia simbolica della caccia in Sardegna (Roma
1989); Interpretazioni e differenze. La pertinenza del contesto (Roma 1997); Ma
chi mai aveva visto niente. Catalogo dell’EtnoMuseo / Monti Lepini (Roma 2002);
in coll. con A. Riccio, Preghiere e grazie. Per una etnografia delle forme di religiosità popolare contemporanea (Roma 2004); Storie contese e ragioni culturali.
Catalogo del Museo del Brigantaggio (Itri 2006); Tra casa e bottega. Passioni
da etnografo (Roma 2007); in coll. con S. Giorgi, Etnografi in famiglia. Relazioni,
luoghi, riflessività (Roma 2009).
-LL
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